Luigi Speranza -- Grice ed Abbagnano: “I don’t give a
hoot what the ditionary says, unless it’s Abbagnano’s!” (Grice) -- filosofia
romana – la scuola di Salerno – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Salerno). Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Salerno, Campania. Grice: “There are TWO Abbagnani: the Paris
Abbagnano, who to be different, dubbed his ‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo
positivo’ (later illuminismo), and MY Abbagnano, the one who explored that
infamous Greek embassy that arrived in Rome in 189 a. u. c., bringing the
sophistries for the fascination of the Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo.
Essential, idealist Italian philosopher, famouos for his “Dizionario di
filosofia,”“which alas, has no entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also
wrote an interesting history of philosophy, and is regarded as an idealist,
alla Oxonian-favoured Croce. Laureatosi in filosofia a Napoli con ALIOTTA (si
veda), insegna al Liceo Umberto I ed all'Istituto Benincasa del capoluogo
campano, per poi trasferirsi a Torino dove è professore di Storia della
filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Condirettore, a fianco di BOBBIO
(si veda), della “Rivista di filosofia.” Ispiratore del gruppo di filosofi,
comprendente, tra gli altri, lo stesso Bobbio e GEYMONAT (si veda), che prende
il nome di neo-illuminismo italiano, organizzando una serie di convegni rivolti
alla costruzione di una filosofia laica, aperta ai principali orientamenti della
filosofia. Collabora con “La Stampa”. Si trasferisce a Milano dove collabora
con “Il giornale” di MONTANELLI (si veda), e dove viene eletto consigliere
comunale nelle liste del partito liberale e assume per I anno la carica di
assessore comunale alla cultura. Divenne socio dell'Accademia delle
scienze di Torino. Uno dei promotori del centro di studi metodologici di
Torino. Come studioso di filosofia, è tra i primi a diffondere in Italia la
conoscenza delle correnti esistenzialistiche, in particolare Heidegger, Jaspers
e Sartre. Nell'opera "Le sorgenti irrazionali del pensiero," A.
esalta l'azione creativa, la volontà e l'esperienza, attribuendo ad esse il
compito di condurre alla verità. Sono elementi
che A. ritrova soprattutto nella filosofia di Gentile. Fondamentale nella
sua filosofia è il saggio "La
struttura dell'esistenza” (Torino), nella quale propone un’alternativa all'esistenzialismo
di Heidegger e Jaspers. A. define la propria visione filosofica come
esistenzialismo positivo. Esso, pur non esplicitamente formulato in veste
sistematica, individua la centralità dell'esistenza come momento
ontologicamente fondativo, considerando la razionalità dell'uomo come lo
strumento principe in grado di garantire a questo fondamento un valore positivo
contro ogni possibile nichilismo. Diversamente rispetto all'impostazione
di Heidegger e Jaspers, A. evidenzia l'importanza della libertà e della
indeterminazione e quindi l'ineluttabilità del loro perseguimento. Oltre a
porre la ragione come unico mezzo per creare un legame tra l'uomo e il mondo
che lo circonda A. insiste molto su un chiarimento dell'orizzonte categoriale
della possibilità, in contrasto con quello della necessità, tipico proprio
dell'idealismo romantico e dell'esistenzialismo, fatto che spiega la sua forte
critica nei confronti queste due scuole filosofiche. Nello saggio
"Possibilità e libertà," A. chiara il senso della sua filosofia, non
incline né alla visione pessimistica dell'uomo imbrigliato e impedito in ogni
suo progetto vitale, ma neppure ottimista al punto da concedere all'essere una
realizzazione certa. Prende vita il movimento filosofico da lui nominato
"neo-illuminismo", nel quale precisa il senso dell'esistenzialismo
positivo in termini di empirismo radicale e di filosofia applicata alla realtà
del mondo sociale. Questo movimento, che ha sin dal principio una
configurazione culturalmente e politicamente molto composita, avrebbe dovuto
favorire l'elaborazione di una visione e di un uso della ragione filosofica
alternativi tanto al marxismo che al cattolicismo. A. Ha del resto ripetutamente criticato
all'idealismo e all’idealismo di GENTILE (si veda) la tendenza a sottostimare
il valore della scienza, da lui invece considerata una disciplina
indispensabile per la ricerca della conoscenza, oltreché per l'utilizzo delle
sue applicazioni. Quindi una disciplina alternativa alla filosofia, ma di pari
valore e ad essa complementare. A. insiste nei suoi saggi sui concetti di
libertà e di ragione; la prima intesa come la possibilità di scegliere, la
seconda come facoltà necessaria per regolare le azioni dell'uomo. Anche il
positivismo è oggetto di critica tramite la contrapposizione con Kant e
Kierkegaard. Nel suo esistenzialismo positivo, A. insiste molto sulla
finitudine dell'uomo e sulla problematicità dell'esistenza, destinata per sua
costituzione a operare nell'orizzonte del possibile. Egli vede kantianamente
nel limite una caratteristica di fondo del nostro esistere e del nostro sapere.
Questo lucido senso del limite e della problematicità esistenziale si è
accompagnato a un lucido senso del mistero ultimo delle cose, inteso come un
aspetto insopprimibile della nostra esperienza del reale. Ed è proprio questo
senso del limite e del mistero, insieme alla rinuncia ad ogni illusoria
infinitizzazione o divinizzazione dell'umano, a fondare secondo A. la
possibilità di un incontro genuino fra credenti e non credenti. E ciò
all'insegna di una umiltà del pensiero che rappresenta la condizione
indispensabile di ogni etica del dialogo e del reciproco rispetto. Oltre che
autore di saggi su singoli filosofi (Aristotele, Ockham, Meyerson, ecc.), A. è
anche l'autore di una celebre Storia della filosofia su cui si sono formate
intere generazioni d’italiani. Egli realizza anche un "Dizionario di
filosofia," considerato tra i migliori. La Storia della filosofia -- sia
nella versione scolastica pubblicata dall'editore Paravia, sia nella versione
universitaria pubblicata dalla Pomba -- è stata aggiornata da FORNERO (si
veda), in collaborazione con ANTISERI e RESTAINO. Fornero, insieme a un'équipe
di noti studiosi, curato anche l'aggiornamento del "Dizionario di
filosofia." Saggi: Le sorgenti irrazionali del pensiero” (Genova, Perrella);
“Il problema dell'arte” (Genovam Perrella); “Il nuovo idealismo, Genova,
Perrella. La filosofia di Meyerson e la logica dell'identità (Napoli, Castello);
Ockham, Gubbio, Oderisi. Ockham, Lanciano; La nozione del tempo secondo
Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova. Fondamenti di una teoria della
scienza, Napoli. Il principio della metafisica, Napoli. La struttura
dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione all'esistenzialismo, Milano,
Bompiani, Storia della filosofia; Filosofia antica; Filosofia patristica; Filosofia
scolastica, Torino, POMBA, Filosofia moderna, Torino, POMBA, Filosofia del
romanticismo; Filosofia contemporanea, Torino, POMBA, Filosofia del
Rinascimento, POMBA, La filosofia contemporanea; Fornero, Lentini, Restaino, Antiseri,
F. Restaino. POMBA, Torino, Filosofia religione scienza, Torino,
L'esistenzialismo positivo, Torino, Possibilità e libertà, Torino, Dizionario
di filosofia, Torino, POMBA, aggiornato da Fornero; Per o contro l'uomo,
Milano, Fra il tutto e il nulla, Milano, con Visalberghi, Linee di storia
della pedagogia, Torino: Paravia, Questa pazza filosofia ovvero l'Io
prigioniero, Milano, La saggezza della vita, Milano, La saggezza della
filosofia. I problemi della nostra vita, Milano, Scritti esistenzialisti,
Maiorca, Torino, Ricordi di un filosofo, Staglieno, Milano, Protagonisti
e testi della filosofia, Milano, L'esercizio della libertà. Scritti scelti,
Maiorca, Boni, Bologna, Esistenza e metafisica, Maiorca, Milella, Lecce,
Scritti neoilluministici, Maiorca, introduzione di Rossi e Viano, POMBA,
Torino. Accademia delle scienze. La frase è tratta da Fornero, Abbagnano tra
limite e mistero, «Avvenire». La prima
edizione della storia della filosofia di Abbagnano, che aveva già pubblicato un Sommario di filosofia
per i licei risale per il manuale scolastico e per il manuale universitario.
Attraverso successive edizioni e aggiornamenti, per opera di Fornero, tale
storia continua a essere la più diffusa nelle scuole d’Italia. Bobbio, Discorso
su A., in: A., Scritti scelti (Taylor, Torino); Bobbio, La filosofia
dell'esistenza in Italia, in "Rivista di Filosofia", Pareyson, Il
pensiero di A. e i suoi sviluppi recenti in Id., Esistenza e persona, Taylor,
Torino, Aliotta, L'esistenzialismo positivo di A., in Id., Critica dell'esistenzialismo,
Perrella, Roma; Giannini, L'esistenzialismo positivo di A., Morcelliana,
Brescia, Chiodi, L'esistenzialismo (Loescher, Torino); Lombardi,
L'esistenzialismo in Italia, in Id., La filosofia italiana, Arethusa, Asti, Santucci,
Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Mulino, Bobbio, Discorso su A.,
in A., Scritti scelti (Crescenzo e Laveglia) (Taylor, Torino); Semerari, L’illuminismo,
in Id., Esperienze, Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana, Atti del Convegno
di Anacaprigiugno, Guida, Napoli, Semerari, Genesi e formazione
dell'esistenzialismo positivo, in Id., Novecento filosofico italiano, Guida,
Napoli. Pasini, Rolando, L’illuminismo italiano. Cronache di filosofia,
Saggiatore, Milano, Langiulli, Possibility, Necessity, and Existence. A. and
His Predecessors, Temple University, Philadelphia. Cacciatore, Cantillo, Una filosofia dell'uomo, Atti del
Convegno in memoria di A. (Salerno), Comune di Salerno; Delpino, Riceputi, L'uomo
e il filosofo, Atti del Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento
di Fornero, Edizioni Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure; Merlo,
Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di
Torino, Pantograf (Cnr), Genova, Maiorca, Seam, Roma, Miglio, A.. Un itinerario
filosofico, Atti del Convegno per A. (Torino,), Mulino, Bologna); Montano, Il
prisma a specchio. Percorsi di filosofia italiana, Soveria Mannelli,
Rubbettino, Maiorca, A.. Esistenza, ricerca, saggezza, Ferv, Roma. Marvulli,
'Tributo ad A.', in abbagnanofilosofo.,. Panelli Marvulli, A. Una vita per la
filosofia, con un saggio di Fornero, POMBA, Torino, Paolini Merlo, A. a Napoli.
Gl’anni della formazione e le radici dell'esistenzialismo positivo, Guida,
Napoli; Viano, Stagioni filosofiche. La filosofia fra Torino e l'Italia,
Mulino, Bologna, Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul
pensiero italiano, Mulino, Bologna, Primerano, La prospettiva pedagogica, Aracne,
Roma, Merlo, L'esistenza come struttura: A. e l'esistenzialismo, Scientifica,
Napoli, Merlo, Mito e ragione mitica. Corollari sull'estetica di A., in Id.,
Estetica esistenziale, Mimesis, Milano, Ferrarotti, Un greco in via Po.
Passeggiate silenziose con A., Edb, Bologna. Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Britannica, A., Sito dedicato, su
abbagnano filosofo. Filosofia Filosofo Storici della filosofia italiani Accademici
italiani Professore Salerno Milano Esistenzialisti Studenti dell'Università
degli Studi di Napoli Federico II Professori dell'Università degli Studi
Benincasa Professori dell'Università degli Studi di Torino Membri dell'Accademia
delle Scienze di Torino. Refs.: Grice,
“Implicature in Philosophical Dictionaries. I don’t give a hoot care what the
dictionary saysAnd that’s where you make your big mistake. DIZIONARIO DI FILOSOFIA Unione Tipografico-Editrice
Torinese corso Raffaello Torino Tipografia Sociale Torinese corso Monte Cucco
Torino Il dizionario contiene numerose voci. aegola fondamentale cui si è
obbedito nella composizione delle voci: quella di individuare le costanti di
significato che possono essere dimostrate o documentate con citazioni testuali
anche in dottrine apparentemente diverse. Ma le costanti di significato possono
essere individuate solo se i significati diversi, compresi sotto uno stesso
termine, sono chiaramente riconosciuti e distinti ; e questa è l'esigenza della
chiarezza, che va ritenuta fondamentale in un’opera come questa; e che è in
realtà condizione essenziale affinchè la filosofia possa esercitare una
qualsiasi funzione di illuminazione e di guida nei confronti degli uomini. In
un periodo in cui i concetti sono spesso confusi e mistificati al punto da
diventare inservibili, l'esigenza di una riistretto di amici: BosBIo, GARIN, C.
A. Viano, Rossi, CHIODI. Altri amici mi hanno aiutato a trovare o confrontare
testi di più difficile accesso : così hanno fatto GrazieLLa VescovinI FEDERICI,
GIorDANO, RurrINO. TavyLor mi ha aiutato validamente nella correzione delle
bozze. A tutte queste persone io rivolgo il mio cordiale ringraziamento. Ma il lavoro
di questo Dizionario non sarebbe stato iniziato nè portato a termine senza
l’aiuto lungimirante della grande e benemerita Casa Editrice che ora lo
pubblica. Ad essa esprimo pertanto la mia gratitudine. . Torino, Il Dizionario
contiene soltanto termini, non nomi propri. Esso contiene bensì voci come
Platonismo, Aristotelismo, Criticismo, Idealismo, ecc. che si riferiscono alla
dottrina di un filosofo o di una scuola o ad aspetti o indirizzi comuni a varie
dottrine; ma tali voci si limitano a esporre i capisaldi delle dottrine o degli
indirizzi in questione, con la massima brevità, dato che le opinioni dei
filosofi cui esse si riferiscono sono ampiamente citate in tutte le voci
principali. Sono stati inclusi articoli
dedicati non solo alle singole discipline filosofiche (Metafisica, Ontologia,
Gnoseologia, Metodologia, Etica, Estetica, ecc.), ma anche a discipline
scientifiche di carattere teoretico o a fondamento teoretico (Matematica,
Geometria, Economia, Fisica, Psicologia, ecc.), nei cui confronti le voin modo
da includere il maggior numero possibile di significati riscontrabili. Il
Dizionario ha pertanto, come ogni altro Dizionario linguistico, una base
essenzialmente storica: esso mostra quali sono stati e sono gli usi di un
termine nella lingua filosofica del mondo Occidentale, anche, all'occorrenza,
in rapporto con l’uso che il termine ha nella lingua comune. Le ambiguità di
significato sono state accuratamente registrate. Dove la cosa poteva esser
fatta senza eccessivo arbitrio, è indicato il modo di evitare tali ambiguità.
Per evitare le incertezze e gli equivoci che potevano nascere dalle citazioni
di passi composti originariamente in lingue diverse, si è provveduto a mettere
al principio di ogni articolo l'indicazione del vocabsources . Analytica
posteriore, ed. Ross, Oxford, Analytica priora, ed. Ross, Oxford, 1949.
Categoriae, ed. Minuo-Paluello, Oxford, 1949. De caelo, Allan, Oxford, De
generatione animalium, ed. Bekker. De partibus animalium, ed. Bekker. De sophisticis
elenchis, ed. Bekker. Ethica Eudemia, ed. Susemihl, 1884. Ethica nicomachea,
ed. Bywather, Oxford, Physicorum libri VIII, ed. Ross, Oxford, Metaphysica, ed. Ross, Oxford, 1924. De
arte poetica, ed. Bywather, Oxford, 1953. Politica, ed. W. L. Newman, Oxford, 1887-1902.
Rethorica, ed. Bekker. Topicorum libri VIII, ed. Bekker. La logique ou l'art de
penser, 1662, in Euvres Philosophiques, 1893. Novum organum, 1620. De augmentis
scientiarum, 1623. Evolution créatrice, Deux sources de la morale et de la
religion, 1932; trad. italiana M. Vinciguerra, Milano, 1947. Boezio Phil. cons.
. Campanella Phil. rat. .... Pass. de l'éme . Princ. phil. Cicerone Acad. . . . Cusano N. De docta ignor. Diels
ABBREVIAZIONI Philosophiae consolationis libri V, 524. Philosophia rationalis, Parigi,
1638. Discours de la méthode, 1637. Méditations touchant la première
philosophie, Passions de l'dme. Principia philosophiae, 1644. Academicorum
reliquiae cum Lucullo, ed. Plasberg, 1923. De Divinatione, ed. Plasberg-Ax,
1965. De finibus bonorum et malorum, ed. Schiche,
1915. De legibus, ed. Mueller, 1897. De natura deorum, ed. Plasberg, 1933. De
officis, ed. Atzert, 1932. De republica, ed. Castiglioni, 1947. Topica, ed. Klotz, 1883. Tusculanae
disputationes, ed. Pohlens, Lipsia, 1918. De docta ignorantia, 1440. Die Fragmente der Vorsokratiker, 5à ed., 1934. La
lettera A si riferisce alle testimonianze, la lettera B ai frammenti; il numero
è sempre quello dato da Diets nel suo ordinamento. x Diogene Laertio (sec. n)
Dioa. L. Vitae et placita philosophorum, ed. Cobet, 1878. Duns Scoto Rep. Par.
Reportata Parisiensia, in Opera, a cura di L. Wadding, vol. XI. Opus Oxoniense,
nelle Opere, a cura di L. Wadding, vol. V-X. Le parti di quest'opera pubblicate
sotto il titolo di Ordinatio nei primi quattro volumi dell'Opera Omnia, edite a
cura della Commissione Vaticana nel 1950, sono state citate nel testo seguito
in quest’ultima edizione. Op. Ox. Fichte J. G. Wissenschaftslehre . . Grundlage
der gesammten Wissenschaftslehre, 1794, in Werke, a cura del figlio I. H.
Fichte, 8 voll., 1845-46. Anche le altre opere di Fichte sono citate (salvo
diverso avviso) da questa edizione o da quella delle Nachgelassene Werke, a
cura dello stesso figlio, 1834-35 (citate nel testo come Werke, IX, X, XI).
Ficino Theol. Plat. .. . Theologia Platonica, in Opera, 1561. In Conv. Plat. de
Am. Comm. In Convivium Platonis de Amore Commentarium, ibidem. Filone All leg... ....
Allegoria Legis, ed. Colson-Whitaker, 1929-62. Gellio Aulo Noct. Att... ...
Noctes Attices, ed. Hertz-Hosius, 1903. Hegel Enci ele Encyklopddie der
philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, 2* ed., ell’Accademia Prussiana. In tal caso, per ciò che riguarda la Critica della
Ragion Pura, si indica con A la 319, con B la 2 edizione. Gesammelte Werke,
trad. ted. a cura di E. Hirsch, 1957 e segg. xI Leibniz Disc. de Mét. Discours de Métaphysique, 1686,
ed. Lestienee, 1929. Monadologie, 1714. Nouveaux essais sur l’entendement
humain, 1703. Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l'homme
et l'origine du mal, 1710. Le
precedenti due opere e molti altri scritti di Leibniz sono citati da Opera
Philosophica, ed. J. E. Erdmann, Berlino, 1740. Sono anche citate le due
raccolte: Mathematische Schriften, ed. C. J. Gerhardt, 7 voll, Berlino,
Philosophische Schriften, ed. C. J. Gerbardt, 7 voll, Berlino, 1875. An Essay Concerning Human
Understanding, 1690, ed. a cura di A. Campbell Fraser, 1894; trad. it.
Pellizzi, Lucrezio (sec. 1 a. C.) De rer. nat. .. .. De rerum natura, ed.
Bailey, 1947. Ockham In Sent. . Quaestiones in IV libros sententiarum, Lugduni,
1495. Origene (sec. n) De
prin. ..... De principiis. In Johann In Johannen. Pascal Pensées . ..... I numeri si riferiscono
all'ordinamento dell’ed. Brunschvicg. P.G.. MicNE, Patrologia Greca, il primo
numero indica il volume. Piibi vien di DI Micne, Patrologia Latina, il primo
numero indica il volume. Peirce Coll.
Pap... ... Collected Papers, voll. I-VI, edited by C. Hartshorne e P. Weiss, Burks,
1958. Pietro Ispano (Papa Giovanni XXI, sec.
x111) Summ. log... .. Summulae logicales, ed. I. M. Bochenski, 1947. Platone
‘Alc:; In ao è 0 CE E IT 000000 S. Th.
Scheler Formalismus .... Sympathie . . ... Alcibiades, I, II. Apologia Socratis. Charmides.
Symposium. Cratylus. Crito. Critias. Definitiones. Epistulae. Euthydemus.
Euthyphro. Phaedo. Philebus. Gorgias. Ion. Parmenides. Politicus. Protagoras. Respublica,
ed. Chambry, 1932. Sophista. Theaethetus. Timaeus. I testi sono citati nell’ed. di Burnet,
Oxford, 1899-1906. Enneades, ed. Bréhier, 1924. De civitate Dei. Confessionum
libri XIII. Summa Theologiae, a cura di P. Caramello, Torino, 1950. Summa
contra Gentiles, Torino, 1938. Quaestiones disputatae de veritate, Torino,
1931. Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, 1913-16. Wesen und
Formen der Sympathie 1923; trad. franc. Lefebvre, 1928. Simmtliche Werke, a
cura del figlio K. F. A. Schelling: I serie (opere edite), 10 voll.; II serie
(opere inedite), 4 voll, 1856 e seguenti. Schopenhauer Die Welt ..... Die Welt als Wille und
Vorstellung, 1819; 23 ed., 1844; trad. it. Savj-Lopez e De Lorenzo, 1914-30. Scoto Eriugena (sec. rx) De divis. nat. De divisione
naturae, nella P. L., 122. Seneca Episodi aes Epistulae morales ad Lucilium,
ed. Beltrami, 1931; trad. it. Boella, 1951. Sesto Empirico Adv. math. Adversus
mathematicos, ed. J. Mau, Lipsia, 1954. Ip. Pim. ..... Pirroneion hypotyposeon
libri tres, ed. Mutschmann, 1912. Spinoza Etc e i Ga Ethica more geometrico
demonstrata, 1677, in Opera a cura di C. Gerhardt, 1923. Stobeo Ecl... Wittgenstein
Tractatus Eclocae physicae et ethicas, ed. Wachsmuth-Hense,. System of Logic
Ratiocinative and Inductivr, 1843. De rerum natura iuxta propria principia,
I-II, 1565; II-IX, 1586; ed. V. Spampanato, 1910-23. Tractatus
logico-philosophicus, 1922. Cosmologia
generalis, 1731. Philosophia rationalis sive logica, 1728. Philosophia prima
sive ontologia, 1729. Altre abbreviazioni non sono sopra registrate o perchè
sono quelle solitamente usate dagli studiosi o perchè di immediato intendimento
come App. per Appendice; Fil. per Filosofia o Phil. per Philosophie o
Philosophy; Intr. per Introduzione o Introduction; Met. per Metafisica o
Métaphysique o Metaphysics o Metaphysik; Op. per Opere; Schol. per scholium;
ecc. Tai A. 1. Per primo Aristotele, in particolare negli Analitici, ha usato
le prime lettere maiuscole dell’alfabeto, A, B, I, per indicare i tre termini
di un sillogismo. Tuttavia, poichè nella sua sintassi il predicato è posto
prima del soggetto (A brapyet té B, «A inerisce [o ‘appartiene ’) a B+) di
solito negli Analitici i soggetti sono B e T. Nella Logica dell’età moderna,
con l’uso di scrivere «A est B», A è diventato normalmente il simbolo del
soggetto. 2. A cominciare dai trattatisti scolastici (pare, dalle
Introductiones di Guglielmo di Shyreswood, sec. xm), la lettera A viene usata
nella Logica formale « aristotelica» come simbolo della proposizione universale
affermativa (v.), secondo i noti versi pervenuti a noi in varie redazioni.
Nelle Summulae di Pietro Ispano (edit. Bochenski, l. 21) essi suonano: A
affirmat, negat E, sed universaliter ambae, I firmat, negat O, sed
particulariter ambae. 3. Nella logica modale tradizionale, la lettera A designa
la proposizione modale che consiste nella affermazione del modo e
nell’affermazione della proposizione. Per es., « È possibile che p » dove p è
una proposizione affermativa qualsiasi (ARNAULD, Log., II, 8). 4. Nella formula
« A è Ar o «A= A1 che si cominciò ad usare con Leibniz come tipo delle verità
identiche e fu assunta poi da Wolff e da Kant come espressione del cosiddetto
principio d’identità (v.), A significa un oggetto o un concetto qualsiasi.
Diceva Fichte: « Ciascuno accorda la proposizione A è A (come pure A= A perchè
questo è il significato della copula logica) ed infatti senza minimamente
pensarci sopra la si riconosce per pienamente certa e indubitabile » (Wissenschaftslehre).
La formula è rimasta per lungo tempo a esprimere il principio di identità e
nello stesso tempo a costituire un tipo di verità assolutamente indubitabile.
Dice Boutroux: «Il principio di identità può esprimersi così A è A. Io non dico
l’Essere ma semplicemente A, cioè ogni cosa, assolutamente qualsiasi,
suscettibile di esser concepita, ecc.» (De l’idée de loi naturelle). 5. Nel
simbolismo di Lukasiewicz la lettera « A » è usata come il simbolo della
disgiunzione per la quale s’adopera più comunemente il simbolo « V » (cfr. A.
CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, nota 9i). G. P.-N. A. ABALIETÀ. V.
AserTÀ. ABDERITISMO. Così fu chiamata da Kant la concezione che considera la
storia nè in progresso nè in regresso ma sempre nello stesso stato. Da questo
punto di vista la storia umana non avrebbe più significato di quella di una
qualsiasi specie animale, solo sarebbe più faticosa (Se il genere umano sia în
costante progresso verso il meglio, 1798). ABDUZIONE (gr. araywyrh; lat.
Reductio). È un procedimento di prova indiretta, semidimostrativa (teorizzato
da Aristotele in 7op.,.; An. Pr.,.), in cui la premessa maggiore è evidente, la
minore invece è solo probabile o comunque più facilmente accettata
dall’interlocutore che non la conclusione che si vuole dimostrare. Sebbene si
tratti in sostanza di un procedimento dialettico piuttosto che apodittico, era
già stato ammesso da Platone (cfr. Menone, 86 sgg.) per la matematica, e verrà
pure canonizzato tra i metodi di dimostrazione matematica da Proclo (In Eucl.,
212,). 2 AB ESSE AD POSSE Peirce ha
introdotto il termine abduction (0 retroduction) per indicare il primo momento
del processo induttivo, quello della scelta di un’ipotesi che possa servire a
spiegare determinati fatti empirici (Coll. Pap., 2.643). G. P. AB ESSE AD
POSSE. È una delle consequentiae formales temente confuso. Essa significa una
disposizione costante, o relativamente costante, ad essere o ad agire in un
certo modo. Per es., l’«abito di dire la verità» è la disposizione deliberata,
che è in questo caso un impegno morale, di dire la verità. Ed è altra cosa
dall’« abitudine di dire la verità » che implicherebbe un meccanismo adatto a
far ripetere frequentemente l’azione in questione. Così « l’abito di alzarsi
presto la mattina» è una specie di impegno che può costare sforzo ed esser
penoso; «l’abitudine di alzarsi presto la mattina » non costa più sforzo perchè
è un meccanismo consuetudinario. La parola è stata introdotta nel linguaggio
filosofico da Aristotele il quale (Mer., V, 20, 1022 b, 10) la definì come «una
disposizione ad essere bene o mal disposto verso qualche cosa, sia verso di sé
che verso altro; e, per es., la salute è un abito perchè è una disposizione
siffatta ». In questo senso egli ritenne che la virtù sia un abito, in quanto
non è nè una «emozione» (come la cupidigia, l’ira, la paura, ecc.) nè una «
potenza» come sarebbe la tendenza all'ira, al dolore, alla pietà, ecc. La virtù
è piuttosto la disposizione ad affrontare bene o male emozioni e potenze; per
es., a indulgere agli impulsi dell’ira o a moderarli (Et. Nic., II, 5). Lo
stesso significato viene ripreso da S. Tommaso, che lo riespone nel modo
seguente (Contra Gent., IV, 77): «L’abito si differisce dalla potenza in ciò
che da esso non siamo resi capaci di far qualcosa ma piuttosto abili o inabili
a poter agire bene o male ». Il concetto è rimasto pressocchè immutato sino ai
nostri giorni. Dewey così lo espone: « Quella specie di attività umana che è
influenzata dall’attività precedente e in questo senso è acquisita; che
contiene dentro di sè un certo ordine o una certa sistemazione dei minori
elementi di azione; che è progettante, dinamico in qualità, pronto per la
manifestazione aperta; e che è operativa in qualche forma subordinata e
nascosta anche quando non è attività ovviamente dominante. Abito, anche nel suo
uso ordinario, è il termine che denota più da vicino questi fatti di ogni altra
parola » (Zuman Nature and Conduct, 1921, pag. 40-41). Dewey riteneva che i
termini «atteggiamento » e « disposizione » andassero ugualmente bene per
questo concetto; ed in realtà questi due ultimi termini sono usati assai più
frequentemente che abito e con significati assai simili. ABITUDINE (gr. €806;
lat. Consuerudo; inglese Habit, Custom; franc. Habitude; ted. Gewohnheit). In
generale, la ripetizione costante di un evento o di un comportamento, dovuto ad
un meccanismo di qualsiasi genere, fisico, psicologico, biologico, sociale,
ecc. Si assume, il più delle volte, che tale meccanismo si formi mediante la
ripetizione degli atti o dei comportamenti e quindi, nel caso di eventi umani,
mediante l’esercizio. Diciamo « le cose abitualmente vanno così» per indicare
una qualsiasi uniformità di eventi, anche non umani, purchè non sia
un’uniformità rigorosa e assoluta ma soltanto approssimativa e relativa e
tuttavia suscettibile di autorizzare una previsione probabile. In questo senso
Aristotele disse (Rer., I, 10, 1369 b 6): « Si fa per abitudine ciò che si fa
perchè si è spesso fatto » e aggiunse che: « L’abitudine è in qualche modo simile
alla natura, giacchè ‘ spesso ’ e ‘sempre’ sono vicini; la natura è di ciò che
è sempre, l’abitudine di ciò che è spesso». Con ciò Aristotele vide
nell’abitudine una specie di meccanismo, analogo ai meccanismi naturali, che
garantisce, in qualche misura, la ripetizione uniforme di fatti, atti o
comportamenti, eliminando o riducendo, nei confronti di questi ultimi, sforzo e
fatica e così rendendoli piacevoli. In questo significato il termine è stato ed
è costantemente adoperato in un coaturalmente » (Pensées). Fu questo il punto
di vista che Hume, un secolo dopo, pose a base della sua filosofia. Hume definì
l’abitudine come la disposizione, prodotta dalla ripetizione di un atto, a
rinnovare l’atto stesso senza che intervenga il ragionamento (Ing. Conc. Underst.,
V, 1). E si avvalse dell’abitudine così intesa in primo luogo per spiegare la
funzione delle idee astratte, che egli considerò come idee particolari assunte
come segni di altre idee particolari simili. L’abitudine di considerare unite
tra loro idee designate da un unico nome, fa sì che il nome stesso risvegli in
noi, non una sola di quelle idee nè tutte, ma l’abitudine che abbiamo di
considerarle assieme e quindi l’una o l’altra di esse a seconda delle occasioni
(7reatise I, 1, 7). All’abitudine poi Hume ricorre per spiegare la connessione
causale: per aver visto più volte congiunti due fatti od oggetti, per es., la
fiamma e il calore, il peso e la solidità, siamo portati dall’abitudine ad
aspettarci l'uno quando l’altro si mostra. L'insieme della nostra vita
quotidiana è fondato sull’abitudine. «Senza l’abitudine — dice Hume (/nquiry,
cit., V, 1) — saremmo interamente ignoranti di ogni questione di fatto, fuori
di quelle che ci sono immediatamente presenti alla memoria o ai sensi. Non
sapremmo adattare i mezzi ai fini e impiegare i nostri poteri naturali a
produrre un qualsiasi effetto. Ogni azione sarebbe finita e così pure la parte
principale della speculazione ». In modo analogo ma in campo diverso, Bergson
(riprendendo forse un’idea di Renouvier, Nouvelle monadologie, pag. 298) si è
servito della nozione di abitudine per spiegare le obbligazioni morali; le
quali non sarebbero esigenze di ragione, ma abitudini sociali che garantiscono
la vita e la solidità del corpo sociale (Deux sources de la morale et de la
religion, pag. 21). L’interpretazione dell’abitudine come di una azione
originariamente spontanea o libera che viene poi fissata dall’esercizio, sì da
poter essere ripetuta senza l’intervento del ragionamento e della coscienza e
quindi in modo meccanico, ha reso possibile l’uso metafisico di questa nozione:
uso che ricorre abbastanza frequentemente nella filosofia moderna e
contemporanea, specialmente nell’idealismo e nello spiritualismo. Il primo a
trarre partito da questo uso per la costruzione di una metafisica
dell’esperienza interiore è stato Maine de Biran nel suo scritto Influenza
dell’abitudine sulla facoltà di pensare (1803). Mentre le abitudini passive,
che concernono le sensazioni, producono la diminuzione della coscienza, le
abitudini artive che concernono invece le operazioni, producono la loro maggior
facilità e perfezione e costituiscono perciò uno strumento di liberazione dello
spirito dai meccanismi che tendono a formarsi mediante la ripetizione dei suoi
sforzi. Questa nozione di abitudine, che pur essendo espressa nei termini della
cosiddetta « esperienza interiore» o «senso intimo», ha già una portata
metafisica, perchè Maine de Biran ritiene che i dati di quest’esperienza
rivelino la realtà stessa, trova riscontro nella dottrina di Hegel che le ha
dedicato alcuni paragrafi della sua sezione sullo Spirito soggettivo, nella
parte dedicata all’Anima senziente (Enc., $ 409-10). Hegel dice che mediante
l’abitudine l’anima «ha il contenuto in suo possesso e lo ritiene in sè in modo
che in tali determinazioni essa non sta come sensitiva, non sta in relazione ad
esse distinguendosene, nè è immersa in esse, ma le possiede senza sensazione e
senza coscienza e vi si muove dentro. L’anima è perciò libera da esse in quanto
non se ne interessa e non se ne occupa; ed esistendo in queste forme come in
suo possesso essa è insieme aperta ad ogni ulteriore attività ed occupazione
(tanto della sensazione quanto della coscienza spirituale in genere) ». Per
questa funzione dell’abitudine, di offrire all’anima il possesso di un certo
contenuto, in modo che essa possa avvalersi di tale contenuto « senza
sensazione e senza coscienza » sicchè sensazione e coscienza ridiventano
libere, cioè disponibili per altre operazioni, Hegel ha sottolineato
l’importanza dell’abitudine per la vita spirituale. « L’abitudine, egli ha
detto, è la cosa più essenziale all’esistenza di ogni spiritualità nel soggetto
individuale affinchè il soggetto esista come soggetto concreto, come idealità
dell’anima; affinchè il contenuto religioso, morale, ecc., appartenga a lui
come a questo se stesso, a lui come a questa anima; nè sia in lui solo in sè
(come disposizione) nè come sensazione e come rappresentazione passeggera, nè
come interiorità astratta separata dal fare e dalla realtà, ma nel suo essere
». Il che vuo! dire che l'abitudine incorpora un certo contenuto nell’essere
stesso dell’anima individuale, come un possesso effettivo, che si traduce in
azione reale. Sulle orme di Maine de Biran, Ravaisson ha proposto una vera e
propria metafisica dell’abitudine, che espose in una memoria famosa
(Sull’abitudine, 1838). Nell’abitudine Ravaisson vide una idea sostanziale cioè
un’idea che si è trasformata in sostanza, in realtà, e che agisce come tale.
L’abitudine non è un puro meccanismo ma una « legge di grazia » in quanto segna
il predominio della causa finale sulla causa efficiente. Essa consente perciò
di intendere la natura stessa come spirito e come attività spirituale, giacchè
dimostra che lo spirito può farsi natura e la natura spirito. Essa4 ABNEGAZIONE
consente di ordinare tutti gli esseri in una serie di cui la natura e lo
spirito rappresentano i limiti estremi. « Il limite inferiore è la necessità,
il destino, se si vuole, ma nella spontaneità della natura; il limite superiore
è la libertà dell’intelletto. L’abitudine discende dall’uno all’altro,
riavvicina questi contrari, e riavvicinandoli ne svela l’essenza intima e la
necessaria connessione». Da Bergson in poi frequentemente questi concetti sono
stati ripresi nello spiritualismo contemporaneo, per spiegare in qualche modo
il « meccanismo della materia » e ricondurlo alla spontaneità spirituale.
ABNEGAZIONE (gr. drdpwnow; lat. Abnegatio; ingl. Self-denial; franc.
Abnégation; ted. Verleugnung). È il rinnegamento di sè e la disposizione di
mettersi a servizio degli altri o di Dio col sacrificio dei propri interessi.
Così la nozione è descritta nel Vangelo (Matt., XVI, 24; Luc., IX, 23): «Se uno
vuole seguirmi rinneghi se stesso e porti giorno per giorno la sua croce».
Questo rinnegamento di se stesso, però, non è la perdita di se stesso ma
piuttosto il ritrovamento del vero « se stesso +, come è spiegato nel versetto
successivo a quello citato: « giacchè chiunque vorrà conservare la sua vita la
perderà; ma chiunque perderà la sua vita per me la salverà ». Perciò la nozione
di abnegazione non è, nei Vangeli, una nozione di morale ascetica ma piuttosto
esprime l’atto del rinnovamento cristiano, per il quale, dalla negazione
dell’uomo vecchio, nasce l’uomo nuovo o spirituale. AB UNIVERSALI AD
PARTICULAREM. È una delle consequentiae formales (v. Conseguenza) della Logica
scolastica: ab universali ad particularem, sive indefinitam sive singularem
valet (tenet) consequentia; cioè: da «ogni A è B» valgono le conseguenze
qualche A è B», « A è Ba, <S (se Sè un A)è B». G.P. ACATALESSIA (gr.
axatoAnpla; ingl. Acaralepsy; franc. Acatalepsie; ted. Akatalepsie). È la
negazione operata da Pirrone e dagli altri Scettici antichi della
rappresentazione comprensiva (pavtuola xataAnmtuh) cioè della conoscenza che
consente di comprendere e afferrare l’oggetto, la quale era, secondo gli
Stoici, la conoscenza vera. L’acatalessia è l’atteggiamento di chi dichiara di
non comprendere e per conseguenza sospende il suo assenso, cioè non afferma nè
nega (Sesto EMP., /p. Pirr., I, 25). ACCADEMIA (gr. ’Axadiuea; lat. Academia; ingl. Academy;
franc. Académie; ted. Akademie).
Propriamente la scuola fondata da Platone nel ginnasio che prendeva nome
dall’eroe Academo e che dopo la morte di Platone fu diretta da Speusippo (347-339
a. C.), da Senocrate (339-14 a. C.), da Polemone (314-270 a. C.) e da Cratete
(270-68 a. C.). In questa fase l'Accademia continuò la speculazione platonica
legandola sempre più strettamente al pitagorismo e appartennero ad essa
matematici e astronomi, fra i quali il più famoso fu Eudosso di Cnido. Alla
morte di Cratete l'Accademia mutò indirizzo con Arcesilao di Pitane (315 o
314-241 o 240 a. C.) avviandosi verso un probabilismo che prendeva lo spunto da
quanto Platone aveva affermato intorno alla conoscenza delle cose naturali: le
quali, non avendo alcuna stabilità e saldezza, non possono dar origine ad una
conoscenza stabile e salda ma solo ad una conoscenza probabile. Da Arcesilao e
dai suoi successori (di cui non sappiamo quasi nulla) questo punto di vista fu
esteso all’intera conoscenza umana nel periodo che si chiamò della « media
Accademia ». La « nuova Accademia » comincia con Carneade di Cirene (214 o
212-129 o 128 a. C.); quest’indirizzo scetticheggiante e probabilistico fu
mantenuto sino a Filone di Larissa che, nel 1 secolo a. C., iniziò la IV
Accademia d’indirizzo eclettico, alla quale soprattutto si ispirò Cicerone. Ma
l'Accademia platonica durò ancora a lungo e rinnovò ancora il suo indirizzo nel
senso religioso-mistico che è proprio del neo-Platonismo (v.). Solo nel 529
l’imperatore Giustiniano vietò l’insegnamento della filosofia e confiscò
l’ingente patrimonio dell’Accademia. Damascio, che ne era il capo, si rifugiò
con altri suoi compagni, tra cui Simplicio, autore di un vasto commentario ad
Aristotele, in Persia; ma di lì tornarono presto disillusi. La tradizione
indipendente del pensiero platonico ebbe così termine. ACCADEMIA FIORENTINA. Fu
fondata per iniziativa di Marsilio Ficino e di Cosimo de’ Medici e raccolse un
circolo di persone che vedevano la possibilità di rinnovare l’uomo e la sua
vita religiosa mediante un ritorno alle dottrine genuine del platonismo antico.
In queste dottrine i seguaci del platonismo e specialmente Marsilio Ficino
(14331499) e Cristofaro Landino (vissuto tra il 1424 e il 1498) vedevano la
sintesi di tutto il pensiero religioso dell’antichità e quindi anche del
cristianesimo e perciò la più alta e vera religione possibile. Con questo
ritorno all’antico si connette un altro aspetto dell’Accademia fiorentina,
l’anticurialismo; contro le pretese di supremazia politica del papato
l’Accademia sosteneva un ritorno all’idea imperiale di Roma e quindi faceva
oggetto frequente di commenti e di discussioni il De monarchia di Dante (v.
RINASCIMENTO). ACCADIMENTO (gr. cvuBeBnxéc; lat. Accidens; ingl. Occurrence;
franc. Événement; tedesco Vorfalressa dalla definizione; perciò è un accidente.
Ma è un accidente che appartiene al triangolo non per un caso, cioè per una
causa indeterminabile, ma a causa del triangolo stesso cioè per quello che il
triangolo è; ed è perciò un accidente eterno (Mer., V, 30, 1025a 31 sgg.).
Aristotele illustra la differenza nel modo seguente (An. Post., 4, 73 b 12
sgg.): « Se mentre qualcuno cammina, lampeggia, questo è un accidente, giacchè il
lampeggiare non è causato dal camminare... Se invece un animale muore sgozzato
a causa della ferita, diremo che esso è morto perchè è stato sgozzato, e non
già che gli sia accaduto accidentalmente di morire sgozzato ». In altri termini
l’accidente per sè è connesso causalmente (e non casualmente) con le
determinatte che la parola « modo» che egli adopera sia sinonimo di accidente;
sinonimia che sembra suggerita dalla definizione che egli dà del modo (£r., I,
def. 5) come ciò che è in altro ed è concepito per mezzo di quest'altro.
Comunque il mutamento di significato è chiaramente riscontrabile in Kant e
Hegel. Kant dice (Crit. R. Pura, Analitica dei princìpi, Prima Analogia): «Le
determinazioni di una sostanza le quali non sono che modi speciali di esistere
di essa, si chiamano accidenti. Essi sono sempre reali, perchè riguardano
l’esistenza della sostanza. Ora se a questo reale che è nella sostanza (per
es., al movimento come accidente della materia) si attribuisce una speciale
esistenza, questa esistenza si chiama inerenza per distinguerla dalla esistenza
della sostanza che si chiama sussistenza +. Questo passo riprende la
terminologia scolastica in un significato del tutto differente perchè gli
accidenti sono considerati come « modi speciali di esistere » della sostanza
stessa. Analoga nozione si trova in Hegel il quale dice (Enc., $ 151): «La
sostanza è la totalità degli accidenti nei quali essa si rivela come la loro
assoluta negatività, cioè come potenza assoluta, ed insieme come la ricchezza
di ogni contenuto ». Il che significa che gli accidenti, nella loro totalità
sono la rivelazione o manifestazione stessa della sostanza. Fichte aveva
d’altronde espresso un concetto analogo asserendo, sulle orme di Kant, che «
Nessuna sostanza è pensabile se non è riferita a un A.... Nessun A. è th;
francese Accidie; tedesco Acedie). La noia o nausea nel mondo medievale: il
torpore o l’inerzia in cui cadevano i monaci dediti alla vita contemplativa.
Secondo S. Tommaso, essa consiste nel « rattristarsi del bene divino » ed è una
specie di torpore spirituale che impedisce di iniziare il bene (S. 7h., II II,
q. 35, a. 1). L’accidia ha in comune con la noia lo stato che la condiziona,
stato, non di bisogno, ma di soddisfazione (v. NOIA). ACCORDO (ingl. Agreement;
franc. Convenance; ted. Ùbereinstimmung). Questa nozione è servita nell’età
moderna a definire la natura del giudizio o della proposizione in generale.
Dice la Logica di Porto Reale: « Dopo aver concepite le cose mediante le nostre
idee, noi paragoniamo queste idee fra di loro; e trowpé<e = mucchio,
consiste nel domandare quanti grani di frumento occorrono per formare un
mucchio; basta forse un solo grano? Ne bastano due?, ecc. Siccome è impossibile
determinare a qual punto comincia un mucchio, si adduce quest’argomento contro
la pluralità delle cose (Cic., Acad., II, 28, 92 sgg.; 16, 49; Diog. L., VII,
82). Lo stesso argomento è stato talora espresso in altra forma sotto il nome
di argomento del calvo (cfr. Diog. L., II, 108) e consiste nel chiedere se un
uomo diventa calvo quando gli si strappa un capello. E quando se ne strappano
due? E così via. ACHILLE (gr. ‘Ayoaesc; lat. Achilles; inglese Achilles; franc.
Achille; ted. Achilleus). Con questo nome si indicava il secondo dei quattro
argomenti di Zenone d’Elea contro il movimento. Esso così viene espresso da
Aristotele: «Il più lento nella corsa non sarà mai raggiunto dal più veloce:
giacchè colui che insegue dovrà cominciare per raggiungere il punto da cui è
partito il fuggitivo, di modo che il più lento sarà sempre in vantaggio +
(Fis., VI, 9, 239 b 14). Il presupposto di questo, come degli altri argomenti,
è l’infinita divisibilità dello spazio. V. DICOTOMIA, FRECCIA, STADIO. A
CONTRARIO. Forma di argomentazione dialettica per analogia: dal contrario si
conclude il contrario. (Se ad A conviene un predicato B, a non-A è probabile
convenga un predicato non-B). G. P. ACOSMISMO (ingl. Acosmism; franc. Acosmisme; ted.
Akosmismus). Termine adoperato da Hegel (Enc., $ 50)
per caratterizzare la posizione di Spinoza, in opposizione con l’accusa di €
ateismo » frequentemente rivolta a questo filosofo. Spinoza, secondo Hegel, non
mescola Dio con la natura e con il mondo finito considerando come Dio il mondo,
ma piuttosto nega la realtà del mondo finito affermando che Dio, e Dio solo, è
reale. In questo senso la sua filosofia non è a-teismo ma a-cosmismo; e Hegel
ironicamente nota che l’accusa contro Spinoza deriva dalla tendenza a credere
che si può più facilmente negare Dio anzichè il mondo. ACRIBIA (gr. dxplBewa).
Esattezza o precisione. Nel senso moderno, scrupolo nel seguire le regole
metodiche di una qualsiasi ricerca scientifica. Nel significato platonico
«l’esatto in sè» (&utò taxpiBéc) è il giusto mezzo (tò pérptov) cioè il
conveniente o l’opportuno in quanto oggetto di una delle due branche
fondamentali dell’arte della misura cioè di quella che propriamente interessa
l’etica e la politica. L’altra branca della stessa arte è quella propriamente
matematica che concerne il numero, la lunghezza, l’altezza, ecc. (Pol., 284
d-e). ACROAMATICO (gr. dxponpatixéc; inglese Acroamatic; franc. Acroamatique;
ted. Akroamatisch). Così sono stati chiamati, perchè destinati agli
ascoltatori, gli scritti di Aristotele che costituivano lezioni da lui tenute
al Liceo per distinguerle da quelle destinate al pubblico, di cui non ci
restano che frammenti. Tutte le opere aristoteliche da noi possedute sono
acroamatiche, perchè gli scritti che egli compose per un pubblico più vasto, e
che erano quasi tutti in forma di dialogo, caddero in disuso quando gli scritti
di lezioni, portati a Roma da Silla, furono riordinati e pubblicati da
Andronico da Rodi verso la metà del I secolo avanti Cristo (v. ESSOTERICO).
ADDIZIONE LOGICA (ingl. Logica! Addition; franc. Addition logique; ted.
Logische Addition). Nell’ Algebra della Logica (v.) si chiama così l’operazione
«a + 5», la quale gode di proprietà formali analoghe a quelle dell’addizione
aritmetica (importantissima l’eccezione «a + a = a»). Interpretata come
operazione tra classi «a + 5+ viene a formare la classe contenente tutti e soli
gli elementi, comuni e non comuni, della classe a e della classe d.
Interpretata come operazione tra proposizioni, «a + b» ne indica l’affermazione
disgiuntiva («a o br). G.P. ADEGUATO rità suprema in quanto il suo intendere è
la misura di tutto ciò che è e di ogni altro intendere. La nozione di
adeguazione (o accordo, o conformità, o corrispondenza) viene presupposta e
adoperata da molte filosofie e precisamente da tutte quelle le quali
considerano la conoscenza come un rapporto di identità o somiglianza (v.
CONOSCENZA). Locke afferma che «la nostra conoscenza è reale solo se vi è una
conformità tra le idee e la realtà delle cose» (Saggio, IV, 4, $ 3). Kant
stesso dichiara di presupporre « la definizione nominale della verità come
accordo della conoscenza col suo 0ggetto» e si propone l’ulteriore problema di
un criterio « generale e sicuro per determinare la verità di ciascuna
conoscenza» (Crit. R. Pura, Logica trasc., Intr., III) riterio rimane quello
della corrispondenza. Dall’indirizzo linguistico della filosofia analitica
contemporanea la nozione della corrispondenza viene mantenuta come rapporto di
somiglianza tra linguaggio e realtà. Wittgenstein, per es., dice: «La
proposizione è l’imagine (2i/d) della realtà... La proposizione, se è vera,
mostra come stanno le cose» (Tractatus, 4.021, 4.022). La coincidenza di
dottrine così diverse su questa nozione di verità è dovuta all’interpretazione
della conoscenza come rapporto di assimilazione (v. CONOSCENZA; VERITÀ). AD
HOMINEM. Così fu chiamata nella logica del ’600 l’argomentazione dialettica che
consiste nel contrapporre all’avversario le conseguenze che risultano dalle
tesi meno probabili concesse o approvate da lui (Jcapelli del capo o le stelle
siano in numero pari. Il secondo indica ciò per cui si sente impulso o
repulsione ma non più per questo che per quello, come nel caso di due monete
identiche di cui bisogna scegliere una. In terzo senso, si dice indifferente
«ciò che non conferisce nè alla felicità nè all’infelicità, come la salute e la
ricchezza o in altri termini, ciò di cui è possibile fare uso buono o cattivo »
(/p. Pirr., III, 177). Kant usò il termine per indicare le azioni credute
moralmente indifferenti cioè nè buone nè cattive (Religion, I, Osservazione e
nota relativa) (v. LATITUDINARISMO; RIGORISMO). ADIAFORISTICA, Controversia
(inglese Adiaphoristic Controversy; franc. Controverse Adiaphoristique; ted.
Adiaphoristen Streit). La controversia sorta tra i Luterani intorno al valore
di quelle pratiche religiose (come la Messa, l’Estrema Unzione, la Cresima,
ecc.) che Lutero aveva dichiarato «indifferenti » per la salvezza e che
Melantone aveva accettato per spirito di compromesso 0 di pace. La controversia
fu conclusa con la « formula di concordia» del 1577-80 che riconfermava il
carattere indifferente o neutro dei riti e delle cerimonie. A DICTO SECUNDUM
QUID AD DICTUM SIMPLICITER. È una delle consequentiae formales (v. Conseguenza)
della Logica aristotelica scolastica: a dicto secundum quid ad dictum simpliciter
non valet consequentia; cioè se A è Bin relazione a qualche cosa, non consegue
che A sia B in senso assoluto (ARIST., E/. Sof., 168 b 11; Pietro Isp., Summ.
Log., 7.46). G.P. AD IGNORANTIAM. Così Locke chiamò l'argomento che consiste
nell’esigere che l’avverAFFEZIONE 9 sario accolga la prova addotta o ne porti
una migliore (Saggio, IV, 17, 20). AD JUDICIUM. Così Locke chiamò
l’argomentazione che consiste «nell’usare le prove tratte da uno qualunque dei
fondamenti della conoscenza o della probabilità ». È la sola argomentazione
valida (Saggio, IV, 17, 22). ADOMBRAMENTO (ted. Abschattung). Termine adoperato
da Husserl per indicare il modo parziale e approssimato in cui la cosa esterna
è data alla coscienza percettiva. Per es.: « Il medesimo colore appare in serie
continuative di adombramenti di colore. Lo stesso vale per ogni qualità
sensibile e per ogni figura spaziale. L’unica e medesima figura, in quanto data
in carne ed ossa come medesima, appare continuamente ‘in modo diverso *, in
sempre diversi adombramenti di figura. È questa una necessaria situazione di
cose, che ha validità universale » (/deen, I, $ 41). ADOZIONISMO (ingl.
Adoptionism; francese Adoptionisme; ted. Adoptionismus). La dottrina secondo la
quale Cristo, nella sua natura umana, è considerato come Figlio di Dio solo per
adozione. Questa dottrina è comparsa varie volte nella storia della Chiesa. Fu
insegnata da Teodoro vescovo di Mopsuestia intorno al 400; fu ripresa nel sec.
vii da alcuni vescovi spagnoli, combattuta da Alcuino e condannata nel Concilio
di Francoforte del 794. La dottrina implicava l’indipendenza della natura umana
da Dio e quindi il dualismo di natura umana e natura divina: dualismo
inammissibile dal punto di vista della dogmatica cristiana. AD VERECUNDIAM.
Così Locke chiamò l’argomentazione che consiste « nel citare le opinioni di
uomini il cui ingegno, dottrina, eminenza, potere o qualche altra causa ha
ottenuto un nome e stabilito la reputazione nella stima comune con Capri specie
di autorità » (Saggio, IV, 17, 19). l'appello all’autorità. AFASIA (gr. dpacla;
ingl. Aphasia; francese Aphasie; ted. Aphasie). In senso filosofico, è
l’atteggiamento degli Scettici in quanto si astengono dal pronunciarsi, cioè
dall’affermare o negare alcunchè intorno a tutto ciò che «è oscuro» cioè che
non muove la sensibilità in modo da produrre una modificazione che spinge
necessariamente ad assentire. L'A. è così l'astensione dal giudizio connessa
con la sospensione dell’assenso (v.) (SESTO EMPIRICO, /p. Pirr., I, 20, 192
sgg.). AFFERMAZIONE (gr. xatépaoc; lat. Affirmatio; ingl. Affirmation; franc.
Affirmation; tedesco Bejahung). Termine col quale si può designare tanto l’atto
dell’affermare, quanto il contenuto affermato, ossia la proposizione
affermativa, Aristotele la considerò pertanto come una delle due forme
dell’asserzione e precisamente quella che « unisce qualcosa con qualcosa» (De
/nterpret., 17a 25). Secondo la medesima teoria aristotelica, essa unisce due
concetti in un concetto composito. Sostanzialmente la tradizione logica successiva
ha conservato questa dottrina e quindi questo significato del termine; soltanto
i seguaci della teoria del giudizio coione, la protezione, l’attaccamento, la
gratitudine, la tenerezza, ecc., che, nel loro complesso possono essere
caratterizzati come la situazione in cui una persona «si prende cura di + o «
nutre sollecitudine per» un’altra persona o in cui quest’altra risponde
positivamente alla cura o alla sollecitudine di cui è fatta oggetto. Ciò che
comunemente si chiama « bisogno di A.» è il bisogno di essere compreso,
assistito, aiutato nelle proprie difficoltà, seguito con occhio benevolo e
fiducioso. In questo senso l’A. non è che una delle forme dell’amore (v.).
AFFEZIONE (gr. nd00c; lat. Passio; ingl. Affection; franc. Affection; ted.
Affektion). Questo termine, che viene talora usato promiscuamente con affetto
(v.) e passione (v.), si può distinguere da essi, in base all’uso prevalente
nella tradizione filosofica, per la sua maggiore estensione e generalità: in
quanto designa ogni stato, condizione o qualità che consiste nel subire
un'azione o nell’es10 AFFEZIONE sere influenzato o modificato da essa. In
questo senso un affetto (che è una specie di emozione [v.)) o una passione è
bensì un’A., in quanto implica un'azione subita, ma ha anche altri caratteri
che ne fanno una particolare specie di affezione. Diciamo comunemente che un
metallo è affetto dall’acido, o che il tale ha un’A. polmonare; mentre
riserviamo le parole « affetto» e «passione» per situazioni umane, le quali
presentano tuttavia un certo grado di passività in quanto stimolate od
occasionate da agenti esterni. In questo senso generalissimo, Aristotele intese
la parola r&8os, che egli considerò come una delle dieci categorie ed
esemplificò con « venir tagliato, venir bruciato » (Car., 2a 3); e chiamò
affettive (ra&ituxa) le qualità sensibili perchè ciascuna di esse produce
un’A. dei sensi (/bid., 9 b 6). Dichiarando inoltre, al principio del De Anima,
lo scopo della sua ricerca, Aristotele la intese diretta a conoscere, oltre che
la natura e la sostanza dell’anima, tutto ciò che ad essa accade, cioè sia le
A. che sembrano sue proprie, sia quelle che essa ha in comune con l’anima degli
animali (De An., I, 1, 402a 9). Nel qual testo la parola A. (r&0n) designa
tutto ciò che all’anima accade, cioè qualsiasi modificazione essa subisca. Il
carattere passivo delle A. dell’anima, carattere che sembrava minacciare
l’autonomia razionale di essa, condusse gli Stoici a dichiarare irrazionali,
quindi cattive, tutte le emozioni (Diog. L., VII, 110): di qui la connotazione
moralmente negativa che assunse l’espressione « A. dell’anima » e che si rivela
chiaramente in espressioni come perturbatio animi o concitatio animi che
vengono usate da Cicerone (Tusc., IV, 6, 11-14) e da Seneca (Ep., 116), e sono
espressamente ritenute da S. Agostino (De Civ. Dei, IX, 4) sinonime con quelle
di affectio e affectus (emozione). Ma S. Agostino e, dietro di lui, gli
Scolastici, mantennero il punto di vista aristotelico della neutralità delle A.
dell’anima dal punto di vista morale, nel senso che esse possono essere buone o
cattive a seconda che sono moderate o meno dalla ragione; punto di vista che S.
Tommaso difese richiamandosi appunto ad Aristotele e a S. Agostino (S. 7A., II,
I, q. 24, a. 2). La nozione di modificazione subita, cioè di qualità o
condizione prodotta da un’azione esterna, si mantiene costante nella tradizione
filosofica e viene espressa il più delle volte con la parola passio la quale
solo nella seconda metà del xviit secolo assume il suo significato moderno (v.
PASSIONE). Così Alberto Magno intende con A. «l’effetto e la conseguenza
dell’azione » (S. 7h., I, q. 7, a. 1). S. Tommaso, che dà identica definizione
(/bid., I, q. 97, a. 2) distingue tre significati del termine: «Il primo, che è
il più proprio si ha quando qualcosa viene allontanata da ciò che ad essa
conviene secoe il paziente siano spesso assai diversi, l’azione e l’affezione
non cessano d'essere sempre una stessa cosa che ha questi due nomi per via dei
due soggetti diversi ai quali la si può riferire ». In senso analogo la parola
viene adoperata da Spinoza per definire quelli che egli chiama affectus e che
noi chiameremmo emozioni o sentimenti. Le emozioni, in quanto passiones cioè
A., costituiscono l’impotenza dell’anima e l’anima le vince trasformandole in
idee chiare e distinte. «L’emozione, dice Spinoza (Ef., V, 3) che è un’A.,
cessa di essere un'A. appena ci formiamo di essa un'idea chiara e distinta ».
In tal caso, infatti, quest'idea si distingue solo razionalmente dall'emozione
e si riferisce alla sola mente; così essa cessa di essere un’A. (/bid., A.; i
concetti, invece, su funzioni » (Crit. R. Pura, Analitica dei concetti, I, sez.
I). Queste notazioni kantiane sono in polemica con la tesi della scuola
leibnizianowolffiana che faceva consistere la sensibilità nelle
rappresentazioni indistinte e l’intellettualità in quelle distinte: il che,
notava Kant (Antr., $ 7, nota), significa far consistere la sensibilità in una
mancanza (mancanza di distinzioni), mentre essa è qualcosa di positivo e di
indispensabile alla conoscenza intellettuale. In conclusione il termine A.,
inteso come ricezione passiva o modificazione subita, non ha necessariamente
una connotazione emotiva; e per quanto sia stato adoperato frequentemente a
proposito di emozioni ed affetti (per il carattere chiaramente passivo di
Aphorism; franc. Aphorisme; ted. Aphorismus). Proposizione che esprime in
maniera succinta una verità, una regola o una massima concernente la vita
pratica. Dapprima la parola fu usata quasi esclusivamente per indicare le
formule che esprimono, in modo abbreviativo e mnemonico, i precetti dell’arte
medica: per es., gli A. di Ippocrate. Bacone espresse sotto forma di A. le sue
osservazioni (contenute nei I libro del Novum Organum) « sulla interpretazione
della natura e sul regno dell’uomo »: probabilmente per sottolineare il
carattere pratico e attivo di queste osservazioni in quanto sono dirette a
preparare il dominio dell’uomo sulla natura. E Schopenhauer chiamò A. sulla
saggezza della vita (nei Parerga und Paralipomena) i suoi precetti per rendere
più felice, o meno infelice, l’esistenza umana, conservando così alla parola il
suo significato di massima o regola per dirigere l’attività pratica dell’uomo.
A FORTIORI. Espressione che non indica un modo specifico di argomentare ma
significa semplicemente «a più forte ragione». Qualche logico designa con
questa espressione le inferenze transitive del tipo «x implica y, y implica z,
dunque x implica z » (cfr. STRAWSON, Introduction to Logical Theory, 1952, pag.
207). AFRICA (ingl. Africa; franc. Afrique; tedesco Afrik). I filosofi hanno
talora cercato di giustificare « speculativamente », cioè nei termini della
loro filosofia, anche la partizione dei continenti considerandola non già come
casuale o convenzionale ma come essenziale e razionale. Così apparve a Hegel la
partizione del vecchio mondo in tre parti, A., Asia ed Europa che starebbero
tra loro come tesi, antitesi e sintesi. L'A. rappresenterebbe in questa triade
il momento in cui lo spirito non riesce a giungere alla coscienza e l’uomo
rimane abbrutito nella passività e nella schiavitù (Philosophie der Geschichte,
ed. Lasson, pag. 203 sgg.). Analogamente Gioberti vide nella razza africana «la
più degenere delle tre schiatte umane » perchè «il nero è privazione della
luce» (Prorologia, II, pag. 221). AGAPISMO (ingl. Agapism). Termine adoperato
da Peirce per designare la « legge dell'amore evolutivo » in virtù della quale
l’evoluzione cosmica tenderebbe ad un incremento dell’amore fraterno fra gli
uomini (Coll. Pap., 6. 60; ARNAULD, Log., II, 1). Nella linguistica moderna
l’A. è quella classe di parole definibile per la sua funzione di caratterizzare
la sostanza ed è diviso in descrittivo o limitativo, a seconda che segue o
precede il nome (cfr. BLOOMFIELD, Language, 1933, pag. 202 sgg.). AGGREGATO
(ingl. Aggregate; franc. Agrégat; ted. Aggregat). In generale una collezione,
un agglomerato, un raggruppamento, una somma o una quantità di cose che
conservano tuttavia la loro individualità. Il termine ha un uso esteso nella
matematica e nella logica matematica contemporanea (v. INSIEME) e in generale
nelle scienze naturali che lo adoperano per indicare, in generale, masse o
raggruppamenti di elementi che conservano, stando insieme, le proprietà che
hanno separatamea del sapere col procedimento che fu poi seguito anche da
Spencer per determinare i confini dell’Inconoscibile (v.). AGNOSIA (gr.
aywwota; ingl. Agnosy; francese Agnosie; ted. Agnosie). L’atteggiamento di chi
professa di non conoscere nulla, come fu quello di Socrate che affermava di
sapere solo di non sapere (PLATONE, Apol., 21 a) e che lo scettico Arcesilao
rinforzava dicendo di non sapere neppure questo (Cic., Acad., I, 45).
AGNOSTICISMO (ingl. Agnosticism; francese Agnosticisme; ted. Agnosticismus). Il
termine fu coniato dal naturalista inglese Tommaso Huxley nel 1869 (Collected
Essays, V, pag. 237 sgg.) per indicare l'atteggiamento di chi si rifiuta di
ammettere soluzioni di quei problemi che non possono essere trattati con i
metodi della scienza positiva e segnatamente dei problemi metafisici e
religiosi. Huxley stesso dichiarò di aver coniato il termine «come antitesi
dello ‘gnostico * della storia della Chiesa che pretendeva di saperla lunga
sulle cose che io ignoravo ». Il termine fu ripreso da Darwin che si dichiarò
agnostico in una lettera del 1879. D'’allora in poi il termine fu usato a
designare l’atteggiamento degli scienziati di indirizzo positivistico di fronte
all’Assoluto, all’Infinito, a Dio ed ai problemi relativi, atteggiamento
contrassegnato dal rifiuto di professare pubblicamente una qualsiasi opinione
intorno a tali problemi. Così fu detta agnostica la posizione di Spencer che
nella prima parte dei Primi principi (1862) intese dimostrare l’inaccessibilità
della realtà ultima cioè della forza misteriosa che si manifesta in tutti i
fenomeni naturali. Il fisiologo tedesco Du-Bois Raymond in uno scritto del 1880
enunciava Sette enigmi del mondo (l’origine della materia e della vita;
l'origine del movimento; il sorgere della vita; l’ordinamento finalistico della
natura; il sorgere della sensibilità e della coscienza; il pensiero razionale e
l’origine del linguaggio; la libertà del volere) di fronte ai quali egli
riteneva che l’uomo fosse destinato a pronunciare un igrorabimus in quanto la
scienza non potrà mai risolverli. Nello stesso periodo la parola fu estesa a
designare anche la dottrina di Kant in quanto essa ritiene che il noumeno o
cosa in sè è al di là dei limiti della conoscenza umana (v. NouMENno). Ma
questa estensione della parola non può dirsi del tutto legittima, data la
concezione kantiana del noumeno come concettolimite. Fa parte integrante della
nozione di A. la riduzione dell’oggetto della religione a semplice « mistero »,
rispetto al quale i simboli che si adoperano per interpretarlo rimangono del
tutto inadeguati. AGOSTINISMO (ingl. Augustinianism; francese Augustinism; ted.
Augustinismus). S’intende con questo termine, più che l’intera dottrina
originale di S. Agostino, quell’insieme di elementi dottrinali agostiniani che
caratterizzarono uno degli indirizzi della Scolastica (v.) che fu seguito
prevalentemente dai dottori francescani, in polemica con l’indirizzo
aristotelico-tomista dei dottori domenicani. La fisionomia generale dell'A.
medievale può essere espressa con i seguenti punti (cfr. MANDONNET, Siger de
Brabant, 2* ediz., 1911, I, pag. 55 sgg.): a) mancanza di una distinzione
precisa tra il dominio della filosofia e quello della teologia cioè tra
l’ordine delle verità razionali e quello delle verità rivelate; b) teoria dell’illuminazione
divina, secondo la quale l'intelligenza umana non può funzionare se non per
l’azione illuminatrice e immediata di Dio e non può trovare la certezza della
sua conoscenza se non nelle regole eterne e immutabili della scienza divina; c)
preminenza della nozione di bene su quella del vero e perciò della volontà
sull’intelligenza sia ALGEBRA DELLA LOGICA 13 in Dio che nell'uomo; d)
riconoscimento alla materia di una realtà positiva, in contrasto con Aristotele
che vede in essa una pura potenzialità; dal che deriva, per es., che il corpo
umano possiede già una sua realtà o attualità, cioè una forma indipendentemente
dall’anima e che l’anima è quindi una forma ulteriore che si aggiunge al
composto vivente e animale; di qui la cosiddetta pluralità delle forme
sostanziali nel composto. Questi tratti accomunano i grandi maestri della
scolastica francescana come Alessandro di Hales (1770 circa), Roberto
Grossatesta, S. Bonaventura, Ruggiero Bacone, Duns Scoto e molti altri minori.
Alcuni di quei tratti si possono anche riconoscere in dottrine filosofiche
moderne e contemporanee, alle quali pervengono attraverso la tradizione
medievale o direttamente dall’opera di S. Agostino. ALBERO DI PORFIRIO (lat.
Arbor Porphyriana; ingl. Tree of Porphyry; franc. Arbre de Porphyre; ted. Baum
des Porphyrius). Celebre schema o modello di definizione per dicotomie
successive, discendente dal genere generalissimo alle specie infime (sostanza:
corporea, incorporea; sostanza corporea [corpo]: animato, inanimato; corpo
animato: sensibile, insensibile; corpo animato sensibile [animale]:
ragionevole, irragionevole; animale ragionevole: mortale, immortale; animale
ragionevole mortale [uomo]: Socrate, Platone, ecc.). Sebbene tale «albero» non
si trovi propriamente nei manoscritti di Porfirio, fu costruito sulla base del
testo porfiriano (/sag., 4, 20) e si trova in tutti i trattati medievali di
logica (cfr., per es., Pietro IspANO, Summ. Logic., 2. 10), donde è passato nei
testi moderni di logica tradizionale. G. P. ALCUNI. V. QUALCHE. ALESSANDRISMO
(ingl. Alexandrianism; franc. Alexandrisme; ted. Alexandrismus). S’intende con
questo termine la cultura alessandrina cioè la cultura del periodo seguito alla
morte di Alessandro Magno (323 a. C.) il quale aveva unificato il mondo antico
nel segno della cultura greca e ne aveva posto la capitale in Egitto nella
nuova città di Alessandria. La dinastia dei Tolomei mirò a fare di questa città
un grande centro intellettuale in cui confluissero insieme la cultura greca e
quella orientale, mediate e unificate dalla lingua che era diventata di
patrimonio comune dei dotti, il greco. Scienziati e dotti di tutti i paesi
erano ospitati nel Museo ed avevano a loro disposizione un materiale
scientifico e bibliografico eccezionale per quei tempi. Al Museo fu poi
aggiunta la biblioteca, il cui primo nucleo si dice sia stato formato dalle
opere possedute da Aristotele e che divenne poi ricchissima, fino a comprendere
700.000 volumi. La cultura alessandrina è contrassegnata dal divorzio tra
scienza e filosofia. Mentre le ricerche scientifiche, la determinazione dei
metodi della scienza e la sistemazione dei risultati di essa fanno grandi passi
in questo periodo, la filosofia rinuncia al còmpito che costituì la sua
grandezza nel periodo classico: quello di cercare liberamente le vie e i modi
di un’esistenza propriamente umana. Essa si irrigidisce nella pretesa di
garantire all'uomo, a tutti i costi, la pace e la serenità dello spirito; e in
tal modo diventa privilegio di pochi dotti che riescono ad isolarsi dal resto
della vita e dai problemi che la dominano e si disinteressa quindi anche della
ricerca scientifica. La scienza dell’età alessandrina offre grandi figure di
matematici (Euclide, Archimede, Apollonio); di astronomi (Iparco e Tolomeo); di
geografi (Eratostene); di medici (Galeno). La filosofia si presenta divisa in
due grandi scuole: Epicureismo (v.) e Stoicismo (v.) e in due indirizzi
filosofici sostenuti da scuole diverse, lo Scerticismo (v.) e l’Eclettismo
(v.). A questo periodo della filosofia si può far risalire quella nozione di
essa, che talora ancora predomina nel senso comune, come un'attività
consolatoria o tranquillizzante che impedisce all'uomo di mescolarsi alle cose
della vita comune e cerca di garantirne l’imperturbabilità di spirito. ALESSANDRINISMO
(ingl. Alexandrinism; franc. Alexandrinisme; ted. Alexandrinismus). Così fu
chiamata, nel Rinascimento, la dottrina di Alessandro di Afrodisia
sull’intelletto attivo (v.). ALETIOLOGIA (ted. Alethiologie). Così Lambert
chiamò la seconda delle quattro parti del suo Nuovo organo (1764) e
precisamente quella che studia gli elementi semplici della conoscenza. Essa è
una specie di anatomia dei concetti che ha lo scopo di raggiungere i concetti
più semplici e indefinibili. ALGEBRA DELLA LOGICA (ingl. Logica! Algebra;
franc. Algèbre de la logique; ted. Algebra der Logik). Già Leibniz aveva
intuita la possibilità di un calcolo letterale affine a quello dell’A.
ordinaria, in cui, definite mediante assiomi (molto simili a quelli algebrici)
certe operazioni logiche (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione,
negazione) e certe relazioni (implicazione, identità) fondamentali, indicate
con simboli tolti alla matematica, si poteva da questi assiomi derivare
mediante calcolo tutte le regole della sillogistica tradizionale. Ma (forse per
il prevalere di preoccupazioni contenutisticheintensive di origine filosofica
sulla pura idea del calcolo) non era giunto a risultati soddisfacenti. E non
più fortunati furono i tentativi di suoi continuatori come Lambert. Solo i
logici inglesi del1’800 riuscirono a fondare una vera e propria A. della
logica. IH primo fu George Boole (Mathematical Analysis of Logic, 1847; Laws of
Thought, 14 ALGORITMO 1854) sulle cui orme lavorarono Stanley Jevons (Pure
Logic, 1864), J. Venn (Simbolic Logic, 1881) e il tedesco E. Schròder (Algebra
der Logik, 18901895). L’A. della Logica è generalmente intesa come un calcolo
letterale bivalente, caratterizzato: 1° dal fatto che le equazioni vi possono
assumere solo i valori 0 o 1; 2° dagli assiomi «a +a4= a» e «a*»a = a» (con
tutte le conseguenze derivanti da ciò); 3° dall’assenza di operazioni
indirette, come la sottrazione (non potendosi la negazione «— a» equiparare
alla sottrazione, nonostante l’assioma, già enunciato da Leibniz, «a— a= 03).
Questo mero calcolo letterale in sè non significa nulla, è un mero giuoco
simbolico (appunto, un'«A. zione a; finalmente 0 si interpreta «falso », 1 si
interpreta «vero». In tal modo si fonda un’interpretazione del calcolo
logico-algebrico che viene ad assorbire in sè, trasformandola in disciplina
formale e deduttiva, la sillogistica tradizionale. La Logica matematica,
fondata da Frege e Russell, e in seguito la Logica simbolica contemporanea,
assorbendo in sè gli elementi più vitali dell’A. della Logica, l’hanno resa
oramai desueta. Gg. P. ALGORITMO (ingl. Algorism; franc. Algorithme; ted.
Algorithmus). Un qualsiasi procedimento di calcolo. Il termine derivato dal
nome dell’autore arabo di un trattato che introdusse in Europa nel sec. ix la
numerazione decimale, designava da principio i procedimenti del calcolo
aritmetico ed è stato poi generalizzato a indicare ogni procedimento di
calcolo. ALIENAZIONE (ingl. Alienation; franc. Aliénation; ted. Entfremdung).
Il termine, che nel linguaggio comune significa perdita di un possesso, di un
affetto o dei poteri mentali, è stato adoperato dai filosofi in alcuni
significati specifici. 1. Nel Medioevo fu talora usato per indicare un grado
dell’ascesa mistica verso Dio. Così Riccardo di San Vittore considera l’A. come
il terzo grado dell’elevazione della mente a Dio (dopo la dilatazione e la
sollevazione) e ritiene che essa consiste nell’abbandono della memoria di tutte
le cose finite e nella trasfigurazione della mente in uno stato che non ha più
nulla di umano (De gratia contemplationis, V, 2). In questo senso l’A. non è
che l’estas’autotogliersi di quest’ultimo ha un significato positivo, cioè se
stessa; infatti, in quella A. essa pone sè come oggetto o, in forza
dell’inscindibile unità dell’esser-per-sè, pone l’oggetto come se stessa,
mentre d’altra parte in quest’atto è contenuto l’altro momento ond’essa ha
tolto e ripreso in sè medesima quest’A. e oggettività, essendo dunque, nel suo
esser altro come tale, presso di sè. Questo è il movimento della coscienza, la
quale in tal movimento è la totalità dei propri momenti» (Phéinomen. des
Geistes, VIII, 1). Questo concetto puramente speculativo viene ripreso da Marx
nei suoi scritti giovanili per descrivere la situazione dell’operaio nel regime
capitalistico. Secondo Marx, Hegel ha avuto il torto di confondere
l’obiettivazionatto ma infelice... E solo fuori del lavoro si sente presso di
sè, si sente fuori di sè nel lavoro ». Nella società capitalistica il lavoro
non è volontario ma costretto perchè non è soddisfacimento di un bisogno, ma
solo un mezzo ALLEGORIA 15 per soddisfare altri bisogni. «Il lavoro esterno, il
lavoro in cui l’uomo si aliena è un lavoro di sacrificio di se stessi, di
mortificazione » (Manoscritti economico-filos., 1844, I, 22). Questo uso del
termine è diventato corrente nella cultura contemporanea, non soltanto nella
descrizione del lavoro operaio in certe fasi della società capitalistica, ma
anche a proposito del rapporto tra l’uomo e le cose nell’età della tecnica:
giacchè sembra che il predominio della tecnica « alieni l’uomo da se stesso »
nensional Man, 1964, pag. 12). Nel linguaggio filosofico-politico oggi corrente
il termine ha i significati più disparati che dipendono dalla varietà dei
caratteri su cui si insiste per la definizione dell’uomo. Se l’uomo è ragione
autocontemplativa (come riteneva Hegel), ogni suo rapporto con un oggetto
qualsiasi è alienazione. Se l’uomo è un essere naturale e sociale (come
riteneva Marx) è A. il suo ritirarsi nella contemplazione. Se l’uomo è istinto
e volontà di vita, è A. ogni repressione e diminuzione di tale istinto e
volontà; se l’uomo è razionalità operante o fattiva è A. il suo affidarsi
all’istinto. Se l’uomo è ragione (comunque intesa), è A. il suo rifugiarsi
nella fantasia; ma se è essenzialmente immaginazione e fantasia, è A. ogni sua
disciplina razionale. Infine, se l’individuo umano è una totalità
autosufficiente e completa, è A. ogni regola o norma che venga imposta, in
qualsiasi modo, alla sua espressione. L’equivocità del concetto di A. dipende
dalla problematicità della nozione di uomo. ALLEGORIA (gr. &anropla; lat.
Allegoria; ingl. Allegory; franc. Allégorie; ted. Allegorie). Nel suo primo
significato specifico, la parola indica un modo di interpretare le sacre
scritture e di scoprire, al di là delle cose, dei fatti e delle persone, di cui
esse trattano, verità permanenti di natura religiosa o morale. La prima
importante applicazione del metodo allegorico è il commentario alla Genesi di
Filone di Alessandria (sec. 1). Filone non esita a contrapporre il senso
allegorico al senso letterale e a dichiarare «sciocco» (etnînc) quest’ultimo.
Ecco un esempio: «‘ E Dio finì nel settimo giorno le opere che egli creò’
(Gen., 2, 2). È assolutamente sciocco credere che il mondo è nato in sei giorni
o in generale nel tempo. Perchè? Perchè ogni tempo è un insieme di giorni e di
notti che sono necessariamente prodotti dal movimento del sole che va al di
sopra e al di sotto della terra; ma il sole è una parte del cielo sicchè si
riconosce che il tempo è più recente del mondo » (A//. /eg., I, 2). A sua volta
Origene che è il primo autore di un grande sistema di filosofia cristiana,
distingueva nei testi biblici tre significati: il somatico, lo psichico e lo
spirituale, che stanno tra loro come le tre parti dell’uomo: il coranifesto,
non meno è vero quello che spiritualmente s’intende cioè che nella uscita
dell'anima del peccato, essa si è fatta santa e libera in sua potestate»
(Conv., II, 1). Ma tra questi sensi, come Dante stesso dice, quello
fondamentale, per il teologo come per il poeta, è l’allegorico. E difatti l’A.
divenne nel Medioevo il modo d'intendere la funzione dell’arte e specialmente
della poesia. Giovanni di Salisbury diceva di Virgilio che egli « sotto
l’imagine delle favole esprime la verità dell’intera filosofia » e Dante (Vita
Nuova, 25) definiva così il compito 16 ALLOGLOSSIE del poeta: « Vergogna
sarebbe a colui che rimasse cose sotto veste di figura o di colore rettorico, e
poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole di cotal veste, in gure del
simbolo (v.) che può essere vivo ed evocatore perchè l’imagine simbolica è
autonoma e ha un interesse in se stessa cioè un interesse che non mutua dal suo
riferimento convenzionale a un concetto o ad una dottrina. Tuttavia, se si
tiene conto della potenza e della vitalità di certe opere d’arte di chiara
struttura allegorica (per es., della Divina Commedia e di molte pitture
medievali e rinascimentali) si deve dire che l'A. non necessariamente rende
impossibile l’autonomia e la leggerezza dell’imagine estetica e che, in certi
casi, anche la corrispondenza puntuale tra l’imagine e il concetto può non
riuscire mortificante per la prima e non togliere ad essa la vitalità dell’arte
o della poesia. T. S. Eliot ha fatto, proprio a proposito di Dse per designare
Dio come principio e fine del mondo (Ap., I, 8; 21, 6; 22, 13; ecc.).
ALTERAZIONE (gr. dMolwow; ingl. Alteration; franc. Altérat on; ted.
Alteration). Secondo Aristotele, una delle forme del mutamento e precisamente
quella secondo la categoria della qualità: intendendosi per qualità non quella
essenziale ad una sostanza ed espressa nella differenza specifica ma quella che
una sostanza o realtà riceve o subisce (Fis., V, 2, 226a 23 sgg.). In altri
termini, l’A. è per Aristotele l'acquisto o la perdita di qualità accidentali;
come, per es., l’essere ora in buona, ora in cattiva salute (Mer., VIII, 1,
1042a 36). Questo significato di « mutamento qualitativo » è rimasto nell’uso
filosofico della parola in questione; per quanto non sempMa più generalmente si
può dire che, secondo Hegel, l’A. accompagna l’intero sviluppo dialetico
dell’Idea perchè essa è inerente al momento negativo che è intrinseco a questo
sviluppo. Difatti appena fuori dell’essere indeterminato che ha come sua
negazione il puro niente le determinazioni negative dell’Idea divengono a loro
volta qualche cosa di determinato cioè un « essere altro » da quello stesso che
negano. «La negazione — non più come il niente astratto ma come un essere
determinato e un alcunchè — è soltanto forma per questo alcunchè, è un essere
altro » (Enc., $ 91). ALTERNATIVA, PROPOSIZIONE
(inglese Alternative proposition; franc. Proposition alternative; ted.
Alternative Proposition). Con questo ALTRO, PROBLEMA DELL’ 17 nome si suole
indicare, propriamente, la proposizione molecolare disgiuntiva « poq+ («almeno
p è vero, quindi se non è vero p è vero q+). Ma spesso in uso non rigoroso, le
componenti della molecolare disgiuntiva si dicono « alternative» l’una rispetto
all’altra. Pare che la parola a/ternatio, introdotta dagli scrittori latini ad
indicare la proposizione disgiuntiva, derivi dal linguaggio giuridico. G. P.
ALTERNAZIONE. V. ALTERNATIVA. ALTRO (gr. Gftnpov; ingl. Orher; franc. Autre;
ted. Andere). Uno dei cinque generi sommi dell’essere, enunciati da Platone nel
Soffsta e che sono: l’essere, la quiete, il movimento, l’identico e l’altro. Il
motivo per ammettere l’altro come un genere a sè è il seguente: la quiete e il
movimento, entrambi, sono, perciò, sotto l’aspetto dell’essere, sono identici;
ma essi sono anche diversi l’uno dall’altro e questa diversità è esattamente
come è la loro identità (dovuta al fatto che entrambi sono). L’altro (il
diverso) è perciò un genere egualmente originario e irriducibile degli altri
quattro (Sof., 254 seguenti). Il riconoscimento dell’altro come di un genere
sommo è molto importante perchè consente a Platone di risolvere l’antinomia,
propria della sofistica e della eristica (v.), che è impossibile dire il falso
perchè il falso è ciò che non è e dire ciò che non è significa dir nulla cioè
non dire. Da questo punto di vista l’errore dovrebbe essere dichiarato
inesistente; e non ci sarebbe neppure differenza possibile tra il filosofo, che
si preoccupa di stabilire la distinzione tra verità ed errore, e il sofista che
non se ne preoccupa affatto. Ammesso invece l’A. come genere sommo, il
non-essere potrà essere interpretato, non già come il nulla, ma come l’A.
dall’essere e precisamente dall’essere di cui si parla; per es., dire che
qualcosa è non grande o non bella significa semplicemente dire che è qualcosa
di A., di diverso, dal grande e dal bello; ma non perciò che è l’opposto
dell’essere e cioè il nulla (Ibid., 257 b sgg.). Quest’affermazione della
realtà del non-essere, in quanto A. o diverso, è presentata, dal Forestiere
eleate che è il maggiore protagonista del Sofista, come una specie di «
parricidio + verso Parmenide, che aveva affermato che il solo essere è e il non
essere non è (/bid., 242 d). Queste notazioni platoniche, soprattutto la
categoria di «A.», sono poi state adoperate frequentemente per chiarire la
nozione di niente (v.). ALTRO, PROBLEMA DELL’ (ingl. Problem of Others; franc.
Problème de l’autre; ted. Problem von fremden Ichen). Con quest’espressione
s’indica, nella filosofia moderna e contemporanea, il problema concernente
l’esistenza di altri io (spiriti o persone) indipendenti da quello di colui che
si pone il problema stesso. Questo problema nasce da due punti di vista diversi
e tuttavia connessi 2 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. insieme da alcuni
presupposti comuni. Il primo è quello dell’idealismo romantico (v.) secondo il
quale la realtà essendo un Principio infinito ed universale (per es., l’Io
assoluto di Fichte), si tratta di vedere come essa si rompe o si moltiplica
nella diversità degli io singoli. Il secondo è il punto di vista genericamente
idealistico e spiritualistico, secondo il quale ciò che a ciascuno di noi è
originariamente dato è soltanto il suo proprio io e le sue esperienze psichiche
di cui alcune (una parte solamente) si riferirebbero ad altri individui. AI
primo problema Fichte rispose nella Dorfrina Morale (1798) affermando il
carattere originario dell’idea del dovere e facendo derivare da essa il
riconoscimento degli altri io. L'idea del dovere è l’autodeterminazione
originaria dell’io; ma essa non potrebbe esser realizzata se non ci fossero
altri io, altri soggetti nei confronti dei quali soltanto l’idea del dovere può
trovare la sua determinazione e quindi la sua possibilità di realizzazione. La
realtà degli altri io è quindi, per Fichte, un postulato morale: l’esistenza
degli altri io deve essere ammessa e riconosciuta, se l'io deve poter
concretamente realizzare la sua moralità (Sittenlehre, $ 18). Questa concezione
è stata, con qualche variante, ripresa da altri filosofi; per es., da Riehl nel
suo libro sul Criticismo (1786-87) e da Cohen nella sua Erica della volontà
pura (1904): il quale ultimo deduce l’esistenza delle persone in generale dal
carattere giuridico e dalle funzioni pubbliche dell’uomo, sicchè la
molteplicità degli io non esisterebbe che come molteplicità di « persone
giuridiche ». Dall’altro lato, dal punto di vista che l’io conosce in modo
immediato solo se stesso e i suoi stati interiori, cioè dal punto di vista di
un accesso privilegiato alla conoscenza interiore dell’io (v. CoscieNZA) nasce
il problema di vedere come mai una parte dell’esperienza dell’io possa essere
riferita ad altri io; e il problema ancora più grave di vedere quale garanzia
questo riferimento offra in favore dell’esistenza effettiva dell’altro io. Per
rispondere a questi problemi due teorie sono state avanzate: 1° la teoria
secondo la quale l’esistenza degli altri sarebbe inferita mediante un «
giudizio di analogia », a partire dalle percezioni che ci rivelano movimenti
analoghi a quelli mediante i quali noi esprimiamo il nostro proprio io. Ma
questa teoria, propria della psicologia associazionista, ha contro di sè il
fatto che la credenza nell’esistenza o soggettivistico del problema è apparso
sempre più debole; ed è stato anche attaccato, sulla base di osservazioni
sperimentali, dalla psicologia contemporanea. Scheler osservò che non esiste
alcun privilegio ontologico o metafisico a favore dei pensieri o dei sentimenti
che l’io chiama «miei ». Il mio pensiero mi è dato come « mio» allo stesso titolo
in cui il pensiero di un altro mi è dato come pensiero « altrui »: è questo il
caso comunissimo e normale in cui noi comprendiamo una comunicazione qualsiasi
che ci vien fatta. Tra il mio e l’altrui c'è sempre una connessione
strettissima ed essi si determinano e si condizionano vicendevolmente, senza
tuttavia che le sfere rispettive si lascino fissare mai rigidamente, come è
provato dal fatto che spesso non sappiamo dire se una certa esperienza psichica
ci venga da noi stessi o da altri (Sympathie, III, cap. III). Questo equivale a
negare il carattere privato e rigidamente soggettivo dell’Zo (v.) e a
riconoscere che esso si muove, sin dalla sua costituzione e in tutte le sue
manifestazioni, in una rete di rapporti intersoggettivi che lo costituiscono in
proprio e nella quale vengono ritagliate le sfere correlative del «mio » e del
« tuo ». Questo punto di vista si ritrova frequentemente, e anche presso scuole
diverse, nella filosofia contemporanea. Mead afferma che « l’uomo diventa un io
nella sua esperienza solo in quanto il suo atteggiamento richiama un
corrispondente atteggiamento nei rapporti sociali ». L’autocoscienza stessa o
io non è altro, in questo caso, che l’atteggiamento generalizzato degli altri
nei nostri riguardi. « Noi prendiamo il ruolo di quello che può essere chiamato
l’altro generalizzato e nel far questo appariamo come oggetti sociali, come io»
(Phil. of the Present, pag. 185). Dall’altra parte Carnap ha espresso un punto
di vista assai vicino a questo, insistendo sul carattere secondario e derivato
della distinzione tra l’io e il tu. «La stessa caratterizzazione degli elementi
fondamentali del nostro sistema costitutivo come psichicamente propri cioè come
‘psichici’ e come ‘miei’ acquista significato solo quando si sono costituiti il
campo del non psichico (contrapposto allo psichico) e del ‘tu’» (Der logische
Aufbau der Welt, $ 65). Queste notazioni dimostrano che un punto di partenza
solipsistico che pretenda fondarsi su dati cadenti nell’àmbito della coscienza
personale è sempre più difficile a sostenersi. Ed anche una filosofia come
quella di Sartre per la quale l’altra esistenza è tale in quanto non è la mia,
sicchè il rapporto interpersonale è un rapporto di negazione reciproca, e solo
la negazione è «la struttura costitutiva dell’essere altri » (L’étre et le
néant, pag. 285), si presenta come un trascendimento del cogito. « Ciò che noi
chiamiamo, in mancanza di meglio, il cogito dell’esistenza altrui, si confonde
col mio proprio cogito. Bisogna che il cogito mi getti fuori di lui sull’A.,
come mi ha gettato fuori di lui sull’in-sè e questo non già rivelandomi una mia
struttura a priori che punterebbe verso l’altro egualmente a priori, ma
scoprendo in me la presenza concreta e indubitabile di questo o quell’altro
concreto come ha già rivelato a me la mia esistenza inconfrontabile contingente
e tuttavia necessaria e concreta» (/bid., pag. 308-09). Analogamente per
Husserl l’esperienza dell’altro è una specie di Einfhlung o empatia per la
quale l’altro si costituisce per «appresentazione» come «un altro me stesso»
(Cartesianische Meditationen, $ 52). L’io stesso fa in modo che « una
modificazione intenzionale di se stesso e della sua primordialità pervenga alla
validità sotto il titolo di percezione dell’estraneità, percezione di un altro,
di un altro io» (Die Krisis, $ 54 b). ALTRUISMO (ingl. Altruism; franc.
Altruisme; ted. Altruismus). Il termine è stato creato da Comte, in opposizione
a egoismo (v.), per designare la dottrina morale del positivismo. Nel
Catechismo positivista (1852) Comte enunciò la massima fondamentale dell’A.:
vivere per gli altri. Questa massima, egli ritenne, non è contraria a tutti,
indistintamente, gli istinti dell’uomo; giacchè l’uomo possiede, accanto agli
istinti egoistici, istinti simpatetici che l'educazione poiivista può
sviluppare gradatamente sino a renderli predominanti sugli altri. Già, infatti,
le relazioni domestiche e civili tendono a contenere gli istinti personali,
quando essi suscitano conflitti tra i vari individui, e a promuovere le
inclinazioni benevole che si sviluppano spontaneamente presso tutti
gl'individui. Il termine fu sùbito accettato da Spencer (nei Principi di
psicologia, 1870-72) il quale ritenne che l’antitesi tra egoismo e A. sia
destinata a scomparire con l’evoluzione morale e farà sempre più coincidere la
sodisfazione del singolo col benessere e la felicità altrui (Data of Ethics, $
46). Come si vede il fondamento dell’etica altruistica è naturalistico, perchè
essa fa appello agli istinti naturali che portano l’individuo verso gli altri e
intende promuovere lo sviluppo di tali istinti. Il suo termine polemico è
l’etica individualistica del xvm secolo in quanto è un’etica che rivendica i
valori e i diritti dell’individuo contro quelli della società e in particolare
dello Stato. Comte, come tutto il Romanticismo (v.) obbedisce all’esigenza
opposta, che fa leva sul vaAMBIENTE 19 lore preminente dell'autorità statale e
perciò la sua etica prescrive puramente e semplicemente il sacrificio
dell'individuo. Non fa perciò meraviglia che le dottrine interessate alla
difesa dell’individuo abbiano considerato con ostilità e disprezzo la morale
dell’altruismo. Così Nietzsche, identificando l’amor del prossimo con l’A., lo
fa condannare da Zaratustra. « Voi andate al prossimo sfuggendo a voi stessi e vorreste
far di ciò una virtù; ma io leggo bene attraverso il vostro A. ... Voi non
sapete sopportare voi stessi e non vi amate abbastanza: ed ecco che volete
sedurre il vostro prossimo inducendolo all'amore e farvi belli del suo amore»
(Also sprach Zarathustra, cap. sull’Amore del prossimo). Su un terreno più
obiettivo e scientifico Scheler (Sympathie, ll, cap. I) ha negato
l’identificazione (presupposta anche da Nietzsche) dell'A. e dell’amore. Egli
ha osservato che gli atti che si dirigono verso gli altri in quanto altri non
sono sempre necessariamente « amore ». L’invidia, la cattiveria, la gioia
maligna, si riferiscono egualmente agli altri in quanto altri. Un amore che fa
completamente astrazione da se stesso poggia su un odio ancora più primitivo, cioè
l’odio verso se stesso. «Il fare astrazione da sè, il non poter sopportare il
colloquio con se stesso, son cose che non hanno niente a che vedere con l’amore
». In realtà la massima dell’A. «vivere per gli altri», se presa alla lettera,
farebbe di tutti gli uomini mezzi per un fine che non esiste; ed è perciò
contraria ad uno dei teoremi meglio stabiliti dell’etica moderna (e in generale
dell’etica) cioè a quello per il quale l’uomo non deve mai essere considerato
come un semplice mezzo, ma deve sempre avere, anche, valore di fine. AMABIMUS. V. PURPURFA. AMBIENTE
(ingl. Environment; franc. Milieu; ted. Mittel). Nel significato corrente, un complesso di rapporti
tra mondo naturale ed essere vivente, che influiscono sulla vita e sul
comportamento dello stesso essere vivente. In questo senso la parola (milieu
ambiant) fu probabilmente introdotta nell’uso dal biologo Geoffroy St.-Hilaire
(Études progressives d'un naturaliste, 1835) e ripresa e adoperata da Comte
(Cours de philosophie positive, lez. 40, $ 13 sgg.). Osservazioni
sull’influenza delle condizioni fisiche, e specialmente del clima, sulla vita
degli animali in generale e in particolare su quella dell’uomo, ed anche sulla
vita politica dell’uomo, si trovano frequentemente negli scrittori antichi (si
confronti, per es., IPPOCRATE, Arie acque luoghi, 14-24; ARISTOTELE, Pol.) e
sono state poi variamente ripetute. Nel mondo moderno si deve a Montesquieu
(Libro XIV de L’Esprit des Lois, 1748) il principio, da lui sistematicamente
sviluppato, che « il carattere dello spirito e le passioni del cuore sono
estremamente differenti nei diversi climi » e che perciò « le leggi devono
essere relative e alla differenza di queste passioni e alla differenza di
questi caratteri ». Il positivismo ottocentesco attribuì all’A. fisico e
biologico il valore di causa determinante di tutti i fenomeni propriamente
umani, dalla letteratura alla politica. L’opera letteraria e filosofica di
Ippolito Taine contribuì alla diffusione di questa tesi, secondo la quale
l’ambiente fisico, biologico e sociale determina necessariamente tutti i
prodotti e i valori umani e basta a spiegarli. Nella Filosofia dell’arte (1865)
Taine affermò che l’opera d’arte è il prodotto necessario dell'ambiente e che
conseguentemente si può derivare da questo non solo lo sviluppo delle forme
generali dell'imaginazione umana, ma anche quella che spiega le variazioni
degli stili, le differenze delle scuole nazionali, e perfino i caratteri
generali delle opere individuali. Nel mondo contemporaneo la nozione di A. è
rimasta fondamentale nelle scienze biologiche, antropologiche e sociologiche ma
si è venuta gradualmente trasformando giacchè la relazione tra l’A. e
l’organismo o l’uomo o il gruppo sociale non è stata più intesa secondo uno
schema meccanico cioè come una relazione di determinismo causale assoluto.
L’azione selettiva che l’essere, sul quale l’A. agisce, esercita nei confronti
dell’A. stesso è stato ampiamente sottolineato. « L'A. di un organismo, ha
detto Goldstein, non è qualcosa di compiuto ma si forma continuamente a misura
che l’organismo vive ed agisce. Si potrebbe dire che l’A. è estratto dal mondo
dalla esistenza dell’organismo, o meglio, per esprimersi più oggettivamente,
che un organismo non può esistere se esso non riesce a trovare nel mondo, a ritagliarsi
in esso, un A. adeguato, a condizione naturalmente che il mondo gliene offra la
possibilità » (Aufbau des Organismus, 1934, pag. 58). Analogamente, a proposito
dell’A. storico-sociale, Toynbee ha detto: « L’A. totale, geografico e sociale,
in cui è compreso sia l’elemento umano, sia il non umano, non può essere
considerato come un fattore positivo da cui le civiltà sono state generate. È
chiaro che una combinazione virtualmente identica dei due elementi dell’A. può
originare una civiltà in un caso e mancare di originare una civiltà in un
altro, senza che sia possibile da parte nostra spiegare questa differenza
assoluta nel loro sorgere con qualche sostanziale differenza nelle circostanze,
per quanto si possono definire esattamente i termini della comparazione » (A
Study of History, I, pag. 269). Questo ovviamente non significa che l’A. non
agisca affatto sulla vita e sulle creazioni degli uomini ma solo che ne è
piuttosto la condizione che la causa. I filosofi hanno sottolineato questo
nuovo significato dell'ambiente. Mead ha detto: « L’A. è una selezione che è
dipendente dalla 20 AMBIGUITÀ forma vivente» (Phil. of the Act, pag. 164).
Dall’altro lato Heidegger ha inteso la sua analisi dell’essere nel mondo (che è
determinazione essenziale dell’esistenza) quale una messa in questione e in
discussione di quella nozione di A. che la biologia non fa che presupporre
(Sein und Zeit, $ 12). AMBIGUITÀ (ingl. Ambiguity; franc. Ambiguité; ted.
Ambiguitàt). 1. Lo stesso che Equivocazione (v.). 2. Riferito a stati di fatto
o situazioni: possibilità di interpretazioni diverse o presenza di alternative
escludentisi. AMBIVALENZA (ingl. Ambivalence; francese Ambivalence; ted.
Ambivalenz). Uno stato caratterizzato dalla presenza simultanea di valutazioni
o di atteggiamenti contrastanti od opposti. Il termine è usato specialmente in
psicologia per indicare certe situazioni emotive che implicano amore e odio, e
in generale atteggiamenti opposti, nei confronti del medesimo oggetto (cfr. E.
BLeuLER, Lehrbuch der Psychiatrie, 22 ediz., 1918). AMERICA (ingl. America;
franc. Amérique; ted. Amerika). I filosofi del Romanticismo hanno avuto una
parte importante in quella « disputa del Nuovo Mondo» che, cominciata verso la
metà del *700, ancora, si può dire, perdura, a proposito dell’inferiorità o
superiorità dell'America. La tesi della debolezza o della « immaturità » delle
Americhe nasce con Buffon che esaminando comparativamente le specie animali in
A. e in Europa, concludeva che in A. «la natura vivente è assai meno attiva, è
assai meno varia e si può dire assai meno forte » (CEuvres, ediz. 1826-28, XV,
429). Le tesi di Buffon venivano polemicamente amplificate dall’abate De Paw in
uno scritto del 1768, Recherches philosophiques sur les Américains. Nelle mani
di Hegel le notazioni di Buffon e De Paw divengono, conformemente al sistema e
allo spirito di lui, «determinazioni assolute +, verità necessariamente
dedotte. L’A. è un mondo nuovo nel senso di essere immaturo e fiacco; la fauna
vi è più debole, ma in compenso la vegetazione è mostruosa. Mancano in essa i
due strumenti di progresso civile, il ferro e il cavallo (Enc., $ 339, Zus.).
L'A. è quindi un mondo nuovo nel senso che è giovane ed immaturo. Perfino il
mare tra l’A. del sud e l’Asia « manifesta una immaturità fisica anche quanto
alla sua origine ». E per tutto questo « l’A. si è sempre mostrata e si mostra
ancora impotente tanto dal punto di vista fisico quanto da quello spirituale »
(Phil. der Geschichte, ediz. Lasson, pag. 122 e sgg.). È bensì vero che, forse
proprio per questa immaturità, l'A. è «il Paese dell’avvenire, quello a cui, in
tempi futuri, forse nella lotta fra il nord e il sud, si rivolgerà l’interesse
della storia universale ». Ma Hegel aggiunge sùbito: « Come paese
dell’avvenire, essa assolutamente non ci riguarda. Il filosofo non s'intende di
profezie. Dal lato della storia noi abbiamo piuttosto a che fare con ciò che è
stato e con ciò che è, mentre nella filosofia non ci occupiamo nè di ciò che
soltanto è stato o che soltanto sarà, ma di ciò che è ed è eternamente: della
ragione; e con ciò abbiamo abbastanza da fare » (Ibid., ediz. Lasson, pag.
129). Schopenhauer dal canto suo ripeteva le osservazioni (se così possono
chiamarsi) sull’inferiorità della fauna americana e degli indigeni; e
aggiungeva, nel linguaggio fiorito delle sue invettive, una descrizione degli
Stati Uniti come di un paese prospero ma dominato da un vile utilitarismo e
dalla sua immancabile compagna, l’ignoranza, che ha aperto il cammino alla
stupida bigotteria anglicana, alla sciocca presunzione e alla brutale volgarità
congiunta a una stolta venerazione per le donne (Die Welt, II, 44; Parerga, II,
VI, $ 92). Alla stessa tendenza denigratrice non si sottrae l’altro corno del
Romanticismo, il positivismo che, per bocca di Comte, svaluta la portata della
rivoluzione americana, vede negli Stati Uniti una «colonia universale » e
considera la loro civiltà completamente priva di originalità e semplice
filiazione della civiltà inglese (Cours de phil. positive, V, 470-711; VI,
60n). D'altra parte lo stesso Romanticismo suggeriva ad Emerson un’esaltazione
mistica dell’A. altrettanto fantasica ed arbitraria delle denigrazioni dei
romantici europei (The American Scholar, 1837; The Young American, 1844). Già
Humboldt notava (Ansichten der Natur, 1807) il carattere arbitrario e
fantastico di quelle notazioni che pretendevano di essere « scientifiche » o «
speculative » e che erano soltanto dogmatizzazioni di pregiudizi. Ma con tutto
ciò gli elementi della polemica intorno al Nuovo Mondo sono rimasti per lungo
tempo e forse ancor oggi rimangono quelli che abbiamo accennato. (Per maggiori
particolari, cfr. A. GERBI, La disputa del Nuovo Mondo, Milano-Napoli,AMICIZIA
(gr. quia; ingl. Friendship; francese Amitié; ted. Freundschaft). In generale
la comunità di due o più persone legate assieme da atteggiamenti concordanti e
da affetti positivi. Gli antichi ebbero dell’A. un concetto assai più esteso di
quello che oggi viene comunemente ammesso e adoperato, come risulta
dall’analisi che Aristotele dette di essa nei libri VIII e IX dell’Etica
Nicomachea. L’amicizia è, secondo Aristotele, o una virtù o strettamente
congiunta con la virtù: comunque, è ciò che c’è di più necessario alla vita
giacchè i beni che la vita offre, come la ricchezza, il potere, ecc., non si possono
nè conservare nè adoperar bene senza gli amici (VIII, 1, 1155 a 1). L’A. va
distinta in primo luogo dalle due cose AMMIRAZIONE 21 cui sembra più
strettamente affine, cioè dall’amore e dalla benevolenza. Essa si distingue
dall’amore (ptc) perchè l’amore è simile ad un’affezione (v.), l’A. a un abito
(v.). Sicchè l’amore si può rivolgere anche a cose inanimate, mentre il
riamare, che è proprio dell’A., implica una scelta che deriva da un abito
(VIII, 5, 1157b 28). Inoltre, all'amore si accompagnano l’eccitazione e il
desiderio, che sono estranei all’A.; ed esso, a differenza dell’A., è provocato
dal godimento che dà la vista della bellezza (IX, 5, 1166b 30). Si distingue
poi dalla benevolenza perchè questa può dirigersi anche verso gli ignoti e può
rimanere nascosta: il che non accade dell’A. (IX, 5, 1167 a 10). L’A. è
certamente una specie di concordia, ma una concordia che non riposa
sull’identità delle opinioni ma piuttosto, come la concordia delle città,
sull’armonia degli atteggiamenti pratici, sicchè a giusto titolo si chiama « A.
civile » la concordia politica (IX, 6, 1167 a 22). L’A. è poi certamente una
comunità nel senso che l’amico si comporta verso l’amico come verso se stesso
(IX, 12, 1171 b 32). Ci sono tante specie di amicizie quante sono le comunità,
cioè le parti della società civile: quella tra i naviganti, quella tra i
soldati, quella tra coloro che fanno un qualsiasi lavoro comune (VIII, 9, 1159b
25). Vi può essere anche A. tra il padrone e lo schiavo, se lo schiavo è
considerato, non più soltanto come uno strumento animato, ma come un uomo. Solo
nella tirannide c'è poca o nulla A.: giacchè in essa non c’è niente in comune
tra chi comanda e chi obbedisce, e l’A. è tanto più forte quante più sono le
cose comuni tra uguali (VIII, 11, 1161 b 5). Ci sono, anche, tante A. quante
sono le forme dell'amore: quella del padre col figlio, del giovane col vecchio,
del marito con la moglie. Quest’ultima è quella più naturale e ad essa si
congiungono l’utilità e il piacere (VIII, 12, 1161b 11). Quanto al fondamento
dell’A., esso può essere o l’utilità reciproca o il piacere o il bene; ma è
chiaro che mentre un’A. fondata sull’utilità o sul piacere è destinata a finire
quando il piacere o l’utilità cessano, l’A. fondata sul bene è la più stabile e
ferma ed è quindi la vera A. (VIII, 3, 1156 a 6 sgg.). Quest’analisi
aristotelica, che è la più compiuta e bella che la filosofia abbia mai dato del
fenomeno dell’A., s’incardina sui seguenti punti: 1° I’A. è una certa comunità
cioè una partecipazione solidale di più persone ad atteggiamenti, valori o beni
determinati; 2° essa è collegata con l’amore e ne segue le forme ma non
s’identifica con l’amore; 3° essa si avvicina piuttosto alla benevolenza ed è
perciò collegata con gli affetti positivi, cioè con quelli che implicano
sollecitudine, cura, pietà, ecc. L'A. è così, secondo Aristotele, più estesa
dell'amore, che è limitato e condizionato dal godimento della bellezza. Ed è
diversa dall’amore per il suo carattere attivo e selettivo, onde Aristotele
dice che l’amore è un’affezione (r&80c) cioè una modificazione subita
mentre l’A. è un abito (come un abito è la virtù) cioè una disposizione attiva
e impegnativa della persona. Dopo Aristotele, l’A. trovò i suoi esaltatori
negli Epicurei che ne fecero uno dei capisaldi della loro etica e della loro
condotta pratica. Essa assume però presso questa scuola un carattere
aristocratico; è una delle manifestazioni della vita del saggio, non già, come
la riteneva Aristotele, collegata ai rapporti umani come tali. Ritornano nelle
testimonianze epicuree che ci sono rimaste alcune notazioni aristoteliche, per
es., questa: « L’A. è nata dall’utile ma essa è un bene per sè. Amico non è chi
cerca sempre l’utile nè chi non lo congiunge mai con l’A.: giacchè il primo
considera l'A. come un traffico di vantaggi, il secondo distrugge la fiduciosa
speranza di aiuto che è tanta parte dell’A.» (Sent. Var., 39-24, Bignone). Col
prevalere del Cristianesimo l’importanza dell'A. come fenomeno umano primario,
decade nella letteratura filosofica. Il concetto più esteso e più importante
diventa quello dell'amore, dell'amore del prossimo, che manca dei caratteri
selettivi e specifici, che Aristotele aveva riconosciuto all’amicizia. Difatti
« prossimo » è colui col quale c’imbattiamo o che è comunque in rapporto con
noi, chiunque esso sia, amico o nemico. La massima aristotelica dell’A.,
«comportarsi verso l’amico come verso se stesso », vedere in lui « un altro se
stesso » (Er. Nic., IX, 9, 1170 b 5; IX, 12, 1171 b 32), viene estesa dal
Cristianesimo a tutto il prossimo. AMMIRAZIONE (gr. Gavpdtew; lat. Admiratio; ingl.
Wonder; franc. Admiration; ted. Bewunderung, Staunen). Secondo gli antichi l’A. è il principio della
filosofia. Platone dice: « Questa emozione, questa A. è propria del filosofo;
nè la filosofia ha altro principio fuori di questo; e chi affermò che Iride è
figliola di Taumante non ha secondo me tracciato male la genealogia» (7eet.,
11, 155d). E Aristotele: «In virtù dell'A., gli uomini cominciarono per la
prima volta a filosofare ed anche ora filosofano: da principio cominciarono ad
ammirare le cose intorno a cui era più facile il dubbio, poi procedettero a
poco a poco a dubitare anche delle cose maggiori, come, ad es., delle affezioni
della luna e di ciò che concerne il sole e le stelle e della generazione
dell’universo. Colui che dubita e ammira sa di ignorare; perciò il filosofo è
anche amatore del mito: il mito consiste infatti di cose mirabili» (Mer., I, 2,
982b 12 sgg.). Al principio dell’età moderna Cartesio ha espresso lo stesso concetto:
« Quando ci si presenta qualche oggetto insolito e che giudichiamo nuovo o
diverso da ciò che prima conoscevamo o 22 AMMISSIONE supponevamo che fosse,
questo oggetto fa sì che noi lo ammiriamo e ne restiamo sorpresi; e poichè ciò
accade prima che noi sappiamo se l’oggetto ci sia utile o meno, l’A. mi appare
come la prima di tutte le passioni; ed essa non ha opposto perchè se l’oggetto
che si presenta non ha in sè niente che ci sorprenda, noi non siamo affetti da
esso e lo consideriamo senza passione» (Passions de lame, II, 53). Su questo
punto la differenza tra Cartesio e Spinoza è grande: Spinoza considerò l’A.
solo come l’imaginazione di una cosa a cui la mente rimane attenta per essere
essa priva di connessione con altre cose (E:., III, 52 e scol.) e si rifiutò di
considerarla come una emozione primaria e fondamentale, tanto meno come una
emozione filosofica o che sia all'origine della filosofia. L'unico
atteggiamento filosofico è per lui l’amore intellettuale di Dio, la
contemplazione imperturbabile e beata della connessione necessaria di tutte le
cose nella Sostanza divina. Per Aristotele e per Cartesio l’A. è invece
l’atteggiamento che è alla radice del dubbio e della ricerca: è il prender
coscienza di non comprendere ciò che si ha davanti e che, anche se è per altri
rapporti familiare, ci si rivela, ad un certo punto, inspiegabile e
meraviglioso. Kant parlava dell'A. a proposito della finalità della natura, in
quanto è inesplicabile con i concetti dell’intelletto (Crit. del Giud., $ 62).
A sua volta Kierkegaard definiva l’A. come «il sentimento appassionato del
divenire» e la riteneva propria del filosofo che considera il passato, come un
segno della non necessità del passato. «Se il filosofo non ammira nulla (e come
potrebbe senza contraddizione ammirare una costruzione necessaria?) egli è con
ciò estraneo alla storia; giacchè dovunque entra in gioco il divenire (che
certamente è nel passato) l’incertezza di ciò che è sicuramente divenuto
(l’incertezza del divenire) non può esprimersi che mediante questa emozione
necessaria al filosofo e propria di lui » (Philosophische Brocken, p. IV, $ 4).
Whitehead ha detto «la filosofia nasce dell’A.» (Nature and Life, 1934, 1).
AMMISSIONE (ingl. Admission; franc. Admission; ted. Aufnahme). Una
proposizione, che si assume da altri (in quanto altri l'hanno già proposta
oppure in quanto si trova ad essere comunemente adoperata) allo scopo di
fondare su di essa un qualche ragionamento o di effettuare a partire da essa
una qualche inferenza. Oppure: l’atto di assumere una proposizione siffatta. La
proposizione ammessa può essere ritenuta o vera o falsa o probabile o
indifferente; se la si ritiene vera la si chiama un assioma; se probabile,
un’ipotesi; se indifferente, un postulato. Ma essa può essere ammessa anche solo
allo scopo di confutarla, mediante una riduzione all’assurdo. Dall’assurzione
(v.) l'A. si distingue in quanto concerne una proposizione la cui scelta o
proposta, come base di un ragionamento, è già stata fatta da altri. AMORALE,
AMORALISMO (ingl. Amoral, Amoralism; franc. Amoral, Amoralisme; ted.
Amoralisch, Amoralismus). L’aggettivo «A.» designa propriamente ciò che è
indifferente alle valutazioni morali: in questo senso un uomo A. è un uomo
sulla cui condotta i giudizi sul bene e sul male non hanno alcuna presa e che
perciò si regola indipendentemente da essi. Il termine « amoralismo » designa
invece una professione di amoralità e perciò la pretesa di prescindere dai
valori della morale currente e di sostituirvi altri valori; in questo senso
esso è stato spesso adoperato per designare l’atteggiamento di Nietzsche (v.
TRASMUTAZIONE DEI VALORI). AMOR DI SÉ (gr. puavria; ingl. Self-love; franc.
Amour de soi; ted. Selbstliebe). Quest’espressione non deve essere confusa nè
con « amor proprio » che significa vanità, o, nel migliore dei casi, senso di
fierezza o di orgoglio, nè con egoismo (v.). Aristotele distinse la filautia,
che è una virtù, dall’egoismo volgare di chi ama se stesso in quanto vuole
attribuirsi la maggior parte di lucro, di piaceri e di onori. « Il filautos,
egli disse, è piuttosto colui che si appropria del bello e del bene e si dà ad
esso in signoria e gli obbedisce in tutto » (Er. Nic., IX, 8, 1168 a, 28). In
altre parole, chi ama se stesso nel vero senso, non pretende la parte maggiore
del piacere, degli onori o del lucro, ma la parte maggiore del bene e del
bello, cioè l'esercizio della virtù. In senso analogo, S. Tommaso afferma che
l’uomo ama se stesso quando ama la sua natura spirituale, non quella corporea e
che in tal senso egli deve amare se stesso dopo Dio ma prima di qualsiasi
altro; sicchè, per es., non può sopportare d’incorrere in peccato per liberare
il prossimo dal peccato (S. 7A., II, II, q. 26, a. 4). Nell’età moderna,
Malebranche (nella Première lettre au R. P. Lamie) ha ripreso la distinzione
tra amor proprio e A. considerando il primo come la fonte di tutte le
sregolatezze umane e il secondo invece come il principio di tutti gli sforzi
per il compimento del dovere. La distinzione fu ripresa da Vauvenargue (De
l’esprit humain, 24): «Con l’amore di noi stessi si può cercare la propria
felicità fuori di sè. Si può amare qualcosa fuori di sè più che la propria
esistenza e non si è per se stessi l’unico oggetto. L’amor proprio al contrario
subordina tutto alle proprie comodità e al proprio benessere, e ha in se stesso
l’unico oggetto e l’unico fine; sicchè mentre le emozioni che vengono dall’A.
dànno noi alle cose, l’amor proprio vuole che le cose si diano a noi e fa di sè
il centro di tutto ». Kant, pur considerando l’A. di sì come una specie
dell’egoismo (inteso però nel senso più generale di desiderio AMORE 23 della
felicità) lo distingueva come benevolenza verso di sè (o philautia) portata
all’estremo, dalla compiacenza verso se stesso (o arrogantia) e lo riteneva
suscettibile di accordarsi con la legge morale e di diventare «amore razionale
di sè » (Crit. R. Prat., libro I, cap. III, A 129). Le analisi di Scheler hanno
insistito sul carattere non egoistico dell’A. di sé: «L’amore orientato verso i
valori e, per il loro tramite, verso gli oggetti che ne sono i portatori, senza
preoccuparsi di sapere a chi appartengono questi valori, se a ‘ me’ o ad
‘altri’ » (Symparhie, II, cap. I, $ D. AMORE (gr. tpwc, dyamn; lat. Amor, Caritas; ingl. Love; franc.
Amour; ted. Liebe). I significati che
questo termine presenta nel linguaggio comune sono molteplici, disparati e
contrastanti; e altrettanto molteplici, disparati e contrastanti sono quelli
che esso presenta nella tradizione filosofica. Cominceremo con l’accennare agli
usi più correnti del linguaggio comune, per selezionarli e ordinarli e
servircene come criterio per selezionare e ordinare gli usi filosofici del
termine stesso: @) in primo luogo con la parola A. si designa il rapporto
intersessuale, quando questo rapporto è selettivo ed elettivo ed è perciò
accompagnato dall’amicizia e da affetti positivi (sollecitudine, tenerezza,
ecc.). Dall’A. in questo senso si distinguono spesso le relazioni sessuali a
base puramente sensuale, che sono fondate non già sulla scelta personale ma
sull'’anonimo ed impersonale bisogno di rapporti sessuali. Spesso però lo
stesso linguaggio comune estende anche a questo tipo di rapporti la parola A.,
come quando si dice « fare all’A. +; 5) in secondo luogo la parola A. designa
una vasta gamma di rapporti inter-personali; come quando si parla dell’A.
dell'amico per l’amico, del padre per il figlio o reciprocamente, dei cittadini
tra di loro, dei coniugi tra di loro; c) in terzo luogo si parla dell’A. per
cose od oggetti inanimati: per es., l’A. del denaro, dei quadri, dei libri,
ecc.; d) in quarto luogo si parla dell’A. per oggetti ideali: per es., l'A.
della giustizia, del bene, della gloria, ecc.; e) in quinto luogo si parla
dell’A. per attività o forme di vita: A. del lavoro, della propria professione,
del gioco, del lusso, del divertimento, ecc.; f) in sesto luogo si parla di A.
per comunità o enti collettivi: per es., amor di patria, amor di partito, ecc.;
g) in settimo luogo si parla di A. del prossimo e di A. di Dio. Indubbiamente
alcuni di questi significati si possono eliminare come impropri perchè possono
essere espressi e designati più esattamente da altre parole. Così: a) per ciò
che riguarda il rapporto inter-sessuale lo si può designare come A. solo quando
esso è a base elettiva e implica l’impegno personale reciproco. Si potrà così
evitare di designare come « A.» il rapporto sessuale occasionale o anonimo. Per
ciò che concerne gli usi indicati sotto c) (cioè A. di oggetti inanimati), è
chiaro che qui la parola « A.» sta per desiderio di possesso, quando tale
desiderio raggiunge la forma dominante della passione. E per ciò che concerne
gli usi indicati sotto d) (A. di oggetti ideali) è anche chiaro che la parola «
A.» sta qui per indicare un certo impegno morale atto a segnare limiti e
condizioni all’attività dell’individuo. Infine per ciò che riguarda e) (A. di
attività, ecc.) la parola « A.» sta ad indicare un certo interesse più o meno
dominante, cioè tutivi dell’A. non può essere determinato una volta per tutte
giacchè esso è diverso a seconda delle forme o delle specie diverse dell’A. ed
implica anche gradi diversi di intimità, di intrinsichezza e di forma emotiva.
Per es., l’A. tra uomo e donna o quello tra padre e figlio o quello tra
cittadini o quello tra uomini che si considerano l’un l’altro come « prossimo
», hanno differenti basi biologiche, culturali e sociali e non si lasciano
ricondurre a uno stesso tipo o forma di solidarietà, di concordia e di
compartecipazione emotiva. Bisognerà pertanto tenere presente questa diversità
nella considerazione dell’uso che i filosofi hanno fatto del termine, giacchè
spesso quest’uso si modella su uno o più tipi particolari di esperienza
amorosa. I Greci videro nell’A. soprattutto una forza unitiva e armonizzatrice
e la intesero sul fondamento dell'A. sessuale, della concordia politica e
dell'amicizia. Secondo Aristotele (Mer., I, 4, 984 b 25 sgg.), Esiodo e
Parmenide furono i primi a suggerire che l’A. è la forza che muove le cose e le
porta e le mantiene insieme. Empedocle riconobbe nell’A. la forza che tiene
uniti i quattro elementi e nella discordia la forza che li separa: il regno
dell’A. è lo sfero, la fase culminante del ciclo cosmico, nella quale tutti gli
elementi sono legati nella più completa armonia. In questa fase non c’è nè il
sole, nè la terra, nè il mare perchè non c’è altro che un tutto uniforme, una
divinità che gode della sua solitudine (Fr. 27, Diels). Pla24 AMORE tone ci ha
data la prima trattazione filosofica dell'A.: da essa vengono assunti e
conservati i caratteri dell’A. sessuale; e nello stesso tempo tali caratteri
vengono generalizzati e sublimati. In primo luogo, l’A. è mancanza,
insufficienza, bisogno e nello stesso tempo desiderio di acquistare e
conservare ciò che non si possiede (Conv., 200 a, seguenti). In secondo luogo
l'A. si dirige verso la bellezza la quale non è altro che l'annuncio e
l’apparenza del bene, ed è quindi desiderio del bene (/bid., 205 e). In terzo
luogo l’A. è desiderio di vincere la morte (com’è dimostrato dall’istinto di
generare proprio di tutti gli animali) ed è quindi la via attraverso la quale
l’essere mortale cerca di salvarsi dalla mortalità, non rimanendo sempre lo
stesso, come fa l'essere divino, ma lasciando dopo di sè in cambio di ciò che
invecchia e muore, qualcosa di nuovo che gli somiglia (/bid., 208 a, b). In
quarto luogo, Platone distingue tante forme dell’A. quante sono le forme del
bello, a cominciare dalla bellezza sensibile e a finire alla bellezza della
sapienza, che è la più alta di tutte e il cui A., cioè la filosofia, è quindi
il più nobile (Ibid., 210 a, sgg.). Il Fedro è diretto appunto a mostrare la
via attraverso la quale l’A. sensibile può diventare amor di sapienza, cioè
filosofia, e il delirio erotico diventare una virtù divina, che allontana dai
modi di vita consueti e impegna l'uomo alla difficile ricerca dialettica
(Fedro, 265 b, seguenti). Questa dottrina platonica dell’A., mentre contiene
gli elementi di un’analisi positiva del fenomeno, offre anche il modello di una
metafisica dell'A. che doveva varie volte essere ripresa nella storia della
filosofia. Aristotele si ferma, invece, alla considerazione positiva
dell'amore. Per lui l’A. o è l’A. sessuale o è l'affetto tra consanguinei © tra
persone comunque congiunte da un rapporto solidale, o è l'amicizia (v.). In
generale l’A. e l'odio come tutte le altre affezioni dell'anima, appartengono
non all’anima come tale ma all’uomo in quanto è composto di anima e corpo (De
An., I, 1, 403 a, 3) e pertanto vengono meno col venir meno della unione di
anima e corpo (/bid., I, 4, 408 b, 25). Aristotele inoltre riconosce all’A.
quel fondamento di bisogno, imperfezione o deficienza, sul quale Platone aveva
insistito. La divinità, egli dice, non ha bisogno di amicizia giacchè essa è il
suo proprio bene a se stessa, mentre a noi il bene viene da altro (Et. Eud.,
VII, 12, 1245b 14). L’A. è quindi un fenomeno umano e non c’è da meravigliarsi
che di esso Aristotele non faccia alcun uso nella sua teologia. Esso è
un’affezione, cioè una modificazione passiva, mentre l’amicizia è un abito,
cioè una disposizione attiva (Ef. Nic., VIII, 5, 1157 b 28). AIl’A. si
congiunge la tensione emotiva e il desiderio: nessuno è preso da A. se non sia
stato prima colpito dal godimento della bellezza; ma questo godimento di per sè
non è ancora A., che si ha soltanto se si desidera l’oggetto amato quando è
assente e se lo si brama quando è presente (/bid., IX, 5, 1167 a 5). L’A. che è
legato al piacere può cominciare e finire rapidamente ma può anche dar luogo
alla volontà di vivere insieme; e in questo caso assume la forma dell’amicizia
(/bid., VII, 3, 1156 b 4). Se l’analisi aristotelica dell'A. è priva di
riferimenti metafisici e teologici, bisogna ricordare che l'ordinamento
finalistico del mondo e la teoria del primo motore immobile conducono
Aristotele a dire che Dio, come primo motore, muove altre cose «come oggetto
d°A.+, cioè come termine del desiderio che le cose hanno di raggiungere la
perfezione di lui (Met., XII, 7, 1072b 3). Questa notazione sarà largamente
adoperata dalla filosofia medievale. Sul finire della filosofia greca, il
neoplatonismo ha adoperato la nozione dell’A. non già per definire la natuogni
« prossimo»; dall’altro lato esso si trasforma in un comando, che non ha
connessioni con le situazioni di fatto e che si propone di trasformare queste
situazioni e di creare una comunità che non esiste ancora ma che dovrà rendere
tutti gli uomini come fratelli: il regno di Dio. L’A. del prossimo diventa il
comando della nonresistenza al male (MatT., 5, 44); ela parabola del buon
Samaritano (Luc., 10, 29 sgg.) tènde a definire l'umanità cui l’A. deve
dirigersi, non nel suo senso composto, ma nel suo senso diviso, come ogni
persona con la quale ciascuno venga a contatto; la quale proprio come tale fa
appello alla sollecitudine e all’A. del cristiano. Inoltre, nella concezione
cristiana, Dio stesso risponde con l'A. all’A. degli uomini, perciò il suo
attributo fondamentale è quello di « Padre». Le Lettere di S. Paolo,
identificando il regno di Dio con la Chiesa e considerando nella Chiesa il «
corpo di Cristo » di cui i cristiani sono le membra (Rom., 12, 5 sgg.) fanno
dell’A. (&y&mm) che è il vincolo della comuAMORE 25 nità religiosa, la
condizione della vita cristiana. Tutti gli altri doni dello Spirito, la
profezia, la scienza, la fede, sono nulla senza di esso. « L’A. sopporta tutto,
ha fede in tutto, spera tutto, sostiene tutto... Ci sono ora la fede, la
speranza, l’amore, queste tre cose; ma l’amore è la maggiore di tutte » (Cor.,
I, 13, 7-13). L’elaborazione teologica che il Cristianesimo subì nel periodo
della Patristica non ha da principio utilizzata la nozione dell’amore. Nei
grandi sistemi della Patristica orientale (Origene, Gregorio di Nissa) la terza
persona della Trinità, lo Spirito Santo, è intesa come una potenza subordinata
di carattere incerto: di qui, anche, le frequenti dispute trinitarie che il
concilio di Nicea (325) non riuscì ad eliminare del tutto. Soltanto per opera
di S. Agostino, con l’identificazione dello Spirito Santo con l’A. (mentre Dio
Padre è l’Essere e Dio Figlio è la Verità) l’A. viene introdotto esplicitamente
nella stessa essenza divina e diventa un concetto teologico, oltre che morale e
religioso. L’A. di Dio e l'A. del prossimo si uniscono in S. Agostino quasi a
formare un concetto unico. Amare Dio significa amare l’A.; ma, dice Agostino,
«non si può amare l’A. se non si ama chi ama». Non è A. quello che non ama
nessuno. L'uomo perciò non può amare Dio, che è l’A., se non ama l’altro uomo.
L'A. fraterno fra gli uomini «non solo deriva da Dio, ma è Dio stesso» (De
Trin., VIII, 12): è la rivelazione di Dio, in uno dei suoi aspetti essenziali,
alla coscienza degli uomini. La nozione dell’A. rimane tuttavia in S. Agostino
quella che era per i Greci, una specie di rapporto, unione o vincolo che lega
un essere con l’altro: quasi «una vita che unisce o tende ad unire due esseri,
l’amante e ciò che si ama » (2bid., VII, 6). Le notazioni agostiniane vengono
riprese frequentemente lungo tutto lo sviluppo di una delle principali correnti
della Scolastica medievale, cioè dell’Agostinismo (v.): da Giovanni Scoto
Eriugena a Giovanni Duns Scoto. Scoesseri creati; ma 1’A. intellettuale, che è
carità e virtù, è più perfetto del primo, quindi, aggiungendosi ad esso, lo
perfeziona, nel modo stesso in cui la verità soprannaturale si aggiunge, senza
contrastarla, alla verità naturale e la perfeziona (S. Th., I, g. 60, a. 1).
Quanto all’A. intellettuale, cioè alla carità, questa è definita da S. Tommaso
come « l’amicizia dell’uomo verso Dio »: intendendosi per « amicizia +, secondo
il significato aristotelico, l'A. che è congiunto con la benevolenza (amor
benevolentiae) cioè che vuole il bene di colui che si ama, e non vuole
semplicemente appropriarsi del bene che è nella cosa amata (amor
concupiscientiae) come accade in chi ama il vino o un cavallo. Ma l’amicizia
suppone non solo la benevolenza ma anche il mutuo A. e così si fonda su una
certa comunicazione, che, nel caso della carità, è quella dell’uomo con Dio,
che comunica a noi la Sua beatitudine (/bid., II, 2, q. 23, a. 1). Questa
comunione è, secondo S. Tommaso, ciò che c'è di proprio nell’A.: esso è una
specie di unione o vincolo (unio ve/ nexus) di natura affettiva, che è simile
all’unione sostanziale in quanto chi ama si comporta verso l’amato come verso
se stesso. Una unione reale è poi anche l’effetto dell’A.; ma si tratta di
un'unione che non àltera o corrompe coloro che si uniscono ma si mantiene nei
limiti opportuni e convenienti: per es., fa sì che parlino e dialoghino insieme
o si cogiungano in altri modi siffatti (/bid., II, 1, q. 28, a. 1, ad 2°). In
quanto « amare » significa voler il bene di qualcuno, l'A. appartiene alla
volontà di Dio e la costituisce. Ma l'amor di Dio è diverso da quello umano
perchè mentre quest’ultimo non crea la bontà delle cose ma la trova
nell’oggetto da cui è suscitato, l’A. di Dio infonde e crea la bontà nelle cose
stesse (bid., I, q. 20, a. 2). La speculazione teologica sull’A. ritorna nel
platonismo rinascimentale; ma questo accentua la reciprocità dell'A. tra Dio e
l’uomo, conformemente alla tendenza propria del Rinascimento a insistere sul
valore e la dignità dell’uomo come tale. Mar26 AMORE silio Ficino afferma che
l’A. è il legame del mondo e abolisce l’indegnità della natura corporea che
viene riscattata dalla sollecitudine di Dio (Theo/. Plat., XVI, 7). L’uomo non
potrebbe amare Dio, se Iddio stesso non lo amasse; Dio si rivolge al mondo con
un libero atto di A., prende cura di esso e lo rende vivo ed attivo. L’A.
spiega la libertà dell’azione divina come quella dell’azione umana, giacchè
esso è libero e nasce spontaneamente dalla libera volontà (In Conv. Piat. de
Am. Comm., V, 8). E gli stessi accenti ritornano nei Dialoghi d’A. di Leone
Ebreo che ebbero vastissima diffusione nella seconda metà del ’500. Ma anche
nel naturalismo del Rinascimento l’A. ritorna talvolta come forza metafisica e
teologica. Campanella ritiene che le tre primalità dell’essere (cioè i principi
costitutivi del mondo) siano il Potere, il Sapere e l’A. (Mer., VI, proem.).
L’A. infatti appartiene a tutti gli enti perchè tutti amano il loro esszione di
A. si può considerare, nella tradizione filosofica, come un portato
dell’agostinismo; almeno fino al Romanticismo dal quale questa nozione viene
ricondotta ad un senso panteistico, il cui precedente più importante è Spinoza.
Bisogna poi tener presente che l’uso teologico della nozione di A. implica non
solo che Dio sia oggetto d’A. (il che non è negato da nessuna concezione
cristiana della divinità) ma che Egli stesso ami: il che è cosa completamente
diversa e che per l’appunto si ritrova soltanto nell’agostinismo, nel
Romanticismo e in talune concezioni che, come quella di Feuerbach e del
positivismo moderno, tendono a identificare Dio con l’umanità. In realtà l’A.,
nel suo concetto classico, che si modella sulla esperienza umana, ha come sua condizione
la mancanza, e quindi il desiderio e il bisogno, di ciò che si ama;
difficilmente può essere pertanto attribuito a Dio che nella sua completezza e
infinità si sottrae a ogni deficienza. La concezione panteistica dell’A., per
es., come quella di Spinoza, di Schelling e di Hegel, si sottrae a questa
difficoltà solo interpretando l’A. come unità o coscienza dell’unità, cioè in
un modo che non trova riscontro in qualsiasi tipo di esperienza amorosa.
L’unità, sia essa o no cosciente di sè, non ha niente a che fare con l’A. ed è
anzi la negazione di esso perchè esclude il rapporto e la comunità che
costituiscono l’A. in tutte le sue manifestazioni. È abbastanza ovvio che dove
c'è una cosa sola non c’è nè chi ami nè chi sia amato. Alla tradizione agostiniana
si possono riportare le famose parole di Pascal: «Il Dio di Abramo, il Dio di
Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei Cristiani, è un Dio di A. e di
consolazione, è un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli ch’Egli
possiede e fa loro sentire interiormente la loro miseria e la Sua misericordia
infinita » (Pensées, 556, Brunschwicg). Ma è dubbio che in questo o simili
testi di Pascal si possa vedere molto più della nozione che Dio è, in primo
luogo e soprattutto, oggetto d'amore. Quanto a Malebranche, egli afferma che
Dio ha creato il mondo « per procurarsi un onore degno di Lui» (Recherche de la
vérité, IX) e fa dire al Verbo: «È la mia potenza che fa tutto, così il bene
come il male... perciò tu devi amare solo me perchè nessuno all’infuori di me
produce in te i piaceri che tu sperimenti in occasione di ciò che accade nel
tuo corpo » (Medirations chrétiennes, XII, 5); parole che sembrano escludere la
dottrina di Dio come amore. Le notazioni di Cartesio intorno al fenomeno
dell’A., riportato alla scala umana, sono importanti. «L’A., egli dice, è
un’emozione dell’anima prodotta dal movimento degli spiriti vitali che la
incita a congiungersi volontariamente con gli oggetti che le appaiono
convenienti». In quanto è prodotta dagli spiriti l’A., che è un’affezione e
dipende dal corpo, è diversa dal giudizio che anche induce l’anima, di sua
libera volontà, a unirsi con le cose che essa crede buone (Pass. de l’dme, II,
79). L'A. si distingue altresì dal desiderio, che è rivolto al futuro; esso
consente invece di considerarsi sùbito uniti con ciò che si ama «in modo tale
che noi imaginiamo un tutto di cui siamo solo una parte e di cui la cosa amata
è l’altra parte » (Ibid., 80). Cartesio rigetta la distinzione medievale tra A.
di concupiscenza e A. di benevolenza perchè, egli dice, questa distinzione
concerne gli effetti dell’A. ma non l’essenza di esso: in quanto siamo
volontariamente congiunti con qualche oggetto, quale che sia la natura di
questo, abbiamo per esso un senso di benevolenza e questo è uno dei principali
effetti dell’A. (/bid., 81). Ci sono tuttavia varie specie dell’A., relative ai
diversi oggetti che possiamo amare: I’A. che un uomo ambizioso ha per la
gloria, il povero per il denaro, l’ubbriacone per il vino, un uomo brutale per
una donna che desidera violare, l’uomo d’onore per l’amico o per la moglie e un
buon padre per i suoi figli, sono AMORE 27 specie diverse e tuttavia simili
dell'amore. Le prime quattro tuttavia, sono A. solo del possesso degli oggetti
ai quali l'emozione si dirige e non sono A. degli oggetti in se stessi; le
altre invece si dirigono verso questi stessi oggetti e desiderano il bene di
essi (/bid., 82). Di questa natura è anche l’amicizia; la quale, per di più, è
legata alla stima della persona amata; sicchè non si può avere amicizia per un
fiore, un uccello, un cavallo, ma solo per gli uomini (/bid., 83). In generale,
quando stimiamo l'oggetto dell'A. meno di noi stessi, proviamo per esso un
semplice affetto (v.); quando lo stimiamo come noi stessi, proviamo amicizia; e
quando lo stimiamo più di noi stessi proviamo devozione. Di quest’ultima il
principale oggetto è ovviamente Dio, ma essa può dirigersi anche alla patria,
alla città e a qualsiasi uomo che stimiamo molto più di noi stessi (/bid., 83).
Sulla stessa linea si trova l’analisi di Hume secondo il quale l’A. è
un’emozione indefinibile, di cui però si può intendere il meccanismo. La causa
di essa è sempre un essere pensante (non si possono amare oggetti inanimati) e
il meccanismo con cui questa causa agisce è costituita da una doppia
connessione: una connessione di idee — tra l’idea di sè e l’idea dell’altro
essere pensante — e una connessione emotiva tra l’emozione dell’A. e quella
dell’orgoglio (che è l’emozione che ci mette in rapporto col nostro io); o tra
l’emozione dell'odio e quella dell’umiltà (Diss. on the Passions, II, 2). In
generale gli scrittori del ’700 insistono sulla connessione dell’A. con la
benevolenza: che è il tratto su cui aveva insistito Aristotele a proposito
dell'amicizia. Leibniz ha espresso nella forma più chiara, che doveva essere
ripetuta numerose volte nella letteratura del ’700, questa nozione dell’amore.
« Quando si ama sinceramente una persona, egli dice (Op. Phil., ed. Erdmann,
pag. 789790) non si cerca il proprio profitto nè un piacere staccato da quello
della persona amata, ma si cerca il proprio piacere nell’appagamento e nella
felicità di questa persona; e se questa felicità non piacesse di per se stessa
ma solo a causa di un vantaggio che ne risulta per noi, non si tratterebbe più
di un A. sincero e puro. Occorre dunque che si provi immediatamente piacere in
questa felicità e che si provi dolore nell’infelicità della persona amata;
giacchè ciò che dà immediatamente piacere di per se stesso è anche desiderato
di per se stesso come costituente (almeno in parte) lo scopo dei nostri intenti
e come qualcosa che entra nella nostra propria felicità e ci dà sodisfazione ».
Questa nozione dell’A. toglie, secondo Leibniz, il contrasto fra due verità,
cioè tra quella che è impossibile per noi di desiderare altra cosa se non il
nostro proprio bene e quella che non c’è A. se non quando cerchiamo il bene
dell’oggetto amato di per se stesso e non per nostro proprio vantaggio. Questa
nozione ha anche il vantaggio, secondo Leibniz, di esser comune all’A. divino e
all’A. umano perchè esprime ogni tipo di A. « non mercenario », qual è, per
es., la caritas o « benevolenza universale » (Op. Phil., pagina 218). Va da sè
che in questo senso l’A. può rivolgersi solo a « ciò che è capace di piacere o
di felicità »; sicchè non si può dire, se non per metafora, che amiamo le cose
inanimate di cui godiamo (Nouv. Ess., II, 20, 4). Notazioni di questo genere
sono assai frequenti negli scrittori del °700. Wolff dice che l’A. è «la
disposizione dell’anima a prender piacere dalla felicità altrui (Psicho!.
empirica, $ 633). E Vauvenargues afferma: « L'A. è il compiacersi nell’oggetto
amato. Amare una cosa significa compiacersi del suo possesso, della sua grazia,
del suo accrescimento, temere la sua privazione, i suoi decadimenti, ecc. + (De
l’esprit humain, $ 24). Nessuno degli scrittori del ”700 mette in dubbio il
fondamento sensibile dell’A.: fondamento per il quale esso si differenzia
dall’amicizia. Vauvenargues, per es., dice: « Nell’amicizia lo spirito è
l'organo del sentimento, nell’A. sono i sensi» (/bid., $ 36). E Kant sembra
ammettere questo presupposto quando distingue risolutamente l’A. sensibile o «
patologico » dall’A. « pratico » cioè morale, che è comandato dalla massima
cristiana « Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso ». L’amor
di Dio, come inclinazione, dice Kant, è impossibile perchè Dio non è un oggetto
dei sensi. E un simile A. verso gli uomini è bensì possibile, ma non può esser
comandato, perchè non è in potere di nessuno amare un altro solamente per
precetto. « Amar Dio» può significare quindi soltanto «eseguire volentieri i
suoi comandamenti +; e «amare il prossimo » soltanto « mettere in pratica
volentieri tutti i doveri verso di esso». Ma qui la parola « volentieri » dice
che la massima cristiana non impone che di aspirare a questo A. pratico senza
che esso sia raggiungibile da parte degli esseri finiti. Difatti sarebbe
inutile e assurdo «comandare » ciò che si fa « volentieri »; perciò il precetto
evangelico presenta l’intenzione morale nella sua perfezione totale «come un
ideale di santità non raggiungibile da nessuna creatura e che tuttavia è
l’esemplare a cui dobbiamo procurare di avvicinarci con un progresso
ininterrotto ma infinito» (Crit. R. Prat., I, I, cap. 3) (v. FanaTISMO). La
dottrina di Spinoza presenta due concetti dell’A., dei quali il secondo doveva
essere utilizzato dai Romantici. In primo luogo l’A. come ogni altra emozione
(affectus) è un’affezione dell’anima (passio) e precisamente consiste nella
gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna (Zr., III, 28 AMORE 13
scol.). In questo senso si deve dire, propriamente parlando, che Dio non ama
alcuno giacchè esso non è soggetto ad alcuna affezione (/bid., V, 17, corol.).
Ma esiste poi un « A. intellettuale di Dio » che è la visione di tutte le cose
nel loro ordine necessario, cioè in quanto derivano, con eterna necessità,
dall’essenza stessa di Dio (/bid., V, 29 scol.; 32 corol.). Questo A.
intellettuale è il solo eterno ed è quello con ui Dio ama se stesso; sicchè l’A.
intellettuale della mente verso Dio è parte dell’A. infinito con cui Dio ama se
stesso. « Ne consegue, dice Spinoza, che Dio, in quanto ama se stesso, ama gli
uomini e per conseguenza che l’A. di Dio verso gli uomini e l’A. intellettuale
della mente verso Dio, sono la medesima cosa» (4bid., V, 36 corol.). Questo A.
è ciò in cui consiste la nostra salvezza o beatitudine, o libertà; ed è ciò che
nei libri sacri si chiama « gloria » (/bid., scol.). È chiaro che esso non è
più un’affezione, nè una emozione nel senso che Spinoza ha dato a tali termini,
ma è la pura contemplazione di Dio, anzi, poichè la mente che contempla Dio non
è che un attributo di Dio, quest’A. non è altro che la contemplazione che Dio
ha di sè, come unità di se stesso e del mondo. Qui il concetto dell’A. cessa di
riferirsi all’esperienza umana: diventa il concetto metafisico dell’unità di
Dio con se stesso e col mondo, quindi con tutte le manifestazioni del mondo,
uomini compresi. Questo concetto doveva diventare centrale e dominante nel Romanticismo
(v.) della prima metà dell’800, che s’impernia tutto sul tentativo di
dimostrare l’unità (cioè la totale identità e intrinsichezza) del finito e
dell’Infinito. Schleiermacher fa di quest’unità, in quanto si rivela nella
forma del sentimento, il fondamento della religione; Fichte, Schelling e Hegel
fanno della stessa unità, da essi posta come principio della ragione, il
fondamento della filosofia. Ma fu per l’appunto quest’unità che consentì ai
Romantici di elaborare una teoria dell’A., per la quale l’A. stesso, pur
rivolgendosi a cose o creature finite, vede o coglie, in queste, le espressioni
o i simboli dell’Infinito (cioè dell’Assoluto o di Dio). Per l’unità del finito
e dell’Infinito, infatti, l’aspirazione all’Infinito può giungere al suo appagamento
anche nel mondo finito, per es., nell’A. verso la donna. A., poesia, unità di
finito e d’Infinito e sentimento di quest’unità, diventano sinonimi per i
romantici. Federico Schlegel è forse colui che ha espresso meglio questi
concetti. « La sorgente e l’anima di tutte le emozioni, egli dice, è l’A.; e lo
spirito dell'A. deve nella poesia romantica esser presente ovunque, invisibile
e visibile... Le passioni galanti alle quali nella poesia dei moderni,
dall’epigramma alla tragedia, non si può sfuggire, sono il grado minimo di
quello Spirito, o piuttosto, secondo i casi, la lettera estrinseca di esso o
null’affatto o qualcosa di non amabile e privo di amore. No, è il Soffio divino
che ci commuove nei suoni della musica. Esso non si lascia prendere a forza o
meccanicamente afferrare, ma amichevolmente attirare dalla bellezza mortale e
in essa velare: anche le magiche parole della poesia possono essere penetre e
animate dalla sua forza. Ma nella poesia dove non è o non può essere
dappertutto, esso non è affatto. Esso è una Sostanza infinita e non aderisce e
non rivolge il suo intero ». Essi sono reciprocamente indipendenti solo in
quanto « possono morire». L'A. è superiore a tutte le opposizioni e ad ogni
molteplicità. Queste notazioni romantiche ritornano nelle opere mature di
Hegel. « L’A., egli dice, esprime in generale la coscienza della mia unità con
un altro, sicchè io per me non sono isolato, ma la mia autocoscienza si afferma
solo come rinunzia al mio essere per sè e attraverso il sapermi come l’unità di
me con l’altro e dell’altro con me » (Fil. del dir., $ 158, aggiunta). «La vera
essenza dell’A., dice ancora Hegel nelle Lezioni di estetica, consiste
nell’abbandonare la coscienza di sè nell’obliarsi in un altro se stesso e
tuttavia nel ritrovarsi e possedersi veramente in quest’oblio » (Vorles. iiber
die Aesta nozione romantica, che vede nell’A. la totalità della vita e
dell’universo nella forma di un « sentimento infinito » che è fine a se stesso,
si ritrova in tutta la tradizione letteraria del Romanticismo, e specialmente
nella narrativa, a cominciare dalla Lucinda di Schlegel. Questa stessa nozione
ha anche penetrato di sè il costume e la vita dei popoli occidentali sino, si
può dire, ai giorni nostri: nei quali ancora l’aggettivo «romantico » sembra il
più adatto a definire la natura di un sentimento esaltato e tendente a
infinitizzarsi, in cui l’aspetto spirituale e l’aspetto sensuale si complicano
e si limitano l’un l’altro, dando luogo a vicende interiori di cui ci si
compiace di seguire le più minute sfumature, esagerandone l’importanza e il
valore. Fa parte anche dell’A. romantico, in quanto il suo proprio oggetto è
l’infinito, o meglio l’infinita unità e identità, l’insistenza sull’A. come
aspirazione,desiderio o brama, che invece di trovare sodisfazione nell’atto
sessuale, teme di essere diminuito o indebolito da quest’atto e tende ad
evitarlo. La «lontananza » è ritenuta dai Romantici come un mezzo che favorisce
i sogni voluttuosi; perciò l’A. romantico subisce di regola un raffreddamento
alla presenza dell’oggetto amato. Ma la concezione romantica dell’A. si trova
anche in filosofie e indirizzi che sono diversi dal Romanticismo o almeno non
ne condividono tutti i caratteri. Schopenhauer distingue nettamente l’A.
sessuale (*pwc) e l'A. puro (iy&rm). L'A. sessuale è semplicemente
l’emozione di cui si serve il « genio della specie » per favorire l’opera
oscura e problematica della propagazione della specie (Metaf. delPA. sessuale).
Ma il «genio della specie» non è che la cieca, malvagia e disperata « volontà
di vivere +, che costituisce la sostanza dell’universo, il suo « noumeno ».
L’A. sessuale non è quindi che la manifestazione in forma fenomenica e cioè
sotto l’apparenza della diversità e della molteplicità degli esseri viventi,
dell’unica forza che regge il mondo. Quanto all’A. puro, esso non è altro che
compassione e la compassione è la conoscenza dell’altrui dolore. Ma l’altrui
dolore è poi il dolore del mondo, il dolore della stessa volontà di vita divisa
in se stessa e lottante contro se stessa nelle sue manifestazioni fenomeniche:
al di là delle quali, l’A. come compassione è la percezione dell’unità
fondamentale (Die Welt, I, $ 67). In tal modo la nozione romantica dell’A. come
sentimento dell’unità cosmica, rimane nella teoria di Schopenhauer. Ed essa
rimane anche nell’analisi di un suo seguace, Edoardo von Hartmann, che la rende
più esplicita affermando che l’A. è l’identificazione dell’amante e dell’amato;
una specie di allargamento dell’egoismo mediante l’assorbimento di un io da parte
di un altro io, onde il senso più profondo dell’A. consiste nel trattare
l’oggetto amato come se fosse, nella sua essenza, identico con l’io che ama. Se
quest’unità e identità non ci fossero, afferma Hartmann, l’A. stesso sarebbe
un'illusione; ma Haduo dell’altro sesso) ma semplicemente la tendenza alla
produzione e alla riproduzione di sensazioni voluttuose relative alle
cosiddette « zone erotogene +; tendenza che si manifesta sin dai primi istanti
della vita umana. L’impulso sessuale specifico è una formazione tarda e
complessa, formazione che d’altronde non è mai completa come è dimostrato dai
pervertimenti sessuali, così vari e numerosi. Questi pervertimenti non sono
quindi, secondo Freud, deviazioni da un impulso primitivo normale ma modi di
comportamento che rimontano ai primi istanti della vita, che si sono sottratti
ad uno sviluppo normale e si sono fissati nella forma di una fase primitiva (v.
PsicANALISI). Dalla libido si sviluppano, secondo Freud, le forme superiori
dell’A. mediante l’inibizione e la sublimazione. La inibizione ha la funzione
di mantenere la /ibido nei limiti compatibili con la conservazione della
specie; e da essa derivano le emozioni morali, in primo luogo quelle della
vergogna, del pudore, ecc., che tendono a immobilizzare e a contenere le ma30
AMORE nifestazioni della /ibido. Nell’inibizione della libido e dei suoi
contenuti obiettivi, prendono radici le nevrosi. La sublimazione invece, si ha
quando la libido si distacca dal suo contenuto primitivo, cioè dalla sensazione
voluttuosa e dagli oggetti che vi si connettono, per concentrarsi su altri
oggetti, che saranno in questo modo amati di per se stessi, indipendentemente
dalla loro capacità di produrre sensazioni voluttuose. Sulla sublimazione d non
contiene nessun elemento adatto a spiegare la scelta che è presente in tutte le
forme dell’A. e che manca completamente nei comportamenti istintivi, che sono
ciechi ed anonimi. Eppure, lo stesso Freud insiste sul valore della scelta
nella sua critica dell’A. universale. « Alcune persone, dice Freud, si rendono
indipendenti dall’acquiescenza dei loro oggetti trasferendo il valore
principale dal fatto di essere amate al loro proprio atto di amare; esse si
proteggono contro la perdita dell’oggetto amato rivolgendo il loro A., non a
oggetti individuali, ma a tutti gli uomini egualmente, ed evitano le incertezze
e le delusioni dell’A. genitale distogliendosi dallo scopo sessuale di esso e
trasformando l’istinto in un impulso a intento inibito. Lo stato che esse
inducono in se stesse con questo processo — un immutabile, non deviabile
atteggiamento tenero — ha poca somiglianza superficiale con le tempestose
vicende dell’A. genitale, ma è tuttavia derivato da questo » (Civilisation and
its Discontents, pag. 69). Le obiezioni che Freud fa a questo tipo di A. sono
due: esso non discrimina tra i suoi oggetti il che si risolve in un’ingiustizia
verso questi oggetti stessi; e in secondo luogo non tutti gli uomini sono degni
di amore. Se io amo qualcuno, dice Freud, egli dev'essere degno di quest’A. in
un modo o in un altro: ne sarà degno perchè è così simile a me in qualche
aspetto importante che io posso amare me stesso in lui; o perchè è molto più
perfetto di me sicchè io posso amare in lui il mio ideale di me stesso; o
perchè è il figlio del mio amico del quale intendo condividere gli affetti e le
pene. Ma se non c’è alcun motivo specifico di amarlo, l’amarlo sarà assai
difficile per me e sarà un’ingiustizia per quelli che sono degni del mio A.
giacchè porrò questi ultimi allo stesso livello di lui. Ed inoltre l’A. che
potrò dargli, come adempienza al precetto dell’A. universale, sarà soltanto una
piccolissima parte di quello che, per tutte le leggi della ragione, io sono
autorizzato a dare a me stesso. In conclusione il comando di amare il nostro prossimo
come noi stessi è la più forte difesa contro l'aggressività umana ed è
l’esempio superlativo dell’atteggiamento anti-psicologico del super-ego
culturale. Ma è un comando impossibile a rispettarsi: tale un’enorme inflazione
di A. potrebbe solo abbassare il valore e non sarebbe un rimedio del male»
(/bid., pag. 139-41). Queste considerazioni presuppongono ovviamente che l’A.
implica una scelta motivata dal valore riconosciuto o attribuito all’oggetto
amato; ma proprio questo elemento di scelta non trova posto nella dottrina di
Freud, tutta fondata sul principio del carattere istintivo della libido da cui
ogni A. deriva. La critica di Freud all'«A. universale» è importante e, per
qualche aspetto, decisiva per l’orientamento contemporaneo intorno al problema
dell’amore. Tuttavia Freud ha diretto questa critica contro un bersaglio
sbagliato, il precetto evangelico dell'A. del prossimo: il vero bersaglio di
essa è la nozione modeall’uomo nella sua finitudine. Ma nonostante questo
trasferimento, la nozione rimane la stessa; e l’A. è infatti inteso da
Feuerbach, romanticamente, come unità e identità: «l’unità di Dio e dell’uomo,
dello spirito e della natura ». L’A. « non ha plurale ». L’incarnazione stessa,
per Feuerbach come per Hegel, non è che «il puro, assoluto A., senza aggiunta,
senza distinzione tra l’A. divino e l’umano » (/bid., pag. 82). Sulla base di
questa nozione Feuerbach ha delineato la progressiva estensione dell’A.
dall’oggetto sessuale, al bambino, al figlio, dal figlio al padre e finalmente
AMORE 31 alla famiglia, alla gente, alla tribù, ecc.: la quale estensione
sarebbe dovuta al moltiplicarsi delle azioni reciproche e perciò della
reciproca dipendenza degl’istituti e degl’interessi vitali. Il termine ultimo
di quest’estensione progressiva sarebbe « la umanità nel suo complesso +, che
come tale è l’oggetto più alto dell'A. e l'ideale morale per eccellenza.
Sull’A. esteso a tutta l’umanità hanno fondato la loro etica gli scrittori
positivisti e specialmente Comte e Spencer; e su di esso si è pure fondata
l’etica del neo-criticismo tedesco quale si trova, per es., espressa in Cohen.
In questi indirizzi i termini « umanità» e « A.» diventano sinonimi perchè
significano l’unità degli esseri umani e qualche volta, addirittura, l’unità
cosmica secondo il concetto romantico. Le forme dell'A. vengono da questo punto
di vista classificate secondo la maggiore o minore estensione del circolo di
oggetti cui l’A. si estende. Così l’A. della patria sarebbe inferiore all’A.
dell’umanità, l’A. della famiglia inferiore all’A. della patria e l’A. di se
stesso inferiore a quello che si prova per un amico. Scheler ha mostrato
(Natura e forma della simpatia, 1923) il carattere fittizio di questa gerarchia
che pretende ridurre le varietà autonome dell'A. ad un'unica forma che avrebbe
gradi diversi a seconda dell’estensione del circolo umano che costituisce il
suo oggetto. Le sue osservazioni a questo proposito coincidono sostanzialmente
con quelle già accennate di Freud: il valore dell’A. diminuisce, mon
s’accresce, a misura che l’A. si estende a un numero di oggetti maggiore:
giacchè, io generale, l’A. di ciò che è prossimo ha più valore dell’A. di ciò
che è lontano, almeno finchè si rivolge ad un essere vivente; e Nietzsche ha
avuto torto a contrapporre (in Così parlò Zaratustra) l’A. del lontano all’A.
del prossimo. Scheler ha negato il presupposto stesso della dottrina dell’A.
universale: la nozione romantica dell’A. come unità o identificazione. L’A., e
in generale la simpatia in tutte le sue forme (v. Simpatia), implica, e nello
stesso tempo, fonda, la diversità delle persone. Ti senso dell’A. consiste
proprio nel non considerare e nel non trattare l’altro come se fosse identico a
sè. «L’A. vero, dice Scheler (Sympathie, I, cap. IV, $ 3) consiste nel
comprendere sufficientemente un’altra individualità modalmente differente dalla
mia, nel potermi mettere al suo posto pur mentre la considero altra da me, che
in linea di principio si orientano verso le qualità vitali che chiamiamo più «
nobili ». Ma se l’A. sessuale domina la sfera vitale esistono altre forme di A.
corrispondenti alla sfera spirituale e alla sfera religiosa; e queste forme
sono varietà qualitativamente diverse, qualità primordiali e irriducibili le
une alle altre, che fanno pensare ad una preformazione, nella struttura
psichica dell’uomo, dei rapporti elementari che esistono tra uomo e uomo
(/bid.). Tra queste forme non c’è tuttavia l’A. dell'umanità. L'umanità può
essere amata come individuo unico ed assoluto solo da Dio; il cosiddetto A.
dell’umanità è perciò soltanto l’A. dell’uomo medio di una certa epoca cioè dei
valori correnti in quest'epoca, che interessano i sostenitori di questa forma
di amore. La quale, secondo Scheler, non è altro che risentimento, cioè odio
per i valori positivi impliciti in « paese natale », « popolo », « patria », 4
Dio», odio che sostituendo l’umanità a questi portatori di valori
specificamente superiori cerca di darsi e di dare l'illusione dell’A. (/bid.).
Le analisi di Scheler sono, nella filosofia contemporanea, il primo tentativo
di sottrarre la nozione dell’A. all’ideale romantico dell’assoluta unità. Si
può scorgere tuttavia la suggestione e l’azione di quest’ideale in due dottrine
contemporanee, apparentemente eterogenee; la dottrina dell'A. mistico di
Bergson e la dottrina dell’A. sessuale di Sartre. Secondo Bergson la formula
del misticismo è questa: «Dio è A. e oggetto d’A.» (Deux sources de la morale et de
la religion, III; trad. ital., pag. 275). Per quanto si possa dubitare dell’esattezza della
prima parte di questa formula, perchè difficilmente si può riscontrare nei
mistici la tesi che Dio ami l’uomo (ciò che Dio offre all'uomo che lo ama è la
salvezza e la beatitudine e la partecipazione alla sua «gloria +), ciò che
Bergson intende dire è che lo slancio mistico si realizza come un’unità fra
l'uomo e Dio. « Non c’è più separazione completa fra chi ama e chi è amato: Dio
è presente e la gioia è senza limiti» (/bid., pag. 252). Per quest’unità, l’A.
dell'uomo verso Dio è l'A. di Dio per tutti gli uomini. « Attraverso Dio, con
Dio egli ama tutta l’umanità di A. divino ». Ma questo A. non è la fraternità
dell’ideale razioè di stampo romantico, non meno romantico è l’* amor profano »
di Sartre. Il presupposto dell’analisi di Sartre è che l’A. sia il tentativo o,
per meglio dire, il progetto di realizzare l’unità o l’assimilazione tra l’io e
l’altro. Questa esigenza di unità o di assimilazione, è, dalla parte dell’io,
l’esigenza che esso sia per l’altro una totalità, un mondo, un fine assoluto.
L’A. è, fondamentalmente, un voler essere amato; e voler essere amato significa
« voler situarsi al di là di tutto il sistema dei valori posto dagli altri,
come la condizione di ogni valorizzazione e come il fondamento oggettivo di
tutti i valori» (L’étre et le néant, pag. 436). La volontà di essere amato è
così la volontà di valere per l’altro come l’infinito stesso. « Lo sguardo
dell’altro non mi permea più di finitudine, non immobilizza più il mio essere
in ciò che sono semplicemente; io non potrò essere guardato come brutto, come
piccolo, come vile, perchè questi caratteri rappresentano necessariamente una
limitazione di fatto del mio essere e un’apprensione della mia finitudine come
finitudine » (/bid., pag. 437). Ma affinchè l’altro possa considerarmi così,
occorre che esso possa volere, cioè che sia libero: perciò il possesso fisico,
il possesso dell’altro come cosa è, nell’A., insodisfacente e deludente.
Occorre che l’altro sia libero per volermi amare e per vedere in me l'infinito.
Il che vuol dire che occorre che si mantenga « come pura soggettività, come
l’assoluto per il quale il mondo viene all’essere » (/bid., pag. 455). Ma qui
appunto è il conflitto e lo scacco inevitabile dell’A.: giacchè da un lato
l’altro esige da me la stessa cosa che io esigo da lui, cioè d'essere amato e
di valere per me come la totalità infinita del mondo; e dall’altro, proprio per
voler ciò, per amarmi, «mi delude radicalmente col suo stesso A.: io esigevo da
lui che egli fondasse il mio essere come oggetto privilegiato, mantenendosi
come pura soggettività nei miei confronti; e, dal momento che mi ama, mi
riconosce invece come soggetto e s’inabissa nella sua oggettività di fronte
alla mia soggettività » (Ibid., pag. 444). In altri termini ognuno, nell’A.,
vuol essere per l’altro l’oggetto assoluto, il mondo, la totalità infinita; ma
per questo occorre che l’altro rimanga soggettività libera e altrettanto
assoluta. Ma poichè entrambi vogliono esattamente la stessa cosa, l’unico
risultato dell’A. è un conflitto necessario e uno scacco inevitabile. C'è bensì
un’altra via di realizzare l'assimilazione dell’uno e dell’altro, che è
esattamente l’inversa di quella ora descritta: in luogo di progettare di
assorbire l’altro conservandogli la sua alterità posso progettare di farmi
assorbire dall’altro e di perdermi nella sua soggettività per sbarazzarmi della
mia. In questo caso, invece di cercare di esistere per l’altro come
oggettolimite, come mondo o totalità infinita, cercherò di farmi trattare come
un oggetto fra gli altri, come uno strumento da utilizzare, in una parola, come
una cosa. Si avrà allora l’atteggiamento masochista. Ma il masochismo stesso è
e dev’essere uno scacco perchè si avrà un bel volere diventare un semplice
strumento inanimato, una cosa umile, ridicola od oscena; si dovrà, per l’appunto,
volerlo cioè valere, a questo scopo, come soggettività libera (/bid., pag.
346-47). Non c'è pertanto salvezza nell’A.: il conflitto e lo scacco gli sono
intrinsecamente necessari. D'altronde un conflitto analogo Sartre vede anche
nel semplice desiderio sessuale, di cui così definisce « l’ideale impossibile
»: « Possedere la trascendenza dell’altro come pura trascendenza e tuttavia
come corpo: ridurre l’altro alla sua semplice fattualità, perchè esso è allora
nel mezzo del mio mondo, ma fare che questa fattualità sia una rappresentazione
perpetua della sua trascendenza nullificante » (/bid., pag. 463-64). E come
l’A. può tendere al masochismo come a un’illusoria soluzione del suo conflitto,
così il desiderio sessuale tende al sadismo cioè alla non reciprocità dei
rapporti sessuali, al godimento d’essere «potenza possessiva e libera nei
confronti di una libertà imprigionata dalla carne » (/bid., pag. 469). Non c’è
dubbio che l’analisi di Sartre, assai ricca di notazioni e di riferimenti,
rappresenti un esame spregiudicato di certe forme che l’A. può assumere ed
assume, e dei conflitti cui esse mettono capo. Ma si tratta delle forme dell’A.
romantico e delle sue degenerazioni. L'A. di cui parla Sartre è il progetto
della fusione assoluta fra due infiniti; e due infiniti non possono che
escludersi e contraddirsi. Voler essere amato significa per Sartre voler essere
la totalità dell’essere, il fondamento dei valori, il tutto e l’infinito: cioè
il mondo o Dio stesso. E l’altro, l'amato, dovrebbe essere un soggetto altrettanto
assoluto ed infinito, capace di dare assolutezza ed infinità a chi lo ama. Sono
evidenti i presupposti romantici di quest’impostazione. L’unità assoluta ed
infinita che il Romanticismo classico ingenuamente postulava come una realtà
garantita dell'A. diventa, in Sartre, un progetto inevitabilmente destinato
allo AMORE 33 scacco. Quello di Sartre è un Romanticismo deluso e consapevole
del suo fallimento. È tuttavia palese nella filosofia contemporanea la tendenza
anti-romantica a togliere all’A. il suo carattere d’infinità, cioè la sua
natura « cosmica » o «divina» e a circoscriverlo in limiti più ristretti e
precisabili. Russell ha messo in luce la fragilità dell’A. romantico che
pretende di essere la totalità della vita e va invece rapidamente incontro
all’esaurimento e al fallimento. « L’A., egli ha detto, è ciò che dà valore
intrinseco a un matrimonio e, come l’arte e il pensiero, è una delle cose
supreme che fanno la vita degna di essere vissuta. Ma sebbene non ci sia un
buon matrimonio senza A., i migliori matrimoni hanno uno scopo che va al di là
dell'amore. L’A. reciproco di due persone è troppo circoscritto, troppo
separato dalla comunità per essere per se stesso lo scopo principale di una
buona vita. Esso non è in se stesso una fonte sufficiente di attività, non è
sufficientemente prospettivo per costituire un’esistenza in cui si possa
trovare una sodisfazione ultima. Esso diventa presto o tardi retrospettivo, è
una tomba di gioie morte, non una sorgente di nuova vita. Questo male è inseparabile
da ogni scopo che può essere raggiunto solo in un’unica emozione suprema. I
soli scopi adeguati sono quelli i quali insistono sul futuro che non possono
mai essere pienamente raggiunti ma sono sempre in crescendo e infiniti come
l’infinità della ricerca umana. Solo quando l’A. è legato a qualche scopo
infinito di questa specie, può avere la serietà e la profondità di cui è capace
» (Principles of Social Reconstruction, pag. 192). Con ciò l’A. non è negato ma
ricondotto ai limiti che lo definiscono. « Un uomo, dice ancora Russell, che
non ha mai veduto le cose belle in compagnia della donna amata, non ha
conosciuto appieno il magico potere che tali cose possiedono. Inoltre l’A. è in
grado di spezzare il duro nòcciolo del proprio io perchè è una specie di
collaborazione biologica nella quale le emozioni dell’uno sono necessarie alla
sodisfazione degli istintivi propositi dell’altro » (La conquista della
felicità; trad. ital., pag. 42). In questo senso esso, tuttavia, non richiede
il sacrificio delle persone che si amano ma costituisce piuttosto un
arricchimento e un compimento delle loro personalità. Non richiede neppure
l’ammutolimento dello spirito critico da ambe le parti ma piuttosto il rispetto
della reciproca autonomia e la fedeltà agli impegni presi. Per questo è
indispensabile la realizzazione dell’uguaglianza di condizione morale e
giuridica tra i sessi ed anche una trasformazione e una liberalizzazione delle
regole morali che ora restringono e inibiscono in modo troppo rigido i rapporti
sessuali. Dall'altro lato però, «il rapporto sessuale senza A. ha un valore 3 —
ABBAGNANO, Dirfonario di filosofia. minimo e deve essere considerato come un
primo esperimento, tale da dare un concetto approssimativo dell’A.» (Marriage
and Morals, cap. IX; trad. ital, pag. 118). Uno sguardo d’insieme alle teorie
di cui si è fatto cenno mostra che in esse ricorrono due nozioni fondamentali
dell’A., all’una o all’altra delle quali ciascuna di esse può essere
agevolmente ricondotta. La prima è quella dell’A. come un rapporto che non
annulla la realtà individuale e l'autonomia degli esseri tra i quali
intercorre, ma tènde a rafforzarle, mediante uno scambio reciproco emotivamente
controllato di servizi e di cure di ogni genere, scambio nel quale ognuno cerca
ilbene dell’altro come suo proprio. In questo senso ’A. tènde alla reciprocità
ed è sempre reciproco nella sua forma riuscita: la quale tuttavia potrà sempre
dirsi un’urione (di interessi, d’intenti, di propositi, di bisogni, nonchè
delle emozioni correlative) ma mai un’ unità » nel senso proprio del termine.
In questo senso l’A. è un rapporto finito tra enti finiti, suscettibile della
più grande varietà di modi in conformità con la varietà di interessi,
propositi, bisogni, e relative funzioni emotive, che possono costituirne la
base oggettiva. « Rapporto finito » significa rapporto non necessariamente
determinato da forze ineluttabili, ma condizionato da elementi e situazioni
atte a spiegarne le modalità particolari. Significa altresì rapporto soggetto
alla riuscita come alla non riuscita e, anche nei casi più favorevoli,
suscettibile di riuscite solo parziali e di stabilità relativa. In questo caso,
ovviamente, l’A. non è mai «tutto» e non costituisce la soluzione di tutti i
problemi umani. Ogni tipo o specie di A., e, in ogni tipo o specie, ogni caso
di esso, sarà delimitato e definito, nel rapporto che lo costituisce, da quei
particolari interessi, bisogni, aspirazioni, preoccupazioni, ecc., la cui
compartecipazione costituirà di volta in volta la base o il motivo dell'amore.
Specificamente, l’A. potrà essere definito come il controllo emotivo di tali
tipi o modi di compartecipazione e dei comportamenti corrispondenti. Il valore
di questo controllo emotivo può essere reso ovvio da qualche osservazione, Per
es., la fedeltà nell’A. non ha valore se deriva non dal controllo emotivo, ma
da una fredda nozione del dovere; e d’altra parte certe infedeltà non intaccano
necessariamente l’amore. In questi limiti in cui l'A. è un fenomeno umano, per
la descrizione del quale termini come « unità », « tutto », « infinito », «
assoluto » sono fuori luogo, l’A. perde di sostanza cosmica quanto guadagna
d’importanza umana; e il suo significato, oggettivamente constatabile, per la
formazione, la conservazione, l’equilibrio della personalità umana, diventa
fondamentale. La nozione dell’A. in questo senso è quella 34 AMOR FATI
illustrata da Platone, Aristotele, S. Tommaso, Cartesio, Leibniz, Scheler,
Russell. La seconda ricorrente teoria dell’A. è quella che vede in esso
un'unità assoluta o infinita, ovvero la coscienza, il desiderio o il progetto
di tale unità. Da questo punto di vista l’A. cessa di essere un fenomeno umano
per diventare un fenomeno cosmico o meglio ancora la natura del Principio o
della Realtà suprema. La riuscita o la non riuscita dell'amore umano diventa
indifferente ed anzi, l’A. umano, come aspirazione all’identità assoluta, e
come tentativo da parte del finito di identificarsi con l’Infinito, viene
condannato preventivamente all’insuccesso e ridotto ad un’aspirazione unilaterale,
per la quale la reciprocità è deludente e che si contenta di vagheggiare la
vaga forma di un ideale sfuggente. Due sono le conseguenze di tale concetto
dell'amore. La prima è l’infinitizzazione delle vicende amorose che,
considerate come modi o manifestazioni dell’Infinito, acquistano un significato
e una portata sproporzionata e grottesca senza rapporto con l’importanza reale
che esse hanno per la personalità umana e per i rapporti di essa con gli altri.
La seconda è che ogni tipo o forma di A. umano viene destinato allo scacco; e
la stessa riuscita di tale A., constatabile nella reciprocità, nella
possibilità della compartecipazione, viene assunta come il segno di questo
scacco. Questi due atteggiamenti si possono agevolmente riscontrare nella letteratura
romantica sull’amore. Questa nozione dell'A. è quella che si trova difesa da
Spinoza, Hegel, Feuerbach, Bergson, Sartre. AMOR FATI. Espressione usata da
Nietzsche come « formula per la grandezza dell’uomo » e che significa: «Non
voler nulla di diverso da quello che è, non nel futuro, non nel passato, non
per tutta l’eternità. Non solo sopportare ciò che è necessario, ma amarlo». La
formula esprime l’atteggiamento proprio del superuomo e la natura dello 4
spirito dionisiaco » in quanto è accettazione integrale ed entusiastica della
vita in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più sconcertanti, tristi e
crudeli (Ecce Homo, passim; Wille zur Macht, ed. Krònee la situazione o
l’oggetto nei suoi elementi, sicchè un procedimento analitico si dice riuscito quando
tale risoluzione è stata compiuta. Il procedimento venne adoperato da
Aristotele nella logica della dimostrazione (apodittica) con lo scopo di
risolvere la dimostrazione nel sillogismo, il sillogismo nelle figure, le
figure nelle proposizioni (An. pr., I, 32, 47a 10). Nella logica del ’600, la
differenza fra analisi e sintesi cominciò ad essere esposta come la differenza
tra due metodi di insegnamento. « L’ordine didascalico, diceva Jungius, o è
sintetico cioè compositivo o analitico cioè risolutivo ». L'ordine sintetico va
«dai princìpi al principiato, dai costituenti al costituito, dalle parti al
tutto, dai semplici ai composti » ed è quello adoperato dal logico, dal
grammatico, dall’architetto e anche dal fisico quando passa dalle piante agli
animali o dagli esseri meno perfetti a quelli più perfetti. L'ordine analitico
procede per la via opposta ed è proprio del fisico e dell’etico, in quanto
quest’ultimo passa, ad es., dalla considerazione del fine a quella dell’azione
onesta (Logica Hamburgensis, 1638, IV, cap. 18). Non più come diversi metodi
d’insegnamento, ma come diversi procedimenti di dimostrazione vennero
considerate l’analisi e la sintesi a partire da Cartesio. Dice Cartesio: « La
maniera di dimostrare è duplice: l’una dimostra attraverso l’A. o risoluzione,
l’altra attraverso la sintesi o composizione. L’A. dimostra la vera via per la
quale la cosa è stata metodicamente inventata e fa vedere come gli effetti
dipendano dalla causa... La sintesi, al contrario, quasi esaminando le cause dai
loro effetti (benchè la prova che essa contiene vada sovente dalle cause agli
effetti) dimostra in verità chiaramente ciò che è contenuto nelle sue
conclusioni e si serve di una lunga serie di definizioni, postulati, assiomi,
teoremi, problemi » (Rép. aux II Ob.). Cartesio stesso nota come gli antichi
geometri si fossero serviti prevalentemente della sintesi (come infatti fecero
PapPo, VII, 1 sgg. e ProcLOo, Comm. al I libro di Euclide, pag. 211,
Friedlein), mentre egli ha preferito l'A. perchè questa via « sembra la più
vera e la più adatta per insegnare». Hobbes ripeteva sostanzialmente queste
considerazioni (De Corpore, VI, $ 1-2) e la Logica di Porto Reale chiamava l’A.
« metodo d’invenzione » e la sintesi « metodo di composizione » o « metodo di
dottrina » (Log., IV, 2). Questo punto di vista sanzionava la superiorità del
procedimento analitico nella filosofia moderna. Tale superiorità è presupposta
anche da Leibniz che definisce l’A. dal punto di vista logico-linguiANALISI 35
stico: « L'A. è questa: un qualsiasi termine dato sia risolto nelle sue parti
formali, cioè si ponga la definizione di esso; queste parti siano a loro volta
risolte in parti, cioè si dia la definizione dei termini della definizione, e
così via sino alle parti semplici cioè ai termini indefinibili » (De Arte
Combinatoria, Op., ed. Erdmann, pag. 23 a-b). Con altre parole Newton diceva la
stessa cosa: « Con la via dell'A. noi possiamo procedere dai composti agli
ingredienti e dai movimenti alle forze che li producono; e in generale dagli
effetti alle loro cause e dalle cause particolari alle generali, sinchè il
ragionamento termina alle più generali » (Opticks, 1704, Ill, 1, q. 31; ed.
Dover, pag. 404). Wolff contrapponeva nello stesso senso il metodo analitico e
il metodo sintetico: « Si chiama analitico il metodo dal quale le verità sono
disposte nell’ordine in cui furono trovate o almeno in cui potevano essere
trovate. Si dice sintetico il metodo dal quale le verità sono disposte in modo
che ciascuna possa essere più facilmente intesa e dimostrata a partire
dall’altra » (Log., $ 885). Non diverso è il significato che Kant dette
all’opposizione dei due metodi. Più particolarmente nel De Mundi Sensibilis
atque intellegibilis forma et ratione, I, $ 1, nota, egli distinse due
significati di A.: uno qualitativo che è «il regresso a rationato ad rationem»
l’altro quantitativo (di cui dichiara di avvalersi) che è «il regresso dal
tutto alle sue parti possibili cioè mediate, cioè alle parti delle parti,
sicchè l’A. non è la divisione ma la suddivisione del composto dato ». Kant si
avvalse di questo procedimento in tutte le sue tre opere principali, in
ciascuna delle quali la parte positiva fondamentale è costituita da una «
Analitica ». Procedimento analitico è, secondo Kant, quello proprio della «
logica generale » in quanto «risolve l’intera opera formale dell’intelletto e
della ragione nei suoi elgni caso di determinare gli elementi veri o effettivi
che condizionano queste attività, in contrasto con gli elementi apparenti o
fittizi (o « dialettici »). Naturalmente il metodo analitico non ha niente a
che fare con i giudizi analitici. «Il metodo analitico in quanto si oppone al
sintetico è tutt’altra cosa che un complesso di giudizi analitici: esso vuol
dire soltanto che si parte da ciò che è oggetto della questione, come dato, per
risalire alle condizioni che lo rendono possibile » (Pro/., $ 5, nota). Hegel
fissò in modo analogo il carattere fondamentale del procedimento analitico
quando scrisse: « Anche quando il conoscere analitico procede a rapporti che
non sono una materia data esteriormente ma determinazioni di pensiero, rimane
ciò nondimeno analitico in quanto per esso anche questi rapporti sono dati»
(Wissenschaft der Logik, III, III, II, A a; trad. ital., pag. 295). Il
riconoscimento di dati si può infatti assumere come il crattere fondamentale
del procedimento analitico, quello che più profondamente lo distingue dal
sintetico (v. FiLosoFia). Nella filosofia e in generale nella cultura moderna e
contemporanea la tendenza analitica, cioè la tendenza a riconoscere nell’A. il
procedimento della indagine, si è estesa e si è manifestata feconda. Questa
tendenza coincide sostanzialmente con la tendenza empiristica (nel senso
metodologico dell’empirismo [v.})) a restringere l’indagine ai « fatti osservabili
» e alle relazioni fra tali fatti: tendenza la quale implica in ogni caso
l’esigenza di indicare il metodo o il procedimento mediante cui il fatto può
essere effettivamente osservato. In questo senso il procedimento analitico
porta all'eliminazione di realtà o di concetti «in sè», cioè assoluti e
indipendenti da ogni osservazione o verificazione e presupposti come realtà o
verità « ultime». Sotto questo aspetto la fisica relativistica e la meccanica
quantistica possono essere considerate come risultati del procedimento
analitico. Quando Einstein osservò che, per parlare di « fatti simultanei »,
occorre dare un metodo per osservare la simultaneità di tali fatti (dando così
la chiave della teoria della relatività) non fece che condurre a buon fine l’A.
della nozione di « fatti simultanei ». E quando Niels Bohr e i suoi allievi
misero in luce che ogni osservazione fisica è accompagnata da un effetto dello
strumento osservante sull’oggetto osservato, non fecero che condurre a buon
fine l’A. di « osservazione fisica »; e da questa analisi è nata l’intera
meccanica quantistica. Analogamente la rinuncia a postulare un mezzo di
trasmissione non osservabile dei fenomeni elettromagnetici (il cosiddetto «
etere ») può essere considerato come un risultato del rafforzamento del
procedimento analitico. In matematica lo stesso procedimento ha prevalso in
quanto si è rinunciato a discutere che cosa siano i punti, le rette, i numeri,
in sé, e ci si è limitato all’A. delle relazioni intercorrenti tra questi
termini e dei postulati che le esprimono. Da questo punto di vista 36 ANALITICA
l'A. si è estesa e rafforzata a danno di ciò che si chiama « metafisica », cioè
del dominio delle realtà assolute e delle verità necessarie. Nel campo delle
scienze storiche Dilthey ha contrapposto al metodo metafisico e aprioristico,
adoperato, per es., da Hegel, il metodo analitico e descrittivo proprio della
psicologia: onde si parla oggi dell’« A. storica » che mira a comprendere un
fatto storico nei suoi elementi e nella connessione di tali elementi. Si parla
anche di « A. sociologica + nel senso di un procedimento diretto a risolvere
una realtà sociale nei comportamenti, negli atteggiamenti e nelle istituzioni
che ne costituiscono gli elementi osservabili. Nel dominio della filosofia contemporanea
l’A. assume varie forme sia a li in cui l’uomo si trova nel mondo.
Nell’empirismo logico, l’A. è A. del linguaggio e tènde a eliminare le
confusioni mediante la determinazione e il controllo del significato o modo
d’uso dei segni. Queste tendenze analitiche della filosofia contemporanea sono
più o meno in polemica con la metafisica tradizionale e tendono a dare
all’indagine filosofica un metodo rigoroso per l'accertamento e il controllo
dei suoi risultati. Nello stesso tempo, tutte più o meno indulgono a certi
irrigidimenti metafisici; parlando, per es., di «ati ultimi » come fa Bergson,
di « forme o essenze necessarie » come fa Husserl, di « strutture necessarie »
come fa Heidegger, di « proposizioni atomiche » o di « fatti atomici » come fa
l’empirismo logico, ecc. Si può dire tuttavia che la tendenza delle filosofie
analitiche e dell’indirizzo analitico delle scienze consiste nella progressiva
eliminazione di punti fermi, cioè di elementi o strutture che per la loro
sostanzialità e necessità blocchino il corso ulteriore dell’A. e lo
immobilizzino su risultati assunti come definitivi e perciò sottratti ad ogni
ulteriore controllo. Questa tendenza mira perciò a determinare e utilizzare
tecniche di controllo che siano suscettibili di correzione o rettificazione. Da
questo punto di vista l’A. è l’equivalente aggiornato dell’empirismo
tradizionale e ad essa si contrappone la metafisica, nel senso classico del
termine, come scienza o pretesa scienza di ciò che, essendo « necessariamente
+» ed «in sè», non ha bisogno di essere analizzato cioè descritto, interpretato
o compreso mediante procedure verificabili. ANALITICA (ingl. Analytics; franc.
Anali tique; ted. Analitik). In generale una disciplina o una parte di
disciplina il cui procedimento fondamentale è l’analisi (v.). Aristotele chiamò
A. la parte della logica che mira a risolvere ogni ragionamento nelle figure
fondamentali del sillogismo (Primi Aalitici) ed ogni prova nei sillogismi
stessi e nei primi princìpi che costituiscono le loro premesse evidenti
(Secondi Analitici). Kant chiamò « A. trascendentale » la prima parte della «
dottrina degli elementi » nella Critica della ragion pura e nella Critica della
ragion pratica (mentre la seconda parte di essa è la Dialettica): intendendo
per A. la deato 8 appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto
(implicitamente) in questo concetto A (Crit. R. Pura, Intr., IV). Sul carattere
di questa implicazione però nulla vien detto; e il famoso esempio addotto da
Kant della proposizione «i corpi sono estesi » che sarebbe analitica di fronte
ANALOGIA 37 alla proposizione «i corpi sono pesanti» che sarebbe sintetica non
chiarisce certo il concetto giacchè non si vede perchè l’estensione debba
essere contenuta implicitamente nel concetto di corpo e non la pesantezza. 3°
La tautologia. In questo senso Wittgenstein ha considerato le proposizioni
analitiche come tautologie. « La tautologia, egli ha detto non ha condizioni di
verità perchè è incondizionatamente vera » (Tractatus, 4.461). Ma dall’altrca;
ma la proposizione « nessuno scapolo è sposato » non è più una tautologia ma è
tuttavia una proposizione analitica, fondata sulla sinonimia tra « scapolo » e
« non sposato +. (Cfr. QuINE, From
a Logical Point of View, 1953, cap. ID. 4° La sinonimia. Questa può essere stabilita: a) mediante definizioni,
come si fa di solito nelle matematiche e in tutti i linguaggi artificiali; 5)
mediante il criterio dell’intercambiabilità, con cui Leibniz definisce la
stessa identità (v.); in tal caso si chiamano sinonimi i termini che possono
essere scambiati in uno stesso contesto senza alterare la verità del contesto
stesso; c) mediante regole semantiche come anche accade nei linguaggi
artificiali. È da notare che la difficoltà di stabilire con questi procedimenti
il significato esatto di sinonimia e quindi di A. ha condotto alcuni logici
moderni a negare che esista una netta distinzione tra A. e sinteticità (MORTON
WHITE, The Analytic and the Synthetic: an Untenable Dualism, in SipNEY Hook,
ed. John Dewey, New
York, 1950; W. V. O. QuINE, From a Logical Point of View, Cambridge, 1953, cap.
II). ANALOGIA (gr. &vadoyia; lat.
Analogia; inglese Analogy; franc. Analogie; ted. Analogie). Il termine ha due
significati fondamentali: 1° il senso proprio e ristretto, desunto dall’uso
matematico (per cui vale proporzione) di eguaglianza di rapporti; 2° il senso
di estensione probabile della conoscenza mediante l’uso di somiglianze
generiche che si possono addurre tra situazioni diverse. Nel primo significato
il termine fu adoperato da Platone e da Aristotele ed è tuttora adoperato dalla
logica e dalla scienza. Nel secondo significato, il termine è stato ed è
adoperato nella filosofia moderna e contemporanea. L’uso medievale del termine
serve da passaggio dall’uno all’altro significato. 1° Platone adoperò il
termine per indicare l’uguaglianza dei rapporti fra le quattro forme — a due a
due — di conoscenza che distinse nella Repubblica (VII, 14, 534a 6): cioè fra
la scienza e la dianoia che appartengono alla sfera dell’intelligenza (che ha
per oggetto l’essere); e la credenza e la congettura che appartengono a quella
della opinione (che ha per oggetto il divenire). « Come l’essere sta al
divenire, dice Platone, così l’intelligenza sta all’opinione; e comche gli
elementi e i principi delle cose non sono gli stessi, ma sono solo analoghi,
nel senso che sono gli stessi i rapporti che hanno tra loro. Per es., « nel
caso del colore, la forma sarà il bianco, la privazione il nero e la materia la
superficie; nel caso della notte e del giorno, la forma sarà la luce, la
privazione sarà l’oscurità e la materia sarà l’aria» (/bid., 12, 4, 1070b 18).
Ovviamente, il bianco, il nero e la superficie non sono le stesse cose
rispettivamente che la luce, l’oscurità e l’aria; ma identico è il rapporto fra
38 ANALOGIA queste due terne di cose (come fra moltissime altre terne):
rapporto che è espresso con i principi di forma, privazione e materia. In
questo senso, cioè come uguaglianza di rapporti in tutti i casi in cui si
tcessario. Questi due significati dell’essere non sono univoci cioè identici e
neppure eguivoci, cioè semplicemente diversi; sono analoghi cioè simili ma di
proporzioni diverse. Solo Dio ha l’essere per essenza, le creature hanno
l’essere per partecipazione; esse, in quanto sono, sono simili a Dio che è il
primo principio universale dell'essere, ma Dio non è simile ad esse: questo
rapporto è l’A. (S. TA., I, q. 4, a. 3). Il rapporto analogico si estende a
tutti i predicati che si attribuiscono allo stesso tempo a Dio e alle creature.
Per es., il termine « sapiente» riferito all’uomo significa una perfezione
distinta dall’essenza e dalla esistenza dell’uomo, mentre riferito a Dio vuol
dire una perfezione che è identica alla sua essenza e al suo essere; inoltre,
riferito all'uomo, fa comprendere ciò che vuol significare mentre riferito a
Dio lascia fuori di sè la cosa significata che trascende i limiti
dell'intendimento umano (/bid., I, q. 13, a. 5). Il diverso significato che un
termine può avere a seconda della sua attribuzione a questa o a quella realtà
fu poi chiamato dagli scolastici A. di attribuzione. Questo tipo di A. si
verifica non soltanto a proposito dell’attribuzione di uno stesso termine a Dio
e alle creature ma in molti altri casi come, per es., quando si dice che è sana
una medicina ed è sano un animale in quanto la medicina è causa della sanità
che è nell’animale (/bid., I, q. 13, a. 5). L’A. di proporzionalità si
riferisce invece soltanto all’analogicità di significato tra l'essere di Dio e
l'essere delle creature: e diventa un tema di discussioni polemiche nella
Scolastica del sec. xm e della prima metà del sec. x1v. L’A. di proporzionalità
viene spesso dai Tomisti (come dallo stesso S. Tommaso) riportata ad
Aristotele, ma in realtà questi aveva bensì cominciato col riconoscere vari
sensi dell’essere ma solo per ricondurli a modi e specificazioni dell’unico
senso della sostanza, cioè dell’essere in quanto essere, dell'essere nella sua
necessità, che è l'oggetto della metafisica. Aristotele perciò non distingueva
nè poteva distinguere tra l’essere di Dio e l’essere delle altre cose: per es.,
Dio e la mente sono sostanze proprio nello stesso senso (Er. Nic., I, 6, 1096
a. 24). Il maggior critico e oppositore del Tomismo su questo punto fu Duns
Scoto che, per l’appunto rifacendosi ad Aristotele, considerò la nozione di
essere comune a tutte lo cose esistenti, quindi alle creature come a Dio. La
ANALOGIA 39 considerò perciò univoca per il motivo fondamentale che, se così
non fosse, sarebbe impossibile conoscere nulla di Dio e determinare un qualsiasi
attributo di Lui, risalendo per via causale dalle creature (Op. Ox., I, d. 3,
q. 3, n. 9). In tal modo egli ripristinò pure l’unità della scienza dell’essere
cioè della metafisica che per il tomismo era divisa in scienza dell’essere
creato (metafisica) e in scienza dell’essere necessario (teologia) e pertanto
ridusse la teologia a scienza pratica (cioè diretta, non a conoscere, ma a
guidare l’uomo verso la propria salvezza). 2° Il secondo significato del
termine, come estensione probabile della conoscenza mediante il passaggio da
una proposizione che esprime una certa situazione a un’altra proposizione che
esprime una situazione genericamente simile o come estensione della validità di
una proposizione da una certa situazione a una situazione genericamente simile
era conosciuto dagli antichi col nome di « procedura per somiglianza » (St
mapafoXîc 0 Su spor ros). Aristotele dice: « La probabilità appare anche nel
procedimento per somiglianza quando si dice il contrario del contrario: per
es., se bisogna far del bene agli amici, si può dire per somiglianza che
bisogna far del male ai nemici» (Top., I, 10, 104 a 28; cfr. EI. Soph., 173 b
38; 176a 33; ecc.). Questo procedimento ovviamente non ha niente a che fare con
l’A.: il rapporto è diverso (come il « far del male » è diverso dal «far del
bene +) e tra le due situazioni pertanto non c’è uguaglianza di rapporti ma
solo una generica simiglianza. Aristotele consiglia l’uso di questo
procedimento a scopi polemici (Top., VIII, 1, 156b 25). Euclide di Megara ne aveva
già negata la validità logica. Egli infatti «ripudiava il procedimento per
simiglianza dicendo che esso si avvale o di cose simili o di cose dissimili. Se
di simili è meglio rivolgersi alle cose stesse che a quelle di cui sono simili;
se di dissimili è inutile la comparazione » (Diog. L., II, 107). Come
ragionamento per analogia era intesa l’induzione dagli Epicurei che pertanto ne
difendevano la validità subordinatamente al postulato dell’uniformità della
natura. Dice Filodemo: «Quando noi giudichiamo: ‘ Poichè gli uomini che sono
alla nostra portata sono mortali, tutti gli uomini sono mortali’ il metodo
dell’analogia sarà valido solo se assumiamo che gli uomini che non sono in
condizione di esserci manifesti sono, sotto tutti i rispetti, simili a quelli che
sono alla nostra portata, sicchè si deve assumere che anch'essi siano mortali.
Senza questo presupposto il metodo dell’analogia non è valido» (De Signis, II,
25). Nella filosofia moderna la prima difesa dell’analogia è probabilmente
quella di Locke che nel IV libro del Saggio include PA. fra i gradi
dell’assenso; e precisamente la considera come la probabilità che concerne cose
che trascendono llla permanenza della sostanza che si esprime dicendo: «In ogni
cangiamento dei fenomeni la sostanza permane e la quantità di essa nella natura
non aumenta nè diminuisce +; 5) il principio della serie temporale secondo la
legge della causalità, che si esprime dicendo: « Tutti i cangiamenti avvengono
secondo la legge del nesso di causa ed effetto »; c) il principio della
simultaneità secondo la legge dell’azione reciproca che si esprime dicendo: «
Tutte le sostanze in quanto possono essere percepite nello spazio come
simultanee, sono tra loro in azione reciproca universale ». Kant ha chiarito
nel modo seguente il senso nel quale questi princìpi sono detti analogie. In
matematica, le A. sono formule che esprimono l'uguaglianza di due rapporti quno
bensì a priori e quindi certi in modo indubitabile, ma nel contempo sono privi
di evidenza intuitiva; mentre gli « assiomi dell’intuizione » (v. Assioma) e le
«anticipazioni della percezione » (v. ANTICIPAZIONI) sono princìpi costitutivi
perchè insegnano « come i fenomeni, sia rispetto alla loro intuizione, sia
rispetto alla loro realtà percepita, possono essere prodotti secondo le regole
di una sintesi matematica » (Crir. R. Pura, Anal. dei princ., IMI, 3). Come si
vede, permane in quest’uso kantiano il significato dell’A. come eguaglianza tra
rapporti; ma tali rapporti sono detti « qualitativi » nel senso che con essi
non sono dati gli oggetti, ma soltanto quelle relazioni che consentono di
scoprirli e ordinarli in unità. E difatti, i princìpi della permanenza della
sostanza, di causalità e di reciprocità non fanno conoscere nulla; ma servono a
scoprire gli oggetti conoscibili e a ordinarli, secondo i loro nessi,
nell’unità dell'esperienza. In tal senso l’A. è uno strumento, anzi uno degli
strumenti fondamentali per estendere la conoscenza dei fenomeni naturali sulla
guida delle loro connessioni determinanti. La logica e la metodologia della
scienza dell’800 sono state diffidenti verso l’A., considerandola generalmente
come un'estensione della generalizzazione induttiva al di là dei limiti nei
quali essa offre garanzia di verità. Stuart Mill considerò il ragionamento per
A. « un’inferenza che ciò che è vero in un certo caso è anche vero in un caso
in qualche modo simile ma non esattamente parallelo, cioè non simile in tutte
le circostanze materiali. Un oggetto ha la proprietà 5; un altro oggetto non ha
la proprietà 5, ma è simile al primo in una proprietà a non connessa con b;
l’A. porterà alla conclusione che anche questo oggetto ha la proprietà b. Per
es., si dice che i pianeti sono abitati perchè la Terra è abitata ». Questo
modo di argomentare può, secondo Stuart Mill, accrescere solo in grado non
determinabile, ma in ogni caso assai modesto, la probabilità della conclusione;
ma in compenso può dar luogo a molte fallacie (Logic, V, 5, 6). Ma la logica e
la metodologia del nostro secolo sono assai meno diffidenti nei confronti dell'A.
forse perchè la riportano al significato 1° cioò a uguaglianza di rapporti. Per
es., uno dei procedimenti analogici consiste nella creazione di simboli che
abbiano somiglianza maggiore o minore con le situazioni reali, e i cui rapporti
riproducano quelli inerenti agli elementi di tali situazioni. Tali simboli sono
qualche volta modelli meccanici cioè disegni o schemi o macchine che
riproducono i rapporti intercedenti di elementi reali; tali sono, per es., i
modelli del sistema solare, della struttura dell'atomo, del sistema nervoso,
ecc. Altre volte tali modelli sono ottenuti mediante il cosiddetto processo di
extrapolazione il quale consiste nel portare al limite il comportamento di un
insieme di casi ordinati in una serie nella quale si suppongano eliminate
gradualmente le influenze disturbatrici. Si parla così, per es., di velocità
infinita o di velocità zero, di masse ridotte a un punto geometrico, di leve
perfette, di gas ideali, ecc. Ogni modello è un esempio di A., nel senso 1°,
perchè il proprio di un modello è quello di riprodurre, fra i propri elementi,
gli stessi rapporti degli elementi della situazione reale. Ma i fisici parlano
oggi di A. anche come di condizione o di elemento integrante delle ipotesi e
delle teorie scientifiche. Secondo questo indirizzo, l’A. entra nella
costituzione di un’ipotesi in quanto «le proposizioni di un’ipotesi devono
essere analoghe ad alcune leggi conosciute »: e in questo senso l’A. non è solo
un aiuto alla formulazione di una teoria ma ne è parte integrante. « Considerare
l'A. come un aiuto all’invenzione delle teorie è così assurdo come considerare
la melodia come un aiuto alla composizione di una sonata. Se la sodisfazione
delle leggi dell'armonia e i principi formali di sviluppo fossero tutto ciò che
è richiesto per comporre musica, noi saremmo tutti grandi compositori; ma è
l’assenza del senso melodico che ci impedisce di raggiungere eccellenza
musicale col semplice mezzo di acquistare un manuale di musica » (N. R.
CampBELL, Physics: The Elements, 1920, pag. 130). L’A. corrisponderebbe perciò,
nella fisica a ciò che è il senso musicale nella musica: essa garantirebbe
l'adeguazione di un'ipotesi scientifica alle uniformità espresse o formulate
nelle leggi. ANALYSIS SITUS. V. TopoLocia. ANAMNESI (gr. daviumo; ingl.
Reminiscence; franc. Réminiscence; ted. Reminiszenz). Il mito dell’A. è esposto
da Platone nel Merone come antitesi e correttivo del « principio eristico » che
non è possibile all'uomo indagare nè ciò che sa nè ciò che non sa; giacchè
sarebbe inutile indagare ciò che si sa e impossibile indagare quando non si sa
che cosa indagare. A questo discorso che «può rendere pigri e riesce gradito ai
fiacchi » Platone oppone il mito per cui l’anima è immortale, ed è perciò nata
e rinata molte volte, sì da aver visto ogni cosa sia in questo mondo che in un
mondo di là; sicchè essa può, all’occasione, ricordare ciò che prima sapeva. «E
poichè tutta la natura è congenere e l’anima ha appreso tutto, nulla impedisce
che chi si ricordi di una sola cosa (che è poi quello che si chiama ‘imparare
’) trovi da sè tutto il resto, se ha coraggio e non si stanca ANARCHISMO 4l
nella ricerca, giacchè il ricercare e l’apprendere non son altro che
reminiscenza » (Men., 80 e-81 e). A. è stata chiamata da Croce il processo
della conoscenza storica perchè il soggetto di essa, lo Spirito assoluto, non
ha altro da fare che ricordare o richiamare ciò che è in lui; e le fonti della
storia (documenti ed avanzi) non hanno per l’appunto che questa funzione di
richiamo (Teoria e storia della storiografia, 1917, pag. 12 sgg.; La storia
come pensiero e come azione, 1938, pag. 6). ANANCHISMO (ingl. Anancism).
Termine adoperato da Peirce per indicare il principio della necessità assoluta
nell’evoluzione del mondo (Chance Love and Logic, II, 5; Coll. Pap. 6. 302).
ANAPODITTICO (gr. avanédertoc; lat. Zndimostrativus; ingl. Anapodeictic; franc.
Anapodictique; ted. Anapodiktisch). Alla lettera: non dimostrabile. Aristotele
chiamò così le premesse prime del sillogismo che egli diceva pure immediate (Et.
Nic., VI, 12, 1143 b 12; An. post., I, 2,72b 27, ecc.). Ma la teoria dei
ragionamenti anapodittici fu sviluppata dagli Stoici proprio in contrasto con
la teoria sillogistica di Aristotele. Mentre i sillogismi o ragionamenti
apodittici traggono da premesse evidenti una conclusione non evidente, i
ragionamenti anapodittici hanno una conclusione evidente e sono la base di
tutti gli altri ragionamenti che possono sempre essere ad essi ridotti (SESTO
E., Ip. Pirr., II, 156; cfr. Cicer., Top., 56-57). Gli Stoici enumeravano
cinque tipi fondamentali di ragionamenti anapodittici e ritenevano che ad essi
potessero ridursi tutti gli altri ragionamenti: onde Sesto Empirico dice che,
tolti quelli di mezzo, tutta la dialettica sarà rovesciata. Ecco come essi
esemplificavano tali tipi fondamentali: 1° Se è giorno c'è luce. Ma è giorno.
Dunque c’è luce. 2° Se è giorno c’è luce. Ma non c’è luce. Dunque non è giorno.
3° Se non è giorno è notte. Ma è giorno. Dunque non è notte. 4° O è giorno o è
notte. Ma è giorno. Dunque non è notte. 5° O è giorno o è notte. Ma non è
notte. Dunque è giorno (/p. Pirr., II, 157-568; Diog. L., VII, 80). Assumendo
questi ragionamenti come fondamento della dialettica cioè dell’arte stessa del
ragionare, gli Stoici riducevano al ragionamento A. ipotetico o disgiuntivo,
che è sempre a due termini, ogni altra specie di ragiona» mento, implicitamente
negando che avesse valore autonomo il ragionamento dimostrativo a tre termini
cioè il sillogismo aristotelico. MAMAMA Come sinonimo di questo termine Leibniz
usò il termine asillogistico per indicare un tipo di ragionamento non
sillogistico. « Bisogna sapere, egli disse, che ci sono conseguenze
asillogistiche buone, che non si potrebbero dimostrare a rigore con un
sillogismo senza cambiare un po’ i termini; e questo stesso cambiamento dei
termini fa che la conseguenza sia asillogistica ». Per es.: « Gesù Cristo è
Dio, dunque la madre di Gesù Cristo è la madre di Dio»; oppure «Se Davide è il
padre di Salomone, Salomone è il figlio di Davide » (Nouv. Ess., IV, 17, 4).
ANARCHISMO (ingl. Anarchism; franc. Anarchisme; ted. Anarchismus). La dottrina
che l’individuo è la sola realtà, che dev'essere assolutamente libero e che
ogni costrizione esercitata dividuo entra per moltiplicare la sua forza e che
per lui è solo un mezzo. Questa forma di associazione può nascere solo dal
dissolvimento della società attuale, che è per l’uomo lo stato di natura, e può
essere solo il risultato di un’insurrezione che riesce ad abolire ogni
costituzione statale. Sul carattere rivoluzionario dell’A., insistettero poi
gli anarchici russi, il maggiore dei quali fu Michele Bakunin (1814-96) autore
di numerosi scritti fra i quali uno intitolato Dio e /o Stato (1871) in cui
afferma la necessità di distruggere tutte le leggi, le istituzioni e le
credenze esistenti. La tesi anarchica della contrapposizione netta e radicale
tra tutti gli ordinamenti politici e sociali esistenti, considerati come il
male stesso, e il nuovo ordinamento libertario da venire, considerato come il
bene totale, è stata di nuovo ripresentata da G. Landauer 42 ANFIBOLA (Die
Revolution, 1923). (Su di lui cfr. K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, 1929, IV,
$ 1; trad. ital., pag. 194 sgg.). ANFIBOLIA (gr. &upifolla; lat.
Amphibolia; ingl. Amphiboly; franc. Amphibolie; ted. Amphibolie). In Aristotele
(Soph. E/., 4, 166 a) è uno dei sofismi in dictione, e precisamente la fallacia
(v.) che consegue dal fatto che una frase è resa ambigua dalla sua difettosa
costruzione grammaticale. Più genericamente il termine A. è stato inteso per una
parola che significa due o più cose (SESTO EMPIRICO, Ip. Pirr., II, 256). In
Kant il termine A. è usato nell’espressione « A. dei concetti di riflessione »
per indicare lo scambio che nasce dalla confusione tra l’uso
empirico-intellettuale e l’uso trascendentale dei concetti di riflessione quali
« unità » e « molteplicità », « materia» e «forma», e simili (Critica R. Pura,
An. dei Principi, Appendice). G. P. ANFIBOLOGIA. V. ANFIBOLIA. ANGELI (gr.
&ryedow; lat. Angeli; ingl. Angels; franc. Anges; ted. Engel). Così furono
chiamate dalla teologia cristiana le «creature incorporee » che fanno da
intermediarie tra Dio e le creature corporee, ammesse dal neo-platonismo (v.
Dio). La fonte dell’angelologia medievale è lo scritto dello pseudo Dionigi
l’Areopagita Sulla gerarchia celeste (sec. v). La gerarchia celeste è
costituita da nove ordini di A. raggruppati in disposizioni ternarie. La prima
disposizione è quella dei Serafini, dei Cherubini e dei Troni; la seconda è
quella delle Dominazioni, delle Virtù e delle Podestà; la terza è quella dei
Principati, degli Arcangeli e degli Angeli. Questa dottrina fu accettata da S.
Tommaso (S. 7A., I, q. 108, a. 2); e adottata da Dante nel Paradiso. ANGOSCIA
(ingl. Dread; franc. Angoisse; ted. Angst). Nel suo significato filosofico,
cioè come atteggiamento dell’uomo di fronte alla sua situazione nel mondo, il
termine è stato introdotto da Kierkegaard nel Concetto dell’A. (1844). La
radice dell’A. è l’esistenza come possibilità (v. ESISTENZA). A differenza del
timore e di altri stati analoghi che si riferiscono sempre a qualcosa di
determinato, l'A. non si riferisce a nulla di preciso: essa è il puro
sentimento della possibilità. L’uomo nel mondo vive di possibilità giacchè la
possibilità è la dimensione del futuro e l’uomo vive continuamente proteso
verso il futuro. Ma le possibilità che si prospettano all’uomo non hanno alcuna
garanzia di realizzazione. Solo per una pietosa illusione esse gli si
presentano come possibilità piacevoli, felici o vittoriose: in realtà, come possibilità
umane, esse non offrono garanzia alcuna e celano sempre l’alternativa immanente
dell’insuccesso, dello scacco e della morte. « Nel possibile tutto è possibile
», dice Kierkegaard; il che vuol dire che una possibilità favorevole non ha
maggiore sicurezza della possibilità più disastrosa ed orribile. Pertanto
l’uomo che si rende conto di questo, riconosce la vanità di ogni accortezza e
non ha di fronte a sè che due vie: o il suicidio, o la fede, cioè il ricorso a
« Colui al quale tutto è possibile ». L’A. è, secondo Kierkegaard, parte
essenziale della spiritualità che è propria dell’uomo, sicchè se l’uomo fosse
angelo o bestia non conoscerebbe l’A.: e infatti arriva a mascherarla o a
nasconderla l’uomo nel quale la spiritualità è troppo debole. In quanto
riflessione sulla propria condizione umana, la spiritualità dell’uomo è
connessa all’A. cioè al sentimento della minaccia immanente ad ogni possibilità
umana come tale. — Nella filosofia contemporanea, Heidegger ha imperniato
sull’angoscia la sua analisi esistenziale (v. EMoZIONE). L’A. è la situazione
affettiva fondamentale «che può tener aperta la continua e radicale minaccia
che viene dall’essere più proprio e isolato dell’uomo »: cioè la minaccia della
morte. Nell’A., l’uomo « si sente in presenza del nulla, dell’impossibilità
possibile della sua esistenza ». In questo senso l’A. costituisce
essenzialmente ciò che Heidegger chiama «l’essere per la morte» cioè
l'accettazione della morte come «la possibilità assolutamente propria,
incondizionata e insormontabile dell’uomo » (Sein und Zeit, $ 53). Ma con ciò
l’A. non è la paura della morte o dei pericoli che possono prospettarla. Dice
Heidegger: « La paura trova il suo appiglio nell’ente di cui ci si prende cura
dentro il mondo. L’A. invece scaturisce dall’Esserci stesso. La paura giunge
improvvisa dall’intramondano. L’A. si leva dall’essere-nel-mondo in quanto
gettato essere-per-la-morte » (/bid., $ 68 b). L'A. non è neppure il pensiero
della morte o l'attesa © la preparazione della morte. Vivere per la morte,
angosciarsi, significa comprendere l’impossibilità dell’esistenza in quanto
tale. E comprendere tale impossibilità significa comprendere che tutte le
possibilità dell’esistenza in quanto consistono di anticipazioni o progetti,
che pretendono trascendere la realtà di fatto, non fanno che ricadere nella
realtà di fatto. Perciò il vero significato dell’A. è il destino, cioè la
scelta della situazione di fatto come un’eredità cui non si può sfuggire e il
riconoscimento dell’impossibilità o nullità di ogni altra scelta che non sia
l’accettazione della situazione in cui si è già. In altri termini, l'A. come
comprensione esistenziale rende possibile all’uomo far di necessità virtù:
accettare con un atto di scelta quella situazione di fatto, che è il suo destino
e che senza l’A. cercherebbe vanamente di trascendere. La coincidenza di
necessità e libertà sembra così il significato dell’A. heideggeriana (/bid., $
74). In questo senso Heidegger dice che l’A. « libera l’uomo dalle possibilità
nulle e lo fa libero per quelle autentiche » (/bid., $ 68 b). Tuttavia non è
solo dalla filosofia esistenzialistica che l’A. viene considerata come la
rivelazione emotiva della situazione umana nel mondo. Una ricca letteratura
psicologica ha chiarito il carattere omni-pervadente dell’A. che rimane
distinta dalla paura, dal timore e da altri stati emotivi che hanno carattche
si verifichi una situazione di impotenza; oppure la situazione presente mi
ricorda un evento traumatico precedentemente vissuto. Così io anticipo questo trauma,
mi comporto come se esso fosse già qui, sin tanto che c’è ancora tempo di
respingerlo. L’A. è dunque da un lato aspettativa del trauma, dall’altro una
ripetizione attenuata di esso » (Hemmung, Symptom und Angst, 1926, cap. XI, B;
trad. ital., pag. 106). Dall'altro lato lo studio delle persone nelle quali
l'A. si manifesta nelle forme più imponenti (per es., in quelle colpite da
lesioni cerebrali) ha portato qualche scienziato (per es., GOLDSTEIN, Der
Aufbau des Organismus, 1934) a definire l’A. come «l'impossibilità di mettersi
in rapporto con il mondo?» e di « realizzare un còmpito corrispondente
all'essenza dell’organismo », considerandola così come il caso limite di quelle
«reazioni di catastrofe » che accompagnano il dibattito dell’organismo con il mondo.
ANIMA (gr. vvyh; lat. Anima; ingl. Soul; franc. Ame; ted. Seele). In generale,
il principio della vita, della sensibilità e delle attività spirituali
(comunque intese e classificate), in quanto costituente un’entità a sè o
sostanza. Quest’ultima notazione è importante perchè l’uso della nozione di A.
è condizionato dal riconoscimento che un certo insieme di operazioni o di
eventi, quelli appunto detti « psichici » 0 « spirituali », costituiscano le
manifestazioni di un principio autonomo, irreducibile, per la sua originalità,
ad altre realtà, sebbene in rapporto con esse. Che poi l’A. sia incorporea 0
abbia la stessa costituzione delle cose corporee, è questione meno importante:
giacchè la soluzione materialistica di essa è spesso ugualmente fondata, come
la sua opposta, sul riconoscimento dell’Acome sostanza. In questo significato
fondamentale, l’A. viene il più delle volte considerata come « sostanza »:
intendendosi con questo termine per l’appunto una realtà a sè, cioè che esiste
indipendentemente dalle altre (v. SostAnZA). Il riconoscimento della realtà-A.
sembra provvedere un solido fondamento ai valori connessi con le attività
spirituali umane, i quali, senza di essa, sembrerebbero sospesi nel nulla;
sicchè la sostanzialità dell’A. viene considerata, dalla maggior parte delle
teorie filosofiche tradizionali, come una garanzia della stabilità e della
permanenza di quei valori: garanzia che viene talora rafforzata dalla credenza
che l’A. è, nel mondo, la realtà più alta o ultima o, qualche volta, lo stesso
principio ordinatore e governatore del mondo. Date queste caratteristiche della
nozione, la storia filosofica di essa si presenta relativamente monotona perchè
è in prevalenza la reiterazione della realtà dell’A. nei termini di quei
concetti che ogni filosofo assume per definire la realtà stessa. Sicchè, per
es., l’A. è aria per Anassimene (Fr. 2, Diels) e per Diogene d’Apollonia (Fr.
S, Diels) i quali ritengono che il principio delle cose è l’aria; è armonia per
i Pitagorici (Arisr., Pol., VIII, 5, 1340 b 19) che nell’armonia esprimibile in
numeri vedono la struttura stessa del cosmo; è fuoco per Eraclito (Fr. 36,
Diels) che vede nel fuoco il principio universale; è, per Democrito, formata di
atomi rotondi, che possono più agevolmente penetrare nel corpo e muoverlo
(Arisr., De an., I, 2, 404, 1); e così via. Probabilmente Platone non fece che
esprimere un pensiero implicito in queste determinazioni quando affermò che
l’A. si muove da sè e definì I’A. appunto sulla base di questa caratteristica.
«Ogni corpo a cui il muoversi è impresso da fuori è inanimato; ogni corpo che
si muove di per sè dal di dentro è animato; e tale è appunto la natura dell’A.»
(Fedro, 245 d). L'A. è quindi la causa della vita (Crar., 399 d) e pertanto è
immortale giacchè la vita costituisce la sua stessa essenza (Fed., 105d sgg.).
Con queste determinazioni Platone distingueva nettamente la realtà dell’A.,
semplice, incorporea, che si muove da sè, che vive e dà vita, dalla realtà
corporea che ha i caratteri opposti. E queste determinazioni dovevano servire
di base a tutte le ulteriori trattazioni filosofiche dell’anima. Tra esse,
quella di Aristotele è la più importante perchè le determinazioni che
Aristotele attribuisce all’essere psichico, nei termini del suo concetto
dell’essere, dovevano lungamente rimanere il modello di buona parte delle
dottrine dell’anima. Secondo Aristotele, l’A. è la sostanza del corpo. Essa è
definita come «l’atto finale (enrelechia) primo di un corpo che ha la vita in
potenza». L'A. sta al corpo come l’atto della visione sta all’orpo (/bid., II,
2, 413 b 26). Come atto o attività l’A. è forma e come forma è sostanza, in una
delle tre determinazioni della sostanza che può essere o la forma o la materia
o il composto di forma e materia. La materia infatti è potenza, la forma è atto
e ogni essere animato è composto di queste due cose; ma mentre il corpo non è
l’atto dell’A., l’A. è l’attività di un corpo determinato cioè la realizzazione
della potenza che è propria di questo corpo: onde si può dire che essa non
esiste nè senza il corpo nè come corpo (/bid., 414a 11). Queste determinazioni
aristoteliche hanno costituito, per lunghi secoli, l'intero progetto della «
psicologia dell’A.». A seconda dei vari interessi (metafisico, morale,
religioso) che hanno presieduto agli sviluppi di tale psicologia, si è
insistito, nella storia di essa, sull’una o sull’altra delle determina» zioni
aristoteliche. Di queste, le più importanti sono: che l’A. sia sostanza cioè
realtà nel senso forte del termine; e che sia principio indipendente di
operazioni, cioè causa. Queste determinazioni hanno lo scopo di garantire un
solido sostegno alle attività spirituali quindi ai valori che sono prodotti da
tale attività. La seconda serie di determinazioni sono quelle della semplicità
e indivisibilità; che hanno lo scopo di garantire l’impassibilità dell’A. nei
confronti dei mutamenti corporei e, per il tramite della indecomponibilità, la
sua immortalità. La terza determinazione importante è il suo rapporto col
corpo, definito da Aristotele come rapporto della forma con la materia,
dell’atto con la potenza. La prima determinazione non viene negata neppure dai
materialisti. Epicuro che ritiene I’A. composta di particelle sottili, diffuse
in tutto il corpo come un soffio caldo, ritiene tuttavia che l’A. abbia la
capacità causativa della sensazione, che viene preparata dal corpo e di cui il
corpo partecipa, ma che è in una certa misura indipendente dal corpo stesso:
giacchè quando l’A. si distacca da esso, il corpo non ha più sensibilità (Ep. a
Erod., 63 sgg.). In questo modo l'A. non è semplice nè immortale (essa si
dissolve nelle sue particelle con la morte del corpo); ma è tuttavia una realtà
a sè, dotata di una propria capacità causativa, indispensabile alla vita stessa
del corpo. In modo analogo gli Stoici ritengono che l’A. è un soffio congenito
in noi; che, come tale, è corpo perchè se non fosse corpo non potrebbe nè
unirsi al corpo nè separarsi da esso; ma che può tuttavia essere immortale,
com’è certamente immortale l’A. del mondo, di cui sono parti quelle degli
esseri animati, e le A. dei saggi (Dioc. L., VII, 156-57). Qui la corporeità
dell'A. non toglie ad essa nè la semplicità nè l’immortalità; come non la
toglie nella concezione di Tertulliano che anch’egli la considera come un
soffio o flatus di Dio e perciò generata, corporea e immortale (De an., 8
sgg.). L’accettazione quasi universale della dottrina aristotelica dell'A. ha
una eccezione in Plotino. Plotino critica egualmente sia la dottrina che l’A. è
corpo sia e in relazione, cioè le cose e gli altri uomini (/bid., V, 3, 1-2). I
Neoplatonici e i Padri della chiesa orientale ripetono le determinazioni
neoplatoniche: l’immaterialità e l’unità dell'A. sono i caratteri fondamentali
riconosciuti ad essa da Porfirio (STOB., Ecl., I, 818) e da Proclo (/nsf.
theol., 15); nonchè da Gregorio di Nissa (De an. et resur., pag. 98 sgg.). Ma è
soprattutto S. Agostino che raccoglie l’eredità del neo-platonismo e la
trasmette al mondo cristiano, col riconoscimento dell’interiorità spirituale
come via d’accesso privilegiata alla realtà propria dell’anima. Questa via
d’accesso è l’esperienza interiore, la riflessione sulla propria interiorità,
la « confessione » come riconoscimento della propria realtà intima; in una
parola ciò che nel linguaggio moderno si chiama coscienza (v.). Nei Soliloqui
(I, 2) S. Agostino dichiarava di non voler conoscere altro che « Dio e l’A. ».
Ma Dio e l’A. non richiedono, per lui, due indagini parallele o comunque
diverse, giacchè Dio è nell’A. e si rivela nella più riposta interiorità
dell'A. stessa. « Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno
dell’uomo abita la verità; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi
anche te stesso » (De vera rel., $ 39). Quest’atteggiamento che domina tutta la
ricerca agostiniana doveva dare i suoi frutti più tardi, a cominciare dalla
tarda Scolastica. — Ma la Scolastica è nel suo complesso dominata dalla
dottrina aristotelica dell’A., che viene riproposta quasi negli stessi termini
a partire da Scoto Eriugena (De divis. nat., II, 23) sino a Duns Scoto (Op.
Ox., IV, 43, q. 2), il quale ultimo si limita ad aggiungere che, poichè l’A. è
la forma del corpo, come diceva Aristotele, essa non può sussistere quando il
corpo è distrutto e che pertanto l'immortalità è pura materia di fede. Le stesse
notazioni di S. Tommaso (S. 7A., I, q. 75; C. Genr., II, 79 sgg.) non
aggiungono nulla alla dottrina aristotelica dell’A., salvo la maggiore
insistenza sull’indipendenza dell’A. dal corpo, al fine di garantirne
l’immortalità. La sola innovazione che la Scolastica agostiniana presenta di
fronte a questa teoria, e in contrasto con l’indirizzo aristotelico-tomistico
della stessa Scolastica, concerne il rapporto tra A. e corpo: l'ammissione di
una forma corporeitatis che è propria del corpo come tale, anteriormente alla
sua unione con l’A. e che lo predispone a tale unione. La forma corporeitatis è
la realtà che il corpo umano possiede, come corpo organico, indipendentemente
dalla sua unione con I’A. (Duns Scoro, Op. Ox., IV, 11, q. 3; OCKHAM, Quodl.,
II, q. 10). Quest'ammissione è legata al riconoscimento che la materia in
generale non è pura potenza ma possiede, già come materia, una certa realtà
attuale che è appunto la forma corporeitatis (v. AGOSTINISMO). Ma la Scolastica
del *300 ci offre, con Ockham, un’innovazione assai più radicale; il dubbio
avanzato sulla realtà dell’A. intellettiva. Dice infatti Ockham (Quodi., I, q.
10) che, se s’intende per A. intellettiva « una forma immateriale e
incorruttibile che è tutta in tutto il corpo e tutta in ciascuna parte, non si
può conoscere con evidenza, nè con la ragione nè con l’esperienza, che una tale
A. sia forma del corpo e che l’intendere sia proprio di una tale sostanza ».
Difatti le ragioni che si possono addurre per la dimostrazione di una tale forma,
sono dubbie; e, quanto all’esperienza, tutto ciò che noi sperimentiamo sono
l’intellezione, la volizione, ecc.: operazioni che possono ben essere proprie
di una « forma estesa, generabile e corruttibile », cioè del corpo stesso.
Ockham perciò relega tra le materie di fede non solo l’immortalità dell’A.
(come aveva già fatto Duns Scoto) ma la realtà stessa dell'A. intellettiva come
supposto soggetto delle operazioni spirituali di cui ates il punto di partenza
della filosofia moderna. La nozione dell’A. come sostanza sopravvive alla crisi
del Rinascimento. Nè il materialismo di Telesio e di Hobbes costituiscono vere
e proprie negazioni della sostanzialità dell’anima. Telesio ammette una
sostanza intellettiva, direttamente creata e infusa da Dio nell’uomo, solo per
spiegare la vita religiosa dell’uomo, la sua aspirazione al trascendente (De
rer. nat., V, 2); ma lo stesso « spirito animale », di cui egli si avvale per
spiegare la sensibilità, l’intelligenza e anche la vita morale dell’uomo, pur
essendo di natura corporea e prodotto e tosti ‘PMR de4dal seme, è da lui
considerato come realtà a sè, come « sostanza » (/bid., V, 10). Quanto a
Hobbes, egli dichiara illegittimo il pivela « un essere l’esistenza del quale
ci è più conosciuta di quella degli altri in modo che può servire come
principio per conoscerli» (Lett. d Clercelier, in CEuvres, IV, 443). Ora il
cogito comprende «tutto ciò che è in me e di cui sono immediatamente cosciente
» (Z/ Rép., def. I): cioè il dubitare, il capire, il concepire, l’affermare, il
negare, il volere, il non volere, l’imaginare, il sentire, ecc. Sicchè la
coscienza è una via d’accesso privilegiata perchè sicura al punto da essere
assolutamente indubitabile, ad una realtà, la sostanza A., che è a sua volta
privilegiata perchè può servire come principio per conoscere le altre realtà. E
difatti è la stessa coscienza, in quanto testimonia il carattere passivo della
facoltà sensibile, che fa ’A. nei termini del loro concetto di realtà. Per
Spinoza, l’A. è «l’idea di un corpo singolo esistente in atto + (Er., II, 11):
è cioè la coscienza correlativa a un corpo organico. Non si può dire che l’A.
sia sostanza perchè la sostanza è una sola ed è Dio. Ma, come idea, l’A. è
parte dell’intelletto infinito di Dio, cioè è una manifestazione necessaria
della sostanza divina (/bid., II, 9) quindi è eterna (/bid., V, 23). Per
Leibniz l'A. è una sostanza spirituale, una monade che, come uno specchio,
rappresenta in sè tutto il mondo ma è in se stessa semplice, cioè senza parti e
indecomponibile (Monad., $$ 1, 56). A differenza delle altre monadi, che sono
gli atomi spirituali che compongono tutte le cose dell’universo (comprese
quelle corporee), l'A. è sa nozione di A. come realtà o sostanza, Hume
contribuisce in pari misura a stabilire la supremazia della coscienza i cui
dati sono riconosciuti come i soli elementi certi della conoscenza umana. La
rivalità tra le due nozioni di A. e di coscienza raggiunge il suo punto
culminante nella critica di Kant alla psicologia razionale cioè alla nozione di
A. nei suoi attributi tradizionali di sostanzialità, semplicità, unità e
possibilità di rapporti col corpo {Crit. R. Pura, Dial. trasc., Paralogismi
della ragion pura). La critica kantiana consiste nel dire che l’intera
psicologia razionale si fonda su di un « paralogisma » cioè su un errore
formale di ragionamento o su un «equivoco »: nel senso che assume come oggetto
di conoscenza, a cui sia applicabile la scienza e, spesso, ridotta alla stessa
coscienza. Quest’inversione del rapporto tra A. e coscienza per cui la coscienza,
da via d’accesso alla realtà-A., si trasforma in questa stessa realtà, è
egualmente evidente nelle due grandi correnti della filosofia ottocentesca,
l’Idealismo e il Positivismo. Hegel, per es., considera l’A. come il primo
grado dello sviluppo dello Spirito, che è la coscienza nel suo grado più alto,
cioè Auto-coscienza; e la configura come « Spirito soggettivo », cioè come lo
spirito nell’aspetto della sua individualità. Ed ecco come egli descrive il
processo dello Spirito soggettivo: « Nell'A. si desta la coscienza; la
coscienza si pone come ragione che si è immediatamente destata alla
consapevolezza di sè; e la ragione mediante la sua attività si libera col farsi
oggettività, coscienza del suo oggetto» (Enc., $ 387). Il primo di questi
momenti, cioè il destarsi della coscienza, è l’anima. Ad essa Hegel riconosce
le caratteristiche tradizionali (sostanzialità, immaterialità), ma in un senso
in cui queste caratteristiche possono essere riferite alla coscienza. « L’A.,
egli dice, non è immateriale soltanto per sè ma è l’immaterialità universale
della natura, la sua semplice vita ideale. Essa è la sostanza e quindi il
fondamento assoluto di ogni particolarizzamento e individualizzazione dello
spirito, di modo che lo spirito ha nell’A. ogni materia della sua
determinazione e l’A. resta l’idealità identica e prevalente di questa. Ma in
tale determinazione ancora astrapreparare e di fondare una « scienza » dei
fatti psichici che avesse lo stesso rigore delle scienze della natura. In
questa direzione già il termine « A. » appare improprio e viene spesso
sostituito dal termine spirito (v.); e in questo senso Stuart Mill, dice, per
es., che lo spirito (mind) è la «serie delle nostre sensazioni» con in più «
un'infinita possibilità di sentire» (Examination of Hamilton’s Philosophy, pag.
242 sgg.) o, più semplicemente, « ciò che sente » (Logic, VI, IV, 1). Oggetto
della psicologia diventano i « fenomeni psichici » o « gli stati di coscienza
», che vengono spiegati mediante il vario associarsi dei loro elementi più
semplici (v. ASssociaZIONISMO). Tale « psicologia senza A.» presiedette agli
inizi della psicologia scientifica e fu l’insegna polemica per l’eliminazione,
dal campo di essa, della nozione tradizionale dell'A. come sostanza. Il termine
tuttavia fu ed è ancora usato per indicare l’insieme delle esperienze psichiche
in quanto sono raccolte in una qualche unità. Così l’intese Wundt (Logik, II,
pag. 245 sgg.), che per unità intese l’unità della coscienza. E così l’intende
anche Dewey: «In conclusione si può affermare che la parola A., quando è
liberata da tutte le tracce del tradizionale animismo materialistico, denota la
qualità delle attività psico-fisiche, in quanto sono organizzate in unità.
Alcuni corpi hanno A. in modo eminente come altri hanno eminentemente
fragranza, colore e solidità... Dire enfaticamente di una persona particolare
che essa ha un’A. o una grande A., non significa pronunziare una frase fatta
applicabile ugualmente a tutti gli esseri umani. Esprime invece la convinzione
che l’uomo o la donna in questione possiede in grado notevole le qualità di una
sensibile, ricca e coordinata cipazione a tutte le situazioni della vita. Così
le opere d’arte, la musica, la pittura, l’architettura, hanno A., mentre altre
sono morte, meccaniche » (Experience and Nature, pag. 293 sgg.). Ma l’A. in
questo senso non è più « un abitante del corpo »; designa un insieme di
capacità o di possibilità di cui ogni singolo uomo o cosa partecipa più o meno.
L'ultima critica alla nozione di A. è quella di Ryle (Concept of Mind, 1949)
che ha battezzato la concezione dell'A. che fa risalire a Cartesio come quella
dello «spettro nella macchina ». In realtà la nozione è molto più antica, come
si è visto, e deve la sua forza, più che alle sue capacità esplicative, alle
garanzie che essa fornisce o sembra fornire a determinati valori. Ryle ritiene
che la nozione sia frutto di un errore categoriale per il quale i fatti della
vita mentale sono considerati appartenenti a un tipo o categoria (o classe di
tipi o categorie) logica (o semantica) diversa da quella cui essi appartengono.
Tale errore è simile a quello di chi, dopo aver visitato aule, laboratori,
biblioteche, musei, uffici, ecc., che costituiscono un’Università, si domandi
che cosa sia e dove risieda l’Università stessa. L'Università non è un’unità
che si aggiunga agli organismi o ai membri che la costituiscono e che possegga
quindi una realtà a parte da tali organismi o membri. Così pure l’A. non ha
realtà a parte dalle manifestazioni singole, dai comportamenti particolari
superiori che la parola serve a designare nel loro complesso. In conclusione,
anche assai prima di quest’ultima condanna, la nozione tradizionale di A. come
una specie di realtà a sè, principio e fondamento degli eventi detti mentali,
era stata abbandonata e ridotta alla nozione di un’unità funzionale o di una
qualche specie di coordinazione e di sintesi tra quegli eventi. Ma in questa
forma la nozione rinvia a quella di coscienza (v.). ANIMA BELLA (gr. xx} yuyn;
franc. Belle dime; ted. Schòne Seele). L’espressione è di origine mistica:
Plotino già parlava dell’A. bella che è l’A. che quella in cui il sentimento
morale ha finito per assicurarsi di tutte le affezioni dell’uomo, al punto da
poter abbandonare senza timore alla sensibilità la direzione della volontà,
senza mai correre il rischio di trovarsi in disaccordo con le decisioni di
questa... Un”A. bella non ha altro merito che quello di esistere. Con facilità,
come se l’istinto agisse per lei, esegue i doveri più penosi per l’umanità e il
sacrificio più eroico, che essa strappa all’istinto naturale, appare come
libero effetto di quel medesimo istinto » (Werke, ed. Karpeles, XI, 202. Cfr.
PAREYSON, L’estetica dell’Idealismo tedesco, pag. 239 sgg.). Kant non rifiutò
recisamente questo concetto di Schiller e pur attenuandolo, non negò che la
virtù potesse e dovesse accordarsi le Esperienze di Wilhelm Meister e la faceva
parlare così: «Io non mi ricordo di nessun comando; niente mi apANOMALIA 49
pare in figura di legge; è un impulso che mi conduce e mi guida sempre giusto;
io seguo liberamente le mie disposizioni e so così poco di limitazione come di
pentimento ». L’A. bella è una delle figure tipiche del Romanticismo:
l’incarmazione della moralità, non come regola o dovere, ma come effusione del
cuore o dell’istinto. Scheler, pur rendendosi conto del decadentismo di questa
nozione romantica, ritiene ancora tuttavia che « l'antica questione circa il
rapporto tra l’A. bella che vuole il dover essere ideale e lo realizza non già
per dovere ma per inclinazione, e il comportamento ‘ per il dovere * a cui Kant
riduce ogni valore morale, va risolta nel senso che l’A. bella è non solo di
pari valore, ma di valore superiore » (Formalismus, pag. 226). Ma nell’uso
contemporaneo l’espressione ha assunto un significato ironico o derisorio,
designando l'atteggiamento di chi vive contento della propria presunta
perfezione morale, ignorando o misconoscendo i problemi effettivi, le
difficoltà e le lotte che rendono difficile l'esercizio di un'attività morale
efficace. Questo capovolgimento di apprezzamento è dovuto probabilmente a
Nietzsche che nella Genealogia della morale (I, $ 10) descrisse i puri di
cuore, le A. belle che si drappeggiano poeticamente della loro virtù, come «
uomini del risentimento » che fremono di un sotterraneo spirito di vendetta
contro coloro che incarnano la ricchezza e la potenza della vita (v.
RISENTIMENTO). ANIMA DEL MONDO (gr. persàn yuxh; lat. Anima Mundi; ingl.
World-Soul; franc. Ame du monde; ted. Weltseele). Nozione che ricorre
frequentemente nella cosmologia tradizionale, la quale concepisce spesso il
mondo come « un grande animale », dotato perciò di un’A. propria. Così Platone
concepì il mondo nel Timeo e imaginò che l’A. di esso fosse costruita e
distribuita geometricamente nel mondo dal Demiurgo (Tim., 34 b). — La nozione
fu ripresa dagli Stoici che identificarono Dio col mondo e lo concepirono come
« un animale immortale, razionale, perfetto, intelligente e beato » (Diog. L.,
VII, 137). Per Plotino l’A. del mondo è la seconda emanazione dell’Uno o Dio e
procede dall’Intelletto, che è la prima emanazione, come questo procede
dall’Uno. L'A. universale guarda da un lato all’intelletto, dall’altro alle
cose inferiori o materiali che essa ordina e governa (Enn., V, 1, 2). Nella
Scolastica I’A. del mondo venne talora identificata con lo Spirito Santo: così
fece Abelardo (Theol. Christ., I, 17); e così fecero alcuni rappresentanti
della Scuola di Chartres (Bernardo Silvestre, Teodorico di Chartres). Nel
Rinascimento questa dottrina venne ripresa da Giordano Bruno che considerò Dio
come l’intelletto universale « che è la prima e principal facoltà dell'A. del
mondo, la quale è forma universale di quello {del mondo 4 — ABBAGNANO,
Disionario di filosofia, stesso] » (De /a causa, III) e fu comunemente accettata
da tutti coloro, e furono moltissimi, che ammisero la validità della magia
(Cornelio Aggrippa, Paracelso, Fracastoro, Cardano, Campanella, ecc.) giacchè
fu ritenuta il fondamento di quella « simpatia universale » fra le cose del
mondo, che il mago utilizza per i suoi incantesimi e le sue operazioni
miracolose. Del concetto di A. del mondo si servì Schellling (Sul/"A. del
mondo, 1798) per dimostrare la continuità del mondo organico e del mondo
inorganico in un fuffo che è esso stesso un organismo vivente; mentre negava
invece l’« A. mondiale » Hegel, giacchè riteneva che l’A. «ha la sua verità
effettiva solo come individualità, soggettività » (Enc., $ 391). Col prevalere
della scienza e della concezione meccanica del mondo, la nozione di A. del mondo
diveniva ovviamente inservibile. ANIMA, PARTI DELL’. V. FACOLTÀ. ANIMISMO
(ingl. Animism; franc. Animisme; ted. Animismus). Termine usato da Tylor
(Primitive Culture, 1, 1934, p. 428-29) per indicare la credenza, diffusa
presso i popoli primitivi, che le cose naturali sono tutte animate; e perciò la
tendenza a spiegare gli avvenimenti con l’azione di forze o princìpi animati.
Nell’A. così inteso il Tylor vide la forma primitiva della metafisica e della
religione. Questa dottrina partiva dal presupposto che la prima e fondamentale
preoccupazione dell’uomo primitivo sia quella di spiegare in qualche modo i
fatti che lo circondano. L'osservazione sociologica ha però mostrato che questo
non è il caso e che il primitivo è soprattutto interessato alla caccia, alla pesca,
agli eventi e alle festività della tribù: e che con questi interessi è legato
non già l'A. ma piuttosto la magia (v.). La dottrina che l’atteggiamento magico
è quello da cui è nata la religione e su cui s'impernia la cultura primitiva è
stata chiamata preanimismo. (Cfr. su di esso MARETT, The Threshold of Religion, 1909; G. FRAZER, Tie
Golden Bough, 1911-14; MaLINOWSKI, Magic Science and Religion, 1925). ANNO GRANDE. V. Cicto. ANOETICO (ingl. Anoeric;
franc. Anoétique; ted. Anoetik). Aggettivo che viene talvolta usato a designare
le funzioni diverse dall’intelletto, per es., la sensibilità, le emozioni, ecc.
ANOMALIA (ingl. Anomaly; franc. Anomalie; ted. Anomalie). In generale ogni
fatto o elemento che si scosta dal modello uniforme, costantemente riscontrato,
di un certo genere di fatti o elementi: per es., un corpo vivente presenta
un’A. se la struttura di qualche suo organo si allontana da quella riscontrata
in corpi dello stesso genere. Un fatto anomalo è un fatto che contravviene alla
previsione probabile, fondata su uniformità ricorrenti (vedi ANOMIA (ingl.
Anomy; franc. Anomie; tedesco Anomie). Termine moderno usato soprattutto da
sociologi (per es., Durkheim) per indicare l'assenza o la deficienza di
organizzazione sociale e quindi di regole che assicurino l’uniformità degli
accadimenti sociali. ANONIMIA (ted. Man). Secondo Heidegger, è il modo d’essere
livellato ‘dell’esistenza quotidiana, nella sua « medietà » pubblica, cioè
nelle forme che finisce per assumere nella vita d’ogni giorno. In tale modo
d'essere, « ognuno è gli altri e nessuno è se stesso. Il Si in cui trova
risposta il problema circa il Chi dell’Esserci quotidiano, è il nessuno a cui
ogni Esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo essere-insieme » (Sein
und Zeit, $ 27) (v. MEDIETÀ). ANORMALITÀ (ingl. Abnormality; francese
Anormalité; ted. Unregelmdssigkeit). Ciò che è contrario a una norma e perciò
si sottrae, in qualche misura, alla funzione o al fine che la norma tènde a
garantire o a raggiungere. Il termine ha un significato diverso da anomalia
(v.) giacchè questa non sempre costituisce un’anormalità. L’anomalia è una
variante imprevista, un caso che si allontana dall’uniformità riconosciuta:
essa può essere e può non essere un’anormalità. Per es., un organo anomalo è
anormale solo nel caso in cui non è in grado di adempiere alla funzione che gli
sarebbe propria. ANTECEDENTE (ingl. Antecedent; franc. Antécédent; ted.
Antezedens). In Logica, il primo termine di una conseguenza (v.). o. P.
ANTEPREDICAMENTI (lat. Antepraedicamenta; ingl. Antepredicament; franc.
Anteprédicament; ted. Antepridicament). Nel Medioevo con il nome di A. si
designava spesso l’/sagoge alle Categorie di Porfirio. Inoltre la medesima
parola designava anche, naturalmente, le quinque voces (o categorie della Logica)
trattate appunto nell’/sagoge: genere (v.), specie (v.), differenza (v.),
proprio (v.), accidente (v.). Husserl ha chiamato evidenza antepredicativa
quella con cui gli oggetti si danno, con le varie modalità del loro essere, nel
mondo della vita (v.): evidenza che è a fondamento del giudizio predicativo o
apofantico (Erfahrung i agi 1939, intr.). ANTICHI E MODERNI (ingl. pe pe
Moderns; franc. Anciens et Modernes). La
disputa sulia superiorità degli A. o dei moderni nacque in Italia con i
Pensieri diversi (1620) di Alessandro Tassoni, si svolse soprattutto in Francia
e in Inghilterra e vertè sostanzialmente intorno al concetto della storia come
progresso. La nozione di progresso anzi trova appunto la sua origine da questa
disputa e specialmente nel Dialogo dei morti (1683) di Fontenelle. Il concetto
che viene elaborato in quelle discussioni era stato già espresso da Giordano
Bruno con l’affermazione che « noi siamo più vecchi e abbiamo più lunga età che
i nostri predecessori » perchè attraverso il tempo il giudizio si matura (Cena
delle ceneri, in « Op. It. », I, 31-32); concetto che Bacone aveva a sua volta
espresso con quello di veritas filia temporis tolto da Aulo Gellio (Noct. Att.,
XII, 11): « L’antichità, diceva Bacone, fu antica e maggiore rispetto a noi, ma
per rispetto al mondo nuova e minore; ed appunto come da un uomo anziano
possiamo aspettarci molta maggior conoscenza delle cose umane e maggior
maturità di giudizio che da un giovane — per via dell’esperienza e del gran
numero di cose da lui vedute, udite e pensate — così pure dall'età nostra (se
avesse coscienza delle sue forze e volesse darsi a sperimentare e capire)
sarebbe giusto aspettarsi più gran cose che dai tempi A., essendo questa per il
mondo la maggiore età, aiutata e arricchita da infiniti esperimenti ed
osservazioni + (Nov. Oro., I, 84). Questo concetto ripetuto da Fontenelle
costituì il primo nòcciolo della nozione di progresso (v.). — (Sulla disputa
degli A. e dei moderni cfr. RIGAULT, Histoire de la querelle des Anciens et des
Modernes, 1856; J. B. Bury, 7he /dea of Progress, 1932,ANTICIPAZIONE (gr.
rp6anpis; lat. Anticipatio; ingl. Anticipation; franc. Anticipation; tedesco
Antizipation). Con questo termine i logici stoici ed epicurei designavano i
concetti generali (di genere e specie) in quanto mediante essi i dati della
esperienza erano « anticipati » dalla mente (Dioc. L., VII, 1, 54). Nella
filosofia moderna, sulle tconclude in una contraddizione; nella Logica stoica
il ragionamento che conclude in un dilemma, come «è giorno oppure non è giorno»
(invece in Aristotele «se è giorno, allora non è giorno +). G. P. ANTILOGIA
(gr. avrmoyla; ingl. Antilogy; franc. Antilogie; ted. Antilogie).
Contraddizione (v.). Talora il termine equivale a disputa, o ad arte della
disputa, perchè questa consiste nel contrapporre un argomento a un altro
argomento. AntiANTINOMIE s1 logici fu il titolo di un’opera di Protagora (Dioc.
L., II, 37). ANTILOGISMO (ingl. Antilogism; franc. Antilogisme; ted.
Antilogismus). Termine coniato con parole greche (&vri, «contro » e X6yoc,
« ragione +), introdotto per indicare atteggiamenti filosofici di ostilità alla
ragione discorsiva. G.P. ANTIMETAFISICO (ingl. Antimetaphysic; franc.
Antimétaphysique; ted. Antimetaphysik). Termine usato dai moderni ad indicare
un atteggiamento o un indirizzo di pensiero contrario alle pretese della
metafisica classica e cioè che si rifiuta di ammettere la validità di una
ricerca che proceda al di là dei confini dell’esperienza o che comunque metta
capo ad affermazioni non verificabili in termini di esperienza (v. METAFISICA).
Più specificamente la critica antimetafisica si dirige (seguendo l’esempio di
Hume) contro i due concetti fondamentali di sostanza e di causa o contro
l’interpretazione che renda possibile la loro applicazione ad oggetti che
trascendano il limite dell’esperienza. ANTINOMIE (ingl. Antinomies; franc.
Antinomies; ted. Antinomien). Con questo termine o con quello di paradossi sono
chiamate le contraddizioni cui mette capo l’uso della nozione assoluta di tutti
nella matematica e nella logica. Le A. in questo senso non erano ignote
all’antichità perchè fecero parte di quei ragionamenti insolubili o
convertibili di cui Megarici e Stoici si compiacevano e che furono talora anche
chiamati dilemmi (vedi DILEMMA). Tali ragionamenti vengono nella tarda
scolastica trattati nelle raccolte di /nsolubilia o di Obligatoria; e il più
famoso di essi è quello del mentitore che già Cicerone ricordava: « Se tu dici
che mentisci, o dici il vero e allora menti o dici il falso e allora dici la
verità » (Acad., IV, 29, 96). Questo paradosso veniva nel sec. xIv discusso da
Ockham (Summa Log., III, II, 38). Nella logica contemporanea, la prima
contraddizione del genere fu messa in luce da Burali Forti nel 1897 e
riguardava la serie dei numeri ordinali: se la serie di tutti i numeri ordinali
ha un numero ordinale, che sia, per es., w, anche è sarà un numero ordinale,
sicchè la serie di tutti i numeri ordinali avrà il numero w + 1, più grande di
w e è non sarà il numero ordinale di tutti gli ordinali (« Una. questione sui
numeri transfiniti », in Rend. del Circolo Matematico di Palermo, 1897). Ma il
più famoso paradosso, che richiamò l’attenzione su tutti gli altri, fu quello
di Russell, che concerne la classe di tutte le classi che non sono membri di se
stesse. Ci sono classi che non sono membri di se stesse, come, ad es., la
classe degli uomini: la quale, non essendo un uomo, non è membro di se stessa.
Ci sono invece classi che sono membri di se stesse, come la «classe dei
concetti », che è essa stessa un concetto. Ora la classe di tutte le classi che
non sono membri di se stesse è, o no, membro di se stessa? Se sì, contiene un
membro che è membro di se stesso e pertanto non è più la classe di tutte le
classi che non contengono se stessa come membro. Se no, sarà una delle classi
che non contengono se stessa come membro e deve perciò appartenere alla classe
di tali classi. Questo paradosso pubblicato da Russell nel 1902 ha dato poi
luogo alla riorganizzazione che della logica matematica hanno fatto Whitehead e
Russell nei Principia Mathematica (1910-13). Ao di variazione è un insieme di
oggetti individuali. Sono di grado due quelle fornite di una variabile
apparente che sta in luogo di una funzione proposizionale di grado uno; e così
via. Posto ciò, si stabilisce la regola che non si possono trattare sullo
stesso piano proposizioni ricavabili da funzioni di grado diverso. Per es.,
l’A. del mentitore dipende dal fatto che la frase «io mento » s’interpreta nel
senso: « Qualunque sia la mia presente affermazione x, x è una menzogna »; e
che si identifica questa frase, che chiamiamo », con l’affermazione x. Ma in
realtà y è di grado diverso da x perchè x è la variabile apparente contenuta in
y: perciò non può essere identificata con y. In altre parole, quando si dice ‘
io mentisco ’, non s’intende che è una menzogna la frase stessa «io mentisco »
ma che è una menzogna qualche altra frase cui essa fa riferimento. Russell
tuttavia per rendere possibile in matematica quel tipo di asserzione
impropriamente espressa con la frase (che dà luogo alle A.) «tutte le proprietà
di x, introduceva l’assioma delle classi o assioma di riducibilità. Egli
diceva: «Sia g x una funzione, di qualsiasi ordine, di un argomento x che può
essere o un individuo o una funzione di qualsiasi ordine. Se ® è dell’ordine
immediatamente superiore a x, scriviamo la funzione nella forma p!x; e in tal
caso chiameremo ® una funzione predicativa. Così la funzione predicativa di un
individuo è una funzione di primo ordine; e per argomenti di tipo più alto le
funzioni predicative prendono il posto che le funzioni di primo ordine prendono
nei rispetti degli individui. Noi assumiamo allora che ogni funzione è
equivalente, per tutti i suoi valori, a qualche funzione predicativa dello
stesso argomento » (Mathematical Logic, ecc., Op. Cit., pagina 81-82). Russell
riteneva di avere in questo modo salvato il concetto di classe dall’A. e nello
stesso tempo di averlo reso ancora utilizzabile nella sua funzione
fondamentale, che sarebbe quella di ridurre l’ordine delle funzioni
proposizionali; ma l’assioma suscitò molte critiche, che mostrarono
specialmente come esso aveva l’effetto di restaurare la possibilità di quelle
definizioni impredicative che la teoria dei gradi era diretta ad eliminare
(cfr. su tali critiche A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 59, n.
588). Lo stesso Russell nella Introduzione alla seconda edizione dei Principia
Mathematica (1925) raccomandava l’abbandono dell’assioma di riducibilità.
Ramsey propose allora di dividere le A. in due categorie: le antinomie /ogiche
(in senso stretto) che sono quelle esemplificate dall’A. di Russell e che non
fanno riferimento alla verità o falsità delle espressioni; e le A. sintattiche,
esemplificate dall'A. del mentitore, che sono quelle che nascono dal
riferimento semantico e si possono perciò anche chiamare semantiche o
epistemologiche (Foundations of Mathematics, 1931). Ramsey osservò che le
antinomie della seconda specie non compaiono nei sistemi logistici ma solo nei
testi che li accompagnano e che pertanto esse possono essere trascurate dalla
logica in quanto ha per oggetto la costruzione di sistemi simbolici. Per le A.
logiche, invece, Ramsey osservò che basta la teoria semplice dei tipi; la cui
regola fondamentale, Carnap, seguendo il suggerimento di Ramsey, ha così
formulata: « Un predicato appartiene sempre a un tipo diverso da quello dei
suoi argomenti (cioè appartiene a un tipo di livello più alto); e perciò un
enunciato non può avere mai la forma ‘F(F)’» (The Logical Syntax of Language, $
60 a). Questa regola basta a evitare le definizioni impredicative (v.): sicchè
la teoria dei tipi semplici è quella oggi più comunemente accettata dai logici,
per ciò che concerne le A. logiche. 2° La seconda soluzione fondamentale delle
A. riguarda invece le A. sintattiche cioè semanticoepistemologiche, che sono
quelle nelle quali ricorrono i concetti di vero e falso. Questa soluzione
consiste nel considerare quelle A. come proposizioni indecidibili cioè come
proposizioni sulla cui verità o falsità la struttura della lingua, nella quale
esse sono formulate, non permette di decidere nè in un senso nè nell’altro.
Mediante un ampliamento della lingua considerata, tali proposizioni possono
diventare suscettibili di decisione; ma a sua volta tale ampliamento può dar
luogo ad altre proposizioni indecise. Una soluzione di questo genere era stata
già prospettata da Ockham quando, nell’analisi del paradosso del mentitore,
aveva riconosciuto il carattere indecidibile degli enunciati autoriflessivi.
Così, diceva Ockham, non è legittimo porre che A significhi « A significa il
falso». È certamente possibile che A significhi il falso; ma appunto
perchèANTINOMIE è possibile, e soltanto tale, esso non significa nè il vero nè
il falso (Summa Log., III, II, 38). Questo punto di vista è stato oggi
rafforzato dal cosiddetto teorema di Gédel secondo il quale è impossibile
provare la non contraddittorietà di un sistema logistico con i mezzi di
espressione contenuti nello stesso sistema (« Ùber formal unentscheidbare Sétze
der Principia Mathematica und verwandter Systeme », in Monatsh. Math. Phys.,
1931). Posto ciò, si può intendere come le A. sintattiche nascano quando i
predicati vero e falso, riferiti a un linguaggio determinato S, sono usati
dentro questo stesso linguaggio. Dall’altro lato, la contraddizione può essere
evitata adoperando i predicati ‘vero (in S)” e ‘falso (in S)” in una sintassi
di S, che non è formulata nello stesso S; ma in un altro linguaggio Sy (CARNAP,
Logical Syntax of Language, $ 60b). Questo equivale a dire che l'affermazione
«io mentisco» può essere vera al livello di un certo linguaggio e falsa al
livello di un altro linguaggio; e che cioè essa rimane indecisa finchè non si è
determinato il livello del linguaggio a cui viene riferita. Soluzioni sostanzialmente
simili a queste sono state proposte da Quine (Mathematical Logic, 1940, cap. VII; cfr. From a Logical
Point of View, VII, 3) e da Church (Introduction to Mathematical Logic, $ 57). ANTINOMIE KANTIANE (ingl.
Kanzian Antinomies; franc. Antinomies kantiennes; ted. Kants Antinomien). La parola A. significa propriamente «conflitto di
leggi» (QUINTILIANO, /nst. Or., VII, 7, 1) ma fu estesa da Kant a indicare il
conflitto in cui la ragione viene a trovarsi con se stessa in virtù dei suoi
stessi procedimenti. Kant parlò delle A. nel campo della cosmologia razionale,
cioè della dottrina che ha per oggetto l’idea del mondo. Questa idea, come
tutte le idee della ragion pura (v. IDEA), nasce dal tentativo, illegittimo
secondo Kant, di applicare le categorie a se stesse, cioè dall’uso riflessivo
delle categorie. L’idea di mondo è infatti «l’unità incondizionata delle
condizioni oggettive della possibilità degli oggetti in generale ». Le «
condizioni oggettive, ecc. », sono le categorie e i princìpi da esse derivati;
e l’unità è ancora una categoria. Le A. che sorgono in questo modo sono,
secondo Kant, naturali o inevitabili: naturali perchè l’idea di mondo, che ad
esse dà origine, per quanto priva di validità empirica e quindi conoscitiva, è
formata dalla ragione con un procedimento naturale che consiste nell’applicare
alle categorie le stesse categorie, che dovrebbero essere invece applicate
soltanto ai fenomeni; inevitabili, perchè una volta formatasi l’idea di mondo
come la totalità assoluta, incondizionata, di tutti i fenomeni e delle loro
condizioni, non si può in alcun modo evitare di giunKANTIANE 53 gere a
proposizioni contraddittorie. Kant enumera quattro A. che corrispondono ai
quattro gruppi di categorie, cioè alle categorie secondo la qualità, la quantità,
la relazione e la modalità. Ecco le quattro A.: 18 Antinomia. Tesi: il mondo ha
un inizio nel tempo e, nello spazio, è chiuso dentro limiti. Antitesi: il mondo
non ha nè inizio nel tempo nè limite nello spazio ma è infinito sia nel tempo
che nello spazio. 2 Antinomia. Tesi: ogni sostanza composta consta di parti
semplici e non esiste altro che il semplice o ciò che risulta composto dal:
semplice. Antitesi: non esiste al mondo alcuna cosa composta di parti semplici
e non esiste in nessun luogo niente di semplice. 3» Antinomia. Tesi: la
causalità secondo leggi della natura non è la sola da cui possano essere
spiegati i fenomeni del mondo. È necessario ammettere per la spiegazione di
essi anche una causalità della libertà. Antitesi: non c’è alcuna libertà, ma
tutto nel mondo accade unicamente secondo le leggi della natura. 48 Antinomia.
Tesi: nel mondo c’è qualcosa che o come sua parte o come sua causa è un essere
assolutamente necessario. Antfitesi: in nessun luogo esiste un essere
assolutamente necessario nè nel mondo nè fuori del mondo come sua causa. Sia la
tesi che l’antitesi di ciascuna di queste A. è dimostrabile con argomenti
logicamente ineccepibili: tra l’una e l’altra è quindi impossibile decidere. Il
conflitto pertanto rimane e dimostra l’illegittimità della nozione che gli ha
dato origine, cioè dell’idea di mondo. Questa, essendo al di là di ogni
esperienza possibile, rimane inconoscibile e non può fornire alcun criterio
àtto a decidere per l’una o l’altra delle tesi in conflitto. L’illegittimità
della nozione di mondo risulta evidente dal fatto che la tesi delle A. presenta
un concetto di esso troppo piccolo per l’intelletto, mentre l’antitesi presenta
un concetto troppo grande per l'intelletto stesso. Così, se il mondo ha avuto
un principio, regredendo empiricamente nella serie dei tempi bisognerebbe
arrivare ad un momento in cui questo regresso si arresta; e questo è un
concetto del mondo troppo piccolo per l’intelletto. Se invece il mondo non ha
avuto un principio, il regresso nella serie del tempo non può mai esaurire
l’eternità; e questo è un concetto troppo grande per l’intelletto. Lo stesso si
dica per la finità o l’infinità spaziale, per la divisibilità o io di sommo
bene: «O il desiderio della felicità dev'essere la causa movente per la massima
della virtù o la massima della virtù dev'essere la causa efficiente della
felicità »; ed una A. del giudizio teleologico (Critica d. Giud., $ 70) che è
formata dalla tesi « Ogni produzione delle cose materiali è possibile secondo
leggi puramente meccaniche » e dall’antitesi « Alcuni prodotti della natura non
sono possibili secondo leggi puramente meccaniche ». A proposito delle A.
kantiane, Hegel le interpretava come se Kant avesse voluto togliere la
contraddizione dal mondo in se stesso e attribuirla alla ragione. E aggiungeva:
«È questa una troppo grande tenerezza per il mondo, voler allontanare da esso
la contraddizione per trasportarla invece e lasciarla altro le tesi di esse e
rigettava le antitesi, riconoscendo così la finità del mondo nello spazio e nel
tempo (Essais de critique générale, I, pag. 282). Il risultato raggiunto dalla
discussione kantiana delle A. è tuttavia importante. Esso consiste nell’aver
messo in quarantena l’idea tradizionale del mondo come totalità assoluta e
nell’aver insegnato l’uso critico del concetto di mondo (v.). ANTIPERISTASI
(gr. dvrireplotani; lat. Antiparistasis). Uno dei modi tradizionali di spiegare
il movimento dei proiettili; poichè la natura non permette il vuoto, quando un
corpo esce velocemente dal luogo in cui stava, l’aria si precipita in questo
luogo e spinge il corpo stesso che passa così ad un altro luogo; e così via,
per tutta l’estensione del movimento. A questa spiegazione, Aristotele
obiettava che essa non tiene conto del fatto che esiste un corpo che non è
mosso da altro: il cielo (Fis., VIII, 10, 267 a 12). La nozione fu criticata da
coloro che elaborarono la dottrina dell’impeto (v.): per es., da Buridano
(Quaesr. super physicam, VIII, q. 12. Cfr. anche BoviLLo, De Nihilo, in Opera,
1510, f. 72 v.). ANTISTORICISMO (ingl. Antihistoricism; franc.
Antihistoricisme; ted. Antihistorismus). Termine adoperato soprattutto da Croce
per designare l’Illuminismo che, come «razionalismo astratto » avrebbe
considerato « la realtà divisa in soprastoria e storia, in un mondo di idee o
di valori e in un basso mondo che le riflette o le ha riflesse finora in modo
fuggevole o imperfetto e al quale converrà una buona volta imporli, facendo
succedere alla storia imperfetta o alla storia senz’altro una realtà razionale
perfetta » (La storia, pag. 51). Da questo punto di vista, sono « antistoriche
» tutte le dottrine che distinguono ciò che è da ciò che dev'essere e cioè che
non ammettono l’identificazione hegeliana di realtà e razionalità. — In realtà,
l’Illuminismo non è « antistoricismo » ma piuttosto « antitradizionalismo », in
quanto ha costituito la prima e più radicale condanna della tradizione come
portatrice e garante di verità (v. ILLUMINISMO; TRADIZIONE). ANTITESI (gr.
d&vrtdeoc; ingl. Antithesis; franc. Antithèse; ted. Antithesis). 1.
Contrapposizione: Aristotele dice che la contraddizione è una A. che non ha
termine medio (An. post., I, 2, 72 a 10). 2. Uno dei due termini della
contrapposizione, quello che si oppone alla tesi. In questo senso Kant chiamò
A. il secondo membro dell’antinomia (v.) ed Hegel chiamò A. il secondo momento
del procedimento dialettico detto appunto « momento dialettico » o « negativo
razionale». ANTITETICA (ted. Antithetik). Kant intese con questo termine «un
conflitto di conoscenze in apparenza dogmatiche (thesis cum antithesi) a
nessuna delle quali si attribuisca un diritto prevalente all’assenso ». L’A. si
opporrebbe così alla Tetica (v.). In particolare, l’A. trascendentale è «una
ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo
risultato » (Crit. R. Pura, Dialettica, libro II, cap. II, sez. II). ANTITIPIA
(gr. dvritria; lat. Antitypia; ingl. Antitypy). Termine d’origine epicurea
(SESTO, Adv. Math., I, 21) adoperato da Leibniz per indicare l'attributo della
materia per il quale «essa è nello spazio » e per il quale perciò un corpo è
impenetrabile all’altro (Op., ed. Erdmann, pag. 463, 691). ANTROPOLOGIA (ingl.
Anthropology; francese Anthropologie; ted. Anthropologie). L’esposizione
sistematica delle conoscenze che si hanno intorno all’uomo. In questo senso
generale l’A. è stata ed è una parte di ogni filosofia; ma come disciplina
specifica e relativamente autonoma essa APATIA 55 è nata solo in tempi moderni.
Kant distinse un’A. fisiologica che considera quel che la natura fa dell’uomo
da un’A. pragmatica che considera invece quello che l’uomo come essere libero
fa, oppure può suo oggetto proprio non solo nell’analisi e nella
classificazione dei linguaggi ma nella comprensione, attraverso i linguaggi,
della psicologia individuale e di gruppo (cfr., R. Linton, ed. The Science of
Man in the World Crisis, 1945, 1952”). Secondo Lévi-Strauss lA. si distingue
dalla sociologia in quanto tende ad essere la scienza sociale dell’osservato
mentre la sociologia tende ad essere la scienza sociale dell'osservatore
(Anthr. structurale, 1958, cap. XVII). I filosofi hanno spesso sottolineato
l’importanza dell’A. come scienza filosofica, cioè come determinazione di ciò
che l’uomo deve essere, nei confronti di ciò che è. Humboldt, per es., voleva
che l’A., pur movendo a determinare le condizioni naturali dell’uomo
(temperamento, razza, nazionalità, ecc.) mirasse a scoprire, attraverso di
esse, l’ideale stesso dell'umanità, la forma incondizionata, alla quale nessun
individuo si adegua mai perfettamente ma che rimane lo scopo cui tutti gli
individui tendono ad avvicinarsi (Schriften, I, pag. 388 sgg.). In tal senso
l’A. è stata intesa da Scheler (// posto dell’uomo nel cosmo, 1928) che perciò
la colloca in un posto intermedio tra la scienza positiva e la metafisica. —
Più specificamente il còmpito dell’A. filosofica dovrebbe essere quello di
considerare l’uomo non già semplicemente come natura, come vita, come volontà,
come spirito, ecc., ma precisamente come uomo e cioè di riportare il complesso
delle condizioni o degli elementi che lo costituiscono al suo modo di esistenza
specifico. Tale è l’esigenza prospettata, per es., da Biswanger (Ausgewédhite
Vortràge und Ausdtze, I, pag. 176). E in questo senso il Saggio sull'uomo
(1944) di Cassirer è una ricerca di A. filosofica che si accentra intorno al
concetto dell’uomo come animal symbolicum, cioè come animale che parla e crea
l’universo simbolico della lingua, del mito e della religione. ANTROPOMORFISMO
(inglese Anthropomorphism; franc. Anthropomorphisme; ted. Anthropomorphismus).
S'indica con questo nome la tendenza a interpretare ogni tipo o specie di
realtà nei termini del comportamento umano o per somiglianza o analogia con
questo comportamento. « Credenze antropomorfiche » 0 « antropomorfismi » sono
dette solitamente le interpretazioni di Dio in termini di condotta umana. Una
critica di tale A. fu già fatta da Senofane di Colofone. « Gli uomini, egli
disse, credono che gli dèi hanno avuto nascita e hanno voce e corpo simili al
loro » (Fr. 14, Diels) perciò gli Etiopi fanno i loro dèi camusi e neri, i
Traci dicono che hanno occhi azzurri e capelli rossi; e anche i buoi, i
cavalli, i leoni, se potessero, imaginerebbero i loro dèi a loro somiglianza
(Fr. 16, 15). — Ma l’A. non appartiene soltanto al dominio delle credenze
religiose. L'intera scienza moderna si è venuta formando attraverso una
progressiva liberazione dall'A. e lo sforzo di considerare le operazioni della
natura non secondo la loro somiglianza con quelle dell’uomo, ma juxta propria
principia. PANTROPOSOFIA (ingl. Anthroposophy, francese Anthroposophie; ted.
Anthroposophie). Il termine fu creato da J. P. V. Troxler per indicare, la
dottrina naturale della conoscenza umana (Naturlehre der menschlichen
Erkenntnis, 1828) e ripreso da R. Steiner quando, nel 1913 si distaccò dal
movimento teosofico e volle sottolineare l’importanza della dottrina intorno
alla natura e al destino dell’uomo. Cfr. STEINER, Die Rétsel der Philosophie, 2
voll., 1924-26 (v. TEOSOFIA). APAGOGICO, PROCEDIMENTO. Vedi ABDUZIONE;
RIDUZIONE. APATIA (gr. &rdBeva; ingl. Apathy; franc. Apathie; ted.
Apathie). Il termine propriamente significa insensibilità; ma nell’uso
filosofico antico esso designò l’ideale morale dei Cinici e degli Stoici, cioè
l'indifferenza verso tutte le emozioni e il disprezzo di esse: indifferenza e
disprezzo raggiunti attraverso l’esercizio della virtù. In questo senso, per
cui l’insensibilità non è una dote nativa e naturale, ma un ideale di vita
difficile a raggiungersi, Cinici e Stoici videro nell’A. la felicità stessa
(Diog. L., VI, 1, 8-11). Kant vide nell’A. un nobile ideale, ma aggiunse che la
natura fu saggia a dare all’uomo la simpatia, per guidarlo provvisoriamente e
cioè prima che la ragione raggiunga in lui la sua maturità, come un aiuto o
appoggio sensibile alla legge morale e surrogato temporaneo della ragione
(4ntr., $ 75). L’età moderna e contemporanea, nonostante la grande suggestione
che l’etica stoica ha sempre esercitato, non si mostra propensa all’ideale
dell’A., giacchè essa è portata a riconoscere il valore positivo delle emozioni
e ad evitare, perciò, la condanna sommaria e totale di esse che è inclusa nella
nozione di apatia (v. EMOZIONE). APEIRON (gr. &repov). L'infinito o
l’indeterminato: secondo Anassimandro di Mileto, il principio e l'elemento
primordiale delie cose. Esso non è una miscela dei vari elementi corporei, in
cui questi siano compresi ognuno con le sue qualità determinate; ma piuttosto è
una materia in cui gli elementi non sono ancora distinti e che perciò, oltre che
infinita, è anche indefinita o indeterminata (Diels, A, 9). Questa duplice
determinazione di infinità nel senso di inesauribilità e di indeterminatezza è
poi rimasta per molto tempo attaccata al concetto di infinito (v.). APERTO
(ingl. Open; franc. Ouvert). Aggettivo adoperato frequentemente in senso
metaforico nel linguaggio comune e filosofico per indicare atteggiamenti o
istituzioni che ammettono la possibilità di una partecipazione o comunicazione
estesa o addirittura universale. Uno «spirito aperto» è uno spirito accessibile
a suggerimenti, consigli, critiche che gli vengono dagli altri o dalla stessa
situazione e che è disposto a tenere nel massimo conto, cioè senza pregiudizi,
tali suggerimenti. Una «società aperta» è una società che rende possibile per
vie pacifiche la correzione delle proprie istituzioni (K. Popper, The Open
Society and its Enemies, London, 1945). Bergson chiamò società aperta quella
che «abbraccia l’umanità intera» (Deux sources, 1932, I; trad. ital., pag. 28).
C. Morris ha issa che interpreta il succedersi dei mondi come il teatro della
progressiva rieducazione degli esseri alla condizione beata originaria.
Gregorio afferma anche recisamente il carattere universale dell’A.: « Perfino
l’inventore del male (cioè il demonio), unirà la propria voce all’inno di
gratitudine al Salvatore » (De hom. opif., 26). Nell’età moderna una dottrina
analoga è stata sostenuta da Renouvier nella Nuova Monadologia (1899): viene
qui ripresa la tesi di Origene di una pluralità di mondi successivi e del passaggio
da un mondo all’altro determinato dall’uso che l’uomo fa della libertà in
ciascuno di essi; e la si corregge solo nel senso che «la fine raggiunta si
ricongiunge col principio, non nell’indistinzione delle anime, ma nell’umanità
perfeer oggetto la verità necessaria, cioè la verità propriamente detta e che
ci conduce attraverso l’apodissi cioè la dimostrazione alla scienza, sicchè
giustamente viene chiamata sia apodittica sia epistemonica» (Logica
Hamburgensis, 1638, IV, I, cap. I, $ 1). Questo nome è stato poi raramente
usato (cfr., ad es., BOUTERWEK, /deen zu einer Apodiktik, 1799). APODITTICO
(gr. &rodemtixéc ; lat. Apodicticus; franc. Apodictique; ted. Apodiktisch).
1. Dimostrativo. Questo è il significato generale e fondamentale del termine:
significato che esso ha in Aristotele sia quando Aristotele lo riferisce alla
proposizione (An. Pr., I, 1, 24 a 30) sia quando lo riferisce alla scienza,
definita come «abito dimostrativo » (Fr. Nic., VI, 3, 1139 b 31). 2.
Necessario. Questo secondo significato è stato introdotto come significato
primario da Kant che chiamò A. i giudizi in cui l’affermazione o la negazione
si considera come necessaria. « La proposizione A., scrisse Kant, pensa il
giudizio assertorideterminato attraverso le leggi dello stesso intelletto e
perciò affermato a priori; ed esprime così una necessità logica » (Crit. R.
Pura, $ 9, 4). Questa, ovviamente, non è la necessità della dimostrazione. Kant
però non escluse neppure il significato tradizionale perchè divise le
proposizioni apodittiche in quelle dimostrabili e quelle immediatamente certe
(Ibid., Dottrina del metodo, cap. I, sez. I [A 736, B 764]). L’uso di Kant è
stato seguito da Husserl che ha parlato di « visione A. + e di «evidenza A.?
(Ideena verità contemplata l’uomo greco vedeva dappertutto l'aspetto orribile e
assurdo dell’esistenza: l’arte gli venne in soccorso, trasfigurando l’orribile
e l’assurdo in imagini ideali, per virtù delle quali la vita fu resa
accettabile (Geburr der Tragòdie, $ 7). La trasfigurazione fu compiuta dallo
spirito dionisiaco, modulato e disciplinato dallo spirito apollineo, e dètte
luogo alla tragedia e alla commedia. Più tardi Nietzsche vide nello spirito
dionisiaco il fondamento stesso dell’arte in quanto questa «corrisponde agli
stati di vigore animale » (Wille sur Macht, $ 361, ed. Kroner, 802). Lo stato
apollineo non è che la risultanza estrema dell’ebbrezza dionisiaca, una specie
di semplificazione e concentrazione dell’ebbrezza stessa. Lo stile classico
rappresenta questo stato ed è la forma più elevata del sentimento di potenza.
Sull’esempio di Nietzsche, Spengler ha chiamato apollinea « l’anima della
cultura antica che ha scelto il corpo individuale presente e sensibile come
tipo ideale della estensione ». Apollinei sono «la statica meccanica, i culti
materiali degli dèi dell'Olimpo, le città greche politicamente isolate, la
sorte di Edipo e il simbolo del fallo» (Untergang des Abendlandes, I, 3, 2, $
6). Questa caratterizzazione come quella corrispondente di faustismo (v.) è
perfettamente arbitraria e fanAPOLOGETICA (ingl. Apologetics; franc.
Apologétique; ted. Apologetik). La disciplina che ha per oggetto la difesa
(apologia) di un determinato sistema di credenze. Il termine viene più
frequentemente riferito alla difesa delle credenze religiose: per es., « A.
cristiana ». APOLOGISTI (ingl. Apologists; franc. Apologistes; ted.
Apologeten). Si chiamano con questo nome i Padri della Chiesa del n secolo che
scrivevano in difesa (apologia) del Cristianesimo contro gli attacchi e le
persecuzioni che gli venivano mossi. La prima apologia di cui si abbia notizia
(ma ne rimane solo un frammento) è la difesa presentata all'imperatore Adriano
intorno al 124 da Quadrato, discepolo degli Apostoli. Il principale dei Padri
A. è Giustino. Altri autori di apologie sono Taziano, Atenagora, Teofilo,
Ermia. Coi Padri A. comincia l’attività filosofica cristiana. La tesi comune
che essi difendono è che il Cristianesimo è la sola filosofia sicura ed utile
ed è il risultato ultimo al quale la ragione deve giungere. I filosofi pagani
conobbero semi di verità che essi non potettero intendere appieno: i Cristiani
conoscono la verità intera perchè Cristo è il /ogos, cioè la ragione stessa
della quale partecipa tutto il genere umano. L’apologetica di questi Padri
costituisce perciò il primo tentativo di inserzione del Cristianesimo nella
storia della filosofia classica. APONIA (gr. &rovia; ingl. Aponia; franc.
Aponie; ted. Aponie). L'assenza di dolore come piacere stabile, e quindi
eticamente accettabile, nell’etica di Epicuro (Fr. 2, Usener). APOREMA (gr.
&répnua; ingl. Aporem; francese Aporème; ted. Aporem). In Aristotele (Top.,
VIII, 11, 162 a), è definito come un ragionamento dialettico che conclude ad
una contraddizione, e quindi che non permette di stabilire per quale dei due
corni della contraddizione stessa si debba scegliere. G.P. APORETICA (ingl.
Aporetic; franc. Aporétique; ted. Aporetik). Così Nicolai Hartmann ha chiamato
(da aporia = dubbio) quello stadio della ricerca filosofica che consiste nel
mettere alla luce i problemi cioè tutti quegli aspetti dei fenomeni che non
sono stati compresi e che perciò costituiscono le aporie naturali
(Systemarische Philosophie, $ 5). APORIA (gr. &ropla; ingl. Aporia; franc.
Aporie; ted. Aporie). Questo termine viene usato nel senso di dubbio razionale
cioè di difficoltà inerente a un ragionamento e non di stato soggettivo di
incertezza. Essa è perciò il dubbio oggettivo, l’effettiva difficoltà di un
ragionamento o della conclusione cui un ragionamento mette capo. Per es., « Le
A. di Zenone d’Elea sul movimento », « Le A. dell’infinito », ecc. A
POSTERIORI. V. A PRIORI. APPARENZA (gr. tò qparvuevov; lat. Apparentia; ingl.
Appearance; franc. Apparence; tedesco Erscheinung). Questo termine ha avuto
nella storia della filosofia due significati simmetricamente opposti. Esso è
stato inteso: 1° come nascondimento della realtà; 2° come manifestazione o
rivelazione della realtà stessa. Secondo il significato 1°, l’A. vela od oscura
la realtà delle cose sicchè questa non si può conoscere se non procedendo al di
là dell’A. e prescindendo da essa. Secondo il significato 2°, l’A. è ciò che
manifesta o rivela la realtà stessa, sicchè questa trova nell’A. la sua veriA.
e realtà fu per la prima volta stabilito in modo netto e tagliente da Parmenide
d’Elea che contrappose «la via della verità e della persuasione », che ha per
oggetto l’essere, la sua unità, inevitabilità e necessità, alla «via
dell’opinione» che ha per oggetto il non essere, cioè il mondo sensibile nel
suo divenire. Ma il mondo dell’opinione e il mondo dell’A. coincidono, secondo
Parmenide: « Anche questo imparerai: come siano verosimilmente le cose
apparenti per chi le esamini in tutto e per tutto» (Fr. 1, 31, Diels). La
stessa coincidenza tra A. e opinione, opinione e sensazione è presupposta da
Platone, che interpreta il principio protagoreo dell’homomensura come se
significasse « quali le cose appaiono a me tali sono per me» e pertanto come se
identificasse conoscenza e sensazione (7eef., 152 a). D'altra parte il mondo
dell'opinione è, secondo la Repubblica, il mondo sensibile diviso nei suoi due
segmenti delle ombre e imagini riflesse, e delle cose e degli esseri viventi
(Rep., VI, 510). Di questo mondo delle A. sensibili non si può avere, secondo
Platone, che conoscenza verosimile o probabile, data la sua natura incerta e
sfuggente: conoscenza che differisce non di grado ma di qualità dalla
conoscenza scientifica o razionale che ha per oggetto l’essere (7irm., 29). Lo
stesso Platone tuttavia affermando che l’oggetto dell’opinione sta all’oggetto
della conoscenza come l’imagine sta al modello (Rep., VI, 510a), ammise un
rapporto di somiglianza o di corrispondenza tra A. e realtà. Ma il passo
decisivo fu fatto da Aristotele che riconobbe la neutralità dell’A. sensibile:
questa, sia come sensazione, sia come imagine può essere tanto vera che falsa.
Certamente hanno torto coloro che ritengono che è vero tutto ciò che appare
giacchè questi dovrebbero ammettere anche la realtà dei sogni; e, rispetto al
futuro, non potrebbero stabilire alcuna differenza tra il parere dell’esperto
(per es., del medico che fa la prognosi) e il parere dell’ignorante (Mer., IV,
5, 1010 b 1 sgg.). L'A. non contiene quindi nessuna garanzia di verità e solo
il giudizio intellettuale su di essa può certificarla o confutarla. Ma
d’altronde essa è il punto di partenza della stessa ricerca scientifica la
quale, come è chiarito da ciò che i matematici fanno ril’intero mondo sensibile
come l’A., cioè la manifestazione, del mondo intellegibile, e quest’ultimo come
l’A. o l’imagine di Dio stesso: pensiero che sarà ereditato da Scoto Eriugena:
« Tutto ciò che s’intende e si sente non è altro che l’apparizione
dell’apparente, la manifestazione dell’occulto (De divis. nat., III, 4)». Da
questo punto di vista «il mondo è una teofania, ogni opera della creazione
manifesta l’essenza di Dio che perciò diventa apparente e visibile in essa e
per essa » (/bid., I, 10; V, 23). Lungo l’una o l’altra di queste due vie
procede quella che si potrebbe chiamare la rivalutazione dell’A. del mondo
moderno. Lungo la prima procede quella che si potrebbe chiamare la
rivalutazione empiristica. Già nella Scolastica del °300, Pietro Aureolo
partendo dalla negazione di ogni realtà universale e nell’intento di eliminare
la species come intermediaria della conoscenza intellettuale, affermava che «
le cose stesse sono viste dalla mente e ciò che si vede non è una qualche forma
speculare ma è la cosa stessa nel suo essere apparente (esse apparens) e questo
essere apparente è ciò che chiamiamo concetto o rappresentazione oggettiva »
(In Sent., I, d. 9, a. 1). La distinzione tra il senso e l’intelletto non
dipende perciò dalla natura dell'oggetto appreso ma dal modo di apprendere. Al
senso e all’imaginazione le cose appaiono sotto le condizioni della quantità mentre
l’intelletto astrae da ciò che è quantitativo e materiale (/bid., I, d. 35, a.
1). Ma è solo nel mondo moderno, a partassunta come punto di partenza
dell'indagine che concerne le cose non create dall’uomo (al modo in cui le
definizioni sono il punto di partenza per l'indagine delle cose create
dall’uomo, cioè degli enti matematici e politici). Con queste parole di Hobbes
era posto il fondamento dell’empirismo moderno. Esso, mentre sottolineava il
carattere relativo e soggettivo delle A. sensibili, le assunse come l’unico
fondamento della conoscenza umana. Locke osserva che se i nostri sensi
venissero modificati e resi più pronti cd acuti, l’A. delle cose muterebbe
completamente; ma con ciò essa diverrebbe anche incompatibile con l’essere
nostro o almeno con i bisogni della nostra vita (Saggio, II, 23, 12). «A.
sensibili» sono le idee di cui parla Berkeley (Prinma Kant, che i corpi paiano
semplicemente esseri esterni o che l’anima mia paia semplicemente data nella
mia autocoscienza, quando affermo che le qualità dello spazio e del tempo,
secondo le quali, come condizione della loro esistenza, pongo quelli e questa,
sono nel mio modo di intuire e non in questi oggetti. Sarebbe un errore il mio,
se facessi una pura parvenza di ciò che devo considerare come fenomeno » (Crif.
R. Pura, Estetica trascendentale, Osservazioni gen., 3). L'affermazione: «I
sensi ci rappresentano gli oggetti come appaiono, l’intelletto come sono» viene
interpretata da Kant nel senso che l’intelletto rappresenta gli oggetti nella
connessione universale dei fenomeni (il che non dice che essi siano
indipendenti dalla relazione con l’esperienza possibile e quindi dalle « A.
sensibili +) (/bid., Analitica dei princìpi, cap. III). L’A. fenomenica è
dunque chiamata tale solo per sottolinearne le connessioni con le condizioni
soggettive del conoscere e per distinguerla dall’ipotetica conoscenza noumenica
in modo da poterne chiaramente stabilire i limiti (v. FENOMENO). Dall’altro
lato la stessa negazione del carattere ingannevole dell’A., è stata utilizzata,
nella filosofia moderna, per ribadire il carattere assoluto della conoscenza
umana. Così Hegel vede nell’A. fenomenica l’essenza stessa. A. ed essenza non
si oppongono ma s’identificano: l’A. non è che l'essenza che esiste nella sua
immediatezza. « L’apparire, egli dice, è la determinazione per mezzo di cui
l’essenza non è essere ma essenza; e l’apparire sviluppato è 60 APPERCEZIONE il
fenomeno. L’essenza non è perciò dietro o di là del fenomeno; ma, perciò
appunto che l’essenza è quel che esiste, l’esistenza è il fenomeno + (Enc., $
131). Vero è che come determinazione « immediata », l’A. è destinata, secondo
Hegel, ad essere assorbita o superata da altre determinazioni, riflesse o
mediate, nello sviluppo dialettico dell’Idea assoluta; ma è pur vero che
l’intera dottrina di Hegel è sorretta dal pensiero che non c’è realtà così
recondita che in qualche modo non si manifesti ed appaia. Nella filosofia
contemporanea questo punto di vista ha trovato la sua migliore espressione per
opera di Heidegger. « Quale significato dell’espressione ‘fenomeno * è quindi
da tener ben fermo il seguente: ciò che si manifesta in se stesso, il
rivelato... Questo manifestarsi lo definiamo come apparire (Scheinen). Anche in
greco l’espressione phainomenon, ha questo significato: ciò che ha l’aspetto di
apparente, A. ... Soltanto perchè qualcosa, in virtù del suo senso, pretende in
generale di manifestarsi, cioè di essere fenomeno, è possibile che essa si
manifesti come qualcosa che non è, cioè abbia l’aspetto di... Noi riserviamo al
termine ‘ fenomeno * il significato positivo e originario di phainomenon e
distinguiamo fenomeno da A., considerando quest’ultima come una modificazione
privativa di fenomeno» (Sein und Zeit, $ 7A). Questo tuttavia non vuol dire che
la filosofia contemporanea ha identificato l’essere con l’apparenza. Essa ha
piuttosto riproposto in nuova forma il problema del loro rapporto passando a
considerare questo rapporto in forma oggettiva od ontologica cioè senza
riferimento ad una qualsiasi soggettivazione idealistica. Non è senza ragione
che l’ultima opera importante nella quale sia stato dibattuto nella forma
tradizionale il problema del rapporto tra apparenza e realtà appartiene a un
idealista: F. H. Bradley (A. e Realtà, 1893). Soprattutto per l’influenza
dell’impostazione fenomenologica (vedi FeNoMENOLOGIA) la considerazione del
rapporto tra l’apparire e l’essere è stata sottratta completamente sia al
dualismo tra questi due termini sia agli altri dualismi coi quali veniva di
solito interpretata, come quello tra sensazione e pensiero, soggettività e
oggettività, ecc. L’intero rapporto si colloca sul piano oggettivo delle
esperienze diverse o dei gradi diversi di esperienza. Un filosofo che fonda le
sue costruzioni su un gruppo di esperienze o su un dato tipo di realtà, che
perciò in qualche modo privilegia e considera fondamentale, è portato a
valutare meno reali o significanti e in qualche modo semplicemente « apparenti
» le altre forme di esperienza o gli altri tipi di realtà. E, per es., chi privilegia
l’esperienza interiore o coscienza, è portato a considerare come meno
significante o in qualche modo solo « apparente » l’esperienza esterna o
sensibile; o reciprocamente. Ma in ogni caso anche ciò che si dichiara
apparente viene assunto come A. di qualche cosa; perciò dotata, già come A., di
un suo grado o misura di realtà. Sicchè la relazione tra realtà e A. viene a
configurarsi come relazione tra realtà e imagine o realtà e simbolo e, in ogni
caso, tra due gradi o determinazioni oggettive. APPERCEZIONE (ingl.
Apperception; francese Apperception; ted. Apperzeption). Il significato
specifico di questa parola è stato per la prima volta chiarito da Leibniz come
consapevolezza delle proprie percezioni. Dice Leibniz: « La percezione della
luce o del colore, per es., di cui abbiamo l’A., è composta di molte piccole
percezioni di cui non abbiamo l’A.; e un rumore che noi percepiamo ma a cui non
facciamo attenzione diviene appercepibile se subisce un piccolo aumento »
(Nouv. Ess., II, 9, 4). Mentre le percezioni appartengono anche agli
anl’Idealismo romantico (v. IDEALISMO; Io). In senso psicologico-metafisico, il
concetto di A. fu pure inteso da Maine de Biran che chiamò «A. interna
immediata » la coscienza che l’io ha di se stesso come « causa produttrice » nell’atto
di distinguersi dall’effetto sensibile che la sua azione determina ((Euvres
inédites, ed. Naville, I, pag. 9; III, pag. 409-10). Un nuovo concetto dell’A.
fu dato da Herbart come fondamento per intendere il meccanismo della vita
rappresentativa. L'A. fu intesa da Herbart come il rapporto tra masse diverse
di rappresentazioni il quale fa sì che una massa si appropri dell’altra al modo
stesso in cui le nuove percezioni del senso esterno vengono accolte ed
elaborate dalle rappresentazioni omogenee più vecchie. Questo fenomeno per cui
una massa rappresentativa, detta appercipiente, accoglie ed assimila a sè una o
più rappresentazioni omogenee, dette appercepite, è il fenomeno dell’A., che
Herbart identificò col senso interno (Psychol. als Wissenschaft, II, $ 125).
Questa nozione fu molto adoperata nella psicologia e nella pedagogia dell’800
soprattutto per chiarire il fenomeno dell’apprendimento e per riconoscere le
condizioni psicologiche che lo facilitano. Sul carattere attivo dell'A. come
l’atto per il quale un contenuto psichico viene portato ad una più chiara
comprensione, insistè Wundt che parlò anche di una « psicologia dell’A.» che
avrebbe dovuto contrapporsi alla dominante psicologia associazionistica appunto
per il maggiore rilievo riconosciuto alla attivitche è difficile (cfr. S.
Tommaso, S. 7h., q. I, 81, a. 2). Queste notazioni sono rimaste pressocchè
immutate per secoli. Hobbes dice che l’A. e la fuga differiscono dal piacere e
dal dolore come il futuro differisce dal presente: sono esse stesse piacere e
dolore ma non presenti, bensì previsti o aspettati (De hom., 11, 1). Spinoza
connette l’appetito con lo sforzo (conatus) della mente di perseverare nel
proprio essere per una durata infinita: « Questo sforzo, egli dice, si chiama
volontà quando si attribuisce alla sola mente, si chiama appetito quando si
riferisce insieme alla mente e al corpo; l’appetito, perciò, è l’essenza stessa
dell’uomo, dalla cui natura derivano necessariamente le cose che servono 62
APPRENDIMENTO alla sua conservazione e che perciò è destinato a compiere »
(Er., III, 9, Scol.). Leibniz vide nell’A. l’azione del principio interno della
monade che opera il mutamento o il passaggio da una percezione all'altra
(Monad., $ 15). Kant definì l’A. come «la determinazione spontanea della forza
propria di un soggetto, che avviene per mezzo della rappresentazione di una
cosa futura considerata come effetto della forza medesima » (Antr., $ 73). L’A.
costituisce perciò quella che, nella Critica della Ragion Pratica, egli chiama
«facoltà di desiderare inferiore» la quale presuppone sempre, come suo motivo
determinante, un oggetto empirico: a differenza della facoltà di desiderare «
superiore » che è determinata dalla semplice rappresentazione della legge (Cri.
R. Pratica, libro I, cap. I, $ 3, Scol. I). Nella filosofia moderna e
contemporanea il termine A. è caduto in disuso ed è stato sostituito da altri
come « tendenza » o « volontà », ai quali vengono talora riferite le
determinazioni che la filosofia antica aveva attribuite all’appetizione.
APPRENDIMENTO (gr. pd@nas; ingl. Learning; franc. Apprendre; ted. Erlernung).
L’acquisizione di una tecnica qualsiasi, simbolica, emotiva o di comportamento:
cioè un mutamento nelle risposte di un organismo all’ambiente che migliori tali
risposte ai fini della conservazione e dello sviluppo dell’organismo stesso.
Tale è il concetto che la psicologia moderna dà dell’A., pur nella varietà
delle teorie che presenta. Questo concetto d'altronde non è che la
generalizzazione di una nozione antichissima dell’A., considerato come forma di
associazione. Fu Platone il primo a illustrare questa nozione con la sua teoria
della anamnesi: « Tutta la natura essendo congenita, egli diceva, ed avendo
l’anima appreso tutto, nulla impedisce che chi si ricorda di una sola cosa —
che è quello che si chiama apprendimento — trovi da sè tutto il resto se abbia
costanza e non desista dalla ricerca, perchè il ricercare e l’apprendere non
son altro che reminiscenza » (Men., 81d). L’A. è perciò secondo Platone dovuto
all’associazione delle cose tra loro per cui l’anima può, dopo aver afferrato
una cosa, afferrare anche l’altra che è legata con essa. Non sostanzialmente
diversa da questa fu la teoria avanzata da Herbart, secondo la quale l’A. di
premio e punizione. Le prime reazioni ad una situazione problematica sono date
a caso. Quando una di queste reazioni ha successo, essa viene scelta nelle
prove successive, riuscendo infine ad eliminare le altre. Thorndike ha
formulato a questo proposito la cosiddetta /egge dell’effetto secondo la quale
la risposta a uno stimolo è rafforzata, se è seguita da un premio. Secondo lo
stesso Thorndike, questi due fattori, la ripetizione della reazione indovinata
e il premio, bastano a spiegare tutti i processi dell’A. e quindi l’intera
condotta dell’uomo (cfr. Animal Intelligence: Experimental Studies, 1911; The
Psychology of Wants, Interests and Attitudes, 1935, spec. pagina 24). Più
recentemente le stesse idee sono state generalizzate da Hull che ha insistito
sui moventi dell’A., scorgendovi uno stato di bisogno. Uno stimolo condizionato
può rimanere attaccato ad una risposta che lo segue solo se questa produce una
diminuzione del bisogno (Principles of Behavior, 1943). Se questa dottrina sia
sufficiente a spiegare l’A. umano, è cosa su cui gli psicologi non sono
d’accordo (cfr. la discussione relativa in E. R. HILGARD, Theories of Learning,
1948). Il dubbio concerne il problema se l’A. consista semplicemente nel dare
risposte indovinate o se esso implichi anche la scelta intelligente di tali risposte
in base a determinati perchè. Sembra difficile escludere dal processo umano
dell’A. le scelte intelligenti guidate dalle relazioni espresse dai segni «
se», « ma», «come», «non di meno», ecc. Da questo punto di vista il fatto che
l’uomo intenda la relazione tra i segni e le risposte è un elemento dell’A.,
non riducibile alla pura legge dell'effetto (cfr. M. WERTHEIMER, Productive
Thinking, 1945). APPRENSIONE (lat. Apprehensio; ingl. Apprehension; franc.
Appréhension; ted. Apprehenzion). Termine introdotto dalla Scolastica del ’300
per designare l’atto con cui si apprende o si assume come oggetto un termine
qualsiasi (concetto, proposizione o qualità sensibile), in quanto distinto
dall’assenso (v.) con cui propriamente si giudica di esso e cioè lo si afferma
o lo si nega. Ockham dice: « Fra gli atti dell’intelletto, uno è quello
apprensivo che si riferisce a tutto ciò cui mette capo l’atto della potenza
intellettiva, l’altro si può dire giudicativo giacchè con esso l'intelletto non
soltanto apprende l’oggetto, ma anche assentisce ad esso o A PRIORI, A
POSTERIORI 63 ne dissente » (/n Sent., Prol., q. 1, O). L’atto apprensivo può
consistere sia nella formazione di una proposizione sia nella conoscenza di un
complesso già formato (Quodl., V, q. 6). La parola viene anche adoperata da
Wolff (Log., $ 33) e Kant se ne avvalse nella prima edizione della Critica
della Ragion Pura (Deduzione dei concetti puri dell’intelletto) parlando di una
« sintesi dell’A. » che consisterebbe nel raccogliere il molteplice della rappresentazione
in modo che da esso sorga «l’unità dell’intuizione ». Talvolta, nell’uso
moderno, A. viene contrapposta a comprensione come conoscenza primitiva o
semplice che non cobi in poi, la filosofia araba aveva formulato la distinzione
tra la dimostrazione propter quid e la dimostrazione quia, che da Alberto di
Sassonia furono poi chiamate rispettivamente dimostrazioni @ priori e
dimostrazioni a posteriori. «La dimostrazione è duplice, dice Alberto; una è
quella che procede dalle cause all'effetto e si chiama dimostrazione a priori o
dimostrazione propter quid o dimostrazione perfetta, e questa dimostrazione fa
conoscere la ragione per cui l’effetto è. L’altra è la dimostrazione che
procede dagli effetti alle cause e si chiama dimostrazione a posteriori o
dimostrazione quia o dimostrazione non perfetta, e questa dimostrazione ci fa
conoscere le cause per le quali l’effetto è » (In An. Post., I, q. 9). I due
termini vengono adoperati per tutta la Scolastica e fino al sec. xvi appunto in
questo senso, per indicare due specie di dimostrazione. 2° A partire dal sec.
xvi, per opera di Locke e dell’empirismo inglese, i due termini acquistano un
significato più generale passando a designare, l’a priori, le conoscenze
raggiungibili mediante l’esercizio della pura ragione e l’a posteriori, invece
quelle raggiungibili con l’esperienza. Hume e Leibniz sono d’accordo nel
contrapporre, in questo senso, a priori e a posteriori. Dice Hume: « Oso
affermare, come proposizione generale che non ammette eccezione, che la conoscenza
della relazione di causa ed effetto non è, in nessun caso, raggiunta,
ragionando a priori, ma sorge interamente dall’esperienza quando noi troviamo
che certi particolari oggetti sono costantemente uniti con altri» (Zng. Conc.
Underst., IV, 1). E Leibniz contrappone costantemente il «conoscere a priori» e
il « conoscere per esperienza » (Nouv. Ess., III, 3, $ 15; Monad., $ 76); «la
filosofia sperimentale che procede a posteriori» e la «pura ragione» che
«giustifica @ priori » (Op., ed. Erdmann, pag. 778 b). Wolff esprimeva con la
sua solita chiarezza l’uso dominante ai suoi tempi dicendo: « Ciò che
apprendiamo con l’esperienza, diciamo di conoscerlo a posteriori; ciò che ci è
noto col ragionamento diciamo di conoscerlo a priori » (Psychol. emp., $$ 5,
434 sgg.). La nozione kantiana dell’a priori, come conoscenza indipendente
dall’esperienza, ma non precedente (nel senso cronologico) l’esperiecostituisce
non un campo o dominio a parte di conoscenze ma la condizione di ogni
conoscenza oggettiva. L’a priori è la forma della conoscenza, come l’a
posteriori è il contenuto. Sull’a priori si fondano le conoscenze della
matematica e della fisica pura; ma l’a priori di per se stesso non è conoscenza
ma la funzione che condiziona universalmente ogni conoscenza, sia sensibile che
intellettuale. I giudizi sintetici a priori sono infatti possibili in virtù
delle forme a priori della sensibilità e dell’intelletto. L'a priori è per Kant
l’elemento formale cioè insieme condizionante e fondante di tutti i gradi della
conoscenza; e non solo della conoscenza, giacchè anche nel dominio della
volontà e del sentimento sussistono elementi a priori, come dimostrano la
Critica della Ragion Pratica e la Critica del giudizio. La nozione kantiana
dell’a priori è stata assunta o presupposta da buona parte della filosofia
moderna. L’Idealismo romantico la corresse nel senso di ammettere che l’intero
sapere è a priori, cioè interamente prodotto dall'attività produttiva dell’Io.
Così pensarono Fichte e Schelling. Hegel ritenne che il pensiero è
essenzialmente la negazione di un esistente immediato, quindi di tutto ciò che
è a posteriori o fondato nell’esperienza. L°a priori è invece la riflessione e
la mediazione dell’immediatezza, cioè l'universalità, lo «starsene del pensiero
in se stesso» (Enc., $ 12). Più frequentemente, nella filosofia moderna, l’a
priori conserva il significato kantiano. E a tale sisono i seguenti: 1° La
nozione di Dio come dell’Essere necessario, cioè tale che non può non esistere,
e del mondo come derivante da Dio la sua propria necessità. In quanto prodotti
da una Causa prima necessaria, tutti gli eventi del mondo sono a loro volta
necessari. Gli Arabi ammettono una ininterrotta catena causale che va da Dio,
come Primo Motore, alle Intelligenze celesti e ai cieli, infine agli
avvenimenti terrestri e all'uomo. Essi giustificano perciò l’astrologia,
spiegandone le deficienze con l’imperfetto grado di osservazione. 2° La
dottrina dell’intelletto agente o attivo come una sostanza di natura divina,
separata dall’anima umana: dottrina che Averroè modificò nel senso di ritenere
separato dall’uomo e divino anche l'intelletto passivo o potenziale che Ai
Kindi e Alfarabi ritenevano propri dell’uomo. All’uomo appartiene, secondo
Averroè, soltanto una specie di riproduzione o d’imagine del vero intelletto.
L'unico intelletto divino si moltiplica nelle varie anime umane come la luce
del sole si moltiplica distribuendosi sui vari oggetti che illumina. Questa
dottrina, che metteva in dubbio l’immortalità dell’anima umana, in quanto separava
da essa e attribuiva a Dio la sua parte più alta e immateriale, venne chiamata
dottrina dell’unità dell’intelletto. ARCHEUS 65 3° La tendenza propria
dell’aristotelismo e in particolare di Averroè a porre la filosofia al di sopra
della religione, attribuendole il fine della contemplazione e riservando alla
religione il dominio dell'azionein quanto accompagna la massima fioritura
dell’Impero arabo nel Mediterraneo, ha avuto notevole influenza sulla
Scolastica latina. In primo luogo, essa ha fornito a tale Scolastica buona
parte del suo materiale; che le è pervenuto attraverso le traduzioni latine
delle traduzioni arabe delle traduzioni siriache delle opere di autori greci.
In secondo luogo, essa le ha offerto un costante punto di riferimento polemico,
portandola ad organizzarsi come filosofia della libertà di fronte alla
filosofia della necessità del mondo musulmano. L’aristotelismo stesso, al suo
primo comparire nel mondo occidentale, fu identificato con la sua
interpretazione A.; e solo per opera di Alberto Magno e di S. Tommaso fu poi
adattato alle esigenze della Scolastica cristiana (v. SCOLASTICA). ARAZIONALE
(gr. &oyoc; lat. Alogus; inglese Arational; franc. Alogique; ted.
Alogisch). Ciò che è privo di ragione o non si può esprimere o spiegare
razionalmente: lo stesso che irrazionale. Questo è l’uso classico del termine
(PLATONE, Gorg., SOl a; Conv., 202a; Teet., 205e; Sof., 238 c, ecc.; ARIST.,
Et. Nic., X, 2, 1172 b 10). Il termine greco (come quello latino) serve anche a
designare le grandezze incommensurabili che noi chiamiamo irrazionali (ARIST.,
An. Post., I, 10, 76b 9; EUCLIDE, Z/., X, def. 10, ecc.). L’uso moderno ha
tentato, raramente e senza successo, di distinguere A. da irrazionale. ARBITRIO (lat. Arbitrium,
ingl. Free Will; francese Arbitre; ted. Willkur).
Il principio dell’azione negli animali e nell’uomo. A. è perciò termine più
generale di volontà (v.) la quale può essere attribuita solo all'uomo. Dice
Kant: « È A. semplicemente animale (arbitrium brutum) quello che non può essere
determinato se non da stimoli sensibili 8 — ABBAGNANO, Dizionurio di filosofia.
ossia patologicamente. Ma quello che è indipendente da stimoli sensibili, e
quindi può essere determinato da motivi che non sono rappresentati se non dalla
ragione, dicesi libero A. (arbitrium liberum) e tutto ciò che vi si connette o
come principio o come conseguenza è detto pratico » (Critica KR. Pura, Dottr.
trascendentale del metodo; Il canone della R. Pura, sez. I). L’A. implica così
una possibilità di scelta, che tuttavia non è ancora libertà. Per libero A. v.
LIBERTÀ. di manifestazioni del passato e le proietta come possibilità per
l’avvenire. La storia A. considera invece ciò che è stata nel passato la vita
di ogni giorno e radica in essa la mediocrità del presente. La storia critica
serve invece a romrla col passato, a rinnovarsi (v. STORIA). ARCHETIPO (lat.
Archetypus; ingl. Archetype; ted. Archetyp, Urbild). Il modello o l’esemplare
originario o l’originale di una serie qualsiasi. A. sono state dette le idee
platoniche in quanto modelli delle cose sensibili e, più frequentemente, le
idee esistenti nella mente di Dio, come modelli delle cose create (PLOTINO,
Enn., V, 1, 4; PROCLO, in Rep., II, 296). Ma Locke (Saggio, II, 31, $ 1)
adoperò la parola A. per dire soltanto modello: « Chiamo adeguate le idee che
rappresentano perfettamente gli A. da cui la mente suppone siano state tratte,
che essa intende siano rappresentate da quelle idee e cui essa le riferisce».
A., in questo caso, sono le forze naturali, le idee semplici o le idee
complesse che si assumono come modelli per misurare l’adeguatezza delle altre
idee (v. EcTIPO). ARCHEUS. Secondo Teofrasto Paracelso, è la forza che muove
gli elementi, cioè lo spirito animatore della natura. Come tutte le cose sono
composte di tre elementi (zolfo, sale, mercurio), così tutte le forze che le
animano sono costituite dai loro arcani, cioè dall’attività incosciente dell'A.
(Meteor., pag. 79 sgg.). 66 ARCHITETTONICA ARCHITETTONICA (gr. dpyitextovii)
TEX; ingl. Architectonics; franc. Architectonique; ted. Architektonik). In
generale l’arte di costruire in quanto suppone la capacità di subordinare i
mezzi al fine e il fine meno importante a quello più importante. In questo
senso la parola è usata da Aristotele (Et. Nic., I, 1, 1094 a 26) il quale
parla anche (Et. Eud., I, 6, 1217 a) di una «intelligenza A. e pratica » cioè
costruttiva e operativa. La parola fu usata per la prima volta come nome di una
disciplina filosofica da Lambert che intitolò ad essa una sua opera
(Architettonica, 1771) e la intese come «la teoria degli elementi semplici e
primitivi nella conoscenza filosofica e matematica ». Kant riprese la parola
per indicare «l’arte del sistema » al quale dedicò un capitolo (il III) nella
seconda parte principale della Critica della Ragion Pura. Come sisGOMENTO (gr.
2606; lat. Argumentum; ingl. Argument; franc. Argument; ted. Argument). 1. In
un primo significato, A. è qualsiasi ragione, prova, dimostrazione, indizio,
motivo, che sia adatto a captare l’assenso e a indurre persuasione o convinzione.
A. comuni o tipici o schemi di A. sono i luoghi (rérrot, loci) che
costituiscono l’oggetto dei Topici di Aristotele. Cicerone infatti definiva i
luoghi come le sedi dalle quali provengono gli A. i quali sono « le ragioni che
fanno fede di una cosa dubbia » (Top., 2, 7). Il significato generalissimo
della parola A. risulta chiaro anche nella definizione di S. Tommaso: «A. è ciò
che convince (arguit) la mente ad assentire a qualcosa» (De ver., q. 14, a. 2,
ob. 14); e in quella di Pietro Ispano che riprendcui il discorso verte o può
vertere. A questo secondo significato del termine si riconnette l’uso di esso
nella logica e nella matematica per indicare i valori delle variabili
indipendenti di una funzione. A. è in questo senso ciò che riempie lo spazio
vuoto di una funzione o ciò a cui la funzione deve essere applicata perchè
abbia un valore determinato. La parola è stata per la prima volta usata in
questo senso da G. Frege, Funktion und Begriff, 1891 (v. FUNZIONE).
ARISTOCRAZIA. V. Governo, FORME DI. ARISTOTELISMO (ingl. Aristotelianism;
francese Aristotélisme; ted. Aristorelismus). Con questo termine s'intendono
alcuni capisaldi della dottrina di Aristotele che sono passati nella tradizione
filosofica o hanno ispirato le scuole o i movimenti che più direttamente si
rifanno ad Aristotele stesso, come la Scuola peripatetica, l’A. arabo, l’A.
cristiano medievale, l’A. del Rinascimento e varie altre tendenze del mondo
medievale e moderno. Tali capisaldi possono essere riassunti nel modo seguente:
1° L'importanza accordata da Aristotele al mondo della natura e il valore e la
dignità delle indagini ad esso dirette. Mentre Platone pensava che tali
indagini non possono raggiungere che un certo grado di probabilità assai
inferiore alla conoscenza scientifica (Tim., 29 c), Aristotele ritenne che non
c’è nella natura nulla di così insignificante che non valga la pena di essere
studiato, dato che, in ogni caso, il vero oggetto dell’indagine è la sostanza
delle cose (v. SOSTANZA). 2° Il concetto della metafisica come filosofia prima
e teoria della sostanza e come fondamento della intera enciclopedia delle
scienze (v. METAFISICA). 3° La dottrina delle quattro cause (formale,
materiale, efficiente, finale) e quella del movimento, come passaggio dalla
porenza all’atto, che consentirono ad Aristotele l’interpretazione della intera
realtà naturale (v. le voci corrispondenti). 4° La teologia con il suo concetto
di Primo Motore e di Atto puro (v. Dio). 5° La dottrina dell’essenza
sostanziale o necessaria, posta a base della teoria della conoscenza e della
logica (v. ANIMA; ESSENZA; ESSERE). 6° L'importanza attribuita alla logica, di
cui Aristotele è il primo espositore sistematico, come ARTE 67 strumento di
ogni conoscenza scientifica (v. ConCETTO; LOGICA; SILLOGISMO; TOPICA; ecc.). Le
varie correnti dell’A. si sono rifatte, abitualmente, soltanto ad alcuni di
questi capisaldi e ciò spiega perchè l’A. è talora apparso come una metafisica
teologica (nella Scolastica medievale) talora come naturalismo (nel
Rinascimento) e talaltra come spiritualismo (in alcune interpretazioni moderne,
per es., quelle di Ravaisson e Brentano). ARITMETICA (ingl. Arithmetic; franc.
Arithmétique; ted. Arithmetik). La teoria matematica dei numeri naturali, cioè
dei numeri interi positivi. S’intendono comunemente per leggi dell’A. le
seguenti proposizioni o regole: lo a+b=b+a (legge commutativa dell’addizione);
2° ab = ba (legge commutativa della moltiplicazione); 3° a+(b+0=(a+td5)+c
(legge associativa dell’addizione); 4° a (bc) = (ab)c (legge associativa della
moltiplicazione); 5° a(b + c) = ab + ac (legge distributiva). La
formalizzazione dell’A. cioè la riduzione dell’A. ad un sistema logico fondata
su pochi assiomi è stata effettuata per la prima volta da Peano che si avvalse
di alcuni concetti di Dedekind. Peano presuppose come nozioni primitive quella
di zero, quella di insieme di numeri naturali e quella di successione espressa
con l’espressione i/ successivo di. Egli fece vedere come tutte le proposizioni
dell’A. si lasciassero derivare dai cinque assiomi seguenti: 1° 0 è un numero
naturale; 2° se x è un numero naturale, il numero successivo è anche un numero
naturale; 3° se x e y sono numeri naturali e se il successivo di x è identico
al successivo di y, allora x e y sono identici; 4° se x è un numero naturale,
il numero successivo di x è differente da 0; 5° se 0 appartiene a un insieme a
e se il succes» sivo di un numero naturale qualunque appartiene anche a questo
insieme, l'insieme dei numeri naturali è una parte di a. Con l’espressione aritmetizzazione
della matematica s'intende talora l’esigenza che si affacciò verso la metà
dell’800, nel campo delle matematiche, ad opera soprattutto di Weierstrass, di
dare unità e rigore logico all’analisi matematica, fondandola sopra una teoria
dei numeri reali. Questa teoria fu poi sviluppata da Giorgio Cantor (1845-1918)
e Riccardo Dedekind (1831-1916). Cfr. le memorie di logica matematica di Peano
ora raccolte in Opere Scelte, Roma, 1958. Cfr. pure B. RusseLL, /Introduction to Mathematical
Philosophy, 1918 (v. MATEMATICA: NUMERO). ARMONIA (gr. dpuovia; lat. Yarmonia; inglese Harmony;
franc. Harmonie; ted. Harmonie). L’ordine o la disposizione finalisticamente
organizzata delle parti di un tutto, per es., del mondo, o dell’anima, la quale
fu detta « A.» dai Pitagorici in quanto proporzione o mescolanza degli elementi
corporei (cfr. PLAT., Fed., 86 c). Empedocle si avvalse del concetto per
definire la natura dello sfero (Fr. 122, Diels). Il termine è stato usato da
Leibniz nell’espressione A. prestabilita per designare un particolare sistema
di comunicazione tra le sostanze spirituali (monadi) che compongono il mondo.
Leibniz ritiene che tali sostanze non possono influenzarsi reciprocamente
essendo ognuna « chiusa in se stessa » e perciò esclude la dottrina comunemente
ammessa della influenza reciproca. Esclude pure la dottrina che egli chiama
della assistenza e che è propria del sistema delle cause occasionali di
Guelingx e Malebranche secondo il quale la comunicazione tra le varie monadi
sarebbe stabilita di volta in volta direttamente da Dio. L’A. prestabilita è la
dottrina secondo la quale le varie monadi, come tanti orologi costruiti
perfettamente, sono sempre tra loro d’accordo, pur seguendo ognuna la propria
legge. Così l’anima e il corpo vivono ognuno per proprio conto e tuttavia
d’accordo perchè Dio ha coordinato le leggi dell’uno e dell’altra. Il corpo
segue la legge meccanica, l’anima segue la propria spontaneità: l’A. tra essi è
stata predisposta da Dio all’atto della creazione (Phil. Schriften, ed. Gerhardt,
IV, pag. 500 sgg.). Il termine ricorre frequentemente nello spiritualismo,
specialmente in Ravaisson. Si è avvalso di esso Whitehead per spiegare la
bellezza, la verità, il bene nonchè la libertà e la pace e tutta «la grande
avventura cosmica ». «La grande A., egli dice (Adventures of Ideas, pag. 362),
è l’A. di individualità durature connesse nell’unità del fondamento. È per
questa ragione che la nozione di libertà non abbandona mai le civiltà più alte;
la libertà in ognuno dei suoi molti sensi è l’esigenza di una vigorosa
autoaffermazione ». ARS MAGNA V. COMBINATORIA, ARTE. ARTE (gr. teyxvà; lat.
Ars; ingl. Ars; franc. Art; ted. Kunsto erworatuei) di cui la prima consiste
semplicemente nel conoscere, la seconda nel dirigere, in base alla conoscenza,
una determinata attività (Pol., 260 a, b; 292 c). In tal modo I’A. comprende
per Platone ogni attività umana ordinata (compresa la scienza) e si distingue
nel suo complesso dalla natura (Rep., 381 a). — Aristotele restrinse
notevolmente il concetto dell’arte. In primo luogo egli sottrae all’àmbito
dell'A. la sfera della scienza, che è quella del necessario, cioè di ciò che
non può essere diverso da com'è. In secondo luogo egli divide quel che cade
fuori della scienza, cioè il possibile (che « può essere in un modo o
nell’altro ») in ciò che appartiene all’azione e in ciò che appartiene alla
produzione. Soltanto il possibile che è oggetto di produzione, è oggetto
dell’arte. In questo senso si dice che l’architettura è un’A.; e l’A. si
definisce come l’abito, accompagnato da ragione, di produrre qualcosa (Et.
Nic., VI, 3-4). L’àmbito dell’A. viene così a restringersi molto. Sono A. la
retorica e la poetica, ma non è A. l’analitica (la logica) il cui oggetto è
necessario. Sono A. quelle manuali o meccaniche, come è A. la medicina; mentre
non è A. la fisica o la matematica. Questo è, almeno, il punto di vista di
Aristotele maturo; giacchè le pagine con cui si apre la Metafisica sembrano
invece stabilire una distinzione puramente di grado tra l’A. e la scienza, ponendo
l’A. stessa come intermediaria tra l’esperienza e la scienza. Anche quelle
pagine si concludono tuttavia con l’affermazione che la sapienza è piuttosto
conoscenza teoretica anzichè A. produttiva (Mer., I, 1, 982 a 1 sgg.). Questa
distinzione aristotelica non fu però ereditata nel suo rigore dal mondo antico
e medievale. Gli Stoici estesero di nuovo la nozione dell’A., affermando che «
l’A. è un insieme di comprensioni », intendendo per comprensione l’assenso od
una rappresentazione comprensiva (Sesto E., Ip. Pirr., Ill, 241; Adv. dogm., V,
182); questa definizione non permette infatti di distinguere l’A. dalla
scienza. E Plotino che fa invece questa distinzione perchè vuole conservare
alla scienza il suo carattere contemplativo, distingue le A. in base al loro
rapporto con la natura. Distingue pertanto l’architettura e le A. analoghe, che
hanno il loro termine nella fabbricazione di un oggetto, da quelle che si
limitano ad aiutare la natura come la medicina e l’agricoltura e dalle A.
pratiche, come la retorica e la musica, che tendono ad agire sugli uomini,
rendendoli migliori o peggiori (Enn., IV, 4, 31). A partire dal sec. 1 si
chiamarono « A. liberali » (cioè degne dell’uomo libero) in contrasto con le A.
manuali, nove discipline, alcune delle quali Aristotele avrebbe chiamate
scienze e non arti. Queste discipline furono enumerate da Varrone: grammatica,
retorica, logica, aritmetica, geometria, astronomia, musica, architettura e
medicina. Più tardi, nel sec. v, Marciano Capella nelle Nozze di Mercurio e
della filologia riduceva a sette le A. liberali (grammatica, retorica, logica,
aritmetica, geometria, astronomia e musica), eliminando quelle che gli parevano
non necessarie ad un essere puramente spirituale {che non ha corpo) cioè
l’architettura e la medicina e stabilendo così il curriculum di studi che
doveva restare immutato per molti secoli (v. CuLTURA). S. Tommaso stabiliva la
distinzione tra A. liberali e A. servili sul fondamento che le prime sono
dirette al lavoro della ragione, le seconde invece « ai lavori esercitati con
il corpo, che sono in un certo modo servili, in quanto il corpo è sottomesso
servilmente all’anima e l’uomo è libero secondo l’anima » (S. 7h., II, 1, q.
57, a. 3, ad 3). La parola A. rimase tuttavia a designare per lungo tempo non
solo le A. liberali ma anche le A. meccaniche, cioè i mestieri; come ancora
accade oggi che intendiamo per A. o artigiano un mestiere o chi pratica un
mestiere. Kant ha riassunto le caratteristiche tradizionali del concetto quando
ha distinto l’A. dalla natura da un lato, dalla scienza dall’altro; e ha
distinto, nell’A. stessa, l'A. meccanica e l’A. estetica. Su quest’ultimo punto
egli dice: «Quando l’A., conformemente alla conoscenza di un oggetto possibile,
compie soltanto le operazioni necessarie per realizzarlo, essa è A. meccanica;
se invece ha per scopo immediato il sentimento di piacere, è A. estetica.
Questa è A. piacevole o A. bella. È piacevole quando il suo scopo è di far sl
che il piacere si accompagni alle rappresentazioni in quanto semplici sensazioni;
è bella quando il suo scopo è di accno strato geologico è perciò comunemente
assunta dagli antropologi come segno della presenza dell’uomo nell’età
corrispondente: e la natura e la complessità degli A. si assumono come base per
distinguere i tipi di cultura cui appartengono. L’A., per essere riconosciuto
tale, deve manifestare l’intenzione, preesistente alla sua costruzione, di
utilizzarlo per uno scopo determinato: cioè costituire la realizzazione di un
progetto (v.). ARTEFICE INTERNO. Così Giordano Bruno chiamò nel De /a causa,
principio e uno l'intelletto universale, che è «l’intima più reale e propria
facultà e parte potenziale de la anima del mondo +»: perchè « forma la materia
e la figura da dentro ». ASCESI (gr. &oxna; ingl. Ascesis; franc. Ascèse;
ted. Askese). La parola significa propriamente esercizio e originariamente
indicò l’allenamento degli atleti e le loro regole di vita. Con i Pitagorici, i
Cinici e gli Stoici, la parola si cominciò ad applicare alla vita morale in
quanto la realizzazione della virtù implica limitazione dei desideri e
rinuncia. Il senso di rinuncia e di mortificazione divenne perciò prevalente;
A. significò nel Medioevo la mortificazione della carne e la purificazione dai
legami corporei. La rivolta contro l’ideale ascetico si iniziò col Rinascimento
cioè con la rivalutazione degli aspetti corporei e sensibili dell’uomo. Kant
considera l’ascetica morale come « l’esercizio fermo, coraggioso e ardito della
virtù» e la contrappone all’A. monacale « che per timore superstizioso o per
ipocrito orrore di sè usa mortificare e trascurare il proprio corpo »; e si
castiga invece di pentirsi moralmente, cioè di prendere la risoluzione di
correggersi (Meraph. der Sitten, II, $ 53). Schopenhauer ha dato un significato
metafisico all’A. in cui ha visto «l'orrore dell’uomo per l’essere di cui è
espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nòcciolo
e l’essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore» (Die Welt, I, $ 68), e
perciò il solo strumento di liberazione, di cui l’uomo disponga. ASCETISMO
(ingl. Asceticism; franc. Ascétisme; ted. Asketismus). La pratica dell’ascesi.
ASEITÀ (lat. Aseitas; ingl. Aseity; franc. Aséité; ted. Aseitàt). Qualità o
carattere dell’essere che ha in se stesso la causa e il principio del proprio
essere, cioè di Dio. Abalietà è la qualità contraria, cioè quella dell’essere
che ha in un altro essere la sua causa. Vocaboli usati nella tarda Scolastica.
ASILLOGISTICO. V. ANAPODITTICO. ASINO DI BURIDANO (ingl. Buridan®s Ass; franc.
Ane de Buridan; ted. Esel des Buridan). Giovanni Buridano maestro e rettore
dell’Università di Parigi nella prima metà del xv secolo fu discepolo di Ockham
ed è importante per alcune osservazioni che anticipano il principio d'inerzia
della meccanica moderna (v. ImpETO). Il caso dell’A., il quale, messo in mezzo
tra due fasci di fieno uguali morrebbe di fame prima di decidersi a mangiare
l’uno o l’altro di essi, non si trova nelle sue opere. Se ne trovano però le
premesse. Buridano ritiene infatti che la volontà segue necessariamente il
giudizio dell’intelletto; per es., si decide per il bene maggiore, se
l’intelletto lo giudica tale. Ma quando l’intelletto giudica uguali due beni,
la volontà non può decidersi nè per l’uno nè per l’altro: la scelta non avviene
(/n Eth., III, q. 1). Questo è proprio il caso dell’asino. Soltanto che
Buridano ritiene che l’uomo può non morire di fame come l’A.: può difatti
sospendere o impedire il giudizio dell’intelletto (/bid., III, q. 4). L'origine
del caso (per quanto non riferito all’A.) si trova in Aristotele: « Si dice che
chi è molto assetato o affamato, se si trova a uguale distanza dal cibo e dalla
bevanda, necessariamente rimane immobile dove si trova» (De Cael., II, 13, 295
b 33). E neanche Dante riferisce il caso all’A.: «Intra duo cibi, distanti e
moventi — D’un modo, prima si morria di fame — Che liber uom l’un si recasse a’
denti» (Par., IV, 1-3). In realtà la discussione intorno al caso dell’A. di
Buridano fu propria di un periodo (l’ultima Scolastica) nel quale si accentuò
il carattere arbitrario della scelta volontaria e si intese la libertà
dell’uomo come « arbitrio d’indifferenza » (v. LIBERTÀ). ASOMATICO (ingl.
Asomatous; franc. Asomatique; ted. Asomatisch). Privo di corpo o disincarnato.
La condizione dell'anima dopo la sua separazione dal corpo, o delle sostanze
angeliche. ASPETTAZIONE (ingl. Expectation; francese Attente; ted. Erwartung).
L’anticipazione di un avvenimento futuro (v. AvvENIRE). Una delle forme
dell’attenzione o attenzione aspettansito egli dice: « L’intelletto può
assentire ad una cosa in due modi. Nel primo modo, perchè è mosso ad assentire
dallo stesso oggetto o perchè è cognito di per se stesso, come accade dei primi
principi di cui abbiamo intelligenza, o perchè è conosciuto attraverso altro
come accade delle conclusioni di cui abbiamo scienza. Nel secondo modo,
l'intelletto assentisce a qualcosa, non perchè sia mosso sufficientemente dal
suo proprio oggetto, ma per una scelta volontaria che lo inclina da una parte
piuttosto che dall’altra. Ora se questo accadrà insieme col dubbio e col timore
che l’altra parte sia vera, si avrà l’opinione; se accadrà invece con certezza
e senza quel timore, si avrà la fede » (S. Th., II, 2, q. 1, a. 4). Nell’ultima
fase della Scolastica la dottrina dell’A. fu elaborata da Ockham. Secondo
Ockham, l’atto dell’A. accompagna l’atto dell’apprendimento. « Chiunque
apprende una proposizione, egli dice (Ir Sent., Prol., q. 1 55), assente,
dissente o dubita di essa ». La teoria dell’A. è sostanzialmente la teoria dell’errore.
Secondo Ockham, quando una proposizione è empiricamente o razionalmente
evidente, l’A. è garantito dalla sua evidenza; mentre quando questa evidenza
manca l’A. è più o meno volontario e va incontro alla possibilità dell’errore
(/bid., II, q. 25). Una dottrina analoga si trova in Cartesio. Per giudicare si
richiede in primo luogo l’intelletto, dato che non si può giudicare su ciò di
cui non si ha l’apprensione, e in secondo luogo la volontà per cui si
assentisce a ciò cosa (Scienza morale, ed. naz. 1941, pag. 109). La Grammatica
dell’A. (1870) di Newmann distinse l’A. reale, che si dirige alle cose, dall’A.
nozionale che si dirige alle proposizioni. L’A. nozionale è ciò che viene
chiamato professione, opinione, presunzione, speculazione; l’A. reale è la
credenza. L’A. nozionale ad una proposizione dogmatica è un atto teologico,
l’A. reale alla stessa proposizione è un atto religioso. Le due cose non si
contraddicono, ma solo l’A. reale raggiunge al credo dogmatico i sentimenti e
le imaginazioni che condizionano la sua validità religiosa. Queste idee di
Newmann riprese e sviluppate da Ollé-Laprune e da Blondel dettero lo spunto
alla filosofia dell’azione (v.). ASSENZA. V. NULLA. ASSERZIONE (gr.
&répavote, Abyog drtopam degli Stoici. E in realtà i due termini sono
equivalenti, finchè non si consideri il diverso contesto in cui trovano posto
(v. ENUNCIATO e PROPOSIZIONE). Nella logica matematica contemporanea Russell,
sull'esempio di Frege seguito da molti altri logici ha introdotto un simbolo
speciale (° — ’) da anteporre al simbolo dell’asserzione. La logica
terministica medievale riconosceva, invece che le espressioni «è vero che ‘p’»
e ‘p’ (dove ’p’ è il segno di una proposizione) sono da considerarsi sinonime.
L’A. tuttavia implica in ogni caso che si creda o si assentisca alla
proposizione (v.) espressa; e come tale è talora distinta da enunciato (v.).
Cfr. .AsSENSO. G.P. ASSIALE, EPOCA. V. Epoca. ASSICURAZIONE (ingl. Security;
franc. Assurancej ted. Assecuranz)ì. Un sistema di A. fu suggerito da Royce per
realizzare quella che egli chiamava la « Grande comunità » umana. L’A. è
difatti un’associazione fondata sul principio triadico dell’interpretazione:
come in questa c’è l’interprete che interpreta qualcosa a qualcuno, così
nell’A. ci sono con lo stesso rapporto l’assicurato, l'assicuratore e il
beneficiario (La speranza nella grande comunità, 1916). Royce ha anche
suggerito lA. contro la guerra (Guerra e A., 1914). ASSIOMA (gr. dElwua; lat.
Axioma; inglese Axiom; franc. Axiome; ted. Axiom). Originariamente la parola
significa dignità o valore (gli Scolastici e Vico dicevano appunto degnità) e
fu adoperata dagli Stoici per indicare l’enunciato dichiarativo che Aristotele
chiamava apofantico (Diog. L., VII, 65). I matematici l’usarono per designare i
principi indimostrabili, ma evidenti, della loro scienza. Aristotele ha dato la
prima analisi di questa nozione, intendendo per A. «le proposizioni prime da
cui parte la dimostrazione » (che sono i cosiddetti A. comuni ) e in ogni caso
i « principi che devono essere necessariamente posseduti da chi vuol apprendere
checchessia » (An. post., I, 10, 76b 14; I, 2, 72a 15). Come tale l’A. è
completamente diverso dall’ipotesi e dal postulato (v.). Il principio di
contraddizione è esso stesso un A., anzi «il principio di tutti gli A. » (Mer.,
IV, 3, 1105 a 20 sgg.). Questo significato della parola come principio che
appare immediatamente evidente dai suoi stessi termini si è mantenuto costante
attraverso l’antichità e l’età moderna. «I princìpi immediati, dice S. Tommaso (In
I Post., Lez. 5), non sono conosciuti per il tramite di qualche termine medio
ma attraverso la conoscenza dei loro stessi termini. Posto che si sappia che
cosa è il tutto e che cosa è la parte, si riconosce che ‘il tutto è maggiore
della parte ’ giacchè in tutte le proposizioni di questa specie il predicato è
compreso nella nozione del soggetto ». La verità dell’A. è in altri termini
manifestata dalla semplice intuizione dei termini che entrano a comporlo.
Veramente l’esempio scelto da S. Tommaso si presta particolarmente a rivelare
il carattere fittizio dell’evidenza intuitiva cui sarebbe affidata la validità
dell’assioma. Già a poca distanza da S. Tommaso, Ockham riscontrava che il
principio «il tutto è maggiore della parte » non vale quando si tratta di tutti
che comprendono infinite parti e che non si può dire che nell’intero universo
ci siano più parti che in una fava, se in una fava ci sono infinite parti
(Quodi., I, q. 9; Cent. theol., concl. 17, C). Dopo le ricerche di Cantor e di
Dedekind noi sappiamo oggi che questo preteso A. è semplicemente la definizione
degli insieme finiti (v. INFINITO). Per più secoli si è cercato di giustificare
in un modo o nell’altro la validità assoluta degli A.; ma questa validità non è
stata posta in dubbio. Bacone ritenne gli A. ottenibili per via di deduzioneo
di induzione (Nov. org., I, 19) mentre Cartesio li ritenne verità eterne che
hanno sede nella nostra mente (Princ. Phil., I, 49); entrambi però li
credettero verità immutabili. Locke considerò gli A. come proposizioni,
esperimenti, esperienze immediate (Saggio, IV, 7, 3 e sgg.) e Leibniz invece li
considerò come principi innati nella forma di disposizioni originarie che
l’esperienza rende esplicite (Nouv. Ess., I, 1, 5); ma entrambi attribuirono ad
essi il carattere di verità evidenti. Gli empiristi non hanno dubitato della
loro evidenza più dei razionalisti; Stuart Mill afferma che essi sono «verità
sperimentali, generalizzazioni dalla osservazione » (Logic, II, 5, $ 4).
Altrettanto evidenti, ma a priori, sono gli A. per Kant che li definisce «
princìpi sintetici a priori in quanto immediatamente certi». La certezza
immediata, cioè l’evidenza, è, secondo Kant, la caratteristica degli assiomi.
La matematica possiede A. perchè essa procede mediante la costruzione dei
concetti. La filosofia, invece, che non costruisce i suoi concetti, non
possiede assiomi. Gli stessi A. dell’intuizione che Kant ha posto fra i
principi dell’intelletto puro, non sono veramente A. secondo lo stesso Kant, ma
semplicemente contengono «il principio della possibilità degli A. in generale»
(Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del met., Disciplina della ragion pura, I). Nel
mondo contemporaneo la nozione di A. ha subito la sua trasformazione più
radicale. La caratteristica che lo definiva, l'immediatezza della sua verità,
la certezza, l’evidenza, gli è stata negata. Questo risultato si deve allo
sviluppo del formalismo matematico e logico, cioè all’opera di Peano, Russell,
72 ASSIOMATICA Frege e Hilbert. Secondo il punto di vista formalistico, che è
quello ora più diffuso, gli A. della matematica non sono nè veri nè falsi, ma
sono assunti convenzionalmente, in base a motivi di opportunità, come
fondamenti o premesse del discorso matematico (HiLBERT, « Axiomatischen Denken
», in Math. Annalen, 1918). In tal modo gli A. non si distinguono più dai
postulati e le due parole vengono oggi usate scambievolmente. La scelta degli
A. è in una certa misura libera e in questo senso si dice che gli A. sono «
convenzionali» o «assunti per convenzione». Ma in realtà questa scelta è
limitata da esigenze o condizioni precise che si possono riassumere nel modo
seguente: 1° Gli A. devono essere coerenti, altrimenti il sistema che ne
dipende diventa contraddittorio. E che il sistema diventi contraddittorio
significa che esso permette di dedurre qualsiasi cosa e si può in esso
dimostrare una proposizione qualsiasi come la sua negazione. Poichè la prova
della non contraddittorietà non si può ottenere nell’interno di un sistema (v.
AssIoMaTICA), ci si avvale abitualmente del sistema della riduzione a una
teoria anteriore la cui coerenza appare bene stabilita, per es., all’aritmetica
classica o alla geometria euclidea. Questo procedimento indubbiamente non
equivale a una dimostrazione di non contraddittorietà, ma fornisce un indizio
importante. Un altro procedimento è la realizzazione, cioè il riferimento del
sistema a un modello reale; sul presupposto che ciò che è reale deve essere
possibile, quindi non contraddittorio. 2° Un sistema di A. deve essere completo
nel senso che di due proposizioni contraddittorie formulate correttamente nei
termini del sistema, una deve poter essere dimostrata. Il che vuol dire che in
presenza di una qualsiasi proposizione del sistema, si può sempre dimostrarla o
confutarla e per conseguenza decidere sulla sua verità o falsità in rapporto al
sistema dei postulati. In questo caso il sistema si chiama decidibile. 3° La
terza caratteristica di un sistema di A. è la loro indipendenza, cioè la loro
irreducibilità reciproca. Tale condizione non è così indispensabile come quella
della coerenza, ma è opportuna per evitare che le proposizioni primitive siano
troppo numerose. 4° Infine il minor numero possibile e la semplicità degli A.
sono condizioni desiderabili che conferiscono eleganza logica ad un sistema di
assiomi. ASSIOMATICA (ingl. Axiomarics; franc. Axiomatique; ted. Axiomatik).
L’A. si può considerare come un risultato di quella aritmetizzazione della
analisi che ha avuto luogo nelle matematiche a partire dalla seconda metà del
x1x secolo per impulso soprattutto di Weierstrass. Il primo tentativo di
assiomatizzazione della geometria fu fatto da Pasch nel 1882.
All’assiomatizzazione delle matematiche ha poi contribuito il formalismo di
Peano, Russell, Frege e specialmente l’opera di Hilbert. Ma l’A. non si limita
oggi al dominio delle matematiche: la fisica la ricerca come suo scopo finale o
almeno come sua formulazione ultima e più soddisfacente: e ogni disciplina che
raggiunga un certo grado di rigore tende ad assumere la forma assiomatica. Il
significato dell'A. può essere riassunto brevemente nei punti seguenti: 1°
Assiomatizzare una teoria significa in primo luogo considerare, al posto di
oggetti o di classi di oggetti forniti di caratteri intuitivi, simboli
opportuni, le cui regole d’uso siano fissate dalle relazioni enunciate dagli
assiomi. Poichè tali simboli sono privi di ogni riferimento intuitivo, la
teoria formale così ottenuta è suscettibile di molteplici interpretazioni, che
si chiamano modelli. Ma il modello qui non è un archetipo preesistente alla
teoria, e anche la teoria concreta originale, che ha fornito i dati per lo
schema logico dell’A., non è che uno di tali modelli. La caratteristica dell'A.
è quella di prestarsi a interpretazioni o a realizzazioni differenti, delle
quali essa costituisce la struttura logica comune. 2° Il metodo A. è un potente
strumento di generalizzazione logica. Uno dei modi di generalizzazione di tale
metodo consiste nel far cadere successivamente alcuni assiomi di una certa
teoria deduttiva conservando gli altri e così costruendo teorie sempre più
astratte. Il sistema generato dall’A. così ristretta, è coerente, se il sistema
iniziale lo è, e costituisce una generalizzazione di questo. 3° L’A. rende
indispensabile distinguere tre modi in cui si possono differenziare l’una
dall'altra le teorie deduttive. Consideriamo il caso della geometria euclidea.
In primo luogo, se si modifica uno dei suoi postulati, si otterranno altre
geometrie che si dicono vicine ad essa o imparentate con essa: in questo senso
si parla di una pluralità di geometrie. In secondo luogo, si può effettuare la
ricostruzione logica di una qualsiasi di queste geometrie in più modi cioè
secondo A. differenti; e queste A. saranno eguivalenti fra loro. Infine, se si
sceglie una di queste A. si potranno il più delle volte trovare per essa
interpretazioni differenti: ci saranno cioè vari modelli di essa, modelli che
saranno detti isomorfi. Ci saranno così: a) una pluralità di geometrie; 5) una
pluralità di A. per una stessa geometria; c) una pluralità di modelli per una
stessa assiomatica. 4° La caratteristica fondamentale dell'A. è la scelta e la
chiara enunciazione delle proposizioni primitive di una teoria, cioè degli
assiomi che inASSOCIAZIONISMO 73 troducono i termini indefinibili e
stabiliscono le regole d’uso indimostrabili. La scelta delle nozioni primitive
è la parte fondamentale nella costituzione di un’assiomatica. È ormai chiaro
tuttavia che le stesse nozioni di « primitivo +, « indefinibile », «
indimostrabile » sono relative, nel senso che un termine indefinibile o una
proposizione indimostrabile nell’interno di un sistema possono diventare
definibili o dimostrabili se si modificano le basi del sistema. Per es., nella
geometria euclidea non si può dimostrare il postulato delle parallele; ma se si
rinuncia a dimostrare il teorema che la somma degli angoli di un triangolo è
uguale a due retti, si può assumere questa proposizione come un assioma, e
dimostrare l’unicità della parallela. Inoltre, spesso i termini non definiti
sono implicitamente definiti dall’insieme dei postulati prescelti (definizione
per postulati). La scelta dei postulati si dice che è libera: in realtà essa
deve obbedire a particolari condizioni che la limitano notevolmente; per queste
condizioni v. ASSIOMA. 5° Si è detto (v. Assioma) che il limite fondamentale
per la scelta degli assiomi è la loro coerenza o compatibilità. Tuttavia un
teorema di Gédel (1931) ha stabilito che un’aritmetica non contraddittoria
comporta enunciati non decisi e tra questi enunciati c'è la non contraddizione
del sistema aritmetico. In altri termini non si può, rimanendo nell'àmbito di
un sistema, stabilire la non contraddittorietà del sistema stesso. È questo uno
dei limiti dell'A. oltre quelli messi in luce dalla corrente intuizionista dei
matematici (v. MaTEMATICA). ASSIOMI DELL'INTUIZIONE (inglese Axioms of
Intuition; franc. Axiomes de l’intuition; ted. Axiomen der Anschauung). Kant ha
indicato con quest’espressione quei princìpi sintetici dell’intelletto puro che
derivano dall’applicazione delle categorie all’esperienza e che esprimono la
possibilità delle proposizioni della matematica e della fisica pura. Tutti i
princìpi dell’intelletto puro hanno la funzione di eliminare il carattere
soggettivo della percezione dei fenomeni, riconducendo tale percezione a quella
connessione necessaria dei fenomeni stessi che è propria dell’esperienza
oggettivamente valida. In particolare, glmenti della coscienza, connessione per
la quale tali elementi, quali che siano, si richiamano l’un l’altro secondo
uniformità o leggi riconoscibili. La simiglianza, la continuità e il contrasto,
costituiscono le uniformità o le leggi fondamentali dell'A. che furono già
riconosciute da Platone (Fed., 76 a) e da Aristotele (De memoria et
reminiscentia, II, 451 b 18-20). In sèguito il fenomeno non ha più attratto
l’attenzione dei filosofi sino all’età moderna. Hobbes nel Leviathan dedica un
capitolo (il III) all’A. delle imagini, ma fu Locke a creare l’espressione
stessa « A. delle idee» e a introdurre il fenomeno relativo come principio di
spiegazione della vita della coscienza. L’importanza che l’A. acquista per
opera di Locke deriva dal presupposto asulle connessioni naturali sono fondate
tutte le operazioni dello spirito umano: la conoscenza nei suoi vari gradi,
l’imaginazione, la volontà, ecc. Per Locke tuttavia l’A. delle idee assume
forme differentissime. Hume la ridusse invece a solo tre principi: la
rassomiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la causa ed effetto
(/ng. Conc. Underst., III). Abbandonato, dopo di Kant, in filosofia come
principio esplicativo dell’intera vita spirituale, l'A. è rimasta il principio
esplicativo della psicologia scientifica dalla metà dell’800 fino ai princìpi
del nostro secolo. Nel periodo contemporaneo la psicologia della forma o gestaltismo
(v.) ha impugnato lo stesso presupposto atomistico su cui si fondava la teoria
dell’associazione. ASSOCIAZIONISMO (ingl. Associationism; franc.
Associationnisme; ted. Associazionstheorie). L’indirizzo filosofico e
psicologico che assume come principio esplicativo dell’intera vita spirituale
l’associazione delle idee (v.). Il presupposto dell'A. è l’atomismo psicologico
cioè la riscluzione di ogni 74 ASSOLUTISMO evento psichico in elementi semplici
che sono le sensazioni, le impressioni, o, genericamente, le idee. Il fondatore
dell'A. è Hume, ma uno dei suoi maggiori diffonditori fu il medico inglese
David Hartley (1705-57) per il quale l’associazione delle idee è per l’uomo ciò
che la gravitazione è per i pianeti: cioè la forza che determina l’organizzazione
e lo sviluppo del tutto. L’A. trovò altre manifestazioni importanti nell’opera
di Giacomo Mill (1773-1836) che se ne servì nell’analisi dei problemi morali
spiegando con l’associazione tra il piacere proprio e l’altrui il passaggio
dalla condotta egoistica alla condotta altruistica; e di Stuart Mill (1806-73)
che se ne avvalse nella trattazione di problemi morali e logici. Ma dopo Stuart
Mill Il’A. ha cessato di essere una dottrina filosofica viva; ed è rimasta
soltanto come ipotesi operante nel dominio della psicologia scientifica dalla
quale è stata esclusa solo negli ultimi decenni ad opera della psicologia della
forma (v. PSICOLOGIA). ASSOLUTISMO (ingl. Absolutism; franc. Absolutisme; ted.
Absolutismus). Termine coniato nella prima metà del xvi secolo per indicare
ogni dottrina che difenda il « potere assoluto » o la « sovranità assoluta »
dello Stato. Nel suo senso politico originario il termine ora designa: 1° l’A.
utopistico di Platone nella Repubblica; 2° l’A. papale affermato da Gregorio VII
e da Bonifacio VIII, rivendicante per il Papa, come rappresentante di Dio sulla
Terra, la p/enitudo potestatis cioè la sovranità assoluta su tutti gli uomini
compresi i principi, i re e l’imperatore; 3° l’A. monarchico del xvi secolo che
trova il suo difensore in Hobbes; 4° l’A. democratico, teorizzato da Rousseau
nel Contratto sociale e da Marx e dagli scrittori marxisti come «dittatura del
proletariato ». Tutte queste forme dell'A. difendono ugualmente, pur con motivi
o fondamenti vari, l’esigenza che il potere statale venga esercitato senza
limitazioni o restrizioni. L'esigenza oche determinano la condotta più riuscita
che si possa tenere ad un dato stadio di conoscenza. Chiunque vuol trovare di
più in queste asserzioni, scoprirà alla fine che ha inseguito una chimera ».
L’A. filosofico non è tanto di chi parla dell’Assoluto o ne riconosce
l’esistenza, ma di chi pretende che l’assoluto stesso appoggi le sue parole e
dia ad esse un’incondizionata garanzia di verità. In questo senso il prototipo
dell’A. dottrinale rimane l’Idealismo romantico, secondo il quale nella
filosofia non è il filosofo come uomo che si manifesta e parla, ma l’Assoluto
stesso che giunge alla sua consapevolezza e si manifesta a se stesso. ASSOLUTO
(ingl. Absolute; franc. Absolu; ted. Absolut). Il termine latino absolutus
(sciolto da, staccato da, cioè liprovarla falsa »; il quale secondo significato
è meno dogmatico del primo. Così rispondere « Assolutamente no» ad una domanda
o ad una richiesta, significa semplicemente avvisare che questo «no» è
saldamente appoggiato da buone ragioni e sarà mantenuto. Questi usi comuni del
termine corrispondono all'uso filosofico che, genericamente, è quello di «senza
limiti», «senza restrizioni », e quindi «illimitato » o « infinito ». Molto
probabilmente la diffusione della parola, la quale ha inizio dal °700 (per
quanto sia stato Niccolò da Cusa ASSURDO 75 a definire Dio come l’A., Docta
ignor., II, 9) è dovuta al linguaggio politico e ad espressioni come « potere
A. », « monarchia A. +, ecc., nelle quali la parola significa chiaramente
«senza restrizioni » 0 « illimitato ». La grande voga filosofica del termine è
dovuta al Romanticismo. Fichte parla di una « deduzione A.», di «attività A.»,
di «sapere A.», di «riflessione A.», di «Io A.», per indicare, con questa
ultima espressione, l’Io infinito, creatore del mondo. E nella seconda fase
della sua filosofia, quando cerca di interpretare l’Io come Dio fa della parola
un abuso che rasenta il ridicolo: « L’A. è assolutamente ciò che è, riposa su e
in se medesimo assolutamente », « Esso è ciò che è assolutamente perchè è da se
stesso... perchè accanto all’A. non rimane niente di estraneo ma svanisce tutto
ciò che non è l’A.» (Wissenschafislehre, 1801, $$ 5 e 8; Werke, II, pag. 12,
16). La stessa inflazione della parola si trova in Schelling; il quale,
comfilosofia. Il Romanticismo ha così fissato l’uso della parola sia come
aggettivo sia come sostantivo. Secondo questo uso la parola significa « senza
restrizioni », « senza limitazioni », «senza condizioni »; e come sostantivo
significa la Realtà che è priva di limiti o condizioni, la Realtà suprema, lo «
Spirito » 0 « Dio ». Già Leibniz aveva detto: «Il vero infinito, a rigore, non
è che l'A. » (Nouv. Ess., II, 17, $ 1). E in realtà il termine può essere considerato
come sinonimo di « Infinito » (v.). Dato il posto centrale che la nozione di
infinito ha nel Romanticismo (v.) s’intende come questo sinonimo abbia trovato
accoglimento e voga nel periodo romantico. In Francia la parola fu importata da
Cousin del quale sono noti i legami col Romanticismo tedesco. In Inghilterra
essa fu introdotta da William Hamilton, il cui primo scritto fu uno studio
sulla Filosofia di Cousin (1829); e la nozione divenne la base delle
discussioni sulla conoscibilità dell’A., iniziate da Hamilton e Mansel e
continuate dall’evoluzionismo positivistico (Spencer, ecc.) che, come questi
due pensatori, affermò l’esistenza e insieme l’inconoscibilità dell’Assoluto.
Nella filosofia contemporanea la parola è stata ampiamente usata appunto da quella
corrente che più strettamente si rifaceva all’Idealismo romantico, cioè
dall’Idealismo angloamericano (Green, Bradley, Royce) e italiano (Gentile,
Croce) per designare la Coscienza infinita o lo Spirito infinito. La parola
rimane pertanto legata a una fase determinata del pensiero filosofico,
precisamente alla concezione romantica dell’Infinito, che comprende e risolve
in sè ogni realtà finita e non è perciò limitato o condizionato da niente, non
avendo nulla fuori di sè che possa limitarlo o condizionarlo. Nel suo uso
comune come in quello filosofico il termine rimane a significare o lo stato di
ciò che, a qualsiasi titolo, è privo di condizioni e di limiti, o (come
sostantivo) ciò che realizza se stesso in modo necessario e infallibile.
ASSORBIMENTO, LEGGE DI (ingl. Law of Absorption; franc. Loi d’absorption). Con
questo nome si designano nella Logica contemporanea i due teoremi dell’algebra
delle proposizioni: p»pa=pì P(pv9)=p e i
due corrispondenti teoremi dell'algebra delle classi: —avab=a; alavb)=a. L’A. è
in queste espressioni la possibilità logica di sostituire p a pvpgq 0 a p(pvg)
nelle prime espressioni; o a ad avab o ad a(avb) nelle seconde espressioni.
(Cfr. CHURCH, /ntr. to Mathematical Logic, 15. 8). Fuori del linguaggio della
logica, la legge significa che, se un concetto ne implica un altro, esso
assorbe quest’altro, nel senso che l’asserzione simultanea dei due equivale
all’asserzione del primo e può essere quindi sostituita dall’asserzione di
questo ogni volta che essa ricorra. Cfr. TAUTOLOGIA. ASSUNZIONE (gr. ji; lat.
Sumptio; inglese Assumption, Sumption; franc. Assomption; ted. Vordersatz). La
proposizione che si sceglie come premessa del ragionamento; oppure l’atto di
scegliere una proposizione a questo scopo (cfr. CiCERONE, De divinatione, II,
53, 108). Più precisamente, la proposizione che si sceglie come prima premessa
del sillogismo e che talora è detta anche /emma (v.) (cfr. HAMILTON, Lectures
on Logic, 1, pag. 283). L’A. non implica necessariamente la verità della
premessa che si assume. Si può assumere una proposizione vera o un'ipotesi o
anche una proposizione falsa allo scopo di confutaria. Il termine è equivalente
a posizione (v.). ASSURDO (lat. &torov, &Sivarov; lat. Absurdum; ingl.
Absurd; franc. Absurde; ted. Absurd). In generale, ciò che non trova posto nel
sistema di 76 ASTRATTE, IDEE credenze cui si fa riferimento o è in contrasto
con qualcuna di tali credenze. Gli uomini, e i filosofi, hanno sempre fatto un
uso abbondante di questa parola per condanso più ristretto e preciso la parola
significa «impossibile » (adynaton) perchè contraddittorio. In questo senso
Aristotele parlava di un ragionamento per A. o di una riduzione all’A.; che
sarebbe un ragionamento che assume come ipotesi la proposizione contrapposta
alla conclusione che si vuol dimostrare e fa vedere che da tale ipotesi deriva
una proposizione contraddittoria con l’ipotesi stessa (An. Pr., II, 11-14, 61a
sgg.). La dimostrazione per A., aggiunge Aristotele (/bid., 14, 62 b 27) si
differenzia dalla dimostrazione ostensiva perchè assume ciò che, con la
riduzione all’errore riconosciuto, vuol distruggere; la dimostrazione
ostensiva, invece, parte da premesse già ammesse. Leibniz chiamò dimostrazione
apagogica il ragionamento per A. e lo ritenne utile o almeno difficilmente
eliminabile, nel dominio della matematica (Nouv. Ess., IV, 8, $ 2). Kant che
adopera lo stesso nome, lo giustificò nelle scienze ma lo escluse dalla
filosofia. Lo giustificò nelle scienze perchè in queste è impossibile il modus
ponens di conchiudere alla verità di una conoscenza dalla verità delle sue
conseguenze: bisognerebbe infatti conoscere tutte le conseguenze possibili: il
che è impossibile. Ma se da una proposizione può essere ricavata anche una sola
conseguenza falsa, la proposizione è falsa: perciò il modus tollens dei
sillogismi conchiude insieme con rigore e con facilità. Ma questo modo di
ragionare è senza pericoli solo nelle scienze in cui non si può scambiare
l’oggettivo col soggettivo, cioè nelle scienze della natura. In filosofia invece
quello scambio è possibile, cioè può darsi che sia soggettivamente impossibile
ciò che non è oggettivamente impossibile. E quindi il ragionamento apagogico
non porta a conclusioni legittime (Critica R. Pura, Disciplina della ragion
pura, IV). ASTRATTE, IDEE. V. ASTRAZIONE. ASTRATTE, SCIENZE. V. Scienze,
CLASSIFICAZIONE DELLE. ASTRATTIVA, CONOSCENZA (lat. Cognitio abstractiva; ingl.
Abstractive Knowledge; francese Connaissance abstractive; ted. Abstrahierende
Erkenntnîss). Termine che Duns Scoto adoperò, simmetricamente od oppostamente a
quello di conoscenza intuitiva (cognitio intuitiva), per indicare una delle
specie fondamentali della conoscenza: la prima delle quali « astrae da ogni
esistenza aTRAZIONE 77 alla quantità discreta e continua; il fisico prescinde
da tutte le determinazioni dell’essere che non si riducono al movimento.
Analogamente il filosofo spoglia l’essere di tutte le determinazioni
particolari (quantità, movimento, ecc.) e si limita a considerarlo solo in
quanto essere» (Mer., XI, 3, 1061 a 28 sgg.). L’intero procedimento del
conoscere può essere, secondo Aristotele, descritto con l’A.: «La conoscenza
sensibile consiste infatti nell’assumere le forme sensibili senza la materia
come la cera assume l’impronta del sigillo senza il ferro o l’oro di cui esso è
composto è (De An., II, 12, 424 a 18). E la conoscenza intellettuale riceve le
forme intelligibili astraendole dalle forme sensibili nelle quali sono presenti
(/bid., III, 7, 431 sgg.). All’operazione dell’A., S. Tommaso riduce la conoscenza
intellettuale; la quale è un astrarre la forma dalla materia individuale e così
trarre fuori l’universale dal particolare, la specie intelligibile dalle
imagini singole. AI modo in cui possiamo considerare il colore di un frutto
prescindendo dal frutto, senza perciò affermare che esso esista separato dal
frutto; così possiamo conoscere le forme o specie universali dell’uomo, del
cavallo, della pietra, ecc., prescindendo dai princìpi individuali cui vanno
unite, ma senza pretendere che esistano separatamente da questi. L’A. perciò
non falsifica la realtà ma solo rende possibile la considerazione separata
della forma e con ciò la conoscenza intellettuale umana (S. 7h., I, q. 85, a.
1). Questi concetti, o concetti affini, ricorrono in tutta la Scolastica. La
Logica di Porto Reale (I, 4) ha riassunto assai bene il pensiero della
Scolastica e la stretta connessione del procedimento astrattivo con la natura
dell’uomo, dicendo: «La limitazione della nostra mente fa sì che non possiamo
comprendere le cose composte se non considerandole nelle loro parti e
contemplando le facce diverse con cui esse ci fronteggiano: ciò è quello che si
suole generalmente chiamare conoscere per A. ». Locke per primo ha messo in
luce la stretta connessione del procedimento dell’A. con la funzione simbolica
del linguaggio. « Mediante l’A., egli dice, le idee tratte da esseri
particolari diventano le generali rappresentanti di tutti gli oggetti della
stessa specie e i loro nomi diventano nomi generali, applicabili a tutto ciò
che esiste ed è conforme a tali idee astratte... Così, venendo oggi osservato
nel gesso o nella neve lo stesso colore che ieri lo spirito ha ricevuto dal
latte, esso considera quel solo aspetto e ne fa la rappresentazione di tutte le
altre idee dalla medesima specie; e avendogli dato il nome ‘bianchezza’ con
questo suono significa la medesima qualità, dovunque essa venga imaginata o
incontrata; e così vengono composti gli universali, sia che si tratti di idee,
sia che si tratti di termini » (Saggio, II, 11, $ 9). Proprio sulla base di
queste osservazioni di Locke, Berkeley giunse alla negazione dell’idea astratta
e della stessa funzione della astrazione. Egli nega, in altri termini, che
l’uomo possa astrarre l’idea del colore dai colori, l’idea dell’uomo dagli
uomini, ecc. Non c’è infatti l’idea di un uomo che non abbia alcun carattere
particolare, come non c’è in realtà un uomo di tal genere. Le idee generali,
non sono idee prive di ogni carattere particolare (cioè « astratte »), ma idee
particolari assunte come segni di un gruppo di altre idee particolari fra loro
affini. Il triangolo che un geometra ha presente per dimostrare un teorema non
è un triangolo astratto, ma un triangolo particolare, per es., isoscele; ma
poichè di tale carattere particolare non si fa menzione nel corso della
dimostrazione, il teorema dimostrato vale per tutti indistintamente i
triangoli, ognuno dei quali può prendere il posto di quello considerato (Princ.
of Hum. Know., Intr., $ 16). Hume ripetette l’analisi negativa di Berkeley
(7reazise, I, 1, 7). Tali analisi tuttavia non negano l’A., ma piuttosto la sua
nozione psicologica in favore del concetto logico-simbolico di essa. L’A. non è
l’atto con cui lo spirito pensa certe idee separatamente da certe altre; è
piuttosto la funzione simbolica di certe rappresentazioni particolari. Kant
tuttavia sottolinea l’importanza dell’A. nel senso tradizionale, mettendola
accanto alla attenzione come uno degli atti ordinari dello spirito e
sottolineando la sua funzione di separare una rappresentazione, di cui si è
coscienti, dalle altre con cui essa è legata nella coscienza. Per quanto egli
esemplifichi in modo curioso l’importanza di questo atto (« Molti uomini sono
infelici perchè non sanno astrarre ». « Un celibe potrebbe fare un buon
matrimonio se soltanto sapesse astrarre da una verruca del viso o dalla
mancanza di un dente della sua amata », [Aner., $ 3]), è chiaro che l’intero
procedimento di Kant inteso a isolare (isolieren) gli elementi a priori della
conoscenza o in generale dell’attività umana, è un procedimento astrattivo. «In
una logica trascendentale, egli dice per es., noi isoliamo l'intelletto (come
sopra, nell’Estetica trascendentale, la sensibilità) e rileviamo di tutta la
nostra conoscenza soltanto la parte del pensiero che ha la sua origine
unicamente nell’intelletto » (Crit. R. Pura, Div. della Log. trascend.). Con
Hegel si assiste allo strano fenomeno di una sopravvalutazioperciò, secondo
Hegel, la realtà stessa, anzi la sostanza della realtà. Dall’altro lato,
tuttavia, l’astratto è considerato da Hegel come ciò che è finito, immediato,
non posto in relazione col tutto, non risolto nel divenire dell’Idea, e perciò
prodotto di una prospettiva provvisoria c fallace. «L’astratto è il finito, il
concreto è la verità, l’oggetto infinito » (Phil. der Religion, II, in Werke,
ed. Glockner, XVI, pag. 226). «Soltanto il concreto è il vero, l’astratto non è
il vero » (Geschichte der Phil., III, in Werke, ed. Glockner, XIX, pag. 99). È
chiaro tuttavia che Hegel intende per astratto quello che comunemente si chiama
concreto — le cose, gli oggetti particolari, le realtà singole offerte o
testimoniate dall’esperienza — mentre chiama me immanenza di esso nelle
rappresentazioni singole e dell’« astrattezza » delle nozioni considerate
avulse dai particolari (Logica, 48 ediz., 1920, pag. 28). Bergson ha
costantemente contrapposto il tempo «concreto» della coscienza al tempo «
astratto» della scienza; e in generale il procedimento della scienza che si
avvale di concetti o simboli cioè di «idee astratte o generali» al procedimento
intuitivo o simpatetico della filosofia (cfr., per es., La pensée et le
mouvant, 3» ediz., 1934, pag. 210). Simili temi polemici sono stati assai
frequenti nella filosofia dei primi decenni del nostro secolo. E certamente la
polemica contro l’A. è stata efficace contro la tendenza ad entificare i
prodotti di essa cioè a considerare come sostanze o reogo alle vere e proprie
entità astratte, per es., nella matematica. «Il più ordinario fatto della
percezione, come, ad es., ‘ c’è luce ® implica A. precisiva o prescissione. Ma
l’A. ipostatica, l'A. che trasforma il ‘c’è luce’ in ‘c’è la luce qui’ che è il
senso ch'io do comunemente alla parola A. (dal momento che prescissione indica
l’A. precisiva) è un modo specialissimo del pensiero. Esso consiste nel
prendere un certo aspetto di un oggetto o di più oggetti percepiti (dopo che è
stato già prescisso dagli altri aspetti di tali oggetti) e di esprimerlo in
forma proposizionale con un giudizio » (Coll. Pap., 4.235; cfr. 3.642; 5.304).
Questa distinzione che era stata già accennata da James (Princ. of Psychol., I,
243) ed è stata accettata da Dewey (Logic, cap. 23; trad. ital., pag. 603604)
non toglie che sia la prescissione sia l’A. ipostatica sono specificazioni di
quella generale funzione selettiva, che tradizionalmente è stata indicata con
la parola « astrazione ». Paul Valéry ha poeticamente insistito sull’importanza
dell’A. in ogni costruzione umana quindi anche nell’arte: « L'uomo, ti dico,
fabbrica per A.; ignorando e dimenticando gran parte delle qualità di ciò che
impiega, applicandosi soltanto a condizioni chiare e distinte che possono per
lo più essere simultaneamente soddisfatte non da una ma da più specie di
materie» (Eupalinos, trad. ital., pag. 134). ASTRAZIONISMO (ingl. Abstractionism;
franc. Abstractionnisme; ted. Abstraktionismus). Così William James (The
Meaning of Truth, 1909, capitolo XIII) chiamò l’uso illegittimo dell’astrazione
e in particolare la tendenza a considerare come reali i prodotti
dell’astrazione. ASTROLOGIA (gr. dotpodoria; lat. Astrologia; ingl. Astrology;
franc. Astrologie; ted. Astrologie). La credenza nell’influsso dei movimenti
degli astri sul destino degli uomini e la scienza, o pretesa scienza, fondata
su questa credenza. L'A. è legata con la nascita dell’astronomia nel mondo
orientale e ha accompagnata l’astronomia nella prima parte della sua storia.
Secondo F. Cumont, furono i Caldei i primi a concepire l’idea di una necessità
inflessibile che regoli l’universo e a sostituire tale idea a quella di un
mondo retto da dèi in conformità delle loro passioni. L’idea fu ad essi
suggerita ATEISMO 79 dalla regolarità dei movimenti dei corpi celesti (CumonT,
Oriental Religions in Roman Paganism, trad. ingl., pag. 179). Questa credenza
condusse a stabilire una corrispondenza tra il macrocosmo (mondo) e il
microcosmo (uomo): corrispondenza in virtù della quale gli avvenimenti dell’uno
si rifletterebbero negli avvenimenti dell’altro e sarebbe possibile, a partire
dalla conoscenza dei primi, predire in qualche modo i secondi. L’A. si diffuse
in Occidente nel periodo greco-romano. La filosofia araba la giustificò,
proprio come gli antichi Caldei, sul fondamento della necessità universale che
lega insieme tutti gli eventi del mondo e che da Dio, come primo motore, va
sino agli eventi umani. Questa catena necessaria passa attraverso gli
avvenimenti celesti: gli avvenimenti terrestri, e quelli umani, non sono
determinati direttamente da Dio, ma sono determinati da lui per il tramite
degli avvenimenti celesti, cioè dei movimenti degli astri. Sicchè tali
movimenti sono quelli che immediatamente determinano gli eventi del mondo
sublunare e quindi del mondo umano; e la conoscenza di essi rende possibile la
previsione di questi. Le credenze astrologiche erano comuni nel Medioevo, nonostante
le condanne ecclesiastiche: Dante stesso ne partecipava (Conv., II, 14; Purg.,
XXX, 109 seguenti). Nel Rinascimento furono difese e giustificate da uomini
come Paracelso, Bruno, Campanella. Quest'ultimo dedicò all’A. un’opera
Astrologicorum Libri VII, 1629, e si avvalse di essa per confermare il suo
vaticinio dell’imminente ritorno del mondo all’unità religiosa e politica
(Atheismus triumphatus, 1627). Altri filosofi furono ostili all’astrologia, pur
ammettendo la validità della magia. Così fece, per es., Pico della Mirandola
che scrisse le Disputationes adversus Astrologos nelle quali accusa l’A. di
rendere gli uomini servi e miserabili; e così fece Giovan Battista Helmont
negando l’influsso degli astri sugli avvenimenti umani (De Vita Longa, 15, 12).
L’A. ha perduto il suo fondamento scientifico con la scienza moderna, la quale
esige, per poter affermare un qualsiasi rapporto causale, che tale rapporto sia
riscontrato uniforme in un numero di casi sufficientemente grande. Il rapporto
causale tra i movimenti degli astri e gli eventi umani potrebbe pertanto essere
riconosciuto come tale solo sul fondamento di osservazioni ripetute e
ripetibili, che ne mettessero in luce tutti gli anelli intermedi, in modo da
farne comprendere il funzionamento. Niente del genere si è verificato nell’A.
la quale tuttora si fonda su antichi testi e tradizioni, su simbolismi non
suscettibili di controllo e su credenze magiche o teosofiche. D'altronde, le
credenze astrologiche rimangono tra le più diffuse anche nel mondo contemporaneo,
permeato com'è di spirito scientifico: forse lo spirito contemporaneo trova in
esse un correttivo all'assenza di sicurezza che è caratteristica della sua
situazione e nelle predizioni astrologiche una via per limitare, sia pure in
modo arbitrario e fantastico, le previsioni intorno al suo destino prossimo o
lontano. ASTRUSO (lat. Abstrusus [= nascosto]; inglese Abstruse; franc.
Abstrus; ted. Abstrus). Termine peggiorativo per qualificare qualsiasi nozione
inconsueta o di difficile comprensione; 0, come dice Locke (Saggio, II, 12, $
8) «lontana dai sensi e da ogni operazione del nostro spirito ». Il termine è
applicato soprattutto a nozioni astratte; ma viene ugualmente applicato a
nozioni che si allontanino, più o meno, dall’ordinario universo di discorso.
ASTUZIA DELLA RAGIONE (ingl. Astuteness of the Reason; franc. Astuce de la
raison; ted. List der Vernunfr). Così Hegel ha chiamato il fatto che l’Idea
universale fa agire nella storia le passioni degli uomini come suoi strumenti e
le fa logorare e consumarsi per i propri fini. « L’Idea paga il tributo
dell’esistenza e della caducità non di sua tasca ma con le passioni degli
individui. Cesare doveva compiere quello che era necessario per rovesciare la
decrepita libertà; la sua persona perì nella lotta ma quello che era necessario
restò: la libertà secondo l’idea giaceva più profonda dell’accadere esterno »
(Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pag. 83-84; trad. ital, pag. 98). ATANATISMO
(ingl. Arhanatism; franc. Athanatisme; ted. Athanatismus). Così fu chiamata da
alcuni autori dell’800 la dottrina dell’immortalità dell’anima. ATARASSIA (gr.
drapazla; ingl. Afaraxia; franc. Ataraxie; ted. Ataraxie). Termine usato
dapprima da Democrito (Fr., 191) poi dagli Epicurei e dagli Stoici per
designare l’ideale della imperturbabilità o della serenità dell’anima derivante
dal dominio sulle passioni o dall’estirpazione di esse (v. ApATIA).
Analogamente «Il fine dello scetticismo è l’A. nelle cose opinabili e la
moderazione nelle cose che sono per necessità » (SESTO E., /potip. Pirr., I,
25). ATEISMO (gr. a0e6mns; lat. Arheismus; inglese Atheism; franc. Athéisme;
ted. Atheismus). È, in generale, la negazione della causalità di Dio. Il
riconoscimento dell’esistenza di Dio può accompagnarsi con l’ateismo se non
include anche il riconoscimento della causalità specifica di Dio. La prima
analisi dell'A. che la storia della filosofia ricordi è quella di Platone nel X
libro delle Leggi. Platone considera tre forme di A.: 1° la negazione della
divinità; 2° la credenza che la divinità esista ma non si curi delle cose
umane; 3° la credenza che la divinità possa essere propi80 ATEISMO ziata con
doni ed offerte. La prima forma è il materialismo: il quale dipende
dall’opinione che la natura precede l’anima e cioè che la materia « dura e
molle, pesante e leggera» preceda «l’opinione, la previsione, l’intelletto,
l’arte e la legge ». Questo è l’errore di tutti i filosofi della natura che
pongono l’acqua, o l’aria o il fuoco come principi delle cose e li chiamano
«natura» per intendere che sono l'origine di esse (Leggi, X, 891 c, 892 b). Per
confutare il materialismo non c’è che da dimostrare che l’anima precede la
natura; e Platone dimostra come lo stesso movimento dei corpi materiali
presuppone un Primo Motore immateriale (v. Dro, Prove DI). La seconda forma di
A., che consiste nel ritenere che la divinità non si occupa delle cose umane, è
confutata da Platone con l’argomento che essa equivarrebbe ad ammettere che la
divinità è pigra e indolente e a ritenerla inferiore al più comune mortale che
sempre vuol rendere perfetta l’opera sua, grande o piccola che sia. Infine la
peggiore aberrazione è quella dei malvagi i quali credono di poter propiziarsi
la divinità con doni ed offerte. Costoro pongono la divinità stessa alla pari
dei cani che, ammansiti dai doni, permettono di depredare le greggi e al di
sotto degli uomini comuni che non tradiscono la giustizia accettando doni
delittuosamente offerti. Platone è così severo con quest’ultima forma di A.
che, per evitarla, vorrebbe impedire ogni forma di sacrificio privato ed
ammettere solo quelle effettuate sui pubblici altari e con rituale stabilito
(Leggi, X, 909 d). L’analisi di Platone assomma a dire che l’unica forma di A.
filosofico è il materialismo naturalistico, il quale pone il corpo prima
dell’anima; le altre due forme sono piuttosto pregiudizi volgari che credenze
filosofiche (sebbene la prima di esse, l’indifferentismo degli dèi, doveva
essere fatta propria dagli Epicurei). Uno sguardo al corso ulteriore della
filosofia occidentale mostra che accanto al materialismo, possono essere
considerati, come forme di A. filosofico, lo scetticismo, il pessimismo e il
panteismo. 1° Nell’età moderna la coincidenza di materialismo e A. è stata
affermata da Berkeley che appunto da questa coincidenza è stato indotto a
sostenere l’irrealtà della materia (v. IMMATERIALIsMO). Se si ammette che la
materia è reale l’esistenza di Dio diventa inutile perchè la materia stessa
diventa la causa di tutte le cose e delle idce che sono in noi. L’esistenza
della materia è il principale fondamento dell'A. e del fatalismo e della stessa
idolatria (Prince. of Hum. Knowledge, $$ 92-94). In linea di fatto si può dire
che non la realtà della materia, ma solo la causalità della materia è uno dei
fondamenti dell’ateismo. Il materialismo settecentesco di La Mettrie e
d’Holbach come quello ottocentesco di Luigi Buchner, di Ernesto Heckel e di
Felice Le Dantec hanno appunto questo fondamento. Dio viene eliminato come
principio causale di spiegazione perchè si ammette come tale la materia. 2° La
seconda forma di A. filosofico è quella scettica, che trova la sua prima
manifestazione nel neo-accademico Carneade di Cirene (214-129 a. C.). Questi
non solo fa vedere la debolezza delle prove che si adducono dell’esistenza
della divinità, ma mostra le difficoltà inerenti al concetto di divinità. Per
es., Carneade dice: « Se esistono, gli dèi sono viventi, se viventi sentono...
Se sentono, ricevono piacere o dolore. E se ricevono dolore sono capaci di
turbamento e mutazioni in peggio; e così sono mortali» (Sesto E., Adv. math.,
IX, 139-40). Un punto di vista analogo a quello di Carneade è stato elaborato
nell'età moderna da Hume nei suoi Dialoghi sulla religione naturale. Hume
ritiene che una prova « priori dell’esistenza di Dio sia impossibile perchè
l’esistenza è sempre materia di fatto. Quanto alle prove a posteriori, egli
rigetta la validità di una prova cosmologica, ritenendo illegittimo chiedersi
la causa di una collezione di individui. « Se, egli dice, si mostra la causa di
ciascun individuo di una collezione che comprende venti individui, è assurdo
domandare poi la causa dell’intera collezione che è stata già data con le cause
particolari. Questo vuol dire che non ha senso domandarsi la causa del mondo
nella sua totalità. Maggior valore ha la prova fisico-teologica; ma essa può
consentire soltanto di risalire ad una causa proporzionata all’effetto; e
poichè l’effetto, cioè il mondo, è imperfetto e finito, la causa dovrebbe
essere altrettanto imperfetta e finita. Ma se la divinità si riconosce
imperfetta e finita, manca il motivo per riconoscerla unica. Se una città può
essere costruita da più uomini, perchè l'universo non potrebbe essere stato
creato da più deità o dèmoni? » (Works, Il, 1827, pag. 413). Da ultimo la
disputa tra teismo e A. diventa una questione di parole: « Il teista ammette
che l’intelligenza originale è assai diversa dalla ragione umana. L’ateista
ammette che il principio originale dell’ordine ha qualche remota analogia con
la ragione stessa. Volete allora, miei signori, bisticciare intorno al grado
dell’analogia ed entrare in una controversia che non ammette preciso
significato nè conseguentemente una conclusione qualsiasi? » (/bid., pag. 535).
Questo tipo di scetticismo non è tuttavia, come spesso il materialismo, una forma
di professato A.: esso ténde, come si vede, a togliere ogni valore drammatico
alla disputa sull’A. e a dimostrarla da ultimo insignificante. 3° La terza
forma di A. è il panteismo (v.). Anche qui non si tratta di un professato A. ma
piuttosto di un'accusa che spesso viene rivolta a ATOMISMO 81coloro che
identificano Dio col mondo. L’accusa di A. è stata per molto tempo rivolta a
Spinoza per il suo Deus sive Natura: in realtà, come notava Hegel, più
esattamente si sarebbe dovuto parlare di acosmismo (v.). Accuse di A. furono
rivolte anche a Fichte in séguito ad un articolo pubblicato nel 1798 nel
Giornale filosofico di Jena, « Sul fondamento della nostra credenza nel governo
divino del mondo», nel quale s’identificava Dio con l’ordine morale del mondo.
Per la polemica che seguì a questo articolo, Fichte fu costretto a dimettersi
dall’Università di Jena. Fichte, come Spinoza, rigettava l’accusa di A.; e,
comunque si voglia giudicare la cosa, è certo che il panteismo non è A.
professato. 4° A. professato è invece, in alcune delle sue forme, il
pessimismo. Il disordine, il male, l’infelicità del mondo sono, secondo
Schopenhauer, ostacoli insormontabili sia all’affermazione del Dio personale
che è richiesto dal teismo, sia all’identificazione del mondo con Dio operata
dal panteismo (Selected Essays, trad. ingl. Belfort-Bax, pag. 71). Teismo e
panteismo presuppongono l’ottimismo che non solo è smentito dai fatti in quanto
viviamo nel peggiore dei mondi possibili, ma è anche pernicioso perchè non fa
altro che legare gli uomini alla spietata e crudele volontà di vita (Die Welt,
ecc., II, cap. 46). Nella filosofia contemporanea, la dottrina di Sartre
rappresenta un A. pessimistico aggiornato coi nuovi indirizzi della
speculazione. Non è il male o il dolore come tale il fondamento di questo
pessimismo; ma piuttosto l'ambiguità radicale, l’incertezza dell’esistenza
umana gettata nel mondo e dipendente soltanto dalla propria assoluta libertà
che la condanna allo scacco. Non c’è Dio, secondo Sartre, ma c’è l’essere che progetta
di essere Dio, cioè l’uomo: progetto che è nello stesso tempo l’atto della
libertà abissò nel mare e scomparve, rendendo impraticabile e inesplorabile il
mare nel quale era situata (7im., 24 sgg.). La Nuova A. è un’opera postuma di
Bacone, pubblicata nel 1627. È la descrizione di 8 — ARRAGNANO, Dizionario di
filosofia. una società in cui la scienza, posta a servizio dei bisogni umani,
ha scoperto o va scoprendo le tecniche per far dell’uomo il dominatore
dell’universo. La Nuova A. è perciò un paradiso della tecnica dove sono portati
a compimento le invenzioni e i ritrovati di tutto il mondo e ha l’aspetto di un
enorme laboratorio sperimentale nel quale gli abitanti cercano di « estendere i
confini dell’impero umano ad ogni cosa possibile ». I numi tutelari dell’isola
sono i grandi inventori di tutti i paesi e le sacre reliquie sono gli esemplari
di tutte le più rare e importanti invenzioni. ATOMICO (ingl. Atomic; franc.
Atomique; ted. Atomik). Elementare, non riducibile a parti costitutive più semplici.
Fatto A.: si è tradotto con questa espressione ciò che Wittgenstein aveva
chiamato «stato di cose» (Sachkverhalte) cioè il fatto in quanto costituisce
l’elemento ultimo del mondo (Tract. logico-philos., 1922, 2). Proposizione A.:
la proposizione elementare cioè quella che « asserisce l’esistenza di un fatto
A. + (/bid., 4. 21). Corrisponde alla propositio categorica della logica
scolastica: è una proposizione immediatamente vera o falsa (appunto come
imagine di un fatto A.), non scomponibile in altre proposizioni più semplici. G. P.-N. A. ATOMISMO (ingl.
Aromism; franc. Atomisme; ted. Atomismus). S’intendono con questa parola tre dottrine diverse,
che hanno scopi diversi, e precisamente: 1° l’A. filosofico o naturalismo
atomistico; 2° la teoria atomica; 3° la concezione atomistica della realtà
psichica o sociale o del linguaggio. 1° L’A. filosofico è quello di Democrito e
Leucippo, degli Epicurei e di Gassendi. Esso è una filosofia della natura che
non ha maggiori basi sperimentali della fisica aristotelica (v. ATOMO). 2° La
teoria atomica (ingl. Atomic Theory; franc. Théorie atomique; ted. Atomtheorie)
è quella formulata nella scienza moderna per la prima volta da Dalton, ed
esprime il modello che la scienza si è via via fatta dell’aromo (v.). 3° La
concezione atomistica (ingl. Atomistic Idea; franc. Idée atomistique; ted.
Atomistisches Denken) consiste nel proporre per la spiegazione della vita della
coscienza o della società o del linguaggio un’ipotesi analoga a quella dell’A.
filosofico o della teoria atomica assumendo che coscienza o società o
linguaggio siano costituiti da elementi semplici irreducibili, la cui diversa
combinazione ne spieghi tutte le modalità. Così fa l’associazionismo (v.) per
la vita della coscienza e l’individualismo (v.) per la vita della società. Si
parla pertanto di A. associazionistico (per es., ne parlava JAMES, Psychology,
I, 1890, pag. 604 e ne parla KATZ, Gestalipsychologie, cap. 1). L’espres82
ATOMISTICO sione «A. sociale» ricorre frequentemente a designare le dottrine
individualistiche che ritengono la società risolvibile interamente negli
individui che la compongono. Infine l’espressione « A. logico » fu adoperata da
Russell nel 1918 per indicare la sua filosofia. «La ragione per cui io chiamo
la mia dottrina A. logico, egli diceva, è che gli atomi ai quali desidero
arrivare come residui ultimi della analisi sono atomi logici e non atomi fisici
» (« The Phil. of Logical Atomism», in The Monist, 1918, ora in Logic and
Knowledge, London, 1956). Già nel libro Merodo scientifico in filosofia (1914)
aveva parlato di « proposizione atomica » intendendo la proposizione che esprime
un fatto cioè che afferma che una cosa ha una certa qualità o che certe cose
hanno certe relazioni; e aveva chiamato « atomico » il fatto espresso dalla
proposizione atomica. Questi concetti costituiscono anche i capisaldi del
Tractatus Logico-Philosophicus (1922) di Wittgenstein. ATOMISTICO. V. AtoMisMo.
ATOMO (gr. &ropov; ingl. Atom; franc. Atome; ted. Arom). La nozione di A.
ha offerto alla filosofia occidentale una delle più importanti alternative di
speculazione e di ricerca. Essa è stata infatti lo strumento principale della
spiegazione meccanica delle cose e in generale del mondo (v. MeccanIcisMo).
Leucippo e Democrito elaborarono nel sec. v a. C. questa nozione: l’A. è un
elemento corporeo, invisibile per la sua piccolezza e non divisibile. Gli A.
differiscono solo per forma e grandezza; unendosi e disunendosi nel vuoto
determinano la nascita e la morte delle cose e disponendosi diversamente ne
determinano la diversità. Aristotele (Mer., I, 4, 985 b 15 sgg.) li paragonò
alle lettere dell'alfabeto, che differiscono fra loro per la forma e danno
luogo a parole e a discorsi diversi, disponendosi e combinandosi diversamente.
Le qualità dei corpi dipendono dunque o dalla figura degli A. o dall’ordine e
dal movimento di essi. Perciò non tutte le qualità sensibili sono oggettive e
appartengono veramente alle cose che le provocano in noi. Sono oggettive le
qualità proprie degli A.; la forma, la durezza, il numero, il movimento; invece
il freddo, il caldo, i sapori, i colori, gli odori, sono soltanto apparenze
sensibili provocate bensì da speciali figure o combinazioni di A., ma non
appartenenti agli A. stessi (DeMOCRITO, Fr. 5, Diels). Il movimento degli A. è
determinato da leggi immutabili: « Nessuna cosa, dice Leucippo {Fr. 2) accade
senza ragione ma tutto accade per una ragione e di necessità ». Il movimento
originario degli A. facendoli roteare e urtarsi in tutte le direzioni produce
un vortice dal quale le parti più pesanti sono portate al centro e le altre
invece respinte verso la periferia. Il loro peso, che li fa tendere verso il
centro, è dunque un effetto del loro movimento vorticoso. In questo modo si
formano infiniti mondi che incessantemente si generano e si dissolvono. Questi
capisaldi, propri del vecchio atomismo, rimasero immutati nelle altre forme
dell’atomismo. La fisica di Epicuro rappresenta una ripetizione della fisica
democritea: non molta importanza ha difatti la variante di Epicuro che gli A.
cadono in linea retta e che s’incontrano e producono vortici quando, senza
causa, deviano dalla traiettoria rettilinea (CICERONE, De fin., I, 18; De nat.
deor., I, 69). La nozione dell’A. non viene utilizzata per tutto il Medioevo,
durante il quale l’unica teoria fisica accettata è quella aristotelica delle
quattro cause (v. Fisica). E ai principi dell’età moderna, per quanto la
nozione ritorni occasionalmente — per es., in Cusano e in Giordano Bruno (De
minimo, I, 2) — non viene utilizzata come strumento di una teoria sistematica
se non da Pierre Gassendi. Questi però, ammettendo che gli A. sono creati da
Dio, da lui dotati di movimento, e da lui guidati e ordinati mediante una
specie di anima del mondo, fa perdere alla fisica epicurea il carattere
materialistico e meccanico e la trasforma in una fisica spiritualistica e
finalistica (Synragma Philosophiae Epicuri, 1658). Nel frattempo Cartesio aveva
dato luogo al meccanismo non atomistico e considerato impossibile la stessa
nozione di atomo. «Se gli A. esistessero, egli disse, dovrebbero
necessariamente essere estesi e in tal caso, per quanto si imaginassero piccoli
potremmo sempre dividerli col pensiero in due o più parti minori e riconoscerli
perciò come divisibili » (Princ. Phil., II, 20) Fu probabilmente in base a
questa considerazione che Leibniz accettò la nozione di un A. non più fisico ma
psichico, cioè della monade (v.). La scienza moderna, pur essendo meccanistica,
non si avvale, da principio, dell'atomo. È vero che alla fine dell’Orrica
(1704) Newton adduceva un complesso di ragioni, cioè di esperienze, per
ammettere che « tutti i corpi siano composti di particelle dure »; e formulava
l’ipotesi che « Dio al principio abbia dato alla materia la forma di particelle
solide, dotate di massa, dure, impenetrabili e mobili, di tali dimensioni e
figure e con tali proprietà e in tali proporzioni con lo spazio, da essere
adatte al fine per il quale egli le ha formate» (Opzicks, IMI, 1, q. 31); ma è
anche vero che queste e simili speculazioni cadevano fuori della scienza
appartenendo alla sfera delle opinioni private dello scienziato. In realtà, l’ipotesi
atomica fa il suo ingresso nella scienza soltanto ai principi dell’800, per
opera della chimica. La legge delle proporzioni multiple, formulata da Giovanni
Dalton, esprimeva il fatto che quando una sostanza entra in combinazione con
quantità diverse di un’altra sostanza, queste quantità stanno tra loro come i
numeri semplici, cioè ATTEGGIAMENTO 83 si comportano come se fossero parti
indivisibili. Ma le parti indivisibili non sono altro che atomi.’ Pertanto
l’ipotesi della composizione atomica della materia come spiegazione della legge
delle proporzioni multiple veniva avanzata da Dalton nel 1808. Per quanto essa
suscitasse sùbito vivaci opposizioni perchè appariva come il ritorno di una
vecchia dottrina metafisica quindi come uno sconfinamento della scienza nella
metafisica, essa in realtà era ora un’ipotesi invocata a dar ragione di un
fatto bene accertato. E più che un’ipotesi, la nozione stessa apparve come una
realtà quando nel 1811 la teoria di Avogadro (circa l’uniformità del numero
delle particelle contenute in un volume dato di gas) permetteva di stabilire il
peso degli A. relativamente ali’ A. d’idrogeno, assunto come unità: il che dava
agli A. una realtà fisica (misurabile). La nozione di A. doveva subire una
trasformazione radicale a partire dalla seconda metà dell’800 con lo studio dei
fenomeni dei gas rarefatti e delle emanazioni radioattive. L’A., indivisibile
per la chimica, non era più indivisibile per la fisica. Verso il 1904 Thompson
escogitava il primo modello di A., imaginando che esso fosse costituito da una
piccola palla elettrizzata positivamente che racchiudesse nel suo interno un
certo numero di elettroni. Ma alcune esperienze di Rutherford mostravano che la
materia è assai meno compatta di come avrebbe fatto supporre il modello atomico
di Thompson. Perciò Rutherford verso il 1911 imaginava la struttura dell'A.
come un sistema solare in miniatura, costituito da un nucleo centrale
elettrizzato positivamente (paragonabile al Sole) e da vari elettroni rotanti
intorno ad esso (paragonabili ai pianeti). Un'ulteriore innovazione del modello
dell’A. fu operata da Bohr, il quale, tenendo presente la scoperta del quantum
di azione, imaginò che l’elettrone percorra intorno al nucleo un numero
determinato di ellissi e possa saltare da un’ellissi all’altra, liberando in
questo salto un quanium di energia. La scoperta del principio di
indeterminazione (v.) dimostrava tuttavia che non è possibile osservare nella
sua interezza la traiettoria di un elettrone e che perciò la stessa nozione di
traiettoria non ha significato fisico (nulla che non sia osservabile o
misurabile ha significato fisico). Ma allora lo stesso modello dell’A. di Bohr
perdeva il suo significato fisico e cessava di avere la pretesa di essere
l’imagine esatta dell’atomo. Dal 1927 in poi, cioè dalla data in cui Heisenberg
ha scoperto il principio di indeterminazione, la scienza ha praticamente
abbandonato ogni tentativo di descrivere l’A. o di definirlo in un modo
qualsiasi. Allo stato attuale delle cose l’aggettivo «atomico » rimane soltanto
a designare la scala sulla quale certi fenomeni possono essere osservati e
misurati. ATOMO PRIMEVO (ingl. Primeval Atom). L’ipotesi cosmogonica che
presenta l’universo come il risultato della disintegrazione radioattiva di un
atomo (G. LeMAITRE, The Primeval A., An Essay on Cosmogony, 1950) (v.
COSMOLOGIA). ATTEGGIAMENTO (ingl. Attitude; franc. Attitude; ted. Einstellung).
Termine ampiamente usato nella filosofia, nella sociologia e nella psicologia
contemporanee per indicare in generale l’orientamento selettivo e attivo
dell’uomo nei confronti di una situazione o di un problema qualsiasi. Dewey
ritiene la parola sinonima di abito (v.) e di disposizione (v.); e in
particolare gli sembra che essa designi «un caso speciale di predisposizione,
la disposizione che aspetta di prorompere attraverso una porta aperta» (Human
Nature and Conduct, 1922, pag. 41). Lewis analogamente dice che nell’A. ciò che
è presente è afferrato nel suo significato pratico e anticipatorio, come un
indizio di ciò che sta al di là, nel futuro (An Analysis of Knowledge and
Valuation, pag. 438). Del termine si è servito ampiamente Stevenson per la sua
distinzione tra « significato descrittivo » e « significato emotivo » delle
parole: il primo dei quali si avrebbe quando la risposta allo stimolo è un
insieme di processi mentali conoscitivi e il secondo quando la risposta allo
stimolo è una certa spinta all'azione. Stevenson chiama A. questa spinta
all’azione, che viene, non si sa perchè, qualificata come « emotiva »; ma
ritiene troppo difficile definire precisamenono di un determinato reticolato di
forme trascendentali » (Psychologie, Intr., $ 4). Più precisamente l’A. si può
definire come il progetto di scelte a venire di fronte a un certo tipo di
situazione (o di problemi); o come un progetto di comportamento che consenta di
effettuare scelte di valore costante nei confronti di una situazione
determinata. In questo caso dire, per es., che «x ha un A. contrario al
matrimonio » significa dire che x progetta di non sposarsi; perciò, in generale,
l’A. di x per S è un progetto di x riguardante il comportamento da te84
ATTEGGIAMENTO NATURALnere nei confronti di situazioni in cui S è possibile
(cfr. ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, cap.V). ATTEGGIAMENTO NATURALE
(tedesco Naturlicher Einstellung). Husserl ha chiamato così l’A. che consiste
nell’assumere come esistente il comune mondo in cui viviamo, formato di cose,
beni, valori, ideali, persone, ecc., così com’esso si offre a noi. Da questo A.
la filosofia fenomenologica intende uscire mediante un dubbio radicale che
consiste nel sospendere l’A. naturale, cioè nel vietarsi ogni giudizio
sull’esistenza del mondo e di tutto ciò che è in esso. Solo questo nuovo A.
sarebbe il punto di partenza della ricerca filosofica (/deen, I, $ 27 seg.) (v.
EPOCHÉ; SOSPENSIONE DELL’ASSENSO). ATTENZIONE (ingl. Attention; franc.
Aftention; ted. Aufmerksamkeit). Nozione relativamente recente (sec. xvil) con
la quale s’intende in generale l’atto con cui lo spirito prende possesso in
forma chiara e vivida di uno dei suoi possibili oggetti; o il presentarsi in
forma chiara e vivida di uno di tali possibili oggetti allo spirito. La nozione
di A. si trova in Cartesio, che la intende come l’atto con cui lo spirito
prende in considerazione un unico oggetto per qualche tempo (Passions de l’àme,
I, $ 43). Locke chiama «A.» l’A. passiva con la quale lo spirito è attratto da
certe idee mentre chiama «riflessione» l’A. attiva per cui esso sceglie certe
idee come propri oggetti privilegiati (Saggio, II, I, $ 8). Egli dice: «Quando
si prende nota delle idee che ci si presentano da sè, ed esse vengono per così
dire registrate nella memoria, si tratta dell’A. » (/bid., II, 19, $ 1).
Leibniz, invece, dà un senso attivo all’A.: « Noi facciamo A. agli oggetti che
distinguiamo e preferiamo agli altri ». E come forme dell’A. enumera la
considerazione, la contemplazione, lo studio, la meditazione (Nouv. Ess., II,
19, $ 1). Essa costituisce il passaggio dalle piccole percezioni
all’appercezione (/bid., prefaz.). Lo stesso carattere attivo l’A. conserva in
Wolff (Psychol. emp., $ 237) e in Kant (Antr., I, $ 3) il quale la definisce
come «lo sforzo di diventar cosciente delle proprie rappresentazioni ». A
partire dalla seconda metà del sec. xrx, col sorgere della psicologia
scientifica, l’A., considerata come una delle condizioni della vita psichica,
cade sotto la competenza di questa scienza. Il concetto di essa rimane quello
che i filosofi avevano formulato; e gli psicologi distinguono un’A. spontanea o
passiva o involontaria, per la quale è l’oggetto che s'impone alla coscienza; e
un’A. attiva o volontaria o controllata per la quale è il soggetto che sceglie
l'oggetto della sua attenzione. La psicologia contemporanea considera l’A. come
l’adattamento attivo ad una situazione, come l’orientamento selettivo nei
confronti degli oggetti da percepire (cfr., ad es., D. O. HeBB, 7lie
Organisation of Behaviour, 1949, pag. 4). Con questa nozione dell’A., che si
adatta allo schema generale prevalente nelle scienze antropologiche secondo il
quale ogni attività dell’uomo è la sua risposta a un complesso determinato di
stimoli (situazioni o problemi), l'A. è stata sottratta al dominio della pura
interiorità e riconosciuta come una forma di comportamento (v.). ATTIMO (gr. tò
tEalewne; lat. Momentum; ingl. Instant; franc. Instant; ted. Augenblick). 1.
Secondo il significato specifico, che è proprio di una certa tradizione
filosofica, l’A. ha un significato diverso dall’ora (v.) o istante, che è il
limite o la condizione del tempo, perchè rappresenta una specie di incontro o
di compromesso tra il tempo e l’eternità. Questa nozione rimonta a Platone.
«L’A., egli diceva, sembra che indichi ciò che fa da transizione tra due
mutamenti inversi. Il trapasso infatti dal movimento alla quiete e viceversa
non ha luogo a partire da un’immobilità che è ancora immota o dal movimento che
è tuttora mosso. La natura un po’ strana dell’A. si asside nel mezzo tra la
quiete ed il moto pur non essendo cesso nel tempo e lo fa essere il punto di
arrivo e di partenza di ciò che si muove verso lo star fermo e di ciò che sta
fermo verso il muoversi» (Parm., 156 d). In altri termini per Platone l’A. non
è nè il tempo nè l'eternità, nè il movimento nè la quiete, ma sta in mezzo tra
essi e costituisce il loro punto di incontro. Questa nozione è stata ripresa da
Kierkegaard che ha visto nell’A. la subitanea inserzione dell'eternità nel
tempo e quindi la subitanea inserzione della verità divina nell'uomo cioè la
nascita della fede (Philosophische Brocken, cap. IV; cfr. Werke, II, pag. 108, 116
sgg.). Il carattere istantaneo della fede esclude che essa possa essere
suscitata o prodotta da procedimenti di dimostrazione o di persuasione. Di qui
la polemica di Kierkegaard contro la chiesa ufficiale danese. Polemica che egli
condusse nel giornale che intitolò per l’appunto L’attimo. Il concetto dell’A.
ritorna nell’esistenzialismo tedesco ma senza la risonanza religiosa che aveva
in Kierkegaard. Dice Jaspers: « L’A. vissuto è il fatto supremo, calore di
sangue, immediatezza, vita, presente corporeo, totalità del reale, unica cosa
vera e concreta. Invece di partire dal presente per perdersi nel passato o nel
futuro, l’uomo trova l’esistenza e l’assoluto nell’A. che solo può darglieli.
Passato e futuro sono abissi oscuri informi, tempo indefinito, mentre l’A. può
essere l'abolizione del tempo, la presenza dell’eterno » (Psychologie der
Weltanschauungen, 1925, I, 3; trad. ital., pag. 132). Lo stesso Jaspers mette
in rapporto la che istante od ora (v.). ATTITUDINE (ingl. Aptitude; franc.
Aptitude; ted. Eignung). Da non confondere con atteggiamento (v.). Questo
termine designa la presenza di determinati caratteri che nel loro complesso
rendono l’individuo particolarmente adatto ad un còmpito determinato. Sulla
determinazione delle A. è fondato l’orientamento professionale, cioè la
selezione e l’avviamento dell’individuo a questo o a quel lavoro, in conformità
delle sue attitudini. ATTIVISMO (ingl. Activism; franc. Activisme; ted.
Activismus). Il significato di questo termine va tenuto distinto da quello di
artualismo (v.): questo indica la teoria metafisica per la quale la realtà è
atto o attività, mentre il termine in questione indica l’atteggiamento
(talvolta razi A. sono state, in questo senso, il fascismo, il nazismo e lo
stalinismo. (Cfr. K. MANNHEIM, /deologie und Utopie, 1929, III, $ 2; trad.
ital., pag. 141). ATTIVITÀ (ingl. Activity; franc. Activité; tedesco Tatigkeit
o Aktiviràt). Questo termine ha due significati corrispondenti ai due
significati della parola azione. Da un lato, infatti, esso viene adoperato a
indicare un complesso più o meno omogeneo di azioni volontarie (in riferimento
al significato 2° della parola azione) come quando si dice «x ha svolto intensa
A. politica». Dall’altro, è adoperato a indicare il modo d'essere di ciò che
agisce o ha in suo potere l’azione, come quando si dice « Lo spirito nel
conoscere è attivo + per dire che non è semplicemente ricettivo o passivo. Il
contrario di A. in questo secondo senso è « passività », mentre il contrario di
A. nel primo senso è s inerzia » o « inazione ». L’uso filosofico coincide con
l’uso del linguaggio comune ed è quindi anch’esso duplice. Tuttavia prevale,
soprattutto nell’uso moderno, il secondo significato. Malebranche (Recherche de
la vérité, II, 7), alcuni ideologi francesi e Galluppi (Filosofia della
volontà, I, 6, $ 60) si servono del termine A. per designare il modo d’agire
della volontà; ma anche in questo caso il significato del termine è il secondo,
non il primo. Per questo secondo significato si può forse risalire a Locke che
distingue la « passività » dello spirito per la quale esso riceve tutte le sue
idee semplici, dall'A. per cui esso « compie in proprio numerosi apotere
creativo, è al centro della filosofia di Fichte. « L’A. dell’io consiste
nell’illimitato porsi » dice Fichte (Wissenschaftslehre, 1794, II, $ 4) e
ponendo se stesso, l'io pone nello stesso tempo anche il mondo esterno come
proprio limite e condizione. Da Fichte in poi la filosofia moderna ha avuto
come uno dei suoi temi preferiti «1’A. creatrice dello spirito » delle quali
alcune filosofie, come l’attualismo di Gentile, hanno fatto 86 ATTO il proprio
tema dominante. È chiaro che in queste forme estreme la nozione di attività
perde il suo significato: questo deriva dal rapporto con quelia di passività,
in quanto designa la possibilità e il potere d’azione di fronte a limiti o
condizioni determinate; mentre là dove l’A. è infinita, limiti o condizioni non
sussistono e la distinzione tra A. e passività non dà senso. ATTO (gr. evipyea,
tvredtyera; lat. Actus; ingl. Act; fr. Acte; ted. Akt). Questo termine ha due significati: 1° quello di
azione nel significato ristretto e specifico di questa parola, come operazione
che emana dall’uomo o da un suo potere specifico (v. AZIONE, 2). Diciamo
infatti « A. volontario », «A. responsabile » o «A. dell’intelletto », « A.
morale », ecc.; ma non diciamo «A. degli acidi sui metalli » o « A. distruttivo
del DDT», ecc., bensì usiamo, in questi casi, la parola « azione +; 2° quello
di realtà che si è realizzata o si va realizzando, dell’essere che ha raggiunto
o va raggiungendo la sua forma piena e finale, in quanto si contrappone a ciò
che è semplicemente potenziale o possibile. Nel secondo senso la parola fa
esplicito riferimento alla metafisica di Aristotele e alla sua distinzione fra
potenza ed atto. L’A. è l’esistenza stessa dell’oggetto: sta alla potenza «come
il costruire al saper costruire, l'essere desto al dormire, il guardare al
tener chiusi gli occhi pur avendo la vista, e come l’oggetto cavato dalla
materia ed elaborato compiutamente sta alla materia grezza e all’oggetto non
ancora finito » (Mer., IX, 6, 1048 a 37). Alcuni A. sono movimenti, altri
azioni: sono azioni quei movimenti che hanno il loro fine in se stessi, per
es., il vedere o l’intendere o il pensare; mentre l’apprendere, il camminare,
il costruire hanno fuori di sè il loro fine, nella cosa che si apprende, nel
punto cui si vuole arrivare, nell’oggetto che si costruisce. L'azione perfetta,
che ha in sè il suo fine, è detta da Aristotele A. finale o entelechia (v.).
Mentre il movimento è il processo che porta gradualmente all'A. ciò che prima
era in potenza, l’entelechia è il termine finale (re/os) del movimento, il suo
compimento perfetto. Come tale è anche la realizzazione completa, quindi la
forma perfetta di ciò che diviene, la specie e la sostanza. L’A. precede la
potenza sia rispetto al tempo sia rispetto alla sostanza: giacchè se il seme
vien prima della pianta, in realtà esso non può essere derivato che da una
pianta. Ciò che nel divenire è ultimo, è sostanzialmente primo: la gallina vien
prima dell’uovo (/bid., IX, 8, 1049b 10 sgg.). Queste distinzioni hanno
dominato per molti secoli il pensiero occidentale e sono entrate a far parte
del linguaggio comune. S. Tommaso ripropone queste distinzioni con la sua
solita chiarezza a proposito della differenza tra A. ed azione, dicendo: «L’A.
è duplice, cioè primo e secondo. L’A. primo è la forma e l’integralità della
cosa (forma et integritas rei); l’A. secondo è l’operazione (operatio) + (S.
Th., I, q. 48, a. 5; Contra gent., II, 59). In altri termini ogni realtà come
tale è A. e quindi è A. anche l’azione, per es., un'operazione della volontà o
dell’intelletto, sebbene non si tratti, in questo caso, di un oggetto
esistente. Nella concezione aristotelica la distinzione tra potenza e A.
determina l’ordinamento gerarchico dell’intera realtà che va da un estremo
limite inferiore che è la materia prima (v.), pura potenzialità indeterminata,
a Dio che è puro A., senza mescolanza di potenzialità. Dio è difatti il Primo Motore
immobile dei cieli; e poichè il movimento dei cieli è continuo, il motore di
esso non solo deve essere eternamente attivo, ma dev’essere per sua natura
attività, assolutamente privo di potenza. E poichè la potenza è materia, esso è
anche privo di materia, A. puro (Mer., XII, 6, 1071 b 22). La nozione di A.
puro è rimasta fondamentale per la elaborazione dell'idea di Dio nel pensiero
occidentale. Ad essa si rifanno alcune moderne « filosofie dell'A. »: qual è
quella di Gentile, che è intesa a realizzare la rigorosa e totale immanenza di
ogni realtà nel soggetto pensante, cioè nted. Attribut). Il termine latino
corrisponde probabilmente a ciò che Aristotele chiamava « accidente per sè »
(An. post., I, 22, 83 b 19; Met., V, 30, 1025 a 30): indica, cioè, un carattere
o una determinazione che, pur non appartenendo alla sostanza dell'oggetto,
quale risulta dalla definizione, trova in questa sostanza la sua causa (vedi
AcciIDENTE). Nella Scolastica il termine fu usato quasi esclusivamente per
indicare gli A. di Dio come la bontà, l’onnipotenza, la giustizia, l’infinità,
ecc., che sono anche chiamati momi di Dio (cfr. S. Tommaso, S. Th., I, q. 33).
Quest’uso terminologico fu modificato da Cartesio con l’estensione del termine
alle qualità permanenti della sostanza finita. Difatti Cartesio intende per A.
le qualità in quanto « ineriscono alla sostanza ». Perciò «in Dio diciamo che
non ci sono propriamente modi o qualità ma soltanto A., perchè nessuna
variazione si deve concepire in Lui. E anche nelle cose create, ciò che in cose
non si comporta mai in modo diverso, come l’esisitenza e la durata, non deve
essere, nella cosa che esiste ec dura, chiamata qualità o modo, ma A.» (Princ.
Phil, I, $ 56). Questa terminologia è stata letteralmente fatta propria da
Spinoza, con la sola correzione che, dal momento che non esistono sostanze
finite, gli attributi possono essere solo di Dio. « Per A., dice Spinoza,
intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente
l’essenza di essa » (Er/., I, 4). Dio o la sostanza consta di infiniti A.
ognuno perciò esiste necessariamente (/bid., I, 11): di tali infiniti A., però
ne conosciamo due soltanto, cioè il pensiero e l’estensione (/bid., II, 1-2).
Per la loro immutabilità e la loro connessione con la sostanza divina, gli
attributi sono a loro volta eterni e infiniti e sono il tramite per il quale da
Dio scaturiscono gli enti finiti (i modi della sostanza) con assoluta necessità
(/bid., I, 21-23). Nella filosofia moderna e contemporanea la parola A. è
raramente usata, salvo che nel suo significato logico-grammaticale di
predicato. ATTUALISMO (ingl. Actualism; franc. Actualisme; ted.
Aktualitàtstheorie). Ogni dottrina che riconosca come sostanza o principio
dell'essere un atto o un'attività. Ogni dottrina di questo genere è una forma
di idealismo, e precisamente di idealismo romantico. A. è pertanto la dottrina
di Fichte che riconosce come principio l’attività dell’Io infinito. A. è pure
la dottrina di Hegel per il quale l’Idea è attualità perfetta di coscienza. In Italia
il termine A. è stato ristretto a indicare l’idealismo di Gentile in quanto
risolve ogni realtà nell’atto del pensiero o nel «pensiero in atto» o «
pensiero pensante » (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916). In
questo senso Gentile parlava della «attualità» o «attuosità » dello spirito; e
dello spirito come « auto-posizione », « autocreazione » o « autoctisi ».
Questo termine va tenuto distinto da attivismo. AUMENTO E DIMINUZIONE (gr. dino
xal glow; lat. Auctio et diminutio;
ingl. Increase and Diminution; franc. Augmentation et diminution; ted. Vermehrung und Verringerung). Secondo Aristotele, una
delle quattro specie del mutamento e precisamente il mutamento secondo la
categoria della quantità, anch’esso riducibile, come tutte le altre, al
mutamento di luogo (Fis., IV, 4, 211 a). AURA VITALIS. Termine adoperato da
Giovan Battista Helmont (1577-1644) per indicare la forza che muove, anima e
ordina gli elementi corporei. AUTARCHIA (gr. aùripxera; ingl. Self-sufficiency;
franc. Autarchie; ted. Autarkie). La condizione di autosufficienza del saggio,
al quale essere virtuoso basta per essere felice, secondo i Cinici (Droc. L.,
VII, 11) e gli Stoici (Zbid., VII, 1, 65). AUT AUT. È il titolo di una delle
prime opere di Kierkegaard (1843), titolo che esprime l’alternativa che si
offre all’esistenza umana, di due forme di vita o come Kierkegaard dice, di due
«stadi fondamentali della vita»: la vita estetica e la vita morale. Tra questi
due stadi, come tra essi e lo stadio religioso che Kierkegaard analizzò in
Timore e tremore (1843) non c’è passaggio nè possibilità di conciliazione, ma
abisso e salto. L’aut aut, cioè la forma dell’alternativa fu da Kierkegaard
contrapposta alla forma della dialettica di Hegel nella quale c’è sempre
conciliazione, sintesi e armonia tra gli opposti (v. DIALETTICA). AUTENTICO
(ingl. Authentic; franc. Authentique; ted. Authentisch). Termine adoperato da
Jaspers (insieme a quello simmetrico e opposto di inautentico) per indicare
l'essere che è proprio dell’uomo in contrapposto acome una caduta da uno ‘stato
originario’ più puro e più alto. Di qualcosa di simile non solo non abbiamo
alcuna sperimentazione ontica, ma neppure la via di una possibile
interpretazione ontologica + (/bid., $ 38). In un senso analogo a quello di Jaspers
o di Heidegger, le due parole sono usate frequentemente nella filosofia
contemporanea. AUTISMO (ingl. Autism; franc. Autisme; tedesco Autismus).
Termine creato da Bleuler (LeArbuch der Psychiatrie, 1923) per indicare
l’atteggiamento che consiste nell’assorbimento dell’individuo in se stesso con
la conseguente perdita di ogni interesse per le cose e gli altri. È un
egocentrismo (v.) patologico. AUTOCENTRALITÀ (ingl. Self-centrality; franc.
Autocentralité; ted. Selbstcentralitàt). Espressione adoperata interno; quella
è chiamata appercezione pura (e falsamente senso intimo), questa appercezione
empirica. Nella psicologia indaghiamo noi stessi secondo le rappresentazioni
del nostro senso interno, nella logica invece, secondo ciò che la coscienza
intellettuale ci offre. Così l’io ci appare doppio (il che può essere
contraddittorio): 1° l’io come soggetto del pensiero (nella logica) a cui si
riferisce l’appercezione pura (l’io che soltanto riflette) e di cui nulla si
può dire tranne che è una rappresentazione del tutto semplice; 2° l’io come
oggetto dell’appercezione equindi del senso interno, che include una
molteplicità di determinazioni le quali rendono possibile un’esperienza interna
». L’A. non è dunque la coscienza (empirica di sè) ma la cosmateriale ma questo
materiale deve essergli dato e quindi dev'essere un materiale sensibile. Fichte
trasforma questo concetto funzionale kantiano in un concetto sostanziale: ne fa
un Io infinito, assoluto e creatore e pertanto considera l’A. come
auto-produzione o auto-creazione. L’A. diventa così il principio non solo della
conoscenza ma della realtà stessa; e principio non nel senso di condizione, ma
di forza o attività produttiva. Autoproducendosi, l’Io produce nello stesso
tempo il non-io, cioè il mondo, l’oggetto, la natura. Dice Fichte: « Non si può
pensare assolutamente a nulla senza pensare in pari tempo al proprio Io come
cosciente di se stesso; non si può mai astrarre della propria
A.»(Wissenschaftslehre, 1794, $ 1, 7). Matale A. è in realtà il principio
creatore del mondo: « L’Io di ciascuno è esso stesso l’unica Sostanza suprema »
dice Fichte criticando Spinoza (/bid., $ 3, D6); ‘ L’essenza della filosofia
critica consiste in ciò che un Io assoluto viene posto come assolutamente
incondizionato e non determinabile da nulla di più alto». Questa nozione
dell’A. divenne il fondamento dell’Idealismo romantico. Dice Schelling: «L’A.,
dalla quale noi partiamo, è atto uno ed assoluto; e con quell’atto uno è posto
non solamente l’Io stesso con tutte le sue determinazioni ma anche ogni altra
cosa che è posta in generale per l’Io... L'atto dell’A. è ideale e reale ad un
tempo ed assolutamente. Mercè di esso, ciò che è stato posto realmente, diviene
idealmente anche reale e ciò che si pone idealmente è posto anche realmente »
System des transzendentalen Ideal., 1800, sez. III, avvertenza). Quanto a
Hegel, egli già nella Propedeutica filosofica (Dottrina del concetto, $ 22)
diceva: « Come A. l’Io guarda se stesso, e l’espressione di questa nella sua
purezza è: Io = Io, oppure: Io sono Io» e nella Enciclopedia ($ 424): « La
verità della coscienza è l’A., e questa è il fondamento di quella; cosicchè
nell’esistenza la coscienza di un altro oggetto è A.; io so l’oggetto come mio
(esso è mia rappresentazione), io perciò so in esso me stesso ». Nella sua
forma più alta l’A. è « A. universale » cioè ragione assoluta. « L’A., ossia la
certezza che le sue determinazioni sono tanto oggettive — determinazioni
dell’essenza delle cose — quanto suoi propri pensieri, è la ragione; la quale,
in quanto ha siffatta identità, è non solo la sostanza assoluta, ma la verità
come sapere »' (Enc., $ 439): cioè la ragione come sostanza o realtà ultima del
mondo. L’A. come auto-creazione e perciò creazione della realtà tutta, rimane
la nozione dominante dell’Idealismo romantico, non solo nella sua forma
classica (alla quale si è accennato) ma anche nelle forme ricorrenti nella
filosofia contemporanea, cioè nell’idealismo anglosassone e nell’idealismo
italiano (v. IpeaLISMO). Fuori dell’Idealismo, la nozione non può essere
utilizzata e non presenta neppure problemi: giacchè i problemi filosofici,
psicologici e sociologici inerenti alla coscienza di sè sorgono ovviamente
soltanto quando per tale coscienza s'intenMIE). AUTOMA (gr. adrsuarov; lat.
Automaton; inglese Automaton; franc. Automate). Ciò che si muove da sè, in
generale; o una cosa inanimata che si muove da sè; o, più specificamente, un
apparato meccanico che effettua qualcuna delle operazioni ritenute proprie
dell’animale o dell’uomo. Si hanno notizie di A. favolosi costruiti dagli
antichi. Nel sec. xvm, il meccanico francese Vaucanson costruì un A. che
suonava il flauto. Samuel Butler in scritti romanzeschi (Darwin tra le
macchine, 1863; Lucubratio ebria, 1865; Erewhon, 1872) parlava di macchine che
hanno poteri umani ed entrano in conflitto con. l’uomo. L’inglese Charles 90
AUTONIMO Babbage (1792-1871) progettò una macchina calcolatrice che però non
venne mai costruita. Un A. logico cioè una macchina capace di combinare
proposizioni e derivarne conclusioni fu costruita da Stanley Jevons nel 1869.
John Venn costruiva nel 1881 un diagramma che poteva essere adoperato in
maniera da illustrare le relazioni tra i valori di verità delle proposizioni.
Nel 1885 Allan Marquand disegnava una macchina analoga a quella di Jevons e nel
1947 un calcolatore elettrico fu costruito ad Harvard da T. A. Kalin e W.
Burkhart per la soluzione di problemi impostati sull’algebra di Boole, che ha
per oggetto variabili che possono assumere solo due valori (vero o falso,
indicati rispettivamente con 1 e 0) e che perciò può essere applicata in tutti
i casi in cui si ha la scelta tra due alternative. La teoria degli A. nel senso
moderno, cioè delle macchine calcolatrici fu sviluppata da A. M. Turing nel
1936. I calcolatori eseguono in generale il programma in base al quale sono
stati progettati, ma effettuano le operazioni relative con rapidità e sicurezza
enormemente maggiori di quanto potrebbe fare un uomo. Tali A. sono cioè «
risparmiatori di tempo». Da essi il biologo inglese R. W. Ashby distinse gli «
amplificatori dell’intelligenza » che hanno, ad un certo grado, ciò che
nell’uomo si chiama « iniziativa ». Tra questi ci sono in fase di realizzazione
o in fase teorica, gli A. che giuocano e gli A. che imparano. Von Neumann ha parlato
anche di A. che si riproducono (Theory of Self-Reproducing Automata, 1966). Per
le teorie relative a tali A. vedi CIBERNETICA. AUTONIMO. V. Uso. AUTONOMIA
(ingl. Autonomy; franc. Autonomie; ted. Autonomie). Termine introdotto da Kant
per designare l’indipendenza della volontà da ogni desiderio od oggetto di
desiderio e la sua capacità di determinarsi in conformità di una legge propria,
che è quella della ragione. L’A. è cotrapposta da Kant alla eteronomia per la
quale la volontà è determinata dagli oggetti della facoltà di desiderare. Anche
gli ideali morali della felicità o della perfezione suppongono l’eteronomia
della volontà perchè suppongono che essa sia determinata dal desiderio di
raggiungerli e non da una sua propria legge. L’indipendenza della volontà da
ogni oggetto desiderato è la libertà nel senso negativo, mentre la legislazione
propria di essa (come « ragion pratica ») è la libertà nel senso positivo. « La
legge morale non esprime nient'altro che l’A. della ragion pura pratica, cioè
della libertà » (Cri. R. Prat., I, $ 8). In virtù di tale A. «Ogni essere
ragionevole deve considerarsi come fondatore di una legislazione universale »
(Grundlegung zur Met. der Sitten, II, [BA 77)).. Questo è rimasto il concetto
classico dell'autonomia. Più genericamente si parla oggi, per es., di un
«principio autonomo» nel senso di un principio che abbia in sè, o ponga da sè,
la sua validità o la regola della sua azione. AUTOOSSERVAZIONE,
AUTORIFLESSIONE, AUTOSCOPIA. V. INTROSPEZIONE. AUTORIFERIMENTO (ingl. Self-reference).
Con questo termine equivalente a riflessività (v.), è indicata nei Principia
Mathematica (Intr., cap. II, pag. 64) di Whitehead e Russell la comune cache
resistono acquistano la loro dannazione. I princìpi infatti sono il terrore non
delle buone opere ma delle cattive. Vuoi non temere la potestà? Fa il bene e
avrai lode da essa. Infatti essa è ministra di Dio a te per il bene. Ma se
avrai fatto il male, abbine timore: perchè non invano porta la spada. Essa
infatti è ministra di Dio e vendica nell’ira colui che fa il male. Perciò siate
soggetti di necessità, non solo per timore dell’ira ma anche per la coscienza »
(Ad Rom., XIII, I, 5). Questo documento è rimasto fondamentale per la
concezione cristiana dell’autorità. Essa viene difesa da Sant'Agostino (De Civ.
Dei, V, 19; cfr. V, 21); da Isidoro di Siviglia (Sent., III, 48) e da Gregorio
Magno che insiste sul carattere sacro del potere temporale sino a fare del
sovrano il rappresentante di Dio sulla Terra. Sostanzialmente la stessa tesi
veniva fatta propria da S. Tommaso: « Da Dio, come dal primo dominante, deriva
ogni dominio», egli dice (De Regimine Principum, III, 1). Questa concezione
coincide con la prima in un carattere negativo: cioè nel rendere l’A.
completamente indipendente dal consenso dei soggetti. Ma si differenzia dalla
prima in un carattere fondamentale: essa giustifica ogni A. che venga
esercitata de facto. Mentre la prima non esige che la classe che è destinata a
comandare comandi sempre di fatto (e per Platone infatti la cosa non sta così);
la seconda invece implica che ogni A. che di fatto venga esercitata, essendo
posta o stabilita da Dio, sia sempre pienamente legittima. Questo è il teorema
tipico della concezione in esame: teorema che consente di riconoscerla anche
nelle forme più o meno consapevolmente mistificate. Quando, per es., Hegel
afferma che lo Stato è «la realizzazione della libertà» o «l’ingresso di Dio
nel mondo» (Fil. del dir., $ 258, Aggiunta) fa coincidere quella che per lui è
I’A. più alta con la realtà storica dello Stato: e cioè giustifica ogni potere
di fatto, secondo quello che è la massima della sua filosofia: « intendere ciò
che è, è il còmpito della ragione, perchè ciò che è, è la ragione » (/bid.,
Pref.). Da questo punto di vista, A. e forza coincidono: ciò che possiede la
forza di farsi valere non può non godere di un’A. valida giacchè ogni forza è
voluta da Dio o è divina. 3° La terza 1). Uno dei tipici teoremi di questo
punto di vista è il carattere di legge che viene riconosciuto alle
consuetudini: difatti se le leggi non hanno altro fondamento che il giudizio
del popolo, quelle che il popolo stesso approvò pur senza scriverle hanno lo
stesso valore di quelle scritte (/bid., I, 3, 32). I grandi giuristi del
Digesto ammettevano pertanto che l’unica fonte 92 AUTOSUFFICIENZA dell’A. è il
popolo romano (R. W.-A. J. CARLYLE, History of Mediaeval Political Theory in
the West, II, I, 7; trad. ital., pag. 369 e sgg.). Tale è la forma che assunse,
nel Medioevo, la dottrina del fondamento umano dell’autorità. Dice Dante: «Il
popolo romano di diritto, non con l’usurpazione, si assunse il còmpito del
monarca, che si dice impero, sopra tutti i mortali » (De Mon., II, 3). Nelio
stesso modo Ockham affermava che « l'impero romano fu certamente istituito da
Dio, ma attraverso gli uomini cioè attraverso i Romani » (Dia/ogus inter
magistrum et discipulum, III, tract. II, lib. I, cap. 27, in GoLpast,
Monarchia, II, pag. 899). La stessa A. papale, Ockham riteneva, è limitata
dalle esigenze dei diritti e della libertà di coloro sui quali si estende ed è
quindi l’A. di un principato ministrativus, non dominativus (De Imperatorum et
pontificum potestate, VI). E alla domanda quali sono i diritti e le libertà che
devono essere rispettati dalla stessa A. papale, Ockham risponde che sono
quelli che spettano anche agli infedeli, sia prima che dopo l'incarnazione di
Cristo: giacchè i fedeli non devono nè dovranno essere in condizioni peggiori
di quelle in cui furono gli infedeli sia prima che dopo l’incarnazione di
Cristo (/bid., IX). Marsilio da Padova affermava chiaramente la tesi generale
implicita in simili riconoscimenti: « Il legislatore, cioè la prima ed
effettiva causa efticiente della legge, è il popolo o il complesso dei
cittadini oppure la parte prevalente di essi, che comanda e decide per sua
scelta o per suo volere in un’assemblea generale, in termini precisi che certi
atti umani si devono compiere e altri no sotto pena di penalità o di punizioni
corporali» (Defensor pacis, 1, 12, 3). Nicolò da Cusa non meno esplicitamente affermava
riferendosi all’A. ecclesiastica: « Poichè tutti gli uomini sono naturalmente
liberi, qualsiasi A. che distolga i sudditi dal fare il male e limiti la loro
libertà col timore di sanzioni, deriva solo dall’armonia e dal consenso dei
sudditi, sia che risieda nella legge scritta sia che risieda in quella vivente,
rappresentata dal reggitore » (De Concordantia catholica, II, 14). Nel mondo
moderno, la prevalenza del contrattualismo (v.) e del giusnaturalismo (v.)
determinano la prevalenza di questa dottrina. E nonostante che oggi
contrattualismo e giusnaturalismo non possano più essere invocati come
giustificazioni sufficienti dello Staro (v.) e del diritto (v.) la tesi
dell'origine umana dell’A. non è revocata in dubbio. La stessa dottrina di
Kelsen, attribuendo l’A. all’ordinamento giuridico non è che una specificazione
della tesi tradizionale. Dice Kelsen: «L'individuo che è, o ha, un’A. deve
avere ricevuto il diritto di emanare comandi obbligatori, di modo che altri
individui siano obbligati a obbedire. Tale diritto o potere può venire
conferito a un individuo soltanto da un ordinamento normativo. L’A. è quindi
originariamente la caratteristica di un ordinamento normativo » (General Theory
of Law and State, 1945, II, cap. VI, C, h; trad. ital., pag. 389). Ma, al di là
di questo punto di vista formale, sta il problema delle forme o dei modi in cui
il consenso che fonda l’A. può essere esercitato o espresso, nonchè dei limiti
o dell’estensione che esso può o deve avere nei singoli campi. È chiaro, ad es.,
che l’A. deve avere in politica còmpiti ed estensione maggiore che non nel
campo della ricerca scientifica; e che pertanto in politica il consenso che la
convalida deve avere limiti ed estensione ed essere esercitato ed espresso in
forme e caratteri diversi che non nel campo scientifico. Un riconoscimento che
esprima accettazione o consenso è alla base di ogni A.: le modalità, le forme e
i limiti istituzionali o meno di quel riconoscimento possono essere
diversissimi e costituiscono problemi fondamentali di politica generale e
speciale. 2. Nella filosofia medievale auctoritas è un’opinione particolarmente
ispirata dalla grazia divina e quindi in grado di guidare e correggere il
lavoro d’indagine razionale. Auctoritas, può essere la decisione di un
concilio, un detto biblico, la sententia di un Padre della Chiesa. +). Si dice
anche, osserva Aristotele, «A. una donna» ma questo significato è improprio
perchè si vuol dire soltanto che si coabita con lei (Car., 15, 15b 3 sgg.).
Queste distinzioni vengono ripetute nella logica medievale (cfr., ad esempio,
Pietro Ispano, Summ. Log., 3.37-38; JunGiUs, Logics Hamburgensis, I, 14, 24).
In un significato così ampio il termine indica una relazione qualsiasi. Hegel
voleva invece restringerlo alla relazione tra la cosa e le sue proprietà (Enc.,
$ 125). Marcel ha contrapposto l'A. all’essere. L’A. sarebbe la categoria
dominante nell’esteriorità delle cose, fra le quali l’uomo stesso vive nella
sua funzione sociale o vitale, mentre l’essere sarebbe la categoria propria della
soggettività in quanto mistero (Étre et avoir, 1935). Nell’A. nel fare e
nell'essere, Sartre ha visto le tre grandi categorie dell’esistenza umana. Ma
il fare si risolverebbe nell’A., perchè ogni forma d’azione o di produzione,
anche il conoscere, è una forma di appropriazione; e dall’altro lato l’A. si
riduce all’essere perchè il desiderio d’A. è in fondo riducibile a quello di
«essere in rapporto a un certo oggetto in una certa relazione d’essere »
(L’étre er le néant [1943], 1955, pag. 663 sgg.). Nel linguaggio corrente come
in quello della logica e della matematica, A. non indica oggi che una relazione
di qualsiasi genere. AVERROISMO (ingl. Averroism; franc. Averrolsme; ted.
Averroismus). La dottrina di Averroè (Ibn-Rosch, 1126-98) come fu intesa e interpretata
dagli Scolastici medievali e dagli Aristotelici del Rinascimento. Essa si
compendiava nei capisaldi seguenti: 1° eternità e necessità del mondo: tesi che
era contraria al dogma delia creazione; 2° separazione dell’intelletto attivo e
passivo dall’anima umana e la loro attribuzione a Dio. Questa tesi,
riconoscendo all’anima umana solo una specie di imagine dell’intelletto, la
privava della sua parte più alta ed immortale; 3° dottrina della doppia verità,
cioè di una verità di ragione, che si può ricavare dalle opere di Aristotele,
il filosofo per eccellenza, e di una verità di fede: le quali possono anche
essere contrastanti fra loro. La figura maggiore dell'A. latino fu Sigieri di
Brabante, nato verso il 1235, morto verso il 1281-84. AVVENIMENTO. V. Fatto.
AVVENIRE (ingl. Future; franc. Avenir; tedesco Zukunft). Per il primato dell’A.
sulle altre determinazioni del tempo in alcune forme della filosofia
contemporanea (v. TEMPO). AXIOCENTRICO (ingl. Value-centric). Termine
introdotto recentemente nella filosofia americana per designare la dottrina che
afferma la priorità del valore sulia realtà, del dover essere sull’essere, nel
senso che anche il giudizio esistenziale implichi la distinzione di valore tra
verità e falsità. (Cfr. E. G.
SpauLDING, The New Rationalism, 1918, pag. 206 sgg.; W. M. UrBAN, 7he
/ntelligible World, 1929, pag. 61 seguenti). AXIOLOGIA (ingl. Axiology; franc. Axiologie; ted.
Axiologie). La « teoria dei valori + era stata già da qualche decennio
riconosciuta come una parte importante della filosofia o addirittura la
totalità della filosofia dalla cosiddetta « filosofia dei valori » e da
indirizzi connessi (v. VALORE) quando si cominciò, ai princìpi del nostro
secolo, ad usare, per indicarla, l’espressione axiologia. I primi scritti in cui
tale espressione ricorre sono i seguenti: P. LAPIE, Logique de la volonté,
1902, pag. 385; E. von HARTMANN, Grundriss der Axiologie, 1908; W. M. URBAN,
Valuation, 1909. Il termine ebbe fortuna, mentre non ebbe fortuna l’altro di
Timologia proposto per la stessa scienza (KrerIBIG, Psychologische Grundlegung
eines Systems der Werttheorie, 1902, pagina 194). AZIONE (gr. npdéw; lat.
Actio; ingl. Action; franc. Action; ted. Tat, Handlung). 1. Termine di significato generalissimo che denota
qualsiasi operazione, considero generico, un significato specifico per il quale
il termine possa riferirsi soltanto alle operazioni umane. Così egli ha
cominciato coll’escludere dall’estensione della parola le operazioni che si
realizzano in modo necessario, cioè in un modo che non può essere diverso da
quello che è. Queste operazioni sono oggetto delle scienze teoretiche,
matematica, fisica e filosofia prima. Queste scienze si riferiscono a realtà,
fatti o eventi che non possono essere diversi da ciò che sono. Fuori di esse
rimane il dominio del possibile cioè di ciò che può essere in un modo o
nell’altro; ma neppure tutto il dominio del possibile appartiene all’azione. Da
esso bisogna infatti distinguere quello della produzione che è il dominio delle
arti e che ha il suo carattere proprio e il suo fine negli oggetti 94 AZIONE
ELICITA E AZIONE COMANDATA prodotti (Et. Nic., VI, 3-4, 1149 e sgg.). S.
Tommaso distingue l’A. rransitiva (transiens) che passa da chi opera nella
materia esterna, come il bruciare, il segare, ecc.; e l’A. immanente (immanens)
che rimane nell’agente stesso come il sentire, l’intendere, il volere (S. 7h.,
II, I, q. 3, a. 2; q. 11, a. 2). Ma la cosiddetta A. transitiva non è altro che
il fare o produrre di cui parla Aristotele (Ibid. II, I, q. 57, a. 4). In
queste notazioni tomistiche, come in quelle aristoteliche, è presente la
tendenza a riconoscere la superiorità dell'A. cosiddetta immanente che si
consuma nell’interno del soggetto operante: A. che poi non è altro che
l’attività spirituale o il pensiero o la vita contemplativa. S. Tommaso dice
infatti che solo l’A. immanente è «la perfezione e l’atto dell’agente +»,
mentre l’A. transitiva è piuttosto la perfezione del termine che subisce l’A.
(/bid., II, I, q. 3, a. 2). Dall’altro lato S. Tommaso distingue, nell’A.
volontaria, l’A. imperata che è quella comandata dalla volontà, per es., il
camminare o il parlare e l’A. elicita della volontà che è lo stesso volere.
L’ultimo fine dell’A. non è l’atto elicito della volontà ma quello imperato:
giacchè il primo appetibile è il fine cui la volontà ténde, non la volontà
stessa (/bid., II, I, q. 1, a. 1, ad 2°). Questi concetti sono rimasti per
molto tempo immutati e vengono presupposti anche dalla cosiddetta filosofia
dell’A. (v.); la qualll’attore, dice Parsons, i mezzi impiegati non possono in
generale essere considerati come scelti a caso o dipendenti esclusivamente
dalle condizioni dell'A. ma devono in qualche modo essere soggetti
all’influenza di un determinato fattore selettivo indipendente, la conoscenza
del quale è necessaria alla comprensione del concreto andamento dell'A. ».
Questo fattore è l'orientamento normativo, che per quanto possa essere
diversamente orientato, non manca in nessun tipo d'A. effettiva (The Structure
of Social Action, 1949, pag. 44-45). Questo schema analitico proposto da
Parsons risponde indubbiamente assai bene alle esigenze dell’analisi
sociologica; ma esso può essere assunto anche in filosofia come base per la
comprensione dell'A. nei vari campi in cui la filosofia è interessata cioè nel
campo morale, giuridico, politico, eccetera. AZIONE ELICITA e AZIONE COMANDATA
(lat. Actus elicitus et actus imperatus). Secondo gli Scolastici, l'A.
volontaria elicita è l’operazione stessa della volontà, il volere, mentre l’A.
comandata è quella che è diretta, iniziata e controllata dalla volontà, come,
per es., il camminare o il parlare (S. Tommaso, S. 7h., II, I, Ù AZIONE,
FILOSOFIA DELL’ (ingl. Phi losophv of Action; franc. Philosophie de l’action).
Con questo nome si indicano alcune manifestazioni della filosofia
contemporanea, caratterizzate dalla credenza che l’A. costituisca la più
diretta via per conoscere l’Assoluto o il più sicuro modo per possederlo. Si
tratta di una filosofia di derivazione romantica: il moralismo di Fichte era
fondato sulla superiorità metafisica dell’A. (v. MoraLISMO). Il primato della
ragion pratica di cui Kant aveva parlato non aveva significato fuori del
dominio morale; ma con Fichte questo primato significa che solo nell’A. l’uomo
si identifica con l’Io infinito. Il simbolo della filosofia dell’A. si può
vedere espresso nella frase di Faust, nell’opera di Goethe, che proponeva di
tradurre In principio erat Verbum del IV Evangelo con «In principio era l’A.».
Con questi presupposti romantici si connette la filosofia dell'A. che in
Francia, per opera di OlléLaprune (1830-99) e di Blondel (1861-1949), assunse
una forma religiosa: l'A. è per essa il nucleo essenziale dell’uomo e solo
un’analisi dell'A. può mostrare i bisogappartengono alla filosofia dell’A.
doveva riportare la nozione dell’A. ai suoi limiti e avviarla ad una nuova fase
interpretativa. Questa corrente è il pragmatismo (v.). Se in un primo tempo
l’A. viene dichiarata da William James la misura della verità del conoscere e
quindi assunta a giustificare proposiAZIONE RIFLESSA 95 zioni morali e
religiose teoreticamente ingiustificabili, le analisi empiristiche di James, e
meglio ancora quelle di Dewey, dovevano mettere in luce il condizionamento
dell'A. da parte delle circostanze che lo provocano, il rapporto di essa con la
situazione che ne costituisce lo stimolo; e perciò i limiti della sua
efficienza e della sua libertà. Ma da questo punto di vista l’A. cessa di
essere legata unicamente al soggetto e di trovare unicamente in esso o nella
attività di esso (volontà) il suo principio. Perde la possibilità di consumarsi
e di esaurirsi nel soggetto stesso; e diventa un comportamento, la cui analisi
deve prescindere dalla divisione delle facoltà o dei poteri dell'anima, mentre
deve tener presente la situazione o lo stato di cose cui deve riuscire adeguato
(v. AZIONE; COMPORTAMENTO). AZIONE MINIMA (ingl. Least Action; francese Moindre
Action; ted. Kleinsten Aktion). Il principio che «la
natura non fa nulla d’inutile » (natura nihil facit frustra) e segue la via più
breve ed economica. La massima si trova in Aristotele (De An., III, 12, 434 a
31; De cael., I, 4, 271 a 32; De Part. Anim., I, 5, 645 a 22), viene ripetuta
da S. Tommaso (/n III An., 14); e ripresa in tempi moderni da Galileo, Fermat,
Leibniz, ecc. Nel 1732 Maupertuis formulava il principio matematicamente e lo
introduceva nella meccanica col nome di «legge di economia della natura » (Lex
Parsimoniae). Ma anche per Maupertuis il principio conservava quel carattere
finalistico che aveva convinto Aristotele ad adottarlo. Nel Saggio di
Cosmologia Maupertuis scriveva: « È questo il principio, così saggio, così
degno dell’Essere supremo: qualsiasi cambiamento abbia luogo in natura, la
somma di A. spese in questo cambiamento è la più piccola possibile ». Tuttavia
il principio non ha, nella meccanica, il significato finalistico che Maupertuis
gli attribuiva. Nella riesposizione che ne dette Lagrange (Mécanique
Analytique, II, 3, 6) fu chiaro che esso esprime la conservazione non soltanto
del minimo ma anche del massimo di A. e che inoltre sia il minimo che il
massimo devono essere considerati relativamente e non assolutamente. Da questo
punto di vista Hamilton generalizzava il principio nella forma di « principio
dell'A. stazionaria »: e in questa forma esso dice soltanto che, in certe
classi di fenomeni naturali, il processo di mutamento è tale che qualche
grandezza fisica appropriata sia un estremo (cioè un minimo o un massimo, più
spesso un minimo). Ma quale sia la grandezza in questione e quale sia il suo
minimo o massimo è cosa che può mutare da un ordine di considerazioni
all’altro. Del principio della minima azione si è talora parlato in psicologia,
in estetica e perfino nell’etica (cfr. James, Princ. of Psychol., II, pag. 188,
239 seguenti; SIMMEL, £inleitung in die moral Wissenschaft, 1892, I, pag. 58).
Esso non va confuso col principio metodologico dell’economia che concerne, non
l’azione della natura o di Dio, ma la scelta dei concetti e delle ipotesi per
la descrizione dei fenomeni naturali (v. ECONOMIA). AZIONE RECIPROCA. V.
RECIPROCITÀ. AZIONE RIFLESSA (ingl. Reflex Action; franc. Action réflexe; ted.
Reflex Bewegune). In generale, una risposta meccanica (involontaria), uniforme
e adatta, dell'organismo ad uno stimolo esterno © interno all’organismo stesso.
Un riflesso è, per es., la contrazione della pupilla quando l’occhio è
stimolato dalla luce o la salivazione al gusto o alla vista di un cibo. Dal
riflesso così inteso va distinto l’arco riflesso che è il dispositivo
anatomo-fisiologico destinato a mettere in atto il riflesso. Tale dispositivo è
formato dal nervo afferente o centripeto che subisce lo stimolo, dal nervo
efferente o centrifugo che produce il movimento e da una connessione tra questi
due nervi, stabilita nelle cellule nervose centrali. L'importanza filosofica di
questa nozione, elaborata prima dalla fisiologia (sec. xvi) poi dalla
psicologia, sta nel fatto che essa è stata assunta come lo schema esplicativo
causale della vita psichica: dapprima dei meccanismi involontari soltanto
(istinti, emozioni, ecc.) poi anche delle attività superiori. Tutto ciò che
dalla vita psichica può infatti essere ricondotto all’A. riflessa, può essere
spiegato causalmente a partire dallo stimolo fisico che mette in moto l’arco
riflesso. Data l’uniformità di tale A., essa è prevedibile a partire dallo
stimolo: il che vuol dire che essa è causalmente determinata dallo stimolo
stesso. In tal modo l'A. riflessa non è che il meccanismo per il quale la
causalità psichica si inserisce nella causalità della natura, come parte di
essa. Queste nozioni si sono venute elaborando a partire dalla metà dell’800 in
poi cioè da quando la psicologia si è costituita come scienza sperimentale {v.
PsicoLogIa). Conformemente all’indirizzo atomistico che è stato proprio per
lungo tempo della psicologia essa ha cercato di risolvere i riflessi complessi
in riflessi semplici, dipendenti da circuiti nervosi elementari. La dottrina
dei riflessi condizionati fondata da Pavlov su basi sperimentali (a partire dal
1903; cfr. gli scritti di Pavlov raccolti nel volume / riffessi condizionati,
Torino, 1950) obbedisce alla stessa esigenza ed ha anzi contribuito per qualche
tempo a rafforzarla, facendo nascere la speranza che anche i comportamenti
superiori si potessero spiegare col vario combinarsi di meccanismi riflessi
assai semplici. Un riflesso condizio» nato è quello in cui la funzione
eccitatrice dello stimolo che abitualmente lo produce (stimolo incondizionato)
è assunta da uno stimolo artificiale (condizionato) col quale il primo è stato
in qualche modo associato. Per es., se si presenta un pezzo di carne a un cane
questo stimolo provoca nel cane un’abbondante salivazione. Se la presentazione
del pezzo di carne è stata numerose volte associata ad un altro stimolo
artificiale, per es., al suono di un campanello o alla comparsa di una luce,
questo secondo stimolo finirà per produrre, da solo, l’effetto del primo, cioè
la salivazione del cane. È chiaro che il combinarsi e il sovrapporsi dei
riflessi condizionati può spiegare numerosi comportamenti che a prima vista non
si collegano con riflessi naturali o assoluti. Più recentemente si è visto nel
riflesso condizionato anche la spiegazione del comportamento cosiddetto
simbolico dell’uomo, cioè del comportamento diretto da segni o simboli,
linguistici o di altra natura. Per es., il viaggiatore che incontra sulla
strada un cartello che lo avverte che la strada è più in là interrotta,
reagisce (per es., tornando indietro) proprio come se avesse visto
l'interruzione della strada. Qui il simbolo (il cartello) si è sostituito come
stimolo artificiale allo stimolo naturale (la vista dell’interruzione). Pavlov
e molti sostenitori della teoria dei riflessi condizionati hanno tenuto fede al
principio che ogni riflesso che entra a comporre un riflesso condizionato è un meccanismo
semplice ed infallibile realizzato da un determinato circùito anatomico. Perciò
anche la teoria del riflesso condizionato, com’è esposta da Pavlov, s’inscrive
nei limiti di quella che si suole oggi chiamare «teoria classica dell’atto
riflesso », cioè dell'interpretazione causale dell’A. riflessa. Tuttavia un
imponente complesso di osservazioni sperimentali, fatte dalla fisiologia e
dalla psicologia negli ultimi decenni a partire dal 1920 circa, hanno reso
sempre più difficile d’intendere l’A. riflessa nel suo schema classico. In
primo luogo si è visto che l’A. degli stimoli complessi non è prevedibile a
partire da quella degli stimoli semplici che lo compongono e cioè che i
cosiddetti riflessi semplici si combinano tra di loro in modi imprevedibili. In
secondo luogo, lo stesso concetto di « riflesso elementare +, cioè del riflesso
che entrerebbe a comporre i riflessi complessi, è stato giudicato illegittimo:
e difatti tutti i riflessi osservabili sono complessi e un riflesso « semplice
» cioè non decomponibile è una semplice congettura. In terzo luogo, le stesse
osservazioni sui riflessi condizionati dimostrano la irregolarità e
l’imprevedibilità di certe risposte: irregolarità e imprevedibilità che Pavlov
spiegava con la nozione dell’inibizione la quale tuttavia è soltanto un nome
per indicare il fatto che una certa reazione, che si aspettava, non si è
verificata (GOLDSTEIN, Der Aufbau des Organismus, 1927; MERLEAU PONTY,
Structure du comportement, 1949). Questi e altri ordini di osservazione, messi
avanti soprattutto dalla psicologia della forma (cfr., ad es., KATZ,
Gestaltpsychologie, cap. III), fanno vedere come il riflesso non può essere
inteso come un’A. dovuta a un meccanismo causale. Si parla di riflesso là dove
si può determinare, nei confronti di un certo stimolo, un campo di reazioni
sufficientemente uniformi per essere prevedute con un alto grado di
probabilità. Le A. riflesse costituiscono da questo punto di vista una classe
di reazioni e precisamente quella caratterizzata dall’alta frequenza di
uniformità delle reazioni stesse. Ma con ciò la nozione di riflesso si sottrae
allo schema causale per rientrare in quello generale di condizionamento (v.
CONDIZIONE). B. Nella logica medievale tutti i sillogismi indicati da una
parola mnemonica che cominci con B (Baralipton, Baroco, Bocardo) sono
riducibili al primo modo della prima figura (Barbara). (Cfr. Pietro Ispano,
Summ. Log., 4.20). BANAUSIA (gr. Bavavota). La parola, che in greco significa
arte meccanica o lavoro manuale in genere, implica una valutazione negrato per
tutto il Medioevo, e solo il Rinascimento T ha cominciato ad introdurre nel
mondo moderno il concetto della dignità del lavoro manuale (vedi LAVORO).
BARALIPTON. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il quinto modo
della prima figura del sillogismo e precisamente quello che consiste di due
premesse universali affermative e di una conclusione particolare affermativa
come nell’esempio: « Ogni animale è sostanza, Ogni uomo è animale, Dunque
qualche sostanza è uomo + (PIETRO Ispano, Summul. logic., 4.08). BARBARA.
Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il primo dei nove modi del
sillogismo di prima figura, il quale consta di due premesse universali
affermative e di una conclusione anche universale affermativa come l’esempio:
«Ogni animale è sostanza, Ogni uomo è animale, Dunque ogni uomo è sostanza »
(Pietro IsPANO, Summul. logic., 4.07; Logica di Porto Reale, III, 5). BARBARI.
Parola mnemonica usata nella Logica di Porto Reale per indicare il quinto modo
del sillogismo di prima figura (cioè il Baralipton) con la modificazione di
assumere per premessa maggiore la proposizione in cui entra il predicato della
conclusione. L’esempio è il seguente: « Tutti i miracoli della natura sono
ordinari, Tutto ciò che è ordinario non ci meraviglia, Dunque ci sono cose che
non ci meravigliano, che sono miracoli della natura » (ARNAULD, Logique, III,
8). BARBARIE. Così Vico chiamò lo stato primitivo, ferino, del genere umano dal
quale poi il timore del divino ha a poco a poco tràtto l’ordine del mondo
propriamente umano. « B. ritornata + 0 « B. ricorsa +, chiamò poi il Medioevo
(Scienza nuova, degnità, 56; Lettera al De Angelis, Opere, ed. Utet, pag. 159).
BAROCO. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il quarto dei
quattro modi del sillogismo di seconda figura e precisamente quello che
consiste di una premessa universale affermativa, 98 BEATITUDINE di una premessa
particolare negativa e di una conclusione particolare negativa come
nell’esempio: «Ogni uomo è animale, Qualche pietra non è animale, Dunque
qualche pietra non è uomo » (PIETRO Ispano, Summul. logic., 4.11). Si è fatta
derivare da questa parola la voce « barocco » usata a designare la forma d’arte
o in generale lo spirito proprio del sec. xva. « Non par dubbio, ha detto
Croce, che la parola si ricolleghi ad uno di quei vocaboli artificialmente
composti e memoriali coi quali nella logica medioevale si vennero designando le
figure del sillogismo. Tra quei vocaboli (Barbara, Celarent, ecc.) due, almeno
in Italia, colpirono più degli altri e divennero quasi proverbiali, a
preferenza degli altri: il primo, cioè Barbara, perchè era il primo, e poi,
chissà perchè, Baroco, che designava il quarto modo della seconda figura. Dico
non so perchè non essendo quello più strano degli altri, nè più contorto il
modo di sillogismo che esso indicava: forse vi contribuì l’allitterazione con
Barbara » (Storia dell’età barocca in Italia, 19olta usa il termine
scambievolmente con felicità, connette la B. con la contemplazione e la
commisura all'estensione che l’attività contemplativa ha nei vari esseri
viventi. Così, l’intera vita degli dèi è beata perchè è tutta contemplativa.
Agli uomini spetta una specie di similitudine di questa vita perchè si
sollevano solo di tanto in tanto alla contemplazione; gli animali non sono per
nulla beati perchè mancano di attività contemplativa (Er. Nic., X, 8, 1178 b 9
sgg.). Tra gli uomini, ovviamente, il saggio è il più beato (/bid., I, 11, 1101
b 24). Nella filosofia post-aristotelica e soprattutto in quella stoica, la B.
del saggio divenne un tema diffuso di esercitazione (cfr. il De vita beata di
Seneca) e nel neo-platonismo di Plotino la critica della felicità come è intesa
da Stoici e Aristotelici (Enn., I, 4) si accompagna col concetto di una B. che
è inattiva perchè è indifferente ad ogni realtà esterna. « Gli esseri beati
sono immobili in se stessi e a loro basta d’essere quel che sono: essi non si
arrischiano ad occuparsi di checchessia perchè questo li farebbe uscire dal
loro stato, ma tale è la loro felicità che, senza agire, essi compiono grandi
cose e fanno non poco restando immobili in se stessi» (/bid., III, 2, 1). Dal
neo-platonismo in poi si può dire che il concetto di B. si sia distinto sempre
più nettamente da quello di felicità connettendosi strettamente con la vita
contemplativa, con l'abbandono dell’azione e con l’atteggiamento della
riflessione interiore e del ritorno a se stesso. La tradizione cristiana agì
nello stesso senso, connettendo la B. con una condizione o stato, di tanto
indipendente dalle vicende mondane di quanto invece dipendente dall’interna
disposizione dell’anima. La dottrina aristotelica della felicità propria della
vita contemplativa, servì di modello agli Scolastici per l’elaborazione del
concetto di beatitudine. San Tommaso dice che la B. è « l’ultima perfezione
dell’uomo », cioè l’attività della sua più alta facoltà, l’intelletto nella
contemplazione della realtà superiore, cioè di Dio e degli angeli. « Nella vita
contemplativa l’uomo comunica con le realtà superiori, cioè con Dio e con gli
angeli ai quali si assimila anche nella B.». Pertanto la B. perfetta l’uomo la
otterrà soltanto nella vita futura che sarà tutta e interamente contemplativa.
Nella vita terrena egli può ottenere una B. solo imperfetta, in primo luogo
attraverso la contemplazione e in secondo luogo attraverso l’attività
dell’intelletto pratico che ordina le azioni e le passioni umane, cioè con la
virtù (S. 7A., II, I, q. 3, a. 5). Nell’età moderna il concetto di B. e quello
di felicità si sono sempre più distinti, il primo riferendosi alla sfera
religiosa e contemplativa, il secondo alla sfera morale e pratica. Si può dire
che il solo filosofo che unisca i due significati non per una semplice
confusione, è Spinoza per il quale la B. «è la stessa sodisfazione intima che
nasce dalla cognizione intuitiva di Dio » (Er., IV, app. 4); e che la
identifica con la libertà e con l’amore dell’uomo verso Dio, che è lo stesso
amore con cui Dio ama se stesso (/bid., V, 36 Scol.). Ma poichè l’intuizione di
Dio o l'amore di Dio significano per Spinoza la conoscenza dell’ordine
necessario delle cose del mondo (/bid., V, 31-33) il carattere
mistico-religioso o contemplativo della B. s’identifica col carattere mondano e
pratico della felicità. Lo stesso significato essa ha nell’opera di Fichte
Introduzione alla vita beata (1806). Qui la B. è definita, tradizionalmente,
come l’unione con Dio: ma Fichte si preoccupa di togliere il significato
contemplativo tradizionale, considerandola come il risultato, non già di un «
sogno devoto », ma della stessa moralità operante (Werke, V, pag. 474). Nel
pensiero moderno, la nozione e la parola one. Si possono distinguere cinque
concetti fondamentali del B., difesi e illustrati sia dentro che fuori
l’estetica e cioè: 1° il B. come manifestazione del bene; 2° il B. come
manifestazione del vero; 3° il B. come simmetria; 4° il B. come perfezione
sensibile; 5° il B. come perfezione espressiva. 1° Il B. come manifestazione
del bene è la teoria platonica del bello. Secondo Platone, alla sola bellezza,
fra tutte le sostanze perfette, « toccò il privilegio d’essere la più evidente
e la più amabile » (Fedro, 250 e). Perciò nella bellezza, e nell’amore che essa
suscita, l’uomo trova il punto di partenza per il ricordo o la contemplazione
delle sostanze ideali (/bid., 251 a). La ripetizione di questa dottrina del B.
nel neo-platonismo assume un carattere teologico o mistico perchè il bene o le
essenze ideali di cui Platone parlava sono da Plotino ipostatizzate e unificate
nell’Uno cioè in Dio; e l’Uno e Dio vengono definiti come «il Bene ». «È il
Bene, dice Plotino, che fornisce la bellezza a tutte le cose» sicchè il B.
nella sua purezza è il bene stesso e tutte le altre bellezze sono acquisite,
mescolate e non primitive: perchè vengono da esso (Enn., I, 6, 7). Questa forma
mistica o teologica non sempre riveste la dottrina del B. come manifestazione
del bene; ma è ovvio che simile dottrina è esplicitamente o implicitamente
presupposta ogni volta che si pone il compito dell’arte nel perfezionamento
morale. 2° La dottrina del B. come manifestazione del vero è propria dell’età
romantica. «Il B., diceva Hegel, si definisce come l’apparizione sensibile
dell’Idea ». Ciò significa che bellezza e verità sono la stessa cosa e che si
distinguono solo perchè mentre nella verità l’Idea ha la sua manifestazione
oggettiva e universale, nel B. essa ha la sua manifestazione sensibile
(Vorlesungen iber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 160). Raramente, fuori
di Hegel, questo punto di vista è stato presentato in una forma così decisa.
Esso tuttavia ricompare in quasi tutte le forme dell’estetica romantica e
costituisce indubbiamente una definizione tipica del bello. 3° La dottrina del
B. come simmetria fu presentata per la prima volta da Aristotele. Il B. è costituito,
secondo Aristotele, dall’ordine, dalla simmetria e da una grandezza adatta ad
essere abbracciata nel suo insieme da un sol colpo d’occhio (Poetica, 7, 1450b
35 sgg.). E questa dottrina fu accettata dagli Stoici, dai quali la ripeteva
Cicerone: «Come nel corpo esiste un’armonia di fattezze ben proporzionate
congiunta con un bel colorito, che si chiama bellezza, così per l’anima
l’uniformità e la coerenza delle opinioni e dei giudizi congiunta a una certa
fermezza e immutabilità, che è conseguenza della virtù o contiene l'essenza
stessa della virtù, si chiama bellezza » (Tusc. Disp., IV, 13, 31). Questa
dottrina rimase fissata per lungo tempo nella tradizione. La seguirono gli
Scolastici (per es., S. ToMMasO, S. 7h., I, q. 39, a 8). E la seguirono molti
scrittori-artisti del Rinascimento quando vollero illustrare del piacere
sensibile ciò che si suol chiamare « bellezza ». Kant unificò quelle due
definizioni complementari del B. e insistette su quello che anche oggi appare
come il carattere fondamentale di esso cioè il disinteresse. Conseguentemente
egli definiva il B. «ciò che piace universalmente e senza concetti » (Crif. del
Giud., $ 6): e insisteva sull’indipendenza del piacere del B. da ogni
interesse, sia sensibile che razionale. « Ognuno chiama piacevole, egli disse,
ciò che lo sodisfa, B. ciò che gli piace, buono ciò che apprezza o approva, ciò
a cui dà un valore oggettivo. Il piacere vale anche per gli animali
irragionevoli; la bellezza solo per gli uomini nella loro qualità di esseri
animali ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono ragiopondente alle
tre forme dell’attività umana riconosciute proprie dell’uomo: l’intelletto, il
sentimento e la volontà. Per quanto questa tripartizione sia stata per lungo
tempo ritenuta come un dato di fatto originario, testimoniato dalla «coscienza»
o dall’« esperienza interiore +», essa è in realtà una nozione storicamente
derivata, che è nata, nella seconda metà del ’700, dall’inserirsi della «
facoltà del sentimento » tra le altre due facoltà (riconosciute sin dal tempo
di Aristotele): la teoretica e la pratica (v. GUSTO; SENTIMENTO). 5° Come
perfezione espressiva o compiutezza dell’espressione, il B. è implicitamente o
esplicitamente definito da tutte le teorie che considerano l’arte come espressione
(v. ESTETICA, 3). Croce ha detto: « Ci sembare al dominio della moralità, cioè
dei mores, della condotta, dei comportamenti umani inter-soggettivi, e designa
perciò il valore specifico di tali comportamenti. In questo secondo
significato, cioè come B. morale, il B. è oggetto dell’etica e la registrazione
dei suoi differenti significati storici deve essere fatta appunto a proposito
della voce Etica (v.). In questa sede dovremo pertanto occuparci della nozione
del B. solo nel primo senso, cioè nella sua accezione più generale. Possiamo
allora distinguere due punti di vista fondamentali, che si sono intersecati
nella storia della filosofia: 1° la teoria mefafisica per la quale il B. è la
realtà e precisamente la realtà perfetta o suprema e viene desiderato come
tale; 2° la teoria soggettueste cose e sta al di là di esse (/bid., 509 b).
Analogamente Plotino vede nel B. la prima Ipostasi, cioè l'origine della
realtà, Dio stesso, e lo considera come causa ad un tempo dell’essere e della
scienza (Enn., VI, 7, 16) e in generale di tutto ciò che è o vale a un titolo
qualsiasi (/bid., V, 4, 1). Queste nozioni divennero correnti nella filosofia
medievale che identificò, secondo l’esempio neo-platonico, il B. con Dio stesso
in modo che può dirsi « buono » solo ciò che in qualche modo è simile a Dio (S.
TomMASO, S. Th., I, q. 6, a. 4). Il teorema caratteristico di questa concezione
del B. è quello che afferma l’identità di ciò che è B. e di ciò che esiste. «
Bonum e ens sono la stessa cosa in realtà, dice S. Tommaso, per quanto possano
dissè col B. » (Philosophische Propàdeutik, III, $ 83); o che il B. è «la
libertà realizzata, l’assoluto scopo finale del mondo » (Fil. del dir., $ 129).
Tutte le forme di idealismo e di spiritualismo costituiscono altrettante
dottrine metafisiche del B. giacchè tutte identificano il B. con la realtà e,
al limite, con la realtà suprema; così fa, per es., Rosmini che identifica
l’essere e il bene (Principi della scienza morale, ed. naz., pag. 78) e così fa
Gentile che identifica il B. con lo spirito in atto: «Il B. o valore morale non
è altro che la realtà spirituale nella sua idealità, come produzione di se
stessa o libertà » (Logica, I, pag. 110). Alcune filosofie contemporanee che
preferiscono parlare del valore anzichè del B., considerando il valore coola
dei valori prescindeva completamente dalla perfezione oggettiva cui si
riferivano le tavole dei valori della concezione classica greca. Obliterata per
tutto il Medioevo, la concezione soggettivistica del B. ritorna, nel
Rinascimento, con gli accenni a un’etica del movente che ricorrono in questo
periodo (v. Erica). Ma fu affermata nella sua forma più recisa da Hobbes.
«L'uomo, egli dice, chiama buono l’oggetto del suo appetito o del suo
desiderio, cartivo l’oggetto del suo odio 0 della sua avversione, vile
l’oggetto del suo disprezzo. Le parole ‘ buono ”, ‘ cattivo ’, ‘ vile’,
s'intendono sempre in rapporto a chi le adopera; perchè non c’è nulla di
assolutamente e semplicemente tale e non c’è nessuna norma comune per il B. e
per il male, che derivi dalla natura delle cose +» (Leviath., I, 6). Spinoza
accettò con entusiasmo questo punto di vista. « Noi non ci proponiamo,
vogliamo, desideriamo, bramiamo una cosa perchè la giudichiamo buona; ma al
contrario giudichiamo buona una cosa per il fatto che la proponiamo, vogliamo,
desideriamo e bramiamo +» (Er., III, 9, Scol.). E nella Prefazione al IV libro
ribadisce: «Il B. e il male non indicano nulla di positivo, che sia nelle cose
in sè considerate; ma sono nient’altro che modi di pensare o nozioni che ci
formiamo confrontando le cose fra loro. Difatti una stessa cosa può nello
stesso tempo essere buona, cattiva, e anche indifferente ». A sua volta Locke
affermò che «ciò che è àtto a produrre piacere in noi è quello che chiamiamo B.
e ciò che è àtto a produrre pena è ciò che chiamiamo male» (Saggio, II, 21,
43); definizioni che trovano consenziente Leibniz: « Si divide il B. in onesto,
piacevole e utile, ma in fondo io credo che esso deve essere o piacevole di per
se stesso o servire a qualcosa che ci dia un sentimento di piacere: e cioè il
B. è piacevole o utile e l’onesto stesso consiste in un piacere dello spirito »
(Nouv. Ess., II, 20, 2). Kant ha accettato queste notazioni aggiungendovi un
elemento importante, cioè l’esigenza di un riferimento concettuale. «Il B.,
egli dice, è ciò che, mediante la ragione, piace per il suo puro concetto.
Chiamiamo qualcosa buona a (utile) quando essa piace solo come mezzo; quella
che invece piace per se stessa, la diciamo buona 102 in sè. In acere perchè al
riconoscimento del B. è connessa la valutazione concettuale della sua
efficienza rispetto a certi fini e questo costituisce il B. come « un valore
oggettivo ». Dopo di Kant, la nozione di valore ténde a soppiantare quella di
B., nelle discussioni morali, e può essere considerata come l’erede del
concetto soggettivo di B., dotata com’è delle sue stesse connessioni
sistematiche. Sul suo terreno tuttavia rinascerà, in forma appena mutata,
l’alternativa tra una concezione oggettivistica e una concezione soggettivistica:
alternativa che a tutt’oggi costituisce uno dei temi fondamentali della
discussione morale (v. VALORE). BENE SOMMO (gr. caya0év; lat. Summum bonum; ingl. Supreme Good; franc. Souverain Bien; ted. Das hochste Gut). Nozione
introdotta da Aristotele per indicare ciò che viene desiderato di per se stesso
e non in vista di un B. ulteriore. Un B. sommo è necessario che ci sia per
evitare il processo all’infinito (Et. Nic., I, 2, 1094a 18). Per Aristotele il
sommo B. è la felicità. Gli Scolastici adoperano l’espressione per indicare Dio
stesso (S. Tommaso, S. 7h., I, q. 6, a. 1). Kant ritenne l’aggettivo «sommo»
equivoco giacchè esso può significare sia supremo (supremum) sia perfetto
(conBENE SOMMO summatum). Il B. supremo è la condizione prima, originaria di
ogni B.: è perciò la virtù. Ma il B. perfetto è quello che non è parte di un B.
maggiore della stessa specie; e in questo senso la virtù non può dirsi il B.
perfetto, che è invece l’unione di virtù e felicità (Crit. R. Pratica,
Dialettica, capitolo II). BENEVOLENZA. V. Bontà. BENTHAMISMO. V. UTILITARISMO.
BERGSONISMO. V. SPIRITUALISMO. BERKELEISMO. V. IMMATERIALISMO. BICONDIZIONALE
(ingl. Biconditional; francese Biconditionnel). Con questo nome o con quello di
«equivalenza materiale » è inteso comunemente, nella logica contemporanea, il
connettivo «se e solo se» simboleggiato talora col segno = (cfr. Quine, Methods
of Logic, $ 3). Il B. equivale ovviamente alla congiunzione dei due
condizionali « se p allora g + e «se gq allora p». BIOGENETICA, LEGGE (ted. Biogenetisches
Grundgesetz). Così il biologo tedesco Ernesto Haeckel (1834-1919) chiamò il
parallelismo tra lo sviluppo dell’embrione individuale e lo sviluppo della
specie a cui esso appartiene. Per ciò che riguarda l’uomo, «l’ontogenesi ossia
lo sviluppo dell’individuo è una breve e rapida ripetizione (una
ricapitolazione) della filogenesi o evoluzione della stirpe cui esso appartiene
» (Nasùrliche Schopfungsgeschichte, 1868; trad. ital., pag. 178-89). BIOLOGISMO
(ingl. Biologism; franc. Biologisme; ted. Biologismus). 1. L’interpretazione
del mondo fisico o del mondo umano per analogia con l’organismo (v.
ORGANICISMO). 2. Lo stesso che Vitalismo (v.). 3. La metafisica di Hans Driesch
(1867-1941), in quanto è una « filosofia dell’organico ». Driesch divide infatti
la filosofia in « dottrina dell’ordine » che ha per oggetto l’intero mondo
inorganico e « dottrina della vita » che ha per oggetto il mondo organico. Il
presupposto di questa suddivisione è che l'organismo non è riducibile a forma o
manifestazione dell’ordine inorganico; o, in altre parole, non è una macchina.
Ciò che esso ha in più della macchina è l’entelechia che è concepita da Driesch
come una specie di monade nel senso leibniziano, la quale determina tutto lo
sviluppo di un essere vivente. L’entelechia è sopra-individuale e
sopra-personale: la nascita di un uomo non è che la manifestazione di
un’entelechia, manifestazione che termina con la morte. Gli individui sono
soltanto parti della vita sopra-personale dell’entelechia (Philosophie des Organischen,
1908-09; Ordnungslehre, 1925). BIOSFERA (franc. Biosphère). Così Le Roy ha
chiamato la vita nella sua totalità, in quanto sta con gli individui nello
stesso rapportsciplina » o di «regole » e di « B. di libertà »; di « B. di
affetto » e di « felicità », di « aiuto », di «comunicazione + e via dicendo.
Ogni tipo o forma possibile di rapporto tra l’uomo e le cose o tra l’uomo e gli
altri uomini può essere considerata sotto l’aspetto del B.: il quale implica la
dipendenza dell’essere umano da tali rapporti. Nella storia della filosofia la
nozione del B. è stata trattata sotto due angoli visuali: 1° più
frequentementedal punto di vista morale, cioè dal punto di vista del problema
dell’atteggiamento da prendere di fronte ai B., se limitarli o incoraggiarli o
in che modo e grado limitarli; 2° meno frequentemente, dal punto di vista della
importanza e del significato che il bisogno ha rispetto al modo d’essere
proprio dell’uomo, della possibilità che offre di comprendere e descrivere la
sua esistenza. Il problema della disciplina dei B., cioè della limitazione
qualitativa e quantitativa di essi, è il problema stesso della virtù, in
particolare della virtù etica; e i suoi sviluppi storici devono essere
considerati per l’appunto sotto la voce Virtà (v.). Il problema che il B.
presenta come segno, sintomo o elemento della condizione umana, può essere
invece considerato in questa sede. Nell’antichità, Platone pare che abbia
riconosciuto il valore del B.: questo sembra essere il significato
dell’importanza che egli riconosce all’amore, che egli intese nel Convito
(204-05) nel significato più vasto, come mancanza e ricerca di ciò che manca.
AI B. inoltre, Platone attribuì nella Repubblica (II, 369b sgg.) l’origine
dello Stato: « Quando un uomo prende con sè un uomo in vista di un B. e un
altro uomo in vista di un altro B., e la molteplicità dei B. riunisce nella
stessa residenza più uomini che si associano per aiutarsi, a questa società noi
diamo il nome di Stato ». Meno esplicita è la funzione che la nozione del B. ha
nella filosofia di Aristotele: il quale non ignora certo il peso che esso ha
nella vita singola e associata dell’uomo (come mostra specialmente la sua
Politica) ma non gli attribuisce una funzione 103 specifica: l’origine stessa
dello Stato è da lui posta nell’esigenza di realizzare una vita felice, che
significa prevalentemente una vita virtuosa (Pol., VII, 2, 1324 a S sgg.). La
filosofia post-aristotelica si disinteressa dei bisogni anche quando con
Epicuro prescrive di sodisfarli (Mass. capit., 26; Fr. 200, Usener), giacchè è
troppo occupata a delineare l’ideale del saggio, dedito alla vita puramente
contemplativa. E non si avvalgono del B. per interpretare la realtà umana nè la
filosofia medievale, nè quella moderna, le quali preferiscono far leva su quegli
elementi o caratteri che mettono in risalto piuttosto l’indipendenza dell’uomo
dal mondo che la sua dipendenza da esso. Hegel, pur parlando di un «sistema dei
B.» preferisce insistere sull’aspetto per cui il B. è dominato dall’uomo più
che dominarlo: « L'animale ha una cerchia limitata di mezzi e di modi di
appagamento dei suoi B., che sono parimenti limitati. L'uomo, anche in questa
dipendenza, dimostra, nello stesso tempo, il suo superamento della medesima e
la sua universalità, soprattutto mediante la moltiplicazione dei B. e dei mezzi
e poi mediante la scomposizione e la distinzione del B. concreto » (Fil. del
Dir., $ 190). La prima clamorosa affermazione dell’importanza dei B. per
l’interpretazione di ciò che l’uomo è O può essere, si può scorgere nella
filosofia di Schopenhauer che interpretò come B., quindi come mancanza, quindi
come dolore, la volontà di vita che costituisce l’essenza noumenica del mondo.
«La base di ogni volontà è bisogno, mancanza, ossia dolore, a cui l’uomo è
vincolato dall’origine, per natura » (Die Welt, 1819, I, $ 57). Al di fuori
della metafisica, sul terreno dell’antropologia, insisteva sulla stretta
connessione del B., con la natura umana L. Feuerbach (Grundsatze der
Philosophie der Zukunft, 1844). Marx nei suoi scritti giovanili (Economia e
filosofia, 1844; Ideologia tedesca, 1845-46) accentuò l’importanza dei B. e
perciò del lavoro diretto a sodisfarli, sino a farne il tema fondamentale della
sua antropologia (v. PERsona). Nella filosofia contemporanea, oltre che dal marxismo,
l’importanza della nozione del B. per l’interpretazione della realtà umana, è
sottolineata da un lato dal naturalismo, dall’altro dall’esistenzialismo.
Dewey, per es., insistendo sulla « matrice biologica » di ogni attività umana,
quindi anche della logica, vede nel B. la rottura dell’instabile equilibrio
organico e l’inizio della ricerca che ténde a ristabilirlo (Logic, cap. II;
trad. ital., pag. 63). Dall’altro lato Heidegger definendo l’« essere-nel-mondo
+ in cui l’esistenza dell’uomo consiste come cura (v.), insiste sulla
dipendenza dell’uomo dal mondo, sul suo «esser gettato nel mondo, dal quale le
possibilità umane dei rapporti con le cose e con gli altri uomini si trovano
dominate » (Sein und Zeit, $ 39 sgg., cfr. $ 20). La nozione di bisogno che
emerge da queste notazioni non è quella di uno stato provvisorio di mancanza o
di deficienza (si ha bisogno dell’aria anche se ce n’è in abbondanza) ma
piuttosto quella di uno stato o condizione di dipendenza che caratterizza, in
modo specifico, l’uomo e in generale l’essere finito nel mondo. BOCARDO. Parola
mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il quinto dei sei modi del
sillogismo di terza figura e precisamente quello che consiste di una premessa
particolare negativa, di una premessa universale affermativa e di una
conclusione particolare negativa come nell’esempio: «Qualche uomo non è pietra,
Ogni uomo è animale, Dunque qualche animale non è pietra» (Pietro Ispano,
Summul. logic., 4.15). BONTÀ (lat. Bonitas; ingl. Goodness; francese Bonté; ted.
Giitigkeit). Nel significato più esteso: l’eccellenza di un oggetto qualsiasi
(cosa o persona). Dice, ad es., S. Tommaso: «La B. che in Dio è semplicemente e
uniformemente, nelle creature è in modo molteplice e diviso» (S. 7h., I, q. 47,
a. 1). Le discussioni del Sei e Settecento intorno alla B. di Dio come movente
della creazione (cfr. LerBNIZ, 7héod., II, $ 116 e sgg.) si fondarono su un più
ristretto significato del termine, che fu espresso chiaramente da Baumgarten: «
La B. (benignità), egli disse, è la determinazione della volontà a far bene
agli altri. Il beneficio è l’azione utile all’altro, suggerita dalla B.» (Mer.,
$ 903). In questo senso la B. si identifica con quella che Aristotele chiamava
benevolenza (eùvola) (Er. Nic., VIII, 2, 1155 b 33). I due significati del
termine sono vivi nell'uso comune. BORIA. Vico parla della B. delle nazioni che
consiste nel credere «d’aver esse prima di tutte l’altre ritrovati i comodi
della vita umana e conservar le memorie delle loro cose fin dal principio del mondo
+»: e della B. dei dotti «i quali, ciò che essi sanno, vogliono che sia antico
quanto il mondo » (Scienza Nuova, 1744, Degn. 3, 4). La B. dei dotti ha
impedito di riconoscere che l’origine del mondo storico è dovuta a «uomini
bestioni » e ha condotto ad attribuire tale origine a « uomini sapienti » che
avrebbero agito per riflessione. BOVARISMO (franc. Bovarisme). Termine derivato
dal nome della famosa eroina di Flaubert (Madame Bovary, 1857) per indicare
l’atteggiamento di chi crea a se stesso una personalità fittizia e cerca di
vivere in conformità di essa, urtando contro la sua propria natura e contro i
fatti. Il termine fu creato da Jules de Gaultier (Le bovarisme, 1902).
BRACHILOGIA (gr. Bpayvàdoyia). Nel Protagora di Platone, Socrate contrappone alla
tendenza di Protagora di tener lunghi discorsi, la sua esiBOCARDO genza di
risposte brevi e succinte, ovviamente perchè soltanto attraverso lo scambio di
frasi concise è possibile la discussione dialogata (Prof., 334 c-335 a).
BRUTISMO (franc. Brutisme). Termine adoperato da St.-Simon per indicare la
concezione meccanistica dei fenomeni, e che è perciò l’equivalente di
meccanicismo (v.). BUDDISMO (ingl. Buddhism; franc. Bouddhisme; ted.
Buddhismus). La dottrina religiosa e filosofica che si è originata dagli
insegnamenti di Gautama Budda (563-480 a. C. circa) e che è poi stata svolta da
mumerosissimi indirizzi in India, in Cina e in Giappone. I principali testi del
B. sono quelli scritti in lingua pali, detti Tipitaka e divisi in tre gruppi o
ceste che sono: 1° il Surrapitaka che o sforzo; 7° nella giusta mentalità; 8°
nella giusta concentrazione. L’uomo è, secondo il B., sottoposto alla legge
dell’incessante fiuire della vita (dharma) che lo porta di desiderio in
desiderio, di dolore in dolore, e di incarnazione in incarnazione. Finchè
l’uomo non si libera dal desiderio, è sottoposto al ciclo della rinascita
(samsara). La liberazione dal desiderio, ottenuta attraverso le regole morali
suddette e la disciplina ascetica (che il B. condivideva con il bramanesimo e
con la pratica yoga), si ha soltanto con la dissoluzione dell’illusione
prodotta dal desiderio (e che è il karma), con l’eliminazione del desiderio
stesso e la distruzione dell’attaccamento alla vita, che è il nirvana. Le
numerosissime scuole, sètte, indirizzi a eguale in tutti gli uomini ». Questa
sinonimia non potrebbe più oggi essere ammessa. Da un lato la ragione è passata
sempre più a designare tecniche specifiche (v. RAGIONE), dall’altro il B. senso
è rimasto a designare un certo equilibrio e una certa moderazione nel giudizio
sulle faccende ordinarie della vita e nel modo quotidiano di comportarsi.
Spesso tuttavia accade che ciò che appare stravagante o paradossale al B. senso
ha maggior valore di ciò che ad esso è conforme: perchè il B. senso non può far
altro che riferirsi al sistema stabilito di credenze e di opinioni e non può
giudicare che in base ai valori che esso include. Molto spesso la scienza e Ja
filosofia devono prescindere dal B. senso, per quanto non possano prescindere
mai o mai interamente da quelle faccende quotidiane e minute fra le quali il B.
senso dovrebbe trovarsi a suo agio.C. 1. Nella logica medievale tutti i
sillogismi indicati con parole mnemoniche che cominciano con C sono riducibili
al secondo modo della prima figura (Celarent) (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log.,
4.20). 2. Nella notazione di Lukasiewicz è usato per indicare il condizionale o
l’implicazione logica, più comunemente simboleggiato con «95» (A. CHURCH,
Introduction to Mathematical Logic, n. 91). CADUTA (gr. tertwaw; lat. Casus; ingl. Fall; franc.
Chute; ted. Fall). Il mito della C. dell’anima umana
da uno stato originario di perfezione, nel quale contemplava beata la verità a
faccia a faccia, è esposto nel Fedro (248a e sgg.) di Platone e ripetuto da
Plun’addizione o sottrazione delle conseguenze dei nomi generali riuniti
insieme per definire ed esprimere i nostri pensieri » (Leviarh., I, 5). Leibniz
chiamò « C. filosofico », la scienza universale o caratteristica universale
(v.) in cui egli vedeva lo strumento dell’invenzione concettuale (Op., ed.
Erdmann, pag. 82 sgg.). Carnap distingue il C. dal sistema semantico nel senso
che « mentre gli enunciati di un sistema semantico sono interpretati,
asseriscono qualcosa, perciò sono o veri o falsi, entro un calcolo gli
enunciati sono considerati da un punto di vista puramente formale ». Per
sottolineare tale distinzione talvolta si chiamano formule gli elementi di un
C. e proposizioni gli elementi di un sistema semantico (Foundations of Logic
and Mathematics, $ 9). Lo stesso Carnap ha osservato che i calcoli possono
prendere il nome o dai segni o espressioni che ricorrono in essi, e in tal
senso si dice calcolo degli enunciati o dei predicati oppure, come accade più
frequentemente, dai loro designati cioè dagli oggetti cui si riferiscono
(Introduction to Semantics, 2> ediz., 1959, p-230). In questo secondo senso,
il C. proposizionale è lo studio formalizzato dei connettivi logici (v.
ConNETTIVI) e i suoi teoremi sono costituiti dalle formule che possono essere
derivate dalle formule primitive con l’applicazione successiva delle regole
primitive di inferenza. Il C. funzionale ha invece per oggetto le funzioni
proposizionali (v. FUNZIONE) e adopera, oltre i connettivi, il quantificatore
universale (v. OpERATORE). Il C. delle classi o algebra delle classi, ha da
fare con classi o insieme determinati da funzioni proposizionali o predicati e
mette capo a formule che sono espressioni nelle quali ricorre il simbolo = o
=/= (disuguale). L’algebra delle classi è isomorfica con il C. funzionale
perchè coincide con esso nel suo significato (v. ALGEBRA DELLA Logica). Infine
l’a/gebra delle relazioni è lo studio formalizzato delle relazioni (v.).
CANCELLAZIONE CALCOLO COMBINATORIO. V. ARTE COMBINATORIA. CALCOLO EDONISTICO
(ingl. Hedonic Calculus). Così Bentham chiamò la tavola completa dei moventi
dell’azione umana, da servire di guida per ogni futura legislazione. La tavola
com-prende la determinazione della misura del dolore e piacere in genle: «
Parmenide prende per princìpi il C. e il freddo, che egli però chiama fuoco e
terra » (Fisica, I, 5, 188 a 20). Nel Rinascimento Bernardino Telesio la
riprendeva considerando il C. e il freddo come le due forze o « nature agenti»
che determinano l’universo e delle quali l’una risiede nel Sole, l’altra nella
Terra (De Rer. Nat., I, 3). CALENDES. Parola mnemonica usata dalla Logica di
Porto Reale per indicare il sesto modo del sillogismo di prima figura (cioè il
Celantes), con la modificazione di assumere per premessa maggiore la
proposizione in cui entra il predicato della conclusione. L’esempio è il
seguente: « Tutti i mali della vita sono mali passeggeri, Tutti i mali
passeggeri non sono da temersi, Dunque nessuno dei mali che sono da temersi è
un male di questa vita + (ARNAULD, Logique, III, 8). CALVO, ARGOMENTO DEL. V.
AceRrvo, ARGOMENTO DELL’. CAMBIAMENTO. V. MUTAMENTO. CAMESTRES. Parola
mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il secondo dei quattro modi del
sillogismo di seconda figura e precisamente quello che consiste di una premessa
universale affermativa, di una premessa universale negativa, e di una
conclusione universale negativa, come nell’esempio: «Ogni uomo è animale,
Nessuna pietra è animale, Dunque nessuna pietra è uomo » (PIETRO Ispano,
Summul. logic., 4, 11). CAMPO (ingl. Field; franc. Champ; ted. Feld). L'insieme
delle condizioni che rendono possibile un evento; o i limiti di validità o di
applicabilità di uno strumento conoscitivo. Kant diceva: « I mperatura
attraverso il volume è un esempio fisico di scalare di C. (D’ABRO, New Physics,
capitolo X). Analogamente nella psicologia, per es., nella psicologia della
forma, dove è stato illustrato così: « Ciò che determina l'impressione di
colore che proviamo in un punto circoscritto del C. visivo è lo stato
eccitatorio globale del C. visivo; ciò che determina l’impressione di un peso
che alziamo non è soltanto la tensione del gruppo muscolare immediatamente
legato al sollevamento del peso, ma pure il tono di tutto il resto della
muscolatura » (KATZ, Gestalipsychologie, 3; trad. ital., pag. 29-30). Più
precisamente e generalmente, K. LEWIN ha definito il C., inteso quale lo «
spazio vitale» di un organismo, come «la totalità degli eventi possibili »,
dalla quale deriverebbe il comportamento dell’organismo stesso (Principles of
Topological Psychology, 7* ediz., 1936, pag. 14). Dewey adopera la parola in
senso generico: «È sempre in un qualche C. che si verifica l’osservazione di
questo o quell’oggetto. Tale osservazione è fatta allo scopo di trovare ciò che
quel C. rappresenta in rapporto a qualche attiva risposta di adattamento con
cui far procedere un corso di comportamento » (Logic, Intr.; trad. ital, pagina
11l). Più precisamente la nozione è usata in logica, dove per C. di una
relazione si intende l’insieme del dominante e del dominante inverso della
relazione: cioè dei termini che sono in una data relazione con questo o quel
termine (dominanti) e dei termini con cui questo o quel termine si trova in una
data relazione (dominanti inversi) (v. RELAZIONE). Il concetto è stato anche usato
per la teoria del significato (cfr. A. P. UsHENKO, The Field Theory of Meaning,
1958) e nella linguistica, nella quale il C. è stato inteso come la rete di
associazioni che connettono un termine a molti altri termini (ULLMANN,
Semantics, 1962, IX, 1). CANCELLAZIONE (ted. Durchstreichung). Nelle /deen (I,
$ 106) Husserl chiama C. la nega108 zione di una credenza o la presa di
posizione contro di essa. CANONE (gr. xawoy; ingl. Canon; franc. Canon; ted.
Kanon). Criterio o regola di scelte per un campo qualsiasi di conoscenza o di
azione. Il termine fu introdotto probabilmente dallo scultore Policleto che
intitolò così un’opera nella quale descriveva la simmetria del corpo e indicava
le regole e le proporzioni che lo scultore deve rispettare (40, A, 3 Diels).
Epicuro chiamò canonica la scienza del criterio, criterio che per lui è la
sensazione nel dominio della conoscenza, e il piacere nel dominio pratico
(Diog. L., X, 30). Il termine fu ripreso dai matematici del °700 e Leibniz
l’adopera per designare « le formule generali che dànno ciò che si domanda »
(Math. Schriften, VIII, 217), per es., quella che dà due numeri di cui si
conosce la somma e la differenza o quella che dà le radici di un’equazione.
Stuart Mill chiama C. le regole che esprimono i quattro metodi della ricerca
sperimentale, cioè quelli di concordanza, di differenza, dei residui e delle
variazioni concomiime dicendo: «Si deve poter volere che la massima della,
nostra azione diventi legge universale » (Grundlegung zur Mer. der Sitten, II).
Nella filosofia moderna e nella filosofia contemporanea si adopera più
frequentemente il termine criterio (v.). Anche C. viene però talvolta adoperato
nel senso tradizionale. Dewey chiama C. i princìpi logici d’identità, di
contraddizione, e del terzo escluso (Logic, cap. XVID. CAOS (gr. y&wc).
Propriamente: abisso sbadigliante. Lo stato di completo disordine anteriore
alla formazione del mondo e dal quale tale formazione s’inizia, secondo i
mitologi. Esiodo dice: «Prima di tutti gli esseri ci fu il C., poi la Terra dal
largo seno» (Teog., V, 116). Aristotele combattette questa nozione (Fis., IV,
208 b 31 sgg.) perchè ammise l’eternità del mondo. Kant si servì di essa per
indicare lo stato originario della materia dal quale si sono poi originati i
mondi (Allgemeine Naturgeschichte oder Theorie des Himmels, 1755, Pref.).
CARATTERE (gr. yapaxtip, 7006; lat. Character; ingl. Character; franc.
Caractère; ted. Charakter). Propriamente il segno, o l’insieme di segni, che
contraddistingue un oggetto e consente di riconoscerlo agevolmente tra gli
altri. In particolare, il modo d’essere o di comportarsi abituale e costante di
una persona, in quanto individua e distingue la persona medesima. In questo
senso diciamo che « Una persona ha un C. ben marcato» o «ben deciso », nel senso
che il suo modo di agire rivela orientamenti abituali e costanti; e qualche
volta, semplicemente, « È un C.». All’opposto descriviamo come « mancanza di
C.» o «C. debole», «incerto » o «incostante » un comportamento abitualmente
dovuto piuttosto a scelte casuali e capricciose che ad un orientamento
determinato e costante. Gli antichi possedevano questa nozione. Eraclito dice
che il C. ({90c) di un uomo è il suo destino (Fr. 119, Diels). E l’aristotelico
Teofrasto ci ha lasciato nello scritto intitolato / C. la descrizione di trenta
tipi di C. morali (l’importuno, il vanitoso, lo scontento, il fanfarone, ecc.)
descritti appunto sul fondamento delle loro manifestazioni abituali.
Dimenticata nel Medioevo, durante il quale la parola servì prevalentemente a
designare l’indistruttibilità della ordinazione sacerdotale (S. TomMASO S. Th.,
III, q. 65, a. 1 sgg.) la nozione fu ripresa nel '600 e rimessa in circolazione
da La Bruyère (Les caractères, 1687). Kant l’ha utilizzata nel tentativo di
conciliare la causalità naturale e la causalità libera. Ciascuna causa
efficiente deve avere un carattere, cioè «una legge della sua causalità, senza
la quale non sarebbe causa ». Un oggetto del mondo sensibile ha in primo luogo
un C. empirico per il quale i suoi atti, come fenomeni, sono connessi
causalmente con gli altri fenomeni in conformità delle leggi naturali. Ma lo
stesso oggetto può anche avere un C. intellegibile « per il quale esso è sì la
causa di quegli atti come fenomeni, ma di per se stesso non sottostà a nessuna
condizione sensibile e non è fenomeno». Del C. intellegibile si può dire « che
esso comincia da se stesso i suoi effetti nel mondo senza che l’azione cominci
in lui stesso +; e con questa distinzione Kant crede di aver accordato fra loro
libertà e natura (Critica R. Pura, Antinomie della ragion pura, $ 3). Meno
metafisicamente (e più chiaramente) nell’ Antropologia egli distingue un C.
fisico che è il segno distintivo dell’uomo come essere naturale e un C. morale
che è il segno dell’uomo come essere razionale, provvisto di libertà. Il C.
fisico dice «ciò che si può fare dell’uomo, il C. morale dice ciò che l’uomo è
capace di fare di se stesso» (Antr., II, a). Schopenhauer ha utilizzato la
distinzione kantiana tra C. empirico e C. intelligibile per neCARATTERE gare la
libertà: tutto ciò che l’uomo fa sarebbe la manifestazione di un €.
intelligibile innato e immutabile (Die Welt, I, $ 55; Neue Paralipomena, $
220). La distinzione kantiana di un duplice C., l’uno naturale e immutabile,
l’altro morale e libero, viene universalmente abbandonata nella antropologia
contemporanea che tuttavia dà grande rilievo alla nozione di carattere. Ma
nell’interpretazione di questa nozione, l’antropologia contemporanea si può
dire che assuma o l’uno o l’altro dei due concetti in cui Kant aveva distinto
la nozione stessa, e cioè o che intende il C. come una formazione naturale
inevitabile che l’uomo porta con sè e non può modificare, o lo intende come una
formazione dovuta alle scelte dell’uomo e perciò essa stessa libera e modificabile.
Accenneremo solo ad alcune delle principali prese di posizioni in un senso o
nell’altro. La teoria dei tipi psicologici di Jung appartiene al primo
indirizzo perchè considera il C. come un orientamento prevalentemente inconscio
dovuto a disposizioni organiche o al fondamento istintivo. Il C. di un uomo è
la direzione in cui avviene l’incontro tra quest'uomo e il mondo o tra questo
uomo e la società: è cioè il complesso degli atteggiamenti o delle disposizioni
ad agire o reagire in una certa direzione. Ora, nell’incontro tra l’uomo e il
mondo, due atteggiamenti fondamentali sono possibili: o l’uomo cerca di
dominare il mondo, cioè gli oggetti esterni, assumendo un atteggiamento attivo,
positivo, creatore, oppure cerca semplicemente di difendersi da egie, pag. 1).
Soltanto che per Le Senne il C. non costituisce la totalità dell’uomo: è
soltanto uno degli elementi della sua personalità, la quale comprende, oltre il
C., anche elementi liberamente acquisiti, che possono contribuire a specificare
il C. stesso in un senso o nell’altro. Il C. è pertanto un limite oggettivo,
intrinseco alla stessa personalità, della scelta che la personalità può fare
liberamente di se stessa; ma come limite è qualche cosa di congenito e, in se
stesso, di immutabile. La determinazione dovuta al C., non è quindi per Le
Senne una determinazione necessitante nonostante la sua originarietà e la sua
immutabilità relativa. Per quanto su questo punto Le Senne si riattacchi ad un
caposaldo stabilito da Adler (di cui diremo sùbito) la nozione di C. rimane in
lui quella di una determinazione o complesso di determinazioni originarie e
immodificabili, cioè rimane fissa a quel significato per il quale esso non si
distingue da temperamento (v.). Questo concetto del C. fa della libertà e del
determinismo nella personalità umana due forze diverse e reciprocamente
autonome, di cui l’una risiede nell’io, l’altra nel C. (o nel temperamento),
riproducendo, in linguaggio diverso, il dualismo kantiano di C. intelligibile e
C. empirico. La dottrina di Adler si era invece sottratta a questo dualismo.
Per Adler il C. è la manifestazione oggettiva, rilevabile attraverso
l’esperienza sociale, della stessa personalità umana. Non solo il C. è un
«concetto sociale » nel senso che si può parlare di C. solo riferendosi alla
connessione di un uomo col suo ambiente, ma anche i tratti o le disposizioni di
cui il C. consiste sono rilevabili solo socialmente. Le manifestazioni del C. «
sono simili ad una linea direttiva che aderisce all'uomo come uno schema e che gli
permette, senza molta riflessione, di esprimere in ogni situazione la sua
originale personalità » (Menschenkenntnis, 1926, II, 1; trad. ital, pag. 150
sgg.). Esse non esprimono alcuna forza e substrato innato, ma sono, anche se
molto presto, acquisite. Il C. sostanzialmente è il modo in cui l’uomo prende
posizione di fronte al mondo naturale e sociale; e Adler fonda la valutazione
di esso su due punti di riferimento: la volontà di potenza e il sentimento
sociale, che con la loro azione reciproca costituirebbero gli aspetti
fondamentali del carattere. « Si tratta, egli dice, di un gioco di forze la cui
forma di manifestazione esteriore caratterizza ciò che noi chiamiamo C. »
(/bid., 1926, II, 1; trad. ital., pag. 176). Una distinzione radicale tra
persona e C. fa invece Scheler. La persona è il soggetto degli atti
intenzionali ed è quindi il correlato di un mondo, e precisamente del mondo in
cui essa vive. Il C., invece, è la costante ipotetica x che si assume per
spiegare le particolari azioni di una persona. Pertanto se un uomo agisce in
modo non corrispondente alle deduzioni che abbiamo ricavate dall’imagine
ipoteticamente assunta del suo carattere, si è disposti, a buon diritto, a
mutare questa imagine. Ma la persona non può mutare: non possono quindi toccarla
i mutamenti di C., come non la tocca la malattia psichica che solamente la
nasconde (Formalismus in der Ethik, pag. 501 sgg.). Questa netta separazione
tra C. e persona, che in Scheler è dovuta al primato metafisico che egli
attribuisce alla persona, non trova però riscontri nell’antropologia
contemporanea. I tratti più comuni e importanti di questa antropologia per ciò
che riguarda la dottrina del C., si possono ricapitolare nel modo seguente: 1°
il C. è la manifestazione oggettiva della personalità umana o è questa stessa
personalità nel suo aspetto oggettivo, quale si lascia cogliere attraverso la
comune esperienza umana o le tecniche d'indagine della personalità stessa (vedi
PERSONALITÀ); 2° il C. si differenzia dal remperamento (v.) perchè non è un dato
puramente organico come quest’ultimo e perchè non è un elemento immutabile e
necessitante ma è il risultato delle scelte effettuate da un individuo e
consiste nelle costanti osservabili delle sue scelte; 3° tali scelte non sono
assolutamente libere nè necessitate, ma condizionate da elementi organici,
ambientali, sociali, ecc.; e nelle loro costanti osservabili delineano un
progetto di comportamento nel quale coincidono il C. e la personalità
dell’uomo. CARATTERE POETICO. Secondo Vico, i primi uomini concepirono le cose
dapprima mediante « C. fantastici di sostanze animate e mutoli » cioè mediante
atti o corpi che avessero un qualche rapporto con le idee e poi con « C. divini
ed eroici, dappoi spiegati con parlari volgari » (Scienza nuova, 1744, passim):
nelle quali locuzioni ovviamente la parola « carattere » sta per segno o
simbolo. CARATTERI (ted. Charakters). Così Avenarius (Kritik der reinen
Erfahrung, 1888-90) ha chiamato uno dei due fattori di cui è composto il mondo
dell'esperienza e precisamente quello che consiste nelle determinazioni
emotive, esistenziali, pratiche e in generale valutative degli elementi che
costituiscono l’altro fattore dell’esperienza stessa. Così sono C. il piacere,
il dolore, l’essere, l'apparenza, il sicuro, l’insicuro, ecc., mentre sono
elementi le sensazioni (suoni, colori, ecc.). CARATTERISMI (ted.
Charakterismen). Sono secondo Kant « designazioni dei concetti per mezzo di
segni sensibili concomitanti » come le parole, i gesti, i segni algebrici, ecc.
(Crit. del Giud., $ 59). CARATTERISTICA (lat. Characteristica). Leibniz chiamò
preferibilmente C. o C. universale quella che in un primo tempo (1666) aveva
chiamato «arte combinatoria »: e cioè « l’arte di formare e di ordinare i
caratteri in modo che si riferiscano ai pensieri, cioè in modo che abbiano tra
loro la stessa relazione che c’è tra i pensieri stessi ». I caratteri non sono
altro che i segni o scritti o disegnati o scolpiti. I fondamenti dell’arte C.
sono espressi dallo stesso Leibniz nello scritto Fundamenta calculi
ratiocinatoris (Op., ed. Erdmann, pagina 92 sgg.) nel modo seguente. Tutti i
pensieri umani si possono ridurre a poche nozioni primitive: Csistenza del
tesoro sul letto di morte, sommuovono la terra e la fanno fertile e questo è
l’unico tesoro che trovano (Nova Dilucidatio Principiorum Metaphysicae, 1755,
prop. II. Tuttavia l’idea di Leibniz e i vari tentativi di realizzarla
costituiscono il precedente storico immediato della moderna logica simbolica.
CARATTEROLOGIA (franc. Caraciérologie; ted. Charakterologie o Charakterkunde).
Nome entrato nell’uso nella seconda metà del secolo scorso per indicare la
scienza del temperamento o del carattere. Cfr. CARATTERE; ETOLOGIA. CARDINALI,
VIRTÙ (lat. Cardinales virtutes; ingl. Cardinal Virtues; franc. Vertues cardinales;
ted. Kardinaltugenden). Così furono chiamate da S. Ambrogio (De off. ministr.,
I, 34; De Par., III, 18; De sacr., III, 2) le cristiano fondamentale «Ama il
prossimo tuo come te stesso ». S. Paolo soprattutto ha insistito sulla
superiorità della C. sulle altre virtù cristiane cioè sulla fede e sulla
speranza. «La C. sopporta tutto, ha fede in tutto, spera tutto, sostiene
tutto... Ci sono ora la fede, la speranza e la C., queste tre cose; ma la C. è
la maggiore di tutte » (Cor., I, 13, 7, 13). La C. è sostanzialmente, per S.
Paolo, il legame che tiene avvinti i membri della comunità cristiana e fa di
questa comunità lo stesso «corpo di Cristo ». In séguito, la filosofia
cristiana ha visto nella C. soprattutto il legame fra l’uomo e Dio. S. Tommaso definisce
la C. come « l’amicizia con Dio» e dice: «Questa società dell’uomo con Dio, che
è quasi una conversazione familiare con Lui, comincia nella vita presente
mediante la grazia e si perfeziona nel futuro mediante la gloria; ed una cosa e
l’altra sono tenute dalla fede e dalla speranza » (S. 7h., II, 1, q. 65, a. 5).
Sul concetto dell’amore cristiano, v. AMORE. Nel linguaggio comune la parola è
talvolta adoperata invece di beneficenza, cioè per significare l’atteggiamento
di chi vuole il bene degli altri e si comporta verso di essi generosamente. Ma
anche il linguaggio comune conosce e adopera il retto significato del termine,
come quando si dice che «Occorre un po’ di C.» a chi giudica troppo severamente
del suo prossimo: nel qual caso ovviamente C. significa amore o comprensione
(v. AMORE). CARNE (gr. odpt; lat. Caro; ingl. Flesh; franc. Chair; ted.
Fleisch). Nella terminologia del Nuovo Testamento, e specialmente di S. Paolo,
è qualcosa di differente dal corpo. La C. o carnalità è infatti l’avversione o
la resistenza alla legge di Dio, perciò il peccato o l’orientamento verso il
peccato (per es., S. PaoLO, Ad Rom., VII, 14; VIII, 3, 8, ecc. Cfr. BULTMANN,
Theologie des N. T., 1948, pag. 223). Lo stesso senso il termine ha conservato
nel linguaggio comune e nella predicazione moralistica. In un senso diverso ha
usato il termine Merleau-Ponty (Le visible et l’invisible, 1964), parlando
della «+ C. del mondo» come della sostanza viva che è comune al corpo dell’uomo
e alle cose del mondo e costituisce insieme l’oggetto e il soggetto delle
esperienze umane. CARTESIANESIMO. L'insieme dei capisaldi che sonata e c’è una
C. cristiana contro la quale, da Pascal in poi (Lettere Provinciali, 1657) è
stato spesso rivolta l’accusa di moralità rilassata o accomodante. L’esigenza
di una C. morale fu affacciata da Kant che così chiarì il concetto di essa: «
L'etica, per il largo margine che concede ai doveri imperfetti, conduce
inevitabilmente a questioni che spingono il giudizio a decidere come la massima
debba essere applicata nei casi particolari o quale massima particolare
(subordinata) fornisca a sua volta (in questo modo possiamo sempre chiedere
quale sia il principio di applicazione di queste massime secondo i casi che si
presentano); e così l’etica sbocca in una C.». La C. non è nè una scienza nè
parte di scienza, perchè in tal caso sarebbe dogmat5) riportava l’opinione
secondo la quale la fortuna sarebbe una causa superiore e divina, nascosta
all’intelligenza umana. Ad errore o a illusione equiparavano il C. gli Stoici
che ritenevano che tutto accadesse nel mondo per un'assoluta necessità
razionale (P/ac. philos., I, 29). È chiaro che chi ammette una necessità di
questo genere, e dovuta, o (come gli Stoici ritenevano) alla divinità immanente
nel cosmo, o all’ordine meccanico dell’universo, non può ammettere la realtà
degli eventi che si sogliono chiamare accidentali o fortuiti e tanto meno del
caso come principio o categoria di tali eventi; e deve vedere in essi l’azione
necessaria della causa riconosciuta in atto nell’universo, negando come
illusione o errore il loro carattere casuale. È ia contemporanea, Bergson ha
spiegato il C. con lo scambio, puramente soggettivo, tra l’ordine meccanico e
l’ordine vitale o spirituale: « Che il gioco meccanico delle cause che arrestano
la roulette sul numero mi faccia vincere e perciò agisca come avrebbe fatto un
genio benefico cui stessero a cuore i miei interessi; o che la forza meccanica
del vento strappi dal tetto una tegola e me la lanci sulla testa, cioè agisca
come avrebbe fatto un genio malefico che cospirasse contro la mia persona, in
tutti e due i C. io trovo un meccanismo là dove avrei cercato o dove avrei
dovuto incontrare, a quanto sembra, un’intenzione: è questo che si esprime
parlando del C. » (Évol. créatr., 8* ediz., 1911, pag. 254). 2° Dall'altro
lato, secondo l’interpretazione oggettivistica, il C. non è un fenomeno
soggettivo ma oggettivo e precisamente consiste nell’intersecarsi di due o più
ordini o serie diverse di cause. La più antica delle interpretazioni del genere
è quella di Aristotele. Aristotele comincia col notare che il C. non si
verifica nè nelle cose che accadono sempre allo stesso modo nè in quelle che
accadono per lo più nello stesso modo, ma piuttosto tra quelle che avvengono
per eccezione e fuori di ogni uniformità (Fis., II, 5, 196b 10 e sgg.). In tal
modo egli correttamente assegna il C. alla sfera dell'imprevedibile, cioè di
ciò che accade fuori del necessario (« ciò che accade sempre allo stesso modo
») e dell’uniforme («ciò che accade per lo più allo stesso modo +1). Stando a
ciò, il C. (o la fortuna) è definito da Aristotele come «una causa accidentale
nell’àmbito di quelle cose che non accadono nè in modo assolutamente uniforme
nè frequentemente e che potrebbero accadere in vista di un fine + (/b., 197 a
32). La determinazione del fine è, per Aristotele, essenziale giacchè il C. ha
almeno l’aspetto o l'apparenza della finalità: come nell’esempio di chi si reca
al mercato per tutt’altro motivo e lì incontra un debitore che gli restituisce
la somma dovuta. In quest’esempio si chiama C. (o fortuna) l’evento della
restituzione dovuto ad un incontro che non è stato deliberato o voluto come un
fine, ma che avrebbe potuto essere un fine: mentre in realtà è stato l’effetto
accidentale di cause che agivano in vista di altri fini. La nozione di un
incontro, di un intreccio di serie causali per la spiegazione del C., è stata
ripresa nell'età moderna per opera di filosofi, matematici, economisti, che
hanno riconosciuta l’importanza della nozione di probabilità (v.) per
l’interpretazione della realtà in generale. Così Cournot definì il C. come il
carattere di un avvenimento « dovuto alla combinazione o all’incontro di
fenomeni indipendenti nell'ordine della causalità » (Théorie des chances et des
probabilités, 1843, cap. II) nozione che divenne prevalente nel positivismo,
anche perchè fu accettata da Stuart Mill (Logic, II, 17, $ 2): «Un evento che
avvenga per C. può essere meglio descritto come una coincidenza dalla quale non
abbiamo motivo per inferire un’uniformità... Possiamo dire che due o più
fenomeni sono congiunti al C. o che coesistono o si succedono per C., nel senso
che essi non sono in nessun modo connessi dalla causazione; che non sono nè la
causa o l’effetto l’uno dell’altro nè effetti della stessa causa o di cause tra
le quali sussista una legge di coincidenza nè effetti della stessa collocazione
di cause primarie ». In modo simile Ardigò (Opere, III, pag. 122) riconduceva
il C. alla pluralità e all’intreccio di serie causali distinte. Questa nozione tuttavia
è oggettiva solo in certi limiti o per meglio dire solo in apparenza. Che il C.
consista nell’incontro di due serie causali diverse significa che esso è un
avvenimento causalmente determinato come tutti gli altri ma solo più difficile
a prevedersi appunto perchè il suo accadere non dipende dal corso di un’unica
serie causale. Secondo questa nozione la determi. nazione casuale del C., è più
complessa ma non meno necessitante; e l’imprevedibilità che è la caratteristica
fondamentale del C. è dovuta soltanto a tale complessità e non è di natura
oggettiva. Affinchè CATARSI 113 sia di natura oggettiva, tale imprevedibilità
dev’essere infatti dovuta ad un’indeterminazione effettiva inerente al
funzionamento della causalità stessa. 3° Questa ultima alternativa costituisce
un terzo concetto del C., un concetto che si può far risalire a Hume. Sembra
che Hume voglia ridurre il caso a un fenomeno puramente soggettivo perchè dice:
«Per quanto non vi sia al mondo qualche cosa come il C., tuttavia la nostra ignoranza
della causa reale di ogni avvenimento ha la stessa influenza sopra l'intelletto
e genera una simile sorta di credenza o di opinione ». Ma in realtà se non
esiste il «C.» come nozione o categoria a sè, non esiste neppure la «causa» nel
senso necessario e assoluto del termine; ma esiste soltanto la « probabilità ».
E sulla probabilità è fondato quello che chiamiamo C.: «Sembra evidente che,
quando la mente cerca di prevedere per scoprire l’evento che può risultare dal
gettare quel dado, si considera l’apparire di ciascun singolo lato come
egualmente probabile; e questa è la vera natura del C., di eguagliare
interamente tutti i singoli eventi che comprende » (Ing. Conc. Underst., VI). È
questa di Hume un’idea che nella filosofia contemporanea doveva rivelarsi
estremamente feconda. Che il C. consista nell’equipollenza di probabilità che
non lasciano adito ad una previsione positiva in un senso o nell’altro è un
concetto su cui ha insistito Peirce, il quale ne ha visto anche l’implicazione
filosofica fondamentale: l’eliminazione del « necessitarismo », cioè della
dottrina che tutto nel mondo avviene per necessità (Chance, Love and Logic, Il,
2; Coll. Pap., 6. 47 e sgg.). Da questo punto di vista il C. diventa un esempio
particolare del giudizio di probabilità e precisamente quello nel quale la
probabilità stessa non ha sufficiente rilevanza ai fini della prevedibilità di
un evento. In tal senso il C. è stato considerato come una specie di entropia
(v.) e il relativo concetto è comunemente adoperato nel campo della teoria
dell’informazione e della cibernetica (v.). CASUALISMO (ingl. Casualism; franc.
Casualisme). La dottrina che il caso non è soltanto l’espressione
dell’ignoranza umana a proposito delle cause di certi eventi, ma una condizione
o situazione oggettiva di indeterminazione nelle cose stesse. Peirce chiamò
questa dottrina tichismo (Chance, Love and Logic, II, 3; Coll. Pap., 6. 47
sgg.) da toxn che in realtà significa fortuna. Un C. radicale è sostenuto da
Wittgenstein. « Fuori della logica tutto è caso », egli dice (Tracr.
Logico-Philos., 6. 3). E si deve ricordare che la logica ha a che fare soltanto
con tautologie (v.) le quali non significano nulla. CATALETTICA,
RAPPRESENTAZIONE (gr. pavragia xataAnitixh; lat. Fantasia comprehensiva; ted.
Kataleptische Vorstellung). Il criterio della verità, secondo gli Stoici. Essi
chia8 — ABBAGNANO, Distonario di filosofia. marono C., cioè comprensiva, la
rappresentazione evidente o che rende evidente l’oggetto che la produce.
Secondo una testimonianza di Cicerone (Acad., II, 144) Zenone poneva il
significato della rappresentazione C. nella sua capacità di afferrare o
comprendere l’oggetto: perciò paragonava la mano aperta alla rappresentazione
pura e semplice, la mano che fa l’atto di afferrare all’assenso; la mano
stretta a pugno alla comprensione C.; e le due mani strette l’una sull'altra
alla scienza. Secondo Diogene Laerzio (VII, 46) e Sesto Empirico (Adv. Math.,
VII, 248) la rappresentazione C. è invece quella che viene da un reale sussC.
come « quella discriminazione che conserva il meglio e rigetta il peggio»
(Sof., 226 d). Egli inoltre ricorda l’esistenza di libri di Museo e Orfeo
secondo i quali « gli adepti celebrano sacrifici persuadendo non solo privati
ma anche città che ci sono assoluzioni e purificazioni dagli atti ingiusti per
via di sacrifici e di giochi piacevoli, sia per i vivi che per i morti ».
Empedocle chiamò Purificazioni (x49xpuor) uno dei suoi poemi che per l’appunto
s’ispirava all’orfismo. In Platone il termine ha una portata morale e metafisica.
Esso designa in primo luogo la liberazione dai piaceri (Fed., 67 a, 69c); in
secondo luogo la liberazione dell'anima dal corpo come un separarsi e ritirarsi
dell’anima dalle operazioni corporee e realizzazione, già nella vita, di quella
separazione totale che è la morte (/bid., 67 c). E su quest’ultimo punto
insisterà Plotino secondo il quale la virtù purifica l’anima dai desideri e da
tutte le altre emozioni nel senso che separa l’anima dal corpo e fa in modo che
l’anima si raccolga in se stessa e divenga impassibile (Enz., I, 2, 5).
Aristotele adoperò ampiamente il termine nel suo significato medico negli
scritti di storia naturale come purificazione o purga. Ma per primo lo estese a
designare anche un fenomeno estetico, cioè quella specie di liberazione o di
rasserenamento che l’uomo subisce ad opera della poesia e in par114 ticolare
del dramma e della musica. « La tragedia, egli disse, è imitazione di azione di
carattere elevato e completa, di una certa estensione, in linguaggio abbellito
e che ha diverse specie di abbellimenti distribuite nelle varie parti di essa,
imitazione compiuta da attori e non in forma narrativa e che suscitando il
terrore e la pietà perviene alla purificazione da tali affezioni» (Poet., 1449
b, 24 sgg.). Abbastanza curiosamente Aristotele, che esamina uno per uno tutti
gli elementi della tragedia, non si ferma invece a spiegare che cos'è la C.: il
che vuol dire che egli adopera qui la parola nel senso generale corrente di
rasserenamento e di calma per quanto non di assenza totale delle emozioni:
senso che trova riscontro in ciò che dice nella Politica a proposito della
musica. Qui egli osserva che quando alcuni, che sono fortemente scossi da
emozioni come pietà, paura, entusiasmo, odono canti sacri che impressionano
l’anima «si trovano nelle condizioni di chi è stato risanato o purificato ».
Anche tutte le altre emozioni possono subire una « purificazione e un piacevole
alleggerimento ». E «le musiche particolarmente adatte a produrre purificazione
dànno agli uomini un’innocente gioia » (Po/., VIII, 7, 1342 a 17). Delle molte
interpretazioni che sono state date della C. estetica la prevalente è stata
quella di Goethe (Nachlese zu Aristot. Poetik, 1826) secondo la quale essa
consisterebbe nell’equilibrio delle emozioni che l’arte tragica induce nello
spettatore dopo averne eccitate le emozioni stesse e perciò nel senso di
serenità e di pacificazione che essa procura. Se pure qualche cosa di simile
c’è in Aristotele, bisogna tuttavia osservare che per lui il significato della
C. estetica non è diversa da quella della C. medica o morale: una specie di
cura delle affezioni (corporee © spirituali) che non le abolisce ma le porta
alla misura in cui esse sono compatibili con la ragione. Nella cultura moderna
il termine C. è stato adoperato quasi esclusivamente nel suo riferimento alla
funzione liberatrice dell’arte. Freud ha talvolta chiamato C. il processo di
sublimazione della /ibido (v. AMORE) per il quale la libido si distacca dal suo
contenuto primitivo, cioè dalla sensazione voluttuosa e dagli oggetti che vi si
connettono, per concentrarsi su altri oggetti che saranno amati di per se
stessi. A questo processo di C. (di « sublimazione +) sono dovuti, secondo
Freud, tutti i progressi della vita sociale, l’arte, la scienza e la civiltà in
generale, almeno nella misura in cui dipendono da fattori psichici (v.
PSICANALISI). CATASILLOGISMO (lat. Catasyllogismus). Controdimostrazione. Il
termine è adoperato da Giovanni di Salisbury (Meralogicus, IV, 5) in
riferimento al verbo controdimostrare adoperato da Aristotele (An. Pr., II, 19,
66 a 25). CATASILLOGISMO CATASTROPE (ingl. Catastrophe; franc. Catastrophe;
ted. Katastrophe). Ricorre a questa nozione ogni teoria che cerchi di spiegare
lo sviluppo di una realtà qualsiasi mediante rivolgimenti radicali e totali che
avverrebbero periodicamente. Così Cuvier (Discours sur les révolutions du
globe, 1812) spiegava l’estinzione delle specie animali fossili mediaesa dai
primi cristiani) ma basta che essa valga come un « mito ». Cfr. ATTIVISMO;
MITO. CATECHISMO (ingl. Catechism; franc. Catéchisme; ted. Katechismus). Kant
distinse il metodo dell’interrogatorio (o erotematico) in metodo catechetico
per il quale ci si rivolge soltanto alla memoria di chi viene interrogato e in
metodo dialogico o socratico col quale ci si rivolge a ciò che è contenuto
nella ragione dell’interrogato ed è perciò suscettibile di essere reso
esplicito o sviluppato (Mer. der Sitten, II, Intr., $ 18 nota). Egli ritenne
tuttavia indispensabile un C. morale che avrebbe dovuto precedere il C.
religioso ed essere indipendente da esso (/bid., $ 51). Il positivismo
ottocentesco mostrò una certa predilezione per C. filosofici o
filosofico-politici. Ne compilò uno il St.-Simon (C. degli industriali,
1823-24) e uno famoso Augusto Comte (C. positivista, 1852). Ciò avvenne perchè
il positivismo si presentò spesso come una religione « scientifica » che
avrebbe dovuto soppiantare la religione tradizionale. CATEGOREMATICO (lat.
Categoremata; ingl. Categorematic; franc. Catégorematique; tedesco Kategorematisch).
Nella grammatica e nella logica medievale sono dette così le parti del discorso
di per se stesse significanti, come il soggetto o il predicato, mentre sono
dette sincategorematiche (v.) le altre. L'espressione deriva probabilmente
dalla distinzione, fatta dagli Stoici, tra « discorso perfetto» che è quello di
senso compiuto (per es., « Socrate scrive +) e discorso imperfetto che manca di
qualche cosa (per es., « Scrive» che fa nascer la domanda «Chi?+) (Diog. L.,
VII, 63). Nella forma che poi divenne un luogo comune nella CATEGORIA logica
medievale, la distinzione si può vedere per la prima volta nel trattato anonimo
del sec. x1I, De generibus et speciebus, edito da Cousin ((Euvres inédites
d’Abélard, pag. 531). Essa è poi costantemente ripetuta nella logica posteriore
(cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 1.05). CATEGORIA (gr. xamyopla; lat.
Praedicamentum; ingl. Category; franc. Catégorie; ted. Kategorie). In generale,
qualsiasi nozione che serva come regola per l’indagine o per la sua espressione
linguistica, in un campo qualsiasi. Storicamente, il primo significato
attribuito alle C. è realistico: esse sono considerate come determinazioni
della realtà e in secondo luogo come nozioni che servono a indagare e a
comprendere la realtà stessa. Così le intese Platone che le chiamò « generi
sommi» ed enumerò cinque di tali generi, cioè l’essere, il movimento, la
quiete, l’identità e l’alterità (Sof., 254 seguenti). Come alcuni di questi
generi si legano assieme tra loro ed altri no, così le parti del discorso, cioè
le parole, si legano assieme e quando tale mescolanza corrisponde a quella
reale il discorso è vero, altrimenti è falso (/bid., 263 seguenti). Questa
corrispondenza tra la realtà e il discorso, per il tramite delle determinazioni
categoriali, è anche la base della teoria di Aristotele. Questi, tuttavia,
parte da un punto di vista linguistico: le e qualche volta il luogo dove sta o
il tempo, ne segue che tutti questi sono modi dell’essere » (Met., V, 7, 1017a
23 sgg.). Questo concetto di C. come di determinazione appartenente all’essere
stesso e di cui il pensiero debba servirsi per conoscerlo ed esprimerlo in
parole, è durata lungamente; e per molto tempo le scuole filosofiche o i
filosofi furono dissenzienti solo rispetto al numero e alla distinzione delle
categorie. Così gli Stoici le ridussero a quattro: la sostanza, la qualità, il
modo d’essere e la relazione (StmpL., /n car., f. 16 d). Plotino ritornò ai
cinque generi sommi platonici (Enn., VI, 1, 25). Nel Medicevo, la sola
alternativa alla dottrina del fondamento reale delle C. è il carattere
puramente verbale di esse, sostenuto dal nominalismo. Ockham, afferma
recisamente che le C. non sono che segni delle cose, segni semplici dai quali
possono essere costituiti « complessi » sia veri che falsi (De corpore Christi,
35; In Sent., I, d. 30, q. 2, I). Pertanto la loro distinzione non implica una
pari distinzione tra gli oggetti reali giacchè non sempre a concetti o a parole
distinti corrispondono cose distinte. Le C. di sostanza, qualità e quantità,
per quanto distinte come concetti, significano la medesima cosa (Quodi., V, q.
23). Questa negazione radicale della realtà delle C., dipende dalla negazione
totale che il nominalismo medievale faceva di ogni realtà universale. Questo
punto di vista equivale a considerare le C. come semplici nomi che si
riferiscono a classi di oggetti. La dottrina di Kant non ha niente a che fare
con questo nominalismo per quanto si sottragga ugualmente al realismo della
concezione classica. Le C. sono per Kant i modi in cui si manifesta l’attività
dell’intelletto, la quale consiste essenzialmente « nell’ordinare diverse
rappresentazioni sotto una rappresentazione comune », cioè nel giudicare. Esse
pertanto sono le forme del giudizio, cioè le forme in cui il giudizio si
esplica indipendentemente dal suo contenuto empirico. Per questo le C. possono
essere ricavate dalle classi del giudizio enumerate dalla logica formale. «In
tal modo, dice Kant, sorgono precisamente tanti concetti puri dell’intelletto,
che si applicano a priori agli oggetti dell’intuizione in generale, quante
funzioni lualità, divenire, forza, finalità, personalità) come determinazioni e
specificazioni di essa (Essai de critique générale, I, 1854, pag. 86 sgg.), E
Cohen ha considerato come C. fondamentale quella del sistema, perchè l’unità
dell’oggetto, su cui si fonda l’unità della natura, è un'unità sistematica
(Logik, pag. 339). Ma per quanto non ci sia stato filosofo d’ispirazione
kantiana che non abbia voluto dare la sua tavola delle C., il concetto kantiano
della C. è rimasto immutato per tutta la parte della filosofia moderna che trae
la sua ispirazione da Kant. Tuttavia tale concetto non è il solo nella
filosofia moderna e contemporanea. Quello tradizionale di C. come
«determinazione dell'essere» è stato ripreso dall’idealismo romantico e in
particolare da Hegel. Questi considera le C. come « determinazioni del pensiero
» e fa merito a Fichte di aver affermato l’esigenza della loro « deduzione»
cioè della dimostrazione della loro necessità (Enc., $ 43). Ma in realtà per
Hegel le determinazioni del pensiero sono, nel contempo, le determinazioni
della realtà (per l’identità da lui posta di realtà e ragione); e abitualmente
egli chiama « momenti » più che C., queste determinazioni. L'unica C. che egli
riconosca veramente come tale è la stessa Realtà-pensiero, cioè
l’Autocoscienza, l’Io o la Ragione. Nella Fenomenologia (I, cap. V, $ 2) egli
dice: «L’Io è la sola pura essenzialità dell’ente o la C. semplice. La C., che
altrimenti aveva il significato di essere essenzialità dell’ente, essenzialità
indeterminatamente dell’ente in generale o dell’ente di contro alla coscienza,
è ora essenzialità o semplice unità dell'ente in quanto questo è soltanto
realtà pensante: ossia la C. consiste in ciò che autocoscienza ed essere sono
la medesima essenza ». Il che vuol CATEGORIA dire che la C. dev'essere
considerata non come una determinazione dell’essere in generale, ma come la
coscienza, e quindi la realtà stessa. Questa teoria dell'Io o della Coscienza o
dello Spirito come dell'unica C. è rimasta poi un luogo comune di tutte le
forme dell’idealismo romantico. Simmetrica e opposta a quella di Hegel è la
dottrina di Heidegger, per il quale la C. è la determinazione, non
dell’autocoscienza o dell’Io, ma dell'essere delle cose. Heidegger distingue
infatti gggetti dell’intenzionalità della coscienza. 3° In qualche altra
corrente della filosofia contemporanea, per es., nell’empirismo logico, le C.
vengono invece considerate come le regole convenzionali che presiedono all’uso
dei concetti. Così fa, per es., Ryle che chiama «tipo o categoria logica di un
concetto l’insieme dei modi in cui, per convenzione, è lecito servirsi del
termine rispettivo » (Concept of Mind, Intr.; trad. ital., pag. 4). Questa è
certamente la nozione meno dogmatica e più generale di C., che la filosofia
abbia finora prospettato: contiene tuttavia ancora un certo dogmatismo, perchè
limita le C. a quelle già stabilite dall’uso linguistico comune, negando
implicitamente la validità di ogni nuova proposta. Eppure scienziati e fsi
parla di «errore C.» per indicare lo scambio di una categoria con un’altra (per
es., RyLE, Concept of Mind, I, $ 2) CATEGORICO (gr. xatnyopix6g; ingl.
Categorical; franc. Catéporique; ted. Kategorisch). In generale, una
proposizione o un ragionamento non limitato da condizioni. Si cominciò a
chiamare C. il sillogismo aristotelico (SESTO E., /pot. Pirr., II, 163) dopo
che gli Stoici ebbero elaborato la teoria del ragionamento ipotetico (v.
ANAPODITTICO). Molto probabilmente gli Stoici consideravano assorbita la 117
teoria aristotelica del sillogismo dalla loro teoria dei ragionamenti
ipotetici, come consideravano assorbita nella loro teoria degli assiomi o
proposizioni la teoria aristotelica dell’inzerpretazione (v.). Ma la logica
posteriore (specialmente gli Aristotelici) semplicemente aggiunse le
determinazioni stoiche a quelle aristoteliche, parlando così di una
proposizione C. e di una proposizione ipotetica, di sillogismo C. e di
sillogismo ipotetico. Questa terminologia fu introdotta da Marciano Capella (De
nuptiis, $ 404 seguenti) e da Boezio nella tradizione latina. Dice Boezio: «I
Greci chiamano proposizioni C. quelle che sono pronunziate senza alcuna
condizione mentre sono condizionali quelle del tipo ‘se è giorno, c’è luce’,
che i Greci chiamano ipotetiche ». Corrispondentemente il sillogismo C. o «
predicativo » è quello che è formato da proposizioni C., mentre quello che
consta di proposizioni ipotetiche, si dice ipotetico cioè condizionale (De
syll. hypot., I, in P. L. 64, col. 833). Questa terminologia si è conservata
lungo tutta la tradizione logica dell’occidente e fu accettata da Kant (Crit.
R. Pura, Analitica dei concetti, $ 9). Kant ha a sua volta esteso la
distinzione stessa applicandola agli imperativi, cioè alle massime della
volontà. Egli ha chiamato C. l’imperativo della moralità, che non è sottoposta
ad alcuna condizione e ha quindi una « necessità incondizionata veramente
oggettiva » e che per conseguenza vale per tutti gli esseri ragionevoli quali
che siano i loro desideri (Grundlegung zur Met. der Sitten, 11) (v.
IMPERATIVO). CATENOTEISMO (ingl. Kathenotheism). Termine inventato dallo
storico delle religioni Max Miller per indicare la dottrina che c’è un solo Dio
per volta, cioè il monoteismo dei Veda secondo i quali un Dio solo per volta
governa il mondo, mentre le altre divinità aspettano il loro turno. CAUSA
ESEMPLARE. L’idea in Dio delle cose che intende creare (v. IDEA). CAUSALITAÀ
(gr. altia, altiov; lat. Causa; ingl. Causality; franc. Causalité; ted. Causalitàt).
Nel suo significato più generale, la connessione tra due cose, in virtù della
quale la seconda è univocamente prevedibile a partire dalla prima. Storicamente
questa nozione ha assunto due forme fondamentali: 1° la forma di una
connessione razionale, per la quale la causa è la ragione del suo effetto, che
è perciò deducibile da essa. In questa concezione l’azione della causa viene
spesso descritta come quella di una forza che genera o produce immancabilmente
l’effetto; 2° la forma di una connessione empirica o temporale, per la quale
l’effetto non è deducibile dalla causa, ma è tuttavia prevedibile in base ad
essa per la costanza e uniformità del rapporto di successione. Questa
concezione elimina dal rapporto causale l’idea di forza. Ad entrambe queste forme
è comune la nozione della prevedibilità univoca cioè infallibile dell’effetto,
a partire dalla causa, e perciò pure la nozione della necessità del rapporto
causale. 1° La prima forma della nozione di causa può dirsi che cominci con
Platone, il quale considera la causa come il principio per il quale una cosa è,
o diventa, ciò che è. In tal senso egli afferma che la vera causa di una cosa
.è ciò che per la cosa è «il meglio», cioè l’idea o lo stato perfetto della
cosa stessa e, per es., la causa del due è la dualità, di ciò che è grande la
grandezza, di ciò che è bello la bellezza; e in generale il bene è causa di ciò
che c’è di bene nelle cose e delle cose stesse (Fed., 97c sgg., spec. 101c).
Accanto a queste cause «prime » o « divine » Platone ammise poi le concause che
sono le limitazioni che l’opera creativa del demiurgo incontra e costituiscono
gli elementi di necessità del mondo stesso (Tim., 69 a). Ma la prima vera
analisi della nozione di causa si trova in Aristotele. Per primo Aristotele
afferma (Fis., I, 1, 184 a 10) che conoscenza e scienza consistono nel rendersi
conto delle cause e non sono nulla fuori di questo. Ma nello stesso tempo egli
nota che, se chiedere la causa significa chiedere il perchè di una cosa, questo
perchè può essere diverso e ci sono quindi varie specie di cause. In un primo
senso, è causa ciò di cui una cosa è fatta e che rimane nella cosa, per es., il
bronzo è causa della statua e l’argento della coppa. In un secondo senso, la
causa è la forma o il modello, cioè l’essenza necessaria o sostanza, (v.) di
una cosa. In questo senso è causa dell’uomo la natura razionale che lo
definisce. In un terzo senso, è causa ciò che dà inizio al mutamento o alla
quiete: e, per es., l’autore di una decisione è la causa di essa, il padre è causa
del figlio e in generale ciò che produce il mutamento è causa del mutamento. In
un quarto senso, la causa è il fine e, per es., la salute è la causa per cui si
passeggia (/bid., II, 3, 194b 16; Met.,, V, 2, 1013 ione di un effetto, come
nel caso di due buoi che tirano l’aratro. La cooperante è infine la causa che
arreca una piccola forza in virtù della quale l’effetto si produce con
facilità: come quando a due che portano con fatica un peso si aggiunge un terzo
che aiuta a sostenerlo. Ma la causa per eccellenza è, per gli Stoici, quella
sinettica, e in questo senso Dio è causa e costituisce il principio attivo del
mondo (Diog. L., VII, 134; SENECA, Ep., 65, 2). CAUSALITÀ La filosofia
medievale poco o nulla ha innovato al concetto della struttura causale (perchè
sostanziale) del mondo. Il suo contributo maggiore è l’elaborazione del
concetto di causa prima in un senso diverso da quella aristotelica, cioè non
come tipo di causa fondamentale ma come primo anello ddel Joro naturalismo.
Così Pomponazzi intende riportare anche gli eventi più straordinari e
miracolosi all’ordine necessario della natura; e si avvale, per farlo, del
determinismo astrologico degli Arabi (De incantationibus, 10). La nozione di un
ordine causale del mondo (qualche volta ricondotto a Dio come a prima causa),
secondo il concetto neo-platonico e medievale, forma anche il presupposto e lo
sfondo del primo organizzarsi della scienza con Copernico, Keplero e Galilei.
Questo sfondo viene espresso in termini meccanistici da Hobbes e in termini teologici
da Spinoza, ma rimane lo stesso. Hobbes ritiene che il rapporto causale si
riduce all’azione di un corpo sull’altro e che perciò la causa sia ciò che
genera o distrugge un certo stato di cose in un corpo (De corp., IX, 1). La
causa perfetta, cioè da cui l’effetto infallibilmente segue è l’aggregato di
tutti «gli accidenti attivi» quanti sono: con essa l’effetto è già dato (Ibid.,
IX, 3). La concatenazione dei movimenti costituisce l’ordinamento causale del
mondo. Dal suo canto Spinoza, come vede in Dio la sola sostanza, così vede in
lui la sola causa; dalla quale tutte le cose e gli eventi del mondo (i « modi»
della Sostanza) derivano con necessità geometrica (Er., I, 29). La necessità
causale che per Hobbes è una concatenazione dei movimenti, per Spinoza è una
concatenazione di ragioni, cioè di verità che costituiscono una catena
ininterrotta. D'altronde il carattere meccanico della C. non diminuisce, agli
occhi di Hobbes, la natura razionale di essa: chè anzi Hobbes vede nel
meccanismo la sola spiegazione razionale del mondo, nel corpo e nel movimento i
due soli princìpi di spiegazione, e non riconosce altre realtà fuori di essi.
Ciò accade perchè in Hobbes, come in Spinoza, prevale l’identificazione
accettata da Cartesio di causa con ragione. La causa è ciò che dà ragione
dell’effetto, ne dimostra o giustifica l’esistenza o le determinazioni. Così
Cartesio la concepisce quando, definendo analitico il metodo da lui adoperato,
afferma che esso «fa vedere come gli effetti dipendano dalle cause » (Secondes
Réponses). Il che vuol dire che la causa è ciò che consente di dedurre
l’effetto. Che spiegare mediante la causa significhi « dar ragione » di ciò che
esiste, è il significato di chiamava principio del determinismo assoluto. « Il
principio assoluto delle scienze sperimentali, egli diceva (Introduction, I, 2,
7) è un determinismo necessario e cosciente nelle condizioni dei fenomeni. Se
un fenomeno naturale, quale che sia, è dato, mai uno sperimentatore potrà
ammettere che vi sia una variazione nell’espressione di quel fenomeno, senza
che nello stesso tempo siano sopravvenute condizioni nuove nella sua
manifestazione: in più egli ha la certezza 4 priori che queste variazioni sono
determinate da rapporti rigorosi e matematici. L'esperienza ci mostra soltanto
la forma dei fenomeni; ma il rapporto di un effetto con una causa determinata è
necessario e indipendente dall’esperienza, e forzatamente matematico e assoluto
». Ma nonostante queste affermazioni così recise di uno dei maggiori scienziati
e metodologi della scienza dell’800, la scienza stessa seguì un altro corso,
rispetto all’elaborazione e all’uso della nozione di causalità. I progressi del
calcolo delle probabilità, alcune teorie fisiche (specialmente la teoria
cinetica dei gas), poi la meccanica quantistica, fecero un posto sempre
maggiore alla nozione di probabilità e da ultimo, appunto la meccanica
quantistica tende a sostituire l’uso di questa nozione a quella di C. che
pareva indispensabile agli scienziati e ai metodologi dell’800. Si può dire che
l’ultima manifestazione filosofica della teoria classica della C. è la dottrina
di Nicolai Hartmann che, pur considerando la realtà divisa in piani negandolo
alle cose, osservò che l’unico legame accertabile tra le cose è una certa
connessione temporale e che, per es., diciamo che la combustione è causata dal
fuoco unicamente perchè sopravviene insieme col fuoco (AVERROÈ, Destructio
destructionum, I, dub. 3). Con altri inCAUSALITÀ 121 tenti Ockham nel xiv
secolo anticipava la critica di Hume affermando che la conoscenza di una cosa
non porta con sè a nessun titolo la conoscenza di una cosa diversa sicchè « una
proposizione come “il calore riscalda’ in nessun modo si può dimostrare per
sillogismo, ma la conoscenza di essa si può ottenere solo per esperienza;
giacchè se non si esperimenta che alla presenza del calore segue il calore in
un’altra cosa, non si può sapere che il calore produce calore più di quanto si
sappia che la bianchezza produce bianchezza » (Summa Log., III, 2, 38). Qui è
anticipato chiaramente il punto fondamentale della critica di Hume, cioè
l’indeducibilità dell’effetto dalla causa. Hume comincia infatti col negare
proprio che ci sia tra causa ed effetto un tale rapporto. « Noi ci illudiamo,
dice Hume, che se fossimo condotti all'improvviso su questo mondo potremmo
sùbito dedurre che una palla di biliardo può comunicare il movimento ad
un’altra ». Ma in realtà «anche supponendo che mi nasca per caso il pensiero
del movimento della seconda palla quale risultato del loro urto, io potrei concepire
la possibilità di altri mille avvenimenti differenti, per es., che entrambe le
palle rimanessero ferme o che la prima se ne tornasse indietro diritta o
scappasse da uno dei lati in una direzione qualsiasi. Tutte queste supposizioni
sono coerenti e concepibili; e quella che l’esperienza dimostra vera non è più
coerente e concepibile delle altre». La conclusione è che « tutti i nostri
ragionamenti @ priori non potranno mostrare alcun diritto a questa preferenza
a; e che «invano pretenderemmo di predire qualche singolo avvenimento, o
inferire qualche causa o effetto, senza l’aiuto dell’osservazione e
dell’esperienza » (/ng. Conc. Underst., IV, 1). L’osservazione e l’esperienza,
tuttavia, con la ripetizione di certi avvenimenti simili, cioè con le uniformità
che rivelano, fanno nascere l’abitudine a credere che tali uniformità si
verificheranno anche nel futuro e rendono pertanto possibile la previsione su
cui è fondata la vita quotidiana. Ma questa previsione, secondo Hume, non è
giustificata da nulla. Anche dopo che l’esperienza è stata fatta, la
connessione tra causa ed effetto rimane arbitraria (giacchè causa ed effetto
rimangono due avvenimenti distinti) sicchè rimane arbitraria la previsione
fondata su quella connessione. «Il pane che prima mangiavo mi nutriva; cioè un
corpo con certe qualità sensibili era dotato di segrete forze in quel tempo; ma
ne segue che un altro pane debba nutrirmi pure in un altro tempo e che qualità
sensibili simili debbano essere sempre accompagnate da eguali forze segrete? La
conseguenza non sembra affatto necessaria » (/bid., IV, 2). La conclusione di
Hume è che il rapporto causale è ingiustificabile e che la credenza in esso si
può spiegare solo con l’istinto, cioè col bisogno di vivere che la richiede.
Quest’analisi di Hume ha proposto il problema della C. nella forma che esso
conserva ancora nella filosofia contemporanea. Il criterio adoperato da Hume
per dimostrare l’insufficienza della teoria classica è quello della
prevedibilità. Il rapporto causale deve rendere prevedibile l’effetto; ma
nessuna deduzione @ priori può rendere prevedibile un effetto qualsiasi; la
deduzione è perciò incapace di fondare il rapporto causale. La ripetizione
empiricamente osservabile di una connessione tra due eventi è allora l’unico
fondamento per asserire un rapporto causale e il modo in cui essa renda
possibile tale asserzione è il problemul primo punto ci limiteremo a riportare
l’opinione di Nietzsche, secondo il quale la nozione di causa non è che la
trascrizione simbolica della volontà di potenza, cioè del sentimento interno di
forza o di espansione gioiosa. « Fisiologicamente, dice Nietzsche, l’idea di
causa è il nostro sentimento di potenza, in ciò che si chiama volontà; e l’idea
dell’effetto è il pregiudizio di credere che il sentimento di potenza sia la
stessa potenza motrice. La condizione che accompagna un evento e che è già un
effetto di quest’evento, è proiettata come ‘ ragion sufficiente ’ di esso ». In
realtà per Nietzsche l’intera concezione meccanica del mondo non è che un linguaggio
simbolico per esprimere « la lotta e la vittoria di certe quantità di volontà»
(Wille zur Macht, ed. 1901, $ 296). Questa connessione della nozione di C. in
quanto forza produttiva con l’esperienza interna dell’uomo e cioè come
trascrizione 0 concettualizzazione antropomorfica, fu sostenuta nell’800 da
numerosi filosofi per quanto fosse stata criticata e rigettata da Hume (Ing.
Conc. Underst., VII, 1). Si cercò perciò di « purificare » la nozione di C. dai
suoi riferimenti antropomorfici; e il più importante tentativo in questo senso
fu fatto da Comte. Egli ritenne che l’idea stessa di causa quale forza
produttiva o agente fosse propria di uno stato sorpassato della scienza, cioè
dello stato metafisico; e ritenne invece propria dello stato positivo la nozione
di causa come «relazione invariabile di successione e di simiglianza tra i
fatti ». Tale nozione bastava infatti, secondo Comte, a rendere possibile il
còmpito essenziale della scienza che è quella di prevedere i fenomeni in vista
di poterli utilizzare: il rapporto costante, una volta riconosciuto e formulato
in una /egge, rende possibile prevedere un fenomeno quando si verifica quello
con il quale essa è collegato; e la previsione rende a sua volta possibile
agire sui fenomeni stessi (Cours de Phil. positive, I, cap. I, $ 2). Questo
concetto della previsione come còmpito fondamentale della scienza, che Comte
derivava da Bacone ma ch’egli ha fatto ampiamente prevalere nell’indagine
moderna, doveva diventare dominante come criterio della validità e dell'efficacia
della scienza e quindi anche della portata e del significato del principio di
causalità. E la nozione di C. e quella di previsione furono da Comte e
rimasero, dopo di lui, strettamente congiunte. Mach che parte da questa
congiunzione fra le due nozioni vuole sostituire al concetto tradizionale di
causalità il concetto matematico di funzione, cioè di « dipendenza dei fenomeni
tra loro o più esattamente dipendenza dei caratteri distintivi dei fenomeni tra
loro» (Analyse der Empfindungen, 9* ed., 1922, pag. 74). Tuttavia nè Comte nè
Mach mettono in dubbio il carattere necessitante della C. e il determinismo
rigoroso che essa comporta nel mondo dei fenomeni naturali. Conseguentemente,
essi non mettono in dubbio la prevedibilità certa e infallibile dei fatti
naturali di cui siano conosciuti i rapporti causali. Soltanto gli sviluppi
della scienza contemporanea hanno messo in dubbio queste due cose e hanno
perciò provocato la crisi definitiva della nozione di causalità. Nella seconda
metà dell’800 la formulazione matematica della teoria cinetica dei gas, dovuta
a Maxwell e a Boltzmann, servì a interpretare statiticamente il secondo
principio della termodinamica, CAUSALITÀ secondo il quale il calore passa
soltanto da un corpo a temperatura più alta ad un corpo a temperatura più
bassa. La teoria cinetica interpretava questo fatto come un caso di probabilità
statistica; e per la prima volta la nozione di probabilità, che era stata fino
allora limitata nel dominio della matematica, veniva utilizzata nel dominio della
fisica. Tuttavia la teoria cinetica dei gas non rappresentava ancora una
infrazione al principio di C. dominante in tutto il resto della fisica.
Soltanto con gli sviluppi della fisica subatomica e con la scoperta dovuta a
Heisenberg del principio d’indeterminazione (1927) il principio di C. subiva un
colpo decisivo. L’impossibilità, stabilita da tale principio, di misurare con
precisione una grandezza senza scapito della precisione nella misura di
un’altra grandezza collegata, rende impossibile predire con certezza il
comportamento futuro di una particella subatomica e autorizza soltanto
previsioni probabili, fondate su accertamenti statistici, del comportamento di
tali particelle. In conseguenza di ciò, la fisica tende oggi a considerare gli
stessi rapporti di prevedibilità nel cao-temporale degli eventi da un lato e la
classica legge causale dall’altro, rappresentano due aspetti complementari,
escludentisi a vicenda, degli avvenimenti fisici (Die physikalischen Prinzipien
der Quantumtheorie, IV, $ 3). Nel 1932 von Neumann così riassumeva lo stato
della questione: «In fisica macroscopica, non c’è alcuna esperienza che provi
il principio di C., perchè l’ordine causale apparente del mondo macroscopico
non ha altra origine all’infuori della legge dei grandi numeri e ciò del tutto
indipendentemente dal fatto che i processi elementari (che sono i veri processi
fisici) seguano o meno leggi di C.... È solo alla scala atomica, nei processi
elementari, che la questione della C. può realmente essere oggetto di discussione;
ma, sola asserzione circa la realtà, la cui validità possa essere asserita con
più che probabilità ». Questi sviluppi della scienza hanno reso inutili le
discussioni dei filosofi circa il fondamento, la portata e i limiti del
principio di causa. Questo principio non viene più adoperato, nè nella sua
forma classica nè nella sua forma moderna: il concetto del sapere o della
scienza come « conoscenza delle cause» è entrato in crisi ed è stato
praticamente abbandonato dalla scienza stessa. Una nuova terminologia si va
formando, nella quale i termini di condizione (v.) e condizionamento (v.),
definibili mediante i procedimenti in uso nelle varie discipline scientifiche,
prendono il posto del venerando e ormai inservibile concetto di causa. CAUSA
STRUMENTALE (la divinità è perciò moderno e collegato con l’orientamento
panteistico; come appare chiaro dalla osservazione di Hegel (/. c.) che C. sui
è equivalente a effectus sui. CAVERNA, IDOLI DELLA. V. Ipoti. CAVERNA, MITO
DELLA. Il mito esposto da Platone nel VII libro della Repubblica, secondo il
quale, la condizione degli uomini nel mondo è simile a quella di schiavi legati
in una C. che possono scorgere solo le ombre, proiettate sul fondo, delle cose
e degli esseri che sono al di fuori. La filosofia è, in primo luogo, l’uscita
dalla C. e l’osservazione delle cose reali e del principio della loro vita e
della loro conoscibilità, cioè del Sole (il bene [v.]); e, in secondo luogo, il
ritorno alla C. e la partecipazione alle opere e ai valori propri del mondo umano
(Rep., 519 c-d). CAVILLO (lat. Cavillatio; ingl. Cavil). Il termine fu proposto
da Cicerone come traduzione della parola greca sophisma che fu in séguito
tradotta comunemente con fallacia (v.) (De Orat., II, 54, 217; cfr. Seneca, Ep., 111;
QUINTILIANO, Inst. Or., IX, 1, 15). Il
termine veniva ancora ricordato in questo senso nel sec. xvm (cfr. JUNGIUS,
Logica Hamburgensis, 1638, VI, 1, 16). CELANTES. Parola mnemonica usata dagli
Scolastici per indicare il sesto modo della prima figura del sillogismo e
precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una
premessa universale affermativa e di una conclusione universale negativa, come
nell’es.: « Nessun animale è pietra, Ogni uomo è animale, Dunque nessuna pietra
è uomo + (Pietro Ispano, Surumul. logic., 4.08). CELARENT. Parola mnemonica
usata dagli Scolastici per indicare il secondo modo della prima figura del
sillogismo, precisamente quello che consiste di una proposizione universale
negativa, di una proposizione universale affermativa e di una conclusione
universale negativa, come, ad es., « Nessun animale è pietra, Ogni uomo è
animale, Dunque nessun uomo è pietra» (Pietro IsPaNO, Summul. logic., 4.07).
CERTEZZA (gr. BeBawrhg; lat. Certitudo; inglese Certitude, Certainty; franc. Certitude;
tedesco Gewissheit). La parola ha due significati fondamentali: 1° la sicurezza
soggettiva della verità di una conoscenza; 2° la garanzia che una conoscenza
offre della sua verità. La parola ha avuto, nel suo uso store concetti di C.
vengono perciò sempre chiariti assieme e complementarmente, nella tradizione
filosofica. S. Tommaso distingue due modi di considerare la certezza. Il primo
consiste nel considerare la causa di essa e sotto questo aspetto la fede è più
certa della sapienza, della scienza e dell’intelletto perchè si fonda sulla
verità divina, mentre queste tre cose si fondano sulla ragione umana. Nel
secondo modo, la C. si può considerare dalla parte dell’oggetto (subiectum) e
in questo modo è più certo l’oggetto che più s’adatta all’intelletto umano ed è
meno certa la fede (S. 7%., II, 2, q. 4, a. 8). Ovviamente, la C. considerata
nella sua causa è la C. soggettiva cioè la sicurezza soggettiva della verità
della credenza mentre la C. considererto che è costituito dall’insieme delle
conoscenze apprestate da quelli che Vico chiama «filologi», cioè dagli storici,
dai critici, dai grammatici, che si sono occupati dei costumi, delle leggi e
dei linguaggi dei popoli (/bid., degn. 10). Ma in generale l’identificazione
tra C. e verità è rimasta salda nella filosofia moderna. Kant ha chiamato C. la
credenza oggettivamente sufficiente cioè sufficientemente garantita come vera
(Crir. R. Pura, Canone della ragion pura, sez. 3). Egli ha distinto inoltre la
C. empirica, che può essere originaria, cioè connessa con la propria esperienza
storica o derivata da un’esperienza altrui; e la C. razionale che si distingue
da quella empirica per la «coscienza della necessità» e si può quindi chiamare
apodittica (Logik, Intr., $ IX). Hegel stesso ha accettato l’identificazione di
C. e di conoscenza e ha così illustrato i due aspetti, soggettivo e oggettivo,
della C. sensibile: « Nella C. sensibile, un momento è posto come ciò che
semplicemente e immediatamente è, come l’essenza: e questo è l’oggetto. L'altro
momento è posto come l’inessenziale e mediato, che non è in sè ma mediante
qualcosa d’altro: e questo è l’Io, un sapere che sa l’oggetto soltanto perchè
l’oggetto è, un sapere che può essere o anche non essere » (Phaenomen. des
Geistes, I, A, 1). Analogamente i due significati sono stati distinti e
accettati CHIAREZZA E DISTINZIONE 125 da Husserl che ha considerato il fenomeno
della C. come originario, connesso con lo stesso atteggiamento della Parola
mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il primo dei quattro modi del
sillogismo di seconda figura e precisamente quello che consiste di una premessa
universale negativa, di una premessa universale affermativa e di una
conclusione universale negativa come nell’esempio: « Nessuna pietra è animale,
Ogni uomo è animale, Dunque nessun uomo è pietra» (Pietro IsPANO, Summul.
logic., 4.11). CESARISMO (ted. Casarismus). Spengler ha così chiamato « quella
specie di governo che, malgrado tutte le forme del diritto pubblico, è ancora
totalmente sprovvisto di forma nella sua natura interna ». Esso si verifica
alla fine di certi periodi quando le istituzioni politiche fondamentali sono
morte, per quanto minuziosamente conservate nelle loro apparenze: in questi
periodi niente ha significato tranne il potere personale esercitato dal Cesare.
«È il ritorno di un mondo, che ha raggiunto la sua forma, al primitivo, a ciò
che è cosmicamente astorico » (Der Untergang des Abendlandes, ll, 4, 2, $ 14).
CHIACCHIERA (ted. Gerede). Secondo Heidegger uno dei modi d’essere dell’uomo
nella vita quotidiana ed anonima (insieme con la curiosità [v.] e l’equivoco
[v.]). La C. non è un termine dispregiativo ma indica un fenomeno positivo che
costituisce uno dei modi (l’inautentico) di comprendere il mondo e di viverci
dentro. La C. rompe il rapporto del linguaggio coi fatti. Sicchè ciò che viene
detto acquista un carattere d’autorità e si implica che «la cosa stia appunto
così come si dice » (Ste questo farsi è la chiarificazione. CHILIASMO (ingl.
Chiliasm; franc. Chiliasme; ted. Chiliasmus). C. o millenarismo si chiama ogni
credenza nell’avvento di un radicale rinnovamento del genere umano e
nell’instaurazione di uno stato definitivo di perfezione. L°Apocalisse di S.
Giovanni è il maggiore documento di una credenza del genere che fu abbastanza
frequente nei primi tempi del Cristianesimo e si ripresentò spesso anche nel
Medioevo. Gioacchino da Fiore (sec. x) preconizzò l'imminente avvento di una
terza epoca della storia umana, quella dello Spirito Santo (Concordia Novi et
Veteris Testamenti, IV, 35). Kant ha parlato di un C. filosofico « che spera in
uno stato di pace perpetua, fondata in una lega delle nazioni come repubblica
mondiale » (Religion, I, 3). CI (ted. Da). Secondo Heidegger, il ci
dell’Esserci (Dasein) indica non solo il fatto che l’Esserci (= l’uomo) si
trova qua o là, cioè in qualche luogo dello spazio, ma specialmente l’apertura
dell’uomo alla spazialità, cioè al mondo in generale (Sein und Zeit, $ 28). In
altri termini «Esserci» significa essere nel mondo; e l’essere nel mondo è
caratterizzato dalla situazione emotiva e dalla comprensione (v.).
CHIARIFICAZIONE CIBERNETICA (ingl. Cybernetics). La parola significa
propriamente arte del pilota, ma è stata usata dall’americano Wiener per
designare «lo studio dei messaggi, e particolarmente dei messaggi che
effettivamente comandano, ai fini della costruzione delle macchine
calcolatrici» (C., or Control and Communication in the Animal and the Machine,
1947). In senso più generale la C. è intesa oggi come lo studio di «tutte le
possibili macchine », indipendentemente dal fatto che alcune di esse siano o
non siano state prodotte dall'uomo 0 dalla natura. E in questo senso essa offre
lo schema nel quale tutte le macchine individuali possono essere ordinate,
poste in relazione e comprese (cfr. ad es. W. Ross AsHBy, An Introduction to
C., 1957). Le macchine di cui si occupa la C. sono tuttavia gli automi (v.)
cioè quelle capaci di eseguire operazioni che, nel corso della loro esecuzione,
possono essere corrette in modo da rispondere meglio al loro scopo. Questa
correzione si chiama retroazione (feedback). Poichè essa è la caratteristica
fondamentale delle operazioni dell’uomo o di qualsiasi essere intelligente,
tali macchine sono anche dette pensanti o cervelli elettronici perchè il loro
funzionamento è affidato alle proprietà fisiche dell’elettrone. Lo schema del
loro funzionamento si può scorgere nella più semplice operazione di un essere
umano. Se, avendo visto un oggetto in una certa direzione (cioè avendone
ricevuto un messaggio visivo), stendo il braccio per afferrarlo e sbaglio la
direzione o la distanza, subito l’informazione di questo sbaglio rettifica il
movimento del mio braccio e mi consente di dirigerlo esattamente verso
l’oggetto: sia l’operazione, sia la correzione dell’operazione stessa sono in
questo caso guidati da messaggi cioè da informazioni ricevute o trasmesse dal
sistema nervoso che dirige il movimento del braccio. La teoria
dell’informazione fa perciò parte integrante della C. o comunque è strettamente
collegata con essa. Nella C. possono essere distinti gli aspetti seguenti: 1°
lo schema generale dell’informazione; 2° la misura della quantità
d’informazione; 3° le condizioni che rendono possibile l’informazione; 4° gli
scopi dell’informazione. 1° Lo schema di ogni informazione sembra costituito
essenzialmente da tre elementi: il messaggio emesso, la trasmissione, e il
messaggio ricevuto. Ma in realtà le cose sono più complicate perchè il
messaggio emesso (per es., una frase pronunciata in italiano o l’insieme di
punti e linee che costituiscono un messaggio telegrafico) è già l’espressione o
la traduzione o, come anche si dice, la messa in codice di ciò che chi lo
emette (l’emittente) intende trasmettere. Dall'altro lato, il messaggio
ricevuto dev’essere compreso cioè ritradotto o decodificato per essere
registrato dal ricevente e guidarne la condotta. Così il messaggio telegrafico
trasmesso mediante combinazioni di punti e linee dev'essere decodificato o
ritradotto in parole o la frase pronunciata in italiano deve esser compresa
secondo le regole e il dizionario della lingua italiana e non apporterà alcuna
informazione a chi non conosce l’italiano. Già in tutti questi passaggi sono
possibili equivoci, errori di emissioni, di trasmissioni, di codificazione e
decodificazione nonchè disturbi vari dovuti all’interferenza di rumori o di
altri fattori meccanici. 2° Proprio quest’ultima osservazione ha dato l’avvio
alla teoria matematica dell’informazione con un teorema proposto da C. E.
Shannon nel 1948 (cfr. SHANNON e WEAVER, The Mathematical Theory of
Communications, 1949) Shannon osservava che un messaggio inviato attraverso un
canale qualsiasi subisce, nel corso della trasmissione, deformazioni diverse,
per cui al suo arrivo una parte delle informazioni che conteneva è andata
perduta. Egli stabili l'analogia tra questa perdita e l’entropia (v.) che è la
funzione matematica esprimente la degradazione dell’energia che si verifica (in
base al secondo principio della termodinamica) in ogni trasformazione del
lavoro meccanico in calore in quanto la trasformazione inversa (del calore in
lavoro meccanico) non è mai completa. In base a questa analogia la quantità di
informazione, trasmessa può essere calcolata come entropia negativa giacchè,
nella trasmissione dei messaggi, come nella trasformazione dell’energia,
l’entropia negativa decresce continuamente perchè quella positiva (perdita
d’informazione o degradazione di energia) cresce continuamente. Sulla base di
questa analogia, il calcolo delle probabilità, di cui si avvale la
termodinamica, può essere adoperato, con opportuni accorgimenti, per
determinare le formule in cui la misura della quantità di informazione può
essere espressa nei singoli casi, che variano a seconda del numero e della
frequenza dei simboli adoperati, della loro possibilità di combinazione,
dell’interferenza dei fattori di disturbo nella trasmissione dei simboli stessi
e così via. In quest’ultimo caso, si prendono in considerazione i simboli detti
ridondanti che hanno lo scopo di prevedere e correggere gli errori della
trasmissione prima che essi si producano, in modo che il funzionamento della
trasmissione sia corretto in anticipo dalla previsione dei disturbi, col
processo della retroazione. In generale si può dire che più un messaggio è
improbabile, maggiore è l’informazione che esso trasmette. Perciò la quantità
minima di informazione si ha quando l’informazione lascia la scelta soltanto
tra due possibilità ugualmente probabili. Questa quantità minima è stata
assunta come unità di misura dell’informazione ed è stata chiamata bif
(abbreviazione dell’espressione inglese binary digit = cifra binaria). 3° Il
concetto e il calcolo dell’informazione situano l’informazione stessa nel
dominio della probabilità (v.). Questo vuol dire che l’informazione è possibile
solo in un mondo che non è nè necessariamente ordinato, nè necessariamente
disordinato. In un mondo necessariamente ordinato, tutto sarebbe
infallibilmente prevedibile e l’informazione sarebbe inutile. In un mondo
necessariamente disordinato, cioè puro frutto del caso, nessun ordine sarebbe
possibile quindi nessuna informazione trasmissibile. L’informazione trasmette
infatti un ordine determinato di simboli e la misura dell’informazione è la
misura di un ordine. Un messaggio telegrafico consiste, per es., di una certa
combinazione di punti e linee che, se comunica un’informazione, ha un ordine
determinato, scelto tra i moltissimi che sono resi possibili dall’alfabeto
Morse. La misura dell’informazione è data, come si è visto, dall’entropia
negativa cioè da una funzione che esprime la diminuzione dell’entropia che è il
disordine (cioè la distribuzione casuale) degli elementi di un sistema
qualsiasi. Pertanto le condizioni della C., cioè dell’uso teoretico e pratico
della teoria dell’informazione, possono essere ricapitolate nel modo seguente:
a) La negazione di ogni tipo o forma di necessità in tutte le situazioni in cui
l’informazione prende posto. b) La negazione di ogni conoscenza assoluta cioè
totale, definitiva ed eseste condizioni dell’informazione (e quindi della C.
che l’adopera per i più diversi scopi), sono implicitamente o esplicitamente
ammesse da tutti gli scienziati che in qualsiasi campo si avvalgono di questa
disciplina; e costituiscono il fondamento filosofico di essa. Esse sono
riassunte nel passo seguente di F. C. Frick: « Informazione e ignoranza, scelta
previsione e incertezza, sono tutte intimamente correlate... AI confine della
completa conoscenza e della completa ignoranza, sembra intuitivamente
ragionevole parlare di gradi di incertezza. Più vasta è la scelta, più esteso è
l’insieme delle alternative che si aprono davanti a noi, più incerti noi siamo
circa come procedere e di maggiore informazione abbiamo bisogno per prendere la
nostra decisione » (Information Theory, in Psychology: A Study of a Science, 22
ediz., Sigmund Koch, 1959, pag. 614-15). 4° Il quarto aspetto della C. è
costituito dagli usi e dagli scopi che essa può avere nei più diversi campi
dell’attività umana: a) In primo luogo la C. è un potente strumento per la
spiegazione e la previsione dei fenomeni. Uno dei suoi successi più clamorosi
si è avuto nel campo della generica (v.), dove ha reso possibile spiegare la
trasmissione dei caratteri ereditari mediante le varie combinazioni degli
elementi di un alfabeto genetico, costituito dagli acidi desossiribonucleici,
costituenti la doppia elica del DNA (Watson e Crick, 1953). La teoria
dell’evoluzione (v.), sull’impianto darwiniano, considera l’evoluzione stessa
come un processo di variazione a caso e di sopravvivenza selettiva: due
concetti che sono (come si è visto) quelli fondamentali della teoria
dell’informazione. Nella psicologia, nell’antropologia, nella sociologia tali
concetti sono adoperati a spiegare ogni forma di organizzazione e sono ora
generalizzati in una teoria dei sistemi, applicabile a tutti questi campi
(cfr., ad es., W. BUCKLEY, Sociology and Modern Systems Theory, 1967, e
relativa bibl.). b) In secondo luogo la C. è utilizzata per la costruzione di
macchine sempre più complesse, alle quali sono affidate operazioni e compiti,
ritenuti, sino a poco tempo fa, propri dell’uomo. Sui limiti e le possibilità
di queste macchine, i pareri di scienziati e filosofi sono discordi. C'è chi
ritiene che, in un futuro più o meno prossimo, esse possano sostituirsi
all'uomo nella soluzione di tutti i suoi problemi e anche nelle scelte decisive
che concernono l’avvenire o la sopravvivenza del genere umano. Altri avanzano
dubbi su questa possibilità illimitata, che sembra fra l’altro contraddetta dal
teorema di Gédel (v. MATEMATICA) che tra le sue implicazioni, ha anche quella
che non è possibile costruire una macchina che risolva ogni problema. Si
insiste, inoltre, sulla differenza tra l’uomo e la macchina dovuta alla
presenza nell’uomo del fattore coscienza (v.). Raymond Ruyer ha, per es.,
affermato che « senza coscienza non c’è informazione » e che perciò se il mondo
fisico è quello delle macchine fossero abbandonati a se stessi, « tutto
sponCICLO DEL MONDO taneamente diverrebbe disordine e ci sarebbe la prova che
non c’è mai stato ordine vero, ordine consistente o, in altri termini che non
c'è mai stata informazione» (La cybernétique et l’origine de l’information,
1954). Si insiste, anche da più parti, su fondamenti vari (spesso di natura
metafisica o morale) sulla differenza fra l’uomo e la macchina, ma in generale
viene riconosciuto che le macchine hanno gli stessi limiti dell’uomo, seppure a
un grado inferiore, e che si distinguono dall’uomo per l’enorme « complessità »
del cervello umano e per la capacità di quest’ultimo di prevedere in misura,
corrispondentemente maggiore, gli avvenimenti futuri. Wiener ha insistito
sull’esigenza di una simbiosi fra l’uomo e la macchina, per la quale è
necessario, da parte dell’uomo, avere una chiara idea degli scopi che deve
prefiggersi nella programmazione e nell’uso delle macchine. Una macchina
infatti può, eseguendo il suo programma, mettere in atto operazioni che, per
l’insorgere di circostanze impreviste, possono rivolgersi contro gli interessi
e la vita stessa dell’uomo. Anche una macchina che può imparare e prendere
decisioni sulla base di una conoscenza acquisita, ha osservato Wiener, non sarà
obbligata a decidere nel senso in cui avremmo deciso noi stessi o almeno in
modo per noi accettabile: « Per colui che non ha coscienza di ciò, addossare il
problema della propria responsabilità alla macchina (sia che questa possa
apprendere o no) vorrà dire affidare la propria responsabilità al vento e
vedersela tornare indietro tra i turbini della tempesta » (7he Human Use of
Human Beings, 1950, cap. XI; cfr. pure God et Golem, Inc., 1964). I problemi
della C. si collegano così strettamente, oltre che a quelli dell’ontologia e
della gnoseologia, anche a quelli dell’etica. CICLO DEL MONDO (gr. xixdog;
ingl. Cosmic Cycle; franc. Cycle cosmique; ted. Kosmic Cyklus). La dottrina
secondo la quale il mondo ritorna, dopo un certo numero di anni, al caos
primitivo dal quale uscirà di nuovo per ricominciare il suo corso sempre
uguale. La dottrina è suggerita ai più antichi filosofi dalle vicende cicliche
constatabili: l’alternarsi del giorno e della notte, delle stagioni, delle
generazioni animali, ecc. La nozione del C. cosmico si trova nell’orfismo, nel
pitagorismo, in Anassimandro (HyP., Refut. omn. haeres., I, 6, 1), in Empedocle
(Fr. 17, Diels), in Eraclito (Fr. 5, Diels); ed inoltre negli Stoici secondo i
quali: «Quando nel loro moto gli astri siano tornati allo stesso segno e alla
latitudine e longitudine in cui ciascuno era al principio, accade, nel C. dei
tempi, una conflagrazione e distruzione totale; poi di nuovo si ritorna dal
principio allo stesso ordine cosmico e di nuovo muovendosi gli astri
ugualmente, ogni avvenimento accaduto nel precedente C. torna a ripetersi senza
alcuna differenza. Vi sarà infatti di nuovo Socrate, di nuovo Platone e di
nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi amici e concittadini; le stesse cose
credute e gli stessi argomenti discussi, ed ogni città e villaggio e campagna
ritornerà ugualmente. Questo ritorno universale si effettuerà non una sola
volta ma molte volte e all’infinito » (NEMESIO, De nat. hom., 38). Nella
filosofia moderna questa dottrina è stata ripresa da Federico Nietzsche: per il
quale l'eterno ritorno è il sì che il mondo dice a se stesso, la volontà
cosmica di riaffermarsi e di essere se stessa, quindi l’espressione cosmica di
quello spirito dionisiaco che esalta e benedice la vita. «Il mondo, dice
Nietzsche, si afferma da sè, anche nella sua uniformità che rimane la stessa
nel corso degli anni, si benedice da sè, perchè è ciò che deve eternamente
ritornare, perchè è il divenire che non conosce sazietà nè disgusto nè fatica»
(Wille zur Macht, ed. e fuoco) che compongono i corpi sublunari; sicchè il C.
che si muove di movimento circolare, che non ha l’opposto, è incorruttibile e
ingenerabile (De cael., Il, 1 sgg.). La dottrina dell’incorruttibilità dei C.
ha dominato tutta la fisica antica e medie9 — ABDAGNANO, Dizionario di
filosofia, vale. Nell’antichità fu forse messa in dubbio da Teofrasto (cfr.
STEINMETZ, Die Physik des Theophrast, 1964, pag. 158 sgg.). Nel Medioevo il
primo a metterla in dubbio fu Ockham nel sec. xiv, il quale nega la diversità
tra la materia che compone i corpi celesti e la materia che compone i corpi
sublunari e ammette come sola differenza tra questi e quelli il fatto che la
materia dei corpi celesti non può essere trasformata per l’azione di alcun
agente creai e senza entrare a far parte dell’esistenza soggettiva (PAi/., III,
pag. 137). Una cosa, una persona, una dottrina, una poesia possono valere come
simboli o C. della trascendenza; simboli e C. sono anche le siruazioni-limite
(v.). CINEMATOGRAFICO, MECCANISMO (franc. Mécanisme cinématographique). Così
Bergson chiamò il procedimento del pensiero nei riguardi del movimento: il
pensiero prenderebbe sul movimento istantanee immobili alle quali aggiungerebbe
un movimento artificiale esterno. Su questo procedimento sarebbe fondata
«l'illusione meccanistica » (Évol. Créatr., cap. IV). CINICA, FILOSOFIA (ingl.
Cynicism; francese Cynisme; ted. Cynismus). La dottrina di una delle scuole
socratiche e precisamente di quella fondata da Antistene di Atene (sec. rv a.
C.) nel Ginnasio Cinosarge. Proprio da questo Ginnasio i Cinici probabilmente
derivarono il loro nome; oppure, come altri dicono, lo derivarono dal loro
ideale di vita conforme alla semplicità (e alla sfacciataggine) della vita
canina. La tesi fondamentale del cinismo è che l’unico fine dell’uomo è la
felicità e la felicità consiste nella virtù. Fuori della virtù non esistono
beni sicchè fu proprio dei Cinici il disprezzo per le comodità, gli agi e i
piaceri e l’ostentazione del più radicale disprezzo per le convenzioni umane e
in generale per tutto ciò che allontana l’uomo dalla semplicità naturale di cui
gli animali dànno l’esempio. La parola « cinismo » è rimasta nel linguaggio
comune per l’appunto a designare una certa sfacciataggine. 130 CIRCOLO (gr.
xixdo, Sdandoc bro; lat. Circulus; ingl. Circle; franc. Cercle; ted.
Zirkelbeweiss). La dimostrazione in circolo o reciproca è, secondo Aristotele,
quella che consiste nel dedurre dalla conclusione e da una delle due premesse
di un sillogismo (quest’ultima assunta nel rapporto di predicazione inverso)
l’altra conclusione del sillogismo stesso (An. Pr., II, 5, 57b sgg.).
Aristotele ammette la piena validità di questo procedimento e ne stabilisce i
limiti e le condizioni a proposito di ciascuna figura del sillogismo. Esso
pertanto non ha niente a che fare col « C. vizioso + o «petizione di principio
», da lui enumerata fra i sofismi extra dictionem (cioè non dipendenti
dall’espressione linguistica) e che consiste nell’asgismo è un diallele perchè
in esso la premessa maggiore, per es., «Tutti gli uomini sono mortali »
presuppone accertata la conclusione « Socrate è mortale » (/pot. Pirr., II, 195
seguenti). Questa critica trascura un punto fondamentale della logica di
Aristotele e cioè che le premesse del sillogismo non sono stabilite per
induzione ma esprimono la causa o sostanza necessaria delle cose. Per es.,
quando si dice « Tutti gli uomini sono mortali» non si esprime l’osservazione
che Tizio, Caio, Sempronio sono mortali, bensì un carattere che appartiene alla
sostanza o essenza necessaria dell'uomo ed è perciò la causa o ragion d’essere
della conclusione. Il C. viene solitamente assunto come segno della incapacità
di dimostrare. Hegel osservò tuttavia che « La filosofia forma un C. +: perchè
essa, in ognuna delle sue parti, deve prendere le mosse da qualcosa di
indimostrato, che è invece il risultato di qualche altra sua parte (Fi/. de/
dir., $ 2, Zusatz). A sua volta Rosmini (Logica, 1854, pag. 274 n) parlò di un
«C. solido» per cui la conoscenza della parte suppone quella del tutto e
reciprocamente. E Gentile rifacendosi a tali esempi a sua volta ritenne che il
diallele o C., quale Sesto Empirico l’ha mostrato in atto nel sillogismo, è la
CIRCOLO caratteristica propria del « pensiero pensato », cioè del pensiero come
oggetto di se stesso. « Questo diallelo, egli disse, che è stato sempre lo
spauracchio del pensiero, sarà, anzi è, la morte del pensiero pensante; ma è la
vita, la stessa legge fondamentale del burgo (1559-73), metodo che consisteva
prevalentemente nello spiegare ogni singolo passo mediante il senso totale
della Scrittura. CLASSIFICAZIONE CLAVIS UNIVERSALIS. Questo termine fu usato
tra il °500 e il ”600 per indicare la tecnica della memoria e dell’invenzione,
che ha il suo precedente più illustre nell’ Ars magna di Lullo e il suo sbocco
più importante nella Caratteristica universale di Leibniz (cfr. PaoLo Rossi,
Clavis universalis, 1960) (v. CARATTERISTICA; COMBINATORIA; MNEMONICA).
CLINAMEN. V. DECLINAZIONE. COCCODRILLO, DILEMMA DEL. Vedi DILEMMA. COERENZA
(ingl. Coherence; franc. Cohérence; ted. Zusammenhang). 1. L'ordine, la
connessione, l'armonia di un sistema di conoscenza. In questo senso Kant
attribuiva alle conoscenze a priori il còmpito di mettere ordine e C. nelle
rappresentazioni sensibili (Crit. R. Pura, 1* ediz., Intr., $ 1). E in tal
senso la C. è stata assunta da alcuni idealisti inglesi come criterio della
verità. Secondo Bradley, ad es., la realtà è una Coscienza assoluta che abbraccia,
nella forma di una C. armoniosa, tutto il molteplice disperso e contraddittorio
dell’apparenza sensibile (Appearance and Reality, 2* ediz., 1902, pag. 143
sgg.). La C. in questo senso è assai più della semplice compatibilità (v.) fra
gli elementi di un sistema: implica, infatti, non solo l'assenza della
contraddizione, ma la presenza di connessioni positive che stabiliscano armonia
tra gli elementi del sistema. In questa accezione il termine non ha significato
logico. 2. Lo stesso che compatibilità. Questo significato è assunto
frequentemente dal termine italiano e da quello francese, giacchè in queste
lingue il termine compatibilità non si presta a esprimere il carattere del
sistema che è privo di contraddizione, ma designa piuttosto il carattere di non
contraddittorietà reciproca degli enunciati. COESISTENZA (ingl. Coexistence;
fr. Coexistence; ted. Mitsein o Mitdasein). Nell’esistenzialismo contemporaneo s’intende con
questo termine il modo specifico in cui l’uomo è con gli altri uomini nel
mondo: modo che è diverso da quello in cui egli si trova ad essere, nel mondo,
con le altre cose. Questo significato specifico del termine è dovuto a
Heidegger che ha distinto la presenza delle cose come mezzi o strumenti
utilizzabili dal con-esserci (Mifdasein), o C. degli altri con l’Io. La stretta
connessione della C. con l’esistenza fa sì che non vi possa essere comprensione
di sè senza la comprensione degli altri. « Nella comprensione dell’essere
propria dell’Esserci, dice Heidegger, è implicita la comprensione degli altri,
e ciò perchè l’essere dell’Esserci è coesistenza » (Sein und Zeit, $ 26).
COGITO. Si abbrevia in questa parola l’espressione cartesiana « Cogito ergo sum
(Discours, IV; Méd., II, 6 che esprime l’autoevidenza esistenziale del soggetto
pensante, cioè la certezza che il soggetto pensante ha della sua esistenza in
quanto tale. Si tratta di un movimento di pensiero che è stato ripresentato
varie volte nella storia, sia pure per fini diversi. S. Agostino si avvalse di
esso per confutare lo scetticismo accademico, cioè per dimostrare che non si
può rimaner fermi al dubbio o alla sospensione dell’assenso. Chi dubita della
verità è certo di dubitare, cioè di vivere e di pensare; consegue dunque nel
dubbio stesso la certezza che lo rapporta alla verità (Contra Acad., III, 11;
De Trin., X, 10; Solil., II, 1). Da S. Agostino lo stesso atteggiamento di
pensiero passa in alcuni Scolastici; per es., in S. Tommaso: « Nessuno, egli
dice, può pensare con assenso [cioè credere] di non essere; giacchè, in quanto
pensa qualcosa, percepisce di essere» (De ver., q. 10, a. 12, ad. 7).
Contemporaneamente a Cartesio il principio è ripreso da Campanella (Mer., I, 2,
1). Per quanto questo movimento di pensiero sia stato fatto servire a fini
diversi (S. Agostino lo utilizza per dimostrare la trascendenza della Verità
[che è Dio stesso] e la presenza di essa all’anima umana; Campanella lo
utilizza per dimostrare la priorità di una « nozione innata di sè » su ogni
altra specie di conoscenza; e Cartesio per giustificare il suo metodo
dell’evidenza) e il suo preciso significato sia quindi diverso da un filosofo
all’altro, poche volte si è tuttavia dubitato della sua validità generale. Ad
ogni filosofia che faccia appello alla coscienza (v.) come allo strumento della
ricerca filosofica, il C. deve apparire indubitabile perchè in realtà esso non
è che la formulazione del postulato metodologico di una tale filosofia. Ma
anche filosofie che non riconoscono tale postulato fanno uso del C. e lo
riconoscono valido. Così fa, per es., Locke che vede in esso « il più alto
grado di certezza + (Saggio, IV, 9, 3). E così fa Kant che vede in esso la
stessa appercezione pura (v.) o coscienza riflessiva. Nella filosofia
contemporanea, Husserl assume esplicitamente il C. come punto di partenza della
sua filosofia (/deen, I, $ 46; Méd. cart.,8 1) e ricorre ad esso continuamente
nel corso delle sue analisi, considerandolo come la struttura stessa
dell’esperienza vissuta (Erlebniss) o coscienza. Heidegger stesso non mette in
dubbio la validità del C. per quanto rimproveri a Kant di aver ristretto con
esso l’io a un «soggetto logico», isolato, «soggetto che accompagna le
rappresentazioni in un modo ontologicamente del tutto indeterminato» (.Sein und
Zeit, $ 64). Di fronte a una così ampia accettazione, le critiche sono state
assai scarse. Si può pensare alla critica di Vico; ma è facile vedere che
questa non è veramente una critica del Cogito. Vico nega che la «coscienza» del
proprio essere possa costituire la «scienza » di esso 0 almeno il principio di
questa scienza. La scienza infatti è conoscenza di causa e il C. cartesiano
sarebbe principio di scienza solo nel caso che la coscienza fosse la causa
dell’esistenza (De antiquissima Italorum sapientia, I, 3). Ma con ciò Vico non
nega che il C. costituisca una certezza valida, anzi si preoccupa di
correggerlo affermando che Cartesio avrebbe dovuto dire non «io penso dunque
sono + ma * Io penso dunque esisto » (Prima risposta al Giornale dei
letterati,83). La critica di Kierkegaard si rivolge alla portata, più che alla
validità, del C. cartesiano: «Il principio di Cartesio ‘io penso, dunque sono’
è, al lume di logica, un gioco di parole; poichè quell’ io sono * non significa
altro, logicamente, se non ‘io sono pensante’ ovvero ‘io penso» (Diario, V, A,
30). In altri termini, secondo Kierkegaard, la proposizione cartesiana è
puramente tautologica, giacchè il suo presupposto è l’identità dell’esistenza
con il pensiero. Una tautologia però è ancora una proposizione valida. Nel 1868
Peirce rispondeva negativamente alla questione «se abbiamo una autocoscienza
intuitiva », nella quale la parola autocoscienza stava per conoscenza della
propria esistenza. Peirce non affrontava la validità del C. ma con prove
psicologiche e storiche credeva di poter concludere che +« non c'è necessità di
supporre un’autocoscienza intuitiva, dal momento che l’autocoscienza può
facilmente essere il risultato di un’inferenza + (Coll. Pap., 5.263). Neppur
questa è così, propriamente parlando, una critica del cogito. Pertanto la più
semplice e decisiva critica a questa nozione si può ritenere quella di
Nietzsche: « ‘Si pensa, dunque c’è qualcosa che pensa ’: a questo si riduce
l’argomentazione di Cartesio. Ma questo significa soltanto ritenere come vera a
priori la nostra credenza nell’idea di sostanza. Dire che, quando si pensa,
bisogna che ci sia qualcosa ‘che pensi * è semplicemente la formulazione
dell’abitudine grammaticale che all’azione aggiunge un attore. In breve qui non
si fa altro che formulare un postulato logico-metafisico, in luogo di
contentarsi di constatarlo... Se si riduce la proposizione a questo: ‘Si pensa,
dunque ci sono pensieri” ne risulta una semplice tautologia e la ‘realtà del
pensiero’ rimane fuori questione sicchè, in questa forma, si è portati a
riconoscere l’ ‘apparenza’ del pensiero. Ma Cartesio voleva che il pensiero non
fosse una realtà apparente, ma fosse un in sè» (Wille zur Macht, ed. 1901, $
260). Queste considerazioni di Nietzsche costituiscono una critica, che molti
filosofi contemporanei accetterebbero, del principio del cogito. Ad essa
infatti fa esplicito riferimento Carnap che sostanzialmente la ripete. «
L'esistenza dell’io, egli dice, non è un originario stato di fatto del dato.
Dal C. non segue il sum; da ‘Io sono cosciente’ non segue che io sono ma soltanto
che vi è un’esperienza cosciente (Er/ebniss). L’io non 136 COINCIDENTIA
appartiene all’espressione delle fondamentali esperienze vissute, ma viene
costituito più tardi, essenzialmente allo scopo di delimitare il suo àmbito da
quello dell'altro... Al posto dell’espressione di Descartes bisognerebbe porre
quest'altra: ‘Questa esperienza cosciente; quindi c’è un’esperienza cosciente
’; ma questa sarebbe certamente una pura tautologia » (Der /ogische Aufbau der
Welt, 1928, $ 163). Questa critica è però ben lungi dall’essere condivisa anche
dagli stessi empiristi logici e Ayer, per es., riconferma sostanzialmente la
validità del principio cartesiano come verità logica, pur limitandone la
portata. « Se qualcuno pretende di sapere che egli esiste o che è conscio, la
sua pretesa deve essere valida semplicemente perchè il suo essere valida è una
condizione del suo essere fatta » (Problem of Knowledge, 1956, pag. 53). La
posizione di Nietzsche su questo punto era più radicale e, probabilmente, più
corretta (v. COSCIENZA). COINCIDENTIA OPPOSITORUM. Espressione adoperata per la
prima volta da Niccolò Cusano per esprimere la trascendenza e l’infinità di
Dio: il quale sarebbe C. del massimo e del minimo, del tutto e del nulla, del
creare e del creato, della complicazione e dell’esplicazione, in un senso che
non può essere inteso ed afferrato dall’uomo (De docta ignor., I, 4; De
coniecturis, II, 1). Nello stesso senso si servirono dell’espressione Reuchlin
(De arte cabalistica, 1517) e Giordano Bruno che se ne avvale per definire
l’universo ch'egli identifica con Dio. L’universo « comprende tutte contrarietà
di nell’esser suo in unità e convenienza» (Della causa [v.}). COLLETTIVISMO
(ingl. Collectivism; francese Collectivisme; ted. Kollektivismus). 1. Questo
termine è stato coniato nella seconda metà dell’800 per indicare il socialismo
non statalista di fronte a quello statalista. Furono collettivisti in questo
senso il socialismo riformista d’anteguerra ed è collettivista il laburismo
inglese in quanto vuole una società senza squilibri di classe, quindi
collettivizzata; ma non controllata con la forza da una élite privilegiata che
goda di un livello di vita radicalmente diverso da quello della popolazione. 2.
In senso più vasto, s'intende per C. ogni dottrina politica che si opponga
all’individualismo e che in particolare sostenga l’abolizione della proprietà
privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. In questo senso sono
collettivistici sia il socialismo che il comunismo, in tutte le loro forme.
COLLIGAZIONE (ingl. Colligation; franc. Colligation; ted. Kolligation).
Operazione descrittiva invocata da Whewell (Novum organum renovatum, 1840, II,
cap. 1 e 4) per spiegare il modo in cui si possono raccogliere un certo numero
di dettagli in una sola proposizione. Stuart Mill (Logic, III, 2, 4) riprese
questa nozione collegandola a quella di induzione. « L’asserzione che i pianeti
si muovono in ellissi fu un modo di rappresentare fatti osservati, quindi una
C.; l’asserzione che essi sono attratti verso il Sole è l’asserzione di un
nuovo fatto, inferito per induzione ». La parola è caduta in disuso nella
logica contemporanea. COLPA (lat. Culpa; ingl. Guilt; franc. Culpabilité; ted.
Schuld). Originariamente, termine giuridico per indicare l’infrazione di una
norma compiuta « involontariamente », cioè senza averla progettata; in
contrapposto al delitto (dolus) che è la trasgressione progettata. Ecco come
Kant esprime la cosa: « Una trasgressione involontaria ma imputabile si chiama
colpa; una trasgressione volontaria (cioè unita con la coscienza che si tratta
proprio di trasgressione) si chiama delitto » (Mer. der Sitten, I, Intr., $ 4).
Per Heidegger la colpa è «un modo d’essere dell’Esserci » cioè una
determinazione essenziale dell’esistenza umana in quanto tale. Egli distingue
due significati di esser colpevole (corrispondentemente ai due significati del
tedesco Schw/d che significa debito e colpa): l’essere in debito verso qualcuno
e l’esser causa, autore od occasione di qualche cosa. « In questa forma di ‘
aver C. * in qualcosa si può ‘esser colpevole ’ senza ‘ essere in debito” con
qualcuno o essergli debitore. E, rovesciando si può dovere qualcosa a qualcuno
senza averne la C. (esserne la causa)» (Sein und Zeit, $ 58). In un senso
analogo, Jaspers ha posto la C. tra le situazioni-limiti dell’esistenza umana,
cioè tra quelle situazioni alle quali l’uomo non può sfuggire (Phil., II, pag.
246 sgg.). COMBINATORIA, ARTE (lat. Ars combinatoria). Con il nome di ars
combinatoria Leibniz designa il progetto, o meglio l’ideale, di una scienza
che, partendo da una characteristica universalis (vedi CARATTERISTICA), ossia
da un linguaggio simbolico che assegnasse un segno ad ogni idea primitiva,
combinasse in tutti i modi possibili questi segni primitivi, ottenendo così
tutte le possibili idee. Il progetto, derivante in parte dalle idee esposte da
R. Lullo nella Ars Magna, aveva già sedotto molti pensatori del *500 e °600
(tra gli altri, Agrippa di Nettesheim, A. Kircher, P. Gassendi, G. Dalgarno) e
venne parzialmente coltivato anche da continuatori di Leibniz, come Wolff e
Lambert. G. P. COME SE (ted. A/s ob). Espressione che ricorre frequentemente
nelle opere di Kant per indicare il carattere ipotetico o semplicemente
regolarivo di certe affermazioni. Per es., le cose in sè possono essere pensate
per analogia «come se fossero sostanze, cause, ecc. + (Crit. R. Pura,
Dialettica, V, d). L’imperativo categorico ordina di agire « come se l’essere
razionale fosse un membro legislatore nel regno dei fini » (Grundlegung zur
Met. der Sitten, II). Noi dobbiamo trattare le massime della libertà «come se
fossero leggi della natura » (/bid., III). La facoltà del giudizio considera
gli oggetti naturali « come se la finalità della natura fosse intenzionale »
(Critica del Giud., $ 68). Il come se kantiano non è una mera finzione: è
semplicemente l’interpretazione, in termini di operazioni o di comportamenti,
di proposizioni il cui senso letterale e metafisico appare al di là della
confutazione e della conferma, perciò inesistente. Come finzione interpretò
invece il come se Hans Vaihinger nella sua Filosofia del come se (1911); la cui
tesi è che tutti i concetti e le categorie, i principi e le ipotesi di cui si
avvalgono le scienze e la filosofia, sono finzioni (v.) prive di validità
teoretica, spesso intimamente contraddittorie, che sono accettate e mantenute
solo in quanto utili. Un altro kantiano Paolo Natorp, aveva ristretto il come
se al dominio dell’arte, la quale rappresenterebbe le cose come se ciò che è
dovesse ancora essere o come se ciò che deve essere fosse anche in realtà (Die
Religion innerhalb der Grenzen der Humanitàt, 1894). COMICO (gr. yedotoy; lat.
Comicus; ingl. Comic; franc. Comique; ted. Komisch). Ciò che fa ridere, o la
possibilità di far ridere, mediante la risoluzione impreveduta di una tensione
o di un contrasto. La più antica definizione del C. è quella di Aristotele, che
lo considerò come « qualcosa di sbagliato e di brutto che non procura nè dolore
nè danno » (Poet., 5, 1449a 32 sgg.). Lo «sbagliato» come carattere del C.
significa il carattere imprevisto, perchè non ragionevole, della soluzione, che
il C. presenta, di un contrasto o di una situazione di tensione. Queste
notazioni sono rimaste sostanzialmente le stesse nella storia della filosofia.
Hobbes ha insistito sul carattere inaspettato del C., e lo ha connesso con la
coscienza della propria superiorità (De homine, XII, $ 7). Alla tensione e
quindi alla soluzione inaspettata di essa riduce il C. Kant: «In tutto ciò che
è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, deve esserci qualcosa di
assurdo (in cui per conseguenza l’intelletto per se stesso non può trovare
alcun piacere). Il riso è un’affezione che deriva da un’aspettazione tesa, la
quale d'un tratto si risolve in nulla. Proprio questa risoluzione, che certo
non ha niente di rallegrante per l'intelletto, indirettamente rallegra per un
istante con molta vivacità » (Crif. del Giud., $ 54). L’Illuminismo vide nel
C., e nel riso che lo esprime, un correttivo contro il fanatismo e la
manifestazione di quel « buon umore » che Shaftesbury considerava come il
miglior correttivo del fanatismo stesso (Letter on Enthusiasm, II). Hegel
invece lo considerava come l'espressione di un possesso sodisfatto della
verità, della sicurezza che si prova di sentirsi al di sopra delle contraddizioni
e di non essere in una situazione crudele o disgraziata. Lo identificava, in
altri termini, con una felicità sicura di sè, che può perciò sopportare anche
lo scacco dei suoi progetti. E in ciò egli lo distingueva dal semplice
risibile, in cui vedeva «la contraddizione per la quale l’azione si distrugge
da sè e lo scopo si annulla realizzandosi » (Vorlesungen liber Aesthetik, ed.
Glockner, III, p. 534). Questa nozione hegeliana del C. è tuttavia
un’idealizzazione romantica del fenomeno, più che un’analisi di esso; è
l’esagerazione di quel sentimento di superiorità che già Aristotele notò
trovarsi nel C. quando considerò la commedia come «imitazione di uomini
ignobili» (Poer., 5, 1448, 32). La nozione tradizionale del C. esce
riconfermata dall’analisi che ne ha fatto Bergson (Le rire, 1900), la quale
rimane fino ad oggi la più ricca e precisa. Egli nota che il C. si ha quando un
corpo umano fa pensare a un semplice meccanismo; o quando il corpo prende il
sopravvento sull’anima o la forma sorpassa la sostanza e la lettera lo spirito;
o quando la persona ci dà l’impressione di una cosa; tutti casi, questi, nei
quali il C. è posto in un’aspettativa che viene delusa con una soluzione
imprevista e, come avrebbe detto Aristotele, sbagliata. Allo stesso modo, il C.
delle situazioni o delle espressioni che si ha quando una situazione può
interpretarsi in due modi differenti o per l’equivocità delle espressioni
verbali; è perciò sempre uno sbaglio, una soluzione irragionevole data ad una
aspettativa di soluzione. Al C., Bergson attribuisce anche un potere educativo
e correttivo. « Il rigido, il bell'e fatto, il meccanismo in opposizione
all'agile, a ciò che è perennemente mutevole, al vivente, la distrazione in
opposizione alla previsione, infine l’automatismo in opposizione all’attività
libera, ecco ciò che il riso sottolinea e vorrebbe correggere » (/bid., cap.
II, in fine). COMINCIAMENTO (lat. Inceptio; ingl. Beginning; franc. Début; ted.
Anfang). Propriamente, l’inizio di una cosa nel tempo: che può coincidere o no
col principio (v.) o con l’origine (v.) della cosa stessa. Questa distinzione è
importante in taluni casi: per es., secondo S. Tommaso la creazione, come C.
del mondo nel tempo, è materia di fede, ma non lo è come produzione dal nulla
da parte di Dio (S. 7h., I, q. 46, a. 2). Hegel ha affermato che il C. della
filosofia è relativo, nel senso che ciò che appare come C. è, da un altro punto
di vista, risultato (Fil. del dir, $ 2, Zusatz). Comunque, l’Assoluto si trova,
secondo Hegel, piuttosto nel risultato che nel C. perchè questo « come dapprima
e immediatamente vien pronunziato, è solo l’universale », e l’universale in
questo senso è solo l’astratto che non può valere come concretezza e totalità;
per es., le parole «tutti gli animali» che esprimono l’universale di cui si
occupa la zoologia, non possono valere come l’intera zoologia (Phaenom. des
Geistes, Intr., II, 1). Con tutto ciò, la filosofia ha spesso cercato il C.
assoluto da far coincidere con lo stesso « principio » di essa: di qui la
ricerca del « primo principio » del filosofare. COMMUTATIVO (lat. Commutativus;
inglese Commutative; franc. Commutatif; ted. 1° Ausgleichend; 2° Kommutativ).
1. Gli Scolastici hanno chiamato C. perchè ha luogo negli scambi
(commufationes) la specie di giustizia che Aristotele chiamava « correttiva »
(vò Stopfwrwxdy Sixatov): la quale, a differenza della giustizia distributiva,
che dà a ciascuno secondo i suoi meriti, serve a pareggiare i vantaggi e gli
svantaggi in tutti i rapporti scambievoli tra gli uomini, sia volontari che
involontari (Et. Nic., V, 4, 1131 b 25) (v. GIUSTIZIA). 2. Proprietà C. o legge
C. si dice l’assioma (0 postulato) per il quale x o y = y o x. Questa legge è a
fondamento dell’addizione e della moltiplicazione nell’aritmetica e della
teoria dei numeri reali. Algebra « non C.» è stata chiamata la teoria delle
matrici dovuta all’inglese Arturo Cayley (1821-95) che è stata utilizzata dalla
meccanica dei quanti; perchè essa non obbedisce alla legge C. considerando come
unità schiere di numeri (quali sarebbero, per es., quelli scritti sui quadrati
di una scacchiera). COMPARATIVO (ingl. Comparative; francese Comparé; ted.
Vergleichend). Questione C. chiamano i logici tradizionali quella nella quale
si domanda se qualcosa sia minore o maggiore, migliore o peggiore, ecc., di
un’altra; per es.: « Se la giustizia sia da preferirsi alla fortezza »
(JuNGIUS, Logica, V, 2, 42). La Logica di Porto Reale chiamò C. le proposizioni
che istituiscono un confronto del genere (ARNAULD, Logique, II, 10, 3): e
questa espressione rimane nella logica tradizionale (confronta B. ERDMANN,
Logik, I, $ 40, 229). COMPASSIONE (gr. &xeoc; lat. Commiseratio; ingl.
Pity; franc. Compassion; ted. Mileid). La partecipazione alla sofferenza altrui
in quanto è qualcosa di diverso da questa stessa sofferenza. Quest'ultima
limitazione è importante perchè la C. non consiste nel provare la stessa
sofferenza che la suscita. L'emozione suscitata dal dolore di un’altra persona
si può chiamare C. solo se è il sentimento di una solidarietà più o meno
attiva, ma che non ha niente a che fare con un’identità di stati emotivi tra
chi ha C. e chi è compassionato. Aristotele definì la C. come «il dolore
causato dalla vista di qualche male, distruttivo o penoso che colpisce uno che
non lo merita e che possiamo aspettarci possa colpire noi stessi o qualche
nostro caro + (Ret., II, 8, 1385 b). Definizione che viene ripetuta quasi alla
lettera da Hobbes (Leviazh., I, 6), Cartesio (Passions de l’dme, III, $ 185),
Spinoza (Er., III, 22 scol.). La C. è, secondo Adamo Smith, un caso tipico
della simpatia che costituisce la struttura di tutti i sentimenti morali
(Theory of Moral Sentiments, III, 1). Per Schopenhauer, la C. è l'essenza
stessa di ogni amore e solidarietà fra gli uomini, perchè amore e solidarietà
si spiegano soltanto sulla base del carattere essenzialmente doloroso della
vita (Die Welt, I, $ 66-67). Di fronte a questa tradizione, ce n°è un’altra,
che vede nella C. un elemento negativo della vita morale. Questa seconda
tradizione s’inizia dagli Stoici (StoBEO, Ec/., II, 6, 180), passa attraverso
Spinoza. Questi ritiene che «nell'uomo che vive secondo ragione la C. è per se
stessa cattiva ed inutile », perchè non è altro che dolore: onde «l’uomo che
vive secondo ragione si sforza per quanto può di non essere toccato dalla C.»
come neppure dall’odio, dal riso o dal disprezzo, perchè sa che tutto deriva
dalla necessità della natura divina (Ef., IV, 50, corol. schol.). Questa
valutazione trova la sua estrema espressione nell’invettiva di Nietzsche contro
la C.: «Questo istinto depressivo e contagioso indebolisce gli altri istinti
che vogliono conservare ed aumentare il valore della vita; esso è una specie di
moltiplicatore e di conservatore di tutte le miserie, perciò uno degli
strumenti principali della decadenza dell’uomo » (Anticristo, Ap. 7). Il tratto
comune di queste condanne della C. è di considerarla come in se stessa miseria
o dolore, anzi, secondo l’espressione di Nietzsche, come qualcosa che conserva
o moltiplica miseria e dolore. Scheler ha mostrato l’equivoco di questo
presupposto che in realtà confonde la C. (che è simpatia e partecipazione
emotiva) con il contagio emotivo. Al contrario, nota Scheler, «la C. è assente
tutte le volte che c’è contagio della sofferenza, giacchè allora la sofferenza
non è più quella di un altro ma la mia, ed io credo di potermici sottrarre
evitando il quadro o l’aspetto della sofferenza in generale» (Sympathie, cap.
II, $ 3). Per l’appunto quest’avvertenza fondamentale si è tenuta presente nel
caratterizzare la C. al principio di questo articolo. COMPATIBILITÀ (ingl.
Consistency; francese Compatibilité; ted. Widerspruchslosigkeit). L'assenza di
contraddizione come condizione di validità dei sistemi deduttivi. «Ogni verità,
diceva Aristotele, dev'essere in accordo con se stessa sotto tutti i rapporti »
(An. Pr., I, 32, 47 a 8). Tuttavia soltanto nella matematica moderna, da
Hilbert in poi, la C. interna di un sistema deduttivo è diventata l’unico
criterio di validità del sistema stesso. Da questo punto di vista si dice che c’è
C. in un sistema nel quale non vi è nessun teorema la cui negazione sia un
teorema; o nel quale non ogni enunciato sia un teorema. Questa seconda formula
è ancora più generale (cfr. A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic,
1956, $ 17). La dimostrazione della C. diventa, da questo punto di vista, la
dimostrazione stessa della validità di un sistema nonchè dell’esistenza (v.)
delle entità cui esso fa riferimento. E la dimostrazione della C. dovrebbe, nel
pensiero di Hilbert, non fare riferimento a un infinito numero di proprietà
strutturali delle formule o a un infinito numero di operazioni conformi. La
dimostrazione dovrebbe essere, in questo senso, finitistica perchè solo in
questo caso sarebbe assoluta. Ma appunto la non possibilità di una assoluta dimostrazione
della C. dei sistemi deduttivi fu provata dal teorema di Gédel (1931). Il
teorema di Gédel non esclude che si possa provare la C. di un sistema deduttivo
assumendo la C. di un altro sistema deduttivo, preso come modello; ma a sua
volta la validità del modello non potrà essere dimostrata. La C. « assoluta » è
pertanto stata espulsa dal dominio delle matematiche ad opera del teorema di
Gédel, che stabilisce per ciò stesso i limiti del cosiddetto formalismo. Nessun
sistema formalistico infatti può offrire la garanzia della propria assoluta
compatibilità. Cfr. W. V. O. QuINE,
Methods of Logic, 1950; J. LADRIÈRE, Les limitations internes des formalismes,
1957; B. NagEL-J. R. NEWMANN, Godel’s Proof, 1958 (v. MATEMATICA, PROVA).
COMPITO (gr. tpyov; lat. Officium; ingl. Task; franc. Téche; ted. Aufgabe). La limitazione della attività propria di una persona
o di una cosa, tale da garantire il risultato migliore dell’attività stessa. In
questo senso, Platone intendeva per C. di una cosa «ciò che soltanto la cosa
stessa sa fare o almeno sa fare meglio di ogni altra» (Rep., I, 353 a): e si
serviva di questa nozione per definire la virtù (v.). Nello stesso senso e per
lo stesso fine si avvaleva della nozione Aristotele quando, per definire che
cosa è la felicità, si domandava qual è «il C. dell’uomo »; e rispondeva che il
C. dell’uomo è l’attività dell'anima conforme a ragione o non indipendente
dalla ragione (Et. Nic.,I, 6,1098 a 7). Il concetto ritorna frequentemente, con
lo stesso significato, nella filosofia contemporanea (v. FunZIONE; OPERAZIONE).
COMPLEMENTARITÀ (ingl. Complementarity; franc. Complémentarité; ted.
Komplementdrheit). Con espressione desunta dalla geometria (si chiamano
complementari due angoli la cui somma è uguale ad un angolo retto) si dicono
complementari due concetti opposti che però si correggono reciprocamente e si
integrano nella descrizione di un fenomeno. Così si sono, per es., chiamati
complementari i concetti di onda e di corpuscolo per la descrizione dei
fenomeni ottici, nella moderna meccanica quantistica. Il principio di C.
formulato da Bohr esprime poi l’incompatibilità della meccanica quantistica con
la concezione classica della causalità (v.). Esso viene espresso così: « Una
descrizione spazio-temporale rigorosa e una sequenza causale rigorosa di
processi individuali non possono essere realizzate simultaneamente, o l’una o
l’altra deve essere sacrificata » (D’ABrO, New Physics, pag. 951). COMPLESSO
(gr. cvurerdeyutvov; lat. Complexum; ingl. Complex; franc. Complexe; tedesco Komplex).
Gli Stoici, che introdussero il termine, intesero per esso le proposizioni
composte cioè costituite o da una sola proposizione presa due volte (ad es.,
«se è giorno, è giorno +) o da proposizioni diverse legate assieme da uno o più
connettivi (ad es.: «È giorno e c’è luce», «Se c’è giorno, c’è luce», ecc.)
(Sesto E., Adv. Math., VIII, 93; Dioc. L., VII, 72). Nella logica medievale il
termine veniva generalizzato e s’intese per esso o un termine composto da voci
diverse come « uomo bianco », «animale ragionevole », ecc., o la proposizione
semplice composta dal nome e dal verbo (per es., « l’uomo corre », ecc.). In
tal caso l’opposto di complesso, indicato con il termine incomplexum (cioè
«semplice +) è o il termine isolato o qualsiasi termine della proposizione
anche se composto da due o più termini (come, ad es., il soggetto « uomo bianco
+ nella proposizione « l’uomo bianco corre +) (OckHAM, Expositio super artem
veterem, fol. 40 b). Queste nozioni ricorrono in forma poco diversa in Vincenzo
di Beauvais (Speculum doctrinale, 4) ed in Armando di Beauvoir (De declaratione
difficilium terminorum, I, 1). Cfr. TomMaso, S. Th., II, 2, q. 1, 4.2.
COMPLICAZIONE, ESPLICAZIONE (latino Complicatio, Explicatio). Termini adoperati
da Cusano per indicare il rapporto tra l’essere e le sue manifestazioni, in
quanto tali manifestazioni sono contenute nell’essere e l’essere si spiega o
manifesta in esse. Cusano dice che l’unità infinita è « la C. di tutte le cose
»; che il movimento è « l’esplicazione della quiete +; e che Dio «è la C. e
l’esplicazione di tutte le cose e, in quanto è la C. di esse, tutte le cose
sono in lui mentre, in quanto è l’esplicazione, egli stesso è in tutte le cose
ciò che esse sono » (De Docta Ign., II, 3). COMPORTAMENTISMO (ingl.
Behaviorism; franc. Comportamentisme; ted. Behaviorismus). L’indirizzo della
psicologia contemporanea che ténde a restringere la psicologia stessa allo
studio del comportamento (v.) eliminando ogni riferimento alla « coscienza »,
allo « spirito » e in generale è ciò che non può essere osservato e descritto
in termini oggettivi. Il fondatore di questo indirizzo si può scorgere in Ivan
Pavlov, l’autore della teoria dei riflessi condizionati, che, per la prima
volta, ha impiantato ricerche psicologiche che prescindevano da qualsiasi
riferimento agli «stati soggettivi» o « stati interni ». « Dobbiamo noi forse,
si domandava Pavlov nel 1903, per comprendere i nuovi 140 fenomeni, penetrare
nell’essere interiore dell'animale, rappresentarci a modo nostro le sue
sensazioni, i suoi sentimenti e desideri? Per lo sperimentatore scientifico, la
risposta a quest’ultima domanda può essere, a me sembra, una sola: un mo
categorico » (I riflessi condizionati, 1950; trad. ital., pag. 17). Nel
laboratorio di Pavlov (come egli stesso racconta Ubid., pag. 129)) fu vietato,
perfino con multe, di servirsi di espressioni psicologiche come «il cane
indovinava, voleva, desiderava, ecc. +; e Pavlov non esita a definire «
disperata » da un punto di vista scientifico la situazione della psicologia come
scienza degli stati soggettivi (/bid., pag. 97). Tuttavia il primo che enunciò
chiaramente il programma del C. fu J. B. Watson in un libro intitolato //
comportamento, introduzione alla psicologia comparata pubblicato nel 1914. Da
Watson questo indirizzo ricevette anche il nome (Behaviorismo) e la pretesa
fondamentale di limitare l’indagine psicologica alle reazioni oggettivamente
osservabili. La forza del C. consiste appunto nell’esigenza metodologica che
esso ha fatto valere: esigenza per la quale non si può scientificamente parlare
di ciò che sfugge a ogni possibilità di osservazione oggettiva e di controllo.
Il C. è stato spesso interpretato, da un punto di vista polemico, come la
negazione della « coscienza » o dello « spirito » o degli « stati interni »,
ecc. In realtà esso è semplicemente la negazione dell'introspezione come
legittimo strumento d’indagine: una negazione che era già stata fatta da Comte
(v. INTROSPEZIONE). Esso è, in più, il deliberato riconoscimento del
comportamento come oggetto proprio dell’indagine psicologica. Nelle sue prime
manifestazioni il C. rimase legato all’indirizzo meccanistico, per il quale lo
stimolo esterno è la causa del comportamento, nel senso che io rende
infallibilmente prevedibile; Pavlov stesso sottolineava questa infallibilità
(/bid., pag. 133). Ma questo presupposto, di natura ideologica, è stato oggi
abbandonato dal C., che ha permeato profondamente di sè l'indagine
antropologica moderna (psicologia, sociologia, ecc.) (v. PSICOLOGIA).
COMPORTAMENTO (ingl. Behavior; francese Comportement; ted. Verhalten). Ogni
risposta di un organismo vivente ad uno stimolo, che sia: 1° oggettivamente
osservabile con un mezzo qual. siasi; 2° uniforme. Il termine C. è stato
introdotto da Watson verso il 1914 ed è ormai diventato di uso corrente nel
significato ora esposto. Originariamente esso servì a sottolineare
polemicamente l’esigenza che la psicologia e in generale ogni considerazione
scientifica delle attività umane o animali assumesse a suo proprio oggetto
elementi osservabili oggettivamente, cioè non accessibili solo alla «intuizione
interna» o alla «coscienza». Attualmente il termine è diventato di uso
generale. Esso va tenuto distinto: 1° da azione, perchè a differenza di questa
il C.: a) è una manifestazione non di un particolare principio, per es., della
volontà o dell’attività pratica, ma dell’intero organismo animale; 5) è
costituito unicamente da elementi osservabili e descrivibili in termini
oggettivi; c) è uniforme, cioè costituisce la reazione abituale e costante dell'organismo
a una situazione determinata; 2° da atteggiamento, che è il C. specificamente
umano includente quindi elementi anticipatori e normativi (progetto,
previsione, scelta, ecc.); 3° da condotta, che può mancare del carattere di
uniformità. COMPOSIZIONE (ingl. Composition; francese Composition; ted.
Komposition). Nei logici medievali (per es., Pietro Ispano, Summul. Log., 7.25)
compositio designa il paralogismo o fallacia (v.) derivante da un uso
sintattico che rende ambigua la frase. È quindi una specie di anfibolia (v.).
G. P. COMPOSSIBILE (franc. Compossible; tedesco Kompossibel). Leibniz ha
chiamato con questo termine il possibile che si accorda con le condizioni di
esistenza dell’universo reale cioè la possibilità reale. Il possibile è ciò che
è concepibile in quanto privo di contraddizione, il C. è ciò che può essere
reale. « È vero che ciò che non è, non è stato e non sarà, non è affatto
possibile, se possibile è preso per compossibile... Può darsi che Diodoro,
Abelardo, Wicleff e Hobbes abbiano avuto questa idea in testa senza ben
chiarirla » (Op., ed. Erdmann, pag. 719). V. PossiBILE. COMPRENDERE (lat.
/ntelligere; ingl. Understanding; franc. Comprendre; ted. Verstehen). La
nozione del C. come attività conoscitiva specifica, diversa dalla conoscenza
razionale e dalle sue tecniche esplicative, può essere considerata in due fasi
storiche distinte, la prima nella filosofia medievale o nella scolastica in
generale, la seconda nella filosofia contemporanea. 1. L’intera Scolastica
s’impernia sul problema di « C. » la verità rivelata. Ma sul valore di questo
C. gli stessi scolastici non sono stati d’accordo. Alcuni hanno identificato il
C. con la conoscenza razionale e con la sua tecnica dimostrativa; e la
comprensibilità dei dogmi è apparsa da questo punto di vista come la
possibilità di dimostrarli, cioè di equipararli a verità razionali. Anselmo e
Abelardo sembrano d’accordo nell’intendere così l'intelligere che essi
ritengono indispensabile alla fede stessa. È ovvio che in questo caso
l’intelligere non è affatto un C. nel senso specifico del termine. Una sfera
specifica dell’intelligere come comprendere, nella sua diversità dalla
conoscenza dimostrativa fu delineata invece da S. Tommaso nel suo tentativo di
determinare il còmpito della ragione di fronte alla fede. Questo còmpito
consiste: 1° nel dimostrare i preamboli della fede; 2° nel chiarire, mediante
similitudini, le verità della fede; 3° nel controbattere le obiezioni che si
fanno contro tali verità (In Boer. De Trin., a. 3). Ovviamente la seconda e la
terza parte di questo còmpito, che non sono di natura dimostrativa,
costituiscono la sfera del comprendere. E difatti, secondo S. Tommaso, le
fondamentali verità di fede, la Trinità, l’Incarnazione, la Creazione, sono
comprensibili in questo senso: non sono dimostrabili (nel quali caso sarebbero
verità di ragione) ma possono essere chiarite con analogie e, specialmente,
sostenute contro le obiezioni. Questa posizione tomistica costituisce la
migliore e più diffusa soluzione di quel problema del C. nato sul piano della
Scolastica. Essa veniva ancora difesa nel sec. xvm da Leibniz contro le
obiezioni di Bayle e di Toland. Secondo Leibniz, il dogma è « incomprensibile »
solo nel senso che non si può dimostrare; ma si può dire che esso s'accorda con
la ragione nel senso «che si può mostrare al bisogno che non c’è contraddizione
tra il dogma e la ragione, confutando le obiezioni di coloro che pretendono che
il dogma stesso è un’assurdità » (Théod., $ 60). 2. Nella filosofia
contemporanea, la distinzione della sfera del C., da quella del conoscere
razionale, è nata dall’esigenza di distinguere il procedimento esplicativo
delle scienze morali o storiche da quello delle scienze naturali. Tale esigenza
nacque dalla difficoltà di applicare la tecnica causale, propria della scienza
naturale dell’800, al dominio degli eventi umani, quali sono i fatti storici, e
in generale all'uomo ed ai rapporti interumani. In base a quella tecnica, si
ritiene come « razionalmente spiegato » ciò di cui si può mostrare la genesi
causale necessaria, cioè di cui si può mostrare che accade in modo necessario o
infallibilmente prevedibile quando ne è data la causa (v.). Il carattere
necessario della genesi causale, in quanto conforme a una legge immutabile, e
il carattere di uniformità meccanica che gli eventi causalmente spiegabili
assumono per effetto di tale legge, rendono assai difficile trasferire questo
tipo di spiegazione al mondo dell’uomo; e rendono difficile spiegare i fatti
storici e in genere ogni fatto che consista in un rapporto con l’uomo.
L'applicazione della tecnica causale a tali fatti implicherebbe la loro
riduzione a casi di uniformità meccanica, dovuti all’azione di leggi
necessitanti. Sicchè quando negli ultimi decenni del sec. xIx le scienze
storiche, o, come allora si diceva, le « scienze dello spirito », che avevano
ormai raggiunta una sufficiente saldezza di metodi e una grande ricchezza di
risultati, cominciarono a proporsi il problema del loro metodo e cercarono di
chiarirlo criticamente, apparve chiara l’esigenza di agganciare questo metodo a
tecniche e procedure diverse da quelle in uso nelle scienze naturali. In tal
senso il « C.» come procedura propria delle scienze dello spirito, fu
contrapposto allo « spiegare », fondato sulla causalità e proprio delle scienze
naturali. Il primo a formulare chiaramente questa distinzione fu Dilthey nella
sua /nsroduzione alle scienze dello spirito (1883). Dilthey osservò che i
nostri rapporti con la realtà umana sono completamente diversi dai nostri
rapporti con la natura. La realtà umana, quale appare nel mondo storico
sociale, è tale che noi possiamo comprenderla dal di dentro, perchè possiamo
rappresentarcela sul fondamento dei nostri propri stati. La natura, al
contrario, è muta e rimane sempre qualcosa di esterno. Pertanto nelle scienze
dello spirito, che hanno appunto per oggetto la realtà umana, il soggetto non
si trova di fronte ad una realtà estranea, ma a se stessa, perchè uomo è colui
che indaga e uomo colui che viene indagato. «Il C., dice Dilthey, è un ritrovamento
dell’io nel tu... Il soggetto del sapere è qui identico con il suo oggetto e
questo è il medesimo in tutti i gradi della sua oggettivazione » (Gesammelte
Schriften, VII, pag. 191). Da questo punto di vista Dilthey additò come
strumento proprio del C. l’Erlebnis, cioè l'esperienza vissuta o rivivente che
permette di cogliere la realtà storica nella sua individualità vivente e nei
suoi caratteri specifici. Dopo Dilthey, nella corrente dello storicismo tedesco
che continua l’opera sua, il C. rimane l’organo della conoscenza storica e in
generale della conoscenza interpersonale, in quanto non suscettibile di
spiegazione causale. Tuttavia sulla natura stessa del C. non c’è accordo.
Rickert intende per C. l’afferrare « il senso di un oggetto, cioè il rapporto dell’oggetto
stesso con un valore determinato » (Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, 18961902). Simmel considera
il C. come diretto a riprodurre la vita psichica di un’altra personalità e
quindi come l’atto di proiezione mediante il quale il soggetto conoscente
attribuisce un suo stato rappresentativo, o volitivo, ad un'altra personalità
(Die Probleme der Geschichtsphilosophie, 1892, pagina 17). A sua volta Max
Weber, pur insistendo sulla diversità della spiegazione storica e della spiegazione
causale, volle colmare o diminuire l’abisso che si stava formando tra i due
procedimenti, affermando che la spiegazione storica è essa stessa una
spiegazione causale; ma una spiegazione causale specifica, che mira a
riconoscere il nesso particolare e singolare fra determinati fenomeni e non la
loro dipendenza da una legge universale. «Il nostro bisogno causale, egli
scrive, può trovare nell’analisi dell’atteggiamento umano una sodisfazione
qualitativamente diversa, che implica al tempo stesso un'intonazione
qualitativamente diversa del concetto di razionalità. Per la sua
interpretazione noi possiamo proporci lo scopo, almeno fondamentalmente, non
solo di rendere l’atteggiamento stesso penetrabile come possibile in rapporto
al nostro sapere nomologico, ma anche di comprenderlo, cioè di scoprire un
motivo concreto che possa venire rivissuto internamente e che noi accertiamo
con un diverso grado di precisione, secondo il materiale delle fonti »
(Gesammelte Aufsàtze zur Wissenschaftslehre, 1951, pag. 67). Tuttavia, il
concetto di causalità individuale, sul quale Weber insisteva, è poco solido
giacchè la causa, come ciò che rende infallibilmente prevedibile l’effetto, ha
con l’effetto stesso un rapporto necessario e costante, perciò essenzialmente
uniforme, e universale. L'esigenza prospettata da Weber di eliminare o
diminuire il contrasto tra la spiegazione scientifica e la comprensione storica
o inter-umana, potè trovare sodisfazione solo dopo che la scienza stessa ebbe
abbandonato il concetto classico di causalità. Frattanto, l’esigenza d’una
tecnica conoscitiva che fosse diversa dalla tecnica esplicativa causale veniva
frequentemente riconosciuta in sociologia. Znaniecki invocava un « coefficiente
umanistico » nella ricerca sociologica e sottolineava l’importanza della
esperienza vicariante come fonte di dati sociologici (Method of Sociology,
1934, pag. 167). Sorokin riteneva inapplicabile il metodo causale
all’interpretazione dei fenomeni culturali (Socia/ and Cultural Dynamic, 1937,
pag. 26). E Maclver a sua volta riconosceva l’inapplicabilità della formula
causale della meccanica classica alla condotta umana (Socia! Causation, 1942,
pag. 263). I filosofi a loro volta, non trovando posto per il comprendere tra
le attività razionali che sembravano monopolizzate dalle tecniche della
spiegazione causale, avevano finito col connetterlo con la vita emotiva. Così
fecero, principalmente, Scheler e Heidegger, ai quali si devono tuttavia le più
importanti determinazioni della nozione del comprendere. A Scheler, tale
nozione serve per fondare i rapporti umani — che sono poi quelli per cui l'io
riconosce l’altro io — non su una inferenza o sulla proiezione che l’io faccia
delle proprie esperienze interne nell’altro, ma sulla base dei fenomeni
espressivi. Così Scheler afferma che «l’esistenza delle esperienze interne, dei
sentimenti intimi degli altri, ci è rivelata dai fenomeni di espressione: cioè
ne acquistiamo la conoscenza non in séguito a un ragionamento, ma in modo
immediato, mediante una ‘ percezione * originaria e primitiva. Noi percepiamo
il pudore di qualcuno ne/ suo rossore, la gioia re/ suo riso » (Sympathie, I,
cap. II). Perciò non è vero che degli altri conosciamo in primo luogo il corpo
e che solo a partire da esso inferiamo l’esistenza di altri spiriti. Soltanto
il medico e il naturalista conoscono soltanto il corpo perchè fanno
artificialmente astrazione dai fenomeni di espressione che sono la
manifestazione primaria e immediata degli altri spiriti: ma proprio tali
fenomeni sono alla base della comprensione emotiva. Questa dev'essere, secondo
Scheler, distinta dalla fusione emotiva perchè implica l’alterità dei
sentimenti. Per es., la sofferenza del mio vicino e la mia comprensione
simpatetica di essa, sono due fatti differenti, e questa differenza appunto
stabilisce la possibilità della comprensione: mentre non ba niente a che fare
con questa il fatto che io e il mio vicino soffriamo della stessa sofferenza.
Le analisi di Scheler hanno contribuito a fissare i punti seguenti: 1° il C.
non implica l’identità delle persone tra cui intercede o l'identità dei loro
stati d’animo o sentimenti; implica piuttosto l’a/terità fra le persone e tra i
loro stati rispettivi; 2° la comprensione è fondata sul rapporto simbolico che
esiste tra le esperienze interne e la loro espressione: rapporto che
costituisce una specie di « grammatica universale », valevole per tutti i
linguaggi espressivi, la quale fornisce il criterio ultimo della comprensione
inter-umana. Come Scheler, Heidegger connette il fenomeno della comprensione
soprattutto alla sfera emotiva; ma aggiunge all’analisi di questo fenomeno una
notazione d’importanza fondamentale, connettendolo con la nozione di
possibilità. Heidegger, difatti, considera la comprensione come essenziale
all’esistenza umana (all’Esserci) giacchè essa significa che l’esistenza è
essenzialmente possibilità di essere, esistenza possibile. « Usiamo sovente
l’espressione ‘C. qualcosa’ nel senso di ‘essere in grado di far fronte a
qualcosa ’, ‘ esser capace di’, ‘poter qualcosa ’... Nella comprensione è
riposto essenzialmente il modo d'essere dell’Esserci in quanto poter essere.
L’Esserci non è una semplice presenza che, aggiuntivamente, possegga il
requisito di potere qualcosa, ma al contrario è primariamente un essere
possibile ». Pertanto « la comprensione ha in sè la struttura esistenziale che
noi chiamiamo progetto » (Sein und Zeit, $ 31). Come possibilità e progetto
l’esistenza umana possiede una trasparenza a se stessa che Heidegger chiama
visione e che è la prima manifestazione della comprensione. L’intuizione e il
pensiero sono invece due lontani derivati della comprensione stessa (/bid., $
31). È abbastanza chiaro che il riferimento del C. alla vita emozionale,
effettuato da Scheler e Heidegger, era motivato dal fatto che la vita razionale
sembrava ad essi occupata da tecniche che poco o nulla avevano a che fare col
comprendere. I risultati ottenuti da Scheler e Heidegger, tuttavia, sono molto
importanti: i primi negativamente, consentendo di sottrarre il C. alla sfera
dell’immediato e dell’inesprimibile, e i secondi positivamente perchè
connettono il C. stesso con la nozione di possibilità. Nell’analisi di
Heidegger, il C. non solo è stato generalizzato, perchè è stato reso
applicabile alle cose oltrecchè alle persone; ma anche, con ciò stesso, ha
cessato di essere antagonista col concetto di spiegazione. Comprensione e
spiegazione possono infatti essere identificate dalla nozione di possibilità ed
essere entrambe intese come dichiarazione della 4 possibilità di... »: dove ciò
che è lasciato in sospeso può essere riempito, nei diversi campi d’indagine, da
diverse specie di progetti e previsioni. Ma questo avvicinamento tra
spiegazione e comprensione e questa loro unificazione nel concetto di «
possibilità di... » venivano sanciti dagli stessi sviluppi delle scienze della
natura, che abbandonavano la nozione classica di causalità e pertanto si
disancoravano dalla tecnica esplicativa causale. La fisica relativistica e la
teoria dei quanti compivano il passo decisivo verso l’eliminazione dell’antitesi
tra spiegazione e comprensione. Come nota Carnap, nella meccanica quantica « C.
un’espressione, un enunciato, una teoria, significa la capacità di usarla per
la descrizione di fatti noti o per la previsione di fatti nuovi» (Foundations
of Logic and Mathematics, 1939, $ 25). La « capacità di» è dunque ciò che
esprime il significato della comprensione nella fisica stessa. Ma la
possibilità della previsione probabile è anche tutto ciò cui si riduce oggi la
spiegazione scientifica (vedi SPIEGAZIONE). In tal modo la differenza radicale
che sembrava stabilita saldamente dalla metodologia scientifica dell’800 tra
scienza dello spirito e scienza della natura, è venuta a sparire. Ciò che
questi due gruppi di discipline cercano di fare, nei confronti dei loro oggetti
rispettivi, è fondamentalmente la stessa cosa: determinare le possibilità di
descrizione o di anticipazione (progettazione, uso, fruizione) che i loro
oggetti comportano. COMPRENSIONE (ingl. Understanding; francese Compréhension;
ted. Verstehen). L'atto o la capacità di comprendere (v.). COMPRENSIONE (ingl.
Comprehension; francese Compréhension; ted. Inhalt). 1. La logica di Porto
Reale introdusse la distinzione tra C. ed estensione del concetto: distinzione
grosso modo identica a quella che verrà espressa da Stuart Mill con la coppia
connotazione-denotazione o dalla logica moderna con la coppia
intensione-estensione. Diceva infatti Arnauld: « Nelle idee universali è
importante distinguere bene due cose, la C. e l’estensione. Chiamo C. dell’idea
gli attributi che essa include in sè e che non possono essere tolti senza
distruggerla; così la C. dell’idea di triangolo contiene estensione, figura,
tre linee, tre angoli e l'eguaglianza di questi tre angoli con due retti, ecc.
Chiamo estensione dell’idea i soggetti ai quali quest'idea conviene; quelli che
si chiamano anche gli inferiori di un termine generale che, nei rispetti di
essi, è chiamato superiore; così l’idea del triangolo in generale si estende a
tutte le diverse specie dei triangoli » (Logique, I, 6). Questa distinzione
trovava qualche precedente nella logica medievale ma era stata
approssimativamente espressa solo a partire dal sec. xvi (per es., da
CAJETANUS, /n Porphyrii Praed., ed. 1579, I, 2, pag. 37; cfr. HAMILTON,
Lectures on Logic, I, 1866, pag. 141). Alla distinzione stessa era connessa la
determinazione del rapporto inverso che c'è tra C. ed estensione così definite:
a misura che la C. s’impoverisce, cioè diventa più generale, l’estensione si
arricchisce, cioè il concetto si applica a più cose; e reciprocamente. Queste
distinzioni e notazioni riprese dalla logica, specialmente tedesca, dell’800
(cfr., per es., LoTzE, Logik, 1843, $ 15) rimasero costanti e furono talora,
specialmente da scrittori inglesi, espresse mediante la coppia sinonima
connotazione-denotazione. A parte il tentativo di distinguere la C. dalla
connotazione (v.) come la sfera di tutte le note possibili, oltre quelle
espressamente connotate dalla definizione, la nozione di C. è rimasta costante
nella logica dell’800. 2. Talvolta nella logica contemporanea la C. è assunta
come analoga della denotazione o estensione, invece che della connotazione o
intensione. Così Lewis definisce la C. di un termine come: «la classificazione
di tutte le cose consistentemente pensabili alle quali il termine correttamente
si applichi » dove per «consistentemente pensabile » si intende ogni cosa
l’asserzione della cui esistenza non implichi, esplicitamente o implicitamente,
una contraddizione. In questo significato, il termine si distinguerebbe da
denotazione o estensione perchè questa è la classe di tutte le cose reali o
esistenti alle quali il termine correttamente si applica. La denotazione
sarebbe perciò inclusa nella C.; ma non viceversa. La C. di « quadrato »
include non solo i quadrati esistenti (che sono denotati) ma tutti i quadrati
possibili o imaginabili, salvo quelli rotondi (AnaIysis of Knowledge and
Valuation, 1950, pag. 39-41). COMUNE, SENSO. V. SENSO COMUNE. COMUNI, NOZIONI
(gr. xoîvar two; lat. Notiones communes). Gli Stoici chiamarono con
quest’espressione i concetti universali o anticipazioni (v.) che si formano
nell’uomo naturalmente, cioè non come prodotti di un'istruzione specifica
(Aezio, P/ac., IV, 11). L'espressione fu adoperata negli E/ementi di Euclide,
per designare i princìpi evidenti, che in séguito furono detti assiomi (v.
ASSIOMA). COMUNICAZIONE (ingl. Communication; franc. Communication; ted.
Kommunikation). Filosofi e sociologi si servono oggi di questo termine per
designare il carattere specifico dei rapporti umani in quanto sono, o possono
essere, rapporti di partecipazione reciproca o di comprensione. Per144 tanto il
termine viene ad essere sinonimo di « coesistenza » o di « vita con gli altri »
e indica l’insieme dei modi specifici in cui la coesistenza umana può
atteggiarsi; purchè si tratti di modi « umani », cioè nei quali una certa
possibilità di partecipazione e di comprensione sia salva. In questo senso, la
C. non ha niente a che fare con la coordinazione e con l’unità. Le parti di una
macchina, ha osservato Dewey, sono strettamente coordinate e formano un'unità
ma non formano una comunità. Gli uomini formano una comunità perchè comunicano,
cioè perchè possono reciprocamente partecipare dei loro modi d'essere, che così
acquistano nuovi e imprevedibili significati. Questa partecipazione dice che un
rapporto di C. non è un semplice contatto fisico o uno scontro di forze. Il
rapporto tra il predatore e la sua preda, per es., non è un rapporto di C.,
anche se talora può intercorrere fra gli uomini. La comunicazione in quanto
caratteristica specifica dei rapporti umani, delimita la sfera di tali rapporti
a quelli nei quali un certo grado di libera partecipazione può essere presente.
Il rilievo del concetto di C. nella filosofia contemporanea è dovuto: 1°
all’avvenuto abbandono, da parte di essa, della nozione romantica di
Autocoscienza infinita, Spirito Assoluto o Superanima: nozione che implicando
l’identità di tutti gli uomini rende ovviamente inutile il concetto stesso di
C. interumana; 2° al riconoscimento che i rapporti interumani implicano
l’alterità tra gli uomini stessi e sono rapporti possibili; 3° al
riconoscimento che tali rapporti non si aggiungono in un secondo momento alla
realtà già costituita delle persone, ma entrano a costituirla come tale. In questi
termini il concetto di C. entra in filosofie disparate. Secondo Heidegger il
concetto di C. deve essere inteso «in un senso ontologicamente largo », cioè
come «C. esistenziale ». «In quest’ultima si costituisce l’articolazione
dell’essere insieme comprendente. Essa realizza la partecipazione della
situazione emotiva comune e della comprensione propria dell’essere insieme. La
C. non è il trasferimento di esperienze vissute (quali possono essere, ad es.,
opinioni e desideri) dall’intimo di un soggetto all’intimo di un altro.
L’'esserci insieme è già essenzialmente rivelato nella situazione emotiva
comune e nella comune comprensione » (Sein und Zeit, $ 34). In altri termini,
per Heidegger, C. è già coesistenza perchè la compartecipazione emotiva e la
comprensione degli uomini tra di loro entrano a costituire la realtà stessa
dell’uomo, l'essere dell’Esserci. Jaspers, che è sostanzialmente d’accordo con
Heidegger, da questo punto polemizza contro le scienze empiriche (psicologia,
antropologia, sociologia) che pretendono di analizzare i rapporti di
comunicazione. Il loro difetto è, secondo Jaspers, che esse debbono limitarsi a
considerare i rapporti umani, non quelli possibili; mentre la C. è per
l’appunto possibilità di rapporti. In questo senso essa può essere chiarita
soltanto dalla filosofia (Phil., II, cap. III). Al contrario Dewey, che
condivide con Heidegger e Jaspers la veduta che la C. costituisce
essenzialmente la realtà umana, la considera come una forma speciale
dell’azione reciproca della natura e ritiene pertanto che possa e debba essere
studiata dall’indagine empirica (Experience and Nature, cap. V). Se la
filosofia dell’800, per il prevalere delle concezioni assolutistiche (lo stesso
positivismo parlava dell’Umanità come di un tutto) climinava la nozione di C.,
la filosofia del ’600 e del *700 aveva elaborato la nozione, ma per rispondere
ad un diverso problema. Il problema era quello della « C. delle sostanze +,
cioè della sostanza anima con la sostanza corpo, e reciprocamente, problema
nato col cartesianesimo, che aveva distinto per la prima volta in modo netto le
due specie di sostanze. Lo stesso Cartesio aveva ammesso come valida la nozione
corrente di un’azione reciproca fra le due sostanze, che egli riteneva si
toccassero nella glandola pineale (Passions de l’ame, I, 32). Dall’altro lato
gli Occasionalisti avevano ritenuto impossibile l’azione di una sostanza finita
sull’altra, perchè nessuna sostanza finita può agire cioè esser causa; ed
avevano pertanto ritenuto che Dio stesso interviene a stabilire il rapporto tra
l’anima e il corpo, o tra i vari corpi, o tra le varie anime, servendosi
dell’occasione offertagli dal mutamento avvenuto in una sostanza per produrre
mutamenti nelle altre sostanze. Era questa la teoria delle cause occasionali
sostenuta, fra gli altri, da Malebranche (Recherche de la vérité, III, II, 3).
Leibniz ritenne la prima teoria impossibile, la seconda miracolosa, intese la
C. come armonia prestabilita (v.) e la estese a intendere il rapporto fra tutte
le parti dell’universo, cioè fra tutte le monadi che lo compongono: l'armonia è
prestabilita da Dio in modo tale che a ogni stato di una monade corrisponde uno
stato delle altre monadi (Op., ed. Gerhardt, IV, pag. 500501). Ovviamente la
dottrina di Leibniz non è una soluzione del problema della C.; essa, anzi, ha
lo scopo di rendere la C. stessa inutile, garantendo il rapporto preordinato
delle monadi fra di loro. Leibniz stesso nota che la sua dottrina fa dell'anima
una specie di macchina immateriale (/bid., pag. 548). Questo tratto rivela
quanto la sua dottrina sia lontana dalla nozione contemporanea di C.: la quale,
come si è detto, non è mai automatica e non può sussistere tra gli automi o tra
le parti di un automa. COMUNISMO (ingl. Communism; franc. Communisme; ted.
Kommunismus). L'ideologia politica che trova il suo programma nel Manifesto dei
coCONATO munisti pubblicato da Marx ed Engels nel 1847; come è stato sviluppato
nelle opere di Marx ed Engels nonchè di Lenin e Stalin. Tale ideologia può
essere riassunta nei capisaldi seguenti: 1° la dipendenza della personalità
umana dalla società storicamente determinata cui essa appartiene, dipendenza
per la quale essa è nulla fuori e indipendentemente dalla società stessa; 2° la
dipendenza della struttura di una società storicamente determinata dai rapporti
di produzione e di lavoro che sono propri di tale società e che determinano
tutte le manifestazioni di essa: moralità, religione, filosofia, ecc.,
oltrecchè le forme della sua organizzazione politica. Questi due punti
costituiscono la dottrina del materialismo storico (v.); 3° il carattere
permanente e necessario della lotta di classe in ogni e qualsiasi società
capitalistica, cioè in ogni società nella quale i mezzi di produzione siano
proprietà di privati; 4° il necessario, inevitabile trapasso dalla società
capitalistica, dopo che essa ha raggiunto il suo maximum di concentrazione
della ricchezza in poche mani e di immiserimento e livellamento di tutti i
lavoratori, nella società socialista che possiede ed esercita direttamente i mezzi
di produzione, ed è perciò senza classi; 5° l’esistenza di un periodo di
trapasso tra la società capitalistica e la società comunistica durante il quale
il proletariato s’impadronirà del potere dello Stato e lo eserciterà, come
aveva fatto il capitalismo, nel proprio interesse. Questo sarà il periodo della
dittatura del proletariato. Di questi capisaldi il C. russo ha soprattutto
sottolineato l’ultimo che, nelle opere di Marx ed Engels, rimaneva secondario.
E l’ha sottolineato trasformandolo, nel senso d'intendere la dittatura del
proletariato come dittatura del partito comunista, e affidando al partito
stesso la funzione di avanguardia del proletariato. Il partito diviene in tal
modo lo strumento fondamentale per la realizzazione della società nuova e
pretende di subordinare a sè, controllare e dirigere, ogni azione diretta a
questo scopo. Tale preminenza del partito, già teorizzata da Lenin, fu portata
agli estremi da Stalin, con l’affermazione della necessaria « partiticità »
della scienza, dell’arte, della filosofia e in generale di ogni attività
intellettuale: partiticità che non significa altro se non la subordinazione di
tali attività agli interessi del partito, quali si trovino ad essere
interpretati o stabiliti dai dirigenti di esso. COMUNITÀ (ingl. Community;
franc. Communauté; ted. Gemeinschaft). 1. Kant aveva chiamato con questo
termine la terza categoria della relazione e precisamente quella dell’azione
reciproca, nonchè la corrispondente terza analogia dell’esperienza (o principio
della C.) così espressa: «Tutte le sostanze, in quanto possono essere per10 —
AuHnagnano, Dizionario di filosofia. 14cepite nello spazio come simultanee,
sono tra loro in un'azione reciproca universale ». Egli annotava a questo
proposito: « La parola Gemeinschaft ha un doppio significato che può indicare
tanto communio quanto anche commercium. Noi qui ce ne serviamo nel secondo
senso, come comunione dinamica senza la quale anche quella spaziale (communio
spatiî) non potrebbe mai essere conosciuta empiricamente » (Crit. R. Pura,
Analitica dei principi, 33 analogia). In quest’applicazione il termine non ha
avuto fortuna. 2. Esso invece è stato adoperato dal Romanticismo, a partire da
Schleiermacher, per indicare la forma di vita sociale caratterizzata da un
organico, intrinseco, perfetto legame tra i suoi membri. In tal senso la C. è
stata contrapposta alla società in un’opera di FERDINANDO TONNIES, C. e
Società, pubblicata nel 1887. «Tutto ciò che è fiducioso, intimo, vivente
esclusivamente insieme, diceva Tònnies, è compreso come la vita in comunità. La
società è ciò che è pubblico, è il mondo; al contrario ci si trova in C. con i
propri cari sin dalla nascita, legati ad essi nel bene e nel male. Nella
società si entra come in una terra estranea. Si mette l’adolescenza in guardia
contro la cattiva società, ma l’espressione ‘cattiva C.’ suona come una
contraddizione» (Gemeinschaft und Gesellschaft,1, 1). Così espresso questo
concetto contiene ovvie connotazioni valutative per le quali si presta poco ad
un uso oggettivo: giacchè è abbastanza chiaro che non esiste nessuna pura C. e
nessuna pura società e che il bisogno di operare una distinzione in questo
senso è suggerito non dall’osservazione ma dall'aspirazione a un ideale.
Pertanto nell’uso dei sociologi posteriori (tra i quali Simmel, Cooley, Weber,
Durkheim, e altri) questo significato si è venuto trasformando sino ad assumere
quello corrente nella sociologia contemporanea di distinzione fra relazioni
sociali di tipo /ocalistico e relazioni di tipo cosmopolitico: che è una
distinzione puramente descrittiva fra comportamenti legati alla C. ristretta in
cui si vive e comportamenti orientati o aperti verso una più larga società (R.
K. MERTON, Social Theory and Social Structure, 1957, pag. 393 sgg.). CONATO
(lat. Conatus). Si indicò con questo nome nel Rinascimento l’ormé stoica (Dioc.
L., VII, 85) cioè l’isrinto (v.) o la tendenza di ogni essere alla propria
conservazione. Questo concetto trovò la sua forma classica in Spinoza, secondo
il quale « lo sforzo di conservarsi è la stessa essenza della cosa» (£f., IV,
22, cor.). Esso «si chiama volontà quando si riferisce alla sola mente; quando
si riferisce insieme alla mente e al corpo si chiama appetito, il quale perciò
è l’essenza stessa dell’uomo » (Ibid., III, 9, Scol.). Nello stesso senso
adoperava la parola Vico: «La matura cominciò ad esistere per un atto di C.; in
altri termini, il C. è la natura (come anche le Scuole dicono) in fieri, in
procinto di giungere all’esistenza» (De antiquissima Italorum sapientia, 4, $
1). Hobbes dette un nuovo concetto del termine: intese per C. il movimento
istantaneo cioè «il movimento in uno spazio e tempo minore di ogni spazio o
tempo dato » (De corp., 15, $ 2). Leibniz in un primo tempo ha inteso il C.
nello stesso senso: « Il conatus, egli disse, sta al movimento come il punto
allo spazio, cioè come l’unità all’infinito: è l’inizio o la fine del movimento
» (Hypothesis Physica Nova, 1671, Op., ed. Gerhardt, IV, pag. 229). Ma in
sèguito identificò il C. con la forza attiva cioè con l'energia cui egli
ridusse la materia stessa: « La forza attiva, che si suole anche dire
senz'altro forza, non è da concepirsi come la semplice potenza volgare della
scuola, cioè come una ricettività di azione, ma implica un conatus, cioè una
tendenza all’azione, cosicchè, se non c’è impedimento, ne deriva l’azione »
(Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI, pag. 100). Lo stesso concetto si
trova in Wolff (Cosm., $ 149) (v. SFORZO). CONCAUSA (gr. avvartia). Platone
indicò con questo termine la causa naturale che concorre con quella ideale alla
formazione delle cose del mondo (Tim., 68 e). CONCETTO (gr. x6y06; lat.
Conceptus; inglese Concept; franc. Concept; ted. Begriff). In generale, ogni procedimento che renda
possibile la descrizione, la classificazione e la previsione degli oggetti
conoscibili. Così inteso, il termine ha significato generalissimo e può
includere ogni specie di segno o procedura semantica, quale che sia l’oggetto
cui si riferisce, astratto o concreto, vicino o lontano, universale o
individuale, ecc. Si può avere un C. del tavolo come del numero 3, dell’uomo
come di Dio, del genere e della specie (i cosiddetti universali [v.]) come di
una realtà individuale, per es., di un periodo storico o di una istituzione
storica (il « Rinascimento » o il « Feudalesimo +). Per quanto il C. sia
normalmente indicato da un nome, esso non è il nome, giacchè differenti nomi
possono esprimere lo stesso C. o differenti C. possono essere indicati, per
equivocazione, dallo stesso nome. Il C. inoltre non è un elemento semplice o
indivisibile ma può essere costituito da un insieme di tecniche simboliche
estremamente complesse; come è il caso delle teorie scientifiche che possono
anche essere chiamate C. (il C. della relatività, il C. di evoluzione, ecc.).
Il C. non si riferisce neppure necessariamente a cose o fatti reali giacchè ci
possono essere C. di cose inesistenti o passate o la cui esistenza non è
verificabile o ha un senso specifico. Infine, l’allegato carattere di
universalità soggettiva o validità intersoggettiva del C. è in realtà
semplicemente la sua comunicabilità di segno linguistico: la funzione prima e
fondamentale del C. essendo quella stessa del linguaggio cioè la comunicazione.
La nozione di C. dà origine a due problemi fondamentali: quello circa la natura
del C. e quello circa la funzione del C. stesso. Questi due problemi possono
coincidere ma non coincidono necessariamente. A) ll problema della natura del
C. ha avuto due soluzioni fondamentali: 1° per la prima il C. è l'essenza delle
cose e precisamente la loro essenza necessaria, ciò per cui non possono essere
in modo diverso da ciò che sono; 2° per la seconda soluzione il C. è un segno.
1° La concezione del C. come essenza è quella del periodo classico della
filosofia greca: nel quale il C. è assunto come ciò che si sottrae alla
diversità o al mutamento dei punti di vista o delle opinioni, perchè si
riferisce a quei tratti che, essendo costitutivi dell’oggetto stesso, non
vengono alterati da un mutamento di prospettiva. Nei primordi della filosofia greca,
il C. è apparso come il termine conclusivo di una ricerca, che prescinde, per
quanto è possibile, dalla mutevolezza delle apparenze, per puntare a ciò che
l'oggetto è «realmente», cioè nella sua «sostanza » o «essenza ». Questa
ricerca è apparsa ai Greci come il còmpito proprio dell’uomo quale animale
ragionevole, cioè come il còmpito proprio della ragione; e infatti C. e ragione
vengono designati dai Greci con lo stesso termine, /ogos. Aristotele
attribuisce a Socrate il merito di aver scoperto « il ragionamento induttivo e
la definizione dell’universale, due cose che entrambe riguardano il principio
della scienza » (Mer., XIII, 4, 1078 b). Lo stesso merito viene a Socrate
riconosciuto da Senofonte (Mem., IV, 6, 1): Socrate ha mostrato come il
ragionamento induttivo porti alla definizione del C.; e il C. esprime l’essenza
o la natura di una cosa; ciò che la cosa veramente è. Platone fa
dell’universale socratico la realtà stessa. Il bello, il bene, il giusto sono
sostanze cioè realtà, anzi realtà nel senso forte del termine, realtà assolute.
Platone adopera gli stessi termini (sostanza, specie, forma o semplicemente
enti) per indicare le realtà ultime come sono «in se stesse» e come sono «in
noi» (cioè come C.). La mente umana contiene «la verità degli enti » (Men., 86
a-b); essa trova già come sue le sostanze che costituiscono la struttura
fondamentale della realtà (Fed., 76 d-e). Aristotele non fa su questo punto che
riprodurre, e articolare in una dottrina assai più complessa, il punto di vista
platonico. Il C. (Jogos) è ciò che circoscrive o definisce la sostanza o
l’essenza necessaria di una cosa (De an., II, 1, 412 b 16): perciò esso è
indipendente dal generarsi e corrompersi delle cose e non può esser prodotto o
distrutto da tali processi (Met., VII, 15, 1039 b 23). In altri termini, il C.
è per Aristotele identico con la sostanza, che è la struttura necessaria
dell’essere, ciò per cui ogni essere non può essere diverso da ciò che è (vedi
SOSTANZA). Queste determinazioni sono rimaste tipiche della concezione del C.
come essenza. Rispetto ad esse, il carattere dell’universalità appare
secondario e derivato: per universale, dice Aristotele, intendo «ciò che
inerisce al soggetto in ogni caso e per sè e in quanto un soggetto è quello che
è » (An. post., I, 4, 73 b 25 sgg.). Ora, «ciò che inerisce al soggetto in ogni
caso e di per sè, ecc.» non è altro che l’essenza necessaria del soggetto
stesso, quel che esso non può non essere: sicchè l’universalità è per
Aristotele la sostanzialità o necessità del concetto. Perciò Aristotele dice
che ci può essere C. anche dell’individuo (del « sinolo » o composto di materia
e forma) per quanto non dell’individuo considerato nella sua materia che è
indeterminata, quindi indefinibile, e che, per es., il C. di un uomo è l’anima
(Mer., VII, 11, 1037 a 26); distingue C. comuni e C. propri (De an., II, 3, 414
b 25); e parla di « C. materiali », quali sono le emozioni le quali sono
definite mediante i movimenti del corpo che le suscitano (/bid., I, 1, 403 a
25). Nell’àmbito di quest’identificazione del C. con l'essenza, non costituisce
innovazione decisiva il far derivare, come fa Epicuro, il C. stesso dalle
sensazioni; giacchè questa derivazione, per il carattere necessariamente
veridico delle sensazioni, garantisce la realtà del C. (Drogo. L., X, 32).
Dall’altro lato la disputa medievale sugli universali (v.) — con la quale
parola s'intendono i C. di genere e di specie — è in realtà la disputa tra le
due concezioni fondamentali del C., quella platonico-aristotelica e quella stoica:
il realismo rappresenta la prima di tali concezioni, il nominalismo la seconda.
Non fa meraviglia che la Scolastica la quale è nata e si è sviluppata, dal
punto di vista logico e gnoseologico, sotto il segno del neo-platonismo
agostiniano e dell’aristotelismo, abbia scelto prevalentemente la soluzione
realistica del problema degli universali, affermando la realtà del C. come
elemento costitutivo o essenziale della realtà stessa. S. Tommaso dice: «
Poichè ogni conoscenza è perfetta nella misura in cui c’è simiglianza tra il
conoscente e il conosciuto, occorre che nel senso ci sia la simiglianza della
cosa sensibile quanto agli accidenti di essa, ma nell’intelletto ci sia la
simiglianza della cosa intesa quanto all'essenza di essa » (Contra gent., IV,
11). Il C. « penetra nell'interno della cosa » (/bid., IV, 11) coglie l’essenza
o la sostanza di essa giacchè non è altro che questa sostanza asrrarta dalla
cosa stessa. Attraverso l’interpretazione della sostanza aristotelica, come
es-senza necessaria, Duns Scoto riafferma la stessa tesi: il C. ha per oggetto
una « natura comune» che è il quod quid erat esse di Aristotele. Essa «non è
così universale come il C., nè così individuale come la cosa, ma è a fondamento
dell’uno e dell’altra » (Op. Ox., II, d. 3, q. 1, n. 7). Questo realismo non
subisce mutamenti importanti neppure nella filosofia moderna. L’identità di C.
e realtà, forse presupposta da Cartesio, è resa esplicita da Spinoza: «Il
circolo esistente nella natura e l’idea del circolo esistente, la quale è anche
in Dio, sono una sola e medesima cosa, che si manifesta per diversi attributi »
(Er., II, 7, Scol.). Un realismo del C., limitato tuttavia alla realtà
fenomenica (che è poi la sola accessibile all'uomo) è la stessa dottrina di
Kant. Difatti se i C. empirici si riferiscono alle cose solo per il tramite di
una sensazione, i C. puri o caregorie entrano a costituire le cose stesse in
quanto percepite, cioè apparenti nell’esperienza. I C. puri o categorie sono
infatti, nello stesso tempo, «forme dell’intelletto » e «condizione degli
oggetti fenomenici ». Essi cioè entrano a costituire gli stessi oggetti
fenomenici, cioè gli oggetti di ogni esperienza possibile (Critica R. Pura,
Analitica dei concetti, $ 10). La dottrina fondamentale del kantismo è per
l’appunto il carattere costitutivo dei C. puri, carattere sul quale si fonda lo
stesso carattere rappresentativo dei C. empirici (Zbid., $ 16, nota).
Indubbiamente, per Kant il C. non è tutta la realtà e non è creativo della
realtà stessa: costituisce l’ordine necessario, per cui la realtà si rivela
all’indagine scientifica come sottoposta a leggi immutabili. Ma appunto per ciò
costituisce la struttura ossea, o l’ossatura necessaria, della realtà empirica,
cioè della sola realtà che l'uomo possa indagare e conoscere. Da questo punto
di vista, l’intero armamentario del criticismo sembra sia diretto a
riconfermare la tesi classica, platonico-aristotelica, sulla natura del C.: la
sua identità con la sostanza necessaria della realtà. E questa stessa tesi,
senza le limitazioni del fenomenismo kantiano, si trova nell’Idealismo
romantico: che però accentua la funzione creativa del C. e identifica il C.
stesso col Principio razionale infinito, creatore e organizzatore della realtà
stessa. È un luogo comune della filosofia hegeliana che il C. non è una pura
rappresentazione soggettiva ma è l’essenza stessa delle cose, il loro «in sè ».
«La natura di ciò che è, è di essere, nel proprio essere, il proprio C., dice
Hegel; e in ciò sta, in generale, la necessità logica » (Phénom. des Geistes,
Pref., $ 3). L’Idea assoluta o infinita, la Ragione autocosciente che è la
sostanza del mondo, non è altro che « il C. come C.» (Enc., $ 213). «Il C.,
dice ancora Hegel — non ciò che si ode spesso chiamare in tal modo ed è
soltanto un’astratta determinazione 148 intellettualistica — è unicamente ciò
che ha realtà, in maniera cioè da darsi esso stesso la realtà» (Fil. del Dir.,
$ 1). Nella concezione hegeliana, la struttura necessaria della realtà è
divenire e progresso e si è posta come Ragione infinita e creatrice. Per quanto
grande la distanza possa apparire tra questa e la concezione classica, essa non
lo è dal punto di vista della teoria del C.; per Hegel, come per Aristotele, il
C. è l’essenza necessaria della realtà, ciò che fa sì che essa non possa esser
diversa da quella che è. Nella filosofia contemporanea l’idealismo ha ripreso
l’interpretazione hegeliana del C. come realtà necessaria o necessità reale.
Croce, per es., l'intende come sviluppo, divenire e sistema, attività razionale
e concreta, spirito o ragione (Logica come scienza del C. puro, 1908). Un
ritorno alla forma classica che l’interpretazione del C. aveva assunto in
Aristotele si può invece considerare la fenomenologia di Husserl. Husserl
condivide la polemica del logicismo moderno contro lo psicologismo che vede nel
C. una formazione psichica (v. PsicoLoGIsMo). Formazione psichica è, per es.,
la rappresentazione di numero che varia da momento a momento e da un individuo
a un altro; ma il C. di numero è sempre quello, ed è un’entità intermporale. I
C. devono perciò essere ritenuti identici con le essenze ed è anzi meglio
parlare, anzichè di C., di essenze (che sono oggetti) e, dal lato soggettivo,
di « visione delle essenze » come atto analogo al percepire sensibile (Ideen, I,
$$ 22-23). Così in quella che è l’ultima formulazione storica
dell’interpretazione del C. come realtà necessaria, il termine stesso di C.
viene abbandonato come improprio, analogamente a quanto accade negli sviluppi
della seconda interpretazione del concetto. 2° Per tale seconda
interpretazione, il C. è un segno dell’oggetto (quale che sia) e si trova con
esso in rapporto di significazione. Per questa interpretazione, che si presenta
per la prima volta negli Stoici, la dottrina del C. diventa una teoria dei
segni. Non ci può essere segno, secondo gli Stoici, nè delle cose evidenti nè
delle cose assolutamente oscure; ci può essere soltanto delle cose oscure per
il momento od oscure per loro natura. A queste due specie di cose corrispondono
due specie di segni: 1° i segni rammemorativi che si riferiscono alle cose
oscure per il momento; 2° i segni indicativi che si riferiscono alle cose
oscure per natura. Un segno rammemorativo si ha, per es., quando si dice «Se
c’è fumo, c’è fuoco»? non vedendo ancora fuoco. Un segno indicativo è, per es.,
un movimento del corpo, in quanto esprima uno stato dell'anima. Per segno
s’intende poi «una proposizione che, essendo antecedente in una connessione
vera, è discopritrice del conseguente ». In CONCETTO altri termini si ha un
segno, se si ha una proposizione condizionale del tipo «Se... allora», la quale
soddisfi a due condizioni: 1° deve cominciare dal vero e finire nel vero, cioè
sia l’antecedente che il conseguente devono essere veri; 2° deve essere
discopritiva, cioè deve dire qualcosa non immediatamente evidente. Ad es., «Se
è giorno, c’è luce », detto quando è giorno, non è ancora un segno; mentre è un
segno la proposizione: «Se questa ha latte, allora ha partorito» dove
l’antecedente è discopritore del conseguente (/por. Pirr., II, 97 sgg.; Adv.
Dogm., II, 141 sgg.). Questa dottrina stoica dei segni (sulla quale v.
SIGNIFICATO) è rimasta il modello della seconda alternativa fondamentale che la
dottrina del C. ha storicamente trovato. Trasmessa da Boezio alla Scolastica latina,
essa trova la sua prossima tappa nella logica di Abelardo (x secolo) il quale
accentuando il carattere predicativo del C., negò che esso potesse essere
considerato sia come una cosa (res) sia come un nome (vox) — giacchè nè la cosa
nè il nome (che è pure una cosa) possono essere predicati di un’altra cosa — e
considerò il C. stesso come un sermo (discorso). A differenza della vox, il
sermo implica il riferimento semantico ad una realtà significata, riferimento
che la Scolastica posteriore chiamerà suppositio. La realtà significata non è,
secondo Abelardo, nè una sostanza universale nè una classe di cose singole ma
lo sraro comune in cui convengono un gruppo di cose. In questo senso Abelardo
dice che «la causa comune» dell’universale «uomo» è lo status di uomo che non è
nè una cosa nè una sostanza ma piuttosto ciò in cui tutti gli uomini convengono
in quanto tali (Philosophische Schriften, ed. Geyer, pag. 19-20). La dottrina
fu poi ripresa dalla logica terministica che trovò Ia sua formulazione scolastica
nelle Summulae Logicales di Pietro Ispano (verso la metà del 1200). Nelle
Summu/ae la funzione del termine, sia universale sia particolare, viene
definita mediante la nozione di supposizione (v.) per la quale i termini stanno
in luogo della cosa supposta, sicchè, per es., nella proposizione « l’uomo
corre», il termine « uomo » sta per Socrate, Platone, e così via (Sumunulae
Log., 6.03). La Scolastica del ’300 segna il definitivo abbandono del realismo
o formalismo che era prevalso in S. Tommaso e Duns Scoto, e un ritorno della
teoria stoica del concetto. Questo è chiamato intfentio animae come ogni altro
atto o elemento di conoscenza (giacchè la conoscenza si riferisce sempre a
qualcosa d’altro da sè) ed è definito come «segno predicabile di più cose». Secondo
Ockham, il C. possiede inoltre un altro carattere fondamentale: è un segno
naturale. Egli dice: «L’universale è duplice. Uno è l’universale naturale che è
un segno predicabile di più cose; al modo in cui il fumo naturalmente significa
il fuoco, il gemito dell’infermo il dolore, e il riso l’interna gioia. Tale
universale è solo un’intenzione dell’anima, giacchè nessuna sostanza fuori
dell’anima e nessun accidente fuori dell’anima è un universale siffatto...
L'altro è l’universale istituito ad arbitrio (per voluntariam institutionem); e
in questo senso la voce profferita, che tuttavia è una qualità numericamente
una, è universale perchè è un segno istituito arbitrariamente per significare
più cose» (Summa Log., I, 14). La funzione logica del C. è quella della
supposizione, per la quale il C. stesso, in tutti i complessi in cui entra, sta
per le cose significate; quanto alla realtà che il C. stesso possiede
nell'anima come infentio animae, Ockham non si mostra interessato a decidere; e
sembra anzi inclinare alla dottrina estrema che il C. non ha nell’anima alcuna
realtà ma esiste soltanto in essa obiective cioè a titolo di rappresentazione o
di immagine (In Sent., I, d. 2,q.8E). La dottrina di Ockham è tipica della
posizione empiristica rispetto alla natura del C., posizione che ha
costantemente due capisaldi: 1° la natura segnica del C.; 2° la sua connessione
causale con le cose, delle quali sarebbe il naturale prodotto nell’uomo. Questa
dottrina si ritrova infatti in Locke (Saggio, III, 3, $$ 6-9), in Berkeley
(Principles of Human Knowledge, Intr., $ 12 sgg.) e in Hume (7rearise, I, 1,
7). Hume invoca l’abitudine per spiegare la genesi psicologica del C. (/bid.,
I, 1, 7); James Mill invoca la legge dell’associazione psicologica (Analysis of
the Phenomena of the Human Mind, 2* ed., 1869, I, pagina 78 sgg.) e così fa
pure Stuart Mill (Examination of Phil. of Hamilton, pag. 393). È proprio
dell’empirismo assumere la spiegazione psicologica della genesi del C. come
giustificazione della sua validità: cioè ritenere dimostrata la validità del C.
e la legittimità del suo uso per aver mostrato il modo in cui esso viene a
formarsi nell'uomo con l’azione dell’astrazione (come riteneva Locke) o della
associazione psicologica, come ritengono gli Empiristi della prima metà
dell’800. Ma già Kant aveva insistito sulla differenza tra le due cose
distinguendo la « derivazione fisiologica » dei C. tentata da Locke, dalla «
deduzione » dei C. stessi, cioè dalla dimostrazione della loro validità (Crir.
R. Pura, $ 13). La distinzione tra validità logica e realtà psicologica dei C.
si mantiene in tutte le scuole del neo-criticismo tedesco contemporaneo (e
soprattutto dalla Scuola di Marburgo cui appartengono Cohen, Natorp e Cassirer)
ed era stata riaffermata come indispensabile alle formulazioni del pensiero
matematico e in generale del pensiero scientifico, da Bolzano nella sua
Dottrina della scienza (1837). L’elabora149 zione matematica della logica
portava ad insistere sulla natura oggettiva, non psicologica, del C., come
sulla sua natura simbolica. Questi due aspetti del C. vengono sottolineati da
Frege. In uno scritto del 1890 egli asseriva che « il C. è qualcosa di
oggettivo, che non viene costruito per opera nostra »; e che pertanto una
proposizione come «Il numero 3 è un numero primo +» è « qualcosa di
completamente indipendente dalla circostanza che noi vegliamo, o dormiamo,
viviamo 0 no; qualcosa che vale e varrà oggettivamente sempre, non importando
se esistano o esisteranno esseri che riconoscano 0 no questa verità » (Ueber das
Tràgheitsgesetz, 1890, in Aritmetica e logica, ed. Geymonat, pag. 211-12). Da
questo punto di vista, Frege definiva il C. come «il significato di un
predicato » (Ueber Begriff und Gegenstand, 1892, $ 2; ed. Geymonat, pag. 199);
e definiva il significato stesso come l’oggetto designato dal segno
distinguendo il significato dal senso che denota « il modo in cui l’oggetto ci
vien dato» (Ueber Sinn und Bedeutung, 1892, $ 1, ed. Geymonat, pag. 216 sgg.).
Queste notazioni di Frege sono molto importanti perchè segnano l’inizio della
risoluzione, avvenuta in buona parte della filosofia contemporanea, della
nozione di C. nella nozione di significato. Già Husserl (che tuttavia sosteneva
un realismo concettualistico) considerava i C. come significati (Bedeutungen:
cfr. Ideen, I, $ 10). «Termini o significati » chiama i C. Dewey che sotto
questo titolo procede a classificarli (Logic, cap. XVIID. E R. Carnap
identificando, nello stesso senso di Frege, il C. con l'oggetto intendeva per
esso « tutto ciò su cui possono formularsi proposizioni » (Der logische Aufbau
der Welt, 1928, $ 5). Dell’avvenuta identificazione tra C. e significato dava
atto nel 1942 Susan K. Langer mostrando la convergenza di molte correnti della
filosofia contemporanea verso il riconoscimento del simbolismo nella scienza,
nell’arte, nella filosofia e in generale in tutte le forme culturali umane
(Philosophy in a New Key, 1942, cap. III). Quine ha indicato esattamente il
punto critico della trasformazione delia nozione di C. quando ha detto « il significato
è ciò che l’essenza diventa quando ha fatto divorzio dall’oggetto di
riferimento e si è sposata con la parola » (From a Logical Point of View, II,
1). È tuttavia da notare che il termine C. o significato viene più
frequentemente riferito a indicare la connotazione che la denotazione. Così
Carnap negli ultimi scritti ha inteso per concetto la proprietà o l'attributo o
la funzione (Introduction to Semantics, 1942; 2» ediz., 1959, $ 37). Ciò
costituisce una eccezione alla terminologia proposta da Frege, eccezione
tuttavia che è raccomandata dai logici (confronta A. CHURCH, Introduction to
Mathematical Logic, $ 01, e n. 17). V. SIGNIFICATO. B) La funzione del C. può
essere concepita in due maniere fondamentali diverse, cioè come finale e come
strumentale. Funzione finale attribuisce al C. l’interpretazione di esso come
essenza: giacchè per questa interpretazione il C. non ha altra funzione se non
di esprimere o rivelare la sostanza delle cose. La funzione si identifica da
questo punto di vista con la natura stessa del concetto. Quando invece si
ammetta la teoria simbolica del C., si ammette con ciò anche la strumentalità
di esso; e questa strumentalità può essere chiarita e descritta nei suoi
molteplici aspetti. Gli aspetti principali sono i seguenti: 1° La prima
funzione attribuita al C. è quella di descrivere gli oggetti dell'esperienza
per consentirne il riconoscimento. Era questa la funzione principale che
Epicurei e Stoici attribuivano alle anticipazioni (o prolessi). Secondo gli
Epicurei, l’anticipazione è « una comprensione o retta opinione o pensiero o
nozione universale insita in noi come memoria di ciò che ci è spesso apparso
fuori di noi» (Dioc. L., X, 33). Questa funzione descrittiva o riconoscitiva
del C. viene spesso sottaciuta in quanto è la più ovvia. Recentemente G.
Bergmann ha chiamato I C. parole-caratteri (CharacterWords) per indicare la
loro funzione descrittiva o referenziale (Philosophy of Science, 1957, pag.
13). 2° La seconda funzione attribuita al C. è quella economica. A questa funzione
si lega il carattere classificatorio del C. stesso. «La varietà delle reazioni
biologicamente importanti, ha detto E. Mach, è molto minore della varietà degli
oggetti esistenti. Perciò l’uomo è stato condotto a classificare i fatti nei
concetti. Lo stesso procedimento si riproduce quando, in una professione, si
affrontano fatti che non offrono più interessi biologici immediati »
(Erkenniniss und Irrtum, 1905, cap. VIII; trad. franc., pag. 136). Sotto questo
aspetto, i C. sono «segni riassuntivi e indicativi delle reazioni possibili
dell'organismo umano nei confronti dei fatti » (Mechanik, 1883, pag. 510). È
questo il carattere su cui hanno fatto leva alcuni filosofi per negare il
carattere teoretico dei C. scientifici a vantaggio di una forma superiore o
privilegiata di conoscenza. Così Bergson ha contrapposto al C., semplice schema
economico ai fini dell'azione, l'intuizione (Évolution Créatrice, 88 ediz.,
1911, pag. 247 sgg.). Croce ha chiamato per questo motivo i C. scientifici
pseudo-concetti riservando il nome di C. alla Ragione stessa (Logica, cap. II).
3° La terza funzione del C. è quella di organizzare i dati dell’esperienza in
modo tale da stabilire tra essi connessioni di natura logica. Un C.,
soprattutto un C. scientifico, non si limita, di regola a descrivere e
classificare i dati empirici ma rende possibile la loro derivazione deduttiva
CONCETTO-CLASSE (DuHEM, La théorie physique, pag. 163 sgg.). È questo l’aspetto
per cui la formulazione concettuale delle teorie scientifiche ténde all’assiomatizzazione:
la generalizzazione e il rigore dell’assiomatizzazione tendono a portare al
limite il carattere logicamente organizzativo del concetto. 4° La quarta
funzione del C., ritenuta oggi quella fondamentale nelle scienze fisiche, è la
previsione. Come già riconoscevano gli Stoici, lo scopo di un segno è in
generale quello di prevedere; e il nome di anticipazione, che Epicurei e Stoici
davano al C., esprime appunto questa funzione. Per essa, il C. è un mezzo o
procedimento anticipatorio o progettante. Per Dewey, esso anticipa o progetta
la soluzione di un problema esattamente formulato (Logic, XX, $ 1; trad, ital,
pag. 516; cfr. XXIII, $ 1; pag. 599). Per altri la funzione anticipatoria del
C. è lo strumento di cui la scienza si serve « per predire l’esperienza futura
alla luce dell'esperienza passata » (Quine, From a Logical Point of View, II,
6). Alle funzioni della organizzazione e della previsione adempiono oggi i tipi
fondamentali dei C. scientifici che non sono nè descrittivi nè classificatori: cioè
i modelli, i C. matematici e i costrutti. I modelli costituiscono
semplificazioni o idealizzazioni dell’esperienza e si ottengono portando al
limite caratteri o attributi propri degli oggetti empirici. Sono modelli in
questo senso i C. di velocità istantanea, di sistema isolato, di gas perfetti e
in generale i modelli meccanici. I C. matematici sono semplicemente occasioni
per introdurre speciali procedimenti di calcolo e in questo senso sono
strumenti di previsione. Il C. di «onda di probabilità », proprio della
meccanica quantistica, appartiene a questa specie: come appartengono a questa
specie quelli di «campo tensoriale », « spazio CUTvo ?, ecc. Infine i costrutti
(v.) sono C. di entità che non sono date nell'esperienza e non somigliano
neppure ad oggetti dati, e la cui esistenza consiste semplicemente nella
possibilità di essere usate come strumenti di previsione nel contesto di una
teoria. Sono esempi di costrutti i C. di campo, di elettrone, di etere, ecc. (P. W. BRIDGMANN, The Logic
of Modern Physics, 1927, cap. II; M. K. MUNITZ, Space Time and Creation, 1957,
IV, 2). CONCETTO-CLASSE (ingl. Class-Concept).
Termine introdotto nella Logica da Russell (The Principles of Mathematics):
designa il C. mediante cui si definisce una c/asse (v.), o, più esattamente, la
funzione proposizionale « Fx» le cui radici formano la classe, in modo che
condizione necessaria e sufficiente perchè un individuo a sia un elemento di
una classe (« appartenga alla classe +) definita mediante una funzione «Fx+è
che la proposizione « Fa» sia vera. G.P. CONCETTUALISMO (ingl. Conceptualism;
franc. Conceptualisme; ted. Conceptualismus). Nome che gli storici
ottocenteschi della filosofia medievale hanno dato a quella corrente della
Scolastica medievale che gli Scolastici stessi chiamavano nominalismo (v.); ciò
allo scopo di distinguere il nominalismo estremo di Roscellino, per il quale il
concetto universale è una semplice vox o ffatus vocis dal nominalismo di
Abelardo, per cui l’universale stesso è un discorso (sermo) predicabile di più
cose e dal nominalismo posteriore che s’ispira ad Abelardo (v. NOMINALISMO;
UNIVERSALI). CONCEZIONE (ingl. Conception; franc. Conception; ted. Konzeption).
Questo termine designa (come quelli corrispondenti di percezione e di
imaginazione), sia l’atto del concepire, sia l'oggetto concepito; ma, a
preferenza, l’atto di concepire anzichè l’oggetto, per il quale va riservato il
termine concetto (v.). Hamilton faceva già questa osservazione (Lectures on
Logic, I, pag. 41) che talora è ripetuta nella filosofia contemporanea: «Appena
un concetto è simbolizzato per noi la nostra imaginazione lo riveste di una C.
privata e personale, che possiamo distinguere solo per un processo di
astrazione dal concetto pubblico e comunicabile + (Susan K. LAnGER, Philosophy
in a New Key, cap. IID. CONCLUSIONE (lat. Conclusio; ingl. Conclusion; franc.
Conclusion; ted. Schluss). Mentre in Apuleio e Boezio conclusio è il termine
mediante il quale si designa la totalità di un discorso dimostrativo, nei
Logici medievali esso è usato come traduzione del ovurépacpa aristotelico e
della trupopà stoica, cioè per indicare la proposizione terminale del discorso
dimostrativo stesso (cfr. PIETRO ISPANO: « Est enim conclusio argumento vel
argumentis approbata propositio »; Summul. Log., 5.02). Nella filosofia moderna
e contemporanea ha mantenuto lo stesso senso. Solo nei filosofi tedeschi
Sck/uss è spesso usato per indicare l’intero sillogismo. G. P. CONCOMITANZA
(ingl. Concomitance; francese Concomitance; ted. Konkomitanz). Uno dei quattro
metodi della ricerca sperimentale enumerati da Stuart Mill e precisamente quello
detto delle « variazioni concomitanti » espresso con la seguente regola: « Un
fenomeno che vari in qualche maniera ogni volta che un altro fenomeno vari in
qualche particolare maniera è la causa o l’effetto di questo fenomeno o è
connesso con esso da qualche fatto di causazione » (Logic, III, 8, $ 6). A
questo metodo Mach ridusse tutti i procedimenti della scienza. «Il metodo delle
variazioni, egli disse, consiste nello studiare per ciascun elemento la
variazione che si trova legata alla variazione di ciascuno degli altri
elementi. Importa poco che tali variazioni si producano da sè o che noi le
provochiamo volontariamente; le relazioni saranno scoperte dall’osservazione o
dall’esperimento» (Erkenntniss und Irrtum, cap. I; trad. franc., pag. 28-29) (v.
ConCORDANZA; DIFFERENZA; RESIDUI). CONCORDANZA, METODO DELLA (inglese Method of
Agreement; franc. Méthode de concordance; ted. Methode der Uebereinstimmung).
Uno dei quattro metodi della ricerca sperimentale enumerati da Stuart Mill e
precisamente quello espresso dalla regola seguente: « Se due o più casi del
fenomeno che si sta investigando hanno un’unica circostanza in comune, la
circostanza nella quale sola tutti i casi concordano è la causa, o l’effetto,
del fenomeno dato » (Logic, III, 8, $ 1). Un caso del metodo della C. è la
combinazione di esso con quello di differenza, combinazione che è retta dalla
seguente regola: «Se due o più casi nei quali il fenomeno ha luogo hanno solo
una circostanza in comune, mentre due o più casi nei quali esso non ha luogo
non hanno in comune se non l’assenza della circostanza, la circostanza nella
quale sola i due insieme di casi differiscono, è l’effetto o la causa, o una
parte indispensabile della causa del fenomeno + (/bid., $ 4) (v. CONCOMITANZA;
DIFFERENZA; RESIDUI). CONCRESCENZA (ingl. Concrescence). Whitehead ha visto
nell’evoluzione emergente (o creatrice) un « processo di C. + al quale
contribuiscono egualmente l’aspetto fisico e l’aspetto spirituale,
indissolubilmente uniti ed entrambi attivi (Process and Reality, pag. 151). CONCRETO
(ingl. Concrete; franc. Concret; ted. Konkret). Il contrario di astratto (v.).
I filosofi designano abitualmente col termine elogiativo di C. ciò che s’adegua
al loro criterio di realtà. Perciò C. non è sempre l’individuale, il singolo,
la cosa o l’essere esistente, come si potrebbe credere e come è, forse, l’uso
comune del termine. Per Hegel il C. è l’Universale, la Ragione, l’Infinito,
mentre l’astratto è appunto l'individuo, l’oggetto singolo, ecc. « L’astratto è
il finito, il C. è la Verità, l’Oggetto infinito », dice Hegel (Philosophie der
Religion, ed. Glockner, II, pag. 226; cfr. Geschichte der Philosophie, ed.
Glockner, I, pag. 52 sgg.). Così Croce ha parlato di un «universale C.» e
Gentile del « pensiero C. ». Per Bergson il C. è la durata reale, cioè la vita
della coscienza nella sua immediatezza. Si può dire che il termine non ha altra
funzione che quella di qualificare onorificamente la realtà, vera o supposta,
che si intende privilegiare. CONCREZIONE (ingl. Concrezion). Parola coniata da
G. Santayana per indicare la crescita dovuta all’unificazione di più cose. Così
le C. formate da un’associazione per simiglianza sono idee o essenze 0 «C. di
discorso»; mentre le C. costituite dall’associazione per contiguità sono cose. (Cfr.
specialmente Reason in Common Sense, 1905, pag. 161 sgg.). CONCUPISCENZA (lat.
Concupiscientia; inglese Concupiscence; franc. Concupiscence; ted. Geliste). È,
secondo S. Tommaso (che rinvia alla definizione aristotelica del piacere, Rer.,
I, 11, 1369 b 33) il desiderio del piacere (delectatio). Il piacere si può
provare sia per un bene spirituale, sia per un bene sensibile, e il primo
appartiene solo all’anima, il secondo all’anima e al corpo insieme: la C.
designa il desiderio di questa seconda specie di piacere, cioè il desiderio
sensibile (S. 7h., II, 1, q. 30, a. 1). CONCUPISCIBILE. Una delle parti
dell’anima, secondo Platone (v. FACOLTÀ). CONCURSUS DEI. Si designò con questa
espressione, negli ultimi tempi della Scolastica, la parte dovuta a Dio nella
produzione e nel comportamento delle sostanze finite. La dottrina dominante
nella Scolastica è quella esposta da S. Tommaso: che la causa prima, cioè Dio,
è più efficiente delle cause seconde che derivano il loro potere solo da essa
(S. 7A., II, 1, q.19,a. 4). Ma nell’ultima fase della Scolastica e precisamente
ai principi del sec. xIv, si cercò di limitare la portata della causalità
divina, per evitare che si attribuissero a Dio stesso le imperfezioni e i mali
del mondo. Così Durando di St.-Pourgains e Pietro Aureolo ritennero che il
concorso di Dio con la creatura è solo generale e mediato; che Dio crea le
sostanze e dà loro la forza di cui hanno bisogno, ma dopo ciò le lascia fare e
si limita a conservarle nel loro essere, senza aiutarle nelle loro azioni.
Nell’età post-cartesiana, sia gli occasionalisti, sia Spinoza, sia Leibniz
ritornarono alla nozione tradizionale dell’intera e piena causalità divina nel
mondo. Leibniz, in particolare, riespose a suo modo la dottrina del concorso
divino, distinguendo, oltre il concorso straordinario o miracoloso, un concorso
immediato e un concorso speciale: il primo che consiste nel fatto che l’effetto
non solo dipende da Dio ma che Dio concorre a produrlo non meno della causa
seconda di esso; e il secondo che è diretto non soltanto all’esistenza della
cosa ma anche al suo modo di esistere e alle sue qualità, giacchè ciò che nella
cosa c’è di perfetto non può dipendere che da Dio (Op., ed. Erdmann, pag. 653).
CONDILLACHISMO. V. Sensismo. CONDIZIONALE (gr. cvwupévoy délwpa; lat.
Propositio hypothetica; ingl. Conditional; francese Conditionnel; ted.
Bedingt). Una relazione tra due stati di cose o due proposizioni, indicata dal
connettivo se... allora. Questa relazione fu studiata per la prima volta nella
scuola di Megara e interpretata in due modi diversi da Filone e da Diodoro
Crono. Filone affermava che la relazione è vera quando non comincia dal vero e
finisce nel falso. Diodoro affermava invece che essa è vera quando non comincia
dal vero nè finisce nel falso. La condizione posta da Diodoro per la validità
del C. era perciò assai più ristretta di quella posta da Filone giacchè per
quest’ultimo una proposizione vera segue da ogni cosa (anche dal falso). Per
es., la relazione «Se è notte, è giorno », posto che sia giorno, è vera secondo
Filone perchè comincia dal falso (cioè ha l’antecedente falso) «è notte», ma
finisce nel vero (cioè ha il conseguente vero) « è giorno ». Secondo Diodoro,
invece, è falsa perchè ammette di cominciare dal vero, posto che sopraggiunga
la notte, e di finire nel falso «è giorno » (Sesto EMPIRICO, Adv. Math., VIII,
113117; Cicer., Acad., IV, 143). Le interpretazioni di Filone e di Diodoro
corrispondono perciò rispettivamente a quelle che oggi si chiamano implicazione
materiale e implicazione formale (v. IMPLICAZIONE): giacchè Filone interpretava
il C. «se è giorno, c'è luce » come se dicesse «0 non è giorno o c’è luce »,
mentre Diodoro l’interpretava come se dicesse «ora c’è giorno, dunque ci
dev'essere luce », ammettendo una connessione causale tra l’antecedente e il
conseguente. E difatti Filone ammetteva una tavola di verità che è identica a
quella dell’implicazione materiale. Il C. è vero in tre casi e falso in un
caso. È vero se comincia dal vero e finisce nel vero: « Se è giorno, c’è luce »;
è vero se comincia dal falso e finisce nel falso: «Se la terra vola, la terra
ha le ali». È vera se comincia dal falso e finisce nel vero: «Se la terra vola,
la terra esiste». È falsa solo quando comincia dal vero e finisce nel falso: «
Se è giorno, è notte», posto che sia giorno. E così la relazione: «Se è giorno,
io discorro », è vera secondo Filone, posto che io discorra, ma falsa secondo
Diodoro. La dottrina di Filone fu sostanzialmente accettata dagli Stoici (Dio.
L., VII, 73) e fu discussa nella logica medievale (che utilizzò la trascrizione
che ne aveva fatta Boezio) come dottrina della conseguenza (v.). Nella logica
moderna, la dottrina è stata ripresa da Frege (a partire dal Begriffsschrift,
1879) e da Peirce a partire dal 1885; secondo il quale, il principale vantaggio
dell’interpretazione di Filone è quello che essa consente di esprimere le
proposizioni categoriche e le proposizioni condizionali nella stessa forma.
Così, per es., la proposizione « Ogni uomo è ragionevole» si può esprimere
dicendo: « Per ogni oggetto x qualsiasi, è vero che o x non è un uomo o x è
ragionevole » (PEIRCE, Coll. Pap., 3. 43945). Il concetto di C. è oggi il più
delle volte considerato equivalente a quello di implicazione (v.). Quine ha
tuttavia proposto una distinzione opportuna tra i due concetti: l’implicazione
dovrebbe essere intesa come relazione tra proposizioni e il C. come relazione
tra oggetti o stati di fatto. Così si dovrebbe dire « ‘Se piove” implica ‘la
terra si bagna ’ », mentre il C. sarebbe « Se piove, la terra si bagna »
(Methods of Logic, 1952, $ 7). CONDIZIONATO (ingl. Conditioned; francese
Conditionné; ted. Bedingt). Ciò la cui possibilità dipende da altro. Riflesso
C. ha chiamato Pavlov il riflesso prodotto da uno stimolo artificiale (v.
AZIONE RIFLESSA). Kant nella discussione delle antinomie della ragion pura
(Crif. R. Pura, Dialettica trascendentale, cap. II) ha usato la parola come
sinonimo di causato. Hamilton (Lectures on Metaphysics, 18591860) ha inteso per
C. il relativo; e in questo senso ha detto che « pensare è condizionare »
perchè ciò che si pensa o si conosce è quello che è rispetto alle facoltà
umane, non assolutamente. Lo stesso significato è attribuito alla parola da
Mansel (Phil. of the Conditioned, 1866). CONDIZIONE (ingl. Condition; franc.
Condition; ted. Bedingung). In generale, ciò che rende possibile la previsione
probabile di un evento. La nozione si è formata nell’età moderna, dapprima
attraverso il tentativo di liberare la nozione di causa dalle sue implicazioni
antropomorfiche, poi attraverso l’esigenza di liberarla dal suo carattere
necessitante. Claude Bernard, che tuttavia credeva nel carattere necessitante
della causa (v. CausaLITÀ), diceva: «L’oscura nozione di causa deve essere
confinata all’origine delle cose: non ha senso che quando si parla della causa
prima o causa finale. Nella scienza, deve far posto alla nozione di rapporto o
di condizione » (Lecons sur les phénoménes de la vie, II, pag. 396 sgg.).
Dall'altro lato, Stuart Mill, osservando che la successione invariabile in cui
la causalità consiste, raramente si trova tra un conseguente e un singolo
antecedente ma c’è il più delle volte tra un conseguente e la somma di diversi
antecedenti, che sono tutti richiesti « a produrre il conseguente, cioè
affinchè siano certamente seguiti da esso», aggiungeva: «In tali casi è cosa
assai comune mettere in evidenza uno solo degli antecedenti sotto la
denominazione di causa, chiamando gli altri soltanto condizioni» (Logic, III,
10, 3). La C. sarebbe così ciò che per suo conto non basta a produrre
l’effetto, cioè: non rende certo il verificarsi dell’effetto. Il che
corrisponde all’uso della parola C. nell'espressione (di origine giuridica)
conditio sine qua non, nella quale la C. significa una clausola o riserva da
cui dipende l’intera validità dell'atto giuridico, sebbene indubbiamente non
sia la causa di esso. Alla parola è pertanto connesso il significato di una
limitazione di possibilità tale che ciò che cade fuori delle possibilità così
limitate elimini o renda non-possibile l’oggetto condizionato. In riferimento a
questo significato, la parola viene usata da Kant. Per quanto l'opera di Kant
sia diretta a difendere il principio di causalità necessaria come forma o
struttura oggettiva della natura, essa fa un uso frequente della nozione di C.
in un significato che non è riconducibile a quello di causa e che Kant non si è
fermato di proposito a delucidare. L’uso kantiano è indicato da espressioni
come le seguenti, che s’incontrano frequentemente nella Critica della Ragion
Pura: « C. della possibilità dei fenomeni », « C. soggettiva della sensibilità
», « C. della possibilità di ogni esperienza », «C. formale di tutti i fenomeni
in generale» (il tempo), «C. soggettive del pensare » (le categorie), « C. a
priori per cui è possibile l’esperienza » (le categorie), ecc. In queste e
simili espressioni ciò che vi è di importante è la connessione tra « C.» e «
possibilità ». Kant qualche volta dice semplicemente « C.+, qualche volta dice
« C. della possibilità »; e le due espressioni s’equivalgono. Il che vuol dire
che, secondo Kant, dire che «x è la C. di y» o dire che «x rende possibile y »
significa la stessa cosa. Ciò che rende possibile qualcosa (per es., la
conoscenza o l’esperienza o il fenomeno) è la C. di questo qualcosa. Questa definizione,
certamente non data mai esplicitamente ma neppure soltanto implicita, della
nozione nell’opera di Kant, costituisce il punto decisivo della elaborazione
filosofica di essa. Un passo ulteriore nello stesso senso è stato effettuato da
Max Weber nella sua ricerca sul significato del principio di causalità per le
scienze storiche (1905). Per quanto Weber adoperi di preferenza la parola causa
e parli di spiegazione causale, ciò che egli dice si riferisce più precisamente
alla nozione di C.; e serve a collegare questa nozione con quella di «
possibilità oggettiva » (v. PossiBILITÀ) che è indispensabile, secondo Weber,
alla conoscenza storica. «Il giudizio sulla possibilità oggettiva, dice Weber,
ammette per sua essenza gradazioni; e si può raffigurare la relazione logica in
esso implicita con l’aiuto dei princìpi che sono applicati nell’analisi del
calcolo delle probabilità. Le componenti causali, al cui ‘possibile’ effetto si
riferisce il giudizio, possono concepirsi isolate rispetto a tutte le C. che si
possono in genere concepire con esse cooperanti. Ci si può chiedere allora come
il complesso di queste C., insieme alle quali le componenti isolate erano
prevedibilmente adatte a produrre la conseguenza possibile, si comporta
rispetto a quelle altre C., insieme alle quali non l'avrebbero ‘
prevedibilmente * prodotta » Xritische Studien auf dem Gebiet der
Kulturwissenschaftlichen Logik, 1906;
trad. ingl. in Methodology of Social Science, pag. 181-82). Ciò che qui Weber
chiama « componente causale » che sarebbe concettualmente isolata per formulare
un giudizio di possibilità oggettiva, cioè un giudizio sul corso che gli eventi
avrebbero potuto prendere se, per l’appunto, quella componente causale fosse
intervenuta, non è altro che una C. di possibilità, nel senso kantiano del
termine. Aggiunge Weber: « Noi possiamo enunciare giudizi generalmente validi
intorno al fatto che una maniera di reagire identica, in certe caratteristiche
da parte di persone che affrontano determinate situazioni, è favorita a un grado
maggiore o minore e possiamo stimare il grado al quale un certo effetto è
favorito da certe C. » (/bid., pag. 183). In queste parole il concetto della C.
come limitazione di possibilità oggettive e quindi prevedibilità probabile
dell’evento, è chiaramente espresso. Gli sviluppi della fisica che hanno
segnato il tracollo della nozione di causa (v. CAUSALITÀ) esigono la
sostituzione del determinismo condizionale al determinismo causale classico.
Nel campo biologico, è facile osservare come solo il concetto di C. è in grado
di esprimere i rapporti funzionali considerati da tale scienza; e, per es.,
quello tra stimolo e risposta, che oggi non può più essere tradotto in termini
di causalità, cioè di previsione infallibile, e può essere invece espresso in
termini di condizionalità, cioè di previsione probabile (v. AZIONE RIFLESSA).
Il concetto di C. è inoltre largamente usato nella sociologia, nella teoria
dell’informazione, nella cibernetica e in generale nella teoria
dell’organizzazione o dei sistemi, perchè consente di conciliare la nozione
dell’ordine con un certo grado di contingenza o di casualità nelle relazioni
fra gli elementi che entrano a comporlo. Così Wiener ha scritto: « Un’idea
significante di organizzazione non può essere ottenuta in un mondo nel quale
ogni cosa è necessaria e niente è contingente » (/ am a Mathematician, New
York, 1956, pag. 322). W. Ross Ashby, ha ritenuto sotto questo aspetto
essenziale l’idea di condizionalità secondo la quale nello spazio di
possibilità di interazione, dato da un insieme di elementi, ogni organizzazione
reale degli elementi è costretta a qualche subinsieme di interazioni. Il
converso dell’organizzazione è l'indipendenza degli elementi (in Principles of
Self-Organization, ed. H. von Foerster e
G. W. Zopf, New York, 1962, pag. 217). Un
certo grado di libertà nella relazione reciproca delle parti è essenziale ad
ogni organizzazione o sistema; e dove non si fosse scelta fra un insieme di
alternative non ci sarebbe neppure un’organizzazione qualsiasi (J. ROTHSTEIN,
Communication, Organization and Science, 1958, pag. 35). Il concetto di C. sta
così prendendo il posto, nelle discipline più disparate, di quello di causa.
CONDOTTA (ingl. Conduct; franc. Conduite; ted. Berragen). Ogni risposta
dell’organismo vivente ad uno stimolo, che sia oggettivamente osservabile,
anche se non abbia carattere di uniformità: nel senso che vari o possa variare
nei confronti di una situazione determinata. Per questa mancanza di uniformità,
la C. si differenzia dal comportamento (v.); e l’uso del termine diventa utile,
giacchè altrimenti non si distingue da comportamento. CONFERMABILITÀ. V.
TESrABILITÀ; VERIFICABILITÀ. CONFESSIONE (lat. Confessio; ingl. Confession;
franc. Confession; ted. Beichte). La parola significa in generale: riconoscere
una cosa per quella che è (corrispondentemente al significato del verbo greco
éfoporoyetv usato nella traduzione greca della Bibbia). Pertanto essa viene
adoperata S. Agostino sia a indicare il riconoscimento di Dio come Dio (della
verità come verità) sia il riconoscimento dei propri peccati come tali. S.
Agostino dice: « Mi comandi di lodarti e di confessarti » rivolgendosi a Dio
(Conf., I, 6, 9-10); e dice pure: « Ha (la casa dell’anima mia) cose che
offendono i tuoi occhi, lo confesso, lo so» (Ibid. I, 5, 6). Il significato
indicato comprende i due usi del termine distinti dagli studiosi (cfr. M.
PELLEaRINO, Le C. di S. Agostino, Roma, 1956, pag. 9-10). Esso consente inoltre
di spiegare: 1° la composizione delle Confessioni le quali solo in parte
contengono l’esposizione delle vicende biografiche di S. Agostino, ma che dal X
Libro in poi sono puramente teoretiche, cioè sono dedicate al riconoscimento
della Verità come tale attraverso la soluzione dei dubbi e delle difficoltà che
si frappongono al riconoscimento stesso; 2° la coincidenza dell’atteggiamento
di chi si confessa, cioè riconosce in se stesso la verità, con l’atteggiamento
del ritorno a sè e del ripiegamento dell’uomo su se stesso che è proprio della
ricerca agostiniana, come di quella neo-platonica (v. COSCIENZA).
CONFIGURAZIONISMO (ingl. Configurationism). Lo stesso che Gestaltismo (v.
PERCEZIONE; PSICOLOGIA, C). CONFLAGRAZIONE (gr. èxmipoore; lat. Conffagratio;
ingl. Conflagration; franc. Conflagration; ted. Weltbrand). Secondo Eraclito
(Dioc. L., IX, 1, 8) e gli Stoici (Sroseo, Ec/., I, 304), la catastrofe finale
che chiude un ciclo del mondo con la distruzione totale di esso ad opera del
fuoco. CONFLITTO (ingl. Conflict; franc. Conflit; ted. Wiederstreit).
Contraddizione, opposizione o lotta di principi, proposizioni o atteggiamenti.
Kant chiamò « C. di tesi » le anrinomie (v.). Hume aveva parlato di un C. tra
la ragione e l'istinto: l’istinto che porta a credere, la ragione che mette in
dubbio ciò che si crede (Treatise, I, Introduzione). CONFUSIONE. V.
DIsTINZIONE. CONFUTAZIONE (gr. &eyxos; lat. Confutatio; ingl. Confutation;
franc. Réfutation; ted. Widerlegung). Il metodo adoperato da Socrate che
consiste nel porre in luce ia contraddizione a cui CONNOTAZIONE 155 conduce
l’asserzione dell’interlocutore e, perciò consente di liberare l'interlocutore
stesso dalla presunzione di sapere. Questo procedimento fu sempre ritenuto da
Platone come la propedeutica indispensabile della ricerca scientifica (Apol.,
21a sgg.; Men., 84a-c; Sof., 230b sgg.). Aristotele definì la C. come «la
dimostrazione del contraddittorio » (El. Sof., I, 165a 2): cioè come il
sillogismo che ha come conclusione la proposizione che nega un’altra
conclusione (la quale così è « confutata »). Le C. (elenchi) sofistiche non
sono, secondo Aristotele, vere C.; e le due classi di esse (quelle che
utilizzano il modo di esprimersi e quelle che ne prescindono) sono non già
dimostrazioni negative, ma artifici o trucchi verbali che hanno lo scopo di
ridurre al silenzio l’avversario e di aver la meglio su di lui. CONGETTURA (gr. elxaola.; lat. Conjectura;
ingl. Conjecture; franc. Conjecture; ted. Conjectur). Secondo Platone, il più basso grado del
conoscere sensibile, quello che ha per oggetto le ombre e le imagini delle
cose; al modo in cui l’opinione, nello stesso grado sensibile, ha per oggetti
le cose stesse (Rep., VI, 510a Slle). Niccolò Cusano riprese la parola per
indicare la natura di tutta la conoscenza umana: la quale, come C., sarebbe una
conoscenza per alterità, cioè che rinvia a ciò che è altro da sè, la verità
come tale, e solo per tale rinvio è in rapporto con la verità e partecipa di
essa. «La C. è un’asserzione positiva che partecipa per alterità alla verità in
quanto tale » (De Conjecturis, I, 13). Nell’uso moderno questo termine è
sinonimo di /potesi (v.). CONGIUNZIONE (lat. Conjunctio; ingl. Conjunction; franc.
Conjonction; ted. Konjunktion). Nella
Logica scolastica è una propositio hypothetica formata da due categorie unite
dal segno «et» (« Socrates currit et Plato sedet v). Nella Logica contemporanea
è una proposizione molecolare formata da due (o più) atomiche unite dal segno 4
v + 0 «4.» (tp.Q?). In entrambe le Logiche, condizione necessaria e sufficiente
per la verità di una C. è che entrambe le proposizioni componenti siano vere.
G. P. CONGRUENZA (lat. Congruentia; ingl. Congruence; franc. Congruence; ted.
Uebereinstimmung). Adeguazione. Per es., « ricompensa congrua » cioè adeguata
al lavoro o al merito. In geometria, la C. è la coincidenza delle figure per
sovrapposizione sullo stesso piano. La definizione della C. è fondamentale per
la scelta di una geometria. Dice Reichenbach: « La scelta di una geometria è
arbitraria solo finchè non si è specificata la definizione della congruenza.
Una volta stabilita tale definizione, diventa una questione empirica il
problema di quale geometria si adatta allo spazio fisico » (cfr. A. Einsteîn;
Philosopher-Scientist, a cura di P. A. Schilpp, 1949, pag. 295). Whitehead ha
generalizzato questo concetto: « La C., egli ha detto, è un esempio particolare
del fatto fondamentale del riconoscimento nella percezione. Noi riconosciamo:
non semplicemente nel senso di paragonare un fattore naturale offerto dalla
memoria con un fattore rivelato dalla sensazione immediata, bensì nel senso che
il riconoscimento prende posto nel presente, senza alcun intervento della pura
memoria » (The Concept of Nature, 1920, cap. VI; trad. ital., pag. 113).
CONGRUISMO. È la dottrina controriformistica della grazia efficace, cioè
adeguata al merito. CONNATURA (ingl. Connature). Sostantivo creato da Spencer
per analogia con gli aggettivi « connaturato » o « connaturale ». Secondo
Spencer (Psychology, II, $ 289) una delle tre idee (insieme con la coestensione
e la coesistenza), implicita nel ragionamento quantitativo e precisamente
quella della identità delle cose quanto alle loro specie; mentre la
coestensione significa l’identità nella quantità di spazio occupata e la
coesistenza l’identità nel tempo di presentazione alla coscienza. CONNETTITVI
(ingl. Connectives; franc. Connectifs). Nella logica contemporanea, si chiamano
così i simboli impropri (o sincategorematici [v.])) che, combinati con uno o
più costanti, formano o producono una nuova costante. Le costanti o forme unite
dai C. si chiamano operandi. Un C. si chiama singolare, binario, ternario,
ecc., a seconda del numero dei suoi operandi. I C. sono quelli espressi dalle
parole e, 0, non, se... allora. Si adopera comunemente la giustapposizione
degli operandi per denotare la congiunzione: così «‘p.qg’* significa « p e g*.
Si adopera il segno v per denotare la disgiunzione inclusiva; così « p v g»
significa «p 09 o entrambi ». Si adopera il segno + per denotare la
disgiunzione esclusiva; così «p + g » significa « p o g ma non entrambi». Si
adopera il segno — per indicare la negazione: così « — p+ significa « non p».
Per il C. se... allora, v. ConDIZIONALE, IMPLICAZIONE. Le notazioni citate sono
le più comuni, ma non sono le sole. Per altri sistemi di simboli vedi le note
al $ 05 della Introduction to Mathematical Logic, 1956, di CHURCH. CONNOTAZIONE
(lat. Connotatio; inglese Connotation; franc. Connotation). L'aggettivo
connotativus compare nella logica della tarda Scolastica a proposito di una
distinzione dei nomi in assoluti e connotativi. Secondo Ockham, sono assoluti i
nomi che non significano qualche cosa principalmente e qualche altra cosa
secondariamente, per es., il nome « animale ». Sono invece connotativi i nomi
che significano qualche cosa in linea primaria e qualche cosa in linea
secondaria: per es., i nomi relativi, quelli che appartengono al genere della
quantità e anche nomi come «uno», «bene», « vero », « intelletto », « potenza
», ecc. (Summa Log., I, 10). Questa distinzione divenne abituale nella logica
posteriore. Nell’età moderna la distinzione fu ripresa da James Mill nella sua
Analisi dei fenomeni dello spirito umano (1829) che usava la parola «connotare
» in ogni caso in cui il nome, che indica direttamente una cosa (la quale
costituisce perciò il suo significato) include anche un riferimento a qualche
altra cosa. L’uso della parola fu radicalmente mutato da Stuart Mill, il quale
adoperò la parola per esprimere «il modo in cui un nome concreto generale serve
a designare gli attributi che sono impliciti nel suo significato ».
Conseguentemente Mill distinse la C. dalla denotazione: «Ogni volta che i nomi
dati agli oggetti apportano qualche informazione, cioè ogni volta che essi,
propriamente, hanno un significato, il significato risiede non in ciò che essi
denotano, ma in ciò che essi connotano. I soli nomi di oggetti che non
connotano niente sono i nomi propri; e questi, strettamente parlando, non hanno
significato » (Logic, I, 2, $ 5). In questo senso i nomi degli attributi sono
connotativi, perchè la parola « bianco » non denota tutti gli oggetti bianchi,
ma connota l’attributo della bianchezza. Nomi connotativi sono anche « il primo
imperatore di Roma » o « l’autore dell’Iliade +, ecc. Questo concetto di C.
corrispondeva a quello che la Logica di Porto Reale aveva designato col termine
di comprensione (v.). Alla coppia comprensione-estensione della Logica di Porto
Reale corrisponde perciò la coppia C.-denorazione della Logica di Stuart Mill e
quella intensione-estensione (v.) della logica leibniziana e contemporanea.
Qualche volta, tuttavia, è stato fatto il tentativo di distinguere C. da
comprensione, adottando entrambi i termini. Così J. N. Keynes (Forma! Logic, I,
2) e Goblot (Traité de logique, $ 72) dettero a «C.» il significato più
ristretto di ciò che è compreso nella definizione convenzionale di un termine,
e a « comprensione » il significato più ampio di comprensione totale che
includa tutte le determinazioni non escluse dalla definizione stessa. Questa
distinzione tuttavia non è stata seguita e il termine moderno di intensione
comprende entrambi i significati proposti per comprensione e connotazione.
CONOSCENZA (gr. visow; lat. Cognitio; ingl. Knowledge; franc. Connaissance;
ted. Erkenntniss), In generale, una tecnica per l’accertamento di un oggetto
qualsiasi, o la disponibilità o il possesso di una tecnica siffatta. Per
tecnica di accertamento va intesa una qualsiasi procedura che renda possibile
la descrizione, il calcolo o la previsione controllabile di un oggetto; e per
oggetto va intesa qualsiasi entità, fatto, cosa, realtà o proprietà, che possa
essere sottoposto a una tale procedura. Tecnica in questo senso è l’uso
normaledi un organo di senso come la messa in opera di complicati strumenti di
calcolo: entrambi questi procedimenti consentono infatti accertamenti
controllabili. Non è da presumersi che tali accertamenti siano infallibili ed
esaurienti: cioè che sussista una tecnica di accertamento tale che, una volta
adoperata nei confronti di una C. x, renda inutile il suo ulteriore impiego nei
confronti della stessa C., senza che questa perda nulla della sua validità. La
controllabilità delle procedure di accertamento, grossolane o raffinate che
siano, significa la ripetibilità delle loro applicazioni, sicchè una C. «
accertabile » o più semplicemente una «C.+ rimane tale solo finchè sussiste la
possibilità dell’accertamento. Le tecniche di accertamento possono avere,
tuttavia, i più diversi gradi di efficacia e possono, al limite, avere
efficacia minima o nulla: in questo caso, decadono di diritto dal rango di
conoscenze. « La C. di x» significa infatti una procedura che è in grado di
fornire qualche informazione controllabile intorno a x cioè che consenta di
descriverlo, calcolarlo o prevederlo in certi limiti. La disponibilità o il
possesso di una tecnica conoscitiva designa la partecipazione personale a
questa tecnica. «Io conosco x» significa (salvo limitazioni) che sono in grado
di porre in opera una procedura che rende possibile la descrizione, il calcolo
o la previsione di x. Il significato personale o soggettivo di C. è perciò da
ritenersi secondario e derivato: il significato primario è quello oggettivo e
impersonale su esposto. Questo significato primario consente pure di
distinguere agevolmente la credenza dalla C.: la credenza (v.) è l’impegno alla
verità di una nozione qualsiasi, anche non accertabile; la C. è una procedura
di accertamento o la partecipazione possibile ad una tale procedura. Come
procedura di accertamento, ogni operazione conoscitiva è diretta ad un oggetto
e ténde a instaurare con l’oggetto stesso un rapporto dal quale emerga una
caratteristica effettiva di esso. Pertanto le interpretazioni della C. che sono
state date nel corso della storia della filosofia si possono considerare come
interpretazioni di questo rapporto e come tale ricondurre a due alternative
fondamentali: 1° per la prima di esse, quel rapporto è una identità o
simiglianza (intendendosi per simiglianza un’identità debole o parziale) e
l'operazione conoscitiva è una procedura di identificazione con l'oggetto o di
riproduzione di esso; 2° per la seconda alternativa, il rapporto conoscitivo è
una presentazione dell’oggetto e l’operazione conoscitiva una procedura di
trascendenza. 1° La prima interpretazione è quella più comunemente ricorrente
nella filosofia occidentale. Essa si può a sua volta dividere in due fasi
diCONOSCENZA 157 verse: A) nella prima di esse, l’identità o la simiglianza con
l’oggetto viene intesa come identità o simiglianza degli elementi della C. con
gli elementi dell’oggetto: per es., dei concetti o delle rappresentazioni con
le cose; 8) nella seconda fase, invece, l’identità o la simiglianza viene
ristretta all’ordine dei rispettivi elementi: nel qual caso l’operazione del
conoscere consiste nel riprodurre, non già l’oggetto, ma i rapporti costitutivi
dell’oggetto stesso cioè l’ordine dei suoi elementi. Nella prima fase la C. è
considerata come un’immagine o ritratto dell'oggetto; nella seconda fase, sta
con l’oggetto nello stesso rapporto in cui una carta geografica sta col
paesaggio che rappresenta. A) La prima fase costituisce la forma nella quale la
dottrina della C. come identificazione è apparsa nel mondo antico. I
presocratici la espressero col principio che « il simile conosce il simile »,
per cui Empedocle affermava che conosciamo la terra con la terra, l’acqua con
l’acqua, ecc. (Fr. 105, Diels). Varianti di questo principio possono essere
considerati sia l’affermazione di Eraclito « ciò che si muove conosce ciò che
si muove » (ARIST., De an., I, 2, 405 a 27) sia quella di Anassagora secondo la
quale «l’anima conosce il contrario col contrario » (TEOFR., De sens., 27).
Quest'ultima infatti sembra alludere più ad una condizione della C. — che
presuppone la diversità, come dirà Aristotele (De an., II, 5, 417a 16) — che
allo stesso atto conoscitivo, come ìndica la giustificazione che gli viene
data: «il simile infatti non può subire l’azione del simile ». Ma furono
Platone e Aristotele che stabilirono su solide basi questa interpretazione
della conoscenza. L’incontro del simile col simile, l'omogeneità, sono i
concetti di cui Platone si serve per spiegare i processi conoscitivi (7im., 45
c, 90c-d): conoscere significa rendere simile il pensante al pensato. Di
conseguenza, i gradi di C. si modellano sui gradi dell'essere: non si può
conoscere con certezza cioè con « saldezza » ciò che non è saldo perchè la C.
non fa che riprodurre l’oggetto; sicchè « ciò che assolutamente è, è
assolutamente conoscibile, mentre ciò che non è in nessun modo, in nessun modo
è conoscibile» (Rep., 477 a). In tal modo all'essere, Platone fece
corrispondere la scienza, che è la C. vera; al non essere l’ignoranza e al
divenire, che sta in mezzo tra l'essere e il non essere, l’opinione che sta in
mezzo tra la C. e l’ignoranza. E distinse i seguenti gradi della C.: 1° la
supposizione o congettura che ha per oggetto ombre ed immagini delle cose
sensibili; 2° l’opinione creduta ma non verificata che ha per oggetto le cose
naturali, gli esseri viventi e in generale il mondo sensibile; 3° la ragione
scientifica che procede per via d’ipotesi ed ha per oggetto gli enti matematici;
4° l'intelligenza filosofica che procede dialetticamente ed ha per oggetto il
mondo dell’essere (Zbid., VI, 509-10). Ognuno di questi gradi di C. è la copia
esatta del suo oggetto rispettivo: sicchè non c’è dubbio che conoscere sia per
Platone stabilire in ogni caso con l'oggetto un rapporto d’identità o che si
avvicini quanto più possibile all’identità. In forma ancora più rigorosa questo
punto di vista veniva realizzato da Aristotele. Secondo Aristotele, la C. in
atto è identica con l’oggetto conosciuto: è cioè la stessa forma sensibile
dell’oggetto, se si tratta di C. sensibile; è la stessa forma intelligibile (o
sostanza) dell’oggetto se si tratta di C. intelligibile (De an., II, 5, 417 a).
La facoltà sensibile e l’intelletto potenziale sono, s’intende, semplici
possibilità di conoscere; ma quando queste possibilità si realizzano, per
l’azione delle cose esterne la prima, per l’azione dell’intelletto attivo la
seconda, s’identificano con i rispettivi oggetti e, per es., l’udire un suono
(sensazione in atto) s’identifica con il suono stesso come l’intendere una
sostanza s’identifica con la sostanza stessa. Aristotele può affermare perciò
in generale che «la scienza in atto è identica col suo oggetto » (De an., III,
7, 431 a 1). Questa dottrina aristotelica si può considerare come la forma
tipica dell’interpretazione della C. come identità con l’oggetto. Tale
interpretazione domina, con l’eccezione degli Stoici, il corso ulteriore della
filosofia greca. Per Epicuro il flusso dei simulacri (eidola) che si staccano
dalle cose e si imprimono sull’anima serve appunto a garantire la simiglianza
delle immagini con le cose (Ep. @ Erod., 51). E Plotino si avvale dello stesso
concetto per chiarire la natura della conoscenza. La C. si ha quando la parte
dell'anima con cui si conosce si unifica e fa tutt'uno con l'oggetto
conosciuto. Se l’anima e quest’oggetto rimangono due, l’oggetto rimane esterno
all’anima stessa e la conoscenza di esso rimane inoperante. Solo l'unità dei
due termini costituisce la conoscenza vera (Enn., III, 8, 6). Nella filosofia
cristiana la stessa interpretazione prevale, ed è anzi il fondamento delle più
caratteristiche speculazioni teologiche e antropologiche. Secondo S. Agostino,
l’uomo può conoscere Dio in quanto egli stesso è immagine di Dio. Memoria,
intelligenza e volontà, nella loro unità e distinzione reciproca, riproducono
nell’uomo la trinità divina di Essere, Verità e Amore (De Trin., X, 18). Questa
nozione, pur variando nei particolari dominò l’intera teologia medievale e fu anche
il fondamento dell’antropologia. Ma da essa derivava una conseguenza importante
per la C. che l’uomo ha delle cose inferiori a Dio. Il riconoscimento
dell’origine divina dei poteri umani (in quanto immagini dei poteri divini)
rende i poteri umani relativamente indipendenti dagli altri oggetti conoscibili
e accentua l’importanza del soggetto conoscente. Per Aristotele, la facoltà
sensibile e l’intelletto potenziale non sono che i loro stessi oggetti «in
potenza»: non hanno nessuna indipendenza di fronte a questi oggetti. Ma S.
Agostino afferma invece che «ogni C. (noritia) deriva insieme dal conoscente e
dal conosciuto» (/bid., XIX, 12), mettendo così sullo stesso piano l’oggetto
conosciuto e il soggetto conoscente come condizione della conoscenza. S. Tommaso,
pur sanzionando esplicitamente il principio che ogni C. avviene per
assimilationem (Contra Gent., II, 77) o per unionem (In Sent., I, 3, 1) della
cosa conosciuta e dell’oggetto conoscente, afferma che «l’oggetto conosciuto è
nel conoscente secondo la natura del conoscente stesso » (De Ver., q. 2, a.1;
S. Th., I, q. 83, a. 1); e così il peso del soggetto viene a bilanciare nel
conoscere il peso dell’oggetto. Questo punto di vista porta a temperare la tesi
aristotelica secondo la quale la C. in atto è l’oggetto stesso. S. Tommaso,
commentando l’affermazione aristotelica che « l’anima è tutte le cose » (De
an., III, 8, 431 b 20) la attenua nel senso che l’anima non è le cose ma le
specie delle cose. Ma la specie non è altro che la forma della cosa: C. è quindi
astrazione: astrazione della forma dalla materia individuale, dell’universale
dal particolare. La specie delimita così, per S. Tommaso, il confine
dell'identità tra il conoscente e il conosciuto;ma il conoscere rimane
identità. A sua volta, S. Bonaventura, pur rimanendo fedele al principio
agostiniano di un lumen directivum che l’uomo attinge direttamente da Dio e da
cui derivano certezza e verità, ammette che il materiale della C. è costituito
da specie che sono immagini, similitudini 0 « quasi pitture » delle cose stesse
(/n Sent., I, d. 17, a. 1, q. 4). Se l’ultima scolastica segna il prevalere di
una diversa interpretazione del conoscere (v. oltre), il Rinascimento conserva
in generale l’interpretazione della C. come identità o simiglianza. Cusano dice
esplicitamente che l’intelletto non intende se non si assimila a ciò che deve
intendere (De mente, 3; De lglobi, 1; De venatione sapientiae, 29) e Ficino
dice che la C. è l’unione spirituale con qualche forma spirituale (Theol.
Plat., III, 2). I naturalisti non si esprimono in modo diverso: Bruno riprende
il principio presocratico che ogni simile si conosce col simile; e Campanella
afferma « noi conosciamo ciò che è, perchè ci rendiamo simili ad esso » (Mer.,
I, 4, 1). Il pitagorismo dei fondatori della nuova scienza, Leonardo,
Copernico, Keplero, Galilei, ha un presupposto analogo: il procedimento
matematico della scienza si giustifica perchè la natura stessa ha struttura
matematica: nel senso che, come Galilei dice, i caratteri in cui è scritto il
libro della natura sono triangoli, cerchi, ecc. (Opere, VI, pag. 232).
CONOSCENZA Nella filosofia moderna, la dottrina che il conoscere è
un’operazione di identificazione assume tre forme principali, a seconda che
tale operazione si ritiene effettuata mediante: a) la creazione che il soggetto
fa dell'oggetto; 5) la coscienza; c) il linguaggio. a) L’idealismo romantico e
le sue diramazioni contemporanee hanno affermato la tesi che conoscere
significa porre, cioè produrre o creare, l’oggetto: tesi la quale consente di
riconoscere nell’oggetto stesso la manifestazione o l’attività del soggetto.
Questa tesi fu per la prima volta affermata da Fichte. « La rappresentazione in
generale, egli disse, è inconfutabilmente un effetto del Non-io. Ma nell’Io non
può esserci assolutamente nulla che sia un effetto; perchè l’Io è quel che esso
si pone e non v’è nulla in lui che non sia posto da lui. Quindi quello stesso
Non-io dev'essere un effetto dell’Io, anzi dell'Io assoluto e così non abbiamo
un’azione sull’Io dal di fuori ma solo una azione dell’Io su se stesso»
(Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, D. Da questo punto di vista il Non-io,
cioè l’oggetto, non è che l’Io stesso cioè il soggetto: l’identità con
l’oggetto è così garantita dalla stessa definizione della conoscenza. La quale,
ovviamente, è una definizione arbitraria che non ha effetto sulla riuscita o
meno degli effettivi atti di C. e non serve perciò nè a dirigere nè a chiarire
questi atti. Il principio affermato da Fichte fu tuttavia tra quelli che
costituirono i pilastri del movimento romantico (v. ROMANTICISMO); e uno dei
luoghi comuni più perniciosi e stucchevoli, quello del «potere creativo dello
spirito », trova in esso la sua origine. Di esso Schelling non faceva che
chiarire il significato quando affermava: « Nello stesso fatto del sapere —
quando io so — l’oggettivo e il soggettivo sono così uniti che non si può dire
a quale dei due tocchi la priorità. Non c’è qui un primo e un secondo: sono
entrambi contemporanei e costituiscono un tutto unico » (System des transzendentalen
Idealismus, Intr., $ 1). Il concetto del conoscere come processo di
unificazione domina da un capo all’altro la filosofia di Hegel. La protagonista
di questa filosofia, l’Idea, è la coscienza che si realizza, gradualmente e
necessariamente, come unità con l’oggetto. Dice Hegel: « L'Idea è in primo
luogo uno degli estremi di un sillogismo in quanto è il concetto che ha come
scopo innanzitutto se stesso come realtà soggettiva. L’altro estremo è il
limite del soggettivo, il mondo oggettivo. I due estremi sono identici
nell’essere l’Idea. L’unità loro è in primo luogo quella del concetto che
nell’uno di essi è soltanto per sè, nell’altro soltanto in sè; in secondo
luogo, la realtà è astratta nell’uno, mentre nell’altro è nella sua esteriorità
completa. Questa unità viene ora posta per mezzo del conoscere »
(WissenCONOSCENZA schaft der Logik, III, 3, cap. II; trad. ital., pag. 282). Il
conoscere è così il processo che unifica il mondo soggettivo con il mondo
oggettivo; o meglio che porta alla coscienza l’unità necessaria dei due. Tutte
le forme dell’idealismo contemporaneo si attengono a questa dottrina. Croce la
introduce chiamando «concreto» il concetto: per il qual carattere si dovrebbe
escludere che esso sia « universale e vuoto», « universale e inesistente» ed
ammettere che esso comprende in sè « l'atto logico universale » e il «
pensamento della realtà » che è poi la stessa realtà (Logica, 4° ediz., 1920,
pag. 29). Gentile affermava: « Conoscere è identificare, superare l’alterità
come tale » (Teoria generale dello Spirito, 2, $ 4). A sua volta Bradley, più
criticamente, considerava questa identificazione come un ideale-limite
irrealizzabile in noi, ma realizzato nella Coscienza assoluta nella quale C. ed
essere, verità e realtà coincidono (Appearance and Reality, pag. 181). 5) Lo
spiritualismo moderno in tutte le sue manifestazioni considera il conoscere
come un rapporto interno della coscienza cioè come un rapporto della coscienza
con se stessa. Questa interpretazione garantisce l’identità del conoscere con
l’oggetto: giacchè l’oggetto, da questo punto di vista, non è che la coscienza
stessa o almeno un suo prodotto o una sua manifestazione. Schopenhauer così
esprimeva questa dottrina: « Nessuno può mai uscire da sè per identificarsi
immediatamente con cose diverse da sè: tutto ciò di cui egli ha C. sicura,
quindi immediata, si trova dentro la sua coscienza » (Die Welt, II, cap. I).
Coscienza, senso intimo, introspezione, intùito, intuizione, sono i termini che
la filosofia moderna, a partire dal Romanticismo, adopera per indicare la C.
caratterizzata dall’identità con il suo oggetto, perciò privilegiata nella sua
certezza. La considerazione di base è qui che, se il soggetto non può conoscere
ciò che è altro da sè, la sola C. vera e originaria è quella che esso ha di se
stesso. Su questa base Maine de Biran vedeva nel « senso intimo » la sola C.
possibile e ne interpretava le testimonianze come verità metafisiche (Essais
sur les fondements de la psychologie, 1812). Altre volte, la coscienza, anche detta
intùito o intuizione, è interpretata come la rivelazione che Dio fa all'uomo o
di un suo attributo fondamentale (per es., dell'essere, come afferma ROSMINI,
Nuovo saggio, $ 473) o del suo stesso processo creativo, come fa Gioberti
(Znrr. allo studio della fil., II, pag. 183). In modo analogo, l’intuizione di
cui parla Bergson come « visione diretta dello spirito da parte dello spirito »
(La Pensée et le Mouvant, pag. 37) è una procedura privilegiata di C., nella
quale il termine oggettivo è identico con il soggettivo. E quando Husserl ha
voluto chiarire il modo d’essere privilegiato della coscienza, ha chiamato «
percezione immanente » quella che la coscienza ha delle proprie esperienze
vissute: perchè l’oggetto di essa appartiene alla stessa corrente di coscienza
a cui appartiene la percezione (/deen, I, $ 38). La percezione immanente, cioè
la coscienza è, su questa base, considerata da Husserl assoluta e necessaria:
in essa «non vi è posto per discordanza, apparenza, possibilità di essere altra
cosa. Essa è una sfera di assoluta posizione + (/bid., $ 46). La
esemplificazione fin qui data può bastare per questo punto di vista, che è
molto diffuso nella filosofia contemporanea ma, nonostante la varietà delle sue
espressioni, altrettanto uniforme. c) Il positivismo logico ha paradossalmente
trasportato nel linguaggio, in cui esso vede la vera e propria operazione
conoscitiva, la dottrina del carattere identificatorio di questa operazione.
Wittgenstein afferma che «la proposizione può essere vera o falsa solo in
quanto è una imagine (Bild) della realtà » (Tractatus, 4.06). Che la
proposizione sia un’imagine della realtà, Wittgenstein lo prova così: «Io
infatti vengo a conoscere la situazione da essa rappresentata se capisco la
proposizione. E capisco la proposizione senza che il suo senso mi venga
spiegato » (/bid., 4.021). A prima vista, egli aggiunge, «non sembra che la
proposizione, così come, ad es., è stampata sulla carta, sia una imagine della
realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non sembra a prima vista
una imagine della musica nè la nostra scrittura fonetica (a lettere) sembra
un’imagine del nostro linguaggio parlato. Eppure questi simboli si dimostrano,
anche nel senso ordinario del termine, come imagini di ciò che rappresentano»
(/bid., 4.011). L’insistenza sulla nozione di imagine indica chiaramente che
Wittgenstein condivide la vecchia interpretazione del conoscere come operazione
di identificazione. Egli infatti dice: « Ci deveessere qualcosa di identico
nell’imagine e nel-l’oggetto raffigurato affinchè quella possa essere l’imagine
di questo » (/bid., 2.161). Ma questo qualcosa di identico è « la forma di
raffigurazione » (Ibid., 2.17). E la forma di raffigurazione è «la possibilità
che le cose stiano l’una rispetto all’altra come stanno tra loro gli elementi
dell’imagine » (Ibid., 2.151). E questo sembra rinviare alla interpretazione 8)
del rapporto identificatorio. B) La seconda fase della dottrina della C. come
identificazione nasce con la filosofia moderna e precisamente con Cartesio. Il
principio cartesiano che l’idea è il solo oggetto immediato della C. e che
perciò l’esistenza dell’idea nel pensiero non dice nulla sull’esistenza
dell’oggetto rappresentato, metteva ovviamente in crisi la dottrina del
conoscere come identificazione con l'oggetto: l’oggetto è infatti, in questo
caso, chiaramente irraggiungibile. Cartesio aveva continuato a concepire l’idea
come «quadro» o «imagine» della cosa (Méd., TIM); ma già in lui compare la
tendenza (cfr. Regulae, V) a scorgere nella C., più che l'assimilazione o
l’identità dell’idea coll’oggetto conosciuto, l’assimilazione e l’identità
dell’ordine delle idee con l’ordine degli oggetti conosciuti. Malebranche, il
quale ammette che l’uomo vede direttamente in Dio le idee delle cose e
considera perciò fortemente problematica la realtà delle cose stesse, ammette
tuttavia questa realtà come fondamento dell’ordine e della successione delle
idee nell’uomo; ordine e successione non avrebbero senso, egli pensa, se non
coincidessero con l’ordine e la successione delle cose cui le idee si
riferiscono (Entretien sur la Métaphysique, I, 6-7). Spinoza che ammette tre
generi di C. (la percezione sensibile e l’imaginazione; la ragione con le sue
nozioni comuni e universali; la scienza intuitiva) ritiene che solo i due
ultimi consentano di distinguere il vero dal falso perchè tolgono l’idea dal
suo isolamento e la collegano con le altre idee, situandola nell’ordine
necessario che è la stessa Sostanza divina (Er., II, 44). Locke che definisce
la C. come « la percezione dell’accordo e del legame o del disaccordo e del
contrasto delle idee tra di loro » (Saggio, IV, 1, 2) esige, affinchè essa sia
reale, che « le idee rispondano ai loro archetipi » (Zbid., IV, 4, 8) e perciò
definisce la verità come «l’unione o separazione di segni, secondo che le cose
significate da esse concordino o discordino tra di loro» (/bid., IV, 5, 2).
Locke ritiene che questo riferimento ad oggetti reali non sia indispensabile
alla C. matematica e a quella morale, mentre lo è alla « C. reale » che ha per
oggetto sostanze (/bid., IV, 4, 12). Per Leibniz, accanto alla C. @ priori,
fondata sui princìpi costitutivi dell’intelletto c'è una C. rappresentativa la
quale consiste nella simiglianza delle rappresentazioni con la cosa (Nouv.
Ess., IV, 1, 1). Ma l’una e l’altra C. fanno dell'anima «uno specchio vivente,
perpetuo dell’universo » perchè entrambe sono fondate sul legame che tutte le
cose create hanno tra loro sì che « ciascuna sostanza semplice ha rapporti che
esprimono tutti gli altri » (Monad., 56). In tutte queste notazioni, sebbene
non venga negato il carattere di simiglianza o di imagine degli elementi
conoscitivi, la C. viene intesa propriamente come identità con l’ordine
oggettivo. L'oggetto di essa è propriamente quest'ordine e il conoscere è
l’operazione che ténde a identificare o identificarsi con esso e non già con
gli elementi singoli tra i quali intercede. A questo proposito la « rivoluzione
copernicana » di Kant non consiste nell’innovare radicalmente questo concetto
di C., quanto nell’ammettere che l’ordine oggettivo delle cose si modella
CONOSCENZA sulle condizioni della C. e non viceversa. Le categorie sono infatti
considerate da Kant come « concetti che prescrivono leggi a priori ai fenomeni
e perciò alia natura come insieme di tutti i fenomeni » (Crit. R. Pura, $ 26).
I fenomeni non essendo « cose in se stesse » ma « rappresentazioni di cose »
devono per essere tali esser pensati e così sottostare alle condizioni del
pensiero che sono appunto le categorie. L’ordine oggettivo della natura non è
quindi altro, secondo Kant, che l’ordine stesso dei procedimenti formali del
conoscere in quanto quest'ordine si è incorporato in un contenuto oggettivo che
è il materiale sensibile dell’intuizione. Da questo punto di vista il conoscere
non è un’operazione di assimilazione o di identificazione, ma di sintesi; e
come tale va considerato sotto l’altra rubrica, della C. come trascendenza.
Tutta questa fase della dottrina della C. come assimilazione, per cui l’oggetto
dell’assimilazione è l'ordine, si può considerare come situata fra la prima e
la seconda interpretazione principale del conoscere: cioè tra l’interpretazione
del conoscere come assimilazione e l’interpretazione del conoscere come
trascendenza. 2° Per la seconda interpretazione fondamentale, la C. è
un’operazione di trascendenza. Secondo questa dottrina, conoscere significa
venire in presenza dell’oggetto, puntare su di esso 0, col termine preferito
dalla filosofia contemporanea, trascendere verso di esso. La C. è allora
l'operazione in virtù della quale l’oggetto stesso è presente: o presente per
così dire in persona o presente in un segno che lo renda rintracciabile o
descrivibile o prevedibile. Questa interpretazione non si fonda su alcuna
assunzione di carattere assimilatorio o identificatorio: i procedimenti del
conoscere non mirano, per essa, a convertirsi con l’oggetto stesso del
conoscere. Mirano piuttosto a rendere presente questo oggetto come tale o a
stabilire le condizioni che rendono possibile la sua presenza, cioè consentono
di prevederla. La presenza dell’oggetto o la predizione di questa presenza,
ecco la funzione effettiva della C., secondo questa interpretazione. Per la
prima volta, tale interpretazione compare negli Stoici. Essi chiamavano
evidenti le cose che «vengono di per se stesse alla nostra C.+ come, per es.,
l’esser giorno; e chiamavano « oscure » quelle che sfuggono solitamente alla C.
umana. Tra queste ultime, distinguevano poi quelle oscure per natura, che non
cadono mai sotto la nostra evidenza, e quelle oscure momentaneamente ma
evidenti per natura (per es., la città di Atene a chi non vi risiede). Queste
due ultime specie di cose si comprendono per mezzo di segni; mediante segni
indicativi le cose oscure per natura (come, per es., il sudore si assume come segno
degli invisibili pori) CONOSCENZA e mediante segni rammemorativi le cose
evidenti per natura ma oscure momentaneamente (come il fumo è un segno del
fuoco) (SESTO EMP., Adv. Dogm., II, 141; /pot. Pirr., II, 97-102). Sono
riconoscibili in questa impostazione due tesi fondamentali, e cioè: 1° la C.
evidente consiste nella presenza della cosa, per cui la cosa «si manifesta da
sè» o «si comprende da sè » cioè si comprende come cosa, quindi come altro da
chi la comprende; 2° la C. non evidente avviene per mezzo di segni che rinViano
alla cosa stessa senza avere una qualsiasi identità o simiglianza con essa.
Questa dottrina degli Stoici è rimasta per lunghi secoli inoperante, come una
possibilità che la storia della filosofia ha trascurato. Comincia a riaffacciarsi
soltanto nella Scolastica del ’300, coi pensatori che criticano la dottrina
della species come intermediaria della conoscenza. La species, come si è visto,
è una tesi tipica della dottrina dell’assimilazione: essa è infatti insieme
l’atto della C. e l'atto dell’oggetto (come forma o sostanza di quest’ultimo).
Ma Duns Scoto aveva distinto una C. «che astrae dall’esistenza attuale della
cosa » e che chiamava astrattiva, e una « C. della cosa in quanto esiste ed è
presente nella sua esistenza attuale » che aveva chiamata inzuitiva (Op. Ox.,
II, d. 3, q. 9, n. 6). Ora la C. intuitiva (che è da un latoquella sensibile,
dall’altro quella intellettuale che ha per oggetto la sostanza o natura comune,
per es., la natura umana) non ha bisogno di specie perchè ad essa è
direttamente presente la cosa in persona. Solo la C. astrattiva, cioè la C.
intellettuale del-l'universale, ha bisogno di specie (/bid., I, d. 3, q. 7, n.
2). A questa dottrina fa riferimento la Scolastica del ’300. Durando di
St.-Pourgains afferma che la specie è inutile perchè l’oggetto stesso è
presente al senso, e, attraverso il senso, anche all'intelletto (Zr Sent., II,
d. 3, q. 6, n. 10); e che pertanto la C. universale non è che C. confusa, nel
senso che chi ha la C. universale, per es., della rosa, conosce confusamente
ciò che è intuito distintamente da chi vede la rosa che gli è presente (Ibid.,
IV, d. 49, q. 2, n. 8). Per Pietro Aureolo l'oggetto della C. è la stessa cosa
esterna che assume, per opera dell’intelletto, un essere intenzionale od
obiettivo che non è diverso dalla stessa realtà individuale della cosa (In
Sent., I, d. 9, a. 1). Ockham a sua volta trasforma la teoria scotistica della
C. intuitiva in una teoria dell’esperienza ed afferma l’immediata presenza
della cosa alla C. intuitiva. «In nessuna C. intuitiva, nè sensibile nè
intellettiva, egli dice, la cosa si costituisce in un essere intermedio tra la
cosa stessa e l’atto di conoscere; ma la cosa medesima immediatamente e senza
intermediario tra sè e l’atto, è vista ed appresa » (In Sent., I, d. 27, q. 3,
I). La C. intuitiva 11 — ABBAGNANO, Disionario di filosofia. perfetta, che ha
per oggetto una realtà attuale o presente, è l’esperienza (/bid., II, q. 15,
H); quella imperfetta, che concerne un oggetto passato, deriva sempre da
un’esperienza (/bid., IV, q. 12, Q). A sua volta, la C. astrattiva, che
prescinde dalla realtà o irrealtà dell’oggetto deriva da quella intuitiva ed è
una intentio o signum. Ockham riproduce così l’interpretazione degli Stoici:
quando la realtà non è presente alla C. «in persona», si annuncia o si
manifesta nel segno. La validità del segno concettuale, che a differenza di
quello linguistico non è arbitrario o convenzionale ma naturale, deriva dal
fatto che esso è prodotto naturalmente, cioè causalmente, dall’oggetto stesso,
sicchè la sua capacità di rappresentare l'oggetto non è altro che questa sua
connessione causale con esso (Quodi., IV, q. 3). Ockham si avvale poi per
illustrare la funzione logica del segno di quel concetto della suppositio che
era stato elaborato dalla logica del ’200 (v. SEGNO; SUPPOSIZIONE). Nel sec. xv
i capisaldi di questa dottrina venivano riprodotti da Hobbes: per il quale la
sensazione, che è il fondamento di ogni C., è il manifestarsi della cosa
attraverso il movimento da essa impresso all’organo di senso (Leviath., I, 1;
De Corp., 25,82). Alla causalità della cosa esterna, cui questi filosofi
attribuiscono la C., Berkeley sostituiva la causalità di Dio: la teoria che le
cose conosciute sono segni mediante i quali Dio parla ai sensi o
all’intelligenza dell’uomo per istruirlo su ciò che deve fare (Principles of
Knowledge, $ 108-09) è una trascrizione teologica di questa dottrina della
conoscenza. Nel frattempo, con il cartesianesimo e specialmente con Locke, si
era venuto formando il concetto della C. come operazione unificatrice:
unificatrice di idee, cioè di stati che cadono dentro la coscienza, ma ilcui
collegamento corrisponde o deve corrispondere a quello delie cose [v. 1° B)].
Eliminata da Berkeley la sostanza materiale e da Hume ogni specie di sostanza,
il collegamento tra le idee veniva ad esaurire la funzione dell’attività
conoscitiva. Così Hume ritiene che ogni operazione conoscitiva sia
un'operazione di connessione fra le idee: operazione di connessione è il
ragionamento per il quale si mostra il legame che le idee hanno tra loro,
indipendentemente dalla loro esistenza reale; operazione di connessione tra le
idee è la C. della realtà di fatto. Nel primo caso la connessione è certa
perchè non dipende da nessuna condizione di fatto; nel secondo caso si fonda
sulla relazione di causalità. Ma questa stessa relazione non ha altro
fondamento che la ripetizione di una certa successione di eventi e l'abitudine
che tale ripetizione determina nell’uomo (/ng. Conc. Underst., IV, 1). Questo
concetto della C. come operazione di connessione o di collegamento, che non ha
più niente a che fare con l’identificazione o l’assimilazione con l'oggetto, è
detta da Kant operazione di sintesi. La sintesi è in generale « l’atto di
riunire diverse rappresentazioni e comprendere la loro molteplicità in una C.»
(Crit. R. Pura, $ 10). Ma la sintesi conoscitiva non è solo, per Kant, una
operazione di collegamento tra rappresentazioni: è anche un’operazione di
collegamento con l’oggetto di queste rappresentazioni per il tramite
dell’intuizione. «Se una C. deve avere una realtà oggettiva, dice Kant, cioè
riferirsi a un oggetto e avere in esso significato e senso, l’oggetto deve, in
un modo qualsiasi, poter essere dato. Senza di questo, i concetti sono vuoti, e
se anche con essi si pensa, in fatto questo pensiero non conosce nulla ma
soltanto gioca con le rappresentazioni. Dare un oggetto, se questo a sua volta
non deve essere opinato indirettamente ma rappresentato immediatamente
nell’intuizione, non è altro che connettere la sua rappresentazione con
l’esperienza (sia questa reale o possibile) » (Ibid, Analitica dei princìpi,
cap. II, sez. ID. Pensare un oggetto e conoscere un oggetto non sono dunque la
stessa cosa. «La C. comprende due punti: in primo luogo un concetto per cui in
generale un oggetto è pensato (la categoria) e in secondo luogo l’intuizione
con cui esso è dato +» (/bid., $ 22). L’intuizione ha questo privilegio: che
essa si riferisce immediatamente all’oggetto e che per mezzo di essa l'oggetto
è dato (/bid., $ 1). Sicchè non c’è dubbio che l’operazione del conoscere ténda
a rendere presente l’oggetto nella sua realtà: un oggetto, s'intende, che è
fenomeno, giacchè la « cosa in sè » è, per definizione, estranea a ogni
rapporto conoscitivo. Senza questa limitazione relativistica, che a Kant, come
a tutta la filosofia illuministica, era suggerita dall’impostazione
cartesiano-lockiana della analisi della C., il concetto della C. come
dell’operazione del riferirsi o del rapportarsi con l’oggetto e perciò pure del
processo per cui l’oggetto si offre o si presenta in persona, diventa, nella
filosofia contemporanea, proprio della fenomenologia e delle correnti che ad
essa fanno capo. « Ad ogni scienza, dice Husserl, corrisponde un campo
oggettivo come dominio delle sue indagini e a tutte le sue C., cioè ai suoi
corretti enunciati, corrispondono determinate intuizioni che ne costituiscono
il fondamento di legittimità; in quanto in esse gli oggetti del campo si
presentano in datità personale e, almeno parzialmente, in datità originaria »
(/Zdeen, I, $ 1). Così l’esperienza, che abbraccia tutta la C. naturale, è
un'operazione intuitiva attraverso la quale unoggetto specifico, la cosa, è
data nella sua realtà originaria. L’esperienza è in questo senso un atto fondante,
non sostituibile da un semplice immaginare. Dall’altro lato, la C. geometrica,
che non CONOSCENZA ricerca realtà ma possibilità ideali, ha come suo atto
fondante la visione dell’essenza: tale visione, esattamente come la percezione
empirica, rende attuale e presenta in persona un oggetto: che però non è la
cosa dell’esperienza ma l’essenza (/bid., $ 8). Considerando la C. da un punto
di vista più generale si può dire che «ogni specie di essere ha per essenza i
suoi modi di darsi e quindi il suo metodo di C. » (/bid., $ 79); e la ricerca
fenomenologica è, nel progetto di Husserl, l’analisi di questi modi d’essere
come « modi di datità ». In modo analogo, per N. Hartmann la conoscenza è un
processo di trascendenza che ha il suo termine nell’essere «in sé » (Metaphysik
der Erkenntnis, 1921, 48 ediz., 1949, pag. 43 sgg.). In questa impostazione la
contrapposizionetraartività e passività nellaconoscenza (contrapposizione che,
nata da Kant, era stata assunta come motivo polemico dal Romanticismo a cominciare
da Fichte) ha perduto ogni significato. Non è più questione di distinguere nel
conoscere l’aspetto attivo, che Kant chiamava « spontaneità intellettuale »
dall'aspetto passivo che per Kant era quello della sensibilità. Non si tratta
neppure di ridurre l’intera C. alla attività dell'io come ha fatto Fichte e con
lui la intera filosofia romantica, che ha considerato come « infinita » cioè
senza limiti e quindi creatrice questa attività e come tale l’ha esaltata. La
prospettiva storica, che lo stesso Romanticismo ha fatto prevalere, del
contrasto fra la concezione « classica » cioè antica e medievale per la quale
l’operazione del conoscere sarebbe dominata dall’oggetto, di fronte a cui
l’oggetto è passivo; e la concezione moderna o romantica per la quale la C.
sarebbe attività del soggetto e manifestazione del suo potere creatore, questa
prospettiva stessa appare ora fittizia. Si tratta infatti di una prospettiva
interna al Romanticismo e di un contrasto che esso ha teorizzato come motivo
polemico. Nè la filosofia antica nè le moderne concezioni oggettivistiche
pretendono stabilire o presuppongono la « passività » del soggetto conoscente.
Al soggetto conoscente appartiene certamente l'iniziativa del conoscere, anzi
questa iniziativa definisce per l’appunto la sua soggettività. Ma questo non
implica nè attività nè passività nel senso stabilito da Fichte. L'iniziativa
del soggetto è invece diretta proprio a rendere presente o manifesto l’oggetto,
a rendere evidente la realtà stessa, a far parlare i fatti. Ciò che si chiama,
con termine abbreviativo, conoscere, è un insieme di operazioni, talora molto
diverse tra loro, che, in campi diversi mirano a far emergere, nelle loro
caratteristiche proprie, certi oggetti specifici. Da questo punto di vista lo
stesso « problema della C. + come sl è venuto configurando nella seconda metà
dell’800, sulla base dell’impostazione romantica o della polemica contro di
essa, come problema CONOSCENZA dell’attività o della passività dello spirito o
dei caratteri di quella sua «categoria eterna» che sarebbe l’attività
teoretica, è un problema che si è dissolto sotto l’azione della fenomenologia
da un lato e della filosofia della scienza e del pragmatismo dall'altro lato.
Nell’àmbito della fenomenologia, Heidegger parla infatti di un annullamento del
problema della conoscenza. Il conoscere non può essere inteso come ciò per cui
l’Esserci (cioè l’uomo) « va da un dentro a un fuori della sua sfera interiore,
sfera in cui sarebbe in un primo tempo incapsulato: al contrario l’Esserci,
conformemente al suo modo d'essere fondamentale è già sempre fuori, presso
l’ente che gli viene incontro in un mondo già sempre scoperto » (Sein und Zeit,
$ 13). Secondo Heidegger, il conoscere è un modo d’essere dell’essere-nel-mondo
cioè del trascendere del soggetto verso il mondo. Esso non è mai soltanto un
vedere o un contemplare. Dice Heidegger: «L'essere nel mondo, in quanto
prendersi cura, è penetrato e stordito dal mondo di cui si prende cura »
(/bid., $ 13). Il conoscere è in primo luogo la sospensione del prendersi cura
cioè delle attività comuni della vita di ogni giorno come il manipolare, il
commerciare, ecc. Questa sospensione rende possibile il semplice « osservare
che è di volta in volta il soffermarsi presso un ente, il cui essere è
caratterizzato dal fatto che è presente, che è qui». In questo fermarsi di ogni
commercio e utilizzazione, si realizza la percezione della semplice presenza.
Il percepire si concretizza nelle forme dell’interpellare e del discutere
intorno a qualcosa in quanto qualcosa. Sul fondamento di questo interpretare in
senso larghissimo, il percepire si fa un determinare. Il percepito o il
determinato può essere espresso in proposizioni, nonchè ritenuto e conservato
in quanto asserito. Questo ritenimento percettivo d’una asserzione intorno a...
è una aniera di essere nel mondo e non può essere considerato come un
procedimento in virtù del quale un soggetto riceverebbe immagini da qualche
cosa, immagini che sarebbero di conseguenza sperimentate come «interne» sì da
far sorgere il problema della loro concordanza con la realtà «esterna » (/bid.,
$ 13). Il « problema della C. » e il « problema della realtà » (v. REALTÀ) come
formulati dalla filosofia dell'’800 sono quindi eliminati da Heidegger. Tutte
le manifestazioni o i gradi del conoscere: l’osservare, il percepire, il
determinare, l’interpretare, il discutere, il negare e l’asserire,
presuppongono il rapporto dell’uomo con il mondo e sono possibili solo sulla
base di questo rapporto. Questa convinzione è oggi condivisa da filosofi di provenienza
diversa, per quanto venga spesso rivestita da terminologie differenti. Il
fondamento che la suggerisce è sempre lo stesso: l’abbandono del presupposto
che gli « stati interni » (idee, rappresentazioni, ecc.) siano gli oggetti
primari di conoscenza e che solo a partire da essi possano essere (se mai)
inferiti oggetti di altra natura. La rinuncia a questo presupposto è, per es.,
esplicita nel pragmatismo di Dewey, per il quale la C. è semplicemente il
risultato di un’operazione di ricerca o più precisamente è l’asserzione valida
cui tale operazione mette capo. Da questo punto di vista, l’oggetto della C.
non è un’entità esterna da raggiungere o da inferire ma è «quel gruppo di
distinzioni o caratteristiche connesse che emerge come costituente definito di
una situazione risolta ed è confermato nella continuità dell’indagine » (Logic,
cap. XXV, II; trad. ital., pag. 666). Poichè frequentemente vengono usati, in
una certa indagine, oggetti costituiti in indagini precedenti, questi ultimi
sono talora intesi come oggetti esistenti o reali indipendentemente
dall’indagine stessa. In realtà sono indipendenti dall’indagine in cui ora
entrano, ma sono oggetti solo in virtù di un’altra indagine di cui sono il
risultato. Eppure, questo semplice equivoco è, secondo Dewey, la base della
concezione «rappresentativa» della conoscenza. «L'atto di riferirsi a un
oggetto, che è un oggetto conosciutosolo in virtù di operazioni affatto
indipendenti dall’atto stesso di riferimento, è considerato ai fini di una
teoria della C. come costituente per se medesimun caso di C. rappresentativa »
(Logic, pag. 667). Queste idee hanno agito e continuano ad agire potentemente
nella filosofia contemporanea e sono alla base di quella dissoluzione del
problema della C. che è una delle sue caratteristiche. La dissoluzione di
questo problema si è operata in favore da un lato della logica, dall’altro
della metodologia delle scienze. Quest'ultima specialmente è l’erede, nella
filosofia contemporanea, di quanto rimane di valido in problemi che venivano
solitamente trattati dalla teoria della conoscenza. Il tratto fondamentale che
forma l’oggetto della metodologia delle scienze è oggi il carattere operativo e
anticipatorio dei procedimenti della scienza. Accenneremo qui soltanto ai primi
riconoscimenti storici di questi caratteri rinviando la loro trattazione più
dettagliata alla voce MeroDoLOGIA. Essi sono riconosciuti dalla scienza solo
nella misura in cui si riconosce che lo scopo fondamentale di essa non è la
descrizione ma la previsione. Questo fine aveva riconosciuto alla scienza già
Francesco Bacone; e nella filosofia moderna esso viene riaffermato da Augusto
Comte. Tuttavia solo più tardi gli scienziati stessi lo riconoscono ed assumono
esplicitamente. Ciò cominciò a verificarsi quando Mach riprese la tesi che
l’oggetto della C. è un gruppo di sensazioni. « Un colore, dice Mach, è un
oggetto fisico fintanto che noi consideriamo, per es., la sua dipendenza dalle
fonti luminose (altri colori, calore, spazio, ecc.); ma se lo consideriamo nella
sua dipendenza dalla retina, esso è un oggetto psicologico, una sensazione. Non
la sostanza, ma la direzione della ricerca è diversa nei due campi» (Analyse
der Empfindungen, 1900; 9° ed. 1922, pag. 14). Da questo punto di vista non
sono i corpi che generano le sensazioni ma piuttosto i complessi di sensazioni
che formano i corpi: questi infatti non sono che simboli per indicare tali
complessi. Con questo sembrerebbe che Mach inclini verso una teoria
rappresentativa della conoscenza. Ma in realtà, nella sua teoria del concetto,
il carattere operativo della C. viene chiaramente riconosciuto. Il concetto
scientifico è difatti, secondo Mach, un segno riassuntivo delle reazioni
possibili dell’organismo umano a un complesso di fatti. Una legge naturale è,
per es., una restrizione delle possibilità di aspettazione cioè una
determinazione della previsione (Erkenntniss und Irrtum, 1905, cap. XXIII. Gli
stessi concetti erano stati presentati da Hertz nei suoi Principi della
meccanica (1894), pur senza l’abbandono totale della concezione pittorica della
conoscenza. « Il più diretto e in un certo sensoil più importante problema che
la nostra C. della natura deve renderci capace di risolvere, diceva Hertz, è
l’anticipazione degli eventi futuri in modo che possiamo disporre le nostre
faccende presenti in accordo con questa anticipazione. Come base per la
soluzione di questo problema, noi facciamo uso della nostra C. degli eventi già
accaduti, ottenuta attraverso l’osservazione causale e l’esperimento
preordinato. Nell’effettuare così inferenze dal passato al futuro adottiamo
costantemente il procedimento seguente: ci formiamo imagini o simboli degli
oggetti esterni e la forma che diamo a tali simboli è che le necessarie
conseguenze della immagine pensata sono sempre le immagini delle necessarie
conseguenze nella natura delle cose rappresentate » (Prinzipien der Mechanik,
Intr.). Lo sviluppo ulteriore della scienza ha eliminato il residuo di
concezione rappresentativa che ancora rimaneva nelle dottrine di Mach e di
Hertz. Già nel 1930 uno dei fondatori della meccanica quantistica, Dirac,
poteva affermare: «Il solo oggetto della fisica teorica è di calcolare
risultati che possono essere messi a confronto con l’esperimento ed è affatto
inutile che sia data una descrizione soddisfacente dell’intero sviluppo del
fenomeno +» (7he Principles of Quantum Mechanics, 1930, pag. 7). A questo punto
la teoria della C. si è completamente risolta nella metodologia delle scienze.
Questo significa che, mentre il problema della C. come problema di un oggetto «
esterno » da raggiungere a partire da un qualche dato « interno » si è andato
dissolvendo, si è proposto in sua vece il problema della validità delle
procedure effettive dirette all’accertamento e al controllo degli oggetti nei
campi diversi di indagine. CONOSCENZA DI SÈ. Il sapere obiettivo, cioè non
immediato nè privilegiato, che l’uomo può acquisire intorno a se stesso. Il
termine ha quindi un significato diverso da autocoscienza (v.) che è la
coscienza assoluta o infinita, e anche da coscienza (v.) che implica sempre un
rapporto immediato e privilegiato dell’uomo con se stesso, perciò una C.
diretta e infallibile, per quanto incomunicabile, di sè. Come invito a una tale
C. di sè (e non alla coscienza) Platone interpreta il socratico motto «Conosci
te stesso +: nel Carmide difatti, esso è interpretato come invito al «saper di
sapere +, cioè alla determinazione e all’inventario di ciò che si sa. « Nè noi
stessi ci mettiamo a fare quello che non sappiamo, ma cerchiamo le persone
competenti e ci affidiamo ad esse; nè permettiamo a quelli che dipendono da noi
di far altro da quello che possono far bene e di cui abbiano scienza + (Carm.,
171 c). Kant affermò che noi possiamo conoscere noi stessi solo allo stesso
titolo in cui conosciamo le altre cose, cioè solo come fenomeni; difatti la C.
di sè richiede, secondo Kant, come ogni altra specie di C., due condizioni e
cioè: 1° un elemento unificatore a priori che in questo caso è l’io penso o
appercezione pura (v.); 2° un molteplice empirico dato che è quello del senso
interno (Crif. R. Pura, $ 24). Coloro che negano la realtà della coscienza
riconoscono che la C. di sè non si diversifica per modalità e certezza dalla C.
degli altri o delle altre cose (RyLE, Concept of Mind, cap. VI). CONOSCENZA,
TEORIA DELLA (inglese Epistemology, rar. Gnoseology; franc. Gnoséologie, rar.
Épistémologie; ted. Erkenntnistheorie, rar. Gnoseologie). La teoria della C. è
detta pure, in italiano, gnoseologia o, più raramente, epistemologia. In
tedesco il termine Groseologie, coniato dal wolffiano Baumgarten ha avuto poca
fortuna mentre il termine Erkenntnistheorie usato dal kantiano Reinhold
(Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermògens, 1789) fu
comunemente accettato. In inglese il termine Epistemology fu introdotto da J.
F. Ferrier (/nstitutes of Metaphysics, 1854) ed è il solo comunemente
adoperato; Gnoseology è assai raro. In francese, si adopera comunemente
Gnoséologie, più raramente Épistémologie. Tutti questi nomi hanno lo stesso
significato: non indicano, come spesso ingenuamente si crede, una disciplina
filosofica generale, come la logica o l’etica o l’estetica, ma piuttosto la
trattazione di un problema che nasce da un presupposto filosofico specifico
cioè nell’àmbito di un determinato indirizzo filosofico. Tale indirizzo è
quello dell’idealismo (nel senso 1°, v. IpeALISMO); e il problema la cui
trattazione è il tema specifico della teoria della C. è quello della realtà
delle cose o in generale del «mondo esterno ». La teoria della C. poggia su due
presupposti: 1° che la C. sia una « categoria » dello spirito, una « forma »
dell’attività umana o del «soggetto », che possa essere indagata in universale
e in astratto cioè prescindendo dai particolari procedimenti conoscitivi di cui
l'uomo dispone fuori e dentro la scienza; 2° che l’oggetto immediato del
conoscere sia, come aveva ritenuto Cartesio, soltanto l’idea o
rappresentazione; e che l’idea sia un’entità mentale, esista cioè solo « dentro
» la coscienza o il soggetto che la pensa. Si tratta quindi di vedere: 1° se a
questa idea corrisponde una qualsiasi cosa o entità «esterna» cioè esistente «
al di fuori » della coscienza; 2° se, nel caso che a tale domanda si risponda
negativamente, ci sia una differenza, e quale, tra idee irreali o fantastiche e
idee reali. Sono i problemi che aveva già dibattuto Berkeley, che sono ripresi
da Fichte nella Dottrina della scienza (1794) e che costituiscono il tema
dominante di una ricca letteratura filosofica, specialmente tedesca, dalla
seconda metà dell’800 ai primi decenni del ’900. Per la sua stessa origine e
impostazione, la teoria della C. è idealistica. Anche le soluzioni cosiddette «
realistiche » sono in realtà forme di idealismo in quanto le entità che esse
riconoscono come « reali » sono, assai spesso, coscienze o contenuti di
coscienze. La cosiddetta Scuola di Marburgo (Ermanno Cohen, 18421918; Paolo
Natorp, 1854-1924) identificava la teoria della C. con la logica e riduceva a
tre le discipline filosofiche fondamentali: logica, etica, ed estetica. Il Problema
della C. nella filosofia e nella scienza dell’epoca moderna (4 voll., 1906-50)
di Ernesto Cassirer (1874-1945) è la più importante opera dedicata al problema
della C. in questo significato tradizionale. La teoria della C. ha perduto il
suo primato e anche il suo significato dacchè si è cominciato a dubitare della
validità di uno dei suoi presupposti: cioè che il dato primitivo della C. sia «
interno » alla coscienza o al soggetto e che pertanto la coscienza o il
soggetto debbano saltar fuori di sè (il che è per principio impossibile) per
afferrare l'oggetto. Di questo presupposto Kant, nella « Confutazione
dell’idealismo » aggiunta alla seconda edizione della Critica della Ragion Pura
(1787) aveva già mostrato l'infondatezza. Gli analisti contemporanei, rigettano
anche il primo presupposto della teoria della C. e cioè che la C. sia una forma
o categoria universale che possa essere indagata come tale: essi infatti
assumono come oggetto d’indagine i procedimenti effettivi o il linguaggio della
scienza, non già la «C.» in generale. Pertanto la teoria della C. è venuta a
perdere il suo signi-ficato nella filosofia contemporanea ed è stata sostituita
da un’altra disciplina, la metodologia (v.), che è l’analisi delle condizioni e
dei limiti di validità dei procedimenti di indagine e degli strumenti
linguistici del sapere scientifico. CONSAPEVOLEZZA (ingl. Awareness). In
generale, la possibilità di fare attenzione ai propri modi d'essere e alle
proprie operazioni e di esprimerli col linguaggio. Tale possibilità è la sola
base di fatto su cui è stata edificata la nozione filosofica di coscienza.
Nell’antichità Platone e Aristotele, che non ebbero il concetto di coscienza,
conobbero e descrissero la C. (v. COSCIENZA). CONSEGUENTE (ingl. Consequent;
francese Conséquent; ted. Konsequent). In Logica, il secondo termine di una
conseguenza (v.). CONSEGUENZA (gr. dxo)ovdla; lat. Corsequentia; ingl.
Consequence; franc. Conséquence; ted. Konsequenz). Per quanto Aristotele si
avvalga del verbo corrispondente a questo sostantivo per significare che la
conclusione segue dalle premesse del sillogismo (v.), il termine stesso fu
introdotto dagli Stoici per indicare la proposizione condizionale (v.
ConpizionaLe). Il latino conseguentia fu introdotto da Boezio come sinonimo di
« proposizione ipotetica » (condizionale). La C. può essere, secondo Boezio o
accidentale come quando si dice «Quando il fuoco è caldo, il cielo è rotondo »;
o naturale, come quando si dice « Quando c’è un uomo, c'è un animale» o «Se la
Terra sarà dal lato opposto, ci sarà l’eclisse di Luna». In quest’ultimo
esempio, la C. poggia sulla « posizione dei termini » nel senso che l’essere la
Terra all’opposizione è la causa dell’eclissi di Luna (De Syllogismis
Hypotheticis, P. L., 64°, 835 B). Abelardo riserva il termine C. alle
connessioni necessarie che sono vere ab aeterno come « Se è uomo, è animale »
(Dialectica, ed. De Rijk, 19707, pag. 160). Ockham distinse dalla C. intesa in
questo senso, che egli chiamava formale e che esprime una connessione
necessaria o intrinseca dalla C. materiale che connette estrinsecamente due
proposizioni, come quando si dice « Un uomo corre, dunque Dio esiste », che è
valida perchè il conseguente è necessario; o « Un uomo è un asino, quindi Dio
non esiste», che è valida perchè l’antecedente è impossibile (Sum. Log., III,
HI, 1). Il termine venne usato in significati simili o analoghi a questi nei
trattati dei logici nei secoli successivi; ma la sua trattazione è stata spesso
intrecciata (o confusa) con quella di proposizione ipotetica (v.) o di
condizionale (v.). Nella logica contemporanea l’ha usato Carnap (Logical Syntax
of Language, $ 14) per indicare una relazione più estesa di quella di
derivabilità, della quale, in un secondo momento, l’ha considerato sinonimo
(/ntroduction to Semantics, $ 37). Ma, come « condizionale », il termine è oggi
confluito in quello di implicazione (v.). CONSENSO UNIVERSALE (lat. Consensus
gentium). Aristotele fa nella sua opera spesso riferimento all’* opinione di
tutti» come prova o controprova della verità; e nell’Etica Nicomachea (X, 2,
1172b 36) esplicitamente dice «Ciò a cui tutti consentono, noi diciamo che è
così: giacchè rigettare una credenza siffatta significa rinunziare a ciò che è
più degno di fede ». Gli Stoici a loro volta insistettero sul valore del C.
universale: onde l’importanza che ebbero per loro le « nozioni comuni » appunto
per il fatto che si formano ugualmente in tutti gli uomini, o naturalmente o
per effetto dell'educazione (Diog. L., VII, 51). Tuttavia solo gli Eclettici
fecero del C. comune il criterio della verità; e Cicerone esprimeva appunto il
loro punto di vista quando affermava: «In ogni argomento, il C. di tutte le
genti è da ritenersi come legge di natura » (Tuscu/., I, 13, 30). La filosofia
moderna che prende le mosse da Cartesio ha inteso instaurare una critica
radicale del sapere comune ed ha perciò smesso di vedere, nel comune C. che
sorregge questo sapere, una garanzia o un valore di verità. Solo raramente
pertanto essa fa appello al consensus gentium. Un appello ad esso, è tuttavia
la scuola scozzese del Senso Comune che fa capo a Tommaso Reid (1710-96). Essa
è soprattutto in polemica contro lo scetticismo di Hume, e per superarlo
ricorre al C. universale che appoggerebbe le idee, criticate da Hume, di
sostanza, causa, ecc. (Ricerca sullo spirito umano secondo i principi del senso
comune, 1764) (v. Senso COMUNE). L'appello al consenso comune ha spesso
costituito una prova dell’esistenza di Dio (v. Dro, Prove DI). Dall'altro lato
esso è servito anche da fondamento alla nozione di diritto naturale (v.
Diritto). Ma questi e altri usi eventuali non modificano la sostanza della
nozione,che è il tentativo di mettere al riparo dalla critica conoscenze o
pregiudizi che si ritengono assolutamente validi ma di cui sarebbe sempre oltremodo
difficile provare l'effettiva universalità. CONSEQUENTIS (FALLACIA). È la
fa/lacia (v.), consistente nel supporre indebitamente che una consequentia (v.)
o implicazione sia reciprocabile, il che normalmente non accade: «se da A segue
2, allora da 2 segue A». (ARISTOTELE, E/. Sof., 5, 167 b 1; Prerro Ispano,
Summul. Log., 7. 58; ecc.). G. P. CONSERVAZIONE. V. Conato. CONSIGNIFICANTE
(lat. Consignificans). Lo stesso che sincategorematico (v.). CONSPECIE (ingl.
Conspecies). Termine adoperato da Hamilton per indicare le specie coordinate
dello stesso genere che sono differenti ma non CONSENSO UNIVERSALE
contraddittorie e quindi costituiscono nozioni discrete o disgiunte talvolta
dette anche disparate (v.) (Lectures on Logic, I, pag. 209). CONSUETUDINE (ingl. Custom; franc.
Coutume; ted. Gewohnheit). 1. Lo stesso che abitudine
(v.). 2. Nel senso sociologico, qualsiasi atteggiamento o schema o progetto di
comportamento che sia partecipato da più membri di un gruppo. In questo senso
adoperava la parola Vico: « È un detto degno di considerazione quello di Dion
Cassio: che la C. è simile al re e la legge al tiranno; che deesi intendere
della consuetudine ragionevole e della legge non animata da ragion naturale »
(Scienza Nuova, 1744, degnità, 104). Nel linguaggio contemporaneo si intendono
per C. le usanze (folkways), le convenzioni e i costumi (mores) che si
differenziano tra di loro per la diversa intensità delle sanzioni che li
rafforzano. CONSUSTANZIAZIONE (lat. Consubstantiatio; ingl. Consubstantiation;
franc. Consubstantiation; ted. Konsubstantiation). L’interpretazione del
sacramento dell’altare che consiste nell’ammettere che la sostanza del pane e
del vino rimane insieme con quella del corpo e del sangue di Cristo, come
soggetto dei suoi accidenti. Tale dottrina, che fu sempre combattuta dalla
Chiesa, fu difesa ai princìpi del sec. xrv da Ockham in due scritti intitolati
De Sacramento Altaris e De Corpore Christi e veniva accettata da Lutero.
CONTEMPLATIVA, VITA (gr. Bewpnrwds Bloc; lat. Vira contemplativa; ingl.
Theoretical life; franc. Vie théorétique; ted. Theoretisches Leben). L’ideale
di una vita dedicata esclusivamente alla conoscenza. W. Jaeger (Genesi e
ricorso dell’ideale filosofico della vita, 1928, in Aristotele, trad. ital.,
pag. 363 sgg.) ha sostenuto che l’attribuzione di una vita puramente C. ai
filosofi presocratici mediante aneddoti e fatterelli (come quello di Talete che
camminando con gli occhi alle stelle cade nel pozzo mentre la servetta di
Tracia ride di lui) è la proiezione nel passato del punto di vista
platonico-aristotelico che esaltò la vita C. al disopra di quella pratica e la
riconobbe come sola degna del filosofo, e in generale dell’uomo. Si può
dubitare dell’esattezza di questa tesi per ciò che concerne la filosofia
platonica: che--difficilmente potrebbe dirsi una filosofia contemplativa,
avendo un dichiarato intento politico. Ma essa è certamente esatta per ciò che
riguarda Aristotele (v. FILOSOFIA; SAPIENZA). Una conseguenza dell’ideale
contemplativo della vita fu il disprezzo per la banausia (v.), cioè per il
lavoro manuale; un’altra conseguenza fu la riconosciuta superiorità delle
scienze cosiddette teoretiche su quelle cosiddette pratiche e in generale
dell’attività teoretica. « Quest’attività, dice Aristotele, è di per se stessa
la più alta: giacchè l’intelliCONTESTO genza è la cosa più alta che è in noi;
e, fra le cose conoscibili, le più alte sono quelle di cui l’intelligenza si
occupa ». Pertanto la vita teoretica è una vita superiore all’umana. « L’uomo
non deve, come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto
mortale le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto è possibile, immortale e
far di tutto per vivere secondo quanto c’è in lui di più alto: se pure ciò è
poco di quantità, supera per potenza e valore tutte le altre cose» (Er. Nic.,
X, 7, 1177 b 31). Aristotele esplicitamente contrapponeva nel capitolo citato
dell’Erica la vita teoretica e quella del politico e del guerriero che,
tuttavia, secondo gli antichi, erano le più alte. Su questa nozione doveva
imperniarsi l’intera filosofia post-aristotelica, dagli Epicurei ai
Neo-platonici, intenta ad esaltare la figura del «saggio?, cioè appunto
dell'uomo la cui vita si compendia o si esaurisce nella contemplazione. La
filosofia medievale continua questa tradizione. Se il Misticismo (v.) vede
nella vita C. il fine dell’uomo e nella via per arrivarci l’unica attività che
abbia un valore, l’intera Scolastica ritiene, con S. Tommaso (S. 7h., II, 1, q.
3, a. 5), che la vita C. è non solo la beatitudine ultima e perfetta che si
otterrà nell’altra vita, ma anche la minore e imperfetta beatitudine che si può
attingere in questa. Una delle caratteristiche dell’Umanesimo e del
Rinascimento è la rottura di questa tradizione e il riconoscimento del valore
della vita pratica o attiva, del lavoro e dell’attività mondana. E la Riforma,
almeno su questo punto, coincide col Rinascimento. Bacone affermava, su questa
linea, il carattere pratico e attivo della stessa conoscenza (scire est posse,
Nov. org., I, 3) nel senso che essa è diretta a stabilire il dominio dell’uomo
sulla natura. Le analisi degli Empiristi inglesi nel *6-700 mostravano la
connessione tra la conoscenza e l’esperienza vissuta dell’uomo e, con Hume, la
subordinazione della prima alla seconda. Il "700, secolo dell’Illuminismo
vede nella conoscenza essenzialmente uno strumento d’azione, un mezzo per agire
sul mondo e per migliorarlo: l’ideale della vita C. sembra abbandonato. Esso
tuttavia ritorna a prevalere nel Romanticismo; per il quale la conoscenza è il
punto finale di arrivo; e la vita C. è perciò il culmine del processo cosmico,
quello nel quale tale processo raggiunge, con la consapevolezza, la sua realtà
ultima. Hegel chiudeva la sua Enciclopedia delle scienze filosofiche con la
frase: « L’Idea, eterna in sè e per sè, si attua, si produce e gode se stessa
eternamente, come Spirito assoluto »; e aggiungeva, come suggello alla sua
opera, il passo di Aristotele (Mer., XI, 7) in cui si parla della vita divina
come « pensiero del pensiero ». Questa rinascita dello spirito C., che si è
manifestato in tutte le direzioni in cui il Romanticismo ha agito, ha trovato
tuttavia, dalla metà dell’800 ad oggi, dure smentite. Marx ha contrapposto alla
filosofia C., la non-filosofia della prassi, impegnata a trasformare, più che a
conoscere, la realtà stessa (Tesi su Feuerbach, 1845, $ 3, 11). Nietzsche ha
insistito sul carattere di rinunzia e di indebolimento vitale della vita C. e
del disinteresse teoretico (Die froeliche Wissenschaft, $ 345). Le filosofie
dell’azione e il pragmatismo hanno insistito su la subordinazione della
conoscenza stessa all’azione e alle sue esigenze. Infine l’esistenzialismo ha
visto nelle stesse situazioni dette conoscitive, modi d’essere dell’uomo nel
mondo, rendendo priva di senso la stessa distinzione tra vita C. e vita
pratica. Il riconoscimento dell’illegittimità di questa distinzione è forse il
tratto più caratteristico della filosofia contemporanea. Da un lato infatti il
conoscere, in tutti i suoi gradi e forme, implica la messa in opera di metodi,
tecniche o strumenti che sono inerenti alla situazione umana nel mondo e
possono perciò dirsi di natura pratica. Dall'altro, la stessa vita C. non è che
una delimitazione dei propri interessi alla sfera di certi problemi anzicchè a
certi altri; ed è perciò un pratico, scelto e deliberato, indirizzo di vita. Da
questo punto di vista, l’esaltazione della vita teoretica appare piuttosto come
una deformazione professionale del filosofo, che privilegia la propria attività
come più alta fra tutte. CONTENUTO. V. COMPRENSIONE. CONTESTO (ingl. Context;
franc. Contexte; ted. Kontext). L'insieme degli elementi che condizionano, in
un modo qualsiasi, il significato di un enunciato. Il C. è definito nel modo
seguente da Ogden e Richards: « Un C. è l’insieme di entità (cose od eventi)
correlate in un certo modo; queste entità hanno ciascuna un carattere tale che
altri insiemi di entità possono avere gli stessi caratteri ed essere connessi
dalla stessa relazione; ricorrono quasi uniformemente » (The Meaning of
Meaning, 108 ediz., 1952, pag. 58). Questa definizione sembra alquanto
macchinosa ma è resa più chiara dalla spiegazione che segue: « Un C. /etterario
è un gruppo di parole, incidenti, idee, ecc., che in una data occasione
accompagna o circonda ciò che si dice che abbia un C., laddove un C.
determinante è un gruppo di questa specie che non solo ricorre ma è tale che
uno almeno dei suoi membri è determinato, dati gli altri » (/bid., pag. 58, n.
1). Da altri autori C. è chiamato Kinsieme delle presupposizioni che rendono
possibile afferrare il senso di un enunciato. Dice S. K. Langer: « Il nome di
una persona, come tutti sappiamo, porta alla mente un certo numero di eventi
nei quali essa figura. In altri termini, una parola mnemonica stabilisce un C.
nel quale essa si presenta a noi; e in uno stato di innocenza noi la usiamo
aspettandoci che sarà compresa con il suo C.» (Philosophy in a New Key, ed. Penguin Books, cap. V,
pag. 110). In ogni caso, esso è l'insieme
linguistico di cui l’enunciato fa parte e che condiziona (in modi e gradi che
no essere diversissimi) il suo significato. CONTESTUALISMO (ingl.
Contextualism). La corrente del pragmatismo che accentua la mobilità temporale degli
eventi e li considera perciò in stretto rapporto con gli altri eventi che insieme
appartengono allo stesso contesto. (Cfr. S. C. PEPPER, Aesthetic Quality: A
Contextualistic Theory of Beauty, New York, 1938; L.E. HAHN, A Contextualistic
Theory of Perception, Berkeley and Los Angeles, 1942). CONTIGUITÀ, ASSOCIAZIONE PER (inglese Association by
Contiguity; franc. Association par contiguité; ted. Berùhrungs-Association).
Una delle forme dell’associazione delle idee, note già ad Aristotele (De
memoria, 2, 451 b 20) (v. AssociaZIONE DELLE IDEE). CONTINGENTE (lat.
Contingens; ingl. Contingent; franc. Contingent; ted. Kontingent). 1. Gli
Scolastici latini tradussero con questo termine il termine aristotelico
èvSey6pevov (De int., 12, 20 b 35). Boezio, al quale si deve la determinazione
di buona parte della terminologia filosofica latina, già osservava che
possibile e contingens significano la stessa cosa salvo forse per il fatto che
non esiste il privativo di contingens, che dovrebbe essere incontingens, come
invece esiste il privativo di possibile che è impossibile (De interpretatione,
{II}, V; P. L., 64°, col. 582-83). Tuttavia nella tradizione scolastica, e
soprattutto per influsso della filosofia araba, il termine C. è venuto ad
assumere un significato specifico, diverso da ciò che si intende sotto
possibile; e precisamente è venuto a significare ciò che pur essendo possibile
«in sè», cioè nel suo concetto, può invece esser necessario rispetto ad altro,
vale a dire a ciò che lo fa essere. Per es., un evento qualsiasi del mondo è C.
nel senso che: 1° considerato di per sè, potrebbe verificarsi o non
verificarsi; 2° si verifica necessariamente per la sua causa. Da questo punto
di vista, mentre il possibile, non solo non è necessario in sè, ma neppure è
necessariamente determinato ad essere, il C. è invece il possibile che può
essere necessariamente determinato e perciò può essere necessario. La nozione
di C. è pertanto ambigua e poco coerente: tuttavia l’uso di essa nella
filosofia antica e moderna è abbastanza esteso. Questo uso è stato introdotto
dal necessitarismo arabo e specialmente da Avicenna. « Se una cosa non è
necessaria in rapporto a se stessa, diceva Avicenna, bisogna che sia possibile
in rapporto a se stessa ma necessaria in rapporto a una cosa diversa » (Mer.,
II, 1, 2). Ciò che è possibile rimane sempre possibile in rapporto a se stesso,
ma gli può accadere di essere in modo necessario in virtù di una cosa diversa
da sè (/bid., II, 2, 3). In tal modo tutto ciò che è o esiste, da Dio
all’infima cosa naturale, esiste necessariamente, secondo Avicenna. Ma mentre
Dio e le realtà prime sono necessarie in sè, le cose finite sono necessarie «
per altro », giacchè in se stesse sono possibili; e in questo senso sono
contingenti. Questa nozione è rimasta sostanzialmente immutata in tutta la
filosofia Scolastica e anche nella filosofia moderna che però si avvale di essa
molto più limitatamente. S. Tommaso che definisce il C. come possibile, vale a
dire come «ciò che può essere o non essere + riconosce che già in esso si
possono trovare elementi di necessità (S. 74., I, q. 86, a. 3). Duns Scoto
riproduce la nozione di Avicenna del C. difendendola dalla accusa di
contraddizione (Op. Ox., 1, d. 8, q. 5, a. 2, n. 7). L’intera nozione ricompare
con tutta la chiarezza desiderabile nella dottrina di Spinoza: secondo il quale
una cosa non può dirsi C. se non per un difetto della nostra conoscenza (Er.,
I, 33, scol. 1) giacchè in realtà non c’è nulla di C. e ogni cosa è determinata
dalla natura divina ad essere e ad operare in un certo modo (/bid., I, 29). La
Scolastica parlava anche di «verità C.+ che sono quelle che si riferiscono a
eventi C. (per es., OckHam, In Sent., prol., q. 1, Z). Di tali verità C.
Leibniz diceva che esse si distinguono dalle verità necessarie come i numeri
incommensurabili dai commensurabili: cioè nel senso che come nei numeri
incommensurabili si può ottenere la loro risoluzione alla comune misura, così
nelle verità necessarie si può ottenere la loro riduzione a verità identiche.
La cosa invece richiederebbe un progresso infinito per le verità C. (o di
fatto), progresso che può essere solo effettuato da Dio (Op., ed. Erdmann, pag.
83). In un senso analogo si parla oggi di « contingenza logica +, nel senso che
le proposizioni empiriche non possono essere certificate vere o false da un
qualsiasi carattere logico di esse: così fa C. I. Lewis (Analysis of Knowledge
and Valuation, pag. 340). Nello stesso senso usa il termine Carnap (Meaning and
Necessity, $ 39) (v. MODALITÀ; POSSIBILE). 2. Nella filosofia contemporanea,
soprattutto in quella francese a partire dall'opera di Boutroux, La contingenza
delle leggi di natura (1874), il termine C. è diventato sinonimo di «
non-determinato » cioè di libero e imprevedibile; e designa specialmente ciò
che di libero in questo senso si trova o agisce nel mondo naturale. In questo
senso adopera il termine Bergson. «La parte della contingenza, egli dice, è
grande nell’evoluzione. C., il più delle volte, sono le forme adottate, o
piuttosto inventate. C., relativamente ad ostacoli incontrati in tal luogo e in
tal momento, la dissociazione della tendenza primordiale in diverse tendenze
complementari che producono linee divergenti di evoluzione. C. gli arresti e i
ritorni » (Év. créatr., 115 edizione, 1911, pag. 277). In questo senso
contingenza si identifica con libertà ed entrambe si oppongono a necessità;
mentre la possibilità è secondo Bergson soltanto l’immagine che la realtà,
nella sua autocreazione C. cioè «imprevedibile e nuova, proietta di se stessa
nel suo proprio passato » (La Pensée et le Mouvant, pag. 128). L'uso del
termine « contingenza » in questo significato caratterizza le correnti del
cosiddetto indererminismo (v.) contemporaneo: le dottrine filosofiche che
interpretano la natura in termini di libertà e di finalità cioè in termini di
spirito. A questo significato si riconduce anche l’uso che del termine ha fatto
Sartre, intendendo per contingenza il fatto che la libertà « non può non
esistere ». La contingenza è perciò la libertà nel rapporto dell’uomo con il
mondo (L’érre et le néant, pag. 567). CONTINGENTISMO. La parola non ha riferimento
al significato tradizionale o classico di contingenza, ma al significato
contemporaneo di questo termine in quanto è sinonimo di libertà (in senso
infinito o incondizionato). Pertanto il termine si riferisce soprattutto alle
varie forme dello spiritualismo (v.) che affermano la presenza e l’azione,
nello stesso mondo della natura, di un Principio libero (divino). CONTINGENZA
(lat. Contingentia). Una delle prove dell’esistenza di Dio è quella detta a
contingentia mundi (v. Dio, PROVE DI). CONTINUO (gr. ouveyés; lat. Continuum; ingl. Continuous;
franc. Continu; ted. Sterig). La
nozione di C. è di natura schiettamente matematica, per quanto i filosofi
abbiano contribuito ad elaborarla e se ne siano spesso serviti. La prima
definizione esplicita del C. è quella data da Aristotele (che forse riprende un
concetto di Anassagora, Fr. 3, Diels) secondo il quale esso è «ciò che è
divisibile in parti sempre divisibili » (Fis., VI, 2, 232b 24) e che perciò non
può risultare di elementi indivisibili, cioè di atomi (/bid., VI, 1, 231 a 24).
Con questo concetto si alterna però in Aristotele l’altro, più intuitivo e meno
matematico, secondo il quale il C. è una specie del «contiguo », nel senso che
sono continue le cose i cui limiti si toccano e dal cui contatto scaturisce una
certa unità (Mer., XI, 12, 1069 a 5 sgg.). Quest’ultimo concetto si trovava in
Parmenide (Fr., 8, 24, Diels): e non viene utilizzato dal pensiero moderno.
L'unico a richiamarlo è Peirce che esplicitamente si rifà ad Aristotele
dichiarando non del tutto soddisfacente la definizione del C. data da Cantor
(Chance, Love and Logic, II, 3; Coll. Pap. 4, 121 sgg.). La prima definizione è
quella che ha dominato la tradizione della matematica sino a Leibniz. Leibniz
ha sottolineato per primo l’importanza filosofica della «legge di continuità »
e ha di nuovo definito il continuo. Secondo la legge di continuità, il riposo
può essere considerato come un movimento che svanisce dopo essere stato
continuamente diminuito. Analogamente l’eguaglianza come una ineguaglianza che
svanisce, come accadrebbe nel caso di una diminuzione continua del maggiore di
due corpi disuguali, di cui il minore conservasse la sua grandezza (7héod., II,
$ 348). La legge di continuità consiglia inoltre di ammettere infiniti gradi
nella costituzione e nell’azione delle sostanze che compongono l’universo. «
Ciascuna di queste sostanze, dice Leibniz, contiene nella sua natura una legge
di continuità della serie delle sue operazioni » (Op., ed. Erdmann, pag. 107).
La legge di continuità vale ugualmente nel mondo delle rappresentazioni, nel
quale « le percezioni notevoli vengono per gradi da quelle che sono troppo
piccole per essere notate» (Nouv. Ess., Introduzione). Quanto al C. stesso,
Leibniz lo definì nel senso che in esso «la differenza di due casi può essere
diminuita al di sotto di ogni grandezza data» (Mathematische Schriften, ed.
Gerhardt, VI, pagina 129). È questo il concetto a cui si rifà Kant: «La
proprietà delle quantità, per la quale in esse non c’è parte che sia la più
piccola possibile (cioè una parte semplice) si dice la continuità di esse »
(Crit. R. Pura, Anticipazioni della percezione). Nella matematica moderna due
tappe importanti nella definizione del C. sono quelle costituite dai postulati
di Dedekind (Conrinuità e numeri razionali, 1872) e di Cantor (nei
Mathematische Annalen, dal 1878 al 1883). Il postulato di Dedekind suona così:
« Divisi tutti i punti di una retta in due classi, in modo tale che ogni punto
della prima preceda ogni punto della seconda, esiste un punto e un punto solo
che segna la divisione di tutti i punti in due classi e della retta in due
segmenti». Il postulato di Cantor è invece più ristretto: « Date su una retta r
due classi C e C’ di punti tali che: 1° ogni punto di C sia a sinistra di ogni
punto di C‘; 2° preso un qualsiasi segmento y, si possa trovare un segmento
minore di y di cui un estremo sia un punto di C e l’altro un punto di C°;
esiste allora sulla retta r un punto di separazione delle due classi ». Russell
ha espresso lo stesso concetto nei riguardi del movimento, affermando: «
L'intervallo tra due istanti qualsiasi o due posizioni qualsiasi è sempre
finito, ma la continuità del movimento nasce dal fatto che, per quanto vicine
siano le due posizioni considerate, o i due istanti, c’è un’infinità di
posizioni ancora | più vicine, occupate a istanti che sono egualmente ' più
vicini » (Scientific Method in Philosophy, 1926, V; trad. franc., pag. 111).
Queste definizioni del C. hanno tuttavia un carattere paradossale in quanto
sembra che vogliano far nascere il C. dall’imagine stessa del discontinuo, cioè
da un insieme di istanti o di punti o di posizioni. Negli ultimi tempi esso ha
fatto nascere accese discussioni tra i matematici, alcuni dei quali sono
propensi a ritornare ad una nozione « intuitiva» del C., assunto talora come
concetto originario. Il Brouwer (1954), vede il C. in una « approssimazione che
procede più o meno liberamente » (cfr. From Frege to Gòdel, ed. by J. van
Heijenoort, 1967, pag. 342). L’uso filosofico della nozione di C. ha tuttavia
poco o nulla a che fare con queste speculazioni matematiche. Tra i pensatori
moderni, uno di quelli che più utilizza la nozione è Mach che la chiarisce nel
modo seguente: «Se un intelletto investigante si è abituato a collegare nel
pensiero due fatti, a e b, cercherà, per quanto è possibile, di tener ferma
questa abitudine anche in circostanze alquanto diverse: in generale ogni volta
che si presenti a, verrà pensato anche 5. Questo principio che ha la sua radice
nella tendenza all’economia e che si presenta particolarmente chiaro ai grandi
pensatori, noi lo chiamiamo principio della continuità » (Analyse der
Empfindungen, IV, $ 1; trad. ital., pag. 71). Come si vede, la continuità è qui
ricondotta al principio humiano dell’abitudine, non chiarita concettualmente.
Dall’altro lato Dewey, che considera la legge di continuità come « il postulato
fondamentale di una teoria naturalistica della logica » determina la nozione di
continuità più negativamente e per immagini che in modo rigoroso. Dice infatti
che essa «significa comunque esclusione della completa rottura da un lato e
della semplice ripetizione o identità dall’altro; nega la riducibilità del ‘più
alto’ al ‘più basso”, come nega le separazioni e gli spacchi netti. Il crescere
e svilupparsi di una natura vivente dal seme alla maturità, illustra bene il
significato della parola » (Logic., cap. Il; trad. ital., pag. 59). Qui, come
si vede, oltre al ricorso all’imagine dell’organismo vivente, non ci sono che
due determinazioni negative, cioè l’esclusione: 1° della divisione; 2°
dell’unità, tra le parti del continuo. In senso ancora più impreciso la parola
è usata quando si parla della continuità dell’evoluzione, dello sviluppo, del
progresso, o della storia. A proposito di quest’ultima, in particolare, la continuità
sembra assunta, il più delle volte, a significare la permanenza di certi
elementi o motivi o fattori, e quindi una certa unità o somiglianza tra le
varie fasi di essa. La «continuità della storia della filosofia », per es.,
viene intesa, il più delle volte, come la permanenza, attraverso di essa, di
certe nozioni, o direttive, o princìpi generali. Dall'altro lato, se si
riflette che quello che Dewey chiama «il postulato naturalistico della
continuità » tra biologia e logica è l’azione condizionatrice che le situazioni
biologiche esercitano sull’impostazione e lo sviluppo delle indagini, si vede
sùbito come la nozione di permanenza non sia adatta a definire un concetto
sufficientemente generalizzato della continuità. Sotto questo rispetto, e
limitatamente all’uso che la parola ha nel linguaggio filosofico e comune
odierno, si può dire che in generale sì parla di continuità tra due cose ogni
qualvolta è possibile riconoscere tra queste due cose una relazione qualsiasi.
Pertanto relazioni di causalità o di condizionamento, di contiguità o di
somiglianza possono essere assunte come segni o prove o manifestazioni di
continuità; come dall’altro lato possono essere assunte come tali anche
relazioni di opposizione o di contrarietà o di contrasto o di lotta, dal momento
che neanche tali forme di relazione implicano un taglio netto tra le cose che
oppongono, e cioè la mancanza di una relazione qualsiasi. CONTRADDIZIONE (gr.
&vripaas; lat. Contradictio; ingl. Contradiction; franc. Contradiction;
ted. Widerspruch). Aristotele (Anal. Post., I, 2, 72 a 12-14) la definisce come
un" opposizione che di per sè esclude una via di mezzo +»; in Anal. Pr.,
I, 5, 27a 29, detto rapporto è precisato come rapporto tra proposizione
universale negativa e particolare affermativa, universale affermativa e
particolare negativa. Queste infatti (40, E/) sono le coppie delle
propositiones contradictoriae nel cosiddetto «quadrato di Psello » dei testi
medievali di Logica. Essenziale alle coppie di contraddittorie è che non
possono essere nè entrambe vere ( principio di C.) nè entrambe false (principio
di terzo escluso). G.P. CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI (gr. dElwpa tic
dviiphoewe; lat. Principium contradictionis; ingl. Principle of Contradiction;
francese Principe de contradiction; ted. Satz der Widerspruchs). Nato come
principio ontologico, il principio di C. passò nel campo della logica solo nel
sec. XVIII, per divenire, in questo stesso secolo, una delle « leggi
fondamentali del pensiero ». Come principio ontologico, esso fu esplicitamente
ammesso per la prima volta da Aristotele che lo assunse a fondamento della «
filosofia prima » o metafisica. Secondo Aristotele, tale principio serve in
primo luogo a delimitare il dominio proprio di questa scienza, permettendo di
astrarre il suo oggetto, l’essere come tale, da tutte le determinazioni con le
quali è congiunto, in modo analogo a quello in cui gli assiomi della matematica
e della fisica consentono di astrarre i loro oggetti (rispettivamente la
quantità e il movimento) dalle altre determinazioni con cui vanno congiunti
(Mer., IV, 3). Aristotele tuttavia dà costantemente del principio una duplice
formulazione. Una è quella strettamente ‘ontologica che egli esprime dicendo: «
Niente simultaneamente può essere e non essere + (/bid., III, 2, 996 b 30; IV,
2, 1005 b 24); l’altro è quello CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI che si potrebbe
chiamare logica e che si esprime dicendo: « È impossibile per la stessa cosa e
nello stesso tempo inerire e non inerire ad una stessa cosa nello stesso
rispetto » (/bid., IV, 2, 1005 b 20); oppure dicendo: « È necessario che ogni
asserzione sia o affermativa o negativa » (/bid., III, 2, 996 b 29). Aristotele
ritiene che il principio sia indimostrabile, ma che esso possa essere difeso
polemicamente contro i suoi negatori, tra i quali considera i Megarici, i
Cinici, i Sofisti e gli Eraclitei, mostrando che, se essi affermano qualcosa di
determinato, negano la negazione di questo qualcosa e così si avvalgono del
principio (/bid., IV, 4). Il valore del principio pertanto è da Aristotele
stabilito nei confronti di ciò che è determinato (réde ti). « Se la verità,
dice Aristotele, ha un significato, necessariamente chi dice uomo dice animale
bipede: giacchè questo significa uomo. Ma se questo è necessario, non è
possibile che l’uomo non sia animale bipede: la necessità significa infatti
proprio questo, che è impossibile che l’essere non sia » (/bid., IV, 4, 1006 b
28). Così il principio di C., riferendosi all’essere determinato, consente di
astrarre da questo essere ciò che c’è di necessario: la sostanza o l'essenza
sostanziale: nell’esempio dell’uomo, l’animale bipede che è appunto la sostanza
o l’essenza sostanziale o la definizione dell’uomo stesso. In tal modo, il
principio di C. porta a fare della filosofia prima, che è la scienza
dell'essere in quanto essere, la teoria della sostanza Dice Aristotele: « Ciò
che da tempo e anche ora, e sempre abbiamo cercato, ciò che sempre sarà un
problema per noi: che cosa è l’essere? significa questo: che cosa è la
sostanza?» (/bid., VII, 1, 1028 b 2). Il significato che il principio di C. ha
nella metafisica di Aristotele è perciò realizzato nelle nozioni fondamentali
di questa metafisica, che sono quelle di sostanza (v.), di essenza necessaria
(v. ESssENZA) e di causa (v. CAUSALITÀ). Ma il principio possiede anche, per lo
stesso Aristotele una portata logica. Aristotele dice che, per quanto il
principio di C. non sia assunto espressamente da nessuna dimostrazione, esso è
a fondamento del sillogismo in quanto, sia che si ponga la nozione di uomo, sia
che si ponga la nozione di non-uomo, purchè si ammetta che l'uomo è animale,
risulterà sempre vero affermare che Callia è animale e non non-animale; e
afferma pure che esso è a fondamento della riduzione all’assurdo (An. Post., I,
1I, 77 a 10). La struttura sillogistica è così sorretta, sia nella sua forma
positiva sia in quella negativa, dal principio di C.: il che non fa meraviglia,
dato che per Aristotele la struttura sillogistica riproduce la struttura
sostanziale dell’essere (v. SILLOGISMO). Nella forma datagli da Aristotele, il
principio è rimasto lungamente a fondamento della metafisica classica. Le
discussioni del sec. xi intorno al modo di esprimerlo più semplice ed economico
portarono alla formulazione della massima che in séguito si chiamò principio di
identità (v.) ma non scossero la supremazia del principio di contraddizione.
Cartesio (Princ. Philos., I, 49) e Locke (Saggio, I, 1, 4) ancora lo
ammettevano come verità indubitabile; ma già ignoravano completamente il suo
valore ontologico, che per Aristotele era primario. Ma colui che fa passare
definitivamente il principio di C. nella sfera della logica è Leibniz: che lo
considerò esclusivamente come il fondamento delle verità di ragione, mentre
riteneva che le verità di fatto fossero fondate sul principio di ragion
sufficiente (Monad., $$ 31-32). Questi due princìpi erano, secondo Leibniz, a
fondamento di tutte le verità e quindi di tutto l’edificio della conoscenza
umana (Nouv. Ess., IV, 2, 1). Wolff ancora includeva il principio di C. nell’ontologia;
ma lo considerava tuttavia come un principio naturale della mente umana (Onr.,
8 27). E Baumgarten trovava per esso la formula classica: A + non-A = O e lo
chiamava il principio assolutamente primo, ponendolo a capo della sua ontologia
(Mer., 8 7). Kant preferiva esprimerlo, in uno dei suoi primi scritti, con la
formula: «Ciò di cui l’opposto è falso, è vero » (Principiorum Primorum
Cognitionis Metaphysicae Nova Dilucidatio, 1755, I, prop. II, scol.). Più tardi
nella Critica della Ragion Pura lo esprimeva dicendo: « A_ nessuna cosa
conviene un predicato che la contraddica » e lo considerava come « principio
generale pienamente sufficiente di ogni conoscenza analitica », eliminando
tuttavia da esso la determinazione temporale che era contenuta nell’espressione
aristotelica; perchè, egli diceva, «in quanto principio semplicemente logico
non deve limitare le sue espressioni ai rapporti di tempo » (Crit. R. Pura,
Analitica dei Princìpi, cap. II, sez. I). Questo era sostanzialmente lo stesso
punto di vista di Leibniz. Dopo di Kant il principio di C. fu considerato come
una delle «leggi fondamentali del pensiero» (KRuG, Logik, 1832, pag. 45; FRIES,
System der Logik, 1837, pag. 121; HAMILTON, Lectures on Logic, I, pag. 72): una
qualifica onorifica, con la quale i principi logici sono stati a lungo
contrassegnati e che ancora viene talvolta adoperata. Un ritorno all’uso
metafisico del principio di C. fu dovuto a Fichte e a Hegel. Si trattava, ora,
della metafisica soggettivistica dell’idealismo, per la quale nulla c’è fuori
dell’Autocoscienza razionale. Fichte chiamava il principio di C. « principio
dell’opposizione »; lo esprimeva con la formula «—P A non= A+ (che si legge «
non-A non uguale ad 4 ») e riteneva che esprimesse l’atto con cui l’Io oppone a
se stesso un non-Io cioè una realtà o una cosa (Wissenschaftslehre, 1794, $ 2).
Hegel considerava il principio di C., con quello di identità, «la legge
dell’intelletto astratto » (Enc., $ 115). E contrapponeva ad esso la legge
della «ragione speculativa » che sarebbe «Ogni cosa si contraddice in se stessa
». Questa legge sarebbe la radice di ogni movimento e di ogni vita e il
fondamento stesso della dialettica (Wissenschaft der Logik, ed. Glockner, I,
pag. 545-46). Ma dall’altro lato la dialettica (v.) è l'identità degli opposti:
sicchè la C., se è la radice della dialettica (cioè del movimento e della vita)
non è tutta la dialettica la quale anzi procede continuamente conciliando e
risolvendo le C. e stabilendo al di là di esse ciò che Hegel stesso chiama identità
o unità (cfr. Wissenschaft der Logik, I, pag. 100). Nello stesso senso Gentile
parlava del principio di identità come della « legge fondamentale del pensiero»
nel campo della «logica dell’astratto » (Sistema di logica, 1922, II,,$89;
mentre parlava della unità dello Spirito con se stesso o con la realtà. Queste
e simili critiche del principio di C. (come degli altri princìpi logici) sono
inconcludenti. Da un lato esse mirano a un uso assai più dogmatico e metafisico
dei princìpi stessi, di quello che criticano: giacchè tendono ad avvalersi di
essi per spiegare «il movimento e la vita » della realtà intera. Dall'altro,
esse prendono a bersaglio mulini a vento; giacchè quando Leibniz e Kant
affermavano che il principio di C. è il fondamento delle verità identiche o
analitiche non intendevano dire che esso è il fondamento di verità del genere «
un pianeta è un pianeta », « il magnetismo è il magnetismo », « lo spirito è lo
spirito », come Hegel riteneva (Enc., $ 115), ma alludevano alle verità
matematiche e logiche in quanto riducibili a tautologie. La rinuncia a
considerare i principi logici come princìpi della logica o addirittura come «
leggi fondamentali del pensiero» si ha invece veramente nella logica matematica
moderna. Già nell’opera di G. Boole (Laws of Thought, 1854), i princìpi logici
sono spariti come assiomi della logica e sostituiti, in questa loro funzione,
dalla definizione delle operazioni logiche fondamentali, modellate sulle
operazioni dell’aritmetica. Lo stesso principio di C. era considerato da Boole
come un teorema derivato da una più fondamentale espressione logica (/bid.,
cap. III, prop. IV, ed. Dover, pag. 49). Da Boole in poi i princìpi che si
assumono a fondamento della logica sono semplicemente le definizioni delle
funzioni, delle costanti e variabili logiche, dei connettivi e degli operatori.
I cosiddetti princìpi logici che ancora sono onorati talvolta del nome di «
leggi» sono ridotti o a tautologie nel calcolo delle proposizioni (cfr., per
es., REICHENBACH, The Theory of Probability, $ 4), o a teoremi dello stesso
calcolo (cfr., per es., A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 26.
13). CONTRAPPASSO Questo non vuol dire che la consistenza formale di un
discorso, la compatibilità reciproca delle asserzioni che lo costituiscono, è
diventata meno importante. Ma vuol dire soltanto che tale compatibilità è
definita, per ogni sistema linguistico, dalle regole di trasformazione o di
inferenza, di implicazione o di sinonimia che sono esplicitamente assunte nel
sistema stesso o a cui esso fa tacito riferimento. Il principio di rolleranza
(v.) nella forma che gli ha dato Carnap afferma: « Non è affar nostro stabilire
proibizioni ma solo arrivare a convenzioni ». Questo significa che «in logica
non c'è morale e che ognuno è libero di costruirsi la sua propria logica, cioè
la sua forma di linguaggio, come desidera. Tutto ciò che deve fare, se egli
vuol discuterne, è dichiarare chiaramente i suoi metodi e dare, invece di
argomenti filosofici, le regole sintattiche del suo discorso » (CARNAP, The
Logical Syntax of Language, $ 17). CONTRAPPASSO. V. TAGLIONE. CONTRAPPOSIZIONE
(gr. dvri0eow; latino Contrapositio; ingl. Contraposition; franc.
Contraposition; ted. Kontraposition)i. Una delle forme della conversione (v.)
delle proposizioni e precisamente quella che consiste nel negare il contrario
della proposizione convertita sì da avere, ad es., da «ogni uomo è animale », «
ogni non-animale è non-uomo » (cfr. ARIST., Top., II, 8, 113 b sgg.).
CONTRARIETÀ (gr. èvavriétns; lat. Contrarietas; ingl. Contrariety; franc.
Contrariété; tedesco Kontrarietàt). 1. Una delle quattro forme dell'opposizione
(v.) e precisamente quella che intercede tra «quei termini che dentro lo stesso
genere distano massimamente tra loro » (ARIST., Car., 6, 6a 17). Sono in opposizione
contraria il vero e il falso, il bene e il male, il caldo e il freddo, ecc.
Aristotele osserva che i contrari si escludono assolutamente e che non esiste
tra essi nozione intermedia, quando almeno uno di essi deve appartenere
all’oggetto: per es., non c’è termine intermedio tra malattia o sanità perchè
l’organismo animale deve essere necessariamente o sano o malato. C'è invece
termine intermedio tra il bianco e il nero tra ciò che eccelle e ciò che è
dappoco, ecc., perchè nessuno di tali caratteri deve necessariamente
appartenere ad un oggetto (/bid., 10, 11 b 32 sgg.). Cfr. Pietro Ispano,
Summul. Logic., 3.32. 2. In quanto distinta dalla sub-contrarietà (v.), la C. è
la relazione tra la proposizione universale affermativa (s ogni uomo corre +) e
la proposizione universale negativa (« nessun uomo corre +). Confronta
ARISTOTELE, De Int., 7, 17b 4; Pierro Ispano, Sumunul. Logic., 1.13.
CONTRATTUALISMO (ingl. Contractualism; franc. Contractualisme; ted.
Kontraktualismus). La dottrina che riconosce come origine o fondamento
CONTRATTUALISMO dello Stato (o in generale della comunità civile) una
convenzione o stipulazione (contratto) fra i suoi membri. Questa dottrina è
assai antica, e, molto probabilmente, i suoi primi sostenitori furono i
Sofisti. Aristotele attribuisce al Sofista Licofrone (scolaro di Gorgia) la
dottrina che «la legge è una mera convenzione (synsheke) e una garanzia dei
mutui diritti »: alla quale dottrina Aristotele oppone che in questo caso essa
«non sarebbe in grado di rendere buoni e giusti i cittadini » (Pol., III, 9,
1280b 12). Questa dottrina fu ripresa da Epicuro, secondo il quale lo Stato e
la legge sono risultato di un contratto che ha il solo scopo di facilitare i
rapporti fra gli uomini. « Tutto ciò che nella convenzione della legge si
dimostra vantaggioso rispetto alle necessità che derivano dai rapporti
reciproci, è giusto per sua natura, sia o non sia per tutto lo stesso. Nel caso
che sia fatta una legge che si dimostri non rispondente ai bisogni dei rapporti
reciproci, essa allora non è giusta » (Mass. cap., 37). Ad una concezione
simile si rifaceva Carneade nel famoso discorso sulla giustizia che tenne a
Roma. «Per qual ragione si sarebbero costituiti svariati e differenti diritti
secondo ogni popolo, se non per il fatto che ciascuna nazione sancì per se
stessa ciò che ritenne vantaggioso per sè?» (Cicer., Rep., III, 20). Eclissato
nell’età medievale dalla dottrina della origine divina dello Stato e in
generale della comunità civile, il C. risorge nell’età moderna e diventa, insieme
col giusnaturalismo, un potente strumento di lotta per la rivendicazione dei
diritti umani. Le Vindiciae contra tyrannos pubblicate dai Calvinisti a Ginevra
nel 1579 riprendono la dottrina del contratto per rivendicare il diritto del
popolo di ribellarsi al re, quando egli venga meno ali impegni del contratto
originario. Nello stesso spirito Giovanni Altusio generalizzò la dottrina del
contratto adoprandola a spiegare ogni forma di associazione umana. Il contratto
non è soltanto contratto di governo che regola le relazioni fra un reggitore e
il suo popolo, ma è anche contratto sociale in senso più ampio come tacito
accordo che è a fondamento di ogni comunità (consociatio) e che fa che gli
individui diventino conviventi, cioè partecipi dei beni, dei servizi, e delle
leggi valide nella comunità (Politica methodice digesta, 1603). Alla difesa del
potere assoluto fecero servire la dottrina del contratto Hobbes e Spinoza. Così
Hobbes enunciava la formula base del contratto: «Io trasmetto il mio diritto di
governare me stesso a quest'uomo o a quest’assemblea, solo a patto che tu ceda
il tuo diritto alla stessa maniera» (Leviath., II, 17). Questa, dice Hobbes, è
« l’origine di quel grande Leviathano o, per usare maggior rispetto, di quel
Dio mortale al quale dobbiamo, dopo che al Dio immortale, la nostra pace e
difesa: poichè, per quest’autorità conferitagli dai singoli componenti lo Stato
ha tanta forza e potere, che può disciplinare la volontà di tutti per la
conquista della pace interna e per l’aiuto scambievole contro i nemici esterni»
(/bid., II, 17). A sua volta Spinoza ritiene che lo Stato costituito dal
consenso comune abbia un diritto che è limitato soltanto dalla sua forza, la
quale è la stessa « potenza della moltitudine » (Tractatus politicus, 2, 17).
Più frequentemente, tuttavia, il C. viene adoperato a dimostrare la tesi che il
potere politico è necessariamente limitato. In questo senso l’intesero Grozio e
Pufendorf, e specialmente Locke che l'usòa difendere la rivoluzione liberale
inglese del 1688. Diceva Pufendorf: «Se prendiamo a considerare una moltitudine
di individui che godono di libertà e di uguaglianza naturale e vogliono
procedere alla istituzione di uno Stato, è necessario prima di tutto che questi
futuri cittadini contraggano tra loro singolarmente un patto col quale
manifestino la volontà di unirsi in associazione perpetua e di provvedere con
deliberazioni e ordini comuni alla propria salvezza e sicurezza. Questo patto
può essere o semplice o condizionato: il primo si ha quando uno si obbliga a
partecipare all’associazione qualunque sia la forma di governo approvata dalla
maggioranza; il secondo quando aggiunge la condizione che la forma di governo
sia da lui stesso approvata » (De iure naturae, 1672, VII, 2, 6. A sua volta
Locke parla del contratto come dell’accordo degli uomini « di unirsi in una
società politica » e perciò lo definisce come « il patto che esiste o deve
necessariamente esistere tra individui che si associano o fondano uno
Stato»(Two Treatises of Government, 1690,1I,899). Criticato da Hume il C.trovò
in Rousseau un’interpretazione che equivalse sostanzialmente alla sua
negazione. Difatti il C. presuppone che gli individui come tali abbiano «
diritti naturali » a cui rinunziano, per acquistarne altri, col contratto
sociale. Rousseau ritiene che gli individui come tali siano assolutamente privi
di diritti e che essi abbiano diritti solo come cittadini di uno Stato. Gli
uomini, dice Rousseau, diventano uguali « per convenzione e diritto legale +;
perciò « il diritto di ciascun individuo al suo stato particolare è sempre
subordinato al diritto supremo della comunità » (Contrat social, 1762 I, 9).
Già a Rousseau il contratto originario appariva più come un mezzo per rendere «
legittimo » il vincolo sociale che come una realtà (/bid., I, 1); la stessa
cosa venne chiaramente affermata da Kant: «L’atto col quale il popolo stesso si
costituisce in uno Stato o piuttosto la semplice idea di questo atto che sola
permette di concepirne la legittimità è il contratto originario, secondo il quale
tutti (omnes ef singuli) nel popolo depongono la loro libertà esterna per
riprenderla di nuovo sùbito come membri di un corpo comune » (Met. der Sitten,
I, $ 47). Difficilmente, oggi l’idea fondamentale del C., così com'è stata
elaborata dagli scrittori del ’700, può essere assunta come un valido strumento
per comprendere il fondamento dello Stato e in generale della comunità civile.
Tuttavia, tra il xvi e il xvin secolo l’idea contrattualistica ha avuto una
forza di liberazione notevole nei confronti della consuetudine e della
tradizione, nel campo politico. Solamente oggi, con l’uso che le scienze e la
filosofia fanno di concetti come convenzione, stipulazione e impegno, la
nozione di contratto potrebbe forse essere ripresa per un’analisi della struttura
delle comunità umane imperniata sulla nozione delle reciprocità degli impegni e
del carattere condizionale delle stipulazioni da cui traggono origine diritti e
doveri. CONTRAZIONE (lat. Contractio; ingl. Contraction; franc. Contraction;
ted. Kontraction). Termine adoperato da Duns Scoto per indicare il determinarsi
e il restringersi della « natura comune » (per es., la natura umana) a un
individuo determinato, ad esse hanc rem (Op. Ox., II, d. 3, q. 5, n. 1).
Utilizzando nello stesso senso (cfr. De docta ignor., II, 4: «La C. si dice
rispetto a qualcosa, per es., ad essere questo o quello +) l’espressione
scolastica, Cusano ha chiamato il mondo un « Dio contratto » nel senso che esso
è, come Dio, il mas-simo, l’unità, l’infinità, ma contratte cioè determinate e
individualizzate in un molteplice di cose singole (/bid., II, 4). Nella tarda
Scolastica, certo per influenza dello scotismo, la parola fu talora adoperata
ad indicare il determinarsi del genere nelle specie e della specie negli
individui. CONVENIENZA. V. Accorpo.CONVENZIONALISMO (ingl. Conventionalism;
franc. Conventionalisme; ted. Konventionalismus). Ogni dottrina secondo la
quale la verità di alcune proposizioni valide in uno o più campi è dovuta
all’accordo comune o alla stipulazione (tacita o espressa) di coloro che si
servono delle proposizioni stesse. L’antitesi tra ciò che è valido «per
convenzione » e ciò che è valido « per natura» fu familiare ai Greci. Democrito
dice: «Il dolce, l’amaro, il caldo, il freddo, il colore, sono tali per convenzione;
solo gli atomi e il vuoto sono tali in verità » (Fr. 125, Diels). E il
contrasto stesso, limitato al campo politico, fu uno dei temi soliti dei
Sofisti, soprattutto di quelli dell’ultima generazione, che trovano la loro
voce nei Dialoghi di Platone. Polo nel Gorgia, Trasimaco nella Repubblica,
sostengono che le leggi umane sono pure convenzioni dirette a impedire ai più
forti di avvalersi del diritto naturale che è connesso alla loro forza. È
secondo natura che il più forte domini CONTRAZIONE il più debole; e questo
accade di fatto quando un uomo dotato di natura idonea spezza le catene della
convenzione e da servo diventa padrone (Gorg., 484 A). Che la legge morale e
giuridica fosse convenzione, fu dottrina sostenuta dagli Scettici (Sesto E.,
/pot. Pirr., I, 146). Il contrattualismo del xv e xviu secolo ha resa familiare
l’idea che lo Stato, e in generale la comunità civile, come pure le norme e i
valori che da essa traggono origine, sono i prodotti di una convenzione o
stipulazione originaria. Accennando appunto a questa dottrina, Hume notava che
la convenzione in questo senso deve essere intesa, non come una promessa
formale, ma come «un sentimento dell’interesse comune, che ognuno trova nel suo
cuore » (/ng. Conc. Morals, App. 3); e aggiungeva « Così due uomini muovono le
vele di una barca con comune accordo per il comune interesse, senza alcuna
promessa o contratto; così l'oro e l'argento sono fatti misure dello scambio;
così il discorso, le parole, la lingua sono fissati dalle convenzioni e dall’accordo
umano » (/bid., App. 3). Con queste parole, forse per la prima volta, il
concetto di convenzione veniva adoperato fuori del campo politico. Ma
un'estensione del C. al dominio conoscitivo si verifica solo nella seconda metà
dell’800 quando, con la scoperta delle geometrie non euclidee, il carattere di
verità evidente degli assiomi geometrici è venuto a cadere. Dice Poincaré: «
Gli assiomi geometrici non sono nè giudizi sintetici @ priori nè fatti
sperimentali. Sono convenzioni. La nostra scelta fra tutte le convenzioni
possibili è guidata da fatti sperimentali; ma resta libera ed è limitata
soltanto dalla necessità di evitare la contraddizione » (La science et
l’hypothèse, II, cap. III). Lo stesso Poincaré si rifiutava tuttavia di
riconoscere a tutta la scienza il carattere convenzionale e difese
polemicamente, contro Le Roy, tale estensionedel C. (La valeur de la science,
1905). Lo sviluppo ulteriore della matematica ha tuttavia consentito di
estendere il punto di vista di Poincaré a tutta la matematica. L'opera di
Hilbert portava a vedere nelle matematiche sistemi ipotetico-deduttivi nei
quali si deducono le conseguenze implicite in certe proposizioni originarie o
assiomi, secondo regole che gli assiomi stessi implicitamente o esplicitamente
definiscono. Poteva così essere formulata la tesi fondamentale del C. moderno:
le proposizioni originarie, da cui muove qualsiasi sistema deduttivo, sono
convenzioni. Il che vuol dire: 1° non possono dirsi nè vere nè false; 2°
possono essere scelte in base a determinati criteri che lasciano tuttavia una
certa latitudine alla scelta stessa. Per opera del Circolo di Vienna (v.) e
dell’empirismo logico, il C. assumeva la forma, che COPERNICANA, RIVOLUZIONE ha
attualmente, di una tesi generale sulla struttura logica del linguaggio. La
Costruzione logica del mondo (1928) di Rudolf Carnap costituisce la prima
presentazione di questa tesi che era stata tuttavia preparata dal Tractatus
logico-philosophicus di Wittgenstein. «La logica, dice Carnap, compresa in essa
la matematica, consiste di stipulazioni convenzionali sull’uso dei segni e di
tautologie che si fondano su queste stipulazioni » (Logische Aufbau der Welt, $
107). A questa tesi Carnap ha dato successivamente il nome di « principio di
tolleranza delle sintassi » perchè si tratta di un principio che, mentre rende
inoperanti tutti i divieti, consiglia di stabilire distinzioni convenzionali.
«In logica, dice Carnap, non c'è morale. Ciascuno può costruire come vuole la
sua logica, cioè la sua forma di linguaggio. Se vuol discutere con noi deve
solo indicare come lo vuol fare, dare determinazioni sintattiche invece di
argomenti filosofici » (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 17). Questa tesi
si può dire oggi largamente accettata, anche fuori dell’empirismo logico. La seconda
opera di Wittgenstein, /nvestigazioni filosofiche (1953) l’ha portato
all’estremo, affermando che ogni linguaggio è una specie di « giuoco » che
parte da determinati presupposti di natura convenzionale; e riconoscendo la
fondamentale equivalenza dei giochi linguistici. Prescindendo da quest’ultima
tesi e assumendo il C. nella limitazione in cui viene solitamente mantenuto,
cioè relativa al campo della struttura logica del linguaggio, occorre
sottolineare il fatto che esso non implica per niente, come talora si crede, la
perfetta arbitrarietà delle convenzioni linguistiche. Si possono riassumere
come segue i capisaldi del C. contemporaneo: 1° la scelta delle proposizioni
iniziali di un sistema deduttivo (assiomi [v.] o postulati [v.]) deve ubbidire
a criteri limitativi, che hanno lo scopo di garantire la riproponibilità della
scelta stessa ai fini dello sviluppo deduttivo; 2° la determinazione delle
regole di deduzione, delle operazioni, delle procedure è egualmente soggetta ad
una scelta limitata, sempre in vista della riproponibilità di tali regole,
procedure od operazioni; 3° le scelte di cui ai n. 1° e 2° costituiscono: a)
oggettivamente, il campo d’indagine comune su cui i ricercatori si possono
muovere; b) soggettivamente, l'impegno comune degli stessi ricercatori.
CONVENZIONE. V. CoNVENZIONALISMO. CONVERGENZA, LEGGE DI (ingl. Convergency
law). Così Whitehead ha chiamato il criterio usato dal senso comune e dalla
scienza per ottenere generalizzazioni fondate sull’osservazione. «Se A e B sono
due eventi ed A’ è parte di A, B' è parte di 8, allora sotto molti aspetti le
relazioni tra le parti A’ e 8’ saranno più semplici che le relazioni fra A e 8.
Questo principio regola tutti gli sforzi per raggiungere un’esatta osservazione
» (Organization of Thought, 1917, pag. 146 seguenti; The Concept of Nature,
1920; trad. ital., pag. 73). CONVERSIONE (gr. dvriotpopi; lat. Conversio; ingl.
Conversion; franc. Conversion; tedesco Umkehriing). In Aristotele (Anal. Pr.,
I, 1, 2) e nei trattati successivi di Logica classica (aristotelica), è
l’operazione con la quale da un enunciato se ne ricava un altro (considerato
equivalente, ma la cosa è assai problematica) mediante scambio delle posizioni
rispettive dei termini (soggetto e predicato). Naturalmente ciò non è sempre possibile,
e a volte si può fare solo introducendo un mutamento nel quantificatore («
tutto » e « qualche »). Precisamente: la proposizione universale affermativa
(per es., «tutti gli uomini sono mortali +) si converte, per accidens, in una
particolare affermativa («qualche mortale è uomo +); la particolare affermativa
e l’universale negativa si convertono simpliciter, ossia mediante semplice
scambio dei termini; la particolare negativa non può convertirsi. O. P.
CONVINZIONE (ingl. Conviction; francese Conviction; ted. Ueberzeugung). Termine
di origine giuridica che designa un insieme di prove sufficiente a «convincere»
il reo, cioè a farlo ri-conoscere come tale. Nell’uso comune il termine
significa una credenza che ha sufficiente base oggettiva per essere ammessa da
chiunque. In questo senso è definita da Kant: «Quando una credenza è valida per
ognuno, solo a patto che sia dotato di ragione, il fondamento di questa
credenza è oggettivamente sufficiente ed essa si chiama C.» (Crit. R. Pura,
Canone della R. Pura, sez. III). Il carattere oggettivo della C. contrasta col
carattere soggettivo della persuasione (v.). Cfr. PERELMANN e
OLBRECHTS-TYTECA, Traité de l’argumentation, 1958, $ 6. COORDINAZIONE (ingl. Coordination; francese
Coordination; ted. Koordination). Il rapporto tra oggetti che sono situati
nello stesso ordine o rango in un sistema di classificazione; per es., due
generi o due specie sono tra loro coordinati ma non sono coordinati un genere e
una specie. Coordinate si dicono gli insiemi ordinati di numeri che servono a
designare entità geometriche (punti, linee, ecc.): oppure le caratteristiche
che si utilizzano per distinguere od ordinare varie classi di oggetti.
COPERNICANA, RIVOLUZIONE (inglese Copernican Revolution; franc. Révolution
copernicienne; ted. Kopernikanische Revolution). Si suole chiamare con questo
nome il mutamento di prospettiva realizzato da Kant: il quale invece di
supporre che le strutture mentali dell’uomo si modellinosulla natura, suppose
che l’ordine della natura si modella sulle strutture mentali. Il riferimento a
Copernico fu fatto da Kant stesso nella Prefazione alla seconda edizione (1787)
della Critica della Ragion Pura. Dewey ha osservato a questo proposito che
quella di Kant è stata piuttosto una rivoluzione tolemaica perchè ha fatto
della conoscenza umana la misura della realtà. La rivoluzione C. dovrebbe
consistere nel riconoscere che lo scopo della filosofia non è quello di essere
o di descrivere la totalità del reale, ma quello più modesto di ricercare i
valori che possono essere assicurati e divisi da tutti, perchè connessi con i
fondamenti della vita sociale (The Quest for Certainty, 1930, pag. 295). COPULA
(ingl. Copula; franc. Copule; ted. Kopula). L’uso predicativo dell’essere (v.).
CORAGGIO (gr. avBpsta; lat. Fortitudo; inglese Courage; franc. Courage; ted.
Muth). Una delle quattro virtù enumerate da Platone e che furono poi dette
cardinali (v.) e una delle virtù etiche (v.) di Aristotele. Platone la
definisce come «l’opinione retta e conforme alla legge su ciò che si deve e su
ciò che non si deve temere» (Rep., IV, 430 b). Aristotele la definisce come il
giusto mezzo tra la paura e la temerarietà (Et. Nic., III, 6, 1115a 4). Ma come
virtù che costituisce la saldezza della deliberazione, il C. viene in qualche
modo privilegiato e considerato una delle virtù principali. Così fece
Aristotele (/bid., III, 7). Cicerone affermava: « Virtù deriva da vir (uomo) ed
è soprattutto virile, cioè proprio dell’uomo, il coraggio, di cui due sono i
principali attributi: disprezzo della morte e disprezzo del dolore » (Tusc.,
II, 18, 43). La stessa cosa è ripetuta da S. Tommaso (S. 7A., II, II, q. 123,
a. 2). In senso biologicofilosofico il coraggio è stato definito da K.
Goldstein: «Il C., nella sua forma più profonda è unsì detto alla lacerazione
dell’esistenza accettata come una necessità affinchè si possa portare a
compimento la realizzazione dell’essere che ci è proprio ». In questo senso il
C. è il contrario déll’angoscia (v.) ed è un atteggiamento orientato verso il
possibile non ancora realizzato nel presente (Der Aufbau des Organismus, 1934,
pag. 198). CORNUTO, ARGOMENTO (gr. xeparivng; lat. Cornutus). Così è chiamato
il sofisma di Eubulide: «Ciò che non hai perduto, lo hai: manon hai perduto le
corna, dunque le hai» (Diog. L., VII, 187). COROLLARIO (gr. nspwopa; lat.
Corollarium; ingl. Corollary; franc. Corollaire; ted. Korollar).Ciò che si
deduce da una dimostrazione precedente, come una specie di sovrappiù o guadagno
extra (EucLIDE, E/., III, 1); oppure una specie di propo-sizione intermediaria
tra il teorema e il problema (PaPPO, 648, 18 sgg.; ProcLo, /n Eucl., pag. 301
F). Il termine fu esteso al linguaggio filosofico da Boezio (Phil. Cons., III,
10). Nel primo senso il C. fu talora chiamato consectarium (JuNGIUS, Logica hamburgensis,
IV, 11, 13). La differenza tra teorema e C. è trascurata dalla logica
contemporanea. CORPO (gr. oòua;
lat. Corpus; ingl. Body; franc. Corps; ted. Kòrper). L’oggetto naturale in generale, cioè:
qualsiasi oggetto possibile della scienza naturale. Come già notava Aristotele
(De cael., I, 1, 268 a 1) tutto ciò che appartiene alla natura è costituito da
C. e grandezze o da cose che hanno C. e grandezza o dai princìpi delle cose che
li hanno. La più antica e famosa definizione di C. è quella data dallo stesso
Aristotele: « C. è ciò che ha estensione in ogni direzione» (Fis., III, 5, 204
b 20); e che «in ogni direzione è divisibile » (De cael., I, 1, 268a 7). Per
«ogni direzione » Aristotele intende l’altezza, la larghezza e la profondità:
il C. che possiede tutte e tre queste dimensioni è perfetto nell’ordine delle
grandezze (Ibid., I, 1, 268a 20). Questa definizione è rimasta costante per
molti secoli. Essa venne accettata dagli Stoici (Diog. L., VII, 1, 135) che
aggiungevano ad essa la solidità; e da Epicuro che aggiungeva ad essa
l’impenetra-bilità (Sesto E., /por. Pirr., III, 39 sgg.). La tradi. zione
scolastica la riproduce egualmente (per es., S. Tommaso, S. Th., I, q. 18, a.
2). E Cartesio non fa che riassumere questa tradizione con la sua definizione
del C. come sostanza estesa. Egli dice: «La natura della materia o del C. in
generale non consiste nell’essere dura o pesante o colorata o qualsiasi altra
cosa che affetti i nostri sensi ma soltanto nell’essere una sostanza estesa in
lunghezza, larghezza e profondità» (Princ. Phil., II, 4). Questa definizione
non contiene nulla di nuovo rispetto a quella tradizionale; e non contengono
nulla di nuovo la definizione spinoziana che la riproduce (Spinoza, £r., I, 15,
schol.), nè quella di Hobbes (De Corp., VIII, $ 1). Un’innovazione al concetto
di C. è apportata solo da Leibniz. Questi distingue il « C. matematico » che è
lo spazio e che contiene solo le tre dimensioni, dal « C. fisico » che è la
materia e che contiene, oltre l’estensione, « la resistenza, la densità, la
capacità di riempire lo spazio e l’impenetrabilità: la quale ultima consiste in
ciò che un C. è costretto, da un altro C. sopravveniente, a cedere o a
fermarsi» (Op., ed. Erdmann, pag. 53). Da questa nozione di C. Leibniz è
portato a negare che il C. sia «sostanza»: ciò che in esso c’è di reale è
soltanto la capacità (vis) di agire e di subire un’azione (/bid., ed. Erdmann,
pag. 445). Quest’ultima è forse la ripresa di una vecchia definiCORPO zione
(Sesto Empirico l’attribuisce a Pitagora, Adv. Math., IX, 366). Ma, nel
significato che Leibniz le conferisce, essa aprì la via all'elaborazione del
concetto scientifico di C. come «massa», quale si ebbe nella fisica newtoniana:
la massa essendo il rapporto tra la forza e l’accelerazione impressa, è interamente
esprimibile in termini di « capacità di agire e di subire un’azione +, secondo
la definizione di Leibniz. Lungo questa linea di sviluppo che da Leibniz muove
alla fisica classica e dalla fisica classica alla fisica della relatività, la
nozione di C., attraverso quella di massa, conduce alla nozione di campo (v.).
Per la fisica contemporanea un C. è soltanto una « certa intensità del campo»
(EinsTEIN-INFELD, The Evolution of Physics, III; traduzione ital., pag. 253).
La filosofia, tuttavia, non ha seguito da vicino questo sviluppo che la nozione
ha subito nel dominio della fisica. Nel mondo moderno e contemporaneo, essa ci
offre, a proposito della nozione di C., le alternative seguenti: 1°
L'alternativa idealistica per la quale i C. sono « rappresentazioni », O «
percezioni +, o «idee +, o complessi di tali cose. Quest’alternativa introdotta
da Berkeley e accettata da Hume, è stata la più diffusa nella filosofia moderna
e domina tuttora la filosofia contemporanea. Per quanto grande sia la sua
importanza in tali filosofie, quest’alternativa non è importante dal punto di
vista della nozione di C. perchè essa implica, semplicemente, che i C. non
esistono e perciò ne elimina il problema. 2° L’alternativa che consiste nel
ritenere i C. come utensili o strumenti o mezzi di cui si avvale l’uomo nel
mondo e perciò nel caratterizzarli mediante le possibilità di azione e reazione
che essi offrono all’uomo. Quest'alternativa è propria della filosofia
contemporanea, nella quale essa è stata introdotta dall’esistenzialismo e dallo
strumentalismo americano. In questo significato però la nozione di C. si
identifica con quella di cosa, sotto il qual termine essa viene più comunemente
designata. Per esso si può quindi vedere la voce Cosa. CORPO (gr. oiwsua; lat.
Corpus; ingl. Body; franc. Corps; ted. Leib). La più antica e diffusa
concezione del C. è quella che lo considera lo strumento dell’anima. Ora, ogni
strumento può essere o positivamente apprezzato per la funzione che compie e
perciò elogiato od esaltato; o criticato perchè non risponde bene al suo scopo
o perchè implica limitazioni e condizioni. L’una e l’altra vicenda è toccata al
C. nella storia della filosofia; la quale ci offre sia la condanna totale del
C. come tomba o prigione dell’anima, secondo la dottrina degli Orfici e di
Platone (Fed., 66 b seguenti), sia l’esaltazione del C. fatta da Nietzsche («
Colui che è desto e cosciente, dice: sono tutto C. 12 177 e nulla all’infuori
di esso», A/so sprach Zarathustra, I, Gli odiatori del C.). Nella prima
direzione, il mito, esposto nel Fedro platonico, della caduta dell'anima nel
C., viene ripreso dalla Patristica orientale e specialmente da Origene (De
princ., II, 9, 2). Scoto Eriugena, ai princìpi della Scolastica, lo riproduceva
(De divis. nat., II, 25). Anche questa concezione presuppone la nozione della
strumentalità del C.: nello stato di caduta, dovuto al peccato, l’anima ha
bisogno del C. e le è indispensabile valersi dei suoi servizi. Ma ovviamente la
più compiuta e tipica formulazione della dottrina della strumentalità è quella
di Aristotele, per il quale il C. è «un certo strumento naturale» dell'anima
come la scure lo è del tagliare; sebbene il C. non sia simile alla scure in
quanto « ha in se stesso il principio del movimento e della quiete» (De an., II,
1, 412 b 16). Il materialismo, come non implica necessariamente la negazione
della sostanzialità dell’anima (v.), così non implica neppure la negazione
della strumentalità del C.; anche se l’anima è corporea, il C. può avere,
rispetto ad essa, una funzione strumentale. Così riteneva Epicuro che
attribuiva al C. la funzione di preparare l’anima ad esser causa della
sensazione (Ep. a Erod., 63 seguenti); e così ritenevano gli Stoici per i quali
l'anima è ciò che domina o in vari modi utilizza l'organismo corporeo (AEzio,
Plac., IV, 21). Nè è diversa la concezione del C. nel materialismo di Hobbes,
il quale affermando che «lo spirito non è altro che un movimento in certe parti
del C. organico » (Z7/ Objections contre les Méd. cartésiennes, 4) riconosce
con ciò stesso la strumentalità del C. rispetto a quel « movimento » che è
l’anima. Nè il più grossolano materialismo dell’800 per cui l'anima sarebbe un
prodotto del cervello come la bile del fegato o l’urina dei reni, obbedisce a
uno schema interpretativo diverso: il cervello, come il fegato e i reni, è pur
sempre uno strumento per la produzione di qualcosa. Dall'altro lato lo
spiritualismo, quello, per es., dei Neoplatonici, ammette ugualmente la
dottrina della strumentalità: «Se l’anima è sostanza, dice Plotino, essa sarà
una forma separata dal C. o, come meglio si direbbe, ciò che si serve del C.»
(Enn., I, 1, 4). La dottrina «della strumentalità domina l’intera filosofia
medievale. Dice S. Tommaso: «Il fine prossimo del C. umano è l’anima razionale
e le operazioni di essa. Ma la materia c’è in vista della forma e gli strumenti
ci sono in vista delle azioni dell’agente + (S. 7h., I, q. 91, a. 3).
Un’eccezione a questa dottrina è costituita dalla teoria della « forma di
corporeità » che fu propria dell’agostinismo (v.) medievale e che consisteva
nel riconoscere al C. organico una sua forma o sostanza indipendente. Ma
l’abbandono definitivo del concetto della strumentalità 178 del C. si ha
soltanto con il dualismo cartesiano. Si crede comunemente che la separazione istituita
da Cartesio tra anima e C. come tra due sostanze diverse abbia avuto come
conseguenza di stabilire l'indipendenza dell’anima rispetto al corpo. In
realtà, la sua prima conseguenza è stata quella di stabilire l'indipendenza del
C. rispetto all’anima: un punto di vista che, prima di Cartesio, non si era mai
presentato. Difatti la strumentalità del C. suppone che il C. non possa far
nulla senza l’anima, al modo in cui la scure non serve a nulla se non è
impugnata da qualcuno. Ma il riconoscimento che l’anima e il C. sono due
sostanze indipendenti, implica, come dice Cartesio, che «tutto il calore e
tutti i movimenti che sono in noi appartengono solo al C., in quanto non
dipendono dal pensiero affatto » (Passions de l’éme, I, 4). Da questo nuovo
punto di vista, il C. appare come una macchina, una macchina che cammina da sè.
«Il C. di un uomo vivente, dice Cartesio, differisce da quello di un morto
proprio come un orologio o un altro automa (per es., una macchina che si muove
da sè) quando è caricato e contiene in se stesso il principio corporeo dei
movimenti per i quali è stato progettato insieme con tutti i requisiti per
agire, differisce dallo stesso orologio o dalla stessa macchina quando è rotta
o quando il principio del suo movimento cessa di agire» (/bid., $ 6).
Quest’affermazione della realtà indipendente del C. come automa non è tanto una
tesi metafisica, quanto una tesi metodologica che prescrive la direzione e gli
strumenti delle indagini dirette alla realtà del «C.». E proprio in questo senso
ha agito storicamente la tesi cartesiana, che ha fornito per lungo tempo il
presupposto teorico delle indagini scientifiche sui corpi viventi. Dal puntodi
vista filosofico, tuttavia, il dualismo cartesiano aveva lo svantaggio di dar
luogo ad un problema che era sconosciuto alla classica concezione del C. come
strumento: cioè al problema del rapporto tra anima e corpo. La concezione
classica, infatti, già con la definizione del C. come strumento dell’anima e
dell'anima come forma o ragion d’essere del corpo, risolveva a suo modo tale
problema giacchè in realtà queste definizioni non sono che soluzioni postulate
del problema stesso. Ma col dualismo di anima e C. il problema emergeva alla
luce in tutta la sua crudezza. Come e perchè le due sostanze indipendenti si
combinano a formare l’uomo? E come l’uomo che è, sotto un certo aspetto, una
realtà unica, può risultare dalla combinazione di due realtà indipendenti? La
filosofia moderna e contemporanea ha apprestato quattro soluzioni di questo
problema. 18 La prima di esse consiste nel negare la diversità delle sostanze e
nel ridurre la sostanza corCORPO porea alla sostanza spirituale. Così ha fatto
Leibniz che ha concepito il C. vivente come un insieme di monadi, cioè di
sostanze spirituali, raggruppate intorno ad una «entelechia dominante» che è
l’anima dell’animale (Monad., $ 70). Da questo punto di vista «Il C. è un
aggregato di sostanze e non è una sostanza esso stesso » (Op., ed. Erdmann,
pag. 107). Sostanza è soltanto l’anima. Questa soluzione di Leibniz è il modello
di numerose altre che sono state date nel corso della filosofia moderna e
contemporanea, soprattutto dalle correnti dello spiritualismo (v.).
L'espressione classica di questo punto di vista si può trovare nel Mficrocosmo
di Lotze. Varianti di questa stessa soluzione possono essere considerate le
dottrine di Schopenhauer e Bergson. Schopenhauer identifica il C. con la
volontà cioè con quella che egli ritiene il noumeno o la sostanza del mondo, di
cui la rappresentazione è il fenomeno. Egli dice: «Il mio C. e la mia volontà
sono tutt'uno. Oppure: ciò che io chiamo mio C. come rappresentazione
intuitiva, lo chiamo mia volontà in quanto ne sono conscio in maniera del tutto
diversa, non paragonabile ad alcun’altra. Oppure: il mio C. è l’oggettività
della mia volontà. Oppure: prescindendo dal fatto che il mio C. è
rappresentazione, esso non è altro che volontà» (Die Welt, I, $ 18). A sua
volta Bergson, riprendendo parzialmente la vecchia tesi, afferma che «il nostro
C. è uno strumento d’azione e di azione solamente +». Esso non contribuisce
direttamente alla rappresentazione e in generale alla vita della coscienza:
serve solo a selezionare imagini in vista dell’azione, cioè a rendere possibile
la percezione che consiste appunto in tale selezione. Ma la coscienza, che è
memoria, è indipendente da esso (Matiére et Mémoire, spec. Résumé et
Conclusion; ed. di Genève, pag. 232 sgg.). Ovviamente l’ultimo risultato di
quest’analisi di Bergson è la riduzione del C. alla percezione (come della
coscienza alla memoria): cioè la negazione di ogni realtà propria del C.
stesso. 2 La seconda soluzione, assai prossima alla prima, considera il C. come
un segno dell’anima. Questa è veramente dottrina assai antica che Platone
(Crat., 400 b) attribuisce agli Orfici: ma la sua prevalenza si ha nel
Romanticismo. Dice Hegel: «L’anima nella sua corporalità, del tutto formata e
resa sua propria, sta come soggetto singolo per sè; e la corporalità è per tal
modo l’esteriorità in quanto predicato nel quale il soggetto si riconosce solo
a sè. Questa esteriorità non rappresenta sè ma l’anima; ed è il segno di questa
» (Enc., $ 411). Da questo punto di vista il C. è la « manifestazione esterna »
o la «realizzazione esterna » dell’anima: esprime cioè l’anima nella forma di
un'esteriorità che non è come tale reale ma soltanto « simbolica ». Residui di
questa concezione si possono trovare in tutte le dottrine le quali vedono nel
C. un complesso di fenomeni espressivi. 3% La terza soluzione consiste nel
negare la diversità delle sostanze ma non quella tra anima e C. e perciò nel
considerare l’anima e il C. come due manifestazioni di una stessa sostanza.
Spinoza ha dato a questa soluzione la sua forma tipica considerando l’anima e
il C. come modi o manifestazioni dei due attributi fondamentali dell’unica
Sostanza divina, il pensiero e l’estensione. «Intendo per C., egli ha detto, un
modo che in una certa, determinata guisa esprime l’essenza di Dio in quanto è
considerato come cosa estesa +? (£r., II, def. 1). Pertanto «l’idea del C. e il
C., ossia la mente e il C., formano un solo e medesimo individuo che viene
concepito ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto l’attributo
dell’estensione » (Ibid., \I, 21, schol.). Questa dottrina ovviamente implica
che l’ordine e la connessione dei fenomeni corporei corrispondano perfettamente
all’ordine e alla connessione dei fenomeni mentali e che pertanto si possa,
ricostruendo l’ordine e la connessione degli uni, rendersi conto dell’ordine e
della connessione degli altri. Per questo vantaggio che l’ipotesi spinoziana
sembra offrire nonchè per il fatto che essa esclude la possibilità di mescolare
e confondere le due serie di fenomeni assumendo per es., come causa di un
fenomeno corporeo un fenomeno mentale o viceversa, la dottrina di Spinoza ha
fornito il modello di quella dottrina del parallelismo psico-fisico (v.) che ha
presieduto alla formazione della psicologia scientifica moderna cd è servita
come ipotesi di lavoro per la psicologia stessa sino ad alcuni decenni fa. 48
La quarta soluzione consiste nel considerare il C. come una forma di esperienza
o come un modo d’essere vissuto, che abbia tuttavia un carattere specifico
accanto ad altre esperienze o modi d’essere. I precedenti di questa soluzione
sono le dottrine, cui si è accennato a proposito della soluzione 18, di
Schopenhauer e Bergson. Ma mentre tali dottrine hanno ancora risonanze
idealistiche e implicano la riduzione del C. a spirito, l’ipotesi di cui ora ci
occupiamo non ha signifi cato idealistico ed evita tale riduzione. Questa
soluzione ha trovato la sua forma tipica nella fenomenologia di Husserl;
secondo il quale il C. è l’esperienza che viene isolata o individuata dopo
successivi atti di riduzione fenomenologica. « Nella sfera di ciò che mi
appartiene (dalla quale si è eliminato tutto ciò che rinvia ad una soggettività
estranea) ciò che chiamiamo natura pura e semplice, non possiede più il
carattere di essere oggettivo e perciò non dev’essere confuso con uno strato
astratto dal mondo stesso o dal suo significato immanente. Fra i C. di questa natura
ridotta a ‘ ciò che mi appartiene * io trovo il mio proprio C. che si distingue
da tutti gli altri per una particolarità unica: è il solo C. che non è soltanto
un C. ma il mio C.; è il solo C. all’interno dello strato astratto, ritagliato
da me nel mondo al quale, conformemente all’esperienza, io coordino, in modi
diversi, campi di sensazione; è il solo C. di cui dispongo in modo immediato
come dispongo dei suoi organi » (Méd. Cart., $ 44). In tal modo il C. viene
considerato come un’esperienza vivente, connesso con possibilità umane ben
determinate. In modo analogo il fisiologo Kurt Goldstein ha distinto spirito,
anima e C. come processi diversi ma connessi, i quali prendono significato e
rilievo solo nella loro connessione. Tali processi sono in realtà comportamenti
diversi dell’organismo vivente. In particolare il C. è « un’imagine fisica
determinata e multiforme » che si può descrivere come un fenomeno di
espressione o come un insieme di atteggiamenti o come fenomeni che fanno capo a
tutti gli organi possibili. Se lo spirito è l’essere dell’organismo e
precisamente il suo essere nel mondo, il complesso degli atteggiamenti vissuti,
l’anima è il suo avere, cioè la sua capacità conoscitiva; e il C. è il
divenire, che non abbiamo e non siamo, ma che accade in noi. Questo divenire è
sostanzialmente un «dibattito col mondo» attraverso il quale l’uomo accumula le
sue esperienze e forma le sue capacità (Der Aufbau des Organismus, 1927, pag.
206 sgg.). Da questo punto di vista il C. non è che un comportamento o meglio
un elemento o una condizione del comportamento umano. Affine a questa
concezione è la dottrina di Sartre per la quale il C. è l’esperienza di ciò che
è « oltrepassato » e « passato ». « In ciascun progetto del Per-sè [cioè della
coscienza], in ciascuna percezione, il C. è là: esso è il passato immediato in
quanto affiora ancora nel presente che lo fugge. Questo significa che esso è,
ad un tempo, punto di vista e punto di partenza: un punto di vista, un punto di
partenza che io sono e che insieme oltrepasso verso ciò che ho da essere »
(L’étre et le néant, 1945, pag. 391-92). Merleau-Ponty ha messo in luce con
tutta chiarezza le tesi implicite in questo punto di vista. Il C. non è un
oggetto, una cosa. « Sia che si tratti del C. altrui, sia che si tratti del
mio, non ho altro modo di conoscere il C. umano che viverlo, cioè assumere sul
mio conto il dramma che mi attraversa e confondermi con esso ». Ma
quest'esperienza vissuta dal proprio C. non ha nulla a che fare col « pensiero
del C.» o con «l’idea del C.» che ci formiamo per riflessione attraverso la
distinzione del soggetto e dell'oggetto. Quell’esperienza ci rivela un modo di
esistenza «ambiguo»: se cerchiamo di pensare il C. come un fascio di processi
in terza persona (per es., come «visione», «mobilità », « sessualità ») ci
accorgiamo che queste funzioni non sono legate fra loro e col mondo esterno da
un rapporto di causalità, ma sono tutte fuse e confuse in un unico dramma.
Descartes, d’altronde, nota MerleauPonty, aveva già distinto il C. quale è concepito
per gli usi della vita dal C. che è concepito dall’intelletto (Phénoménologie
de la perception, pag. 231; cfr. CARTESIO, Opera, III, pag. 690). È da
osservare che questa riduzione, così caratteristica della filosofia
contemporanea, del C. a un comportamento, o a un modo d'essere vissuto, non ha
alcun significato idealistico: non implica la negazione della realtà oggettiva
del C. stesso o la sua riduzione a spirito, o a idea, o a rappresentazione. Al
contrario, questa interpretazione della nozione di C. ba accentuato
l’oggettività della sfera di fenomeni in cui il C. consiste: sfera di fenomeni
che essa ha cercato di definire in termini di possibilità di esperienza o di
accertamento, secondo un orientamento fondamentale della filosofia contemporanea
nei confronti della realtà in generale (v. REALTÀ). CORPOREITÀ, FORMA DI (lat.
Forma corporeitatis). Secondo la tradizione agostiniana della Scolastica (v.
AGOSTINISMO), è quella realtà che il corpo possiede come corpo organico,
indipendentemente dalla sua unione con l’anima e che lo predispone a tale
unione. Così la nozione è definita da Duns Scoto (Op. Ox., IV, d. 11, q. 3;
Rep. Par., IV, d. 11, q. 3). Si tratta di una nozione caratteristica
dell’agostinismo e usata come arma polemica contro l’aristotelismo per il quale
il corpo, come materia, è potenza e pertanto non ha sostanzialità o forma.
CORRELAZIONE (gr. tà rmpéc ti dvrelgeva; lat. Korrelatio; ingl. Correlation;
franc. Corrélation; ted. Correlationi. Una delle quattro forme di opposizione
enumerate da Aristotele e precisamente quella che intercorre tra termini
correlativi, come la metà e il doppio. Gli opposti correlativi non si escludono
a vicenda perchè anzi si richiamano l’uno con l’altro nel senso che il doppio
si dice della metà e la metà del doppio. Sono termini correlativi anche lo
scibile e la scienza che si dicono l’uno in rapporto all’altro (Car., 10, l1lb
23 sgg.). Nella logica scolastica questo rapporto fu espresso dicendo che in
esso il soggetto e il termine possono scambiarsi: sicchè, ad es., Davide è il
soggetto della relazione di paternità mentre è il termine della relazione di
filiazione, che ha in Salomone il suo soggetto; e reciprocamente Salomone è il
termine della paternità che è in Davide (cfr., ad es., JunGIUS, Logica, I, 8, 6).
Hamelin, intendeva sostituire, nella dialettica hegeliana, la C. alla
contraddizione: gli opposti di questa dialettica sono per lui opposti
correlativi, non opposti contraddittori (Essai sur les Éléments principaux de
la Représentation, 1907, pag. 35). CORRETTIVA, GIUSTIZIA. V.
ComMutaCORRISPONDENZA (lat. Adaeguatio; inglese Correspondence; franc.
Correspondance; ted. Ùbereinstimmung o Korrespondenz). La dottrina secondo la
quale la verità consiste nell’adeguazione o nell'accordo o nella C. di termine
a termine, tra il pensiero o la conoscenza o le proposizioni linguistiche da un
lato, la realtà o i fatti dall'altra. È questo il criterio di verità
presupposto dalla filosofia classica ed espresso dalla definizione scolastica
di verità come adeguazione dell’intelletto e della cosa (v. VERITÀ). CORRUZIONE
(gr. pBopà; lat. Corruptrio; ingl. Corruption; franc. Corruption; ted.
Vergehen). Secondo Aristotele costituisce, insieme col suo opposto, la
generazione, l'attualità di una delle quattro specie di movimento e
precisamente del movimento sostanziale, in virtù del quale la sostanza si
genera o si distrugge. «La corruzione, dice Aristotele, è un mutamento che va
da qualcosa al non essere di questo qualcosa, ed è assoluta quando va dalla
sostanza al non essere della sostanza, specifica quando va verso la
specificazione opposta + (Fis., V, 1, 225a 17). Per la dottrina della C.
dell’uomo v. CADUTA; PECCATO ORIGINALE. CORSO DELLE NAZIONI. Così chiamò Vico
la «costante uniformità » dimostrata, pur nella varietà dei costumi, dalla
storia dei diversi popoli in quanto si lascia dividere nelle «tre età che
dicevano gli Egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi
e degli uomini» (Scienza nuova, IV) (v. RICORSI). COSA (gr. mpéyua; lat. Res;
ingl. Thing; francese Chose; ted. Ding). Questo
termine ha, nel discorso comune, come in quello filosofico, due significati
fondamentali: 1° quello generico per cui designa qualsiasi oggetto o termine,
reale o irreale, mentale o fisico, ecc., con cui, in un modo qualsiasi, si
abbia a che fare; 2° quello specifico per cui denota gli oggetti naturali in
quanto tali. 1° Nel primo significato, la parola è uno dei termini più
frequenti del linguaggio comune e viene anche abbondantemente adoperata dai
filosofi. « C. » può essere il termine di un atto di pensiero o di conoscenza
oppure d’imaginazione o di volontà; di costruzione o di distruzione, ecc. Si
può parlare di una C. che è nella realtà come pure di una C. che è
nell’imaginazione, o nel cuore, o nei sensi, ecc. Sicchè si può dire che in
questo significato C. significa un termine qualsiasi di un qualsiasi atto umano
o, più esattamente, un qualsiasi oggetto con cui in un modo qualunque si abbia
a che fare. Questo è il significato racchiuso nella parola greca pragma. 2° Nel
suo più ristretto significato, la C. è l'oggetto naturale che è detto anche
«corpo» o «sostanza corporea ». L’uso del termine in questo secondo significato
è piuttosto recente. Si può forse far risalire a Cartesio che però accanto
all’espressione « C. corporee» (choses corporelles) adopera anche « C. che
pensa » (chose qui pense) mostrando così d'intendere la parola nel significato
che è tradizionalmente proprio di sostanza (Méd., II, passim). Locke preferì la
parola « sostanza » (« Le idee delle sostanze sono quelle combinazioni di idee
semplici di cui si assume che rappresentino C. particolari e distinte,
sussistenti di per se stesse », Saggio, II, 12, $ 6). E solo con Berkeley si
può dire che il termine C. ha soppiantato definitivamente quello di sostanza: «
Le idee impresse nei sensi dall’autore della natura, egli dice, sono chiamate
C. reali e quelle eccitate dall’imaginazione, essendo meno regolari, vivide e
costanti, sono più propriamente chiamate idee o imagini delle C. che esse
copiano o rappresentano » (Principles, I, $ 33). Da questo punto in poi il
termine C. diviene assai frequente per indicare il corpo o l'oggetto naturale
in generale. Kant lo estende ancora di più, distinguendo le cose quali
appariscono a noi, cioè sottoposte alle condizioni della nostra sensibilità
(spazio e tempo), e le C. in generale o C. in sé (v.) (Critica R. Pura, $ 8).
Ma egli fissa anche il significato del termine nella sua trattazione dello
schematismo trascendentale, dove fa della cosalità o realtà (Sachheit, Realitàt)
lo schema fondamentale della categoria di qualità, nel senso che «C. in
generale è ciò che corrisponde ad una sensazione in generale » {Ibid.,
Schematismo dei concetti puri). Da questo punto in poi, la storia della nozione
di C. si può dividere in due filoni fondamentali a seconda che. a tale nozione
venga riconosciuto o negato un suo significato specifico. Possiamo perciò
distinguere: a) L'indirizzo per il quale l’essere della C. viene risolto
nell’essere in generale. Così, per l’idealismo empirico per il quale l’essere è
rappresentazione o idea, la C. è rappresentazione o idea o un complesso di
rappresentazioni o di idee. Questa dottrina, che è quella di Berkeley, è stata
innumerevoli volte riprodotta nella filosofia moderna e contemporanea. Per
l’idealismo assoluto o romantico, per il quale la realtà è la ragione stessa,
la C. è un concetto della ragione; e infatti Hegel la considera come una
categoria logica (Enc., $ 125 sgg.; Wissenschaft der Logik, ed. Glockner, I,
pag. 602 sgg.). Il significato autonomo della nozione non è salvato dalla
modificazione, proposta da Stuart Mill, della tesi dell’empirismo classico.
Secondo Stuart Mill, le C. sono « possibilità di sensazioni» (Examination of
Hamilton’s Phil., pag. 190 sgg.); ma ciò non delimita specificamente il modo
d'essere delle cose. Nè lo delimità la concezione di Mach, che definisce le C.
come complessi di sensazioni (Analyse der Empfindungen, 9* ediz., 1922, pag.
14); anche se le « sensazioni » di cui parla Mach non sono determinazioni
soggettive, ma elementi neutri che entrano a comporre sia le C. sia la mente.
Questo punto di vista è stato riprodotto da Russell secondo il quale « una C. è
un séguito determinato di apparenze, in un legame continuo le une con le altre
secondo certe leggi causali» (Scientific Method in Phil., 1926, IV; trad.
franc. pag. 86). La connessione del modo d°’essere delle C. con l’azione umana,
connessione sulla quale, come vedremo sùbito, si fonda la nozione positiva di
C., è messa in luce da Bergson, ma è utilizzata da lui solo allo scopo di
negare la realtà delle cose. « Non ci sono C., ci sono soltanto azioni », egli
ha detto (Év. créatr., 118 ediz., 1911, pag. 270). Le C. sono creazioni
dell’intelligenza in quanto funzione pratica, che solidifica il divenire
sostituendo la stabilità fittizia di « C.» o di «stati» alla continuità e
fluidità della coscienza (/bid., pag. 269 sgg.; 296). In questa dottrina le C.
si riducono ad azioni e l’azione alla durata reale della coscienza; si ha cioè,
sia pure con una certa consapevolezza dei problemi inerenti, la solita
riduzione della C. ad uno stato soggettivo. E il significato di tale riduzione
della C. a elementi soggettivi comunque qualificati (sensazioni,
rappresentazioni, idee, azioni, ecc.) è semplicemente questo: che non esistono cose.
b) L’indirizzo per il quale l’essere della C. ha un significato specifico. Su
tale significato ha insistito, dal punto di vista fenomenologico, Husserl
affermando che esiste « una diversità fondamentale tra l’essere come esperienza
vissuta e l’essere come C. »; e che pertanto « una C. non può essere data in
nessuna possibile percezione o altra modalità di coscienza in generale »
(/deen, I, $ 42). Il modo d'essere specifico della C., consiste nel fatto che
essa è data in un numero indefinito di apparizioni ma rimane trascendente come
un’unità che è al di là di queste apparizioni, e che tuttavia si manifesta in
un nòcciolo di elementi ben determinati, circondati da un orizzonte di altri
elementi più indeterminati (/bid., $ 44). L’essere della C. si contrappone così
a quello delle esperienze vissute o della coscienza (v.). Questa
contrapposizione è presupposta da tutti i tentativi della filosofia
contemporanea di determinare in modo specifico l’essere della cosa. Fd è
significativo che tali tentativi siano partitda due punti di vista indipendenti
e apparentemente contrastanti, quello del naturalismo strumentalistico da un
lato, e quello della filosofia esistenziale dall'altro. Mead ha mostrato il
collegamento della nozione di C. col « mondo dell’azione ». Le C. s’inseriscono
in una fase ben determinata di tale mondo cioè in quella che intercede tra
l’inizio di un’azione e la sua consumazione finale. In altri termini è nella
fase della manipolazione che compare o si costituisce la C. fisica; la quale
tuttavia è universale nel senso che appartiene all’esperienza di tutti (Mind,
Self and Society, pag. 184-85). Dewey a sua volta ha mostrato la stretta
connessione del modo d’essere delle C. con l'indagine. « Le C., egli ha detto,
esistono come oggetti per noi soltanto in quanto siano state preliminarmente
determinate quali risultati d’indagini. Quando vengono usate nell’avviare nuove
ricerche su muove situazioni problematiche, esse sono conosciute come oggetti
solo in virtù di indagini anteriori che giustificano la loro asseribilità.
Nella nuova situazione gli oggetti sono mezzi per attingere la conoscenza di
qualche altra C.» (Logic, VI; trad. ital., pag. 175). Dewey ha affermato
recisamente il carattere strumentale delle C. ed in generale di tutti gli
oggetti di conoscenza. Sia le « C. immediate » sia gli oggetti della scienza
fisica « costituiti da un ordine matematicomeccanico » sono «mezzi per
assicurarci o per evitare determinati oggetti immediati » (Experience and
Nature, pag. 141). Queste determinazioni di Mead e Dewey sono presentate come
risultati di analisi empiriche. Heidegger presenta le sue determinazioni come
risultati di un'analisi esistenziale: la nozione di C. viene da lui chiarita
come un eleche la scoperta della natura». Si può certamente cercare di vedere
che C. sia la natura a prescindere dall’utilizzabilità delle cose. Ma in questo
caso la natura rimane incomprensibile « come COSA IN SÈ ciò che muove e ténde,
ciò che ci assale e ci imprigiona » (Sein und Zeit, $ 15). Indubbiamente
Heidegger è riuscito a determinare anche meglio dello strumentalismo americano
il modo d’essere strumentale delle cose, la categoria dell’utilizzabilità che
lo definisce. A sua volta Lewis ha messo in luce le implicazioni logiche che un
simile concetto della C. porta con sè. « Ascrivere una qualità oggettiva a una
C., egli ha detto, significa implicitamente la predizione che se agisco in
certi modi, una certa esperienza specificabile avrà luogo: se io addento questa
mela, il suo gusto sarà dolce; se la mangio, sarà digerita e non mi avvelenerà,
ecc. Queste e altrettali proposizioni ipotetiche costituiscono la mia
conoscenza della mela che ho in mano » (Mind and the World-Order, cap. V, ed.
Dover, pag. 140). Le espressioni della forma Se... allora si riferiscono a
possibilità che trascendono l’esperienza attuale e che sono proprie dell’uomo
come essere attivo. e Il significato della conoscenza, ha detto ancora Lewis a
questo proposito, dipende dal significato di una possibilità che non è attuale.
Possibilità e impossibilità, quindi necessità e contingenza, compatibilità e
incompatibilità, e varie altre nozioni fondamentali, richiedono che vi devono
essere proposizioni ‘Se... allora ’, proposizioni la cui verità o falsità è
indipendente dalla condizione affermata nella loro clausola antecedente »
(/bid., pag. 142 n) (v. IMPLICAZIONE). L’orizzonte logico del concetto di C.
elaborato dalla filosofia contemporanea è pertanto quello della possibilità,
che è espresso dalle proposizioni condizionali. Ciò è confermato dai risultati
delle ricerche sperimentali effettuate dalla psicologia transazionale, che
conducono a vedere nella C. una certa « classe di possibilità » che costituisce
una prognosi generalizzata, sulla base dell’esperienza passata, degli usi o dei
comportamenti possibili di un oggetto (Exp/orations in Transactional
Psychology, a cura di F. P. Kilpatrick, 1961, cap. 21; trad. ital., pag.
495-96). COSA IN SÈ (ingl.
Thing in itself; franc. Chose en soi; ted. Ding an sich). Ciò che la C. è indipendentemente dal
suo rapporto con l’uomo, per il quale è un oggetto di conoscenza. Nè
l’espressione nè la nozione sono proprie ed originarie di Kant come comunemente
si crede; ma rappresentano «la convinzione dominante di tutta la filosofia del
sec. xvIm+ (CassiRER, Erkennrnissproblem, VII, 3; trad. ital., II, pag. 470
sgg.). L’origine della nozione può tuttavia esser fatta risalire a Cartesio che
nei Principi di filosofia (II, 3) così si esprime: «Sarà sufficiente osservare
che le percezioni dei sensi si riferiscono soltanto all’unione del corpo umano
con lo spirito e che mentre ordinariamente ci mostrano quello che dei corpi
esterni ci possa nuocere o giovare, non ci insegnano affatto, se non
occasionalmente e accidentalmente, che C. tali corpi siano in se stessi ».
Questa distinzione tra le «C. in se stesse» e le «C. rispetto a noi?, cioè come
oggetti delle nostre facoltà sensibili, diventa un luogo comune nella filosofia
dell'Illuminismo. D’Alembert (É/ém. de Phil., $ 19), Condillac (Logique, 5),
Bonnet (Essai analytique, $ 242), la ripetono quasi con le stesse parole, e
Maupertuis (Lettres, IV) la esprime in termini che a Schopenhauer dettero
l’idea che Kant lo avesse plagiato. « Una volta che si è convinti, dice
Maupertuis, che tra le nostre percezioni e gli oggetti esterni non sussiste
alcuna somiglianza nè alcuna relazione necessaria, si dovrà concedere anche che
tali percezioni non sono altro che semplice apparenza. L'estensione, che siamo
soliti considerare come il fondamento di tutte le altre proprietà, ec che pare
costituire la loro intima verità, è in se stessa null’altro che fenomeno ».
(Cfr. SCHOPENHAUER, Die Welt, II, pag. 57). Su questo punto, come su molti
altri, Kant non ha fatto che ispirarsi all’indirizzo generale dell’Illuminismo.
Tuttavia il suo concetto della C. in sè non rimane nella sua dottrina, com’è
nel resto dell’Illuminismo, un semplice memento della limitazione della
conoscenza umana e un monito per distogliere l’uomo dalle indagini metafisiche.
Si chiarisce invece, più precisamente, come uno strumento tecnico per
circoscrivere i limiti della conoscenza umana. Da un capo all’altro della
Critica della Ragion Pura Kant ripete che la conoscenza umana è conoscenza di
fenomeni, non di C. in sè, giacchè essa si fonda non già su di una intuizione
intellettuale (per la quale aver presenti le C. significherebbe crearfe) ma su
una inzuizione sensibile, alla quale le C. sono date sotto certe condizioni
(spazio e tempo). In accordo con questo indirizzo fondamentale, Kant, dopo aver
stabilito la possibilità del concetto di C. in sè (o noumeno), passa a
distinguere una dottrina positiva e una dottrina negativa dei noumeni. « Il
concetto di un noumeno, egli dice, cioè di una C. che dev’essere pensata non
come oggetto dei sensi ma come cosa in sè (unicamente per l’intelletto puro), non
è per niente contraddittorio; giacchè non si può, della sensibilità, asserire
che sia l’unico modo di intuizione ». Posto ciò, se s'intende per noumeno «
l’oggetto di una intuizione non sensibile », cioè creatrice o divina, si ha il
concetto di noumeno in senso positivo. Ma in realtà questo concetto rimane
vuoto; perchè il nostro intelletto non può estendersi al di là dell’esperienza
se non problematicamente, cioè non con l’intuizione nè col concetto di una
intuizione possibile. Pertanto, «il concetto di noumeno è solo un concetto
limite (Grenzbegriff) per circoscrivere le pretese della sensibilità e di uso
perciò puramente negativo » (Crif. R. Pura, Analitica dei principi, cap. III).
Questa funzione puramente negativa della C. in sè è rimasta un caposaldo della
dottrina kantiana della conoscenza: perchè è rimasta a garantire, in tale
dottrina, il carattere finito (cioè non creativo) della conoscenza umana.
Tuttavia la filosofia post-kantiana segna una rapida liquidazione di questo
concetto. Già le Lerzere sulla filosofia kantiana (1786-87) di Reinhold, che
davano del criticismo un’esposizione sulla quale si è per lungo tempo modellata
l’interpretazione del criticismo stesso, riducendo il fenomeno a
rappresentazione, rendevano dubbia o problematica la funzione della C. in sè;
la quale veniva poi recisamente negata, in base alla sua inconoscibilità, da
Schulze e Maimon. Ma colui che cominciò a trarre le conseguenze di questa
negazione fu Fichte: il quale vide che, eliminata la condizione limitativa
costituita dalla C. in sè, la conoscenza umana diveniva creatrice non solo
della forma ma anche del contenuto della realtà che ne costituisce l'oggetto; e
si trasformava in quella « intuizione intellettuale » che Kant attribuiva
solamente a Dio, facendo del soggetto di essa, cioè dell’Io, un principio
infinito (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4). Queste trasformazioni segnano il
passaggio dal criticismo, che è filosofia di stampo illuministico, al
romanticismo (v.) che è una filosofia dell’infinito. Il romanticismo segnava il
tramonto definitivo della dottrina della C. in sè, che era stata l’insegna
dell’illuminismo perchè ad esso era servita ad esprimere la limitazione
fondamentale della conoscenza umana. La nozione di /nconoscibile (v.) che il
positivismo evoluzionistico paragonò talvolta alla C. in sè, è in realtà
completamente diversa. In primo luogo, difatti, ha una funzione opposta a
quella della C. in sè: serve a offrire alla metafisica e alla religione un loro
dominio di competenza specifica piuttosto che a restringere le pretese della
conoscenza scientifica. In secondo luogo, conseguentemente, l’Inconoscibile
viene definito positivamente dalla sfera di quei problemi che la scienza lascia
insoluti, più che negativamente dai limiti intrinseci della scienza stessa.
Quanto alla filosofia contemporanea che ha ripristinato o viene ripristinando
la dottrina del limite della conoscenza, questo limite è inteso da essa come
garantito dalla portata dei metodi o dei criteri che presiedono alla validità
della conoscenza; essa perciò non ha più bisogno dell’illuministica « C. in sè»
per imporre moderazione alle pretese conoscitive dell’uomo. COSALE, ENUNCIATO
(ingl. 7hing-sentence). Nella semiotica contemporanea, un enunciato che non
designa segni ma cose. Lingua C.: una lingua costituita interamente di
enunciati C. (Morris, Foundations of the Theory of Signs, 1938, $ 5). Predicati
C.: termini che designano proprietà osservabili cioè tali che possono essere
determinate dalla osservazione diretta (CarNAP, Testability and Meaning, 1936-37,
in Readines in the Phil. of Science, 1953, pag. 69 sgg.). COSCIENTE (lat.
Conscius; ingl. Conscious; franc. Conscient; ted. Bewusst). Questo aggettivo
viene comunemente adoperato nel senso della consapevolezza (v.); l’uso
filosofico di esso corrisponde tuttavia a quello del termine « coscienza »:
onde, per es., «spirito cosciente» significherà l’atteggiamento
dell’autoriflessione o della ricerca interiore. COSCIENZA (gr. cuveldnow; lat.
Conscientia; ingl. Conscioussness = C. teorica, Conscience = C. morale; franc.
Conscience; ted. Bewusstsein = C. teorica, Gewissen = C. morale). L’uso
filosofico di questo termine ha poco o nulla a che fare col significato comune
di esso come consapevolezza (v.) che l’uomo ha dei propri stati, percezioni,
idee, sentimenti, volizioni, ecc., consapevolezza per la quale diciamo che un
uomo che designa il rapporto tra una
classe e un’altra classe; e si distinguono queste specie di copule
dall’operatore (o quantificatore) esistenziale (v. OPERATORE). Comunque, la
caratteristica fondamentale di questa concezione dell’E. predicativo è la sua
massima generalità: le altreinterpretazioni della copula possono infatti essere
considerate come casi speciali di relazione e come tali analizzati. Altri casi
possono inoltre sempre essere presi in considerazione. Proprio questa dottrina
della copula rende possibile la dottrina della proposizione come funzione: per
essa infatti il predicato diventa la funzione e il soggetto la variabile della
funzione stessa (v. FUNZIONE). 2° Il significato esistenziale. — Il secondo
significato fondamentale di E., cioè quello esistenziale va a sua volta
distinto in due significati subordinati e cioè: I, come esistenza in generale;
II, come esistenza privilegiata. I. L’E. può significare in primo luogo l’esistenza
nel significato 1° cioè nel significato generale e indeterminato ma
specificabile o definibile in base a un criterio qualsiasi. Proprio in questo
senso Aristotele dice che «l’E. si dice in molti modi » (Mer., VI, 2, 1026a 32)
e che si può perfino dire che il non E. è (/bid., VII, 4, 1030 a 23). Ma
assunto in questo senso il significato di E. coincide con quello di esistenza
(nel senso 1°): e la sua trattazione si troverà sotto questa voce. II. In
secondo luogo l’E. può significare la esistenza privilegiata o primaria: cioè
l’esistenza nella sua modalità primaria e fondamentale, dalla quale dipendono
tutte le sue manifestazioni determinabili. Il precedente significato di E. (2°,
I) è assunto il più delle volte come preparazione ed annuncio di questo secondo
significato. L’E. si dice in molti modi, ma uno solo è il suo significato
primario e fondamentale. Questo è il punto di vista di Aristotele (Mer., VII,
4, 1030 a 21). E appunto dal rapporto tra i significati molteplici di cui l’E.
appare a prima vista rivestito e il significato unico e fondamentale a cui essi
devono essere ricondotti nasce il cosiddetto « problema dell’E.». Questo è il
problema del significato primario dell’E.: cioè di quel significato unico e
semplice che si presume VE. abbia ma che rimane più o meno nascosto nella
molteplicità dei suoi aspetti apparenti. La ricerca metafisica, nella sua
impostazione classica, s’impernia intorno a questo problema. Si tratta di
vedere se c’è un significato primario dell’E.: primario in primo luogo nel
senso che esprima meglio degli altri l’esistenzialità dell’E. e in secondo
luogo nel senso che gli altri significati possano essere ricondotti ad esso
come al loro fondamento o principio. L’indagine sul problema dell’E. muove
verso la determinazione di un significato che risponda a questi due requisiti.
Ma la disputa cui essa dà luogo non è paragonabile alla « battaglia di giganti
» di cui parlava Platone (Sof., 246); nella quale di fronte ai giganti, o «
figli della terra » che affermano che ogni realtà è corpo, stanno gli dèi, che
affermano l’incorporeità dell’E. e lo riducono alle forme ideali. Un
significato dell’E. non è difatti sufficientemente stabilito dal carattere di
corporeità o dalla negazione di questo carattere: giacchè un essere che si ritenga
corporeo può avere gli stessi caratteri ESSERE formali di un E. che si ritenga
incorporeo: come era appunto il caso dell’E. di cui parlavano le due schiere
protagoniste della «battaglia dei giganti». È ben vero che i caratteri formali
dell’E., quelli che si mettono in evidenza come soluzione del problema dell’E.
cioè come determinazione del significato primario dell’E., sono costantemente
ricavati dalla considerazione di una sfera particolare dell’E. o almeno di un
gruppo di enti o di un ente che in qualche modo si privilegia e si pone come
esemplare. Ma è pur vero che in ogni caso si può ottenere una risposta al
problema dell’E. solo se tra i caratteri della sfera o del gruppo o dell’ente
considerato, si sceglie quello suscettibile di generalizzazione cioè adatto ad
essere riferito anche alle altre sfere o gruppi o enti. In questo senso Platone
obiettava ai materialisti che essi devono dire che cosa c’è di comune fra le
cose corporee e quelle incorporee, posto che si dica che entrambe sono (Ibid.,
247 d). Ma se nel problema dell’E. si scorge la ricerca di un significato
primario formale — cioè generalizzabile — dell’E. stesso, si può dire che ogni
soluzione del problema non fa che privilegiare, cioè assumere come primaria e
fondamentale, una modalità determinata dell’essere. Ora poichè le modalità con
cui Il’E. può essere enunciato o asserito sono tre cioè la necessità, la
possibilità e l’assertorietà tre pure sono in teoria le possibili soluzioni del
problema dell’essere. Ma poichè (come vedremo) l’assertorietà si riduce alla
necessità, si possono storicamente riscontrare due soluzioni fondamentali che
risultano abbastanza evidenti dietro la apparente molteplicità e disparità
delle soluzioni proposte. Per la prima di queste soluzioni, che indicheremo con
« l’E. primario è la necessità; per la seconda, che indicheremo con f l°E.
primario è la possibilità. La soluzione a corrisponde a quella che nel
significato predicativo è l’interpretazione A; la soluzione f corrisponde alle
interpretazioni B e C. Un ulteriore carattere distintivo delle due soluzioni,
che però dev'essere considerato secondario, perchè non sempre è presente, è il
seguente. La prima di esse non prende in considerazione, nella ricerca del
significato dell’E., il fatto stesso di questa ricerca. La seconda di essa può
prendere in considerazione questo fatto e ritenerlo importante per la
determinazione del significato dell’essere. Così fanno Platone e gli
esistenzialisti. a) L’interpretazione dell’E. secondo la modalità della
necessità è quella prevalente nella metafisica classica. La tesi famosa di
Parmenide « L’E. è e non può non essere» (Fr. 4, Diels) stabilisce come
significato fondamentale dell’E. la necessità, il non poter non essere: la
quale rispetto al tempo è eternità (cioè contemporaneità, fotum simul),
rispetto al molteplice è unità, rispetto al divenire(cioè al nascere e perire)
è immutabilità (Fr. 8, 2-4, Diels). Di questi caratteri, anche Aristotele
privilegia quello della necessità. Il principio di contraddizione, da lui posto
a fondamento della « filosofia prima » cioè della scienza dell’E. in quanto E.,
è da lui inteso come il principio che postula la necessità dell’E., che si
realizza nella sostanza. Dice Aristotele: « Se la verità ha un significato,
necessariamente chi dice uomo dice animale bipede: giacchè questo significa
uomo. Ma se questo è necessario, non è possibile che l’uomo non sia animale
bipede: la necessità significa infatti proprio questo che è impossibile che
l’E. non sia» (Mer., IV, 4, 1006 b 30). L’aspetto per cui è necessario che un
E. sia (che è il solo aspetto per cui l’E. è oggetto di scienza giacchè dell’E.
accidentale non c'è scienza, /bid., VI, 2, 1027 a) è la sostanza dell’essere. «
Uno solo, dice Aristotele, è il significato dell’E. e questo è la sostanza di esso.
Indicare la sostanza di una cosa non è altro che indicare l’E. proprio di essa
» (/bid., IV, 4, 1007 a 26). La sostanza è pertanto, secondo Aristotele, il
senso primario dell’E.; ed è pure il senso fondamentale, quello a cui gli altri
significati dell'E. possono essere ricondotti; giacchè appunto come aspetto o
manifestazione della sostanza Aristotele considera ogni distinta o
distinguibile determinazione dell’E. (4bid., VII, 17) (v. SOSTANZA). Questo
punto di vista aristotelico è rimasto decisivo per lo sviluppo ulteriore del
problema dell’essere. Il significato primario e fondamentale dell’E. è rimasto,
e ancora rimane per una larga zona della filosofia, quello della necessità, con
gli attributi, che reca seco, della immutabilità, eternità, unità, ecc. Anche
quando questi attributi sono stati riferiti (come dal neoplatonismo antico e
arabo e dall’aristotelismo medievale) non più alla struttura formale dell'’E.
ma ad un ente privilegiato, e cioè non a tutte le sostanze ma alla sostanza più
alta cioè a Dio, la derivazione delle altre sostanze da questa o la loro
partecipazione ad essa è stata intesa come derivazione e partecipazione della
necessità e dei suoi attributi. Così, secondo S. Tommaso, la partecipazione
delle cose create all'E. di Dio è partecipazione alla perfezione e
all’immutabilità di Lui (S. 7h., I, q. 65, a. 1). Ma il concetto che ha
dominato la metafisica medievale e, attraverso di essa, quella moderna e
contemporanea, è quello esposto da Avicenna nel sec. xi: la necessità dell’E.
come tale. Tutto l’E. in quanto tale è necessario. « Se una cosa non è
necessaria in rapporto a se stessa, diceva Avicenna, bisogna che sia possibile
in rapporto a se stessa, ma necessaria rispetto a una cosa diversa » (Mer., II,
1, 2). La proprietà essenziale di ciò che è possibile è proprio questa: aver
bisogno di un’altra cosa che lo faccia esistere in atto. Ma appunto per questo
ciò che esiste in atto, esiste sempre necessariamente: soltanto che la
necessità gli deriva talvolta da altro (4bid., II, 2, 3). Gli stessi concetti
venivano espressi da Algazel (Mer., I, I, 8) e divennero la base della
scolastica giudaica e cristiana. Nel mondo moderno, il concetto dell’E. come
necessità ha trovato le sue riaffermazioni principali in Spinoza e Hegel.
Spinoza ha visto l’E. di Dio nella necessità e lE. delle cose nella necessità
con cui derivano dalla sostanza divina (Er., I, 8, scol. II). Ed Hegel ha
espresso lo stesso concetto nel suo aforisma famoso che è la base dell’intera
sua filosofia: « Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale ».
La razionalità del reale è la sua necessità per la quale esso, nelle sue
determinazioni fondamentali, non può essere che quello che è. Perciò Hegel dice
che « intendere ciò che è, è il còmpito della filosofia poichè ciò che è, è la
ragione » (Fil. del dir., Pref.). Perciò, ancora, nonc’è un dover E., un
ideale, una perfezione che sia diversa dall’E. e nel cui nome si sia
autorizzati a criticare o a dar lezioni all’E. stesso. « Ciò che sta tra la
ragione come spirito autocosciente e la ragione come realtà presente, ciò che
differenzia quella ragione da questa e in questa non lascia trovare
l’appagamento, è l’impaccio di qualche astrazione, che non si è liberata e non
si è fatta concetto » (Zbid., Pref.). In altre parole solo per una falsa
astrazione si distingue ciò che dovrebbe essere da ciò che è, la razionalità
dall’E. reale: il che vuol dire che l’E. reale è tutto quel che deve essere e
che la sua modalità, il suo senso primario, è questa necessità. D'altronde
l’intera filosofia di Hegel è diretta appunto a mostrare la necessità delle
determinazioni dell’E.: cioè a mostrare come l’E. è, nella sua realtà, tutto
ciò che dev'essere (Enc., $ 1). La necessità rimane il carattere primario
dell’E. in concezioni filosofiche disparate. Quando Fichte dice che l’E. e
l’attività dell’io sono la medesima cosa, egli riconosce come carattere
essenziale di questa attività la necessità con cui essa pone se stessa e il non
io (Wissenschaftslehre, 1798, $ 1). Che l’E. si concepisca come «Coscienza » o
come « Materia », non fa differenza: le determinazioni qualitative non
influiscono sulla sua determinazione formale primaria. L’Assoluto degli
idealisti (Green, Bradley, ecc.) come la materia dei materialisti sono, l’uno e
l’altro, E. necessari. Necessaria è la Storia di cui parla Croce, come
necessario è l’Atto puro di cui parla Gentile. «La necessità dell’E. coincide
con la libertà dello spirito » (Teoria generale, XII, $ 20), diceva Gentile. Lo
stesso Rosmini che aveva posto l’idea dell’E., intesa come «E. possibile», a
fondamento della, conoscenza umana, vede nella necessità e nell’universalità i
caratteri primari dell’E. (Nuovo saggio $ 428-29). E Husserl afferma con molta
energia la necessità di quell’E. che egli riconosce come primario cioè dell’E.
della coscienza: « Alla tesi del mondo, che è accidentale, si contrappone la
tesi del mio puro io e del vivere dell’io, che è necessaria e indubitabile.
Ogni data cosa, anche se è presente in carne ed ossa, può non essere; ma
un’esperienza vissuta data in carne ed ossa non può non essere. Questa è la
legge essenziale che definisce questa necessità e quella accidentalità »
(Ideen, I, $ 46). Una caratteristica tipica di questa concezione dell’E. o,
come meglio si direbbe un suo teorema fondamentale, è quella identificazione di
E. e razionalità che è assunta da Hegel come principio della sua filosofia.
Talvolta questa identificazione è stata intesa come immanentismo (v.)
intendendosi con questa parola l’immanenza dell’E. nella coscienza. Per quanto
anche questa sia una tesi hegeliana, non ha tuttavia nulla a che fare con
l’altra. Quella fu espressa per la prima volta da Parmenide che, appunto in
questo senso, identificò 1’E. con il pensare (Fr. 5; Fr. 8, 34-36, Diels).
Certamente la tesi di Parmenide non aveva nulla a che fare con l’immanentismo
perchè la nozione di coscienza non era neppur nata (v. CosciENZA): esprimeva
soltanto il carattere razionale della necessità ontologica. Questo stesso
carattere veniva espresso da Aristotele con la dottrina che la determinazione
fondamentale della sostanza è l’essenza necessaria, che è la ragion d'essere
(/ogos) della cosa (De part. an., I, 1, 639 b 15). E Rosmini considerava lE.
possibile come la forma stessa della ragione (Nuovo saggio, $ 396). Il teorema
in questione mentre esprime la necessità dell’E. postula, dall’altro lato, un
corrispondente concetto della ragione in generale (v. RAGIONE). Sembra che si
sottragga a questa tradizione la ontologia di Nicolai Hartmann che assume come
significato primario dell’E. non la necessità ma l’effettualità (Wirklichkeit)
alla quale sarebbero riducibili possibilità e necessità. L’effettualità è la
terza alternativa della modalità dell’E., quella dell’assertorietà. L'E. al
quale il dover essere e il poter essere si riducono è, secondo Hartmann, l’E.
semplicemente esistente, nella sua pura effettualità o attualità, 1’E. che nel
dominio della realtà di fatto si presenta «così e non altrimenti» cioè come
esistenza analoga alla materia. Ma gli enunciati in cui si esprime, secondo
Hartmann, la riduzione del necessario e del possibile all’attuale fanno vedere
come in realtà l’effettualità non sia che ancora e sempre necessità. Quegli
enunciati sono infatti i seguenti; 1° ciò che è realmente possibile è anche
realmente effettuale; 2° ciò che è realmente ESSERE effettuale è anche
realmente necessario; 3° ciò che è realmente possibile è anche realmente
necessario. E negativamente: 4° ciò il cui E. è realmente impossibile è anche
realmente ineffettuale; 5° ciò che è realmente ineffettuale è anche realmente
impossibile; 6° ciò il cui non E. è realmente possibile è anche realmente
impossibile (Mboglichkeit und Wirklichkeit, 1938, pag. 126). Così il primato
dell’assertorietà non ha un significato diverso dal primato della necessità.
L’ontologia di Hartmann ha voluto prospettare la terza soluzione teoricamente
possibile del problema dell’E.; ma questa soluzione si dimostra identica, nella
sua stessa enunciazione, con l’interpretazione, propria della vecchia
metafisica, dell’E. come necessità. R) La concezione dell’E. primario come
possibilità è stata per la prima volta formulata da Platone. Essa è presentata
da Platone come rispondente a due esigenze fondamentali: in primo luogo a
quella che si renda conto perchè si dice che «sono » sia le cose corporee sia
quelle incorporee (Sof., 247 d); e in secondo luogo che si tenga conto del
fatto che l’E. è o può essere conosciuto (/bid., 248 e). La prima esigenza
esclude che la materialità o l’immaterialità possano entrare nella definizione
dell’E. La seconda esclude che possano entrare nella definizione dell’E.
determinazioni necessarie; per es., che l’E. sia necessariamente immobile (cioè
che «tutto sia immobile »), o che l’E. sia necessariamente in movimento (cioè
che « tutto sia in movimento +), ecc. (/bid., 249 d). Posto ciò, Platone
afferma che l’essere non è altro che possibilità (Sivauu) e che pertanto si
deve dire che è qualsiasi cosa si trovi in possesso di una qualsiasi
possibilità o di fare o di subire, da parte di qualche altra cosa, anche insignificante,
una azione anche minima e anche per una sola volta (/bid., 247 e). La
possibilità in questo senso non ha nulla a che fare con la potenza di
Aristotele. La potenza infatti è tale solo nei confronti di una attualità che,
essa sola, è l’E. primario (v. ATTO). Ma per Platone per l’appunto l’E.
primario è possibilità. E possibilità sono i rapporti reali tra gli enti:
questi non si mescolano tutti insieme, nè evitano assolutamente di mescolarsi
ma presentano determinate possibilità di rapporti. Come avviene per le lettere
dell’alfabeto e per i suoni, che alcuni possono mescolarsi e altri no, così
avviene anche per tutte le cose: sicchè è còmpito della filosofia non già
enunciare la tesi universale della necessità o dell’impossibilità della
comunicazione, ma studiare in particolare quali sono le cose che possono
(#0£Xew) unirsi tra loro e quali no (/bid., 252-53). Questa concezione non dà
luogo ad una metafisica simmetrica e opposta a quella che interpreta l’E. come
necessità: non dà luogo ad alcuna metafisica. ESSERE 345 Questo è il suo tratto
caratteristico. Difatti, se l’E. è possibilità, esso non ha determinazioni
univoche necessitanti: non è necessario che esso sia uno e non molti,
immutabile e non mutevole, immobile e non in movimento, eterno e non temporale,
ecc. Di due determinazioni opposte o contraddittorie, non è necessario che una
gli appartenga e l’altra no: entrambe possono appartenergli in determinate ma
diverse condizioni. Non è possibile quindi elencare, una volta per sempre, le
determinazioni univoche dell’essere. Platone aveva raggiunto questa conclusione
nel Parmenide; in questo dialogo si mostra che l’E. non è uno o molti, ma uno e
molti assieme, nel senso che può esser uno come esser molti (144 e); e che lo
stesso vale per le altre sue determinazioni eventuali. La sconcertante chiusa
di questo dialogo è che « l’uno, sia o non sia, esso stesso e le altre cose,
rispetto a se stesso e tra loro, tutte, e in tutto, sono e non sono, appaiono e
non appaiono » (166 c): le quali parole riconoscono la possibilità di
determinazioni opposte dell’E. ed escludono che esso possa dirsi «uno» o
«molti» o anche semplicemente «E.» in un senso unico ed assoluto. Da questo
punto di vista, una metafisica che sia l'elenco sistematico delle
determinazioni univoche ed assolute dell’E. è manifestamente un non senso.
Nell’àmbito della concezione in esame pertanto non possiamo aspettarci di
trovare formulazioni sistematiche, analoghe o corrispondenti alla filosofia
prima di Aristotele cioè alla metafisica classica. Al contrario possiamo dire
che questa concezione tènde ad affacciarsi ogniqualvolta la determinazione
delle caratteristiche universali e necessarie dell’E. tènde a cedere il posto
alla ricerca empirica: quest’ultima è ricerca di possibilità, non di determinazioni
necessarie. Da questo punto di vista può dirsi che la tradizione empiristica
della filosofia è l’erede e la rappresentante maggiore di quella concezione
dell’E. che ha trovato la sua prima formulazione nel Sofista platonico. Una
possibilità può essere determinata unicamente sulla base dell'esperienza cioè
dell’osservazione dei fatti, mai per via puramente razionale o a priori.
Attribuire all’E. il significato della possibilità significa aprire la via a
indagini specifiche, dirette a determinare, in ogni caso, di quale possibilità
si tratti. Sul fondamento della concezione a, le determinazioni dell’E., anche
se mutano, è necessario che mutino, sicchè il mutamento è sin da principio
determinato e assolutamente prevedibile. Per la concezione f, invece, ogni
determinazione, in quanto determinazione possibile, può essere accertata
soltanto da un’indagine ad hoc. Sappiamo che gli Stoici vedevano il significato
dell’E. nella possibilità di agire o di subire un’azione e perciò chiamavano
enti solamente i corpi (PLUTARCO, Comm. Not., 30, 2, 1073; Diog. L., VII, 56);
ma questo principio, se li indirizzò verso il materialismo, non costituì per
essi la base di un empirismo coerente. L’empirismo invece si affaccia tutte le
volte che compare la negazione del teorema fondamentale della concezione
opposta cioè la negazione della riducibilità dell’E. a predicato. Questa
negazione si può assumere come teorema tipico di questa concezione, com’è
teorema tipico dell’altra l’identificazione di E. e razionalità. Sul finire della
scolastica, Ockham formulava la tesi che l’E. o il non E. di una cosa si può
attingere solo con una « conoscenza intuitiva » che è la stessa esperienza (/n
Sent., II, q. 15 H; /bid., Prol., q.1Z); e in tal modo poteva affermare
l’irriducibilità dell’E. a una determinazione concettuale e il suo significato
di possibilità. « Alla questione se /a cosa esista, egli dice, si può
rispondere solo quando si conosca se la cosa esiste: il che accade se si
conosce una proposizione nella quale l’E. esistenziale sia predicato del
soggetto. Ora una tale proposizione dubitabile... in nessun modo si può
conoscere con evidenza, se la cosa significata dal soggetto non si conosce
intuitivamente ed in sè: per es., se essa non è percepita da un senso
particolare o se non è un intelligibile nonsensibile che sia visto
dall’intelletto in modo analogo a quello in cui la facoltà visiva esterna vede
l’oggetto visibile. Sicchè nessuno può conoscere con evidenza che il bianco è o
può essere se non ha visto un qualche oggetto bianco; e sebbene io possa
credere a coloro che mi raccontano che c’è il leone o il leopardo e così via,
non conosco tuttavia con evidenza queste cose » (Summa Log., III, 2). Qui il
senso primario dell’E. è posto nella possibilità dell’esperienza.
Conseguentemente Ockham riconosce la necessità solo alle proposizioni
condizionali (« Se l’uomo è, l’uomo è un animale ragionevole +), mentre nega
che una qualsiasi proposizione affermativa possa essere necessaria. Tutte le proposizioni affermative
sono contingenti giacchè la proposizione « L'uomo è animale ragionevole»
sarebbe falsa per falsa implicazione, se l’uomo non ci fosse (Quodl., V, q.
15). Queste notazioni implicano due tesi fondamentali: 1° l’E. non è riducibile
a un predicato; 2° l’E. è una possibilità che può essere espressa solo da una
proposizione contingente. Quest'ultima tesi rivela la modalità primaria che le
notazioni di Ockham attribuiscono all’E.: questa modalità è la possibilità.
L'empirismo classico del Sei-Settecento si attiene a questa stessa modalità.
Locke contrappone la certezza delle proposizioni universali, che però non
riguardano la realtà, alla contingenza delle proposizioni particolari che
concernono l’esistenza. « Le proposizioni universali, della cui verità o
falsità possiamo avere una conoscenza certa, non riguar346 dano l’esistenza; le
affermazioni o negazioni particolari, che non sarebbero certe se venissero rese
generali, si riferiscono soltanto all’esistenza, dichiarando esse soltanto
l’accidentale unione o separazione delle idee in cose esistenti, idee che,
nella loro natura astratta, non hanno tra loro nessuna unione o ripugnanza
conosciuta» (Saggio, IV, 9, 1). Pertanto, con la sola eccezione dell’esistenza
di Dio, conosciuta attraverso la dimostrazione cioè attraverso il rapporto che
essa ha con altre esistenze, l’esistenza è conosciuta secondo Locke in modo
contingente e immediato, attraverso un rapporto diretto con l’oggetto: rapporto
che è intuizione nel caso dell’esistenza del proprio io, sensazione nel caso
dell’esistenza delle cose. Ciò esclude che l’esistenza sia un predicato o che
comunque possa essere ridotta a una determinazione concettuale. « Non
essendovi, dice Locke, nessuna connessione necessaria di qualsiasi altra
esistenza, tranne quella di Dio, con l’esistenza di alcun uomo particolare, ne
consegue che nessuno in particolare può conoscere l’esistenza di un altro
essere se non quando, operando questo su di lui, fa in modo di essere da lui
percepito. Il fatto che si abbia l’idea di una cosa nella nostra mente non
dimostra l’esistenza di quella cosa più che il ritratto di un uomo faccia
testimonianza dell’essere egli nel mondo o che le visioni di un sogno
costituiscano di per sè una storia veridica » (/bid., IV, 11, 1). Questo
concetto della sensazione come organo di conoscenza di ciò che esiste non è
altro che il vecchio concetto stoico della rappresentazione catalettica: che è
quella che « deriva da un ente sussistente ed è impressa e marcata da esso in
modo da essere conforme con esso » (Diog. L., VII, 46; Sesto EMPIRICO, Ad.
Math., VII, 248). La dottrina equivale a definire l’E. delle cose come
possibilità del manifestarsi di esse alla percezione o della percezione
medesima. La definizione dell’E. come possibilità viene esplicitamente ripresa
dalla filosofia tedesca del ’700 e in particolare da Wolff. Dice Wolff: « Ente
è ciò che può esistere e conseguentemente la cui esistenza non ripugna»
(Ontol., $ 134). Ma poichè ciò che può esistere è possibile, ciò che è
possibile è l’ente (Ibid., $ 135). Ma in questa definizione tutto dipende
ovviamente dal significato di possibile. E Wolff riprende a questo proposito un
concetto che rimonta forse a Duns Scoto (In Sent., I, d. 2, q. 7) e si trova
già formulato in Leibniz (Théod., II, $ 224): « possibile è ciò che non implica
contraddizione, vale a dire ciò che non è impossibile » (Onrol., $ 85). Da
questo punto di vista, la possibilità era definita come semplice assenza della
impossibilità, cioè come necessità negativa. La concezione dell’E. in termini
di possibilità era pertanto, in questa dottrina, una semplice apparenza. Kant
ESSERE ha, con molta fermezza, visto che cosa si nascondeva dietro questa
apparenza. «Il gioco di prestigio, egli ha detto, per cui la possibilità logica
del concetto (che non si contraddice) si scambia con la possibilità
trascendentale delle cose (per cui al concetto corrisponde un oggetto) può
gabbare e contentare soltanto gli inesperti ». La « possibilità reale » è
quella data da una intuizione sensibile cioè dall’esperienza attuale o
possibile (Critica R. Pura, Analitica dei princìpi, cap. III). Per conseguenza
«E. non è un predicato reale cioè un concetto di qualche cosa che si possa
aggiungere al concetto di una cosa... Se io dico Dio è o c’è un Dio, non
affermo un predicato nuovo del concetto di Dio, ma soltanto il concetto in sè
con tutti i suoi predicati e l’oggetto in relazione col mio concetto. Entrambi
devono avere esattamente lo stesso contenuto e però nulla si può aggiungere di
più al concetto che esprime semplicemente la possibilità quando ne penso l’oggetto
come dato (con l’espressione: ‘ Egli è ”)» (/bid., L'ideale della ragion pura,
sez. IV). Da questo punto di vista risulta chiaro il carattere limitato e
condizionale di ogni possibilità od E. e pertanto il carattere fittizio o
fantastico di una « possibilità assoluta » cioè di una possibilità che valga
sotto ogni aspetto (Ibid., Analitica dei principi, Confutazione
dell’idealismo). Nella filosofia contemporanea fanno riferimento a questa
interpretazione del significato dell’E. le seguenti dottrine: a) le teorie che
nella matematica, nella fisica e in generale nella scienza definiscono
l’esistenza come modo d°E. particolare, per es., come « assenza di
contraddizione» o « possibilità di costruzione » o « possibilità di
verificazione ». La modalità non necessaria dell’E. che risulta così definita è
evidente (v. ESISTENZA); b) le forme dell’empirismo che riconoscono l’E.
soltanto agli oggetti di esperienza possibile. La possibilità della
sperimentazione e dell’osservazione definisce in questo caso il significato
dell’E. (v. ESPERIENZA); c) le teorie filosofiche che affermano il primato
della possibilità. Tali teorie trovano il loro precedente nella filosofia di
Kierkegaard che per primo ha proposto una interpretazione dell’esistenza umana
in termini di possibilità (v. ESISTENZA, 3). Dall’altro lato lo stesso punto di
vista si può riconoscere in qualche aspetto della fenomenologia di Husserl e
nelle dottrine che si rifanno ad essa. Per quanto Husserl privilegi l'E. della
coscienza e lo ritenga, a differenza della realtà delle cose, necessario,
l’analisi fenomenologica è per lui un’analisi di possibilità: per essa, come ha
detto Heidegger (Sein und Zeit, $ TO): «la possibilità sta più in alto della
realtà ». Dice Husserl: « Il fatto che una natura, ESTASI che un mondo della
cultura e degli uomini, con le loro forme sociali, ecc., esistano per me
significa che le esperienze corrispondenti mi sono possibili, cioè che,
indipendentemente dalla mia esperienza reale di questi oggetti, io posso a ogni
istante realizzarli e svilupparli in un certo stile sintetico. Questo significa
poi che altri modi di coscienza che corrispondono a queste esperienze come atti
di pensiero indistinto, ecc., sono possibili per me e che la possibilità di
essere confermate o invalidate per mezzo di esperienza di un tipo che è
stabilito in anticipo è inerente a questi atti» (Cart. Med., $ 37). Come
risulta da questo significativo passo l’analisi fenomenologica è un’analisi in
termini di possibilità: il che vuol dire: la possibilità è il significato
primario che essa attribuisce all’essere. Lo stesso accade
nell’esistenzialismo. Heidegger ha detto: « L’esserci, in quanto comprensione,
progetta il suo E. in possibilità » (Sein und Zeit, $ 32); e in realtà tutte le
analisi di Heidegger hanno per loro tema le possibilità dell’Esserci le quali
costituiscono il tema dell’analitica esistenziale. Allo stesso modo, per
Jaspers, le possibilità oggettive costituiscono l’esistenza stessa (Phil., $
18); e Sartre afferma che « il possibile è una struttura del per-sè cioè della
coscienza » (L’étre et le néant, pag. 34). È vero che per Sartre da questa
struttura si distinguerebbe l’E. in sè cioè l’E. del fenomeno che non sarebbe
nè possibile nè necessario, ma semplicemente esistente. Senonchè Sartre
attribuisce a questo stesso E. il carattere della contingenza e non ritiene
possibile una analisi dell’E. in sè se non a partire dall’E. per sè cioè dalla
coscienza: il primato della possibilità è quindi evidente in questa dottrina. È
tuttavia da osservare che uno dei caratteri della concezione in esame è il
rifiuto esplicito o l'abbandono del tentativo di una soluzione semplice e
globale del problema dell’E. e pertanto della trattazione « metafisica » di
questo problema. Il riconoscimento del significato dell’E. come possibilità
esige infatti che si passi immediatamente alla considerazione e allo studio
delle possibilità stesse, nei campi specifici nei quali esse trovano il loro
condizionamento e quindi la loro «realtà ». Non è pertanto possibile svolgere
una metafisica della possibilità, sul modello o in sostituzione della
metafisica classica della necessità. Un tentativo di questo genere non avrebbe
come risultato che il ritorno puro e semplice alla metafisica della necessità:
come è stato mostrato dallo stesso Heidegger che, una volta abbandonato il
terreno dell’analisi esistenziale per l’elaborazione del « problema dell’E. in
generale » è ritornato alle tesi classiche della metafisica tradizionale col
riconoscimento della necessità dell’E. (EinfUhrung in die Metaphysik, Tùbingen,
1953). 347 ESSERE GETTATO. V. DeIEzIONE; EFFETTIVITÀ. ESSERE, GRANDE (franc.
Grand Étre). Così Comte ha chiamato l’umanità come prima persona della trinità
positivistica, della quale il Grande Feticcio, cioè la Terra, e il Grande
Mezzo, cioè lo Spazio, sarebbero la seconda e la terza persona (Synthèse
subjective ou système universel des conceptions propres è l’humanité, 1856).
ESSERE PER SÈ. V. Per sè. ESSOTERICO. V. EsotERICO. ESTASI (gr. txotaow; lat.
Exrasis; inglese Ecstasy; franc. Extase; ted. Ekstase). 1. La fase
ultraintellettuale dell’ascesa mistica verso Dio: cioè la fase nella quale la
ricerca intellettuale di Dio cede il posto al sentimento di una stretta
comunione con lui o addirittura di una identificazione. La parola (che nel linguaggio
comune significa, oltrecchè spostamento, intontimento o agitazione) fu
adoperata nel senso sopra enunciato dagli indirizzi religiosi della filosofia
alessandrina e specialmente dai neoplatonici. Filone caratterizzava lE. come «
trasformazione dell’intelligenza » e precisamente come trasformazione operata
non già dalla intelligenza stessa ma direttamente da Dio (All. leg., II,
31-32). Plotino caratterizza l’E. come l’abolizione dell’alterità tra colui che
vede e la cosa vista e come l’identificazione totale ed entusiastica dell’anima
umana con Dio. « Questo non è più una visione, egli dice, ma un modo diverso di
vedere: estasi e semplificazione e dedizione di se stesso e desiderio di
contatto e quiete e comprensione di congiunzione » (Enr., VI, 9, 11). Il
linguaggio dell’amore e specialmente dell’amore inteso come unità (v. AMORE) è
spesso adoperato dai Mistici per descrivere lo stato di estasi. Così fa Plotino
frequentemente (per es., Enz., VI, 7, 34). Così faranno i Mistici medievali, ai
quali la nozione arriva soprattutto attraverso le opere del falso Dionigi
l’Areopagita. Questi vede il grado più alto della ascesa mistica nella
deificazione (v.) cioè nella trasformazione dell’uomo in Dio (De mystica
theol., I, 1). A questo modo intende l’E. anche Bernardo di Chiaravalle (sec.
x1) che la chiama anche excessus mentis e la considera come il supremo grado
della contemplazione: quello nel quale l’anima si unisce con Dio come una
goccia d’acqua caduta nel vino si dissolve in esso ed assume il sapore ed il
colore del vino (De diligendo Deo, 11, 28). Allo stesso modo considerano l’E. i
Mistici di S. Vittore. Secondo Ricardo, essa è il culmine dell’ultimo grado
dell’ascesa a Dio cioè della alienazione della mente da se stessa (De
praeparatione ad contemplationem, V, 2). E S. Bonaventura a sua volta vede
nell’estasi l’elevazione di sè al di sopra di sè, sino alla fonte dell'amore
superintellettuale. Essa è uno stato di 348 ignoranza dotta, nel quale
l’oscurità dei poteri conoscitivi diventa luce soprannaturale (2reviloquium, V,
6). La nozione passava senza mutamenti ai Mistici tedeschi del xrv secolo
(Eckhart, Susone, Tauler). Giordano Bruno usava la terminologia mistica dell’E.
(raptus mentis, excessus mentis) nel suo dialogo Degli eroici furori per
indicare il congiungimento dell’intelletto «eroico » con «il proprio oggetto
che è il primo vero o la verità assoluta » (I, 4): la quale è poi la natura
stessa. Nell’età moderna l’E. in questo senso ha attratto soprattutto
l'attenzione degli psicologi e degli psichiatri; i quali non hanno saputo
scorgere nessuna differenza, tranne che nel contenuto intellettuale, tra l’E.
religiosa e l’E. determinata da condizioni anormali della vita psichica o da
droghe (cfr. J. H. LEUBA, The Psychology of Religious Mysticism, 1925, specialmente
cap. IX). Secondo Pierre Janet, l’E. è in ogni caso caratterizzata da tre cose:
1° dalla soppressione quasi completa della attività motrice e da una
disposizione all’immobilità; 2° da un’attività più o meno grande del pensiero
interno; 3° da un grande sentimento di gioia (De /° Angoisse à l’Extase, 1928,
pag. 497). 2. Da Heidegger e Sartre sono state chiamate E. (nel senso letterale
del termine, come « esser fuori » o «uscir fuori») le tre determinazioni del
tempo cioè il passato, il presente o il futuro in quanto ognuna di esse muove o
va verso l’altra, il presente verso il passato, il presente verso il futuro, il
futuro verso il presente. Dice Heidegger: « La temporalità è l’originario fuori
di sè in sè e per sè. Noi chiamiamo i fenomeni caratterizzati come avvenire,
passato e presente, le E. della temporalità » (Sein und Zeit, $ 65). In séguito
Heidegger ha visto nelle E. temporali le manifestazioni dell’Essere (Was ist
Metaphysik?, 6* ediz., 1951, pag. 14). Analogamente Sartre parla del « rapporto
estatico interno» come della «sorgente della temporalità » (L’étre et le néant,
pag. 256) (v. TEMPO, 3). ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA (inglese Thesis of
Extensionality; franc. Thèse d'extensionalité). Così è stata chiamata da
Russell (Principia Mathematica, 1°, pag. XIV, 659 sgg.) e da Carnap (Logische
Syntax der Sprache, 1937, $ 67; traduzione ingl., pag. 245 sgg.) la tesi che «
per ogni sistema non estensionale vi è un sistema estensionale nel quale il
primo può esser tradotto ». Poichè i più importanti enunciati intensionali sono
quelli modali, la tesi in questione afferma la traducibilità degli enunciati
modali in enunciati non modali. Per es., gli enunciati « A è possibile », « A =
non — A è impossibile», «A o non A è necessario», «A è contingente»
equivarrebbero rispettivamente ai seguenti enunciati: «‘A’ non è
contraddittorio», ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA «"A= non A°' è
contraddittorio», «‘A o non A* è analitico », «‘A’ è sintetico» (Logische
Syntax der Sprache, $ 69; trad. ingl., pag. 250 sgg.). Lo stesso Carnap
tuttavia presentava la tesi dell’E. come una semplice supposizione, per quanto
plausibile, e la esprimeva paradossalmente, con un enunciato modale: « Un
linguaggio universale della scienza può essere estensionale» (/bid., $ 67;
traduzione ingl., pag. 245). Anche in sèguito Carnap non si è pronunciato sulla
validità della tesi (Meaning and Necessity, 1957, $ 32). ESTENSIONE (gr.
Suotaoi; lat. Exfensio; ingl. Extension; franc. Extension; ted. Ausdehnung). Il
carattere fondamentale dei corpi fisici, in quanto dotati delle tre dimensioni
dello spazio. In base a tale carattere Aristotele definiva il corpo (Phys.,
III, 5, 204b 20). Cartesio non fece che esprimere questo stesso concetto quando
vide nell’E. «la natura della sostanza materiale, come il pensiero costituisce
la natura della sostanza pensante + (Princ. Phil., I, 53). Spinoza fece dell’E.
uno degli attributi fondamentali di Dio cioè della Natura (Er., II, 2). Ma già
Ockham nel xiv secolo aveva messo in luce il carattere fondamentale dell’E. come
attributo dei corpi. « È impossibile, egli scriveva, che la materia sia senza
E.: non c’è materia che non abbia parte distante da parte, onde sebbene le
parti della materia possano unirsi tra loro come, per es., quelle dell’acqua o
dell’aria, tuttavia mai possono esistere nel medesimo luogo. Ora la distanza
reciproca delle parti della materia è l'E.» (Summulae Physicorum, I, 19).
Appunto come caratteristica del corpo, l’E. è, secondo Hobbes, lo spazio reale
cioè la grandezza stessa del corpo, distinta dallo spazio imaginario che è lo
spazio puro e semplice o spazio vuoto (De corp., 8, 4). Le notazioni di Leibniz
non sono molto diverse. L'E. è insieme con l’antitipia (v.), uno dei caratteri
fondamentali della materia. Essa è la continuità nello spazio per cui le sue
modificazioni costituiscono la varietà delle grandezze e delle figure (Op., ed.
Erdmann, pag. 463). Locke identificava, come già Cartesio, l’E. con lo spazio
(Saggio, II, 13, 3). Con Berkeley l’E. comincia ad essere ridotta a un fenomeno
soggettivo. L'E. è dichiarata da Berkeley un'idea, la quale esiste in quanto è
percepita (Principles of Knowledge, I, $ 9): un'affermazione che Hume ribadì
dicendo che l’E. non è altro che una copia di qualche impressione (7rearise, I,
2, 3). Questa soggettivazione dell’E., che l’empirismo settecentesco fa dal
punto di vista della intuizione sensibile, è operata dall’idealismo romantico
dal punto di vista della ragione speculativa. Schelling pretende di dimostrare
a priori perchè «la materia debba necessariamente considerarsi come estesa
secondo tre dimensioni »: ed effettua questa sedicente ESTERIORITÀ,
dimostrazione deducendo le tre dimensioni dello spazio dal modo di operare
della forza di attrazione e di repulsione (System des transzendentale
Idealismus, 1800, III, 2, Deduzione della materia, Cor.). In modo analogo Maine
de Biran riteneva di poter dedurre « necessariamente» l’idea di E. dall’idea
dello sforzo e della resistenza che esso implica, nel senso che l’E. sarebbe
una « continuità di resistenza » (Fond. de la Psychologie, CEuvres, ed.
Naville, II, pag. 272). E un tentativo simile è quello di Bergson, che cerca di
intendere l’E. come il movimento opposto a quello della vita cioè come il
movimento per il quale l’io, abbandonandosi alla fantasticheria, si sparpaglia
in una molteplicità di sensazioni esterne l’una all’altra. L’E. sarebbe la
distensione dello sforzo dell'io (Év. créatr., 8° ediz., 1911, pag. 220).
Concetti simili a quelli esposti da Schelling, Maine de Biran e Bergson sono
assai comuni nella filosofia della seconda metà dell'800 e dei primi decenni
del nostro secolo. Ma questo tipo di speculazione ha perduto ogni interesse
filosofico o scientifico negli ultimi decenni, per i mutamenti che sono
sopravvenuti, ad opera della fisica relativistica, nella nozione di corpo (v.).
La nozione di corpo come particolare intensità di un campo di energia non ha
più bisogno di essere definita in termini di E.; o, se si preferisce, l’E. può
essere intesa soltanto come la possibilità della misura dell’intensità di
energia in un dato campo. ESTENSIONE ED INTENSIONE. Vedi INTENSIONE ED
ESTENSIONE. ESTENSIVO ED INTENSIVO (ingl. Extensive and Intensive; franc.
Extensif et intensif; tedesco Extensiv und intensiv). La distinzione fra
grandezza E. e grandezza intensiva è stata fatta da Kant. Secondo Kant è E. «
quella quantità nella quale la rappresentazione delle parti rende possibile la
rappresentazione del tutto (e perciò necessariamente la precede)»; per es., le
parti dello spazio o del tempo sono quantità E. in questo senso perchè le
quantità spaziali o temporali sono sempre intuite come aggregati o molteplicità
di parti precedentemente date. La quantità intensiva invece è quella « che è
appresa soltanto come unità e in cui la molteplicità può essere rappresentata
solo per approssimazione alla negazione = 0». Cioè la quantità intensiva è
quella che ha sempre gradi; per es., il rosso ha un grado che per quanto
piccolo non è mai minimo e così il calore, la pesantezza, ecc. Queste sono le
qualità continue 0, come Kant dice con termine newtoniano, fiuenti (Critica R.
Pura, II, 2, sez. 3, Assiomi dell’intuizione). ESTERIORITÀ, INTERIORITÀ
(inglese Exterlority, Interiority; franc. Extériorité, Intériorité; ted.
Aeusserlichkeit, Innerlichkeit). Il tema filoINTERIORITÀ 349 sofico del
contrasto tra interiorità ed E. nasce contemporaneamente con la nozione di
coscienza (v.) ed esprime il contrasto tra ciò che è estraneo alla coscienza e
ciò che le è proprio. La predicazione popolare stoica ha per la prima volta
sfruttato ampiamente questo tema: il quale ricorre continuamente nelle pagine
di Epitteto, Marco Aurelio e Seneca. Dice Epitteto: « Stato e contrassegno
dell’uomo comune si è nè benificio nè danno aspettarsi mai da se stesso, ma sì
dalle cose di fuori. Stato e contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia
utilità o nocumento sperare o temere da sè medesimo » (Manuale, 48). E Marco
Aurelio: « Le cose per se stesse non arrivano a toccar l’anima, nè vi banno
alcun accesso, nè possono mutarla o rimuoverla. È invece l’anima che da sè sola
si muta e si muove; e quali sono i giudizi che essa stima degna di sè fare
intorno alle cose esterne, tali essa fa che siano per lei le dette cose »
(Ricordî, V, 19). Seneca contrappone «la gioia che nasce dall’interno » a
quella che deriva dalle cose esterne (Ep., 23). Neoplatonismo e Cristianesimo
operarono l’identificazione dell’interiorità con la sfera della coscienza e
dell’E. con la sfera del mondo cui appartengono le cose naturali e gli altri
esseri. Il tema del contrasto tra interiorità ed E. divenne così il tema
classico di ogni filosofia che facesse appello alla coscienza come a una sfera
di realtà privilegiata sia per la sua certezza sia per il suo valore. Il
linguaggio comune ha accolto i significati filosofici delle due parole che significano
in esso proprio la contrapposizione da ciò che è coscienza e ciò che non lo è.
La metafisica dello spiritualismo (v.) e il metodo dell’introspezione (v.)
utilizzano ugualmente questo tema tradizionale. Sarebbe molto facile mostrare
il carattere puramente metaforico, e perciò l’assenza di significato preciso,
delle espressioni in cui ricorrono i termini in questione o i corrispondenti
aggettivi. « Realtà interna » e « realtà esterna », « mondo interno » e «mondo
esterno », «oggetti interni» e «oggetti esterni» sono espressioni, che
propriamente parlando, non hanno senso sia perchè non vien fatto riferimento
all'àmbito chiuso rispetto al quale un «esterno» e un « interno » si può
determinare, sia perchè tale àmbito chiuso, quando viene determinato, non è
spaziale perchè è la coscienza stessa. Hegel ha fatto un uso abbondante di
questi termini che, attraverso la sua opera appunto, sono penetrati nella
terminologia filosofica. Egli identificava l'interno con la « ragion d’essere»
e l’esterno con la sua manifestazione (Enc., $ 138-39). Ma aveva il buon senso
di aggiungere: « L’uomo, com'è esteriormente cioè nelle sue azioni (di certo
non nella sua E. soltanto corporea) è interno; e quand’egli è solo interno —
cioè virtuoso, morale, solo in intenzioni, disposi350 zioni, ecc. — e il suo
esterno non è con ciò identico, allora l’uno è così vuoto come l’altro »
(Ibid., $ 140). ESTETICA (ingl. Aesthetics; franc. Esthétique; ted. Aesthetik).
Con questo termine si designa la scienza (filosofica) dell’arte e del bello. Il
nome è stato introdotto da Baumgarten verso il 1750 in un libro (Aesthetica)
nel quale si sosteneva la tesi che oggetto dell’arte sono le rappresentazioni
confuse ma chiare, cioè sensibili ma « perfette », mentre oggetto della
conoscenza razionale sono le rappresentazioni distinte (i concetti). Il nome
significa propriamente « dottrina della conoscenza sensibile +; e Kant, che
pure parla (nella Critica del giudizio) di un giudizio estetico che è per
l'appunto il giudizio sull’arte e sul bello, chiama «E. trascendentale » (nella
Critica della Ragion Pura) la dottrina delle forme a priori della conoscenza
sensibile. Già per Kant il nome E,, riferito all’arte e al bello, ha tuttavia
cessato di aver riferimento alla dottrina di Baumgarten; ed oggi il nome designa
qualsiasi analisi, indagine, speculazione che abbia per oggetto l’arte ed il
bello, a prescindere da ogni dottrina o indirizzo specifico. Si è detto «l’arte
e il bello» perchè le indagini dirette all’uno e all’altro di questi due
oggetti coincidono o almeno sono strettamente intrecciate nella filosofia
moderna e contemporanea. Non così accadeva invece nella filosofia antica, dove
le nozioni di arte e di bello erano ritenute diverse e reciprocamente
indipendenti. La dottrina dell’arte era chiamata dagli antichi, col nome del
suo stesso oggetto, poetica cioè arte produttiva, e produttiva di imagini
(PLAT., Sof., 265 a; ARIST., Ret., I, 11, 1371 b 7); mentre il bello (in quanto
non incluso nel novero degli oggetti producibili) cadeva fuori della poetica e
veniva considerato a parte (v. BeLLO). Così per Platone il bello è la
manifestazione evidente delle Idee (cioè dei valori) ed è perciò la più facile
e ovvia via d’accesso a tali valori (Fedr., 250 e); mentre l’arte è imitazione
delle cose sensibili o degli eventi che si svolgono nel mondo sensibile e
costituisce piuttosto un rifiuto di muovere al di là dell’apparenza sensibile
verso la realtà e i valori (Rep., X, 598 c). Aristotele, a sua volta ritiene
che il bello consiste nell’ordine, nella simmetria e in una grandezza che si
presti ad essere facilmente abbracciata dalla vista nel suo complesso (Poet.,
7, 1450b 35 sgg.; Met., XIII, 3, 1078 b 1); mentre riprende e fa sua la teoria
dell’arte come imitazione, pur sottraendola, con la nozione della catarsi, a
quella specie di confinamento alla sfera sensibile cui Platone l’aveva
condannata (v. oltre). A partire dal *700 le due nozioni dell’arte e del bello
appaiono connesse come oggetti di un’unica investigazione; e la connessione fu
operata mediante ESTETICA il concetto del gusto inteso come facoltà di
discernere il bello, sia dentro che fuori dell’arte. La ricerca di Hume sulla
Regola del gusto (1741) suppone già questa identificazione come la suppone
quella di Burke, Sull’origine delle idee del sublime e del bello (1756; cfr. V,
1), e il saggio di G. SPALLETTI, Sopra la bellezza (1765; cfr. $ 19-20). Ma fu
soprattutto Kant a stabilire l'identità dell’artistico e del bello affermando
che « la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte »; e che «l’arte non
può essere detta bella se non quando noi, pur essendo coscienti che è arte, la
consideriamo come natura » (Crit. del Giud., $ 45). Finalmente Schelling
invertiva il rapporto tradizionale tra arte e natura, facendo dell’arte la
regola della natura invece che della natura la regola dell’arte. L’arte è
difatti per Schelling la necessaria e perfetta realizzazione di quella bellezza
che la natura attinge solo in modo parziale e casuale (System des
transzendentalen Idealismus, 1800, VI, $ 2; cfr. lo scritto « Le arti
figurative e la natura», 1807, in Werke, VII, pag. 289 e seguenti). Tuttavia un
tentativo di separare la scienza dell’arte dalla dottrina del bello è stato
fatto più recentemente in Germania, allo scopo di istituire su basi positive
una «scienza generale dell’arte » (E. UTITZ, Grundlegung der allgemeinen
Kunstwissenschaft, 2 voll., Stuttgart, 1914 e 1920; M. Dessorr, Aesthetik und
allgemeine Kunstwissenschaft, Stuttgart, 1923). Tale scienza avrebbe dovuto
avere come oggetto l’arte nei suoi aspetti tecnici, psicologici, morali e
sociali, lasciando invece all’E. la considerazione, per essa tradizionale, del
bello: considerazione peraltro ritenuta insufficiente a dar conto di tutti i
fenomeni artistici, in quanto l’arte dei primitivi, per es., e buona parte
dell’arte moderna sembrano sfuggire alla categoria del bello. Queste
considerazioni tuttavia non sono apparse decisive. La nozione di « bello » è
abbastanza estesa nell’uso comune e anche in quello colto (proprio dei critici
d’arte e dei filosofi) per qualificare qualsiasi opera d’arte riuscita, anche
se rappresenta cose o persone che, per se stesse, non potrebbero dirsi « belle
» in base ai canoni correnti. Non si è ravvisato pertanto l’opportunità di una
separazione tra l’E. come scienza filosofica del bello e la scienza dell’arte
come tale (cfr. B. C. HevL, New Bearines in Esthetics and Art Criticism, 1943,
pag. 20 sgg.). D'altronde, problemi di ordine psicologico, sociale, morale,
ecc., sono sempre più largamente dibattuti nel dominio stesso dell’E. e non
pare che esigano una sede a parte per la loro trattazione. La proposta in
questione perciò è servita soltanto a sottolineare l’esigenza che l’E. includa
sempre più ampiamente tali problemi nella sua considerazione. Più fortuna ha
avuto la proposta di Paul Valéry ESTETICA di distinguere dall’E. una poetica
che dovrebbe consistere, secondo le sue parole, « nell’analisi comparata del
meccanismo dell'atto dello scrittore e delle altre condizioni meno definite che
quest’atto sembra esigere» (Variéré, 1944, V, pag. 292). Col nome di poetica si
indica oggi spesso l’insieme delle riflessioni che un artista fa sulla propria
attività o sull'arte in generale; e se con l’uso di questa parola non s'intende
alludere a una forma di E. minore, depotenziata o provvisoria, l’uso stesso non
suscita obiezioni. La storia dell’E. presenta una grande varietà di definizioni
dell’arte e del bello. Sebbene ognuna di queste definizioni abbia di regola la
pretesa di esprimere in modo assoluto l’essenza dell’arte, si va facendo oggi
strada l’idea che la maggior parte di esse esprimano tale essenza solo dal
punto di vista di un particolare problema o gruppo di problemi. È, per es.,
abbastanza chiaro che la definizione dell’arte come imitazione è la soluzione
di un problema totalmente diverso da quello di cui la definizione dell’arte
come piacere si presenta come soluzione: difatti, la prima concerne il rapporto
tra l’arte e la natura, la seconda il rapporto tra l’arte e l’uomo. Le teorie
E. non possono perciò essere presentate se non in riferimento ai problemi
fondamentali di cui sono (0 pretendono essere) la soluzione; e occorre
preliminarmente prospettare quali sono tali problemi per poter accennare, a
proposito di ciascuno di essi, alle soluzioni più importanti che sono state o sono
attualmente proposte. Ora i problemi fondamentali intorno ai quali si possono
raggruppare tutti quelli che si dibattono nel dominio dell’E. e che pertanto
consentono di orientarsi nella varietà degli indirizzi di questa scienza sono
tre e precisamente: 1° il rapporto tra l’arte e la natura; 2° il rapporto tra
l’arte e l’uomo; 3° il compito dell’arte. 1° Molte definizioni dell'arte sono
determinazioni del rapporto tra l’arte e la natura (o in generale la realtà).
Poichè si può intendere l’arte come dipendente dalla natura, o indipendente da
essa o condizionata da essa, si possono distinguere tre diverse concezioni
dell’arte sotto questo profilo e cioè: a) l’arte come imitazione; b) l’arte
come creazione; c) l’arte come costruzione. a) La più antica definizione
dell’arte nella filosofia occidentale, quella di imitazione, è intesa a
subordinare l’arte alla natura o alla realtà in generale. Platone insiste sulla
passività dell’imitazione artistica: il pittore non fa che riprodurre
l’apparenza dell’oggetto costruito dall’artigiano (Rep., 598 b); il poeta non
fa che copiare l’apparenza degli uomini e delle loro attività senza intendersi
veramente delle cose che imita e senza la capacità di effettuarle (/bid., 599
b). Per Aristotele, il valore del351 l’arte deriva dal valore dell’oggetto
imitato: per es., devono essere propri dell'oggetto che la tragedia imita, cioè
del mito, i caratteri che garantiscono alla tragedia la sua riuscita. « Come i
corpi degli esseri viventi devono, per essere belli, avere una grandezza che
possa facilmente nel suo insieme essere abbracciata dallo sguardo, così il mito
deve avere un’estensione che possa facilmente essere abbracciato nel suo
insieme dalla mente» (Poer., VII, 1451 a 2). All’artista appartiene tutt’al
più, da questo punto di vista, il merito dell’opportuna scelta dell’oggetto
imitato; ma, scelto l’oggetto, egli altro non può che riprodurlo nelle sue
caratteristiche proprie. Non fa differenza che l’oggetto imitato sia una cosa
naturale o un'entità trascendente o intelligibile: la passività dell’imitazione
rimane. Così Seneca dice che quando l’artista tiene rivolto lo sguardo a un
esemplare da lui stesso concepito, quest’esemplare è in realtà contenuto nella
mente divina (Zp., 65): cioè non è creato. Allo stesso modo Plotino osserva:
«Se qualcuno disprezza le arti perchè non fanno che imitare le cose naturali,
bisogna dire in primo luogo che le stesse cose naturali imitano altre cose e in
secondo luogo bisogna sapere che le arti non imitano direttamente gli oggetti
visibili ma si rivolgono alle regioni dalle quali essi dipendono e così sono in
grado di far molte cose per conto loro e di aggiungere ciò che manca alle cose
naturali» (Enn., V, 8, 2). Così, secondo Plotino ciò che l’arte aggiunge alla
natura è da essa attinto alla realtà superiore (intelligibile) cui tiene
rivolto lo sguardo. La teoria dell’imitazione si trova ancora oggi difesa e
seguita dai sostenitori del realismo dell’arte, soprattutto nei paesi comunisti
o tra coloro che si ispirano all’ideologia comunista. Ma spesso
l’interpretazione che si dà dell’imitazione le toglie proprio quel carattere di
passività che la caratterizzava nella sua formulazione classica. Così Lukacs,
che definisce l’arte come « rispecchiamento della realtà », intende poi questa
realtà come il risultato del rapporto reciproco tra la natura e l’uomo:
rapporto che è mediato dal lavoro e dalla società in ogni suo momento storico.
Perciò vede nell'arte «il modo di espressione più adeguato e più alto
dell’autocoscienza dell’umanità» (Astherik I, 1963, cap. VII, $ III; trad. it.
pag. 575). È, da questo punto, di vista l’imitazione non si distingue dalla
creazione. b) Il concetto dell’arte come creazione è proprio del Romanticismo e
fu fatto valere in tutta la sua forza da Schelling. « In che cosa il prodotto
E., egli diceva, si distingua dal comune prodotto artigiano è facile giudicare
perchè ogni creazione E. è nel suo principio assolutamente /ibera, in quanto
l’artista può essere spinto ad essa 352 solo da una contraddizione che si trovi
nella parte più alta della sua natura, mentre ogni altra creazione è
occasionata da una contraddizione che è esterna a chi crea e ha perciò il suo
scopo fuori di sè » (System, cit., VI, $ 2). Per Schelling l’arte è la stessa
attività creatrice dell’Assoluto perchè il mondo è un « poema » (/bid., VI, $
3) e l’arte umana è una continuazione, specialmente attraverso il genio,
dell’attività creatrice di Dio. Questo concetto veniva ripreso da Fichte negli
scritti del secondo periodo e cioè nei Caratteri del tempo presente (1806),
nell’Essenza del dotto (1805) e nella Destinazione del dotto (1811) (cfr.
PAREYSON, L'E. dell’idealismo tedesco, 1950, pag. 388 sgg.). Come si vede, la
tesi romantica dell’arte come creazione si compone di due tesi diverse: I,
l’arte è originalità assoluta e i suoi prodotti non si lasciano ricondurre alla
realtà naturale; II, come originalità assoluta, l'arte è parte (o continuazione
o manifestazione) dell’attività creativa di Dio. Sono queste le tesi
fondamentali che Hegel illustrò nelle sue Lezioni di Estetica. « Si potrebbe
imaginare, egli disse, che l’artista debba raccogliere nel mondo esterno le
forme migliori e riunirle o debba fare una scelta delle fisionomie, delle
situazioni, ecc., per trovare le forme più adatte al suo contenuto. Ma quando egli
abbia così raccolto e trascelto, non ha ancora fatto nulla: giacchè l’artista
dev'essere creatore e nella sua propria fantasia, con la conoscenza delle forme
vere e con un senso profondo e una viva sensibilità, deve spontaneamente e di
un sol getto formare ed esprimere il significato che lo ispira» (Vorlesungen
iîiber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 240). Dall’altro lato, proprio per
questo suo carattere di creazione, l’arte appartiene alla sfera dello Spirito
assoluto ed è, con la religione e la filosofia, una delle manifestazioni o
realizzazioni di esso nel mondo. «L'arte, dice Hegel, in quanto si occupa del
vero come dell’assoluto oggetto della coscienza appartiene alla sfera assoluta
dello spirito e si colloca perciò, in base al suo contenuto. sullo stesso piano
della religione e della filosofia, Giacchè anche la filosofia non ha altro
oggetto che Dio ed è così essenzialmente una teologia razionale e un perpetuo
culto divino al servizio della verità » (Ibid., I, pag. 147-48). Croce non
fece, su questo punto, che ripetere, quasi alla lettera, la dottrina di Hegel.
« Come posizione e risoluzione di problemi (fantastici o estetici) l’arte non
riproduce alcunchè di esistente, ma produce sempre alcunchè di nuovo, forma una
nuova situazione spirituale, e perciò non è imitazione ma creazione. Del pari
creazione è il pensiero il quale anch’esso non consiste in altro che in
posizione e risoluzione di problemi (logici o filosofici o speculativi che si
dicano); e non mai in riproduzione di oggetti o di ESTETICA idee » (Nuovi Saggi
di E., 1920, DB: 156). Nello stesso senso Gentile ha scritto: « E difficile
rinunziare a vedere nell’artista un libero spirito creatore. Ci saranno pure
difficoltà, pel pensiero comune, a rendersi chiaro conto di questa creatività
dell’uomo; ma, ancorchè oscura, quest'idea dell’artista che crea un mondo suo,
è fitta profondamente in ogni uomo che si accosta all’opera d’arte» (Fil.
dell’arte, 1931, II, $ 4). Nell’àmbito della concezione romantica dell’arte, il
principio che l’arte è creazione appare come una verità evidente. Il corollario
principale di questa concezione è la scarsa importanza attribuita ai mezzi
tecnici della espressione e l’insistenza sulla natura « spirituale » cioè
coscienziale dell’arte. Diceva a questo proposito Hegel: «L’opera d’arte
raggiunge solo alla superficie l’apparenza della vita giacchè nel suo fondo
essa è pietra, legno, tela, 0, nel caso della poesia, lettere e parole. Ma
questo aspetto della esistenza esterna non è quello che costituisce l’opera
d’arte; l’opera d’arte si origina dallo spirito, appartiene al dominio dello
spirito, ha ricevuto il battesimo dello spirito ed esprime soltanto ciò che si
è formato sotto l’ispirazione dello spirito » (Vor/esungen ilber die Aesthetik,
ed. Glockner, I, pag. 55). Croce a sua volta ha confinato nel dominio della «
pratica » e considerato come semplice espediente di comunicazione la tecnica
espressiva dell’arte: «L'artista, che abbiamo lasciato vibrante di immagini
espresse che prorompono per infiniti canali da tutto l’esser suo, è uomo intero
e perciò anche uomo pratico; e, come tale, avvisa ai mezzi di non lasciar
disperdere il risultato del suo lavorio spirituale e di rendere possibile e
agevole, per sè e per gli altri, la riproduzione delle sue imagini; onde promuove
atti pratici, che servono a quell’opera di riproduzione. Questi atti pratici
sono guidati, come ogni atto pratico, da conoscenze e perciò si dicono tecnici;
e, come pratici, distinguendosi dalla intuizione che è teorica, paiono esterni
a questa e perciò si dicono fisici; e tanto più facilmente prendono questo
nome, in quanto vengono dall’intelletto fissati ed astratti » (Breviario di E.,
in Nuovi Saggi di E., II, pag. 39-40). E Gentile ribadiva: « Posto che
l’elemento estetico consista nella soggettività sentimentale che informa di sè
un pensiero, la rappresentazione in cui questo pensiero si sviluppa e attua,
riguarda unicamente i mezzi tecnici dell’espressione. Alfieri è lo stesso poeta
nei sonetti e nelle tragedie, ecc.» (Fil. dell’arte, VII, $ 8). c) Il concetto
dell’arte come costruzione si ha quando non si considera l'attività E. nè come
pura ricettività nè come pura creatività ma come un incontro tra la natura e
l’uomo o come un prodotto complesso in cui l’opera dell’uomo si ESTETICA
aggiunge, senza distruggerla, a quella della natura. Questo fu propriamente il
concetto che dell’arte ebbe Kant: che concepì l’attività E. come una forma del
giudizio riffettente: cioè della facoltà che fa scorgere la subordinazione
delle leggi naturali alla libertà umana o il finalismo della natura rispetto
all'uomo. Il finalismo della natura non è secondo Kant nè «un concetto della
natura» nè « un concetto della libertà »: cioè non appartiene propriamente nè
soltanto alla natura nè soltanto all’uomo, ma all'incontro tra la natura e
l’uomo dovuto al fatto che l’uomo deve realizzare proprio nella natura i suoi
fini e perciò prova un sentimento di piacere (cioè di liberazione da un
bisogno) quando questa realizzazione gli appare possibile: quando cioè la
natura gli si dimostra adatta a servire i fini umani (Cri. del Giud., Intr.,
V). Nello stesso concetto dell'attività E., Kant includeva così quello di un
incontro tra il meccanismo naturale e la libertà umana: incontro per il quale
l’arte non prescinde dalla natura ma la subordina a sè e l’uomo gode di questa
subordinazione come di un bisogno appagato. Il concetto col quale Kant più
frequentemente espresse il carattere costruttivo (nè imitativo nè creativo)
dell’arte fu quello di giuoco. Come attività liberale o non mercenaria, l’arte
è « un semplice giuoco cioè un’occupazione di per se stessa piacevole che non
abbisogna di altro scopo » (/bid., $ 43). E la nozione di giuoco fu poi
adoperata per definire alcune singole arti, specialmente l’eloquenza, la poesia
e la musica (Ibid., $ 51). Lo stesso significato ha il concetto di giuoco nella
dottrina di Schiller. L'uomo, essendo insieme natura e ragione, è dominato da
due tendenze contrastanti, la tendenza materiale e la tendenza formale: e
queste tendenze sono conciliate dalla tendenza al giuoco, che mira a realizzare
la forma vivente cioè la bellezza (Uber die aesthetische Erziehung des
Menschen, 1793-95, XV; trad. ital., pag. 71). La tendenza al giuoco armonizza
la libertà umana con la necessità naturale. « Con libertà illimitata, dice
Schiller, l’uomo può congiungere le cose che la natura separò e può separare
quelle che la natura congiunse... Ma possiede tale diritto di sovranità solo
nel mondo dell’apparenza, nell’irreale regno dell’imaginazione e solo finchè si
astiene scrupolosamente, nel campo della teoria, dall’affermarne l’esistenza e,
nella pratica, dal voler produrre da esso un’effettiva esistenza» (/bid., XXVI,
pag. 134). L'apparenza E. (o sfera del giuoco) è pertanto il dominio in cui
l'uomo e la natura collaborano insieme, la natura limitando e condizionando la
libertà umana e la libertà umana, dal canto suo, procedendo a comporre e
unificare i dati naturali. Questo è proprio il concetto della costruzione che,
23 353 non mancò di fare qualche apparizione nella stessa E. romantica del sec.
xx. Il più grosso (se non il più grande) monumento di questa E., l’E. 0 Scienza
del bello (1846-57) di F. T. Vischer, pur assumendo come principio proprio del
mondo dell’arte l’Idea hegeliana, cioè la Ragione autocosciente, considerava l’Idea
stessa in lotta incessante con ostacoli e influenze che Vischer
complessivamente chiamava il «regno del caso». Tutta la vita dello spirito è
secondo Vischer « la storia dell’'annullamento e dell'assimilazione del caso »
(Aesthetik oder Wissenschaft des Schbnen, $ 41): ma soltanto nella bellezza, il
caso non è distrutto ma assimilato e organizzato. Ciò equivaleva a vedere
nell’arte un’opera, non di creazione, come Hegel l'aveva concepita, ma di
costruzione condizionata. Nell’E. contemporanea il concetto dell’arte come
costruzione domina il campo. Esso è stato esplicitamente difeso da Valéry che,
sul fondamento di esso, ha affermato l’eccellenza dell'architettura su tutte le
altre arti. « Colui che costruisce o crea, ha scritto Valéry, impegnato com°’è
con il resto del mondo e con il movimento della natura che tendono
perpetuamente a dissolvere, a corrompere o a rovesciare quel che egli fa, deve
ravvisare un terzo principio che egli tenta di comunicare alle proprie opere e
che esprime la resistenza che vuole sia da questi opposta al proprio destino di
perituro. Crea insomma la solidità e la durata » (Eupalinos; trad. ital., pag.
142). Lo stesso concetto si trova variamente ripetuto nelle considerazioni
estetiche di molti poeti contemporanei (v. POESIA) e Dewey lo esprime nella
forma più propria di collaborazione o contrasto tra il fare e il subire: «
L'arte nella sua forma accomuna in una stessa relazione il fare e il subire,
l'energia che esce ed entra, che fa sì che un’esperienza sia esperienza. Il prodotto
è un’opera d’arte E. a causa dell’eliminazione di tutto ciò che non
contribuisce alla mutua organizzazione dei fattori sia dell’azione che della
ricezione reciproca e a causa della selezione propria di quegli aspetti e
tratti che contribuiscono alla loro interpretazione + (Art as Experience, 1934,
cap. III; trad. ital., pagina 60). L. Pareyson nello studiare la formazione
dell’opera d’arte e nel darne la teoria ha delineato i caratteri della
costruzione artistica. « Fare inventando insieme il modo di fare; considerare
la riuscita come criterio a se stessa; produrre l’opera inventandone la regola
individuale; far coincidere l’invenzione con la produzione; l’ideazione con la
realizzazione, il concepimento con l’esecuzione; operare in modo che l’opera
d’arte sia insieme la legge e il risultato della propria formazione: ecco tante
espressioni equivalenti a designare il processo formativo dell’arte e a
indicare la coincidenza di tentativo e organizzazione nel procedimento arti354
stico» (E., 1954, pag. 126). Il teorema fondamentale di questa concezione
dell’arte è l’identità della produzione artistica con la sua tecnica: al modo
in cui la distinzione radicale tra tecnica e produzione è il teorema
caratteristico della concezione dell’arte come creazione. La cosiddetta arte
astratta che più delle altre insiste sull’identità di tecnica e produzione è,
nel suo complesso, una manifestazione di questo modo d’intendere l’arte. 2° Il
secondo problema fondamentale dell’E. è quello del rapporto tra l’arte e l’uomo
cioè della situazione o posizione dell’arte nel sistema delle facoltà o delle
categorie spirituali. Si possono distinguere a questo proposito tre concezioni
fondamentali: 4) quella che considera l’arte come conoscenza; 8) quella che la
considera come attività pratica; C) quella che la considera come sensibilità.
A) Che l’arte appartenga alla sfera della conoscenza sembra suggerito dalla
dottrina aristotelica per quanto (come si vedrà) Aristotele abbia
esplicitamente attribuito l’arte alla sfera dell’attività pratica. Ma egli
osserva che l’arte ha origine da quella tendenza all’imitazione che è un
aspetto del desiderio di conoscere (Poet., IV, 1448 b 5); e a proposito della
poesia, in un luogo famoso, afferma che essa è più filosofica della storia
(/bid., 9, 1451 b 5): il che sembra voler dire che essa ha maggior valore
teoretico della storia in quanto è più vicina alla prima scienza teoretica. Ma
fu soprattutto il Romanticismo a insistere sul valore conoscitivo dell’arte,
scorgendo in essa addirittura con Schelling, «l’organo generale della filosofia
» in quanto l’arte fa cogliere quell’« Identità della attività cosciente e
dell’inconscia +, che è Dio stesso o l'Assoluto (System, cit., VI, 1). Hegel
faceva arretrare l’arte di un passo, ponendola al di sotto della filosofia e
della religione; ma ne riconfermava il valore teoretico attribuendola alla
sfera di quello « Spirito assoluto » che è la più alta conoscenza (o «
autocoscienza +) che l’Assoluto può attingere di sè (Enc., $ 556). L’E. di
Croce e tutte quelle che su di essa si modellano seguono questa attribuzione.
Fin dalla prima formulazione della sua dottrina, Croce insistette sulla
definizione dell’arte come primo grado del conoscere cioè « conoscenza
intuitiva o del particolare » (E., 1902, cap. I). E ha sempre insistito sulla
tesi che l’arte è «una teoresi, un conoscere », che riannoda il particolare
all’universale e perciò ha sempre un’impronta di universalità e totalità (La
poesia, 1936). Questa stessa tesi è anche il presupposto dell’E. di Gentile:
nella quale la definizione dell’arte come sentimento significa soltanto la
riduzione dell’arte a pensiero « inattuale » cioè che non ancora si è
realizzato in un oggetto (La filosofia dell’arte, 1931, cap. IV). La stessa
dottrina bergsoniana dell’arte, formulata a proposito della funzionedel comico,
riduce l’arte all’intuizione che è l’organo della conoscenza filosofica (Le
rire, 1908, pag. 160). Infine quell’indirizzo di critica delle arti figurative
che è stato chiamato della « visibilità pura » perchè vede nelle forme e nei
gradi di quelle arti forme e gradi del vedere ha condiviso talora questa
nozione dell’arte come conoscenza. Così ha detto, ad es., K. Fiedler: « Solo
verità e conoscenza appaiono l’unica occupazione degna dell’uomo e se si vuole
assegnare all’arte un posto fra le più alte tendenze dello spirito occorre
indicarle come fine solo lo slancio alla verità, la spinta al conoscere »
(Aphorismen, in Schriften Uber Kunst, 1914, II, 8, pag. 147 sgg.). B)
L'attribuzione dell’arte alla sfera dell’attività pratica è la tesi esplicita
di Aristotele. Data la grande divisione tra scienze feoretiche o conoscitive,
che hanno per oggetto il necessario, e scienze pratiche che hanno per oggetto
il possibile, l’arte appartiene, secondo Aristotele, al dominio pratico e
costituisce l’oggetto della poetica cioè della scienza della produzione, mentre
l’altra suddivisione della pratica è la scienza dell’azione (Et. Nic., VI, 4,
1140a 1). Nonostante la potente suggestione di Aristotele (o forse perchè tale
suggestione è stata annullata dall’altra di cui si è detto), la concezione
dell’arte come attività pratica è ritornata solo raramente nella storia
dell’estetica. Può essere compresa in questa rubrica la concezione dell’arte
come giuoco. Questa fu esposta per la prima volta da H. Spencer che considerò
l’arte come un giuoco che si è svincolato dal suo scopo di addestramento
biologico ed è diventato fine a se stesso (Principles of Psychology, 1855, $
535-36). Con alcune varianti la teoria fu ripresa da K. Groos che riportò l’arte
alla «esperienza sensoria del giuoco » (Spiele des Menschen, 1889). Ma è stato
soprattutto Nietzsche a insistere sul carattere pratico dell’arte, vedendo in
essa una manifestazione della volontà di potenza. L’arte è condizionata secondo
Nietzsche, da un sentimento di forza e di pienezza, quale si verifica
nell’ebrezza. La bellezza è l’espressione di una volontà vittoriosa, di una
coordinazione più intensa, di un’armonia di tutti i voleri violenti, di un
equilibrio perpendicolare infallibile. « L'arte, dice Nietzsche, corrisponde
agli stati di vigore animale. È da una parte l’eccesso di una costituzione
florida che trabocca nel mondo delle imagini e dei desideri; dall’altra,
l’eccitamento delle funzioni animali, mediante le imagini e i desideri di una
vita intensificata; è una esaltazione del sentimento della vita e uno
stimolante della vita» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 361). Essenziale all’arte
è la perfezione dell’essere, l'avviamento dell’essere alla pienezza; l’arte è
essenzialmente l’affermazione, la divinizzazione dell’esistenza. Lo stesso
stato apollineo (v.) non è che la risultanza estrema dell’ebrezza dionisiaca: è
il riposo di certe sensazioni estreme di ebrezza. C) L'attribuzione dell’arte
alla sfera della sensibilità è una tesi platonica, che ricompare nel 700 con
segno di valore mutato. Platone aveva confinata l'arte nella sfera
dell’apparenza sensibile e l’aveva caratterizzata con il rifiuto ad uscire da
questa sfera mediante l’uso del calcolo e della misura (Resp., X, 602c-d). Ma
nel 700 la nozione dell’arte come sensibilità non è più diminuzione o condanna:
l’arte appare come la perfezione della sensibilità stessa. La nascita e
l’elaborazione del concetto di gusto (v.), parallela alla nascita e alla
elaborazione della categoria del sentimento (v.) condiziona il nuovo
apprezzamento della sfera sensibile, che è proprio della filosofia del 700, e
la assegnazione, a tale sfera, del mondo dell’arte. Baumgarten riteneva che «il
fine dell’E. è la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale» e che
questa perfezione è la bellezza (Aesthetica, 1750-58, $ 14). È ben vero che
egli considerava le rappresentazioni E. come rappresentazioni chiarema confuse
e così poneva una differenza solo di grado tra esse e le rappresentazioni
razionali (che sono chiare e distinte): il che, come Kant ebbe spesso ad
osservare, non è una distinzione sufficiente tra sensibilità e intelligenza
(Cri. R. Pura, $ 8; cfr. Crit. del Giud., Intr., $ III. Ma è pur vero che, sia
pure con concetti imperfetti, Baumgarten aveva di mira proprio la
rivendicazione dell’autonomia della sfera sensibile. Alla stessa sfera riduceva
Vico la poesia, in polemica con quanto « dell'origine della poesia si è detto
prima da Platone, poi da Aristotele, infin a’ nostri Patrizi, Scaligeri,
Castelvetri » (Sc. Nuova, 1744, II, Della metafisica poetica). La tesi di
questi autori era, secondo Vico, che la poesia fosse «sapienza riposta » cioè «
metafisica ragionata ed astratta»; mentre la tesi di Vico è che la poesia fu
metafisica «sentita ed immaginata » quale poteva essere propria di uomini
«ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie »
(/bid., 1744, II, Della me-tafisica poetica). Ora, secondo Vico metafisica
(cioè conoscenza) e poesia sono tra loro totalmente opposte: quella purga la
mente dei pregiudizi della fanciullezza, questa tutta ve l’immerge e rovescia
dentro; quella resiste al giudizio dei sensi, questa ne fa principale sua
regola; quella infievolisce la fantasia, questa la richiede robusta; infine
quella non dà che pensieri astratti e scevri d’ogni passione; questa invece non
dà che pensieri concreti e corpulenti, che muovono con straordinaria violenza
gli animi umani (Sc. Nuova Prima, 1725, IIl, 26, in Opere, ed. Ferrari, IV,
pag. 227). La fantasia, che è l’organo della poesia, è definita da Vico come la
facoltà che « altera e contraffà» le cose (Sc. Nuova, 1744, III,
Dell’inarrivabile facultà poetica d’Omero); e in generale la fantasia è tanto
più robusta quanto è più debole il raziocinio (Ibid., I, Elementi, 36). Kant
infine segnava l’atto ufficiale di nascita della «facoltà del sentimento » e a
tale facoltà attribuiva il giudizio E. cercando di determinarne
conseguentemente i caratteri (Crir. del Giud., Intr., $ IID. E a tale facoltà
l’arte è stata più comunemente assegnata nell’E. contemporanea. Secondo
Santayana «la bellezza è un piacere considerato come la qualità di una cosa »
ed è perciò sempre « un’emozione, un’affezione della nostra natura volitiva e
valutativa » (The Sense of Beauty, 1896, $ 11). Per Dewey ugualmente l’arte è «
una forma di sentimento» (Art as Experience, 1934, cap. IV). 3° Il terzo punto
di vista dal quale possono essere considerate le teorie estetiche è quello del
còmpito che attribuiscono all’arte. Tutte le teorie cadono in due gruppi
fondamentali che rispettivamente considerano l’arte: «) come educazione; 8)
come espressione. Come educazione, l’arte è strumentale; come espressione, è
finale. a) La teoria dell’arte come educazione è di gran lunga la più antica e
la più diffusa. Platone condannò l’arte imitativa perchè la ritenne non
educativa ed anzi anti-educativa (Rep., X, 605 a-c); ma accettò e difese quelle
forme artistiche in cui vide utili strumenti d’educazione (/bid., III, 395 c).
Aristotele affermava che «la musica non va praticata per un unico tipo di
beneficio che da essa può derivare ma per usi molteplici, poichè può servire
per l’educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per il riposo, il
sollevamento dell’anima e la sospensione delle fatiche » (Polir., VIII, 7, 1341
b, 35). Ciò che egli dice per la musica vale, ovviamente, per tutte le arti; ed
altrettanto ovviamente la catarsi (v.) e il divertimento sono anch’essi
procedimenti educativi. Il concetto dell’arte come educazione è durato per
tutto il Medioevo e non è stato sensibilmente mutato o innovato dalle
discussioni estetiche del Rinascimento. La accentuazione del carattere
catartico dell’arte non è che l’accentuazione della sua strumentalità
educativa. Di questa non dubitava neppure Vico che insisteva sui «tre lavori
che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti
all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguire il
fine, ch’ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare
com’essi [i poeti] l’insegnarono a sè medesimi » (Sc. Nuova, II, Della
metafisica poetica). Questo è ancora il punto di vista tradizionale che fa
dell’arte uno strumento di perfezionamento morale. Ma la stessa teoria
dell’arte come conoscenza appartienall’àmbito di una concezione strumentale o
educativa dell’arte. Hegel ha espresso la cosa con tutta la chiarezza
desiderabile. Cercando di determinare lo scopo dell’arte nella introduzione
delle sue Lezioni di E. egli elimina le teorie che lo scopo dell’arte sia
l’imitazione o l’espressione (nel qual caso sarebbe vera la formula dell’arte
per l’arte) o il perfezionamento morale, per insistere sul punto che scopo
dell’arte è l’educazione alla verità attraverso la forma sensibile di cui
l’arte riveste la verità stessa: e che il perfezionamento morale è una
conseguenza inevitabile dell’educazione teoretica. « Bisogna ammettere, dice
Hegel, che l’arte debba rivelare la verità nella forma della rappresentazione
sensibile, che debba rappresentare la opposizione riconciliata [tra forma sensibile
e contenuto di verità] e che pertanto abbia il suo scopo finale in se stessa,
in questa rappresentazione e manifestazione » (Vorlesungen ilber die Aesthetik,
ed. Glockner, I, pag. 89). Ma l’educazione allaverità non è meno educazione
dell’educazione morale; e il compito dell’arte è secondo Hegel quello di
produrre la morte dell’arte cioè il passaggio a quelle forme superiori di
rivelazione della Verità assoluta che sono la religione e la filosofia (/bid.,
III, pag. 579 sgg.). Con qualche attenuazione o confusione questo punto di
vista è stato ripetuto da Croce il quale riconosce che la conoscenza E. si
conserva nella conoscenza filosofica come si conserva nell’arte l’esigenza
morale o la coscienza del dovere (Breviario di E., III). Alle teorie che vedono
nell’arte uno strumento educativo ai fini della morale e della conoscenza si
sono aggiunte ora quelle che vedono in essa uno strumento di educazione
politica. Sono queste le dottrine che parlano dell'impegno (engagement)
politico dell’arte e che esigono che l’artista assuma una precisa direttiva
politica, che coordini la sua opera con le classi 0 i gruppi sociali più estesi
e meno privilegiati (o con i partiti che li rappresentano o pretendono
rappresentarli) e le aiuti nello sforzo di liberazione e perciò di conquista e
di conservazione del potere politico. Questa tesi che è propria delle dottrine
estetiche che si ispirano all’ideologia comunista non è, filosoficamente
parlando, più scandalosa delle dottrine tradizionali, che pongono come còmpito
dell’arte l'educazione morale o conoscitiva. Vero è che la politica ha esigenze
più mutevoli e più arbitrarie della morale o della conoscenza: sicchè
l’engagement politico rischia di limitare in modo assai più drastico
dell’engagement morale o conoscitivo le direzioni in cui si possono compiere o
sviluppare i tentativi artistici e perciò di bloccare in anticipo tentativi che
potrebbero riuscire fecondi. Ma l’autonomia, cioè il carattere finale, non
strumentale dell’arte, non è garantita neppure dalldottrina che vede nell’arte
un impegno conoscitivo o morale. 8) La teoria dell’espressione consiste nel
vedere nell’arte una forma finale delle esperienze, delle attività o in
generale degli atteggiamenti umani (v. EsprESSIONE). Il proprio
dell’atteggiamento espressivo è che esso prospetta come fine ciò che per altri
atteggiamenti vale come mezzo. Per es., il vedere, che è un mezzo per
orientarsi nel mondo e per servirsi delle cose, diventa un fine nell’arte
sicchè il pittore non vuol altro che vedere e far vedere. Perciò anche si dice
che l’espressione chiarifica e trasporta su un altro piano il mondo comune
della vita: le emozioni, i bisogni e anche le idee o i concetti che dirigono
l’esistenza umana. Ha detto Dewey: «L'emozione che fu elaborata in ultimo da
Tennyson nella composizione In Memoriam non era identica col sentimento di
dolore che si manifesta con il pianto e con un aspetto abbattuto: la prima è un
atto di espressione, la seconda di sfogo. Tuttavia è evidente la continuità
delle due nozioni, cioè il fatto che l’emozione E. è l’emozione originaria,
trasformata attraverso il materiale oggettivo al quale è stato affidato il suo
sviluppo e il suo compimento » (Art as Experience, 1934, cap. IV; trad. ital.,
pag. 94-95). Da questo punto di vista l’arte non è natura ma, come dice Dewey
«natura trasformata dalla sua entrata in nuove relazioni + (/bid., 1934, cap.
IV; trad. ital., pag. 94-95); o, come anche si potrebbe dire, ritorno alla
natura. E non fa meraviglia che spesso, dal Rinascimento all’Impressionismo, il
ritorno alla natura sia servito a rinnovare profondamente e con successo lo
stile e il gusto dell'arte. La concezione dell’arte come espressione è forse
adombrata nelle affermazioni di coloro che insistono sul carattere teoretico o
contemplativo dell’arte. Ma è malamente adombrata quando (come fa Croce,
Breviario di E., III) nello stesso tempo si ironizza sulla formula dell’arte
per l’arte che è la migliore definizione del carattere espressivo dell’arte. Su
questa formula hanno insistito poeti ed artisti moderni, che si sono avvalsi di
essa per difendere l’arte da ogni tentativo di asservimento o manipolazione a
fini che esigerebbero la sua completa subordinazione e le toglierebbero ogni
libertà di movimento. I testi relativi sono riportati nella voce Poesia. La
formula che essi difendono dev'essere a tutt'oggi considerata come la migliore,
cioè più efficace, difesa dell’attività E. e delle condizioni della sua
fecondità. Infatti poichè questa attività, come ogni altra, procede per
tentativi e ben poco si può dire in anticipo sul valore di un tentativo, il
prescriverne alcuni e bandirne altri, in nome di una funzione morale o
conoscitiva o politica dell’arte, significherebbe aumentare enormeETÀ mente il
rischio di un insuccesso totale, giacchè nulla garantisce che il tentativo più
promettente non sia fra quelli eliminati o condannati in anticipo. Il carattere
espressivo dell’arte significa pure che le possibilità di vedere, di
contemplare, di godere, che l’arte realizza, le nuove aperture sul mondo che
essa dischiude, quando riescono espresse nell’opera, rimangono a disposizione
di chiunque sia in condizione di intendere l’opera stessa. L’espressione è per
natura sua comunicazione. La capacità di giudicare le opere d’arte di un certo
stile si chiama gusto; e il gusto tènde a diffondersi e a divenire uniforme in
periodi di tempo determinati o in determinati gruppi d’individui. Ma
indubbiamente le possibilità comunicative di un’opera d’arte riuscita sono
praticamente illimitate e sono anche relativamente indipendenti dal gusto
dominante. Questo significa che non tutti devono necessariamente vedere in
un’opera d’arte la stessa cosa o goderla allo stesso modo. Le risposte
individuali di fronte ad essa possono essere innumerevoli e presentare o meno
tra loro uniformità di gusti. Ma l’importante non è quest’uniformità, ma la
possibilità lasciata aperta a nuove interpretazioni, a nuovi modi di fruire
dell’opera stessa. Quelli che godono di una stessa opera d’arte (per es., gli
ascoltatori di un pezzo di Beethoven) non sono come i membri di una setta o gli
adepti di una stessa credenza. Costituiscono tuttavia una comunità legata
insieme da un interesse comune, e aperta nel tempo e nello spazio. ESTETISMO
(ingl. Aestheticism; franc. Esthétisme; ted. Asthetizismus). Ogni dottrina o
atteggiamento che ritenga fondamentale e primari i valori estetici e riduca o
subordini ad essi tutti gli altri (anche e soprattutto quelli morali). In tal
senso si può chiamare E. sia una dottrina come quella di Novalis o di Schelling
che vede nell’arte la rivelazione dell’Assoluto; sia un atteggiamento come
quello di Oscar Wilde o di D'Annunzio, che dia la prevalenza ai valori estetici
nella letteratura e nella vita. L'E. fu caratterizzato da Kierkegaard come
l’atteggiamento di chi vive nell’istante, cioè vive per cogliere ciò che vi è
d’interessante nella vita trascurando tutto ciò che è banale, insignificante e
meschino. L’uomo estetizzante perciò evita la ripetizione, che implica sempre
monotonia e toglie l'interessante alle vicende più promettenti. Il sim-bolo o
l’incarnazione dell’E. è perciò Don Giovanni il seduttore. Lo sbocco finale
della vita estetizzante è, secondo Kierkegaard, la noia e quindi la
disperazione (Werke, II, pag. 162). ESTRAPOLAZIONE (ingl. Extrapolation; franc.
Extrapolation; ted. Extrapolation). 1. Il calcolo dei valori di una funzione
per argomenti che 357 sono al di là di quelli per i quali i valori della
funzione sono già conosciuti. 2. Le stesso che analogia (v.). ESTREMO (gr. tè
toyarov; lat. Extremum; ingl. Extreme; franc. Extréme; ted. Aeusserste). Ciò
che è primo o ultimo in una qualsiasi serie. Così il termine fu inteso da
Aristotele il quale notò che gli E. non sono sostanze ma limiti (Mer., XIV, 3,
1090 b 9). In questo senso si dice che il punto è l’E. della linea, la linea
del piano e il piano del solido. Nello stesso senso si parla di una specie E.
(ultima) che è quella più vicina all’individuo (/bid., III, 3, 998b 15). E.
(ultimo) è anche il motore immobile perchè è il primo nella serie dei movimenti
(Fis., VIII, 2, 244 b 4). E. sono pure i due termini del sillogismo che
compaiono nella conclusione e il cui rapporto viene stabilito ad opera del
termine medio (An. pr., I, 4, 25b 30). La parola si può dire abbia conservato a
tutt'oggi lo stesso significato (v. ULTIMO). ESTRINSECO, INTRINSECO (ingl.
Extrinsical, Intrinsical; franc. Extrinsèque, Intrinséque; ted. Aeusserlich,
Innerlich). In generale si dice intrinseco ciò che appartiene all’essenza o
alla natura di una cosa, E. ciò che le è estraneo. Secondo la logica tradizionale,
è intrinseco ad un oggetto il carattere che entra nella definizione
dell’oggetto stesso; per es., la razionalità, se l’uomo viene definito «animale
ragionevole ». Dal punto di vista di una logica che non si fondi sulla nozione
di essenza necessaria o di sostanza (v.), le determinazioni E. od intrinseco
hanno un significato molto più elastico perchè diventano relative ai vari
significati di un oggetto qualsiasi (v. SIGNIFICATO)., ETÀ (gr. yévoc; lat.
Aetas; ingl. Age; franc. Age; ted. Zeitalter). La nozione della successione di
E. diverse nella storia degli uomini sulla Terra è stata spesso utilizzata dai
filosofi. Il suo primo documento letterario, nel mondo occidentale, è probabilmente
quello lasciatoci da Esiodo nelle Opere e giorni. Esiodo distingueva cinque E.
del mondo: 1° L’E. dell’oro, nella quale gli uomini vivevano come divinità,
privi di inquietudini, al riparo dalla fatica e dalla miseria e nell’abbondanza
di tutti i beni; 2° lE. dell'argento, inferiore alla prima nella quale gli
uomini difettavano soprattutto di saggezza e sirifiutavano di onorare gli dèi;
3° l’E. de/ bronzo, nella quale gli uomini furono soprattutto guerrieri,
violenti e brutali; 4° l’E. degli eroi, che furono invece saggi e forti e
perciò furono chiamati semidei; e infine 5° lE. degli uomini, soggetti a ogni
sorta di mali e inquietudini, ma che godono anche di beni (Op., 109-79). Queste
cinque E. furono ridotte a tre da Platone. Nel Critia, facendo la storia della
guerra tra l’Atlantide e l’Attica, Platone narra che gli dèi un tempo si
divisero a sorte 358 tutta la terra e colonizzarono così le diverse regioni,
allevando gli uomini come i pastori allevano oggi le greggi. Ma Efesto ed Atena
che avevano avuto da governare l’Attica, cioè la regione « naturalmente adatta alla
virtù e al pensiero» vi fecero nascere, quali autoctoni, uomini eccellenti nei
quali istillarono la nozione di una ordinata costituzione politica. Di questi
uomini si sono serbati solo i nomi mentre i fatti « per l’estinzione di quelli
che ne avevano ereditato il ricordo e per la lunghezza dei tempi, caddero
nell’oblio ». E fra questi nomi Platone enumera quelli di Cecrope, Eretteo,
Erittonio, Erisittone, come degli eroi che si ricordano anteriori a Teseo.
Quando a questa E. degli eroi è successa l’E. degli uomini, di quella non è
rimasta che un’oscura tradizione; giacchè gli uomini, rimasti sprovvisti per
molte generazioni delle cose necessarie alla vita, sono stati per molto tempo
dominati dalla cura dei bisogni e hanno trascurato gli eventi anteriori e
remoti (Crifia, 109 b sgg.). In questo racconto le tre E. degli Dèi, degli Eroi
e degli Uomini sono chiaramente distinte. Vico riprendendo nel sec. xvm questa
divisione delle E. umane, l’attribuirà (Sc. Nuova, Idea dell’opera) all’erudito
romano Marco Terenzio Varrone che l’avrebbe esposta nella sua grande opera
Rerum divinarum et humanarum libri andata perduta; ma ricavava probabilmente la
notizia da Diodoro Siculo (Bibliotheca Historica, I, 44). La dottrina delle E.
costituisce, nell’antichità greca, un'autentica interpretazione della storia
nella sua totalità e precisamente un’interpretazione della storia come
decadenza (v. STORIA). Quando, nella filosofia moderna, viene ripresa da Vico,
essa perde il suo carattere pessimistico per assumere un carattere ottimistico
e progressivo. Inoltre il fondamento della divisione delle E. muta: non è più
storico-mitico, come ancora nel racconto platonico, ma antropologico: ciascuna
E. segnerebbe il prevalere di una particolare facoltà umana sulle altre.
Secondo Vico, infatti, la successione delle E. è determinata dal fatto che «gli
uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato
e commosso, finalmente riflettono con mente pura » (Sc. Nuova, 1744, degn. 53).
In base a questo principio si differenziano e si succedono le varie età. Ognuna
di esse è contrassegnata da una specifica natura umana: quella divina è robusta
di sensi e debole di raziocismo; quella eroica è nobile e saggia; quella umana
intelligente e modesta, benigna e ragionevole, «la quale riconosce per leggi la
coscienza, la ragione, il dovere ». A queste tre specie di natura corrispondono
poi tre specie di costumi, di diritti naturali, di governi, di lingue, ecc. (v.
STORIA, 3 d). Nel Romanticismo, Fichte ha ripreso la concezione delle ETÀ E.
del mondo. Nello scritto intitolato Caratteri fondamentali dell’E.
contemporanea (1806), Fichte distinse cinque E. della storia umana. La prima
sarebbe quella dell’istinto, in cui la ragione governa la vita senza la
partecipazione della volontà. La seconda è l’E. dell’autorità (o degli eroi) in
cui l’istinto della ragione si esprime in personalità potenti che impongono la
ragione con la forza. La terza è la liberazione dall’istinto e la rivolta
contro l’autorità. La quarta è quella in cui la ragione riconosce la propria
legge nel libero arbitrio e accetta una disciplina universale. La quinta è
quella in cui la legge della ragione cessa di essere un semplice ideale per
diventare pienamente reale nel mondo giustificato e santo, nell’autentico regno
di Dio (Werke, VII, pag. 7 sgg.). Più semplicemente Hegel distingueva tre E.
corrispondenti al progressivo svegliarsi dello spirito alla consapevolezza del
suo potere creativo. Nella prima E. lo spirito «è ancora tuffato nella
naturalità » per cui «uno solo è libero ». È questa l’E. rappresentata dal
mondo orientale. La seconda E. è quella in cui lo spirito viene a conoscenza,
ma solo imperfettamente e parzialmente, della sua libertà per cui in essa
«alcuni sono liberi». Questa seconda E. è rappresentata dal mondo greco-romano.
Nella terza E. lo spirito si eleva « dalla libertà particolare alla pura
universalità (l’uomo come tale è libero) all’autocoscienza e all’autosentimento
dell’essenza della spiritualità » Questa E. è rappresentata dal mondo cristiano-germanico
(Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pag. 136-37). Una divisione delle E. si può
vedere anche nella «legge dei tre stati» enunciata da Augusto Comte nel Corso
di filosofia positiva (1830): legge secondo la quale « ciascuna delle nostre
concezioni principali, ciascuna branca delle nostre conoscenze, passa
successivamente per tre stati teorici differenti: lo stato teologico o
fittizio; lo stato metafisico o astratto; lo stato scientifico 0 positivo ».
Questi stati ricorrerebbero, ugualmente, secondo Comte, nello sviluppo
dell’individuo; il quale sarebbe « teologo nell’infanzia, metafisico nella
giovinezza e fisico nella virilità » (Phil. pos., I, Jez. I, $ 2). Con il
progredire della conoscenza storica nel mondo moderno e contemporaneo la
nozione di E. caratterizzabili con pochi tratti mitici o antropologici e
succedentisi secondo una regola costante è caduta in disuso: essa infatti
contrasta con l’indirizzo individuante della moderna indagine storica. Si fa
invece frequente riferimento alla nozione di epoca (v.) che è quella di un
periodo storico caratterizzato da un avvenimento immanente e fondamentale.
Nella nozione di E., quello che importa è la legge secondo cui le E. si
succedono. Nella nozione di epoca, quello che importa è l'avvenimento che dà il
carattere al periodo. Le due nozioni andrebbero tenute distinte. Non sempre
tuttavia lo sono nell’uso corrente; e si parla di «E.» della tecnica mentre si
dovrebbe parlare di «epoca » della tecnica. ETERE (gr. al0n6; lat. Aether; ingl. Ether; franc.
Éther; ted. Ether). Il termine, che Empedocle usò
(Fr., 100.5, Diels) come equivalente di aria e Anassagora (Fr., 15, Diels) come
equivalente di fuoco, fu adoperato da Aristotele a indicare la sostanza che
compone i cieli, in quanto si differenzia, per la sua ingenerabilità,
incorruttibilità e inalterabilità, dai quattro elementi che costituiscono le
cose sublunari. Aristotele attribuisce l’uso di questo termine, che ritiene il
più adatto ad indicare i cieli come sedi della divinità, ad una tradizione
assai antica. « Gli uomini, egli scrive, volendo indicare che il primo corpo è
alcunchè di diverso dalla terra, dal fuoco, dall’aria e dall’acqua, chiamarono
il più alto luogo con il nome di E., derivato dal fatto che esso ‘corre sempre’
per un’eternità di tempo. Anassagora tuttavia, fraintese malamente il nome,
scambiando l’E. per il fuoco » (De Cuel., I, 3, 270b 20). L’E. fu poi chiamato,
ma non da Aristotele « quinto corpo » o « quinta sostanza » o «quinto elemento»
(P/acit., I, 3, 22; 2, 25, 7; 2, 6, 2). Dell'E. fa menzione nello stesso senso
di Aristotele l’Epinomide attribuito a Platone (981 c, 984 b). Gli Stoici a
loro volta identificarono l’E. con il fuoco di Eraclito, attribuendogli però la
stessa funzione e la stessa dignità che Aristotele. « Più in alto di tutti c’è
il fuoco, che chiamano E., dal quale è costituita sia la prima sfera immobile
dei cieli sia le altre sfere mobili » (Dio. L., VII, 137). Cicerone così
illustrava questa teoria stoica: 4 Dall’E. sorgono innumerevoli astri
fiammeggianti di cui primo è il Sole che tutto illumina con la sua luce
splendente ed è molte volte più grande e più esteso dell'intera Terra, poi gli
altri astri di smisurata grandezza » (De nat. deor., II, 36, 92; Acad., I, 7,
25). La nozione rimane fissata nella tradizione medievale in questi termini,
finchè si credette alla differenza di natura tra sostanza celeste e sostanza
sublunare: differenza che fu per la prima volta negata da Cusano (De docta
ignor., II, 12). Il nome fu riesumato da Fresnel (nei primi decenni dell’800)
per designare un ipotetico mezzo elastico che facesse da supporto alle onde
luminose. L’ipotesi dell’E. è stata mantenuta nella fisica sino a che la teoria
della relatività generale di Einstein l’ha resa inutile. ETERNITÀ (gr.
didiémne, alby; lat. Aeternitas; ingl. Eternity; franc. Éternité; ted.
Ewigkeit). Il termine ha due significati fondamentali: 1° durata indefinita nel
tempo; 2° intemporalità come contemporaneità. La filosofia greca ha conosciuto
entrambi questi significati. Eraclito ha espresso primo, affermando che il
mondo «era da sempre, è e sarà fuoco sempre vivo che si accende a intervalli e
a intervalli si spegne » (Fr., 30, Diels). Parmenide invece ha espresso il
secondo: « L’essere non era nè sarà ma è nel presente tutto insieme, uno,
continuo » (Fr., 8, Diels). Platone ha esplicitamente contrapposto i due
significati: « Della sostanza eterna, egli dice, noi diciamo a torto che era,
che è, e che sarà, mentre ad essa in verità non compete che l’è ed invece l’era
ed il sarà si devono predicare solo della generazione che procede nel tempo»
(Tim., 37 e). Aristotele ha utilizzato entrambi i concetti. Da un lato infatti
il mondo fuori del quale non c’è nè spazio nè vuoto nè tempo abbraccia l’intera
estensione del tempo ed è eterno (De Caelo, I, 9, 279 a 25). L’E. in questo
senso è durata (x\&v). Dall'altro lato, le sostanze immobili, i motori dei
cieli, sono eterni in un altro senso: nel senso di essere fuori del tempo. «
Gli enti eterni (tà «el &vra) in quanto eterni, dice Aristotele, non sono
nel tempo: infatti non sono abbracciati dal tempo nè il loro essere è misurato
dal tempo; il segno di questo è che essi non subiscono affatto l’azione del
tempo, non essendo nel tempo » (Fis., IV, 12, 221b 3). Questa distinzione
aristotelica è rimasta classica. Plotino identificò l’E. («lwv) col modo
d'essere proprio del mondo intellegibile cioè con «ciò che persiste nella sua
identità, che è sempre presente a se stesso nella sua totalità, che non è ora
questo e poi quello ma è, tutto insieme, perfezione indivisibile, come quella
di un punto in cui s’uniscano tutte le linee senza che si spandano al di fuori:
un punto che persista in se stesso nella sua identità e non subisca
modificazioni, che esista sempre nel presente, senza passato nè futuro, ma sia
ciò che è e lo sia sempre » (Enn., III, 7, 3). Plotino ripete a questo
proposito la notazione parmenidea e platonica: eterno è ciò che non era nè sarà
ma soltanto è. S. Agostino impostava la sua analisi del tempo sulla
contrapposizione tra il tempo e l’E. (Conf., XI, 11; De civ. dei, XI, 4, 6). E
Boezio esprimeva correttamente la distinzione tra i due concetti di E.: «Ciò
che subisce la condizione del tempo, egli diceva, anche se, come Aristotele
credette del mondo, non ha nè principio nè fine, e anche se la sua vita si
prolunga nell’infinità del tempo, non ancora tuttavia si può legittimamente
credere eterno. Infatti la sua vita pur essendo infinita non comprende nè
abbraccia la propria intera durata giacchè non comprende e non abbraccia ancora
il futuro e non abbraccia più il passato. Pertanto solo ciò che abbraccia e
possiede ugualmente nella sua totalità la pienezza di una vita senza limiti,
sicchè non gli manchi nulla dell’avvenire e nulla gli sia sfuggito del passato,
solo questo è l’essere che si deve ritenere eterno: necessariamente esso si
possiede interamente nel presente e possiede nel presente l’infinità del tempo
» (Phil. Cons., V, 6, 6-8). Dopo Boezio la distinzione è diventata un luogo
comune della filosofia. S. Tommaso fissava con accuratezza la relativa terminologia.
L’E. come «totale simultaneo e perfetto possesso di una vita senza limiti » è
caratterizzata: 1° dall'assenza del principio e della fine; 2° dall’assenza di
successione in quanto è un eterno presente. La durata (aevum) invece è propria
delle cose che sono soggette al movimento locale e per il resto sono
immutabili, come è il cielo; ed è perciò qualcosa di intermedio fra l’E. e il
tempo (S. 7A., I, q. 10, a. 1, 5). Questo concetto dell’E. è rimasto proprio
anche del razionalismo moderno. Spinoza identifica l’E. con l’esistenza stessa
della Sostanza in quanto implicita nell’essenza di essa e quindi necessaria. E
chiarisce: « Una tal esistenza in quanto verità eterna è concepita come
l’essenza della cosa; e però essa non può essere spiegata per mezzo della
durata o del tempo, anche se la durata si concepisca senza principio e senza
fine » (£r., I, def. 8, chiar.). Pertanto concepire le cose sotto l’aspetto
dell’E. (sub specie aeternitatis) significa concepirle come manifestazioni
dell’essenza divina e derivate necessariamente dalla sua natura (/bid., V, 30).
Leibniz afferma, contro Locke, la precedenza di una «idea dell’assoluto » che
sarebbe a fondamento della nozione dell’E. (Nouv. Ess., II, 14, 27). E l’intera
filosofia hegeliana è concepita dal punto di vista di un’E. così intesa. Hegel
nega che l’E. possa essere intesa negativamente come astrazione o negazione del
tempo o come se venisse dopo il tempo (Enc., $ 258). L'E. è per lui il forum
simul delle determinazioni dell’Idea. « L’Idea, eterna in sè e per sè, si
attua, si produce e gode se stessa eternamente come spirito assoluto » (/bid.,
$ 577). « Intemporalità » e «presente eterno» sono le espressioni che più
frequentemente ricorrono, anche nella filosofia contemporanea, quando si avvale
della nozione di eternità. L’ultima espressione è quella che ricorre, per es.,
nell'opera di Lavelle, Il tempo e l’E. (1945) come in molti altri idealisti e
spiritualisti contemporanei. Già però McTaggart aveva osservato che concepire
l’E. come « eterno presente » è una metafora non del tutto appropriata perchè
significa fare pur sempre riferimento al tempo, dato che il presente è una
parte del tempo e suppone passato e futuro. E aveva per suo conto proposto di
considerare l’eterno come situato nel futuro, alla fine o alla consumazione dei
tempi (in Mind, 1909, pag. 355). Ed è infatti oggi abbastanza chiaro che la
concezione 2 dell’E., quale è stata espressa, con impressionante uniformità, da
Parmenide a noi, non è altro che un’imagine ridotta del tempo: è il tempo stesso
ridotto ad una delle sue determinazioni e precisamente alla contemporaneità (il
totum simul) che, come oggi tutti sanno, è non solo temporalità ma temporalità
misurabile. Quanto alla concezione dell’E. come aevum, cioè come durata
temporale indefinita, essa va incontro a quelle obiezioni che già Kant esponeva
nella sua critica alla cosmologia razionale del xviri secolo (v. COSMOLOGIA).
ETEROGENEITÀ, LEGGE DI. V. OmoGENEITÀ. ETEROGENESI DEI FINI (ted. Hererogonie
der Zwecke). Wundt ha chiamato col nome solenne di «legge dell’E. dei fini»
l'osservazione non molto peregrina che i fini che la storia realizza non sono
quelli che gli individui o le comunità si propongono, ma sono piuttosto la
risultante della combinazione, del rapporto e del contrasto delle volontà umane
tra loro e con le condizioni oggettive (Ethik, 1886, pag. 266; System der
Phil., 1889, I, pag. 326; II, pag. 221 sgg.). Si può ricordare che Vico aveva
espresso lo stesso concetto in una pagina famosa: « Perchè pur gli uomini hanno
essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di
questa Scienza, dappoichè disperammo di ritruovarla da filosofi e da filologi);
ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed
alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi
uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini
più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa
Terra » (Sc. Nuova, 1744, Concl. dell’opera). ETEROLOGICO. V. AuroLocico.
ETERONOMIA. V. AUTONOMIA. ETEROZETESI (lat. Heterozetesis). Lo stesso che
/gnoratio Elenchi (v.). ETICA (gr. tà }0wd; lat. Erhica; ingl. Ethics; franc.
Éthique; ted. Erhik). In generale, la scienza della condotta. Esistono due concezioni
fondamentali di questa scienza e cioè: 1 quella che la considera come scienza
del fine cui la condotta degli uomini dev’essere indirizzata e dei mezzi per
raggiungere tale fine; e deduce sia il fine che i mezzi dalla natura dell’uomo;
2* quella che la considera come la scienza del movente della condotta umana e
cerca di determinare tale movente in vista di dirigere o disciplinare la
condotta stessa. Queste due concezioni, che si sono variamente intrecciate
nell’antichità e nel mondo moderno, sono profondamente diverse e parlano due
linguaggi diversi. La prima parla infatti il linguaggio dell’ideale a cui
l’uomo è indirizzato dalla sua natura, e per conseguenza della « natura » o
«essenza » 0 « sostanza » dell’uomo. La seconda parla invece dei « motivi + o
delle «cause» della condotta umana o delle ‘ forze » che la determinano e
pretende di attenersi al riconoscimento dei fatti. La confusione tra questi due
punti di vista eterogenei è stata resa possibile dal fatto che entrambi si
presentano abitualmente nella forma apparentemente identica di una definizione
del bene. Ma l’analisi della nozione di bene (v.) mostra sùbito l’ambiguità che
essa cela: giacchèbene può significare o ciò che è (per il fatto che è) o ciò
che è oggetto di desiderio, di aspirazione, ecc.: e questi due significati
corrispondono esattamente alle due concezioni dell’E. sopra distinte. Difatti è
propria della concezione 18 la nozione del bene come realtà perfetta o
perfezione reale, mentre è propria della concezione 23 la nozione del bene come
oggetto di appetizione. Sicchè quando si afferma «Il bene è la felicità», la
parola «bene» ha un significato completamente diverso da quello che essa trova
nell’affermazione «Il bene è il piacere ». La prima asserzione (nel senso in
cui essa è fatta, per es., da Aristotele e da S. Tommaso) significa: «La
felicità è il fine della condotta umana, deducibile dalla natura razionale
dell’uomo »j mentre la seconda asserzione significa: «Il piacere è il movente
abituale e costante della condotta umana ». Poichè il significato e la portata
delle due asserzioni sono pertanto completamente diversi, la distinzione tra
etiche del fine ed etiche del movente deve essere tenuta continuamente presente
nelle discussioni sull’etica. Tale distinzione, mentre spacca in due la storia
dell’E., consente di riconoscere come irrilevanti molte delle discussioni di cui essa è tessuta e che non
hanno altra base se non la confusione fra i due significati 1° Entrambe le
dottrine etiche elaborate da Platone, cioè sia quella che trova la sua migliore
espressione nella Repubblica sia quella che trova la sua migliore espressione
nel Filebo, si inscrivono nella prima delle concezioni che abbiamo distinto.
L'E. esposta nella Repubblica è infatti un’E. delle virtù; e le virtù sono funzioni
dell'anima (Rep. I, 353b) le quali sono determinate dalla natura dell'anima e
dalla divisione delle sue parti (/bid., IV, 434 e). Il parallelismo tra le
parti dello Stato e le parti dell'anima consente a Platone di determinare e
definire le virtù particolari nonchè quella che le comprende tutte: la
giustizia come rispondenza di ogni parte alla sua funzione (/bid., 443 d).
Analogamente, l’E. del Filebo procede in primo luogo a definire il bene come
forma di vita mista di intelligenza e di piacere; e consiste nel determinare la
misura di questa mescolanza (Fil., 27 d). L'E. di Aristotele è poi il prototipo
stesso di questa concezione. Aristotele procede a determinare il fine della
condotta umana (la felicità) ricavandolo dalla natura razionale dell’uomo (Er.
Nic., I, 7); e procede poi a determinare le virtù che sono la condizione della
felicità. A sua volta l’E. degli Stoici, con la sua massima fondamentale del «
vivere secondo ragione» intende dedurre le regole della condotta dalla natura
razionale e perfetta della realtà (StoBEO, Ec/., II, 76, 3; Dios. L., VII, 87).
Il misticismo neoplatonico pose come fine della condotta umana il ritorno
dell’uomo al suo principio creatore e l’immedesimarsi con esso. Secondo
Plotino, questo ritorno è «la fine del viaggio» dell’uomo; è un allontanamento
da tutte le cose esterne, «la fuga di uno solo verso uno solo» cioè dell’uomo
nel suo isolamento verso l'Unità divina (Enn., VI, 9, 11). Per quanto diverse
siano le dottrine cui si è fatto cenno, nelle loro interne articolazioni, la
loro impostazione formale è identica. Esse procedono: a) a determinare la
natura necessaria dell’uomo; b) a dedurre da tale natura il fine cui dev'essere
indirizzata la sua condotta. Tutta l’E. medievale si mantiene fedele a questo
schema. Così, ad es., l’intera E. di S. Tommaso è dedotta dal principio « Dio è
l’ultimo fine dell’uomo» (S. 7h., II 2, q. 1, a. 8): principio dal quale si
deduce la dottrina della felicità e quella della virtù. Si può scorgere una
istanza critica contro questa impostazione nel punto di vista di Duns Scoto e
molti Scolastici del ’300: che le norme morali sono fondate sul puro e semplice
comando divino, tranne appunto la norma che impone di ubbidire a Dio, che
sarebbe la sola « naturale » (Op. Ox., III, d. 37, q. 1; cfr. OCKHAM, In Sent.,
II, q. SH). E difatti questo appello all’arbitrio divino è il risultato della
riconosciuta impossibilità di dedurre dalla natura dell’uomo il fine ultimo
della sua condotta (Op. Ox., IV, d. 43, q. 2, n. 27, 32). Ma con ciò non è
tuttavia aperta alla ricerca etica un’alternativa diversa. Nella filosofia
moderna i Neoplatonici di Cambridge riprendono la concezione stoica di un
ordine dell’universo che vale anche a dirigere la condotta dell’uomo; e
pertanto insistono sull'innatezza delle idee morali come in generale di tutte
le idee generali o direttive di cui l’uomo è in possesso (CupwortH, The True
Intell. System, 1678, I, 4; MORE, Enchiridion, 1679, III). E la filosofia
romantica ha dato la forma più radicale a questa concezione dell’etica. Fichte
esige che l’intera dottrina morale sia dedotta dalla « autodeterminazione
del1’Io » (Sitrenlehre, Intr., $ 9). Il fine della morale è perciò da lui posto
nell’adeguamento dell’io empirico all’Io infinito, adeguamento che non è mai
completo e perciò provoca un progresso all’infinito, la progressiva liberazione
dell’io empirico dai suoi limiti (/bid., in Werke, II, pag. 149). Secondo
Hegel, il fine della condotta umana, che è nello stesso tempo la realtà nella
quale tale condotta trova la 362 sua integrazione e la sua perfezione, è lo
Stato. Perciò l’E. è per Hegel una filosofia del diritto. Lo Stato è «la
totalità etica », Dio che si è realizzato nel mondo (Fil. del Dir., $ 258,
Zusatz). Lo Stato è il culmine di quella che Hegel chiama « eticità » (Siftlichkeit)
cioè la moralità che trova corpo e sostanza in istituzioni storiche che la
garantiscono; mentre la « moralità » (Moralitàt) di per se stessa è
semplicemente intenzione o volontà soggettiva del bene. Ma a sua volta il bene
non è altro che « l’essenza della volontà nella sua sostanzialità e
universalità » ovvero «la libertà realizzata, l’assoluto scopo finale del mondo
» (/bid., $ 139-42): cioè lo Stato stesso. Sicchè si può dire che per Hegel la
moralità non è che l’intenzione o la volontà soggettiva di realizzare ciò che
si trova realizzato nello Stato. Il concetto dello Stato è il punto di partenza
e il punto di arrivo dell’E. di Hegel. Conforme all’E. tradizionale del fine è
l’E. di Rosmini, secondo la quale il bene si identifica con l’essere, sicchè la
massima fondamentale della condotta si può formulare così: « Volere o amare
l’essere ovunque lo si conosca, secondo l’ordine che esso presenta
all’intelligenza » (Princ. della scienza morale, ed. naz., pag. 78). Ma sia che
la realtà si definisca come Essere sia che si definisca come Spirito o
Coscienza, la struttura delle dottrine morali che pretendono dedurre la morale
dal fine mostrano una grande uniformità di procedimenti e di conclusioni. Si
considerino, per es., nella filosofia contemporanea, l’E. di Green e quella di
Croce. Secondo Green, la Coscienza infinita, cioè Dio, è ab aeterno tutto ciò
l’uomo ha la possibilità di diventare: e cioè il Bene o Fine supremo che è
l’oggetto della buona volontà umana: bene che la ragione ha il compito di concepire
e di porre come a fondamento della sua legge (Prolegomena to Ethics, 3* ediz.,
1890, pag. 198, 214). Volere il bene significa perciò volere la Coscienza
assoluta, cercare di realizzare quello che è presente in essa. Allo stesso modo
per Croce l’attività etica è « volizione dell’universale »; ma l’universale «è
lo Spirito, è la Realtà in quanto è veramente reale, cioè in quanto unità di
pensiero e volere; è la Vita in quanto è còlta nella sua profondità come unità
stessa; è la Libertà, se una realtà così concepita è perpetuo svolgimento,
creazione, progresso » (Filosofia della pratica, 1909, pag. 310). Agire
moralmente significa perciò volere lo Spirito infinito, assumerlo come Fine:
un'impostazione dell’E. che (come quella di Fichte, Hegel, Green) non si
distingue dall’E. tradizionale che (come quella di Platone, Aristotele, S.
Tommaso e Rosmini) fa appello alla Realtà o all’Essere. Una forma più complessa
e moderna della stessa E. del fine si può scorgere nella dottrina di Bergson.
ETICA Bergson ha distinto una morale chiusa e una morale aperta. La morale
chiusa è ciò che s’intende comunemente con questo termine. Essa corrisponde nel
mondo umano a ciò che è l’istinto in certe società animali: tènde cioè al fine
di conservare le società stesse. « Supponiamo un istante, dice Bergson, che la
natura abbia voluto all’altra estremità della linea [cioè all’estremità della
linea evolutiva dell’intelligenza in quanto diversa da quella dell’istinto]
ottenere società in cui una certa latitudine fosse lasciata alla scelta
individuale: essa avrà fatto sì che l’intelligenza ottenga qui risultati
paragonabili, quanto alla loro regolarità, a quelli dell’istinto nell’altra:
avrà fatto ricorso ad abitudini. Ciascuna di queste abitudini, che si potranno
chiamare ‘morali” sarà contingente; ma il loro insieme, cioè l’abitudine di
contrarre abitudini, essendo alla base stessa delle società, avrà una forza
paragonabile a quella dell’istinto sia come intensità che come regolarità »
(Deux Sources, I; trad. ital., pag. 23). Dall’altro lato però c’è la morale dei
profeti e degli innovatori, dei mistici e dei santi. Questa è la morale in
movimento, fondata sull’emozione, sull’istinto, sull’entusiasmo: una morale che
è un impulso di rinnovamento coincidente con lo stesso slancio creatore della
vita. Questa dualità di forze è a fondamento di ogni morale secondo Bergson. «
Pressione sociale e slancio di amore non sono che due manifestazioni
complementari della vita, normalmente applicate a conservare all’ingrosso la
forma sociale che fu caratteristica della specie umana fin dall’origine, ma
eccezionalmente capaci di trasfigurarla grazie a individui di cui ognuno
rappresenta, come avrebbe fatto l'apparizione di una nuova specie, uno sforzo
di evoluzione creatrice » (/bid., pag. 101). Bergson ha così dedotto
dall’ideale del rinnovamento morale l’esistenza di una forza destinata a
promuovere tale rinnovamento; come ha dedotto dal concetto di una « società
chiusa » la sua nozione della morale corrente. La sua E. pertanto obbedisce
alla classica impostazione dell’E. del fine. Quando nella filosofia
contemporanea la nozione di valore (v.) ha cominciato a sostituire quella di
bene, la vecchia alternativa tra l’E. del fine e l’E. della motivazione ha
assunto una forma nuova. Il valore infatti si sottrae all’alternativa propria
della nozione di bene che può essere interpretata in senso oggettivo (come
realtà) o in senso soggettivo (come termine di appetizione). Il valore possiede
un modo d'essere oggettivo nel senso di poter essere inteso o appreso
indipendentemente dall’appetizione; ma è nello stesso tempo dato in una qualche
forma di esperienza specifica. Il valore viene pertanto costantemente
riconosciuto dotato di tre caratteri: @) l’oggettività; 5) la semplicità, per
cui e indefinibile e indescrivibile nel senso in cui lo è una qualità sensibile
elementare; c) la necessità 0 la problematicità. Quest’ultima è per l’appunto
l’alternativa che sostituisce nell'àmbito della nozione di valore quella tra
soggettività e oggettività propria della nozione di bene. Ora le dottrine che
riconoscono la necessità del valore cioè la sua assolutezza, eternità, ecc.,
hanno una stretta parentela con le dottrine etiche tradizionali del fine;
mentre le dottrine che riconoscono la problematicità del valore sono strettamente
imparentate con le dottrine etiche della motivazione. Le dottrine di Scheler e
Hartmann sono tra quelle che affermano la necessità del valore. Scheler ha
elaborato la sua «E. materiale dei valori» proprio allo scopo di rendere l’E.
immune da quel relativismo cui conduce un’E. materiale del bene cioè un’E. che
vede nel bene il semplice oggetto dell’appetizione. Secondo Scheler, le
appetizioni (o aspirazioni o impulsi o desideri) hanno i loro fini in se stesse
cioè «in un contemporaneo o precedente sentimento dei loro componenti
axiologici ». I fini dell’appetizione possono diventare scopi della volontà,
quando vengono rappresentati e scelti e così divengono un dover essere reale,
cioè i termini di un’esperienza oggettiva. Ma i valori sono dati anteriormente
e indipendentemente sia dai fini che dagli scopi e anche sono date
indipendentemente da tali fini e scopi le preferenze dei valori, cioè la loro
gerarchia. « Possiamo infatti, dice Scheler, sentire i valori, anche morali,
nella comprensione degli altri, senza che essi vengano fatti oggetto di
aspirazione o siano immanenti ad una aspirazione. Similmente possiamo preferire
o posporre un valore ad un altro, senza con ciò scegliere tra le aspirazioni
che si dirigono a tali valori. Tutti i valori possono essere dati e preferiti
senza alcuna aspirazione 1 (Formalismus, pag. 32). In altri termini, l’E. non è
fondata nè sulla nozione del bene nè su fini immediatamente presenti alla
aspirazione e su scopi deliberatamente voluti ma sull’intuizione emotiva, immediata
e infallibile dei valori e dei loro rapporti gerarchici; intuizione che è alla
base di ogni aspirazione, desiderio e deliberazione volontaria. Hartmann ha
espresso in modo più scolasticamente chiaro ed efficace la stessa concezione
dell'etica. «C’è, egli dice, un regno di valori sussistente in sè, un autentico
‘ mondo intellegibile * che sta al di là della realtà come al di là della
coscienza, una sfera ideale etica, non costruita, inventata o sognata, ma
effettivamente esistente e afferrabile nel fenomeno del sentimento axiologico,
la quale sussiste accanto a quella ontica reale e a quella gnoseologica attuale
(Erhik, 1926, pag. 156). L’«essere in sè » dei valori sottolinea la loro
indipendenza dalla stessa intuizione axiologica in cui sono dati e perciò la
loro necessità e assolutezza che, nell’intenzione di Hartmann, dovrebbe
sbarrare la strada al «relativismo axiologico di Nietzsche» (/bid., pag. 139).
Tuttavia il « relativismo axiologico di Nietzsche » ha la stessa struttura
formale, cioè la stessa impostazione, dell’E. di Hartmann e in generale dell’E.
tradizionale del fine, perchè si fonda anch’esso su una gerarchia assoluta di
valori. Scheler e Hartmann ritengono che tale gerarchia, come i valori stessi,
sia completamente indipendente dalla scelta umana, e che ogni scelta anzi la
presupponga, sia o no ad essa conforme. Ma questa è precisamente anche la
credenza di Nietzsche. Soltanto che, per Nietzsche, tale gerarchia è diversa: è
una gerarchia dei valori vitali, dei valori in cui s’incarna la Volontà di
Potenza. «I valori morali, dice Nietzsche, hanno occupato fino ad oggi il rango
superiore; chi potrebbe dubitare di essi? Ma togliamo a questi valori il loro
posto e muteremo tutti i valori: capovolgeremo il principio della loro
gerarchia precedente» (Wille zur Macht; trad. franc. Bianquis, III, 503).
L’immoralismo di Nietzsche, il suo « relativismo axiologico», per il quale egli
si fa critico della morale corrente e vede in essa forme camuffate di egoismo
ed ipocrisia, è semplicemente la proposta di una nuova tavola dei valori
fondata sul principio dell’accettazione entusiastica della vita, sulla
preminenza dello spirito dionisiaco. È proprio per questo che Nietzsche intende
sostituire alle virtù della morale tradizionale le nuove virtù în cui si esprime
la volontà di potenza. È virtù ogni passione che dice sì alla vita ed al mondo:
«la fierezza, la gioia e la salute, l’amore sessuale, l’inimicizia e la guerra,
la venerazione, le belle attitudini, le buone maniere, la volontà forte, la
disciplina dell’intellettualità superiore, la volontà di potenza, la
riconoscenza verso la terra e verso la vita; tutto ciò che è ricco e vuol dare,
vuol gratificare la vita, dorarla, eternizzarla e divinizzarla » (/bid., $
479). Nietzsche ha dedotto così da quella che egli ha ritenuta la
narradell’uomo, cioè dalla volontà di potenza, la tavola dei valori morali, che
dovrebbero indirizzare alla realizzazione della stessa volontà di potenza in un
mondo di superuomini. La struttura della sua dottrina non è perciò diversa da quella
di molte altre che, utilizzando lo stesso procedimento, tendono a conservare e
giustificare le tavole dei valori tradizionali, deducendole dalla natura
dell’uomo o dalla struttura dell'essere. 2° La seconda concezione fondamentale
dell’E. è quella che si configura come una dottrina del movente della condotta.
La caratteristica di questa concezione è che in essa il bene non viene definito
in base alla sua realtà o perfezione ma solo come oggetto della volontà umana o
delle regole che la dirigono. Sicchè mentre nella prima concezione le norme
sono derivate dall’ideale che si assume come proprio dell’uomo (la perfezione
della vita razionale secondo Aristotele, lo Stato secondo Hegel, la società
chiusa o aperta secondo Bergson, ecc.); nella seconda concezione si mira
anzitutto a determinare il movente dell’uomo, cioè la regola alla quale egli
ubbidisce in linea di fatto; e conseguentemente si definisce come bene ciò a
cui si tènde in virtù di quel movente o che è conforme alla regola in cui esso
si esprime. Così quando Prodico formulava la sua morale nella forma di
proposizioni condizionali o imperativi ipotetici, dava luogo a un’E. del
movente che è tra le prime che siano state proposte. Egli diceva: «Se vuoi che
gli dèi ti siano benevoli, devi venerare gli dèi. Se vuoi essere amato dagli
amici, devi beneficare gli amici. Se desideri essere onorato da una città, devi
essere utile alla città. Se aspiri ad essere ammirato da tutta la Grecia, devi
sforzarti di far bene alla Grecia, ecc.» (Senor., Memor., II, i, 28). Allo
stesso modo un’E. del movente è quella a cui mira Protagora quando riconosce
che il rispetto reciproco e la giustizia sono le condizioni per la
sopravvivenza dell’uomo. Questo è il senso del mito di Prometeo, che Platone fa
esporre a Protagora nel dialogo omonimo (Pror., 322 c). E lo scritto sofistico
che va sotto il nome di Anonimo di Giamblico ribadisce questo punto di vista. «
Se anche ci fosse, come non c’è, un uomo invulnerabile, insensibile, con un
corpo e un’anima d’acciaio, solo alleandosi alle leggi e al diritto e
rafforzandole e usando la sua forza per esse e per ciò che le favorisce, egli
potrebbe salvarsi, giacchè altrimenti non potrebbe resistere » (Anon. Jambl.,
6, 3). In queste formulazioni, ciò che si ténde a mettere in luce è il
meccanismo dei moventi che sono a fondamento delle regole del diritto e della
morale: per sopravvivere, l'uomo si conforma a tali regole e non può agire
altrimenti. In tali formulazioni il movente della condotta umana è il desiderio
o la volontà di sopravvivere. In altre formulazioni del genere, questo movente
è il piacere. Aristippo affermava che solo il piacere è desiderato di per se
stesso; e vedeva la conferma di questo nel fatto che sin da bambini gli uomini,
senza deliberata volontà, cercano il piacere e quando lo hanno raggiunto non
cercano altro, mentre fuggono il dolore che ne è l’opposto (Diog. L., II, 88).
Lo stesso significato di semplice riconoscimento di quello che è, in linea di
fatto, il movente della condotta umana ha il principio dell’E. di Epicuro: «
Piacere e dolore sono le due affezioni che si ritrovano in ogni animale, l’una
favorevole l’altra contraria, attraverso le quali si giudica ciò che si deve
scegliere e ciò che si deve fuggire » (Diog. L., X, 34).Questa concezione
dell’E. è rimasta assente per tutto il Medioevo e viene ripresa soltanto nel
Rinascimento. Lorenzo Valla la ripresentò per primo nel De voluptate,
affermando che il piacere è l’unico fine dell’attività umana e che la virtù non
consiste in altro che nella scelta del piacere (De vol., II, 40). E Telesio
ripresentava l’altra alternativa tradizionale della stessa concezione,
derivando le norme dell’E. dal desiderio, che è in ogni essere, della propria
conservazione (De rer. nat., IX, 2). In modo rigoroso e sistematico Hobbes
poneva questo stesso principio a fondamento della morale e del diritto. «Il
primo dei beni, egli scrive, è la conservazione di sè. La natura infatti ha
provveduto perchè tutti desiderino il proprio bene; ma affinchè possano essere
capaci di questo, bisogna che desiderino la vita, la salute e la maggiore
sicurezza possibile di queste cose per il futuro. Di tutti i mali invece il
primo è la morte, specialmente se si accompagna con il tormento; giacchè i mali
della vita possono essere tanti che, se non si prevede vicina la loro fine,
fanno annoverare la morte tra i beni» (De hom., XI, 6). In questa tendenza alla
propria conservazione e in generale al conseguimento di tutto ciò che giova,
Spinoza vide la stessa azione necessitante della Sostanza divina. «La ragione,
egli dice, non richiede nulla contro la natura, ma richiede di per sè, innanzi
tutto, che ognuno ami se stesso, ricerchi l’utile che sia veramente tale per
lui e desideri tutto quello che conduce l’uomo a una perfezione maggiore; e in
modo assoluto che ciascuno si sforzi, per quanto è in lui, di conservare il
proprio essere. Il che è, di necessità così vero, quanto è vero che il tutto è
maggiore della parte + (Et., IV, 18, scol.). Locke e Leibniz erano d’accordo
sullo stesso fondamento dell’etica. Diceva Locke: « Poichè Dio ha messo un
legame indissolubile fra la virtù e la pubblica felicità, e ha reso la pratica
dellavirtù necessaria alla conservazione della società umana e visibilmente
vantaggiosa per tutti coloro con cui hanno a che fare le persone dabbene, non
bisogna meravigliarsi se ciascuno vuole non solamente approvare queste regole,
ma altresì raccomandarle agli altri, essendo persuaso che, se le osserveranno,
ne verranno vantaggi a lui stesso » (Saggio, I, 2, 6). E Leibniz a sua volta
riconosceva come fondamento della morale il principio «Seguire la gioia ed
evitare la tristezza », ritenendolo tuttavia affidato più all’istinto che alla
ragione (Nouv. Ess., I, 2, 1). Come si vede, l’E. del ’600 e del *700 manifesta
un alto grado di uniformità: non solo essa è una dottrina del movente ma anche
la sua oscillazione fra la «tendenza alla conservazione» e la «tendenza al
piacere» come base della morale non implica una diversità radicale giacchè il
piacere stesso non è che l’indice emotivo d’una situazione favorevole alla
conservazione (v. EMozioNE). Ciò con cui una E. siffatta è in opposizione
radicale, è l’E. del fine, cioè l'’E. nella sua impostazione tradizionale
platonico-aristotelico-scolastica. La caratteristica fondamentale della
filosofia morale inglese del °700, la quale ha un’importanza tutta particolare
nella storia dell’E., consiste nell’aver portato alla luce e nell'aver assunto
come tema principale di discussione per l'appunto il contrasto tra l’R. del
movente e l’E. del fine: un contrasto che apparve come quello tra ragione e
sentimento. Dice Hume: « C°è una controversia nata da poco, molto più degna di
esame, intorno ai fondamenti generali della morale: se essi cioè siano derivati
dalla ragione o dal senti mento: se giungiamo alla loro conoscenza per via di
un séguito di argomenti e di induzioni o per via di un sentimento immediato e
di un fine senso interiore » (Ing. Conc. Morals, I). Hume afferma che il primo
ad accorgersi di questa distinzione è stato Lord Shaftesbury; e in realtà Shaftesbury
parlò di un senso morale che è una specie di istinto naturale o divino,
specificazione nell’uomo del principio d’armonia che regola l’universo
(Caratteri stiche di uomini, maniere, opinioni e tempi, 1711). Già Hutchinson
interpretava il senso morale come tendenza diretta a realizzare «la massima
felicità del maggior numero possibile di uomini » (Ricerca sulle idee di
bellezza e di virtà, 1725, III, 8): una formula che sarà fatta propria da
Beccaria e da Bentham. E fu Hume a trovare la parola che esprimeva questo nuovo
indirizzo: il fondamento della morale è l’urilità. In altri termini l’azione
buona è quella che procura « felicità e soddisfazione» alla società; e
l’utilità piace perchè risponde a un bisogno o tendenza naturale: quello che
inclina l’uomo a promuovere la felicità dei suoi simili (7g. Conc. Morals, V,
2). La ragione e il sentimento entrano perciò egualmente nella morale, secondo
Hume: «La ragione ci istruisce sulle diverse direzioni dell’azione, l’umanità
ci fa stabilire la distinzione a favore di quelle che sono utili e benefiche »
(/bid., App. I. Il sentimento di umanità, cioè la tendenza a godere della
felicità del prossimo, è perciò, secondo Hume, il fondamento della morale cioè
il movente fondamentale della condotta umana. Alcuni anni più tardi Adamo Smith
chiamerà simpatia questo stesso sentimento in quanto è proprio di uno
spettatore imparziale che guardi e giudichi la propria e altrui condotta (The
Theory of Moral Sentiments, 1759, III, 1). Che la dottrina morale di Kant abbia
voluto inserirsi proprio in questa tradizione ed essere una dottrina del
movente, non del fine, risulta chiaro dal fatto che essa risponde alle
caratteristiche fondamentali di una dottrina del movente. Difatti in primo
luogo Kant ritiene che «il concetto del bene e del male non dev'essere
determinato prima della legge morale (di cui apparentemente dovrebbe essere il
fondamento) ma soltanto dopo di essa e attraverso di essa » (Crit. R. Prat., I,
1, 3). Questo vuol dire che Kant condivide la concezione 2 del bene, che
corrisponde a un’E. del movente. In secondo luogo è appunto in base ai moventi
(Bestimmungsgriinde) che Kant classifica le diverse concezioni fondamentali del
principio della moralità (Ibid., I, 1, $ 8, nota 2). In terzo luogo, la legge
morale è considerata da Kant come un fatto (Factum) perchè «non si può dedurre
da precedenti dati della ragione, per es., dalla coscienza della libertà » ma
s'impone per se stessa come un sic volo, sic iubeo (Ibid., $ 7). In tal modo
Kant ha trasferito dal «sentimento » alla « ragione » il movente della
condotta, utilizzando l’altro corno del dilemma proposto dai moralisti inglesi.
Con questo ha voluto garantire la categoricità della norma morale cioè
quell’assolutezza del comando per cui essa si distingue dagli imperativi
ipotetici delle tecniche e della prudenza. Per questa esigenza l’E. kantiana
condivide indubbiamente con la concezione 1 dell’E., la preoccupazione
fondamentale di ancorare la regola della condotta alla sostanza razionale
dell’uomo. Ma se si prescinde da questa preoccupazione assolutistica (che va
messa sul conto del «rigorismo » kantiano), l'E. di Kant si presenta assai
affine a quella dei moralisti inglesi del '700 (verso i quali d'altronde Kant,
negli scritti precritici, non ha celato le sue simpatie) non solo nella sua
impostazione fondamentale ma anche nei suoi risultati. Se il sentimento, cui si
appellavano i moralisti inglesi era la tendenza alla felicità altrui, la
ragione cui si appella Kant è l’esigenza di agire secondo una massima che gli altri
possono far propria. Per quanto questa formula possa apparire più rigorosa, e
nello stesso tempo più astratta, di quelle adoperate dai filosofi inglesi, il
suo significato è lo stesso. Ciò che l’una e le altre intendono suggerire come
principio o movente della condotta è il riconoscimento dell’esistenza di a/ri
uomini (o come voleva Kant di altri «esseri razionali +) e l’esigenza di
comportarsi nei loro confronti sulla base di questo riconoscimento. La formula
kantiana dell’imperativo per la quale si deve trattare l'umanità, nella propria
persona come nell’altrui, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo, non
è che un’altra espressione di questa stessa esigenza, che i moralisti inglesi
chiamavan « senso morale » o «senso di umanità +». Sfortunatamente, gli
sviluppi che la filosofia morale di Kant ha subito da Fichte in poi hanno fatto
leva più frequentemente sul suo armamentario dogmatico e assolutistico anzichè
sulla sua impostazione fondamentale e sulla sostanza dei suoi insegnamenti
morali. Tali insegnamenti, come l’impostazione da cui dipendono, sono in
accordo con l’E. settecentesca, cioè con l’indirizzo morale dell’Illuminismo;
ma non è in accordo con tale indirizzo la contrapposizione stabilita da Kant
fra il mondo morale e il mondo naturale e perciò tra l’E. e la scienza della
natura. Questo contrasto deriva alla dottrina di Kant proprio dall’armamentario
assolutistico della sua E. cioè da quell’aspetto per cui essa divenne la
creatura prediletta dei metafisici moralisti dell’800 e il pretesto per
innumerevoli (e inoperanti) disquisizioni intorno all’assolutezza del dovere e
all’accesso, che esso consentirebbe, a una Realtà superiore incondizionata
(quella del « noumeno +) senza nessun rapporto con quella fenomenica e
condizionata della natura. Ancora oggi, nell’E. di Kant, amici e avversari
vedono, il più delle volte, esclusivamente questo aspetto: i primi per
esaltarla come l’ancoraggio sicuro di tutte le certezze concernenti la vita
morale, i secondi per condannarla come il baluardo delle illusioni metafisiche
nel campo morale. Ma una considerazione di quest’E. che si sottragga a tali
alternative e la scorga nel quadro dell’E. settecentesca, di cui condivise
l’impostazione e che pretese fondare con necessità rigorosa, consente forse una
più adeguata valutazione di essa. Può infatti aprire la via ad una
utilizzazione delle analisi kantiane in vista di una impostazione dell’E. come
tecnica della condotta, indipendente da presupposti metafisici. Nel frattempo,
l’E. del movente assumeva, nel clima positivistico, la pretesa di valere come
scienza esatta della condotta. Già Helvétius diceva: « Ho creduto che si deve
trattare la morale come tutte le altre scienze e fare una morale come una
fisica sperimentale » (De l’esprit, 1758, I, pag. 4). Ma questa pretesa
caratterizza soprattutto l’utilitarismo dell’800 che ha il suo caposcuola in
Bentham. Secondo Bentham, i soli fatti su cui si possa far leva nel dominio
morale sono i piaceri e i dolori. La condotta dell’uomo è determinata
dall’attesa del piacere o del dolore; e questo è l’unico possibile motivo di
azione. Su questi fondamenti la scienza della morale diventa esatta come la
matematica, sebbene sia assai più intricata ed estesa (/ntroduction to the
Principles of Morals and Legislation, 1789, in Works, I, pag. V). Da questo
punto di vista, coscienza, senso morale, obbligazione morale sono concetti
fittizi o «non entità». La realtà che tali concetti celano è il calcolo dei
piaceri e dei dolori sul quale riposa il comportamento morale dell’uomo: calcolo
di cui Bentham volle stabilire i princìpi, fornendo la tavola completa dei
moventi di azione, tavola che doveva servire come guida per ogni futura
legislazione. In realtà l’opera di Bentham ispirò l’azione riformatrice del
liberalismo inglese e ancor oggi i suoi principi rimangono incorporati nella
dottrina del liberalismo politico. L’utilitarisjmo di Giacomo Mill e di
Giovanni Stuart Mill non è che la difesa, l’illustrazione delle tesi
fondamentali di Bentham. Il positivismo si ispirò allo stesso punto di vista:
la morale dell’altruismo, di cui si fece banditore Comte e che ha il suo
principio nella massima «Vivere per gli altri », è affidata anch'essa, quanto
alla sua realizzazione, a istinti simpatici che, secondo Comte, l’educazione
può sviluppare gradualmente sino a renderli predominanti sugli istinti egoisti
(Catéchisme positiviste, 1852, pag. 48). L’E. biologica di Spencer fa proprie
queste tesi. Spencer vede nella morale l’adattamento progressivo dell’uomo alle
sue condizioni di vita. Ciò che all'uomo singolo appare come dovere od
obbligazione morale è il risultato delle esperienze ripetute e accumulate
attraverso il succedersi di innumerevoli generazioni: è l’insegnamento che tali
esperienze hanno fornito all'uomo nel suo tentativo di adattarsi sempre meglio
alle sue condizioni vitali. Spencer prevede anche una fase in cui le azioni più
elevate, richieste per lo svolgimento armonico della vita, saranno fatti così
comuni come lo sono ora le azioni inferiori cui ci spinge il semplice
desiderio; in quella fase, perciò, l’antitesi tra egoismo e altruismo sarà
priva di senso (Data of Ethics, $ 46). Si può dire che l’E. dell’evoluzionismo
non è che l’espressione, nei termini dell’ottimismo positivistico, di quell’E.
fondata sul principio dell’autoconservazione che Telesio e Hobbes avevano
reintrodotta nel mondo moderno. Nella filosofia contemporanea questa concezione
dell’E. non ha realizzato mutamenti o progressi sostanziali. Bertrand Russell
si è limitato a riproporla nella forma più semplice e rozza, affermando che
«l’E. non contiene affermazioni vere o false, ma consiste di desideri di una
certa specie generale » (Religion and Science, 1936). Dire che qualcosa è un
bene o un valore positivo è un altro modo di dire « Mi piace »; e dire che
qualcosa è cattivo significa esprimere ugualmente un atteggiamento personale e
soggettivo. Russell ritiene tuttavia possibile influire sui propri desideri
rafforzandone alcuni e deprimendone o distruggendone altri. E ritiene pure che
ciò va fatto se si vuol mirare alla felicità o all'equilibrio della vita. Ma è
chiaro che questa posizione è contraddittoria: se l’E. non ha a che fare che
con desideri, manca ogni motivo o criterio per agata o per far prevalere sugli
altri uno di essi. andato perduto, nell’E. di Russell, uno degli aspetti
fondamentali dell’E. inglese tradizionale: l’esigenza di un calcolo di tipo
benthamiano cioè di una disciplina delle scelte fra i desideri o per meglio
dire fra le alternative possibili di condotta. Eppure proprio a questo punto di
vista così mutilato si è agganciata la concezione dell’E. prevalente nel
positivismo logico, secondo la quale i giudizi etici non fanno che esprimere «i
sentimenti di chi parla ed è perciò impossibile trovare un criterio per
determinare la loro validità » (Aver, Language, Truth and Logic, pag. 108; cfr.
STEVENSON, Ethics and Language, pag. 20). Questo non è altro ovviamente che lo
stesso punto di vista di Russell, secondo il quale l’E. ha da fare con desideri
e non con asserzioni vere o false; è un punto di vista che segna la rinuncia
alla comprensione dei fenomeni morali piuttosto che un passo qualsiasi verso
questa comprensione. Più fecondo si presenta il punto di vista di Dewey la cui
E. si collega con la nozione di valore. Dewey condivide con buona parte della
filosofia del valore (v.) la credenza che i valori siano, non solo oggettivi ma
anche semplici e perciò indefinibili; ma non condivide con essa la credenza che
siano assoluti o necessari. I valorisono, secondo Dewey, qualità immediate su
cui perciò non c’è nulla da dire; solo in virtù di un procedimento critico e
riflessivo possono essere preferiti o posposti (Theory of Valuation, 1939, pag.
13). Ma essi sono fuggitivi e precari, negativi e positivi e anche
infinitamente diversi nelle loro qualità. Di qui l’importanza della filosofia
che, come una « critica delle critiche +, ha in primo luogo lo scopo di
interpretare gli eventi per farne strumenti e mezzi della realizzazione dei
valori; ed in secondo luogo quello di rinnovare il significato dei valori
stessi (Experience and Nature, pag. 349 sgg.). Questo còmpito della filosofia è
condizionato dalla rinuncia alla credenza nella realtà necessaria e nel valore
assoluto. « Abbandonare la ricerca della realtà e del valore assoluto e
immutabile può sembrare un sacrificio. Ma questa rinuncia è la condizione per
impegnarsi in una vocazione più vitale La ricerca dei valori che possono essere
assicurati e condivisi da tutti, perchè connessi ai fondamenti della vita
sociale, è una ricerca in cui la filosofia troverà non rivali ma coadiutori gli
uomini di buona volontà » (The Quest for Certainty, pag. 295). Queste
considerazioni di Dewey circoscrivono certamente il quadro in cui deve muoversi
la ricerca etica contemporanea, ma non offrono ancora a questa ricerca
strumenti efficaci. Manca ancora, nell’E. contemporanea una teoria generale
della morale che corrisponda alla teoria generale del diritto (v.) cioè una
teoria che consideri la morale come una tecnica della condotta e si applichi a
considerare le caratteristiche di questa tecnica e le modalità con cui essa si
realizza in gruppi sociali diversi. Ovviamente, una teoria generale della
morale non partirebbe da un impegno preventivo nei confronti di una determinata
tavola dei valori: il suo impegno sarebbesemplicemente quello di considerare la
costituzione delle tavole dei valori che si offrono allo studio storico e
sociologico della vita morale e di scoprire, se è possibile, le condizioni
formali o generali di tale costituzione. Ma essa potrebbe (e dovrebbe)
ampiamente utilizzare l’E. del °700 e in generale l’E. della motivazione e
presentarsi come la continuazione di tale concezione. A proposito dei rapporti
tra morale e diritto, va qui riaffermato ciò che si dice a proposito del
diritto e cioè che tali rapporti possono essere diversamente configurati, ma
mai specificati come rapporti di eterogeneità o indipendenza reciproca. L’E.,
come tecnica della condotta, sembra a prima vista più estesa del diritto come
tecnica della coesistenza. Ma se si riflette che ogni specie o forma della
condotta è una forma o specie della coesistenza, o reciprocamente, si vede
sùbito come la distinzione dei due campi sia pura materia di opportunità per
delimitare particolari problemi o gruppi di problemi o campi specifici di
considerazione o di competenza. ETICHE, VIRTÙ (gr. Oral dpetal; lat. Virtutes
morales; ingl. Ethical Virtues; franc. Vertus morales; ted. Ethische Tugenden).
Sono, secondo Aristotele, le virtù che corrispondono alla parte appetitiva
dell'anima, in quanto è moderata o guidata dalla ragione (Zf. Nic., I, 13,
1102b 16) e che consistono nel giusto mezzo (v. MEDIETÀ) tra due estremi di cui
uno è vizioso per eccesso, l’altro per difetto (/bid., II, 6, 1107 a 1). Le
virtù E. sono il coraggio, la temperanza, la liberalità, la magnanimità, la
mansuetudine, la franchezza, e infine la giustizia che è la maggiore di tutte
(/bid., III-V). Cfr. le singole voci. i ETICITÀ (ted. Sitrlichkeit). Hegel ha
distinto dalla moralità, che è la volontà soggettiva cioè individuale o privata
del bene, l’E. che è la realizzazione del bene stesso in realtà storiche o
istituzionali, che sono la famiglia, la società civile e lo Stato. L’E., dice
Hegel, «è il concetto di libertà, divenuto mondo esistente e natura
dell’autocoscienza + (Fil. del dir., $ 142). Le istituzioni etiche hanno una
realtà superiore a quella della natura perchè si tratta di una realtà «
necessaria e interna » (Ibid., $ 146). La più alta manifestazione dell’E., lo
Stato, è Dio stesso che è entrato nel mondo, un « Dio reale » (/bid., $ 258, Zusatz).
Questa distinzione tra moralità ed E. è stata ripetuta soltanto nell’àmbito
della scuola hegeliana. ETICO-RELIGIOSE, ANTINOMIE (tedesco Ethisch-religiose
Antinomien). Le antitesi in cui si esprime il conflitto tra il punto di vista
etico e il punto di vista religioso. Esse sono state enunciate da Nicolaj
Hartmann nel modo seguente: x 1° l’etica è radicata nell’al di qua, la
religione 368 tènde a un’esistenza che è al di là di questa; 2° l’etica si
rivolge all’uomo, la religione a Dio; 3° l’etica afferma l’autonomia dei
valori, la religione li subordina alla volontà di Dio; 4° l’etica si fonda
sulla libertà umana, la religione trasferisce ogni iniziativa a Dio (Erhik,
1926; 3* ediz., 1949, pag. 811-17). ETIOLOGIA (ingl. Etiology; franc.
Étiologie; ted. Aetiologie). La ricerca 0 determinazione delle cause di un
fenomeno. Il termine è usato quasi esclusivamente in medicina. ETNOGRAFIA
(ingl. Ethnography; francese Ethnographie; ted. Ethnographie). Lo stesso che
EtnoLOgiA. Talvolta, il primo stadio della ricerca antropologica:
l’osservazione e la descrizione, il lavoro sul campo (Lévi-STrAUSS,
Anthropologie structurale, 1958, cap. XVII). ETNOLOGIA (ingl. Ethnology; franc.
Ethnologie; ted. Ethnologie). Una delle discipline del ceppo sociologico. Essa
ha per oggetto i modi di vita di gruppi sociali ancora esistenti o dei quali
comunque si conservi un’abbondante documentazione. L’E. si dirige soprattutto a
studiare la cultura dei popoli « primitivi ». Essa non si distingue dalla
sociologia se non per l’accentuata tendenza dei suoi cultori a insistere sui
caratteri individuali dei gruppi sociali studiati e pertanto a prescindere dai
problemi sociologici generali. Lévi-Strauss considera l’E. come il primo passo,
dopo la descrizione etnografica, verso la sintesi antropologica: la sintesi
etnologica può essere geografica, storica o sistematica (Anthropologie
structurale, 1958, cap. XVID. ETOLOGIA (dal gr. 606; ingl. Ethology; francese Éthologie; ted.
Ethologie). Termine coniato da Wundt per designare lo
studio storico descrittivo dei costumi e delle rappresentazioni morali (Logik,
Il, 2, 369). E. comparata è lo studio comparativo dei comportamenti animali sia
nel loro aspetto ontogenetico che in quello filogenetico (K. LORENZ, in
Phisiological Mechanism in Animal Behaviour, 1950; N. TinBERGEN, The Study of
Istinct, 1951). ETOLOGIA (dal gr. $00g; ingl. Etho/ogy; francese Éthologie;
ted. Ethologie). Termine coniato da Stuart Mill per designare la scienza che
studia le leggi della formazione del carattere. Tali leggi deriverebbero da
quelle generali della psicologia, applicate però alle influenze che le
circostanze ambientali hanno sulla formazione del carattere. L’E. si
distinguerebbe dalla sociologia in quanto la prima sarebbe la scienza del
carattere individuale, la seconda la scienza del carattere sociale o collettivo
(Logic, VI, 5, $ 3). La parola non ha avuto fortuna, mentre è stata quasi
universalmente accettata, per designare la stessa scienza, la parola
caratterologia (v.). EUBULIA (gr. ebfovMa; lat. Eubulia). È, secondo
Aristotele, la buona deliberazione cioè il corretto giudizio sulla rispondenza
dei mezzi al fine. Il deliberare bene è proprio dei saggi e la saggezza
costituisce appunto il giudizio vero intorno alla rispondenza dei mezzi al fine
(Er. Nic., VI, 9, 1142 b 5). Nello stesso senso la definisce S. Tommaso (S.
7h., I, II, q. 57, a. 6). EUCOSMIA (gr. eòxoo pla). Comportamento ordinato,
buona condotta (cfr. ARIST., Po/.,IV,1299b 16). EUCRASIA (gr. eòxpuota).
Temperamento. Propriamente, giusta mescolanza degli elementi che compongono il
corpo (ARIST., De part. an., 673 b 25; GALENO, VI, 31, ecc.). EUDEMONIA. V.
FELICITÀ. EUDEMONISMO (ingl. Eudemonism; francese Eudémonisme; ted.
Eudamonismus). Ogni dottrina che assume la felicità come principio e fondamento
della vita morale. Sono eudemonistiche in questo senso l’etica di Aristotele,
l’etica degli Stoici e dei Neoplatonici, l’etica dell’empirismo inglese e
dell’Illuminismo. Kant ritiene che l’E. sia il punto di vista dell’egoismo (v.)
morale, cioè della dottrina « di chi restringe tutti i fini a se stesso e non
vede nessun utile fuori di ciò che giova a lui » (Antr., I, $ 2). Ma questo
concetto dell’E. è troppo ristretto perchè nel mondo moderno, a partire da
Hume, la nozione di felicità ha un significato sociale, quindi non coincide con
egoismo od egocentrismo (v. FELICITÀ). EUNOMIA (gr. ebvopia). Il «buon ordine
umano » contrapposto alla Aybris cioè all’atteggiamento di chi disconosce i
limiti degli uomini e il posto subordinato che essi hanno nel mondo (PLAT., Sof.,
216 b). EUPRASSIA (gr. eòrpabla). Il comportarsi bene cioè ordinatamente o
secondo le leggi. Senofonte designa con questa parola l’ideale morale di
Socrate (Mem., III, 9, 14). Aristotele adopera la stessa parola in opposizione
a disprassia che indica la condotta disordinata (Et. Nic., VI, 5, 1140 b 7).
EURISTICA. Parola moderna coniata dal verbo greco ebploxw = trovo: ricerca o
arte della ricerca. Diversa da Eristica (v.). EUTASSIA (gr. eòvatta). La
condotta bene ordinata o conforme all’ordine cosmico. È un concetto stoico
(Stoicorum Fragmenta, III, 64), che Cicerone si è fermato ad illustrare (De
Officis, I, 40, 142). EUTIMIA (gr. eòtvula; lat. Tranquillitas). Era il titolo
di una delle opere di Democrito e significava la soddisfazione tranquilla,
diversa dal piacere, che consiste nell’assenza di timori, di superstizioni e di
emozioni (Dio. L., IX, 45). I latini tradussero il termine con tranquillitas
(SENECA, De tranquillitate animi, II, 3). EVANGELO ETERNO (lat. Evangelium
aeternum). Origene adoperò questa espressione per designare la rivelazione
delle verità più alte che Dio fa ai sapienti in tutte le epoche del mondo e che
è in grado di integrare e correggere la rivelazione contenuta nell’E. storico
(De princ., IV, 1; InJohann., 1,7). EVEMERISMO (ingl. Euhemerism; francese
Evhémérisme; ted. Evhemerismus). La dottrina di Euevemero o Evemero di Messina
(sec. rv-II1 a. C.), autore di una Sacra Scrittura tradotta in latino da Ennio,
nella quale si voleva dimostrare che gli dèi sono uomini coraggiosi o illustri
o potenti divinizzati dopo la morte (CiceR., De nat. deor., I, 119). EVENTO
(ingl. Event; franc. Événement; tedesco Geschehen). Nella fisica contemporanea,
una porzione del continuo spazio-temporale. In questo senso, una cosa, per es.,
un corpo, è un evento. Il concetto fu chiarito da Einstein nel 1916 (Teoria
spec. e gen. della relatività, $ 27). Da allora è apparso come un concetto
fondamentale della fisica: l’E. è, propriamente parlando, l’oggetto specifico
della fisica, quello a cui si riferiscono i suoi mezzi di osservazione: esso è
caratterizzato dalle tre coordinate spaziali e dalla coordinata temporale. « Il
mondo degli E. può venir descritto dinamicamente mediante una imagine che muti
col tempo, prospettata sullo sfondo dello spazio tridimensionale. Ma può anche
venir descritto mediante un’imagine statica, proiettata sullo sfondo del
continuo spazio temporale a quattro dimensioni. Dal punto di vista della fisica
classica, le due imagini, la dinamica e la statica, sono equivalenti. Ma dal
punto di vista della relatività, l’imagine statica è più conveniente e più
obiettiva » (EINSTEIN-INFELD, Evolution of Physics, III; trad. ital., pag.
218). Generalizzando il concetto di Einstein, Whitehead ha parlato di «E.
puntiformi» che sono quelli che possiedono una posizione l’uno rispetto
all’altro. Tali E. entrerebbero a costituire i punti di un sistema
spazio-temporale. Ogni sistema avrebbe un particolare gruppo di punti propri
cioè una propria definizione della « posizione assoluta » (Concept of Nature,
1920, cap. 5). Queste notazioni si riferiscono al tentativo di Whitehead di
tradurre la fisica contemporanea in una metafisica evoluzionistica. Dal suo
canto P. W. Bridgmann ha messo in dubbio l’importanza della nozione di E., non
ritenendo che tutti i risultati delle misure fisiche possano essere espressi in
termini di coincidenze spazio-temporali. Per es., egli nota, la differenza fra
un elettrone negativo e uno positivo non è contemplata nella specificazione
delle coordinate (Logic of Modern Physics, 1927, cap. III; trad. ital., pag.
153). Ma nonostante queste riserve, il concetto di evento continua ad avere
un’importanza fondamentale nella fisica contemporanea ed essere considerato dai
fisici come la migliore caratterizzazione dell’oggetto proprio di essa.
EVIDENZA (gr. &vépyew; lat. Evidentia; inglese Evidence; franc. Évidence;
ted. Evidenz). Il presentarsi o manifestarsi di un oggetto qualsiasi 24 — come
tale. Così intendevano l’E. gli antichi, e specialmente gli Epicurei e gli
Stoici che l’assumevano come criterio di verità. Gli Epicurei identificavano
l’E. con l’azione stessa degli oggetti sugli organi di senso (Dioc. L., X, 52).
Gli Stoici intendevano per E. il presentarsi o darsi delle cose ai sensi o
all’intelligenza, in modo che esse risultino s comprese » (Sesto E., /p. Pirr.,
II, 7). La rappresentazione catalettica (v.) è appunto la rappresentazione
evidente. Da questo punto di vista l’E. non è un fatto soggettivo ma oggettivo:
non è legata alla chiarezza e distinzione delle idee, ma al presentarsi e
manifestarsi dell’oggetto (quale che sia). Sicchè gli stessi Scettici non
rifiutano ciò che si presenta come evidente, per quanto evitino l’asserzione
relativa (Sesto E., /pot. Pirr., II, 10). Cartesio ha invece dato luogo al
concetto soggettivo dell’evidenza. La «regola dell’E.», che egli espone nel
Discorso prescrive «di non accettare mai alcuna cosa per vera a meno che non la
si riconosca evidentemente per tale; cioè di evitare diligentemente la
precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei propri giudizi se non
ciò che si presenta così chiaramente e distintamente al proprio spirito, da non
aver alcuna occasione di metterlo in dubbio» (Disc., II). In questa regola l’E.
è stata ridotta alla chiarezza e distinzione (v.) delle idee e i problemi
relativi si sono spostati dal dominio dell’oggetto al dominio dell'idea,
ripresentandosi però in quest’ultimo come problemi oggettivi. Cartesio stesso
aveva (soprattutto nelle Regole per la direzione dello spirito) collegato l’E.
con la facoltà dell’intuizione: con la quale parola aveva inteso, non già la
testimonianza dei sensi o il giudizio dell’imaginazione, ma «la concezione
ferma di uno spirito puro e attento, che nasce dalla sola luce della ragione e
che, essendo più semplice, è anche più sicura della deduzione » (Regulae ad
directionem ingenii, III). L’E. sarebbe così il carattere dell’intuizione e
costituirebbe la certezza propria di quest’ultima; allo stesso modo che la
necessità razionale costituisce la certezza della deduzione. Questi concetti
hanno dominato buona parte della filosofia moderna; anche perchè sono stati
accettati sia da Locke, che fa dipendere dall’intuizione dell'accordo o del
disaccordo tra le idee « tutta la certezza e l’E. della nostra conoscenza »
(Saggio, IV, 2, 1); sia da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 11, 10). Il carattere
soggettivo dell’E. e la sua connessione con una facoltà umana più o meno
misteriosa e miracolosa detta intuizione, sono rimasti in tutta la filosofia
moderna; e soltanto la filosofia contemporanea ha mostrato di ritornare
all’antico concetto dell’E. oggettiva. La critica dell’E. come «una mistica
voce che da un mondo migliore ci gridi: qui è la verità!» 370 è stata fatta da
Husserl; il quale ha trovato per l’E. la definizione di « riempimento
dell’intenzione ». Questa significa che l’E. si ha quando l’intenzione della
coscienza, diretta ad un oggetto, viene riempita dalle determinazioni per cui
l’oggetto stesso si individua, si definisce e da ultimo appare presente alla
coscienza stessa in carne ed ossa (Logische Untersuchungen, II, $ 39; Ideen, I,
$ 145; Erfahrung und Urteil, pag. 12). Di conseguenza per tutta la filosofia
contemporanea che si ispira alla fenomenologia, l’E. ha riacquistato il suo
carattere oggettivistico, tornando a designare il presentarsi o manifestarsi di
un oggetto come tale, qualunque sia l’oggetto e quali che siano i metodi con
cui s'intende certificare o garantire la sua presenza o manifestazione. In
questo senso Scheler ha parlato di «E. preferenziale» per indicare quei
rapporti gerarchici oggettivi dei valori che guidano e suggeriscono le scelte
umane (Formalismus, pag. 87). Nello stesso senso si dicono talvolta evidenti
proposizioni analitiche o tautologiche la cui verità risulta dai loro stessi
termini, come, ad es., «Il triangolo ha tre lati ». EVOLUZIONE (ingl.
Evolution; franc. Évolution; ted. Evolution). La parola conserva ancora il suo
senso generico di sviluppo (v.); ma più spesso è adoperata a designare una
particolare dottrina che si chiama «teoria dell’E.». Ora con questa espressione
si possono intendere due cose diverse: 1° la teoria biologica della
trasformazione delle specie viventi l’una nell’altra: che è l’ipotesi
fondamentale delle discipline biologiche da un secolo a questa parte; 2° la
teoria metafisica dello sviluppo progressivo dell’universo nella sua totalità:
che è un’ipotesi ammessa o presupposta da molte dottrine filosofiche moderne e
contemporanee. Per quanto questi due significati abbiano storicamente agito
l’uno sull’altro, è opportuno tenerli distinti. Per il secondo, v. la voce
EVOLUZIONISMO. Il termine E. è stato probabilmente introdotto da Spencer nel
suo saggio sul Progresso del 1857; ma la parola stessa, come il concetto, non
avrebbero avuto la fortuna che hanno avuto senza i successi del trasformismo
biologico, che si iniziarono con l’Origine delle specie di Carlo Darwin (1859).
L’opera di Darwin (come è anche dimostrato dal suo successo senza precedenti)
era, da un certo punto di vista, piuttosto una conclusione che un principio: la
conclusione di un lungo lavoro di ricerche e di vari tentativi di
generalizzazione. La dottrina tradizionale dell’immutabilità (o fissità) delle
specie viventi era stata il riflesso, nel dominio biologico, della dottrina
della sostanza (v.) cioè della dottrina della necessità della struttura
ontologica del mondo. Questa dottrina fu fatta prevalere da Aristotele nel
mondo della filosofia e della scienza antica e EVOLUZIONE medievale; e si
spiega così perchè l’ipotesi di una trasformazione della specie, affacciata,
sia pure in forma fantastica, da Anassimandro (Ps. PLUT., Strom., 2) e da
Empedocle (Fr., 56-61, Diels) non abbia lasciato traccia. Tutte le forme
sostanziali sono, secondo la metafisica aristotelica, immutabili perchè
necessarie: il che vuol dire che non possono essere nè create nè distrutte.
Come forme sostanziali, le specie viventi condividono tali caratteristiche.
Questo principio aristotelico, con la sola correzione della creazione da parte
di Dio, ha costituito per molti secoli l’impalcatura generale della ricerca filosofica
e scientifica. Soltanto a partire dagli inizi del sec. xvi alcuni naturalisti
cominciarono a considerare la possibilità della trasformazione delle specie
biologiche. Ipoteticamente ammetteva questa possibilità Buffon, che pur si
dichiarava esplicitamente partigiano della fissità della specie (Histoire
naturelle, 1749-1804). Dallo stesso Buffon, Kant trasse probabilmente
l’ispirazione per l’ipotesi, da lui prospettata (nel 1790) nella Critica del
giudizio ($ 80), di una «reale parentela » delle forme viventi e di una loro
derivazione da una « madre comune », nonchè di uno sviluppo continuo della
natura dalla nebulosità primitiva agli uomini. Queste tuttavia erano solo
intuizioni generiche, non suffragate da un sistema coordinato di osservazioni.
Il primo a prospettare in forma scientifica la dottrina del trasformismo
biologico fu Gian Battista Lamarck nella sua Philosophie zoologique (1809):
egli tuttavia fondava l’E. degli organismi sulle differenze prodotte in questi
dall’uso maggiore o minore degli organi: differenze che si sarebbero poi
fissate con l’eredità. Si sa oggi che i mutamenti che nascono dalle abitudini
non possono essere ereditati; pertanto il merito di Lamarck non è quello di
aver scoperto il principio dell’E. ma quello di aver insistito sulla dottrina
generale e su qualche aspetto importante di essa, come quello dell’adattamento
all’ambiente. Soltanto l’Origine delle specie (1859) di Carlo Darwin ha fondato
la moderna teoria dell’E. biologica. La teoria di Darwin ammette due ordini di
fatti: 1° l’esistenza di piccole variazioni organiche che si verificano negli
esseri viventi a intervalli irregolari di tempo; variazioni che in parte, per
la legge della probabilità, sono vantaggiose agli individui che le presentano;
2° la lotta per la vita che si verifica tra gli individui viventi, per la
tendenza di ogni specie a moltiplicarsi secondo una progressione geometrica.
Quest'ultimo presupposto era suggerito a Darwin dalla dottrina di Malthus
(Essay on Population, 1798). Da questi due ordini di fatti segue che gli
individui presso i quali si manifestino mutamenti organici vantaggiosi hanno
maggiori probabilità di sopravvivere nella lotta per la vita; e in virtù del
principio EVOLUZIONE 371 di eredità ci sarà in essi un’accentuata tendenza a
lasciare in eredità ai loro discendenti i caratteri accidentali. Questa è la
/egge della selezione naturale che Darwin ritenne come la principale molla
dell’E. (Or. delle specie, IV, 18). Mentre la teoria di Darwin da un lato
subiva gli attacchi dei partigiani della vecchia metafisica, dall’altro veniva
estesa e generalizzata in una teoria dell’E. cosmica, nuove ipotesi, in
contrasto col principio della selezione naturale, venivano presentate circa il
come l’E. avrebbe luogo. Da un lato i neo-lamarkiani (fra i quali specialmente
il francese Giard [1846-1908] e l’americano Cope [1840-97] insistettero sulla
relazione dell’organismo all'ambiente, attribuendo a questa relazione la
capacità di produrre le novità organiche che sarebbero poi trasmesse con
l’eredità. Dall'altro lato i neo-darwiniani, che si raccolsero specialmente
intorno al biologo tedesco Weissmann (1834-1914), insistettero sull’importanza
della selezione naturale come unico principio dell’evoluzione. Entrambi questi
indirizzi, nello sforzo di dimostrare la loro tesi, produssero fatti e
osservazioni nuove in favore della teoria generale dell’E.; ma nessuno di essi
riuscì, si può dire, a dimostrare la falsità della tesi dell’altro. Che
l’adattamento all’ambiente (tesi dei lamarkiani) e la selezione naturale (tesi
dei darwiniani) abbiano funzioni importantissime nell’E. della vita, risulta
ormai certo; ciò che non risulta è che l’uno porti alla esclusione dell’altra.
In questa incertezza, si sono inserite le nuove forme del vitalismo (v.) cioè
della dottrina che, ritenendo la vita non spiegabile in linea di principio con
fattori fisico-chimici, riconosce a fondamento di essa un principio spirituale
che agisca finalisticamente. Il vitalismo insiste su quello che sembra un
carattere fondamentale dell’E. biologica: il finalismo. Il finalismo, che è
strettamente collegato con la dottrina della struttura sostanziale del mondo
cioè con la metafisica aristotelica, è la parte più dura a morire di questa
metafisica. Il suo campo privilegiato è, come già notava Kant, proprio quello
dei fenomeni vitali. Questi fenomeni non sembrano verificarsi a caso. Anche
quando De Vries osservò la subitanea e casuale apparenza di nuove varietà di
piante e assunse questo fatto come la base reale dell’E. (Teoria delle
mutazioni, 1901), il carattere casuale e arbitrario dell’intero processo
evolutivo sembrò difficile a difendersi. Da questa difficoltà hanno attinto la
loro forza le teorie vitalistiche. La più famosa fra tali teorie nel mondo
contemporaneo è quella di Bergson, che attribuisce l’E. allo slancio vitale
cioè ad una grande corrente di coscienza che è lanciata nella materia e ténde a
dominarla, riuscendovi meglio in una direzione, peggio in un’altra, e
progredendo soprattutto nelle due direzioni fondamentali dell’istinto degli artropodi
e dell’intelligenza dell’uomo (Év. créatrice, 1907). Ma la teoria bergsoniana
dell’E., per quanto rigetti l’idea di un piano totale predisposto o
predeterminato (che sarebbe, dice Bergson, «un meccanismo rovesciato +) è
ancora finalistica e soggiace alla stessa obiezione che Bergson stesso fa al
vitalismo: di assumere a principio di spiegazione la ignoranza della
spiegazione. Come ha notato Huxley, attribuire l’E. a un é/an vital non spiega
la storia della vita più che attribuire il movimento di una macchina a vapore
ad un é/an locomotifnon spieghi il funzionamento della macchina stessa. Il
ricorso a un termine metafisico, che non fa che coprire una zona di ignoranza
mascherandola come sapere e quindi distogliendo o scoraggiando la ricerca
positiva diretta a diminuirla, è anche evidente nelle altre forme del vitalismo
contemporaneo. Così Driesch ricorre all’entelechia, un vecchio concetto
aristotelico, cui attribuisce la funzione direttiva nella costruzione
dell'organismo (Philosophie des Organischen, 1908-09). Gli studi di genetica
(v.) hanno avviato la teoria dell’E. su un terreno positivo di ricerche. La
teoria stessa è diventata il quadro complessivo degli strumenti e delle
direzioni possibili della ricerca biologica, evitando la dogmatizzazione di princìpi
parzialmente provati, che era stata la caratteristica della fase precedente. I
capisaldi della odierna teoria dell’E. possono essere così ricapitolati: 1° La
separazione dell’idea dell’E. dall’idea di progresso. L’E. non è
necessariamente progresso, tanto meno progresso unilineare, necessario e
costante. Quale che sia il criterio che si scelga per giudicare il corso
dell’E., si troverà che la storia della vita fornisce esempi non solo di
progressi, rispetto a questo criterio, ma anche di regressi e di degenerazioni.
Huxley ha suggerito come criterio obiettivo di progresso quello della
dominazione successiva di un gruppo biologico: criterio che porterebbe a
costituire una successione di età: « Età degli invertebrati +, « Età dei pesci
+, « Età degli anfibi », « Età dei rettili», « Età dei mammiferi», ed «Età
dell’uomo » (E., The Modern Synthesis, 1942). Ma anche questa successione di
età non è del tutto oggettiva perchè è ovviamente suggerita dal criterio
dell’approssimazione all’uomo. Altre linee di progresso possono essere definite
in base all’espansione vitale o all’'adattamento all’ambiente: criteri che
suggeriscono l’ordinamento delle specie animali secondo la misura in cui esse
realizzano meglio l’una o l’altra di queste due cose. Un altro criterio che i
biologi adoperano spesso è la cosiddetta legge di Willinston secondo la quale «
le parti di un organismo tendono a ridursi nel loro numero e a specializzarsi
nella loro funzione» cioè tendono verso la semplificazione più che verso la
compli372 cazione. Altri indicano come criterio l’energia generale
dell’organismo o il livello del processo vitale (SEWERTZOFF, Morphologische
Gesetzmdssigkeiten der E., 1931). Ognuno di questi criteri porta a costruire un
ordine determinato delle specie viventi, o dei loro maggiori gruppi, ordine
coincidente solo parzialmente e occasionalmente con quelli risultanti dagli
altri criteri. 2° L'esigenza che i fattori invocati a spiegare l’E. spieghino
non solo ciò che avviene a disegno nell’organizzazione della vita ma anche ciò
che avviene a caso, non solo l’adattamento ma anche la mancanza di adattamento
e in generale non solo gli aspetti favorevoli e progressivi delle
trasformazioni vitali ma anche quelli sfavorevoli e negativi. La prima
conseguenza di questo punto di vista è il riconoscimento che è inutile e
scientificamente illegittimo privilegiare un fattore evolutivo, per es., la
selezione naturale e considerarlo come l’unico e fondamentale secondo quanto
hanno fatto i neodarwinisti. La seconda conseguenza è l’abbandono completo del
punto di vista finalistico, che esige la presenza di uno scopo finale nell’E.
(cfr., per es., J. B. S. HALDANE, The Causes of E., 1932). 3° L'eliminazione di
ogni pregiudizio necessitaristico nella considerazione del ciclo vitale delle
specie biologiche: la loro nascita, sviluppo e morte non obbedisce a schemi
prestabiliti e tanto meno si modella sul ciclo dell'organismo singolo.
Normalmente, un tipo di organizzazione persiste fino a quando i suoi rapporti
di adattamento all’ambiente continuano ad essere possibili. Talvolta, la stessa
specificità dell'adattamento produce l’estinzione, giacchè rende l’organismo
inadatto ad affrontare i mutamenti dell’ambiente di portata maggiore
dell’usuale. In questo caso, ovviamente, la estinzione del gruppo è provocata
dalla stessa tendenza all’adattamento, che è un fattore di sopravvivenza. 4°
Finalente — ed è la caratteristica più importante della teoria generale
dell'’E. — l’uso della nozione di possibilità consente di evitare le
dogmatizzazioni presentate dalle alternative: ordinedisordine, fine-caso e così
via. La vita tende a sfruttare le possibilità che le sono offerte. Qualche
scienziato ha considerato l’incremento della somma totale della materia vivente
nel mondo come la principale legge dell’E. (A. J. Lorka, in Human Biology,
1945, pag. 167 sgg.). Ciò vuol dire che la vita sembra appigliarsi a tutte le
possibilità disponibili. Simpson parla a questo proposito della « natura
essenzialmente opportunistica del processo dell’E. » (The Meaning of Evolution,
1949, cap. 12). Tuttavia neanche nello sfruttamento delle opportunità che gli
si offrono, tale processo appare perfettamente sistematico. Opportunità
evidenti non sonostate sfruttate e gli intervalli fra le specie viventi non
sempre sono stati riempiti. « La regola che tutte le opportunità della vita
tendono a essere utilizzate non è senza eccezioni. L’estinzione dei dinosauri
precedette di molto la rioccupazione di molti dei loro modi di vita da parte
dei mammiferi e non pare che tutti siano stati ancora rioccupati. Gli
ittiosauri furono estinti per molti milioni di anni prima che i delfini e i
loro parenti abbiano afferrato questa opportunità. Non vi è ragione evidente
per la quale il modo di vita degli ammoniti, untempo così numerosi, non possa
essere ora seguito da gruppi ugualmente abbondanti ma che invano si
cercherebbero oggi nel mare. Si sono estinti molti tipi che hanno lasciato
aperto un modo di vita, un'opportunità che nonèstataimmediatamente afferrata
perchè nessun altro gruppo ha una base strutturale o una riserva di mutazioni
appropriate al cambiamento» (/bid., pag. 185-86). Tuttavia il numero altissimo
delle possibilità utilizzate spiega i prodotti più riusciti e complessi
dell’E.: per es., fra le innumerevoli risoluzioni del problema della fotoricezione
due soluzioni riuscirono meglio: l’occhio dell’octopus (che è un mollusco) e
quello dell'uomo. Ma anche gli altri funzionano benissimo al loro proprio
livello. Questo dimostra che la complessità di un organo non è stata progettata
in anticipo come un piano da realizzare ma è il prodotto dello sfruttamento di
possibilità favorevoli che si sono presentate. S° Le caratteristiche specifiche
dei fenomeni vitali non vengono ignorate o trascurate dalla teoria dell’E.; ma
tuttavia non vengono assunte come fon-damento per affermare la tesi della «
irriducibilità » o della «originalità» della vita. Tale tesi infatti
sconsiglierebbe dal continuare a sottoporre i fenomeni della vita agli
strumenti oggettivi di indagine di cui la scienza dispone e per conseguenza
fermerebbe la ricerca biologica. Questa pertanto utilizza gli strumenti a sua
disposizione e ritiene «spiegato » solo ciò che può essere raggiunto con
l’aiuto di tali strumenti. È questo un materialismo metodico che ha poco o
nulla a che fare colmaterialismo dottrinale dell’800 (v. GENETICA; VITA;
VITALISMO). EVOLUZIONISMO (ingl. Evolutionism; francese Évolutionnisme; ted.
Evolutionismus). Con questo termine bisogna intendere non già la teoria
generale dell'evoluzione come quadro fondamentale delle ricerche biologiche
(per la quale v. EVOLUZIONE), ma il complesso delle dottrine filosofiche che
vedono nell’evoluzione il tratto fondamentale di ogni tipo o forma di realtà e
perciò il principio adatto a spiegare la realtà nel suo complesso. L’E. è in
altri termini una dottrina metafisica, concernente la realtà come un tutto; e
per quanto si avvalga dello ipotesi e dei risultati della teoria biologica
dell'evoluzione, la sua tesi va molto al di là di tutto ciò che ogni possibile
teoria scientifica può legittimamente convalidare. In questo senso, l’E. è
stato assunto come schema fondamentale di molte metafisiche, sia
materialistiche sia spiritualistiche. Il tratto fondamentale che queste
metafisiche scorgono nell'evoluzione è il progresso. Per esse, evoluzione significa
essenzialmente progresso. Così fu certamente per Spencer che iniziò la serie
delle metafisiche evoluzionistiche con un saggio pubblicato nel 1857 col titolo
Progresso. Il progresso investe, secondo Spencer tutti gli aspetti della
realtà. « Sia che si tratti, egli dice nel saggio citato, dello sviluppo della
Terra, sia che si tratti dello sviluppo della vita alla sua superficie o dello
sviluppo della società o del governo o dell’industria o del commercio o del
linguaggio o della letteratura o della scienza o dell’arte, sempre in fondo ad
ogni progresso è la stessa evoluzione che va dal semplice al complesso
attraverso differenziazioni successive». Nei Primi principi Spencer dava
dell’evoluzione questa definizione: «L'evoluzione è una integrazione di materia
e una concomitante dissipazione di movimento; durante la quale la materia passa
da una omogeneità indefinita e incoerente ad una eterogeneità definita e
coerente; e durante la quale il movimento conservato soggiace ad una
trasformazione parallela » (First Principles, $ 145). Questa determinazione
dell’evoluzione come passaggio dall'omogeneo indifferenziato all’eterogeneo
differenziato era indubbiamente suggerita a Spencer dall’evoluzione biologica,
che sembra andare dall’ameba agli organismi superiori. Il senso generale
dell’evoluzione è ottimistico, secondo Spencer. La evoluzione è un progresso e
per di più un progresso necessario che, per ciò che riguarda l’uomo, terminerà
soltanto con «la più grande perfezione e la più completa felicità » (/bid., $
176). A differenza di ciò che è accaduto nella teoria dell’evoluzione
biologica, la quale ha ben presto svincolato la nozione di evoluzione da quella
di progresso, nell’E. filosofico il senso ottimistico e necessaristico della
nozione di progresso continua per molto tempo a costituire il tratto
fondamentale dell’evoluzione. Sia l’E. materialistico sia lE. spiritualistico
condividono questo tratto. Nessuno di questi indirizzi riesce ad una
rielaborazione del concetto in questione. Quando Ardigò definisce l'evoluzione
come « il passaggio dall’indistinto al distinto » (Opere, 1884, II, pag. 350)
assumendo perciò come modello evolutivo lo sviluppo psichico anzichè quello
biologico, i tratti formali dell'evoluzione non sono mutati: essa è sempre, e
soltanto, progresso universale necessario. L’E. materialistico trovò nel
biologo tedesco Ernesto Haeckel il suo maggiore rappresentante. Gli Enigmi del
mondo (1899) costituirono per i primi decenni del nostro secolo il catechismo
di questo materialismo, che vedeva in tutte le forme della realtà gradi di
evoluzione, progressivamente ordinati, della materia. Dall’altro canto, l’E.
spiritualistico, che vede nelle varie forme della realtà gradi di sviluppo di
un principio spirituale, si iniziò con Guglielmo Wundt, che riconobbe questo
principio spirituale nella volontà (System der Phil., 1889). Un pensiero
analogo ispirava l’opera del francese Alfredo Fouillée il quale vedeva
nell’idea-forza il substrato dell’evoluzione (L’E. des idées-forces, 1890). Ma
indubbiamente la più notevole manifestazione dell’E. spiritualistico è la
dottrina di Bergsoe ha visto nell’evoluzione il prodotto di uno slancio vitale
che è coscienza, libertà e creazione (Évolution créatrice, 1907). In un senso
analogo C. Lloyd Morgan parlò di Evoluzione emergente (1923): intendendo che
ogni fase dell'evoluzione non è la semplice risultante meccanica delle fasi
precedenti, ma contiene un elemento nuovo che denuncia il carattere progressivo
e creativo della evoluzione stessa. Ma il concetto dell’evoluzione come
progresso costituisce anche lo sfondo o il presupposto di altre dottrine che
tuttavia non assumono l’evoluzione come tema fondamentale delle loro
elaborazioni. Così la nozione di evoluzione emergente è assunta da Alexander
nel suo libro Spazio, Tempo e Deità (1920) per spiegare lo sviluppo complessivo
della realtà di cui spazio e tempo (che stanno tra loro come materia e spirito)
sarebbero la sostanza. E il concetto di processo assunto come fondamentale da
Whitehead (Process and Reality, 1929) non è che lo stesso concetto di
evoluzione, contaminato col concetto hegeliano di divenire; mentre l’evoluzione
in senso naturalistico è lo sfondo di tutta l’opera di Santayana (cfr.
specialmente il Realm of Mind, 1940). Questi richiami devono essere considerati
solo come esemplificativi della vastissima diffusione che l’E. ha avuto nel
dominio della filosofia moderna e contemporanea, e quindi in tutte le forme
della vita intellettuale. La credenza che la realtà è un processo unico,
continuativo, e necessariamente progressivo si legge fra le righe di dottrine
filosofiche disparatissime ed ha potentemente influenzato l’impostazione di
ricerche storiche, sociologiche, morali, ecc. Questa credenza tuttavia non è
suffragata da nulla; e nell'unico dominio in cui una teoria dell'evoluzione è
suffragata da prove di fatto, cioè nel dominio biologico, l’evoluzione ha perso
proprio i caratteri che i filosofi hanno dimostrato di apprezzare maggiormente
in essa: l’unità, la continuità, la necessità e il progresso. Nessuno di tali
caratteri viene oggi assunto 374 nel contesto dell'evoluzione biologica.
Pertanto l’ipotesi che la realtà costituisca un processo fornito di tali
caratteri non trova riscontro nel sapere scientifico ed è da considerarsi come
una pura ipotesi metafisica, al di là di ogni possibile, sia pure indiretta,
verifica. Quest'ipotesi tuttavia continua a riscuotere un certo successo presso
scienziati-filosofi. Così Teilhard de Chardin ha riconosciuto nell’evoluzione
il postulato generale al quale ogni teoria o ipotesi o sistema deve adeguarsi;
e conseguentemente ha considerato l’evoluzione della sostanza vivente sparsa
sulla terra come quella di un solo gigantesco organismo. Il termine finale
dell’evoluzione sarebbe allora un « Punto Omega?» e cioè una « Super Coscienza
universale » formata da una pluralità unificata di pensieri individuali che si
combinano e si rafforzano nell’atto di un Pensiero EX PRAECOGNITIS ET
PRAECONCESSIS unanime (Le phenomène humaine, 1955). Il carattere metafisico
dell'evoluzione è evidente in questa e simili speculazioni. EX PRAECOGNITIS ET
PRAECONCESSIS. Formula con cui s’abbrevia il principio esposto da Aristotele
agli inizi degli Analitici posteriori: « Ogni dottrina e ogni disciplina
discorsiva nasce da una conoscenza preesistente » (An. Post., I, 1, 7la 1).
Boezio sottolineava l’importanza di questa massima (P. L., 64°, col. 741) che
diveniva un luogo comune della scolastica. Locke riteneva fallace la massima,
convinto com’era che il fondamento della conoscenza sia la conoscenza intuitiva
(Saggio, IV, 2, 8). Ma Leibniz rivendicava, contro Locke la validità della
massima, in quanto esprime il procedimento delle matematiche (Nouv. Ess., IV,
2, 8). EXTRAPOLAZIONE. V. ESTRAPOLAZIONE. F F. Nella Logica medievale, i
sillogismi i cui nomi mnemonici cominciano con questa lettera, sono riducibili
al quarto modo della prima figura (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log.,
4.20).FABBRICAZIONE (franc. Fabrication). L’attività propria dell’intelligenza,
secondo Bergson. Questa è infatti «la facoltà di fabbricare oggetti
artificiali, in particolare utensili per fare altri utensili, e di variarne
indefinitamente la F. +». Da questo punto di vista, la vera definizione
dell’uomo non è Homo sapiens ma Homo faber (Év. créatr., 118 ediz., 1911, pag.
151; Pensée et Mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 97). FABULAZIONE (franc.
Fabulation). Bergson ha così chiamata la facoltà o l’atto creatore di finzioni
o superstizioni, nel quale consiste essenzialmente la religione statica: che
cerca, appunto mediante finzioni più o meno consolanti, di difendere la vita
contro il potere disgregatore dell’intelligenza (Deux Sources, cap. Il).
FACOLTÀ (gr. duyîic eidoc o pépiov; lat. Facultas; ingl. Faculty; franc.
Faculté; ted. Vermògen). 1. S'intendono con questo nome i poteri dell’anima
cioè le specie o parti in cui si possono classificare e dividere le sue
attività o i princìpi cui tali attività sono attribuite. La distinzione fra i
poteri dell’anima, c pertanto la nozione stessa di potere in quanto riferita
all'anima, nascono dall’ovvia considerazione della diversità delle operazioni
che si attribuiscono all’anima stessa e dal fatto che tali operazioni possono
venire in contrasto fra loro.Proprio su questo fondamento Platone distinse tre
poteri, che egli chiamava specie (et3n, Rep., IV, 440 e) dell’anima: il potere
razionale che è quello per cui l’anima ragiona e domina gl’impulsi corporei; il
potere concupiscibile o irrazionale che è quello appunto che presiede agli
impulsi, ai desideri, ai bisogni e concerne il corpo; e il potere irascibile che
è un ausiliario del principio razionale e si sdegna e lotta per ciò che la
ragione ritiene giusto (Rep., IV, 439-40). Aristotele distinse invece: a) la
parte (uéprov) vegetativa che è la potenza nutritiva e riproduttiva propria di
tutti gli esseri viventi a cominciare dall’uomo; 5) la parte sensitiva che
comprende la sensibilità e il movimento ed è propria dell’animale; c) la parte
intellettiva (dianoetica), che è propria dell’uomo. Il principio più elevato
può far le veci di quelli inferiori, ma non viceversa. Così nell’uomo l’anima
intellettiva compie anche le funzioni che negli animali sono compiute
dall’anima sensitiva e nelle piante da quella vegetativa (De an., II, 2, 413 a
30 sgg.). A sua volta il principio dianoetico o anima intellettiva si divide in
due parti che sono rispettivamente la parte appetitiva o pratica (la volontà) e
la parte intellettiva o contemplativa (l’intelletto) (/bid., III, X, 433a 14;
Et. Nic., VI, 1, 1139a 3; Pol., 1133 a).Questa partizione aristotelica doveva
rimanere, per lunghi secoli, la più accettata e diffusa. Gli Stoici tuttavia ne
avevano proposta un’altra, consistente di quattro princìpi: a) il principio
direttivo o egemonico che è la ragione; 5) i sensi; c) il seme o principio
spermatico; d) il linguaggio (Dio. L., VII, 157; Sesro E., Adv. Math., IX,
102). Nella filosofia medievale la partizione aristotelica, che finisce col
prevalere sul finire della Scolastica, e che è ripetuta da molti pensatori (per
es., da Alberto Magno, S. Tommaso, Duns Scoto, Ockham) s’intreccia con quel
tipo di partizione che era stato inaugurato da S. Agostino e che consiste nel
ritenere le parti dell'anima modellate sulla Trinità divina. S. Agostino aveva
infatti distinto tre facoltà dell’anima, memoria, intelligenza e volontà,
corrispondenti alle tre persone della Trinità definite 376 rispettivamente come
Essere, Verità e Amore (De trin., X, 18). Questa partizione o partizioni
analoghe, s'incontrano frequentemente nella Scolastica (è ripetuta, per es., da
S. AnseLMO, Monol., 67). Da Cartesio in poi la sola partizione ammessa fu
quella che Aristotele aveva riconosciuta propria dell'anima intellettiva o
dianoetica, tra volontà (o appetizione o desiderio) ed intelletto vero e
proprio: cioè la partizione fondata sull’uso pratico e sull’uso teoretico della
ragione. Per Cartesio infatti l’anima è soltanto l’anima «razionale » giacchè
le funzioni vegetativa e sensitiva non appartengono nè all’anima razionale nè
ad altra specie di anima in quanto sono funzioni meccaniche, che vengono
esplicate dal meccanismo corporeo (Discours, V). La partizione tra intelletto e
volontà viene enunciata da Cartesio (Passions de l’dme, I, 17) come quella tra
le azioni dell'anima, che comprendono tutti i desideri, tra i quali Cartesio fa
rientrare la volontà (Ibid., 18), e le passioni che comprendono « tutte le
specie di percezioni o forme di conoscenza ». partizione viene meglio chiarita
dall’uso che Cartesio ne fa nella sua teoria dell’errore. Questo dipende dal
concorso di due cause, dell’intelletto e della volontà. Con l'intelletto l’uomo
non afferma nè nega nulla, ma concepisce soltanto le idee che può affermare o
negare. L’atto dell’affermazione o della negazione è proprio della volontà.
Ora, la volontà è libera: come tale è assai più estesa dell’intelletto e può
quindi affermare o negare anche ciò che l’intelletto non riesce a percepire
chiaramente e distintamente (Méd., IV; Princ. Phil., I, 34). Con ciò la
distinzione fra intelletto e volontà veniva stabilita e rimaneva sino a Kant un
dato comunemente accettato. Spinoza nega bensì che esistano nell’anima F.
separate adducendo che esse « o sono fittizie o sono entità metafisiche o sono
universali che noi formiamo dalle cose particolari» (Et., II, 48). Ma questo
significa per lui che « volontà e intelletto sono la medesima cosa» (/bid., 49,
coroll.): col che la distinzione viene polemicamente presupposta. Locke stesso
la riconosce quando, a proposito dell’idea di forza, afferma che la volontà e
l'intelletto sono le due forze che spiegano i mutamenti che avvengono nel nostro
spirito (Saggio, II, 21, $ 5-6). Leibniz dice che i due princìpi agenti nella
monade sono la percezione e l’appetizione (Monad., $ 14-15). Cristiano Wolff a
sua volta riconosceva nella conoscenza e nell’appetizione le due funzioni
fondamentali dello spirito umano e sulla base di questa partizione modellava
quella della filosofia nelle due branche fondamentali, filosofia teoretica o
metafisica e filosofia pratica (Log., Disc. Prael., $ 60-62). Kant, traendo le
somme dalle analisi degli empiristi inglesi interponeva tra l’intelletto e la
volontà FALANSTERIO una terza F. che chiamava « sentimento di piacere e
dispiacere». Con ciò le F. dell'anima venivano portate a tre (F. di conoscere,
F. del sentimento, F. di desiderare) (Crif. del Giud., Introd., IX) e questa
partizione diventava classica e venne spesso appoggiata da una presunta
testimonianza della coscienza (v. EMOZIONE, SENTIMENTO). Nessuna tuttavia di
queste dottrine implicava che le F. dell'anima fossero poteri distinti ed
indipendenti. Come già gli antichi, sia Cartesio (Regulae, XII, 79) sia Locke
(Saggio, II, 21, 6); sia Leibniz (Nouv. Ess., II, 21, 6) riconoscono
esplicitamente che la divisione delle F. è un’astrazione che non distrugge
l’unità dell’attività mentale. Sicchè non rappresenta una grande novità la
critica di Herbart alla dottrina delle F. e la sua tesi che le F. stesse
(intelletto, sentimento e volontà) sono semplici «concetti di classe» mediante
i quali si ordinano i fenomeni psichici (Einleitung in die Phil., $ 159). La
psicologia associazionistica condivideva questo punto di vista ma manteneva la
stessa tripartizione (per es., Barn, Mental and Moral Science, 1868, pag. 2;
Logic, II, 275) e il Neo-criticismo della Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp)
riconosceva soltanto tre scienze filosofiche, la logica, l’estetica e l’etica,
corrispondenti appunto alle tre attività dello spirito. Soltanto nella
psicologia e nella filosofia contemporanea, specialmente per influenza del
comportamentismo e della teoria della forma, la dottrina delle parti dell'anima,
comunque intesa, ha perso la sua importanza e non costituisce più tema di
indagine e di dibattiti. Come oggetto d’indagine, infatti, il comportamento
implica la messa in opera simultanea e la fusione di tutti i principi o parti
distinti o distinguibili nell'attività dell'anima o della coscienza o
dell’organismo, sicchè tali distinzioni diventano prive d’interesse e si parla
di « comportamento razionale + o « comportamento emotivo + in un senso in cui
la distinzione stessa non ha più nulla da fare (v. COMPORTAMENTISMO;
COMPORTAMENTO). 2. Nel significato più generale, lo stesso che Potere (v.).
FALANSTERIO (ingl. Phalanstery; francese Phalanstère). Termine adoperato da
Carlo Fourier per designare l’organizzazione sociale utopistica da lui preveduta:
un gruppo di circa 1600 persone viventi a regime comunistico, con libertà di
rapporti sessuali e regolamentazione della produzione e del consumo dei beni
(Trattato di associazione domestica e agricola o teoria dell'unità universale,
1822). FALLACIA (gr. o6piopa; lat. Fallacia; ingl. Fallacy; franc. Sophisme;
ted. Fallacie). Termine con cui gli Scolastici indicarono il «sillogismo
sofistico » di Aristotele. F., disse Pietro Ispano, è la FANATISMO idoneità a
far credere che sia ciò che non è mediante qualche fantastica visione; cioè,
l’apparenza senza esistenza (Summul. log., 7.03). Aristotele aveva diviso i
ragionamenti sofistici in due grandi classi cioè in quelli attinenti al modo di
esprimersi o come dicono gli Scolastici, in dictione e in quelli indipendenti
dal modo di esprimersi o extra dictionem. I primi sono sei e cioè:
l’equivocazione, l’anfibologia, la composizione, la divisione, l’accentuazione,
la figura dictionis. I secondi sono sette e precisamente: l’accidente, il
secundum quid, l’ignorantia elenchi, la petizione di principio, la non causa
pro causa, il conseguente, l'interrogazione multipla (EI. Sof., 4). La dottrina
delle F. fu una delle parti meglio coltivate della logica medievale ma ha perso
quasi ogni importanza nella logica moderna. Una buona metà delle Sumunulae
logicales (sec. xm) di Pietro Ispano è dedicata alla confutazione delle
fallacie. Ma già nella Logica di Portoreale si dedica ad essa un solo capitolo
(il XIX della parte III) che è la ventesima parte circa dell’intera trattazione.
Nella logica contemporanea questa parte della trattazione è completamente
sparita: giacchè non possono essere ridotti a sofismi le antinomie (v.) di cui
essa tratta. Sotto i nomi dei singoli sofismi si troverà ciò che la logica
antica e medievale intendeva per essi. G. P.-N. A. FALLIBILISMO (ingl.
Fallibilism). Termine creato dal Peirce per indicare l'atteggiamento del
ricercatore che ritiene possibile l’errore a ogni istante della sua ricerca e
perciò cerca di migliorare i suoi strumenti di indagine e di controllo (Coll.
Pap., 1.13; 1.141-52). Dewey ha sottolineato l’importanza di questo
atteggiamento (Logic, cap. II; trad. ital., pag. 79). E. Popper l’ha fatto
proprio, contrapponendolo a quello del « verificazionismo + e definendolo come
il procedimento che consiste nel formulare congetture e sottoporle a
confutazioni, anche in base aosservazioni empiriche, con la rinuncia ad ogni
pretesa di certezza nel campo della scienza (Conjectures and Refutations, 1965,
pag. 228 sgg.). FALSIFICABILITÀ (ingl. Falsifiability; francese
Falsificabilité; ted. Falschungsmòglichkeit). È il criterio suggerito da Karl
Popper per l’accoglimento delle generalizzazioni empiriche. Il metodo empirico,
secondo Popper, è quello che « esclude quei modi di evadere la falsificazione
che sono logicamente ammissibili ». Da questo punto di vista, le asserzioni
empiriche sono decidibili solo in un senso cioè nel senso della falsificazione,
e possono essere sottoposte a prova solo da tentativi sistematici di coglierle
in fallo. In tal modo l’intero problema dell’induzione e della validità delle
leggi di natura sparisce (Logic of Scientific Discovery, $ 6). Cfr. ESPERIENZA;
VERIFICAZIONE. 377 FALSO (gr. veu8nc; lat. Falsum; ingl. False; franc. Faux;
ted. Falsch). V. FALLIBILISMO; VERITÀ. FAMIGLIA (ingl. Family; franc. Famille;
tedesco Familie). Interessa qui registrare soltanto l’uso logico e metodologico
di questo concetto, che è recentissimo. Una «F. di concetti» è un insieme di
concetti fra i quali intercorrono relazioni diverse, non riducibili tuttavia a
un unico concetto o principio. È precisamente quello che si verifica tra i
membri di una F. umana, i quali non sempre hanno un’unica proprietà in comune;
e anche quando l’hanno, essa non assomma o esaurisce l’intera somiglianza
familiare. L’uso di questa nozione implica perciò l'impegno a cercare sempre
nuovi rapporti fra i concetti, senza che sia necessario ridurre tali rapporti
ad un unico tipo. Il primo a proporre e adoperare la nozione in questione è
stato WITTGENSTEIN, Philosophical Investigations, $ 110. Quest'opera è stata
pubblicata soltanto nel 1953; ma già da alcuni anni i suoi concetti
fondamentali erano noti e del concetto di F. si era avvalso Waismann nella sua
/ntroduzione al pensiero matematico (Einfihrune in das mathematische Denken,
1936; trad. ital., 1939). Cfr. sullo stesso concetto: ABBAGNANO, Possibilità e
libertà, 1956, passim. FANATISMO (ingl. Fanaticism; franc. Fanatisme; ted.
Fanatismus). Questa parola (da fanum = = tempio) fu adoperata a partire dal 700
scambievolmente con entusiasmo (v.) per indicare lo stato di esaltazione di chi
si crede invasato da Dio e quindi immune dall’errore e dal male. Nell'uso
moderno e contemporaneo, «F.» ha finito per soppiantare « entusiasmo » per
indicare la certezza di chi parla in nome di un principio assoluto e pertanto
pretende per le sue parole questa stessa assolutezza. Già Shaftesbury diceva: «
Ed è questo [l'entusiasmo] che ha fatto nascere la denominazione di F. nel
senso originale in cui l’usavano gli antichi, di apparizione che rapisce la
mente» (Letter on Enthusiasm, 7; trad. ital, Garin, pagina 78-79). In realtà
già Cicerone parlava di « filosofi superstiziosi e quasi fanatici» (De div., 2,
57, 118). Leibniz chiamava fanatica la filosofia che attribuisce tutti i
fenomeni a Dio «immediatamente per miracolo» (Nouv. Ess., Avant-propos, Op.,
ed. Erdmann, pag. 204). Ma certo la migliore defìnizione filosofica del F. fu
data da Kant. Nel senso più generale, F. «è una trasgressione, intrapresa
secondo princìpi, dei limiti della ragione umana ». C'è poi il F. morale che è
«l’oltrepassare i limiti che la ragione pura pratica pone all'umanità, vietando
di porre il motivo determinante soggettivo delle azioni conformi al dovere,
cioè il movente morale di esse, in qualche altra cosa che non sia la legge
stessa ». Il F. morale consiste nella pretesa di 378 fare il bene per
ispirazione, per entusiasmo, per un impulso naturalmente benefico della propria
natura; e perciò nel sostituire alla virtù, che è « l'intenzione morale in
lotta», «la santità del creduto possesso della purezza perfetta delle
intenzioni della volontà » (Crit. R. Prat., I, 1, 3). Il fanatismo in questo
senso è stato sempre l'oggetto polemico dell’opera di Kant che ne ha
individuate e combattute le manifestazioni principali, nel suo sforzo di
determinare i limiti dei poteri umani e la validità di tali poteri nei loro
limiti. In uno scritto del 1786 Che cosa significa orientarsi nel pensare, Kant
poneva in guardia contro la pretesa di superare i limiti della ragione
appellandosi a facoltà o poteri che si pretendono «superiori ». I suoi
riferimenti polemici andavano a Jacobi e Mendelssohn; ma egli vedeva la stessa
pretesa nello spinozismo e contro spinozismo e fanatismo, ribadiva l’esigenza
di determi-nare con precisione i limiti della ragione. Queste osservazioni di
Kant appaiono, a chi le consideri oggi, come una critica anticipata del
Romanticismo che fu, sotto questo rispetto, il grande ritorno dello spinozismo.
Tuttavia Hegel stesso parlò di F., limitandolo però al campo politico e
religioso. Nel campo politico « il F. vuole una cosa astratta non
un’organizzazione »: il suo esempio è la Rivoluzione francese (Fil. del Dir., $
5, Zusatz). Nel campo religioso, il F. consiste nella subordinazione dello
Stato alla religione sicchè il suo motto è in questo campo: « Ai religiosi non
sia data alcuna legge » (/bid., $ 270, Zusatz). Ma Hegel non si accorge che la
stessa onnipotenza dello Stato, da lui teorizzata, è un fanatismo. La parola F.
ha conservato oggi il significato di atteggiamento o punto di vista o dottrina
che, in qualsiasi campo o dominio, trascuri o ignori i limiti dell’uomo. L’età
contemporanea ha conosciuto un’altra più sinistra forma di F.: il F. politico
che pur non essendo una novità dal punto di vista dottrinale ha operato nel
dominio politico l’abolizione dei limiti umani con la conseguente esaltazione o
divinizzazione di punti di vista politici e di individui che li incarnavano. La
parola stessa F. ha perduto, nel dizionario di alcuni movimenti politici, la
connotazione negativa che aveva fin dall’antichità, per significare il pregio
di una fedeltà a tutta prova, incurante di obiezioni come di limiti.
L'esperienza ha mostrato come questa fedeltà è la più fragile di tutte e si
capovolge, alla prima occasione, nel suo contrario. Come già diceva Kant, la
ragionevolezza, col riconoscimento dei limiti che essa implica, è la sola
garanzia di ogni autentico impegno teoretico o pratico. FANTASIA (ingl. Fancy;
franc. Fantaisie; tedesco Phantasie). 1. Lo stesso che immaginazione. FANTASIA
2. A partire dal sec. xvm l’uso contemporaneo dei due termini F. e
immaginazione favoriva una distinzione di significati secondo la quale « F.»
cominciò a indicare un’immaginazione sregolata o sbrigliata. Già nella Logica
di Portoreale si dice che l’immaginazione è «la maniera di concepire le cose
mediante l’applicazione del nostro spirito alle immagini che sono dipinte nel
nostro cervello » (che è un concetto cartesiano esposto nella Regula XII), e si
distinguono queste immagini, che sono le idee delle cose dalle immagini «
dipinte nella fantasia » (I, 1). Si contrappongono, in altri termini le
immagini che sono idee, proprie dell'immaginazione, alle immagini fittizie,
proprie della fantasia. Analogamente Kant diceva che la F. è « l’immaginazione
in quanto produce immagini senza volerlo +; onde è «un fantastico » colui che è
abituato a ritenere tali immagini per esperienze interne o esterne (Antr., I, $
28). E osservava: « Noi giochiamo spesso e volentieri con l'immaginazione; ma
l'immaginazione, in quanto è F., gioca altrettanto spesso, e talvolta male a
proposito, con noi » [/bid., $ 31, a)]. In questo senso la F. è
un’immaginazione sregolata o sbrigliata. Questo è uno dei significati che la
parola ha conservato a tutt'oggi soprattutto nel linguaggio comune, per il
quale la F. è «la pazza di casa». 3. Accanto a questo significato, il
Romanticismo ne ha elaborato un altro per il quale la F. viene intesa come
immaginazione creatrice, diversa di qualità più che di grado dalla comune
immaginazione riproduttiva. In tal senso Hegel vedeva nella F. «l'immaginazione
simboleggiante, allegorizzante e poetante» quindi «creatrice» (Enc., $ 456-57).
I Romantici esaltarono la F. così intesa. Per Novalis essa è «il massimo bene»
(Fragmente, 535). «La F., egli diceva, è il senso meraviglioso che può
sostituire per noi tutti i sensi. Se i sensi esterni sembra che sottostiano a
leggi meccaniche, la F. evidentemente non è legata al presente nè al contatto
di stimoli anteriori » (/bid., 537). In tal modo, il carattere disordinato o
ribelle dell’immaginazione fantastica che faceva apparire questa forma
dell’immaginazione inferiore alle altre durante il sec. xvm, diventa nel xrx un
elemento positivo, un pregio, il contrassegno di una libertà creatrice.
L'estetica romantica si è attenuta a questa valutazione della fantasia. Dice
Croce: « L'estetica del sec. xx foggiò la distinzione, che si ritrova in non
pochi dei suoi filosofi, tra F. (che sarebbe ìa peculiare facoltà artistica) e
immaginazione (che sarebbe facoltà extra artistica). Ammucchiare immagini,
trasceglierle, tagliuzzarle, combinarle, presuppone nello spirito la produzione
e il possesso delle singole immagini; e la F. è produttrice laddove
l’immaginazione è sterile e adatta a combinazioni estrinseche e non FATTO a generare
l’organismo e la vita » (Breviario di estetica, 1913, pag. 35-36). In un senso
analogo Gentile chiamava F. l’attività artistica come puro sentimento o
«inattuale forma subiettiva » dello spirito (Fil. dell’arte, $ 5). Ma in questo
significato romantico la F. cessa di essere un'attività o un’operazione umana,
definibile o descrivibile nelle sue possibilità e nei suoi limiti per
diventare, come manifestazione di un’attività infinita, essa stessa infinita, e
situarsi perciò al di là di ogni possibilità di analisi e di accertamento. Si
tratta, in altri termini, di un concetto magico-metafisico che non può essere
utilizzato fuori del clima romantico che lo creò o predilesse. FANTASMA. V.
IMMAGINE. FAPESMO. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare
l’ottavo dei nove modi del sillogismo di prima figura e precisamente quello che
ha per premesse una proposizione universale affermativa e una proposizione
universale negativa e per conclusione una particolare negativa come
nell'esempio: « Ogni animale è sostanza, Nessuna pietra è animale, Dunque
qualche sostanza non è pietra + (Pietro Ispano, Summul. logic., 4.09; ARNAULD,
Logique, III, 8). FATALISMO (ingl. Fatalism; franc. Fatalisme; ted.
Fatalismus). Già Leibniz aveva distinto dal fato stoico e cristiano il «fato
maomettano +? o «destino alla turca» secondo il quale «gli effetti accadrebbero
anche se se ne evitasse la causa, essendo dotati di necessità assoluta » (Op.,
ed. Erdmann, pag. 660, 764). Wolff adoperava, per indicare questa dottrina, che
egli attribuì a Spinoza, il termine F. nello scritto De differentia nexus rerum
sapientis et fatalis necessitatis (1723) che è per l'appunto diretto contro
Spinoza. In realtà però tutte leconcezioni del fato (o destino), elaborate dai
filosofi ammettono che di esso fanno parte, come cause che determinano bensì
altre cause ma sono a loro volta determinate dalle antecedenti, le stesse
azioni umane dirette ad evitare o a rag-giungere certi risultati. F. è perciò
un termine po-lemico col quale i filosofi abitualmente designano quella forma
di necessitarismo che non condividono. Più esattamente, il termine può essere
adoperato a designare, non una dottrina filosofica, ma un at-teggiamento:
l'atteggiamento di chi si abbandona al corso degli eventi senza cercare di modificarlo
e senza reagire. FATO (ingl. Fate; franc. Fatalité; ted. Fatum). Il destino nel
significato 1° del termine, come necessità sconosciuta, perciò cieca, che
domina gli esseri del mondo in quanto parti dell’ordine totale. La nozione di
fato venne a distinguersi da quella di destino quando si volle accentuare
l’inclusione, fra le cause che costituiscono quest’ultimo, dellavolontà e
dell’azione umana. Leibniz contrappose, in questo senso al fato maomettano
(fatum maho-metanum), che considera gli eventi futuri indipendenti da ciò che
l’uomo può volere e fare, la nozione di destino (o di provvidenza) per la quale
ciò che avverrà nel futuro è anche, almeno in parte, determinato dall’azione
umana (7héod., I, $ 55). In un senso analogo Kant contrappone il F. alla
necessità condizionale, quindi intelligibile della natura (Crit. R. Pura,
Postulati del pensiero empirico). La nozione di F. è nella filosofia moderna
una nozione polemica, che non viene ritenuta valida da coloro che l’adoperano:
perciò è alquanto bastarda in filosofia. Essa non ha questo significato
deteriore nell’espressione amor fati, che è la definizione moderna del destino
(v.). E al suo significato deteriore ha anche cercato di sottrarla Peirce: «Il
F., egli ha detto, significa semplicemente ciò che siamo sicuri si avvererà e
che non può essere in nessun modo evitato. È una superstizione supporre che una
certa specie di eventi sia sottoposta al F. e lo è anche supporre che la parola
F. non possa mai essere liberata dal suo carattere superstizioso. È il F. di
noi tutti di morire» (Chance, Love and Logic, I, cap. 2, $ 4, nota; trad.
ital., pag. 41). FATTICITÀ (ingl. Factuality; ted. Tatsachlichkeit). Husserl ha
chiamato con questo termine il modo d’essere del fatto, in quanto
essenzialmente «casuale» cioè in quanto può essere diverso da ciò che è (Zdeen,
I, $ 2). Heidegger ha distinto « la F. del factum brutum di una semplice
presenza» cioè di una cosa dalla effettività (v.) dell’esistenza (Sein und
Zeit, $ 29). FATTIZIO (ingl. Factitious; franc. Factice; tedesco Gemacht).
Termine che si adopera quasi esclusivamente in riferimento alla classificazione
cartesiana delle idee in innate, avventizie e fattizie: queste ultime sono le
idee «fatte e inventate» da noi (Med., III). FATTO (ingl. Fact; franc. Fait; ted.
Tatsache). In generale, una possibilità oggettiva di verificazione, di
accertamento o di controllo e perciò pure di descrizione o di previsione:
oggettiva nel senso che ognuno può farla propria nelle condizioni adatte. « È
un F. che x» significa che x può essere verificato o accertato da chiunque sia
in possesso dei mezzi adatti o può essere descritto o previsto in modo
controllabile. La nozione di F. è una nozione moderna, più ristretta e
specifica che non quella di realtà; ed è nata soprattutto per indicare gli
oggetti della ricerca scientifica, che devono poter essere riconosciuti da
qualsiasi ricercatore capace. Il F. si presenta perciò, quanto alla sua
validità, indipendente da opinioni e pregiudizi e anche da giudizi e
valutazioni che non siano quelli inerenti all'uso degli strumenti adatti per
accertarlo. Esso si presenta così fornito di due caratteristiche fon-damentali:
a) il riferimento a un metodo appropriato di accertamento o di controllo; 5)
l’indipendenza dalle credenze soggettive o personali di chi adopera il metodo
stesso. Per l’appunto in vista di queste due caratteristiche, la «capacità di
guardare i fatti» o «di tener conto dei fatti» o «di accettare i fatti per
quello che sono » è oggi considerata come uno dei requisiti fondamentali non
soltanto dello scienziato e in generale del ricercatore, ma di ogni cittadino.
Nonostante l’importanza che la nozione ha assunto nella cultura moderna,
l’attenzione dei filosofi si è solo raramente portata su di esso. La storia
delle analisi di questa nozione è assai magra. Si può dire che s’inizi nel
1600, quando, con la distinzione tra « verità di ragione» e « verità di F.» si
comincia anche a distinguere, almeno implicitamente, la sfera propria del
fatto. Questa distinzione è stata fatta per la prima volta da Hobbes: « Vi
sono, egli diceva, due specie di conoscenza, di cui una è la conoscenza di F.,
l’altra la conoscenza della conseguenza di un'affermazione dall’altra. La prima
non è altro che senso e memoria ed è conoscenza assoluta, come quando vediamo
un F. accadere o lo ricordiamo; e questa è la conoscenza richiesta in una
testimonianza. L’altra è chiamata scienza ed è condizionale... » (Leviath., I,
9). Come Hobbes, Leibniz e Hume sono d’accordo nel ritenere che tale sfera è
l’esperienza. Secondo Leibniz, le verità di F. sono contingenti mentre quelle
di ragione sono necessarie perchè fondate sul principio di contraddizione
sicchè il loro contrario è impossibile (Nouv. Ess., IV, 2, 1). Secondo Hume,
delle verità di F. «è possibile sempre il contrario, poichè non implica mai
contraddizione ed è concepito dallo spirito con la stessa facilità e chiarezza
che se fosse conforme alla realtà » (Zng. Conc. Underst., IV, 1). Sia Leibniz
che Hume sono infine d’accordo nel ritenere che il fondamento della verità di
F. è il principio di causalità. Da questa analisi risulta perciò che il fatto
è: a) una realtà contingente, attinta o testimoniata dall’esperienza; è) una
realtà fondata su una certa connessione causale. Una nozione di fatto così
configurata è quella che propriamente oggi si direbbe la nozione di avvenimento
cioè di una realtà contingente, appartenente all'ordine della natura.
Quest'ultima qualifica è quella che viene espressa dal ritenere la verità di F.
fondata sul principio causale. Pertanto questa non è ancora una nozione di F.
sufficientemente estesa, cioè tale da poter valere nei confronti dell’intera
estensione della ricerca scientifica: per essa le verità matematiche non
sarebbero verità di fatto. L’estensione della nozione fu realizzata da Kant. Secondo
Kant, «i fatti sono gli oggetti dei concetti di cui si può provare la realtà
oggettiva, sia meFATTO diante la ragione, sia mediante l’esperienza: nel primo
caso, in base a dati teoretici o pratici, in ogni caso per mezzo di una
intuizione corrispondente » (Crit. Giud., $ 91). Sono fatti in questo senso,
secondo Kant, le proprietà geometriche delle grandezze in quanto possono essere
dimostrate a priori; le cose o le qualità delle cose che possono essere provate
mediante l’esperienza o mediante testimonianze; ed anche l’idea della libertà,
la cui realtà come una specie particolare di causalità si può mostrare a
partire dall’esperienza morale (/bid., $ 91). Questa analisi di Kant è
importante perchè: a) consente di distinguere nettamente la nozione di F. da
quella di avvenimento come nozione più generale, corrispettiva della
possibilità d’uso di qualsiasi strumento di accertamento. Da questo punto di
vista l'avvenimento è una specie particolare di F., precisamente è un F.
naturale; b) consente di riconoscere il carattere empirico del F. come alcunchè
di diverso dal suo confinamento alla sfera della sensibilità: la ragione stessa
ha a che fare con fatti che non le sono esterni e imposti dall'esterno, ma che
trova in se stessa, come condizioni del suo funzionamento. Da questo punto in
poi, la nozione di F. viene talora avvicinata a quella di fenomeno, talaltra a
un elemento o condizione della ragione. Si avvicina il F. al fenomeno quando si
parla di « F. bruto » o «grezzo» o di «mero F.», giacchè si allude in tal caso
al dato immediato, alla semplice o grossolana apparenza così come si presenta
prima facie. Ma è chiaro che non si può procedere molto oltre sulla via di
questa identificazione. Il F. non è il fenomeno: per es., la spezzatura di un
bastone nell'acqua è un fenomeno ma non un fatto. È pure un fenomeno il moto
apparente dei cieli che sin dagli inizi l'astronomia cercò in vari modi di
ridurre a « F.». Il F. implica una sistemazione o interpretazione del fenomeno
per la quale il fenomeno stesso cambia faccia, diventa suscettibile di essere
descritto, previsto e controllato. Lo stesso Comte che adopera il più delle
volte scambievolmente le due parole sembra talora accennare ad una distinzione
come nel passo seguente: « Questo F. generale (cioè la gravitazione) ci è
presentato come una semplice estensione di un fenomeno che ci è eminentemente
familiare e che perciò consideriamo come perfettamente conosciuto, la
pesantezza dei corpi alla superficie della terra » (Phil. Pos., I, $ 4). Ma
nell’ambito stesso del positivismo, Claude Bernard accentuò la subordinazione
dei fatti alla ragione. « Senza dubbio, egli scrisse, io ammetto che i fatti
sono le sole realtà che possano dare la formula all’idea sperimentale e nello
stesso tempo servirle di controllo; ma ciò alla condizione che la ragione li
accetti... Nel metodo sperimentale,come dappertutto, il solo criterio reale è
la ragione. Un F. non è niente di per se stesso, vale soltanto per l’idea che
gli si connette o per la prova che fornisce » (Intr. à l’étude de la médecine
expérimental, I, 2, 7). Questa interpretazione del fatto sembrò confermata
quando si vide la parte preponderante che nella costruzione del «F.
scientifico» ha la teoria (P. DUHEM, La théorie physique: son objet et sa
structure, 1906). La stretta connessione del F. con l'attività razionale,
espressa in vari modi, viene in generale riconosciuta nella filosofia
contemporanea. La fenomenologia ha elaborato la nozione di stato di cose
(Sachverhalt) come l’oggetto corrispondente di ogni giudizio valido e ha
considerato come un fatto lo stato di cose in cui è coinvolta un’esistenza
individuale. In questo senso una cosa non è un F.: ma è un F. che questa cosa
esista che abbia questo o quel carattere, ecc. (HussERL, /deen, I, $ 6). La
nozione di stato di cose è stata ripresa da Wittgenstein nel Tractatus
logico-philosophicus che però ha concepito in diversa maniera il rapporto di
esso col fatto perchè ha visto nello « stato di cose» l’elemento semplice che
entra a comporre il fatto. Lo stato di cose sarebbe perciò il « F. atomico » il
componente elementare dei fatti (Tracr., 2). Quel che c’è di caratteristico in
queste notazioni è la definizione del fatto (o dei suoi componenti) come
oggetto del giudizio o della proposizione valida. Lo stato di cose o F. atomico
non è, secondo Wittgenstein che l’oggetto di una proposizione elementare
(/bid., 4, 21). S’intende perciò come, sulla linea di sviluppo di questa
concezione, i fatti siano stati addirittura identificati con le proposizioni.
L’identificazione è stata proposta da Ducasse (in «Journal of Philosophy +,
1940, pag. 701-11) e accettata da Carnap,nel senso che un F. sarebbe una
proposizione che sia: 1° vera; 2° contingente; 3° dotata di un certo grado di
completezza cioè di determinazione (Meaning and Necessity, $ 6, 1). Bisogna
avvertire che, per Carnap, il termine proposizione non significa nè
un’espressione linguistica, nè un avvenimento mentale o soggettivo ma qualcosa
di oggettivo che può o meno trovare esempi in natura ed è pertanto paragonabile
a « proprietà » (/bid., $ 6). La « proposizione vera + che Carnap identifica
col F. significa perciò semplicemente un « oggetto valido » o un reale « stato
di F. ». Il chiarimento che deriva da queste riduzioni linguistiche è puramente
verbale; e, se può riuscire di qualche utilità in una trattazione logica, poco
o nulla dice intorno alla natura e ai caratteri del fatto. Denuncia, al più la
tendenza a ricondurre il F. stesso a condizioni concettuali o linguistiche.
Dall’altro lato, il pragmatismo con Dewey ha insistito sul carattere «
operazionale » del F.: nel senso che i F. «sono soltanto risultati di
operazioni e di osservazioni compiute con l’aiuto degli organi sensoriali e di
strumenti ausiliari prodotti dalla tecnica, e perciò vengono scelti e ordinati
nell’espresso intento di farli servire come dati per una ricerca ordinata
(Logic, VI, 5, $ 4). L’analisi contemporanea della nozione ignora pertanto
l’antitesi tra fatti e ragione. L'eliminazione di questa antitesi si fa
indubbiamente sentire anche nell’elaborazione del concetto di ragione (v.). Per
ciò che riguarda la nozione di F., esso, nei confronti della ragione, si viene
a configurare come una condizione limitativa delle scelte razionali. In un
campo determinato, per es., nella fisica, un F. è ogni possibile oggetto di
osservazione cioè ogni stato o situazione che può essere accertata e
controllata con gli strumenti di cui dispone la fisica. Ma i fatti fisici in
questo senso sono i limiti o le condizioni dell’attività razionale nel campo
della fisica cioè di ogni costruzione teoretica o ipotesi. Allo stesso modo,
nel campo della logica, le implicazioni analitiche o tautologiche valgono come
fatti, cioè come condizioni o limiti della ricerca logica (AsBAGNANO,
Possibilità e libertà, VI, 7). In generale si può dire che mentre il F. è una «
possibilità di accertamento » che in ogni campo assume l’aspetto specifico
dovuto agli strumenti d’indagine disponibili nel campo stesso, esso è pure, nei
confronti della ragione, la condizione di altre possibilità cioè di scelte o di
operazioni che a loro volta si determinano o specificano secondo la natura dei
singoli campi d’indagine. FAUSTISMO (ted. Faustismus). Secondo Spengler, il
carattere della cultura occidentale, in quanto si contrappone all’apollinismo
della cultura antica. L’anima faustiana ha come suo simbolo lo spazio puro
illimitato. Faustiane sono, secondo Spengler, la dinamica di Galilei, la
dogmatica cattolica e protestante, le grandi dinastie con la loro politica di
gabinetto, il destino di Lear e l’ideale della Madonna dalla Beatrice di Dante
alla fine del secondo Faust di Goethe (Untergang des Abendlandes, I, 3, 2, $
6). Ovviamente si tratta di una caratterizzazionearbitrariaefantastica. FAVOLA
(lat. Fabula; ingl. Fable; franc. Fable; ted. Fabel). Dal Rinascimento in poi
la convinzione che le « F. antiche » avessero un valore di sintomo o di
rivelazione indiretta della verità condusse a una reinterpretazione degli
antichi miti che furono talora piegati (come si vede nelle opere di Bruno) a
significati filosofici particolari. Sul valore delle F. stesse Bacone e Vico
segnano gli atteggiamenti fondamentali. Bacone pensava che le F. sono qualcosa
di intermedio tra il silenzio e l’oblio delle età perdute e la memoria e
l'evidenza delle età più vicine di cui possediamo testimonianze scritte. « Le
F., egli scrisse, non sono nè un prodotto delle 382 loro età nè frutto
dell’invenzione poetica ma quasi sacre reliquie e tenui aure di tempi migliori,
che dalla tradizione delle nazioni più antiche sono arrivate fino alle trombe e
ai flauti dei Greci» (De sapientia veterum, 1609, Pref.). Bacone propendeva
pertanto a scorgere nelle F. un significato allegorico che vi sarebbe stato
intenzionalmente racchiuso. Che è per l’appunto la tesi negata e combattuta, il
secolo dopo, da Vico: secondo il quale le F. sono tali soltanto dal punto di
vista dei dotti, mentre per i popoli primitivi che le crearono erano narrazioni
vere. «I filosofi, dice Vico, diedero alle F. interpretazioni fisiche o morali
o metafisiche o di altre scienze, come l’oro o l’impegno o il capriccio ne
riscaldasse le fantasie; sicchè essi piuttosto con le loro allegorie erudite le
finsero favole. I quali sensi dotti i primi autori di quelle F. non intesero,
nè per la loro rozza ed ignorante natura potevano intendere: anzi per questa
stessa loro natura concepirono le F. per narrazioni vere... delle loro divine
ed umane cose» (Sc. Nuova, II, Della metafisica poetica). Questa idea di Vico è
rimasta a fondamento della moderna filosofia delle forme simboliche (v. MITO). FEDE
(gr. riot; lat. Fides; ingl. Faith; francese Foi; ted. G/aube). La credenza
religiosa, cioè la fiducia nella parola rivelata. Se la credenza in generale è
l'impegno nei confronti di una nozione qualsiasi, la F. è l’impegno nei
confronti di una nozione che si ritiene rivelata o testimoniata dalla divinità.
In questo senso usava già la parola Sesto Empirico parlando di quei
ragionamenti che sembrano dipendere « dalla F. e dalla memoria » come il
seguente: « Se un Dio ti ha detto che costui diventerà ricco, costui diventerà
ricco. Ma questo Dio qui (e indico, supponiamo, Zeus) t’ha detto che costui
diventerà ricco. Dunque diventerà ricco ». In questi casi, nota Sesto,
assentiamo alla conclusione non per la necessità delle premesse ma in quanto
abbiamo F. nella dichiarazione della divinità (Ip. Pirr., II, 141). S. Paolo ha
riassunto le caratteristiche fondamentali della F. religiosa nelle celebri
parole: « F. è sostanza delle cose sperate e argomento delle non parventi»
(Mebr., 11, 1). S. Tommaso ha chiarito nel modo seguente le parole di S. Paolo:
« In quanto si parla di argomento, si distingue la F. dall’opinione, dal
sospetto e dal dubbio, nelle quali cose manca la ferma adesione dell’intelletto
al suo oggetto. In quanto si parla di cose non parventi, si distingue la fede
dalla scienza e dall’intelletto, nei quali qualcosa diventa apparente. E in
quanto si dice sostanza delle cose sperate si distingue la virtù della F. dalla
F. nel comune significato [cioè dalla credenza in generale] la quale non è
diretta alla beatitudine sperata » (S. 7H., Il, 2, q. 4, a. 1). Gli Scolastici
si attennero, con poche FEDE varianti, a questa descrizione della fede. Col
misticismo tedesco del xrv secolo cominciò ad affacciarsi la dottrina del
carattere privilegiato della F. come via d’accesso originale, diretta e
immediata alle realtà supreme e specialmente a Dio. Maestro Eckhart vede nella
F. il mezzo attraverso il quale l’uomo raggiunge la realtà ultima di sè e di
Dio: la F., egli dice è la nascita di Dio nell’uomo. Questo tema ritornava
nella cosiddetta « filosofia della F. + del sec. xvi: Hamann e Jacobi
attribuiscono alla F. lo stesso sfarus privilegiato, la stessa capacità di
mettere l’uomo direttamente a contatto, scavalcando i limiti e le incertezze
della ragione, con le realtà ultime e specialmente con Dio. Per quanto Jacobi
includa nella F. religiosa anche la parte che propriamente spetta alla credenza
(«Noi crediamo, egli dice, di avere un corpo; crediamo all’esistenza delle cose
sensibili », Werke, IV, 211; III, 411), è sul carattere religioso della F. che
egli fonda la certezza privilegiata di essa: ogni F., egli dice, è
necessariamente F. della rivelazione e questa è necessariamente F. in Dio, cioè
religione (Ibid., Il, 274, 284 sgg.). I Romantici spesso riconfermarono questo
status privilegiato della fede. Così fece Fichte che esaltò la F. nelle opere
popolari del secondo periodo, per es., nella Missione dell’uomo (1800) dove
afferma che «la F., dando realtà alle cose, impedisce ad esse di essere vane
illusioni: è la sanzione della scienza» e ripete la parola di Jacobi: « Tutti
nasciamo nella F. » (Werke, II, pag. 254-55). Accenti analoghi risuonano talora
negli scritti di Schelling (Werke, I, 10, 183) e Novalis dice che la scienza è
soltanto una delle metà e la F. è l’altra metà (Fragmente, 391). Verso la fine
della Scolastica si era cominciato ad accentuare un altro aspetto della F.: il
suo carattere pratico che non consiste nella sua dipendenza dalla volontà ma
nella sua capacità di dirigere l’azione. Duns Scoto fu il primo ad insistere su
questo carattere: « La F., egli dice, non è un abito speculativo nè il credere
è un atto speculativo, nè la visione che segue al credere è una visione
speculativa, ma pratica » (Op. Ox., prol., q. 3). Per « pratico» Duns Scoto
intende ciò che serve a dirigere la condotta e perciò egli chiama pratica
l’intera teologia in quanto le verità che essa insegna non sono teoretiche cioè
necessarie e dimostrabili ma servono unicamente a dirigere l’uomo verso la
beatitudine eterna (/bid., prol., q. 4, n. 42). La stessa antitesi tra
l’hkabitus della F. e quello della scienza era ammessa da Ockham che riteneva i
due abiti incompatibili tra di loro e osservava che chi crede a qualcosa di cui
ha dimenticato la dimostrazione non si può dire veramente che ha «F.» perchè
l’oggetto della sua credenza è pur sempre la dimostrazione (/r Sent., III, q. 8
R). FEDE ANIMALE Nel mondo moderno il carattere pratico della F. veniva difeso
da Spinoza. «La F., egli dice, consiste nell’avere, nei confronti di Dio, quei
sentimenti tolti i quali viene tolta l’obbedienza a Dio, e che sono posti
necessariamente quando è posta tale obbedienza » (7ract. Theol.-Pol., 14). La
F. è perciò l’insieme delle credenze che condizionano l'obbedienza alla
divinità, secondo Spinoza. Ed è questo un concetto che doveva essere ripreso da
Kant, per il quale la credenza teoricamente insufficiente può, soprattutto nel
suo aspetto pratico, esser detta fede. Kant generalizza il concetto pratico
della F., riconoscendo in essa l’atteggiamento impegnativo che può dirigere sia
l’abilità, cioè l’attività che ha in vista fini arbitrari e accidentali, sia la
moralità che ha in vista fini assolutamente necessari. La F. che dirige
l’abilità è la F. prammatica la quale difficilmente spinge il suo impegno sino
alla scommessa. C’è invece una F. dortrinale che è più impegnativa ma che
neppure arriva alla certezza della F. morale. Quest'ultima specie di F., dà una
certezza che non si può comunicare e non è quindi di natura logica ma è una «
certezza morale» che poggia su fondamenti soggettivi. « Così io non devo dir
mai: è moralmente certo che c’è un Dio, ecc., ma: io sono moralmente certo,
ecc. Cioè: la F. in Dio e in un altro mondo è talmente intrecciata col mio
sentimento morale che, come non corro rischio di perdere questo, così non temo
che quella possa essermi tolta» (Crit. R. Pura, Canone della Ragion Pura, sez.
3). La F. religiosa può essere secondo Kant o «F. religiosa pura » che è la
stessa F. morale o «F. storica» che è F. nelle leggi statutarie cioè nelle
leggi che indicano il modo in cui Dio vuol essere onorato ed obbedito
(Religion, III, I, $ 6). Ciò che gli Scolastici chiamavano il carattere pratico
della F. è diventato per Kant (e per i moderni) il carattere impegnativo della
F. stessa cioè il carattere per il quale la F. è innanzi tutto un atto
esistenziale, una direzione impressa alla vita dell’individuo, capace di
trasformarla e non priva di rischio. Questi tratti appaiono chiari nell'ultima
grande teoria della F. che la filosofia ha elaborato: quella di Kierkegaard.
Kierkegaard ritiene che il cristianesimo ha invertito il rapporto tra F. e
scienza. Nell’antichità classica la F. è qualcosa di inferiore alla scienza
perchè si rapporta al verosimile; nel cristianesimo la F. è superiore alla
scienza perchè indica la certezza più alta, una certezza che si rapporta al
paradosso, quindi all’inverosimile: essa è «la coscienza dell’eternità, la
certezza più appassionata che spinge l’uomo a sacrificare tutto, anche la vita»
(Diario, X*, A 635). Il carattere impegnativo della F. consiste nel suo legame
con l’esistenza: aver F. significa esistere in un certo 383 modo. « Per aver
F., dice Kierkegaard, è necessaria una situazione e questa situazione
dev’essere prodotta con un passo esistenziale dell’individuo » (Ibid., X*, A
114). Questo passo segna la rottura col mondo e col suo ideale di
intelligibilità. Che cosa è credere? È volere (ciò che si deve e perchè si
deve) in obbedienza riverente e assoluta, difendersi contro i pensieri vani di
voler comprendere e contro le vane immaginazioni di poter comprendere » (/bid.,
X!, A 368). Da questo punto di vista la F. non è fatta di certezze, ma di
decisione e di rischio. La F., dice Kierkegaard in Timore e tremore, è la
certezza angosciosa, l’angoscia che si rende certa di sè e di un nascosto
rapporto con Dio. L’uomo può pregare Dio che gli conceda la F.; ma la
possibilità di pregare non è in se stessa un dono divino? Così c’è nella F. una
contraddizione ineliminabile che la rende paradossale. L'uomo è posto di fronte
al bivio: credere e non credere. Da un lato è lui che deve scegliere e
dall’altro ogni sua iniziativa è esclusa perchè Dio è tutto e da Lui deriva
anche la fede. Questo concetto è stato sostanzialmente ripreso da Karl Barth
che ha interpretato la F. come l’inserzione della Eternità nel tempo, della
Trascendenza nell’esistenza (Commento all’Epistola ai Romani, 1919).
All’iniziativa divina attribuisce la F. anche Rudolf Bultmann che, tuttavia ha
affermato l’esigenza di liberare la F. stessa, e in particolare quella
cristiana, dai miti cosmologici con i quali essa tradizionalmente si presenta
unita e di procedere alla sua demitizzazione (v.). E andando oltre su questa
strada, Dietrich Bonhoeffer ha addirittura contrapposto la F. alla religione
(v.), considerata come un’espressione mitica o contingente della F. e divenuta
inaccettabile nell’età contemporanea dominata dal razionalismo, dalla scienza e
dalla tecnologia. Da questo punto di vista si accentua il carattere pratico
della F. che diventa una morale naturale ed umana, che si fonda sull’unità del
mondo e di Dio, dell’umanità e di Cristo (£tica, 1949; Resistenza e Resa,
1951). A questo concetto della F., intesa come azione rinnovatrice del mondo
umano, si ispira il panteismo umanistico dei cosiddetti « nuovi teologi » (v.
Dio e Dio, MORTE DI). Da un punto di vista filosofico ha insistito
sull’identità di esistenza e fede Karl Jaspers che tuttavia ha continuato a
riconoscere nella F., sulle orme di Kierkegaard, un rapporto diretto con la
Trascendenza (Der Philosophische Glaube, 1948). FEDE ANIMALE (ingl. Animal
Faith). Così Santayana chiamò la credenza nella realtà in quanto prodotta
nell’uomo da esperienze animali: fame, sesso, lotta, ecc. (Scepricism and
Animal Faith, 1923) (v. CREDENZA). 384 FEDE, FILOSOFIA DELLA (ted.
G/aubensphilosophie). Con questo nome o con quello di « filosofia del sapere
immediato » si indica la filosofia di un gruppo di filosofi tedeschi della
seconda metà del 700 che fecero parte dello Sturm und Drang (v.). Le principali
figure di questa filosofia furono G. G. Hamann (1730-88), detto «il mago del
Nord +»; G. G. Herder (1744-1803) e F. E. Jacobi (1743-1819) al quale si deve
l’espressione « filosofia della F.». Questa filosofia accettava da Kant la
dottrina dei limiti della ragione solo per affermare la superiorità della F.
sulla ragione. Essa considerava la F. come un rapporto immediato, quindi non
soggetto a incertezze o a dubbi, con le realtà supreme e specialmente con Dio.
Jacobi espresse queste idee nelle Lerrere sulla dottrina di Spinoza a Mosé
Mendelssohn (1785), e nello scritto David Hume e la F. (1787). Hegel nella
logica dell’Enciclopedia considerò la dottrina di Jacobi come «Terza posizione
del pensiero rispetto all’oggettività » e criticò l'immediatezza nella quale
vide il carattere fondamentale della F. di cui parlava Jacobi (Enc., $ 61-74).
FEDE E SCIENZA. V. SCOLASTICA. FEDELTÀ (ingl. Loyalty). La volontaria, pratica,
completa devozione di una persona ad una causa. Così definì la F. Royce nel suo
libro Filosofia della F. (1908) assumendola come principio generale dell’etica.
La F. include infatti la solidarietà con gli altri individui o meglio con una
comunità di individui e contiene il criterio per giudicare del valore delle
cause giacchè consente di riconoscere come cattiva una causa che renda
impossibile o neghi la F. altrui. La F. alla F. fu quindi ritenuta da Royce il
criterio della vita morale. FELAPTO. Parola mnemonica usata dagli Scolastici
per indicare il secondo dei sei modi del sillogismo di terza figura e
precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una
premessa universale affermativa e di una conclusione particolare negativa come
nell’esempio: « Nessun uomo è pietra, Ogni uomo è animale, Dunque qualche
animale non è pietra» (Pretro Ispano, Summul. logic., 4.14). FELICITÀ (gr.
evdaruovia; lat. Felicitas; inglese Happiness; franc. Bonheur; ted.
Glickseligkeit). In generale uno stato di soddisfazione dovuto alla propria
situazione nel mondo. Per questo rapporto con la situazione, la nozione di F. si
differenzia da quella di beatitudine (v.) la quale è l'ideale di una
soddisfazione indipendente dal rapporto dell’uomo col mondo e perciò ristretta
alla sfera contemplativa o religiosa. Il concetto di F. è umano e mondano. Così
è nato nella Grecia antica, dove Talete riteneva felice « colui che ha un corpo
sano, buona fortuna e un’anima bene educata» (Dioc. L., I, FEDE, FILOSOFIA
DELLA 1, 37). La buona salute, la fortunata riuscita della vita e il successo
della propria formazione, che costituiscono gli elementi della F., sono
inerenti alla situazione dell’uomo nel mondo e fra gli altri uomini. Democrito,
in modo pressocchè analogo, definiva la F. come «la misura del piacere e la
proporzione della vita», cioè come il tenersi lontani da ogni difetto e da ogni
eccesso (F7., 191, Diels). Comunque, F. e infelicità appartengono all’anima
(Fr., 170, Diels) giacchè solo l’anima «è la dimora della nostra sorte » (Fr.,
171, Diels). La connessione che è stata spesso stabilita tra F. e piacere ha lo
stesso significato, cioè è connessione tra lo stato definito come F. e il
rapporto col proprio corpo, con le cose e con gli uomini. La tesi che la F. sia
il sistema dei piaceri, fu espressa con tutta chiarezza da Aristippo che
distinse anche il piacere dalla felicità. Solo il piacere è il bene perchè solo
esso viene desiderato di per se stesso e quindi è il fine in sè. « Il fine è il
piacere particolare, la F. è il sistema dei piaceri particolari, in cui si
sommano anche i passati e i futuri » (Diog. L., II, 8, 87). Egesia che negava
la possibilità della F., la negava proprio per il fatto che i piaceri sono
troppo rari e labili (Ibid., II, 8, 94). Dall’altro lato, Platone negava che la
F. consistesse nel piacere e la riteneva invece connessa con la virtù. «I
felici sono felici per il possesso della giustizia e della temperanza e gli
infelici, infelici per il possesso della cattiveria », egli dice nel Gorgia
(508 b) e nel Convito (202 c) sono detti felici «coloro che posseggono bontà e
bellezza ». Ma giustizia e temperanza sono virtù; « possedere bontà e bellezza
» significa ancora essere virtuosi; e la virtù non è altro, secondo Platone, se
non la capacità dell'anima di adempiere al proprio compito, cioè di dirigere
l’uomo nel modo migliore (Rep., I, 353 d sgg.). Sicchè anche la nozione
platonica della F. è relativa alla situazione dell'uomo nel mondo, e ai compiti
che qui lo attendono. Quanto ad Aristotele, egli ha bensì insistito sul
carattere contemplativo della F. nel suo grado eminente, cioè della beatitudine
(v.), ma ha dato della F. una nozione più estesa definendola come « una certa
attività dell’anima svolta conformemente a virtù » (Er. Nic., I, 13, 1102 b);
la quale non esclude, ma include la soddisfazione dei bisogni e delle
aspirazioni mondane. Le persone felici, secondo Aristotele, devono possedere
tutte e tre le specie di beni che si possono distinguere, cioè quelli esterni,
quelli del corpo e quelli dell’anima (/bid., 1153 b 17 sgg.; Pol., VII, 1, 1323
a 22). È vero tuttavia che «i beni esteriori, come ogni strumento, hanno un
limite entro il quale adempiono la loro funzione di essere utili, come mezzi,
ma oltre il quale diventano dannosi o inutili per chi li possiede. E che i beni
spirituali invece, FELICITÀ 385 tanto più sono abbondanti tanto più sono utili
». Ma in generale si può dire che « Ciascuno merita tanta F., per quanto virtù,
senno e capacità di agire in conformità egli possiede e si può chiamare a
testimonio la divinità che è felice e beata non per beni esteriori ma di per se
stessa, per quello che è per natura » (Po/., VII, 1, 1323 b 8). La F. è perciò
più accessibile al saggio che più facilmente basta a se stesso (Er. Nic., X, 7,
1177 a 25) ma è ciò a cui in realtà devono tendere tutti gli uomini e le città.
L'etica post-aristotelica si occupa invece esclusivamente della F. del saggio;
la netta divisione degli Stoici tra saggi e pazzi rende infatti ovviamente
inutile occuparsi di questi ultimi. Il saggio è colui che basta a se stesso e
che perciò trova in sè esclusivamente la sua F. che meglio si direbbe beatitudine.
Plotino rimprovera alla nozione aristotelica di F. che, consistendo essa per
ogni essere nel compiere la sua funzione e nel raggiungere il proprio fine, può
applicarsi benissimo non solo agli uomini ma anche agli animali e alle piante
(Enn., I, 4, 1 sgg.). E agli Stoici Plotino rimprovera l’incoerenza di porre la
F. nell'indipendenza dalle cose esterne e nello stesso tempo di additare come
oggetto della ragione proprio queste cose stesse. Per Plotino, la F. è la vita
stessa; perciò mentre appartiene a tutti gli esseri viventi, appartiene nel
grado più eminente alla vita più completa e perfetta che è quella
dell’intelligenza pura. Il saggio, in cui tale vita si realizza, è bene a se
stesso: non ha bisogno che di se stesso per essere felice e non cerca le altre
cose o almeno le cerca solo perchè sono indispensabili alle cose che gli
appartengono (per es., al corpo) e non a lui stesso. La F. del saggio non può
essere distrutta nè dalla cattiva fortuna nè dalle malattie fisiche e mentali
nè da alcuna circostanza sfavorevole, come non può essere aumentata dalle
circostanze favorevoli (/bid., I, 4, 5 sgg.): è perciò la stessa beatitudine di
cui godono gli Dei. La filosofia medievale ha ribadito e fatto propri questi
concetti, talora adattando ad essi (come ha fatto S. Tommaso) la stessa
dottrina aristotelica: e solo estendendoli alla generalità degli uomini. Dali’
Umanesimo in poi la nozione di F. comincia a essere strettamente legata —
com'era già stata per Cirenaici ed Epicurei — con quella di piacere. Il De
voluptate di Lorenzo Valla è imperniato su questa connessione; e tale
connessione si accentua nel mondo moderno. Essa trova concordi Locke e Leibniz.
Locke dice che la F. «è il massimo piacere di cui siamo capaci e l’infelicità è
la massima pena; e l’infimo grado di ciò che può essere chiamato F. è di essere
tanto liberi da ogni pena e di aver tanto piacere presente da non poter essere
25 — contenti con meno » (Saggio, II, 21, 43). E Leibniz: «Io credo che la F.
sia un piacere durevole, ciò che non potrebbe accadere senza un progresso
continuo verso nuovi piaceri » (Nouv. Ess., II, 21, 42). La nozione della F.
come piacere o come somma o meglio come «sistema» di piaceri, secondo la
espressione del vecchio Aristippo, comincia con Hume ad acquistare un
significato sociale: la F. diventa piacere diffusibile, il piacere del maggior
numero e in questa forma la nozione di F. diventa la base del movimento
riformatore inglese dell’800. Nel frattempo Kant, che riteneva impossibile
porre la F. a fondamento della vita morale, ne chiariva tuttavia efficacemente
la nozione senza ricorrere a quella di piacere. « La F., dice Kant, è la
condizione di un essere razionale nel mondo al quale, nell’intero corso della
sua vita, tutto avvenga secondo il suo desiderio e la sua volontà » (Crif. R.
Pratica, Dialettica, Sez. 5). Si tratta perciò di un concetto che l’uomo non
trae dagli istinti e non deriva da ciò che in lui è animalità, ma che egli si
forma in modi diversi e che cambia spesso e spesso arbitrariamente (Crit. del giud.,
$ 83). Kant ritiene che la F. faccia parte integrante del sommo bene, il quale
è per l’uomo la sintesi di virtù e felicità. Ma come tale il sommo bene non è
realizzabile nel mondo naturale; e non è realizzabile sia perchè nulla
garantisce in questo mondo la perfetta proporzione tra moralità e F. in cui il
sommo bene consiste; sia perchè nulla garantisce quel soddisfacimento pieno di
tutti i desideri e tendenze dell’essere razionale in cui la F. consiste. Nel
mondo naturale pertanto la F. è dichiarata da Kant impossibile e rinviata in un
mondo intelligibile che è «il regno della grazia » (Crif. R. Pura, Dottrina del
metodo, cap. II, sez. 2). Kant ha avuto il merito, in primo luogo, di enunciare
in modo rigoroso la nozione di F. e in secondo luogo quello di mostrare che
tale nozione è empiricamente impossibile, cioè irrealizzabile. Non è possibile
infatti che siano soddisfatte rutte le tendenze, inclinazioni, volizioni
dell’uomo perchè da un lato la natura non si preoccupa di venire incontro
all’uomo in vista di tale soddisfazione totale e dall’altro perchè gli stessi
bisogni e inclinazioni non rimangono mai fermi nella quiete dell’appagamento
(Crir. del giud., $ 83). Ricondotta al concetto di soddisfazione assoluta e
totale — sul quale insiste anche Hegel (Enc., $ 479480) — la F. diviene
l’ideale di uno stato o condizione inattingibile, salvo che in un mondo
soprannaturale e per intervento di un principio onnipotente. Non fa quindi
meraviglia che tutta quella parte della filosofia moderna che è passata attraverso
il filtro del kantismo abbia trascurato la nozione di F. e non se ne sia
avvalsa per l’analisi di ciò che l’esistenza umana è e deve essere. Tut386
tavia l’empirismo inglese aveva iniziato con Hume (come già si è detto) un
nuovo sviluppo in senso sociale della nozione, sviluppo che è proprio
dell’utilitarismo. Hume aveva osservato che « nel far le lodi di qualche
persona benefica e umana » non si manca mai di mettere in luce « la F. e la
soddisfazione che derivano alla società umana dalla sua azione e dai suoi buoni
uffici » (/ng. Conc. Morals, II, 2). E pertanto aveva identificato ciò che è
moralmente buono con ciò che è utile e benefico. Dopo di lui Bentham
riprendeva, come fondamento della morale, la formula di Beccaria: « La massima
F. possibile del maggior numero possibile di persone + formula a cui si
ispirarono anche James Mill e Stuart Mill, accentuandone sempre più il
carattere sociale. Non si trova in questi autori un concetto rigoroso di F.; ma
non si trova neppure in essi quell’irrigidimento e assolutizzazione della
nozione che essa aveva subito in Kant e che l’aveva resa inservibile. Essi
sanno anche che la F., dipendente com'è da condizioni e circostanze oggettive
oltrecchè dagli atteggiamenti dell’uomo, non può appartenere all'uomo nella sua
singolarità, ma all'uomo in quanto è membro di un mondo sociale. E se collegano
la F. col piacere, distinguono piacere da piacere, ammettendo l’identificazione
solo per l’ambito di quei piaceri che sono socialmente partecipabili. Nella
tradizione culturale inglese e americana, la nozione di F. è rimasta viva in
questa forma e ha ispirato oltrecchè il pensiero filosofico, il pensiero
sociale e politico. Il principio della massima felicità è rimasto per lungo
tempo la base del liberalismo moderno di stampo anglosassone. La Costituzione
americana ha incluso fra i diritti naturali e inalienabili dell’uomo « la
ricerca della F. ». A questa tradizione si collega Bertrand Russell, che è
stato uno dei pochi a difendere oggi la nozione di F., sia pure in un libro a
carattere popolare (La Conquista della F., 1930). Ciò che Russell aggiunge di
nuovo alla nozione tradizionale di F. (oltre alla persuasiva analisi che egli
fa delle odierne situazioni di «infelicità »), è una condizione che ritiene
indispensabile, cioè la molteplicità degli interessi, dei rapporti dell’uomo
con le cose e con gli altri uomini, perciò l’eliminazione dell’ egocentrismo »,
della chiusura in se stessi e nelle proprie passioni. Si tratta di una
condizione che pone la F. al polo opposto di quella autosufficienza del saggio
in cui gli antichi ponevano il grado più alto di essa. Dall’altro lato i
filosofi, non riuscendo più a utilizzare la nozione di F. come fondamento o
principio della vita morale, si sono, di regola, disinteressati della nozione
stessa. A questo disinteresse ha contribuito anche la tendenza, nata dal
Romanticismo e per lungo tempo dominante, ad esaltare l’infelicità, il dolore,
gli stati di turbamento e di FENOMENICO, FENOMENOLOGICO insoddisfazione come
esperienze positive e intrinsecamente gioiose. La F. difatti, nei gradi e nelle
forme in cui si può ritenere realizzabile, è uno stato di calma, una condizione
di equilibrio almeno relativo, di soddisfazione parziale e tuttavia effettiva,
che è direttamente l’opposto della irrequietudine romantica. La filosofia
contemporanea non si è finora fermata ad analizzare la nozione di F. nei limiti
in cui essa può servire a descrivere situazioni umane effettive e ad
orientarle. E tuttavia che si tratti di una nozione importante è dimostrato
dalla importanza che alcune nozioni negative come « frustrazione »,
«insoddisfazione +, ecc., hanno nella psicologia individuale e sociale, normale
e patologica. Queste nozioni e altre analoghe indicano infatti l'assenza più o
meno grave di quella condizione di almeno relativo soddisfacimento che la
parola F. tradizionalmente designa. E l’importanza di esse per l’analisi di
stati o condizioni più o meno patologici denuncia l'importanza che la
corrispondente nozione positiva ha per le condizioni normali della vita umana.
FENOMENICO, FENOMENOLOGICO (ingl. Phenomenal, Phenomenological; franc.
Phénoménal, Phénoménologique; ted. Phinomenal, Phanomenologisch). La
distinzione fra i due aggettivi, che non vanno confusi, è stata bene espressa
da Heidegger: « Per fenomenico s’intende ciò che è dato ed esplicabile nel
processo con cui il fenomeno viene incontro, per cui si parla di ‘strutture
fenomeniche ’. Fenomenologico è invece tutto ciò che è inerente al modo del
mostrare e dell’esplicare e tutto ciò che esprime la concettualità implicita in
questa ricerca » (Sein und Zeit, $ 7). In altri termini si può parlare di «
oggetto fenomenico » o « realtà fenomenica +», ma si deve parlare di « ricerca
fenomenologica » di «epoché fenomenologica?, ecc. L’aggettivo F. qualifica
l’oggetto che si rivela nel fenomeno, l’aggettivo fenomenologico qualifica il
manifestarsi dell’oggetto nella sua « essenza » nonchè la ricerca che rende
possibile questo manifestarsi. FENOMENISMO (ingl. Phenomenalism; francese
Phénoménisme; ted. Phinomenalismus). La dottrina che la conoscenza umana è
limitata ai fenomeni, nel significato 2° del termine. La parola designa sia le
filosofie che tuttavia ammettono l’esistenza di una realtà diversa del fenomeno
(come quelle di Kant o di Spencer) sia le filosofie che negano ogni realtà che
non sia il fenomeno (Renouvier, Hodgson). Il termine è stato coniato nell’800.
Ma la filosofia fenomenistica è nata nel ’700 ed è la filosofia
dell’Hluminismo. FENOMENO (gr. tà pawéueva; ingl. Phenomenon; franc. Phénomène;
ted. Phanomen). 1. Lo stesso che apparenza (v.). In questo senso il F. è
l'apparenza sensibile, che si contrappone alla realtà, FENOMENOLOGIA della
quale per altro può essere assunto come la manifestazione; o al fatto col quale
per altro può essere considerato identico (v. FATTO). È questo il significato
solitamente assunto dalla parola nel linguaggio comune (anche quando questo
allude a un’apparenza paradossale e insolita, per es., mostruosa) ed è anche il
significato che ricorre in Bacone (nel De /nterpretatione naturae proemium,
1603), in Cartesio (Princ. Phil., III, 4), in Hobbes (De Corp., 25, $ 1) e in Wolff (Cosm., $ 225).
2. A partire dal sec. xvni e in
connessione con la rivalutazione dell’apparenza come manifestazione della
realtà ai sensi e all’intelletto dell’uomo, la parola F. comincia a designare
l’oggetto specifico della conoscenza umana in quanto appunto appare sotto
particolari condizioni, caratteristiche della struttura conoscitiva dell’uomo.
In questo senso la nozione di F. è correlativa con quella di cosa in sè (v.) e
la richiama per opposizione contraria. A misura che si riconosce che gli
oggetti della conoscenza si rivelano nei modi e nelle forme proprie della
struttura conoscitiva dell’uomo e che perciò essi non sono le «cose in se stesse»
cioè le cose quali sono o potrebbero essere al di fuori del rapporto
conoscitivo con l’uomo, l’oggetto della conoscenza umana si configura come F.
cioè come cosa apparente in quelle condizioni: il che ovviamente non vuol dire
cosa ingannevole o illusoria. È la filosofia del ’700 che fa questo passo.
Hobbes che ha in linea di principio rivalutato il F. come apparenza in generale
(De Corp., 25, $ 1; v. ApPARENZA) non conferisce alcun significato limitativo o
correttivo alla parola F. con cui designa ogni oggetto possibile della
conoscenza umana. Maupertuis che nelle Lettere del 1752 afferma che
l’estensione è un F. come tutte le cose corporee (CEuvres, 1756, II, 198 sgg.)
esprime invece la convinzione, assai comune al suo tempo, di una limitazione
della conoscenza umana; ed è da questa convinzione che ha preso le mosse Kant
per la sua distinzione tra F. e noumeno. Secondo Kant, il F. è in generale
l’oggetto della conoscenza in quanto condizionato dalle forme dell’intuizione
(spazio e tempo) e dalle categorie dell’intelletto. « F. dice Kant è ciò che
non appartiene all’oggetto in se stesso ma si trova sempre nel rapporto di esso
col soggetto ed è inseparabile dalla rappresentazione che questo ne ha.
Giustamente perciò i predicati dello spazio e del tempo sono attribuiti agli
oggetti dei sensi come tali, e in ciò non c’è illusione. AI contrario, se
attribuisco alla rosa in sè il color rosso, a Saturno gli anelli o a tutti gli
oggetti esterni in sè l’estensione, senza considerare il rapporto di questi
oggetti con il soggetto e senza limitare il mio giudizio a questo rapporto,
allora nasce l’illusione » (Crif. R. Pura, Estetica trascen387 dentale, $ 8,
Osserv. gen., nota). Tale significato nel quale veniva fissato un diffuso
filosofema del sec. XVI è rimasto come uno dei significati fondamentali del
termine e precisamente quello in rapporto al quale si parla di fenomenismo.
Questo significato è contrassegnato dalla limitazione di validità che importa
nella conoscenza umana. F. è in questo senso non l’oggetto che si manifesta ma
l’oggetto che si manifesta all’uomo nelle particolari condizioni limitative che
questo rapporto con l’uomo implica. 3. Tuttavia nella filosofia contemporanea,
a partire dalle Ricerche logiche (1900-01) di Husserl, F. ha cominciato a
indicare non solo ciò che appare o si manifesta all’uomo in particolari
condizioni, ma ciò che appare o si manifesta in se stesso, cioè com'è in sè,
nella sua essenza. Vero è che per Husserl il fenomeno in questo senso non è una
manifestazione naturale o spontanea della cosa: esige altre condizioni che sono
quelle poste dalla ricerca filosofica come fenomenologia (v.). Il senso
fenomenologico di F. come «rivelazione di essenza » (HusseRL, /deen, I, Intr.)
si aggiunge perciò al significato critico di F., senza eliminarlo. Su esso ha
insistito Heidegger considerando il F. come puro e semplice apparire
dell'essere in sè e distinguendolo pertanto dalla semplice apparenza
(Erscheinung o blosse Erscheinung): che è l’indizio o l’annunzio dell’essere
(il quale però rimane nascosto) e che perciò è il non manifestarsi o il
nascondersi dell’essere stesso (Sein und Zeit, $ 7, A). Ovviamente in questo
senso la nozione di F. non si contrappone più a quella di cosa in sè: il F. è
l’in sè della cosa nel suo manifestarsi: il quale pertanto non costituisce
un’apparenza della cosa stessa ma si identifica col suo essere. Possiamo allora
ricapitolare nel modo seguente i tre significati tuttora in uso della parola
F.: 1° l’apparenza grezza (o il fatto bruto) sia che la si consideri o meno come
manifestante la realtà o il fatto reale; 2° l’oggetto della conoscenza umana,
qualificato e delimitato dal rapporto con l’uomo; 3° il rivelarsi dell’oggetto
in sè. FENOMENOLOGIA (ingl. Phenomenology; franc. Phénoménologie; ted.
Phanomenologie). La descrizione di ciò che appare o la scienza che ha come suo
compito o progetto questa descrizione. Il termine è stato probabilmente coniato
nella scuola wolfiana. Lambert lo adopera come titolo della quarta parte del
suo Nuovo organo (1764) ed intende per esso lo studio delle fonti di errore.
Qui l’apparenza, di cui la F. è la descrizione, è intesa come apparenza
illusoria. Da Kant invece il termine viene adoperato per indicare quella parte
della teoria del movimento che considera il movimento o la quiete della materia
solamente in rap388 porto con le modalità in cui essi appaiono al senso esterno
(Meraphysische Anfangsgriinde der Naturwissenschaft, 1786, Pref.). A sua volta
Hegel chiamò «F. dello spirito» la storia romanzata della coscienza che, dalle
sue prime apparenze sensibili, giunge ad apparire a se stessa nella sua vera
natura cioè come Coscienza infinita o universale. In questo senso la F. dello
spirito è da lui identificata col «divenire della scienza o del sapere»; ed
Hegel scorge in essa la via attraverso la quale il singolo individuo ripercorre
i gradi di formazione dello Spirito universale, come figure già deposte o tappe
di una via già tracciata e spianata (Phénomen. des Geistes, Pref., ed.
Glockner, pag. 31). Ancora un altro significato dette al termine Hamilton
intendendo con esso (Lectures on Logic, 1859-60, I, pag. 17) la psicologia
descrittiva e in questo significato cioè come pura descrizione dell’apparenza
psichica, preparatoria per la spiegazione dei fatti psichici, il termine è
stato frequentemente adoperato nella cultura filosofica tedesca della seconda
metà del sec. xx e dei primi anni del ‘900. Eduardo Hartmann intitolò F. della
coscienza morale (Phànomenologie des sittliche Bewusstseins, 1879) la raccolta
dei dati empirici della coscienza morale, indipendente dalla loro
interpretazione speculativa. Ma l’unica nozione oggi viva di F. è quella
(correlativa al significato 3° di fenomeno) annunziata da Husserl nelle
Ricerche logiche (1900-01, II, pag. 3 sgg.) e poi da lui stesso sviluppata nelle
opere successive. Husserl medesimo si è preoccupato di eliminare la confusione
tra psicologia e fenomenologia. La psicologia, egli ha detto, è una scienza di
dati di fatto; i fenomeni che essa considera sono accadimenti reali e si
inseriscono, insieme con i soggetti a cui appartengono, nel mondo
spazio-temporale. La F. invece (che egli chiama 4 pura » o «trascendentale ») è
una scienza di essenze (perciò «eidetica +) e non di dati di fatto; ed è resa
possibile solamente dalla riduzione eidetica che per l'appunto ha il compito di
purificare i fenomeni psicologici dalle loro caratteristiche reali o empiriche
e di portarli sul piano della generalità essenziale. La riduzione eidetica,
cioè la trasformazione dei fenomeni in essenze, è anche riduzione fenomenologica
in senso stretto perchè trasforma tali fenomeni in irrealtà (Ideen, I, Intr.).
In questo significato, la F. costituisce un indirizzo filosofico particolare
che pratica la filosofia come ricerca fenomenologica cioè avvalendosi della
riduzione fenomenologica e della epoché (v.). I risultati fondamentali cui
questa ricerca ha condotto per opera di Husserl possono essere ricapitolati nel
modo seguente: 1° il riconoscimento del carattere intenzionale della coscienza
(v.), per il quale la coscienza è un movimento di trascendenza verso
FENOMENOLOGIA l'oggetto e per il quale l’oggetto stesso si dà o si presenta
alla coscienza «in carne e ossa? o «in persona +; 2° l’evidenza della visione
(intuizione) dell’oggetto dovuta alla presenza effettiva dell’oggetto stesso;
3° la generalizzazione della nozione di oggetto, che comprende non solo le cose
materiali ma anche le forme categoriali, le essenze e in generale gli «oggetti
ideali » (/deen, I, $ 15); 4° il carattere privilegiato della « percezione
immanente » cioè della coscienza che l'io ha delle proprie esperienze, in
quanto apparire ed essere coincidono perfettamente in questa percezione, mentre
non coincidono nella intuizione dell’oggetto esterno il quale non si identifica
mai con le sue apparizioni alla coscienza ma rimane al di là di esse (/bid., $
38). Non tutti questi capisaldi sono accettati dai pensatori contemporanei che
si avvalgono della ricerca fenomenologica: soltanto il primo di essi cioè il
riconoscimento del carattere intenzionale della coscienza per cui l’oggetto è
trascendente rispetto ad essa € tuttavia presente «in carne e ossa? trova
credito non solo presso questi pensatori ma in una ampia cerchia di filosofi
contemporanei. Della ricerca fenomenologica si è avvalso Nicolai Hartmann per
la fondazione del suo realismo (v.) metafisico; Scheler per la sua analisi
delle emozioni (v.) e Heidegger come metodo per la sua ontologia. Quest'ultimo
esprime con tutta chiarezza il carattere proprio della F. quando afferma: «
L’espressione ‘ F.’ significa prima di tutto un concetto di metodo. Essa non
caratterizza la consistenza di fatto dell'oggetto dell’indagine filosofica,
bensì il suo come... Il termine esprime un motto che potrebbe venir formulato
così: alle cose stesse! E ciò in contrapposizione alle costruzioni campate in
aria e ai trovamenti causali; in contrapposizione all’accettazione di concetti
solo apparentemente giustificati ed ai problemi apparenti che si impongono da
una generazione all’altra come veri problemi » (Sein und Zeit, $ 7). Pertanto
ciò che la F. mostra è ciò che innanzitutto e per lo più mon si manifesta, ciò
che è nascosto; ma che tuttavia è tale da esprimere il senso e il fondamento di
ciò che innanzitutto e per lo più si manifesta. E in questo senso la F. è la
sola possibile ontologia (Ibid., $ 7 C). In modo analogo la F. viene intesa da
Sartre (L’étre et le néant, Intr., $ 1-2) e da Merleau-Ponty (Phénoménologie de
la perception, Pref.). L'impostazione fenomenologica della filosofia non
implica pertanto la riduzione dell'esistenza all’apparenza e non si può a
nessun titolo scambiare per fenomenismo (v.). Il concetto stesso di fenomeno
cui si fa riferimento è in questo caso diverso. Essa d’altronde non implica
neppure la eliminazione della differenza tra l’apparire e l’essere, sebbene venga
senz’altro eliminato il vecchio FIDEISMO dualismo. Dice, per es., Sartre: « Il
fenomeno d’essere esige la transfenomenalità dell’essere. Ciò non vuol dire che
l’essere si trovi nascosto dietro i fenomeni (abbiamo visto che il fenomeno non
può mascherare l'essere), nè che il fenomeno sia una apparenza che rinvia a un
essere distinto (solo in quanto apparenza il fenomeno è, esso cioè si indica
sul fondamento dell’essere). Ma l’essere del fenomeno, per quanto coestensivo
col fenomeno, deve sfuggire alla condizione fenomenica — che è quella per cui
si esiste solo in quanto ci si manifesta — e per conseguenza trascende e fonda
la conoscenza che se ne ha» (L’érre et le néant, Intr., $ 2). Il rapporto tra
l’apparenza e l’essere, nell’ontologia fenomenologica, può essere variamente
definito o analizzato, ma tuttavia non si modella sul rapporto tradizionale di
apparenza e realtà. FENOMENO ORIGINARIO. V. UrpHANoMENON. FERIO. Parola
mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il quarto modo della prima figura
del sillogismo, precisamente quello che consiste di una premessa universale
negativa, di una premessa particolare affermativa e di una conclusione
particolare negativa come nell’esempio: « Nessun animale è pietra, Alcuni
uomini sono animali, Dunque alcuni uomini non sono pietra» (Pretro IsPano,
Summul. logic., 4.07). FERISON. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per
indicare il sesto dei sei modi del sillogismo di terza figura e precisamente
quello che consiste di una premessa universale negativa, di una premessa
particolare affermativa e di una conclusione particolare negativa come
nell'esempio: « Nessun uomo è pietra, Qualche uomo è animale, Dunque qualche
animale non è pietra» (Pietro IsPaNO, Summa. logic., 4.15). FESPAMO. Parola
mnemonica usata dalla Logica di Portoreale per indicare l’ottavo modo del
sillogismo di prima figura (cioè il Fapesmo) con la modificazione di assumere
per premessa maggiore la proposizione in cui entra il predicato della
conclusione. L'esempio è il seguente: « Nessuna virtù è una qualità naturale,
Ogni qualità naturale ha Dio come primo autore, Dunque ci sono qualità che
hanno Dio per autore, che non sono virtù » (ARNAULD, Logique, III, 8). FESTINO.
Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il terzo dei quattro modi
della seconda figura del sillogismo e precisamente quello che consiste di una
premessa universale negativa, di una premessa particolare affermativa e di una
conclusione particolare negativa, come nell’esempio: Nessuna pietra è animale,
Qualche uomo è animale, Dunque qualche uomo non è pietra » (Pietro Ispano,
Sunmul. logic., 4.11). 389 FETICISMO (ingl. Ferishism; franc. Fétichisme; ted.
Fetichismus). Propriamente la credenza nel potere soprannaturale o magico di
particolari oggetti materiali (fericci dal portoghese fetico = artificiale).
Più generalmente, l’atteggiamento di chi consideri animati gli oggetti
materiali, e i tipi di religione o di filosofia fondati su questa credenza. In
questo secondo significato il termine è ora caduto in disuso perchè sostituito
da animismo (v.). I filosofi adoperano la parola più spesso in senso
dispregiativo; per es., Mach chiamò F. la credenza nei concetti di causa e di
volontà (Popularwissenschaftliche Vorlesungen, 1896, pag. 269). Comte aveva
esaltato il F. considerandolo in qualche modo affine al positivismo: in quanto
entrambi vedono in tutti gli esseri una attività che è analoga o simile a
quella umana e così stabiliscono quell’unità fondamentale del mondo che è
espressa nella teoria del Grande Essere (Politique Positive, III, pag. 87; IV,
pag. 44). Kant, dall’altro lato, chiamò F. la religione magica cioè la
religione di chi si serve di certe azioni, che di per sè non contengono nulla
di gradito a Dio cioè di morale, come mezzi per acquistare il favore divino e
per soddisfare i propri desideri. In questo senso il sacerdozio è « la
costituzione di una chiesa in cui regna un culto feticista, il quale si
incontra là dove, non già principi di moralità, ma comandamenti statutari,
regole di fede e osservanze costituiscono il fondamento e l’essenza del culto»
(Religion, IV, sez. 2, $ 3). FICHTISMO. V. ROMANTICISMO. FIDEISMO (ingl.
Fideism; franc. Fidéisme; ted. Fideismus). Si chiamò con questo termine
l’indirizzo filosofico-religioso sostenuto, nei primi decenni del sec. xrx,
dall’abate Bautain, da Huet, da Lamennais e da quest’ultimo specialmente
nell'opera Essais sur l’indifférence en matière de religion (1817-23):
indirizzo che consiste nel contrapporre alla ragione « individuale » una
ragione « comune » che sarebbe una specie di intuizione delle verità
fondamentali comuni a tutti gli uomini. Questa intuizione troverebbe la sua
origine in una rivelazione primitiva e si trasmetterebbe mediante la tradizione
ecclesiastica; essa sarebbe perciò a fondamento della fede cattolica. La dottrina
era diretta a giustificare il primato della tradizione ecclesiastica. In realtà
negava alla chiesa la prerogativa di essere l’unica depositaria della
tradizione autentica e negava alla tradizione l’appoggio della ragione. Dopo la
condanna della chiesa (1834), il termine assunse, presso gli scrittori
cattolici, un significato peggiorativo. Si continuò tuttavia e si continua a
usare, per indicare in generale ogni atteggiamento che veda nella fede uno
strumento di conoscenza superiore alla ragione e indipendente dalla ragione
stessa. 390 FIGURA (gr. oyfpua; lat. Figura; ingl. Figure; franc. Figure; ted.
Figur, Gestalt). 1. Con questo termine sono tradizionalmente chiamate le forme
fondamentali del sillogismo, distinte dai modi (v.) che sono specificazioni di
tali forme. Aristotele distinse le varie figure del sillogismo a seconda della
funzione del termine medio che è quello che serve a dimostrare l’inerenza del
predicato al soggetto della conclusione. Nella prima F., il termine medio fa da
soggetto nella premessa maggiore e da predicato nella premessa minore. Nella
seconda F., fa da predicato in entrambe le premesse, una delle quali è
negativa, e la conclusione è anche negativa. Nella rerza F., fa da oggetto in
entrambe le premesse e la conclusione è particolare. La tradizione attribuisce
a Galeno, il famoso medico e filosofo aristotelico del rr secolo d. C., la
distinzione di una quarta F., cioè quella nella quale il termine medio funge da
predicato nella premessa maggiore e da soggetto nella premessa minore: i modi
di questa F. erano stati compresi da Aristotele tra quelli della prima. La
separazione fu fatta perchè si definì come premessa maggiore quella che
comprende il predicato della conclusione e come premessa minore quella che
comprende il soggetto della conclusione stessa (PRANTL, Geschichte der Logik,
I, pag. 570 sgg.). Ogni F. si distingue a sua volta in un certo numero di modi
a seconda della qualità e della quantità delle proposizioni costituenti le
premesse e la conclusione: cioè a seconda che le premesse e la conclusione
sono, ciascuna, universale o particolare, affermativa o negativa. Poichè nella
Scolastica si adoperò la lettera A per indicare la proposizione universale
affermativa, la lettera E per indicare quella universale negativa, la lettera Z
per indicare la proposizione particolare affermativa e la lettera O per
indicare laproposizione particolare negativa (donde i versi: A affirmat, negat
E, sed universaliter ambae, I firmat, negat O, sed particulariter ambae), si
formarono parole mnemoniche per indicare i vari modi del sillogismo cioè
parole, nelle quali le prime due vocali indicano le premesse e la terza la
conclusione. Così i nove modi della prima F. furono indicati con le parole:
Barbara, Celarent, Darii, Ferio, Baralipton, Celantes, Debitis, Fapesmo,
Frisemorum. I quattro modi della seconda F. furono indicati con le parole:
Cesare, Camestres, Festino, Baroco. I sei modi della terza F. furono indicati
con le parole: Darapti, Felapto, Disamis, Datisi, Bocardo, Ferison. Gli ultimi
quattro modi della prima F. sono quelli che si attribuiscono alla quarta F.,
quando viene distinta. Le iniziali delle parole mnemoniche hanno anche un
significato. Tutti i modi indicati da una parola che comincia con 8 sono
riducibili al primo modo della prima F.; quelli indicati da una parola che
coFIGURA mincia con C sono riducibili al secondo modo della prima F.; quelli
indicati da una parola che comincia con D al terzo e quelli indicati con una
parola che comincia con F al quarto modo della prima F. (cfr. sull’uso delle
parole mnemoniche Pietro Ispano, Summ. Log., 4.18 sgg.). Per i singoli modi, v.
le relative parole. 2. Con lo stesso termine, che traduce il tedesco Gestalt,
si indicano le determinazioni della fenomenologia dello spirito di Hegel.
Queste determinazioni sono « figure della coscienza » (Phdnomen. des Geistes,
pref., ed. Glockner, pag. 36 e passim) o « gradi della via già tracciata e
spianata » dallo Spirito universale; cioè tappe attraverso le quali la
coscienza è giunta alla coscienza di sè come Coscienza infinita o assoluta.
Come è noto, tra le F. della fenomenologia Hegel include anche creazioni
fantastiche: il che stabilisce una differenza fra tali F. e le caregorie che
costituiscono l’oggetto dell’Enciclopedia. Le categorie sono infatti determinazioni
necessarie e necessariamente reali. FIGURAE DICTIONIS (FALLACIA). Paralogismo
in dictione (v. FALLACIA), consistente in un erroneo uso grammaticale nelle
premesse, che genera conseguenze paradossali o conseguenze grammaticalmente
impossibili (a Omnis homo est albus, mulier est homo, ergo mulier est albus»).
Cfr. ARISTOTELE, Soph. El., 4, 166b 10; Pietro IsPano, Summ. Log., 7.34 sgg.;
JunGIUs, Logica Hamb., VI, 7; ecc. G. P. FILANTROPIA (gr. puav9porta; lat.
Philanthropia; ingl. Philanthropy; franc. Philanthropie; ted. Philanthropie).
L'amicizia dell’uomo verso l’altro uomo. Così la intesero Aristotele (Et. Nic.,
VIII, 1, 1155, a. 20) e gli Stoici, i quali la attribuirono al legame naturale
per cui tutta l'umanità costituisce un solo organismo. «Ne deriva, dice
Cicerone, che è naturale anche la reciproca solidarietà degli uomini tra loro,
per cui necessariamente un uomo non può risultare un estraneo per un altro
uomo, per il fatto stesso che è uomo» (De fin., III, 63). Diogene Laerzio ne
attribuisce il concetto anche a Platone, che l’avrebbe diviso in tre aspetti:
il saluto, l’aiuto, l’ospitalità (Diog. L., III, 98). Nel linguaggio moderno,
il significato del termine si è ristretto al secondo degli aspetti distinti da
Platone. L'atteggiamento generale di benevolenza verso gli uomini è spesso oggi
chiamato altruismo (v.). FILAUTIA. V. AMOR DI sè. FILODOSSIA (gr. quodotta;
lat. Philodoxy; franc. Philodoxie; ted. Philodoxie). La parola (che
propriamente significa «amore di gloria +) fu adoperata da Platone per indicare
gli «amanti della opinione » in contrapposizione agli « amanti della scienza »
che sono i filosofi. Gli amanti dell’opiFILOSOFIA nione sono quelli a cui piace
ascoltare belle voci, guardare bei colori, ecc., ma che sono alieni dal
considerare il bello come un essere a sè (Rep., V, 480 a). Kant ha chiamato F.
l’atteggiamento di coloro che rigettano non solo il metodo della critica, da
lui proposto, ma anche il metodo della fondazione di Wolff, che consiste nel
procedere stabilendo i princìpi, definendo i concetti e cercando il rigore
nelle dimostrazioni (Crift. R. Pura, Prefazione alla 28 ediz.). FILOGENESI. V.
BiogENETICA, LEGGE. FILOLOGIA (gr. quoroyla; lat. Philologie; ingl. Philology; franc.
Philologie; ted. Philologie). Amore dei discorsi,
intendeva Platone (Teer., 161 a) con questa parola che, nell’età moderna, è
passata a designare la scienza della parola o meglio lo studio storico del
linguaggio. Vico contrappose filosofia e F.: « La filosofia contempla la
ragione onde viene la scienza del vero; la F. osserva l’autorità dell’umano
arbitrio, onde viene la coscienza del certo + (Scienza Nuova, degn. 10).
Compito dei filologi sarebbe « la cognizione delle lingue e dei fatti dei
popoli ». F. e filosofia si completano nel senso che i filosofi dovrebbero «
accertare » le loro ragioni con l'autorità dei filologi e i filologi dovrebbero
«avverare » le loro autorità con la ragione dei filosofi. Nel concetto moderno,
la F. è la scienza che ha per fine la ricostruzione storica della vita del passato
attraverso il linguaggio e quindi i documenti letterari di esso. I progetti e i
risultati di questa scienza, così come si è venuta formando soprattutto nel
sec. xIx, vanno perciò molto al di là del modesto compito, al quale avrebbero
voluto confinarla i filosofi dell’idealismo romantico. Già Hegel polemizzava
contro «i filologi » cioè gli storici che facevano il loro mestiere, in nome
della storia filosofica, la sola capace di scoprire a priori il piano
provvidenziale del mondo (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, pag. 8 sgg.).
Croce nello stesso senso chiamava storia filologica la storia degli storici
alla quale contrapponeva la storia « speculativa » che identificava con la
filosofia (CROCE, Teoria e storia della storiografia, 1917; La storia come pensiero
e come azione, 1938). In realtà, la storia filologica è la storia degli
storici, mentre la storia speculativa non è che la concezione
provvidenzialistica del mondo storico, che non ha nulla a che fare con la
storiografia scientifica (v. STORIOGRAFIA). L'aggettivo filologico non può
neppure essere applicato a designare forme piatte e mal riuscite di
storiografia giacchè la F. non è per nulla responsabile di esse. E anche quella
funzione di conservazione e di ripristino del materiale documentario e delle
fonti che Nietzsche chiamò storia archeologica (v.) non è un tipo inferiore di
storia, perchè è possibile solo sul fonda391 mento di un interesse intelligente
che guidi le scelte opportune e le faccia servire all’opera della critica e
della ricostruzione storica. FILOSOFEMA (gr. quootpnua; lat. Philosophema;
ingl. Philosopheme; franc. Philosophème; ted. Philosophem). In generale,
discorso filosofico. Nella logica di Aristotele (Top., VIII, 11, 162 a 15) è il
«ragionamento dimostrativo». Fuori della logica: concetto o luogo comune
filosofico. In questo secondo senso è usato da Aristotele stesso (De caelo, II,
13, 294a 19) e dalla tradizione posteriore. G. P.-N. A. FILOSOFIA (gr.
quocopla; lat. Philosophia; ingl. Philosophy; franc. Philosophie; ted. Philosophie).
La disparità delle F. si riflette ovviamente nella disparità dei significati di
« F. » senza tuttavia impedire di riconoscere in essi alcune costanti. Fra
esse, meglio si presta a connettere e articolare i significati diversi del
termine la definizione illustrata nell’Eutidemo platonico: la F. è l’uso del
sapere a vantaggio dell’uomo. Platone osserva che a nulla servirebbe possedere
la scienza di convertire le pietre in oro se non si sapesse servirsi dell'oro;
a nulla servirebbe la scienza che rendesse immortale se non si sapesse servirsi
dell’immortalità; e via dicendo. Occorre dunque una scienza nella quale
coincidono il fare e il sapersi servire di ciò che si fa; e questa scienza è la
F. (Eurid., 288 e-290 d). Secondo questo concetto, la F. implica: 1° il
possesso o l'acquisto di una conoscenza che sia nel contempo la più valida e la
più estesa possibile; 2° l’uso di questa conoscenza a vantaggio dell’uomo.
Questi due elementi ricorrono frequentemente nelle definizioni che sono state
date della F. in epoche diverse e da diversi punti di vista. Essi si
riscontrano, per es., nella definizione di Cartesio, secondo la quale «questa
parola F. significa lo studio della saggezza e per saggezza non s’intende
soltanto la prudenza negli affari ma una perfetta conoscenza di tutte le cose
che l’uomo può conoscere sia per la condotta della sua vita sia per la
conservazione della sua salute e l’invenzione di tutte le arti» (Princ. Phil.,
Pref.). Si ritrovano ugualmente nella definizione di Hobbes, per la quale la F.
è da un lato conoscenza causale, dall'altro utilizzazione di questa conoscenza
a vantaggio dell’uomo (De Corp., 1, $ 2, 6); e in quella di Kant che definisce
il concetto cosmico della F. (cioè il concetto di essa che interessa
necessariamente ogni uomo) come quello di « una scienza della relazione di ogni
conoscenza al fine essenziale della ragione umana» (Crift. R. Pura, Dottr.
trasc. del metodo, cap. III). Questo fine essenziale è la « felicità
universale»: la F. pertanto «riferisce tutto alla saggezza, ma per la via della
scienza» (/bid., in fine). Non diverso significato ha la definizione 392 della
F. data da Dewey come «critica dei valori » cioè « critica delle credenze,
delle istituzioni, dei costumi, delle politiche, rispetto alla loro portata sui
beni» (Experience and Nature, pag. 407). Queste definizioni (che si adducono
qui solo come esempi) si lasciano tutte ricondurre alla formula platonica che
abbiamo citato in principio. Quella formula ha il vantaggio di non assumere
nulla circa la natura e i limiti del sapere accessibile all'uomo o circa gli
scopi cui l’uso può essere indirizzato. Si può pertanto intendere quel sapere
sia come rivelazione o possesso sia come acquisto o ricerca; e l’uso di esso
può essere inteso come diretto alla salvezza ultramondana o terrena dell’uomo
come all’acquisto di beni spirituali o materiali o alla realizzazione di
rettifiche o mutamenti nel mondo. Pertanto quella formula appare adatta
ugualmente ad esprimere i compiti disparati che la F. si è di volta in volta
assunti. E, per es., essa esprime egualmente bene sia il compito delle F.
positive o dogmatiche sia quello delle F. negative o scettiche. Quando lo
scetticismo antico si propone di realizzare, mediante la sospensione
dell’assenso, l’imperturbabilità dell’anima (Sesto E., /p. Pirr., I, 25-27) non
fa che intendere la F. come l’uso di un certo sapere per conseguire un
vantaggio. Analogamente quando, nella F. contemporanea, Wittgenstein afferma
che lo scopo della F. è quello di far sparire gli stessi problemi filosofici e
di eliminare la F. stessa o di « guarire» da essa (Philosophical
Investigations, $ 133) non fa appello ad un concetto diverso di F.: la
liberazione dalla F. è il vantaggio che l’uso del sapere (che è in questo caso
la rettificazione linguistica di esso) può procurare. I due elementi
riconoscibili della definizione della F., che si è ritenuta adatta ad
apprestare il quadro delle articolazioni principali del significato del
termine, costituiscono già di per se stessi la prima di tali articolazioni. Si
possono in altri termini distinguere i significati storicamente dati del
termine: 1° rispetto alla natura o alla validità del sapere cui la filosofia fa
riferimento; 2° rispetto alla natura dello scopo cui la F. intende indirizzare
l’uso di questo sapere. Infine, 3° si possono distinguere i significati del
termine rispetto alla natura del procedimento che si ritiene proprio della
filosofia. I. La filosofia e il sapere. — L’uso del sapere al quale l'uomo, a
qualsiasi titolo, accede, è, in primo luogo, un giudizio sull’origine o la
validità di tale sapere. E a proposito del giudizio sulla validità del sapere,
si offrono subito due alternative fondamentali che stabiliscono la distinzione
fra due tipi diversi ed opposti di filosofia. La prima alternativa stabilisce
l’origine divina del sapere: esso è per l’uomo una rivelazione o un dono. La
seconda FILOSOFIA alternativa stabilisce l’origine umana del sapere: esso è un
acquisto o una produzione dell’uomo. La prima alternativa è la più antica e la
più frequente nel mondo, dal momento che è quella di gran lunga prevalente
nelle F. orientali. La seconda alternativa è quella sorta in Grecia e di cui il
mondo occidentale moderno è l’erede. A) Secondo la prima alternativa, il sapere
è una rivelazione o illuminazione divina di cui sono stati privilegiati uno o
più uomini e che si trasmette per tradizione in un gruppo altrettanto
privilegiato di uomini (casta, setta o chiesa). Esso non è quindi accessibile
ai comuni mortali se non per il tramite di coloro che ne sono i depositari; nè
è possibile, ai comuni e non comuni mortali, incrementarne il patrimonio o
giudicarne la validità. Fa parte integrante di questa interpretazione
dell’origine del sapere la credenza che anche l’uso di esso a vantaggio
dell'uomo — vantaggio che in questo caso è la «salvezza» — sia dettato o
prescritto dalla rivelazione o illuminazione divina. Sembra dunque che questa
interpretazione elimini o renda superfluo il «lavoro » filosofico che verte
appunto su quest’uso. Ma in realtà ciò accade di rado. L'esigenza di avvicinare
la verità rivelata alla comune comprensione umana, di adattarla alle
circostanze e far sì che essa risponda ai problemi nuovi o mutati che gli
uomini si pongono, di difenderla contro negazioni, deviazioni, incredulità
dichiarate o nascoste, fa sì che il lavoro filosofico trovi, in questa
concezione del sapere, un vasto campo per esplicarsi e compiti molteplici cui
far fronte. Tale lavoro rimane però subordinato e ancillare: non è e non può
essere decisivo, quando si tratta delle interpretazioni fondamentali e delle
istanze ultime. Trova nella rivelazione e nella tradizione limiti insuperabili
che gli vietano ogni possibilità di sviluppo in direzioni diverse da quelle che
esse determinano. Non può combattere e distruggere le credenze stabilite,
opporsi radicalmente alla tradizione, promuovere o progettare rinnovamenti
radicali. La sua funzione è quella di conservare le credenze stabilite, non di
rinnovarle o rettificarle: è perciò una funzione subordinata e strumentale,
priva della autonomia e della dignità di una forza direttiva. Si è già detto
che quasi tutte le F. orientali sono di questa natura: il che ha fatto talora
dubitare che possano chiamarsi filosofie. Ma in realtà lo stesso mondo
occidentale offre frequentemente esempi di F. di questo genere, per quanto
nessuna di esse presenti in tutto il loro rigore i caratteri ora esposti. Dal
nome del più importante di questi esempi, le forme che questo tipo di F. ha
assunto nel mondo occidentale si possono chiamare scolastiche. Una scolastica,
a differenza di una FILOSOFIA F. di schietto tipo orientale, presuppone una F.
autonoma e si avvale di essa; ma se ne avvale per la difesa e l'illustrazione
di una verità religiosa cioè per confermare o difendere credenze la cui
validità si ritiene stabilita in anticipo e indipendentemente da ogni conferma
o difesa. Una scolastica, come dice la parola stessa, è essenzialmente uno
strumento di educazione: serve ad avvicinare l’uomo, per quanto è possibile, a
un sapere ritenuto immutabile nelle sue linee fondamentali, perciò non
suscettibile di essere rettificato o rinnovato. Tra i compiti, d’altronde
molteplici come sono molteplici le vie di accesso dell'uomo alla verità e gli
ostacoli che si incontrano su queste vie, che una F. scolastica riconosce a se stessa,
non c’è l’eventuale abbandono delle credenze di cui essa è l’interprete. Le
sètte filosofico-religiose del n secolo a. C. (per es., gli Esseni), le
dottrine di Filone di Alessandria (1 secolo d. C.) e di molti Neoplatonici, la
F. islamica e giudaica, la Patristica e la Scolastica nonchè, nel mondo
moderno, l’occasionalismo, l’immaterialismo, la Destra hegeliana e buona parte
dello spiritualismo contemporaneo, sono scolastiche nel senso ora chiarito:
cioè F. che consistono nell’utilizzare una determinata dottrina (il platonismo,
l’aristotelismo, il cartesianesimo, l’empirismo, l’idealismo, ecc.) per la
difesa e l’interpretazione di credenze che non possono, attraverso questo
lavoro, essere revocate in dubbio, rettificate o negate. Certamente queste diverse
scolastiche posseggono gradi di libertà diversi e tali gradi variano talvolta,
per ciascuna di esse, da un periodo all’altro. S. Tommaso, per es., mentre
conferisce alla « F. umana» una certa autonomia in quanto riconosce propria di
essa la considerazione e lo studio delle cose create in quanto tali cioè la
loro natura e le loro proprie cause (Contra Gent., II, 4), ritiene tuttavia
impossibile che essa possa contraddire le affermazioni della fede cristiana la
quale dev’essere assunta come regola del corretto procedere della ragione
(Ibid., 1, 7). Per quanto F. di questo genere possano conseguire risultati
importanti, che entrano a far parte del patrimonio filosofico comune, il loro
ambito è strettamente delimitato dal problema su cui sono impostate, della
difesa delle credenze tradizionali: le loro possibilità non si estendono alla
rettificazione e al rinnovamento di tali credenze. B) Per la seconda
alternativa, il sapere è un acquisto o una produzione dell’uomo. Il fondamento
di questa concezione è che l’uomo è un « animale ragionevole » e che perciò «
tutti gli uomini, come dice Aristotele all’inizio della Metafisica (980 a 21),
tendono per natura al sapere»: tendono vuol dire qui che non solo lo desiderano
ma possono conseguirlo. Il sapere, da questo punto di 393 vista, non è
privilegio o patrimonio riservato di pochi; ognuno può contribuire al suo
acquisto e al suo incremento e ha perciò voce in capitolo per giudicarlo: cioè
per approvarlo o rigettarlo. La ricerca e l’organizzazione del sapere è, da questo
punto di vista, il compito fondamentale della filosofia. Quando Tucidide (II,
40) fa dire a Pericle: «Noi amiamo il bello con moderazione e filosofiamo senza
timidezza» esprime certamente l’atteggiamento dello spirito greco dal quale è
nata la F. in questo secondo significato del termine. Pericle non alludeva a
una disciplina specifica ma alla ricerca del sapere condotta senza impegni
pregiudiziali o con l’unico impegno di saggiare e mettere a prova ogni credenza
possibile. In questo senso la F. è una creazione originale dello spirito greco
e una condizione permanente della cultura occidentale. Essa è l’impegno che
ogni ricerca, in qualsiasi campo condotta, obbedisca soltanto alle limitazioni
o alle regole che essa stessa riconosca valide in vista della propria
possibilità e della propria efficacia discopritrice o confermatrice. La F. in
questo senso si contrappone alla tradizione, al pregiudizio, al mito, e in
generale alla credenza infondata o non giustificata che i Greci chiamavano
opinione. Il contrasto tra l’opinione e la scienza, tra l’amore dell’opinione e
l’amore della sapienza, è quello su cui più frequentemente insiste Platone nel
chiarire il concetto di F. (Rep., V, 480 a). La F. come ricerca è da Platone
contrapposta da un lato all’ignoranza dall’altro alla sapienza. L'ignoranza è
l’illusione della sapienza e distrugge l'incentivo della ricerca (Conv., 204
a). Dall’altro lato la sapienza, che è il possesso della scienza rende inutile
la ricerca: gli Dei non filosofano (/bid., 204 a; Teet., 278 d). La ricerca
definisce lo status proprio della filosofia. Già Eraclito aveva detto: « È
necessario che gli uomini filosofi siano buoni indagatori di molte cose» (Fr.
35, Diels). In quanto ricerca, la F. è «acquisto», come diceva Platone (Eutid.,
288 d), o « sforzo », come dicevano gli Stoici (SESTO EMPIRICO, Adv. Math., IX,
13) o «attività », come dicevano gli Epicurei (/bid., XI, 169). Ma se la F. è
l’impegno che fa del sapere una ricerca, essa condiziona il sapere effettivo,
che è «conoscenza » o «scienza ». Nel giudizio che la F. stessa dà su di esso,
questo condizionamento può assumere tre forme che definiscono tre concezioni
fondamentali della F., quella metafisica, quella positivistica e quella
critica. 1° Per la prima di esse, la F. è l’unico sapere possibile e le altre
scienze, in quanto tali, coincidono con essa o sono parti o preparazione di
essa; 2° per la seconda di esse, la conoscenza è propria delle scienze
particolari e la F. ha il compito di coordinare o unificare i loro risultati;
3° per la terza di essa, la F. è giudizio 394 sul sapere cioè valutazione delle
sue possibilità e dei suoi limiti, in vista del suo uso umano. 1° La prima
concezione della F. è quella metafisica, dominante nell’antichità e nel
Medioevo e che ancora oggi è propria di molti indirizzi filosofici. La sua
caratteristica principale è la negazione di ogni possibilità di ricerca
autonoma fuori della filosofia. Una conoscenza o è conoscenza filosofica o non
è conoscenza affatto. Si ammette spesso che esista, fuori della F., un sapere
imperfetto, provvisorio o preparatorio; ma si nega che tale sapere possegga,
per suo conto, validità conoscitiva. Così Platone da un lato chiama « F.» la
geometria e le altre scienze specialmente in riferimento alla loro funzione
educativa (Teer., 143 d; Tim., 88 c); dall'altro considera tali scienze
(aritmetica e geometria, astronomia e musica) come semplicemente propedeutiche
alla F. vera e propria cioè alla dialettica, la quale avrebbe fra l’altro il
compito di «scoprire la comunanza e la parentela reciproca delle scienze e
dimostrare le ragioni per cui sono connesse l’una con l’altra » (Rep., VII, 531
d). Aristotele definisce la F. come la «scienza della verità » (Mer., II, 1,
993b 20) nel senso che essa comprende tutte le scienze teoretiche cioè la F.
prima, la matematica e la fisica e lascia fuori di sè soltanto l’attività
pratica: ma anche questa deve ricorrere alla F. per essere in chiaro della
propria natura e dei propri fondamenti. Sia Platone che Aristotele ammettono
come scienza prima una disciplina determinata, che per Platone è la dialettica,
per Aristotele è la F. prima o teologia; ma questa disciplina determinata è per
essi anche la più generale. La dialettica infatti, come si è visto, consente di
intendere il collegamento e la natura comune delle scienze; e la F. prima, come
scienza dell’essere in quanto essere, ha per oggetto specifico quell’essenza
necessaria o sostanza, che è compito di ogni scienza indagare nel suo campo
particolare (De part. anim., I, 5, 645 a 1). Altre volte, invece, la F. viene
risolta nelle discipline particolari senza che nessuna di esse risulti
privilegiata. Così facevano gli Epicurei che la dividevano in canonica, fisica
ed etica (Dio. L., X, 29-30); e gli Stoici che la dividevano in logica, fisica
ed etica (AEZIO, Plac., I, 2) considerando queste tre parti unite fra loro come
le membra di un animale (Dios. L., VII, 40). Questa concezione, che identifica
l’intero sapere con la F. e si rifiuta di riconoscere che ci sia o possa
esserci un sapere autentico fuori di essa, è sopravvissuta anche alla
costituzione delle scienze particolari in discipline autonome e s’è conservata
sostanzialmente immutata, in certe correnti filosofiche, sino ai giorni nostri.
La definizione che Fichte dette della F. come di una «scienza della scienza in
generale» (Uber den Begriff der WissenschaftsFILOSOFIA lehre oder der
sogenannten Philosophie, 1794, $ 1) non lascia alcuna autonomia alle scienze
particolari perchè, secondo quella definizione, la dottrina della scienza «
deve dare la sua forma non soltanto a se stessa ma anche a tutte le altre
scienze possibili » e costituire così, il « sistema compiuto ed unico nello
spirito umano » (/bid., $ 2). Questa pretesa si è mantenuta inalterata in tutte
le definizioni che l’idealismo romantico ha dato della filosofia. Non altro
significato hanno le notazioni di Schelling, secondo il quale il compito della
F. è di chiarire l'accordo (che è poi identità) dell’oggettivo e del soggettivo
cioè della natura e dello spirito, e nel portare così a compimento la «
tendenza necessaria di tutte le scienze naturali » (System des transzendentalen
Idealismus, 1800, Intr., $ 1). Esplicitamente Hegel affermava che «le scienze
particolari si occupano degli oggetti finiti e del mondo dei fenomeni »
(Geschichte der Philosophie, Intr., A, $ 2; trad. ital., I, pag. 69); e che
«altra cosa è il processo di origine e i lavori preparatori di una scienza,
altra cosa la scienza stessa» nella quale quelli scompaiono per essere
sostituiti dalla « necessità del concetto » (Enc., $ 246). Questo vuol dire che
sola la F. è scienza perchè solo essa dimostra «la necessità del concetto »,
utilizzando e manipolando a suo modo (come Hegel in realtà fece) il materiale
apprestato dalle cosiddette scienze empiriche. Pertanto Hegel riservava alla F.
il privilegio di essere «la considerazione pensante degli oggetti » (/bid., $
2). La conoscenza preliminare o preparatoria è quella che si appoggia su
rappresentazioni; la conoscenza vera e propria si ha quando, con la F., «lo
spirito pensante, attraverso le rappresentazioni e lavorando sopra di esse,
progredisce alla conoscenza pensante e al concetto » (Zbid., $ 1). È chiaro
che, espresso in questa forma, il concetto della F. come totalità del sapere è
una professione di superbia filosofica, che era estranea a questo stesso
concetto nell’età classica. In questa età, infatti, quel concetto agiva come lo
specifico impegno delle discipline scientifiche che da esso venivano immesse
nella sfera della ricerca disinteressata e incoraggiate e sorrette nel loro
costituirsi concettuale. Ma nella concezione dell’idealismo romantico, le
scienze particolari vengono abbassate alla funzione di una mera manovalanza,
priva di qualsiasi validità intrinseca. A questa stessa funzione riducono la
scienza sia l’idealismo, sia lo spiritualismo. La definizione della F. come
«teoria generale dello spirito » porta Gentile a considerarla come la coscienza
che l'Io assoluto ha di se stesso: coscienza di cui le conoscenze empiriche,
fondate sulla distinzione dell’oggetto dal soggetto e degli oggetti tra di
loro, è una falsa astrazione (Teoria generale dello spirito, 1916, caFILOSOFIA
pitolo 15, $ 2). E nonostante la meno appariscente formulazione, la definizione
data da Croce della F. come « metodologia della storiografia », implica la
stessa superbia filosofica. Per Croce la conoscenza storica è l’unica
conoscenza possibile, dato che la storia è l’unica realtà: pertanto la
riduzione della F. a metodologia di tale conoscenza equivale a negare che sia
conoscenza il sapere scientifico: che, infatti, è, per Croce, non un sapere ma
un insieme di espedienti pratici (La storia, 1938, pag. 144; Logica, 1908, I,
cap. 2). Dall'altro lato, lo spiritualismo contemporaneo segue prevalentemente
la stessa strada. Bergson fa dell’intuizione l’organo della F. perchè vede
nell’intuizione « la visione diretta dello spirito da parte dello spirito» (La
pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 51) cioè lo strumento per attingere,
immediatamente e infallibilmente, quella « durata reale » che è la realtà
assoluta. Il suo riconoscimento della scienza come conoscenza adeguata del
mondo materiale o delle «cose» è puramente fittizio: nè la materia nè le cose
hanno per Bergson realtà come tali perchè non sono che coscienza e la coscienza
può essere autenticamente conosciuta soltanto dalla coscienza stessa: «
Sondando la sua propria profondità la coscienza non penetra pure nell’interno
della materia, della vita, della realtà in generale? Si potrebbe contestarlo
solo se la coscienza si aggiungesse alla materia come un accidente, ma noi
crediamo d’aver mostrato che una simile ipotesi è assurda o falsa, secondo il
lato per cui la si prende, contraddittoria in se stessa o contraddetta dai
fatti » (/bid., pag. 156-57). Il concetto della F. come conoscenza privilegiata
(su qualsiasi titolo poi si appoggi il privilegio) non è che una delle tante
espressioni del vecchio concetto della F. come sapere unico ed assoluto. Le
tendenze che si sogliono chiamare « metafisiche+ del pensiero moderno sono
appunto caratterizzate da questo concetto della filosofia. Husserl così espone
l’ideale cartesiano della F. che egli dichiara di far proprio: « Ricordiamo
l’idea direttiva delle Meditazioni di Cartesio. Essa mira a una riforma totale
della F. per fare di questa una scienza a fondamenti assoluti. Questo implica,
per Cartesio, una riforma parallela di tutte le scienze giacchè queste non sono
che membri di una scienza universale che non è altro che la filosofia. Solo
nell’unità sistematica di questa, esse possono diventare veramente scienze»
(Carr. Med., 1931, $ 1). Nella sua ultima opera Husserl poneva, come prima
condizione della filosofia: « un’epoché da qualsiasi assunzione delle nozioni
delle scienze oggettive, da qualsiasi presa di posizione critica intorno alla
verità o falsità della scienza, un’epoché persino dall’idea direttiva della
scienza, dall’idea di una conoscenza oggettiva del mondo» (Krisis, $ 35). 395
Alla stessa negazione della scienza mettono capo, nonostante l’ampio
riconoscimento della validità del metodo scientifico, le considerazioni di
Jaspers sulla natura della F., giacchè negano autonomia di struttura e di
validità alle scienze particolari (Phil., I, pag. 53 sgg.; Existenzphil., 1938,
Intr.). Una svalutazione ancora più radicale delle scienze particolari è effettuata
da Heidegger, per il quale i presupposti della scienza moderna sono l'oblio
dell'essere, la riduzione dell’uomo a soggetto e del mondo a rappresentazione
(Brief Qber den « Humanismus», in Platos Lehre von der Wahrheit, 1947, pag.
88). 2° La seconda concezione della F. come giudizio sul sapere è quella che
tende a risolverla nelle scienze particolari, affidandole talvolta la funzione
specifica di unificare le scienze stesse o di raccoglierne i risultati in una «
visione del mondo ». L’origine di questa concezione si può vedere in Bacone; il
quale concepì la F. come una scienza che in primo luogo dividesse e
classificasse le scienze particolari e poi mettesse tali scienze in possesso
del loro metodo, del materiale di cui disporre e delle tecniche con cui
utilizzare questo materiale a vantaggio dell’uomo. Nel De Dignitate et
augmentis scientiarum (1623), abbozzando il piano di una enciclopedia delle
scienze su base sperimentale, Bacone affidava alla « F. prima» da lui
considerata come «scienza universale e madre delle altre scienze » il compito
di raccogliere « gli assiomi che non sono propri delle scienze particolari ma
comuni a più scienze (De Augm. Scient., III, 1). Hobbes a sua volta
identificava la F. con la conoscenza scientifica. «La F., egli dice, è la
conoscenza acquisita, attraverso il corretto ragionamento, degli effetti o
fenomeni a partire dai concetti delle loro cause o generazioni; o
reciprocamente la conoscenza acquisita delle generazioni possibili a partire
dagli effetti conosciuti » (De Corp., 1, $ 2). Da questo concetto della F. come
coincidente con la conoscenza scientifica e come impegno di chiarirla ed
estenderla derivò quell’uso inglese del termine sul quale già Hegel richiamava
l’attenzione (Enc., $ 7 e nota; Geschichte der Phil., Intr., A, 2; trad. ital.,
I, pag. 70) secondo il quale il termine si applicava non solo alla scienza
della natura ma anche a certi strumenti come termometri, barometri, ecc.,
nonchè ai princìpi generali della politica: un uso, quest’ultimo, che si è
conservato nei paesi anglosassoni. Per io stesso Cartesio, la F. comprendeva «
tutto ciò che lo spirito umano può sapere » e così veniva in larga misura a
coincidere con le ricerche scientifiche, che d'altronde Cartesio voleva tutte
ricondotte a certi principi fondamentali (Princ. Phil, Pref.). L'intero
Illuminismo condivise il concetto della F. come conoscenza scientifica. «
Filosofo, amatore della saggezza cioè della verità», diceva Voltaire 396 (Dicr.
Phil., art. Philosophe). E lo stesso Wolff ammetteva, accanto alle scienze «
razionali » in cui divideva la F., corrispondenti scienze empiriche, dotate di
un metodo autonomo, che è quello sperimentale. Per es., accanto alla cosmologia
generale o scientifica, Wolff ammette una cosmologia sperimentale « che trae dalle
osservazioni la teoria che è stabilita o è da stabilirsi nella cosmologia
scientifica » (Cosm., $ 4); e riconosce che è possibile, sebbene non facile che
l’intera teoria della cosmologia generale sia derivata dalle osservazioni
(Zbid., $ 5). Nell'ambito di questo significato, il positivismo sottolineò la
funzione propria della filosofia di riunire e coordinare i risultati delle
scienze singole, in modo da realizzare una conoscenza unificata e
generalissima. Questo fu il compito che alla F. assegnarono Comte e Spencer.
Comte vuole che accanto alle scienze particolari ci sia uno « studio delle
generalità scientifiche », che egli fa corrispondere alla «F. prima» di Bacone.
Questo studio dovrebbe « determinare esattamente lo spirito di ciascuna
scienza, scoprire le relazioni e il concatenamento fra le scienze, riassumere,
possibilmente, tutti i loro princìpi propri nel minimo numero di princìpi
comuni, conformandosi incessantemente alle massime fondamentali del metodo
positivo » (Cours de phil. positive, lez. 1, $ 7; lez. 22, $ 3). Il concetto
della F. come scienza generalizzatrice e unificatrice dei risultati delle altre
scienze è stato ed è largamente diffuso nella F. moderna e contemporanea. È
stato infatti accettato non solo dalle correnti positivistiche ma anche da
dottrine spiritualistiche; le quali ultime talora hanno aggiunto ad esso una
determinazione o condizione limitatrice: quella generalizzazione e unificazione
deve costituire un'immagine del mondo che soddisfi i bisogni del cuore. Questa
è la definizione appunto che della F. dette Wundt: che riconobbe la sua
funzione nella « ricapitolazione delle conoscenze particolari in una intuizione
del mondo e della vita che soddisfi le esigenze dell’intelletto e i bisogni del
cuore » (Syst. der Phil., 4* ediz., 1919, I, pag. l; Einleitung in die Phil.,
3* ediz., 1904, pag. 5). Da questo punto di vista la F. «è la scienza
universale che deve unificare in un sistema coerente le conoscenze universali
fornite dalle scienze particolari »: un concetto che ricorre molto
frequentemente nella letteratura filosofica degli ultimi decenni del secolo xrx
e nei primi del sec. xx in quanto permette alla F. di utilizzare ampiamente i
risultati che la ricerca positiva consegue sia nel campo delle scienze naturali
sia in quello delle scienze dello spirito. Talvolta si tende ad accentuare, in
questa direzione, il carattere unitario e totalitario di questa scienza
universale; in tal caso, come nella definizione di Wundt, la si considera come
una intuizione o FILOSOFIA visione del mondo. Questo concetto è una
determinazione ulteriore del concetto della F. come «scienza universale » cioè
unificatrice e generalizzatrice. Dice Mach: « Il filosofo cerca di orientarsi
nell’insieme dei fatti in un modo universale, il più completo possibile... Solo
la fusione delle scienze speciali apporterà la concezione del mondo verso la
quale tendono tutte le specialità » (£rkenntniss und Irrtum, cap. 1; trad.
franc., pag. 14-15). Dilthey mostrò bene questa connessione tra la F. e le
scienze speciali quando scrisse: « La storia della F. trasmette al lavoro
filosofico sistematico i tre problemi della fondazione, della giustificazione e
della connessione delle scienze particolari, insieme al compito di affrontare
il bisogno inesauribile della riflessione ultima sull’essere, sul fondamento,
sul valore, sullo scopo e sulla loro connessione nella intuizione del mondo,
quali che siano la forma e la direzione incui tale compito viene eseguito »
(Das Wesen der Philosophie, in fine; trad. ital., in Critica della ragione
storica, pag. 487). Il rapporto tra la fondazione e l’unificazione delle
scienze e l’intuizione del mondo (in cui propriamente consiste la metafisica) è
da Simmel configurato come la distinzione tra i due limiti che definiscono il
campo della ricerca filosofica. «L'uno comprende le condizioni, i concetti
fondamentali, i presupposti della ricerca particolare i quali non possono in
questa trovare soddisfacimento poichè stanno piuttosto già alla sua base;
nell’altro questa ricerca particolare viene condotta a completamento e a
connessione e messa in rapporto con questioni e concetti che non hanno nessun
posto entro l’esperienza e il sapere oggettivo immediato. Quella è la teoria
della conoscenza, questa è la metafisica del campo particolare in questione» (Soziologie,
1910, pag. 25; cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino,
1956, pag. 242 sgg.). Ora il primo di questi compiti è quello che la F. critica
aveva riconosciuto proprio della F. (v. oltre); il secondo di essi è invece
quello che aveva attribuito alla F. l’indirizzo positivistico che fa capo a
Bacone. L’ultima manifestazione di questo concetto della F. nel pensiero
contemporaneo è la nozione di « scienza unificata », propria del neo-empirismo,
alla quale è dedicata l’Enciclopedia internazionale della scienza unificata
(dal 1938 in poi). In quest'opera tuttavia il concetto stesso di unificazione è
incerto ed è inteso in modo diverso dai suoi diversi sostenitori. Neurath la
intende come la combinazione dei risultati delle varie scienze e l’assiomatizzazione
di essi in un sistema unico; Dewey come esigenza di estendere il posto e la
funzione della scienza nella vita umana; Russell come unità di metodo; Carnap
come unità formale o linguistica; e Morris come dottrina generale dei segni
(Intern. Encycl. of Unified Science, FILOSOFIA I, 1, pag. 20, 33, 61, 70). Il
concetto della filosofia come unificazione o generalizzazione del sapere
scientifico continua tuttavia a ripresentarsi nel mondo contemporaneo;
Whitehead, ad es., lo sostiene (Adventures of Ideas, 1933, IX, $ 2). 3° La
terza concezione della F. come giudizio sul sapere è quella che si può chiamare
critica e che consiste nel ridurre la F., sotto questo rispetto, a dottrina
della conoscenza o a metodologia. Secondo questa concezione la F. non accresce
la quantità del sapere stesso: essa perciò, non può propriamente chiamarsi «
conoscenza ». Il suo compito è piuttosto di saggiare la validità del sapere,
determinando i limiti e le condizioni di esso: le sue possibilità effettive.
L’iniziatore di questo concetto della F. è Locke. Già l’intero Saggio è nato,
come egli avverte nella « Epistola al lettore» che vi è premessa, dal bisogno
di « esaminare la capacità della mente umana e vedere quali oggetti siano alla
sua portata e quali invece superiori alla sua comprensione ». Più esattamente
ancora la F. tende a scoprire «quali sono le possibilità dell’intelligenza,
quale sia l’estensione di queste possibilità, a quali cose esse siano in certa
misura proporzionate e dove il loro soccorso ci viene a mancare » (Saggio,
Intr., $ 4). I limiti delle capacità umane sono da Locke chiaramente riassunti
nel terzo capitolo del libro IV del Saggio. Ma ancora più chiaramente, per ciò
che riguarda la F., tali limiti risultano dall’ultimo capitolo dell’opera dedicato
alla divisione delle scienze. Si distinguono in esso tre scienze principali: la
F. naturale o fisica il cui compito è «la conoscenza delle cose, quali sono nel
loro essere proprio, e la loro costituzione, le loro proprietà e operazioni »;
la F. pratica o etica che è «l'arte di ben dirigere i nostri poteri e i nostri
atti al raggiungimento di cose buone e utili »; e la dottrina dei segni o
semiotica o /ogica il cui compito è di «considerare la natura dei segni di cui
fa uso lo spirito per l’intendimento delle cose o per trasmettere ad altri la
sua conoscenza» (/bid., IV, 21, $ 2-4). In questa divisione delle scienze manca
la F.: il che vuol dire che la F. per Locke non è una scienza nel senso in cui
la fisica, l’etica o la logica lo sono, cioè come conoscenza di oggetti, ma è
giudizio sulla scienza stessa cioè critica. Questo punto di vista costituisce
uno dei filoni principali della F. moderna e contemporanea. Hume riconosceva il
compito della F. accademica o scettica, da lui professata, nella «limitazione
delle nostre ricerche a quelle materie che meglio si adattano alla ristretta
capacità dell’intelligenza umana » (Ing. Conc. Underst., XII, 3). Da Kant la
limi. tazione della conoscenza è assunta come fondamento della validità della
conoscenza stessa, secondo un concetto che già Locke aveva utilizzato. Per Kant
397 infatti sia le condizioni a priori della conoscenza (intuizioni pure,
categorie), sia le condizioni @ posteriori di essa (il dato empirico o
intuizione) determinano e limitano le possibilità conoscitive nel senso che non
solo escludono certi campi di indagine ma anche fondano la validità o
l’effettività delle possibilità stesse. Kant esprimeva l’intero campo della F.
con le seguenti domande: 1° che cosa posso sapere?; 2° che cosa devo fare?; 3° che
cosa posso sperare?; 4° che cosa è l'uomo? « La metafisica, aggiungeva Kant,
risponde alla prima questione, la morale alla seconda, la religione alla terza,
e l'antropologia alla quarta; ma in fondo si potrebbe tutto ricondurre
all’antropologia, perchè le tre prime questioni si riportano all’ultima. Il
filosofo deve per conseguenza poter determinare: 1° la sorgente del sapere
umano; 2° l’ambito dell’uso possibile e utile di tutto il sapere; e infine 3° i
limiti della ragione » (Logik, Intr., IIl). L’obiezione di Hegel contro questo
punto di vista, che « voler conoscere prima che si conosca è assurdo non meno
del saggio proposito di quel tale scolastico di imparare a nuotare prima di
arrischiarsi nell’acqua » (Enc., $ 10), è una pura boutade. Giacchè la F. come
critica suppone che si sappia già nuotare, che ci sia già un sapere costituito
(quello della scienza), a partire dal quale si possono indagare le possibilità
di conoscere e determinare i loro limiti. Della dottrina kantiana, il
neocriticismo contemporaneo ha modificato il punto concernente la religione; e,
mantenendo fermo il concetto della F. come critica del sapere, ha riconosciuto
tre discipline filosofiche e precisamente la logica, l’etica e l’estetica; per
logica intendendo, il più delle volte, la teoria della conoscenza. Questa
dottrina veniva difesa dalla cosiddetta scuola di Marburgo (Cohen, Natorp,
Cassirer) nonchè dal criticismo francese (Renouvier, Brunschvicg). Il primato
che la gnoseologia o teoria della conoscenza ha tenuto nella F. contemporanea
(e non solo presso le correnti neocriticistiche) è una conseguenza del concetto
della F. come critica del sapere. La gnoseologia o teoria della conoscenza (v.)
è tuttavia caratterizzata da particolari presupposti e problemi; pertanto il
concetto della F. come critica del sapere non implica l’identificazione della
F. con la dottrina della conoscenza o gnoseologia. Quel concetto rimane
infatti, anche dopo la crisi e l’abbandono della gnoseologia ottocentesca,
nella forma di analisi dei procedimenti effettivi della conoscenza scientifica
e determinazione dei loro limiti e della loro validità. Questa analisi è il
tema proprio della merodologia (v.). La metodologia si può pertanto considerare
l’ultima incarnazione della F. come critica del sapere. Come parte della
metodologia o come ulteriore restrizione del suo compito, si può in398 tendere
la definizione della F., come «analisi del linguaggio » che è stata proposta
per la prima volta da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922).
Wittgenstein, attribuendo «la totalità delle proposizioni vere» alla scienza
naturale, nega che la F. sia una scienza naturale: questa parola, egli dice «
deve significare qualcosa che sta al di sopra o al di sotto delle scienze della
natura, non a fianco di esse » (7racr., 4. 111). Compito della F. diventa
allora la chiarificazione logica del linguaggio. «La F. non è una dottrina ma
un'attività. Un'opera filosofica consiste essenzialmente in delucidazioni.
Frutto della F. non sono ‘ proposizioni filosofiche * bensì il chiarificarsi
delle proposizioni. La F. deve rendere chiare e delimitare con precisione le
idee che altrimenti sarebbero, per così dire, torbide e confuse » (/bid., 4.
112). II. La filosofia e l’uso del sapere. — Il secondo punto di vista dal
quale possono essere cercate costanti nei significati storicamente attribuiti
alla F. e quindi effettuare divisioni o articolazioni di tali significati è
quello espresso nella seconda parte della definizione che è stata assunta come
punto di partenza di questo articolo: cioè quello per il quale la F. è l’uso
umano del sapere. Due interpretazioni fondamentali sono state storicamente date
di questo aspetto della F., e precisamente: a) quella per cui la F. è
contemplativa e costituisce una forma di vita che è fine a se stessa; 5) quella
per cui la F. è attiva e costituisce lo strumento di modificazione o di
correzione del mondo naturale od umano. Secondo la prima interpretazione, la F.
si esaurisce nell’individuo che filosofa; per la seconda interpretazione, la F.
trascende l’individuo e concerne propriamente i rapporti con la natura o con
gli uomini, quindi la vita umana associata. Per servirsi di un termine di
chiaro significato storico, si può chiamare « illuministica » questa seconda
interpretazione della filosofia. a) Il concetto della F. come contemplazione è
proprio, in primo luogo, delle F. di tipo orientale che pongono come scopo
della F. la salvezza dell’uomo. La salvezza è difatti la liberazione da ogni
rapporto con il mondo e pertanto la realizzazione di uno stato in cui ogni
attività è impossibile o priva di senso. In Occidente, il concetto della F.
come contemplazione non è stata la prima forma che il lavoro filosofico ha
assunto (e che è stata invece quella della «saggezza» cioè della F. attiva e
militante) ma è stata la prima caratterizzazione esplicita di questo lavoro. Il
fondamento di tale caratterizzazione è la natura « disinteressata » della
ricerca filosofica. Quando Erodoto (I, 30) fa dire da re Creso a Solone: «Ho
udito parlare dei viaggi che filosofando hai intrapreso per vedere molti paesi»
allude ovviamente al carattere FILOSOFIA disinteressato di questi viaggi che
non sono stati intrapresi per scopi di lucro o di politica ma solo a scopo di
conoscenza. Platone stesso contrapponeva lo spirito scientifico dei Greci
all'amore del guadagno proprio degli Egiziani e dei Fenici (Rep., IV, 435 e). E
che la ricerca del sapere non possa essere subordinata o piegata a fini
estranei è cosa che risulta dalla stessa nozione di questa ricerca, quale
appunto si è venuta configurando nella Grecia antica (cfr. I, B). Ma già nel
racconto riferito a Pitagora che deriva da uno scritto di Eraclide Pontico
(Diog. L., Proemium, 12) col quale si intende giustificare il nome di F., c’è
qualcosa in più della semplice esigenza del disinteresse della ricerca. Secondo
quella tradizione, riportata da Cicerone nelle Tusculane (V, 9), Pitagora
paragonava la vita alle grandi feste di Olimpia dove alcuni convengono per
affari, altri per partecipare alle gare, altri per divertirsi e alfine alcuni
soltanto per vedere ciò che avviene: questi ultimi sono i filosofi. Qui è
sottolineato il distacco tra il filosofo, interessato solo a vedere, cioè a
contemplare disinteressatamente, e la comune umanità dedita alle sue faccende.
La superiorità della contemplazione sull’azione è pertanto implicita in questo
racconto; che probabilmente aveva lo scopo di nobilitare, col richiamo a
Pitagora, il concetto della F. che si andava formando nella scuola di
Aristotele. Il carattere contemplativo della F. (che non ha nulla a che fare
con il carattere disinteressato della ricerca in generale), come una delle
risposte possibili al problema dell’uso umano del sapere, è stato per la prima
volta affermato e giustificato da Aristotele. Quel carattere è infatti fondato
sulla natura necessaria dell’oggetto della F., che è ciò che « non può essere
altrimenti da quello che è» (Et. Nic., VI, 3, 1139b 19). Da questo punto di
vista la F. è sapienza, non saggezza: giacchè la saggezza consiste nel
deliberar bene, ma nulla c’è da deliberare intorno alle cose che non possono
essere altrimenti (/bid., VI, 5, 1140 a 30). Su questa base Aristotele
stabilisce un contrasto tra saggezza e sapienza (v.). Uomini come Anassagora e
Talete sono sapienti e non saggi: essi non indagano sui beni umani, non
conoscono ciò che giova a loro stessi ma solo cose eccezionali, meravigliose,
difficili e divine. « Nessuno, dice Aristotele, delibera intorno a ciò che non
può essere altrimenti o intorno alle cose che non hanno un fine o il cui fine non
è un bene realizzabile » (/bid., VI, 7, 1041 b 10). Ma qual è, da questo punto
di vista, l’uso possibile del sapere? Uno solo: la realizzazione di una vita
contemplativa cioè dedita alla conoscenza del necessario. L'attività
contemplativa è pertanto considerata da Aristotele come la più alta e
beatifica: essa fa dell’uomo qualcosa di superiore all’uomo FILOSOFIA stesso
perchè è conforme a ciò che di divino c’è in lui (/bid., X, 7, 1177 b 26). La
dottrina di Aristotele ha così fissato i punti seguenti intorno all’uso umano
del sapere: 1° la F., in quanto ha per oggetto il necessario, non offre
all’uomo nulla da fare ed è perciò contemplazione; 2° la contemplazione è una
forma di vita individuale privilegiata perchè è la beatitudine stessa. Le due
tesi sono tipiche di questa concezione della F., che ricorre frequentemente
nella storia del pensiero occidentale. Intanto essa domina tutta la F. greca
postaristotelica; la quale coltiva l’ideale del «sapiente» cioè di colui nel
quale si realizza la vita contemplativa. Epicurei, Stoici, Scettici e
Neoplatonici concordano nel ritenere che il sapiente solo può esser felice
perchè egli soltanto, come puro contemplante, è autosufficiente. Il fine che
questi filosofi attribuiscono alla F. è individuale e privato: la realizzazione
di una forma di vita che chiude il sapiente in se stesso e nella sua
contemplazione solitaria. Anche da questo punto di vista, ovviamente, la F. è
uno sforzo di trasformazione o di rettificazione della vita umana; perciò non è
vera alla lettera l’affermazione di Aristotele che essa non dà nulla da fare.
Questa affermazione significa solo che essa non modifica la struttura del
mondo, della conoscenza che concerne il mondo e delle forme di vita associata;
mentre può modificare la vita dell’individuo rendendolo sapiente e beato. È
facile riconoscere da questi tratti l’atteggiamento contemplativo in filosofia.
Quando Spinoza dice: «L'uomo forte considera principalmente che tutte le cose
seguono dalla necessità della natura divina e che quindi tutto ciò che crede
molesto e cattivo e tutto ciò che inoltre appare empio, orrendo, ingiusto e
turpe nasce dal fatto che egli concepisce le cose stesse torbidamente,
parzialmente e confusamente » (Er., IV, 73, scol.) esprime, nella sua forma
classica, il concetto contemplativo della filosofia. E quando Hegel afferma che
la F., come la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del
crepuscolo, giunge sempre a cose fatte e quindi troppo tardi per dire come deve
essere il mondo, esprime lo stesso concetto (Fil. del Dir., Pref.). Difatti per
Hegel, come per Aristotele e Spinoza, l’oggetto della F. è il necessario; il
suo compito è precisamente quello di mostrare la necessità di ciò che esiste,
cioè la razionalità del reale (Enc., $ 12). Da questo punto di vista la F. è la
giustificazione razionale della realtà: per realtà intendendosi non solo quella
della natura ma anche quella delle istituzioni storico-sociali cioè del mondo
umano. Non molto diverso, era da questo punto di vista il concetto che della F.
aveva Schopenhauer. « Rispecchiare astrattamente, universalmente e limpidamente
in concetti l’intera essenza del mondo, egli 399 diceva, e così, quale immagine
riflessa, deporla nei permanenti e ognora disposti concetti della ragione:
questa e non altro è F.» (Die Welt, I, $ 68). Nella F. contemporanea il
concetto della F. come contemplazione rimane nella fenomenologia e nello
spiritualismo. La fenomenologia è lo sforzo di realizzare, mediante l’epoché,
il punto di vista di uno « spettatore disinteressato » cioè di un soggetto che
non sia a sua volta sottoposto alle stesse condizioni limitative che egli
prende a considerare. Dice Husserl: «L'io della meditazione fenomenologica può
divenire lo spettatore imparziale di se stesso, non soltanto nei casi
particolari ma in generale; e questo ‘se stesso’ comprende ogni oggettività che
esista per lui, tale quale esiste per lui » (Cart. Med., $ 15). E nell’ultima
opera Husserl vede nella filosofia « il movimento storico della rivelazione
della ragione universale, innata come tale nell’umanità » (Krisis, $ 6) e le
attribuisce il compito di portare la ragione « alla propria autocomprensione, a
una ragione che comprenda concretamente se stessa, che comprenda di essere un
mondo, un mondo che è nella propria verità universale » (/bid., $ 73).
Dall’altro lato Bergson, distinguendo la F. come intuizione o coscienza della
durata temporale (cioè del divenire della coscienza) dalla scienza come
conoscenza dei fatti, vede nella scienza «l’ausiliare dell’azione » e nella F.
un’attività contemplativa. «La regola della scienza, egli dice, è quella che è
stata posta da Bacone: obbedire per comandare. Il filosofo non obbedisce nè
comanda: cerca di simpatizzare » (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag.
158). L’idoleggiamento del «sapiente » come di una condizione umana
privilegiata o perfetta o della F. come della forma finale e conclusiva
dell’essere sono due dei tratti caratteristici da cui si può riconoscere la
concezione della F. come contemplazione. A questa concezione appartengono le forme
dello scetticismo antico e moderno. Quando Sesto Empirico addita come fine
della F. scettica l’imperturbabilità che essa consente di realizzare (Ip.
Pirr., 1, 25); o quando Hume riduce il motivo del suo filosofare, che ritiene
incapace di agire sulle credenze più radicate dell’uomo, al piacere che ne
ricava (7reatise, I, 4, 7; Ing. Conc. Underst., XII, 3); entrambi attribuiscono
alla F. una funzione contemplativa che si esaurisce nell’ambito della vita
individuale. E nello stesso ambito si esaurisce la funzione della F. come «
terapia » della F., cioè come liberazione dai dubbi filosofici, della quale
parlano Wittgenstein (Philosophical Investigations, $ 133) e alcuni filosofi
inglesi suoi seguaci (cfr. Revolution in Phil., 1956, pag. 106, 112 sgg.). Non
sembra infatti che questi filosofi attribuiscano alla terapia filosofica altra
funzione se non quella di liberare l’individuo dai dubbi filosofici e così 400
permettergli di « sentirsi meglio » al modo in cui Hume si sentiva meglio coi
suoi dubbi scettici. 5) Il concetto della F. come attività direttiva o
trasformatrice è già presente nella leggenda dei Sette Savi che è stata per la
prima volta riportata da Platone (Prot., 343 a). I Sette Savi furono moralisti
e politici e i loro motti si riferiscono alla condotta della vita e ai rapporti
con gli uomini (v. SAVI). Ma il primo grande esempio di una F. esplicitamente
concepita allo scopo di trasformare il mondo umano è quella di Platone, la
quale è diretta interamente a modificare la forma della vita associata e a
fondarla sulla giustizia. L'educazione del filosofo culmina, non già nella
visione del bene ma nel «ritorno nella caverna »: giacchè il filosofo deve
porre a disposizione della comunità i risultati della sua speculazione e
utilizzarli per la guida e la direzione di essa. « Ciascuno di voi, dice
Platone, deve a sua volta discendere nella dimora comune e abituarsi a
contemplare gli oggetti nelle tenebre: perchè abituandosi a queste, vedrà assai
meglio di quelli che sono rimasti sempre laggiù e riconoscerà i caratteri e
l'oggetto di ciascuna immagine, perchè ha visto i veri esemplari della
bellezza, della giustizia e del bene. Così noi e voi costituiremo e governeremo
la città da svegli e non già sognando, come avviene ora nella maggior parte
delle città per colpa di coloro che si combattono a causa di ombre e si
contendono il potere come se fosse un bene » (Rep., VII, 520c). La F. platonica
è interamente dominata da questo impegno educativo e politico: còmpito della F.
non è, per Platone, quello di dare a un certo numero di uomini la beatitudine
della contemplazione, ma quello di dare a tutti la possibilità di vivere
secondo giustizia (Ibid., 519 e). Questa concezione attiva della F. è rimasta
per lungo tempo inoperante. Solo nel Rinascimento essa fu ripresa dagli
Umanisti che intesero la F. come saggezza. Nel De Nobilitate Legum et Medicinae
Coluccio Salutati (1331-1406) diceva: « Molto mi stupisco che tu sostenga che
la sapienza consista nella contemplazione a cui sarebbe serva la prudenza, che
starebbe con essa nel rapporto di un amministratore con il padrone; e che tu
dica che la sapienza è la maggiore delle virtù, propria della parte migliore
dell'anima, cioè dell’intelletto; e che la felicità consiste nell’operare
secondo sapienza. E soggiungi che, essendo la metafisica la sola scienza
libera, il filosofo vuole che la speculazione preceda in tutto l'azione... Ma
la vera sapienza non consiste, come tu credi, nella pura speculazione. Se togli
la prudenza non troverai nè il sapiente nè la sapienza... Chiameresti infatti
sapiente chi abbia conosciuto cose celesti e divine ma non abbia provveduto a
se stesso, giovato agli amici, alla famiglia, ai congiunti e alla FILOSOFIA
patria? ». Nello stesso spirito Leonardo Bruni nell’Isagogicon Moralis
disciplinae (1424) affermava la superiorità della F. morale su quella
teoretica. Il successivo affermarsi di questa concezione attiva della F.
caratterizza l’inizio dell’età moderna. Gli umanisti credevano che solo la F.
morale fosse attiva; per Bacone è attiva anche la F. che ha per oggetto la
natura perchè è diretta a dominare la natura. E Bacone non esita a chiamare «
pastorale » la stessa F. di Telesio, che molto apprezzava e in parte seguiva,
perchè gli sembrava che essa « contemplasse il mondo placidamente e quasi per
ozio» (Works, III, pag. 118). Hobbes insisteva sulla stessa funzione della F.
(De Corp., I, $ 6). Cartesio a sua volta la riteneva diretta a conseguire la
saggezza e la scienza di tutto ciò che riesce utile o vantaggioso per l’uomo
(Princ. Phil, Pref.). Lo stesso scopo direttivo e correttivo attribuirono alla
F. Locke e gli Illuministi. Con Locke, la F. diventa critica della conoscenza e
sforzo di liberazione dell’uomo da ignoranze e pregiudizi. E tale si mantiene
per l’Illuminismo del sec. xvi, che vede nella F. lo sforzo della ragione di
investire il mondo umano, liberarlo dagli errori e di farlo progredire.
D’Alembert così descriveva l’azione che la F. esercitava nel suo tempo: « Dai
princìpi delle scienze profane sino ai fondamenti della rivelazione, dalla
metafisica sino alle materie di gusto, dalla musica sino alla morale, dalle
dispute scolastiche dei teologi sino agli oggetti del commercio, dai diritti
dei princìpi sino a quello dei popoli, dalla legge naturale sino alle leggi
arbitrarie delle nazioni, in una parola dalle questioni che ci toccano di più a
quelle che ci interessano di meno, tutto è stato discusso e analizzato o almeno
agitato. Una nuova luce su alcuni oggetti, una nuova oscurità su molti altri,
sono stati il frutto o la conseguenza di questa effervescenza generale degli
spiriti, come l’effetto del flusso e riflusso dell'oceano è quello di portare
sulla riva qualcosa e di allontanarne qualche altra » (CEuvres, ed. Condorcet,
pag. 218). Il concetto illuministico della F. era partecipato da Kant secondo
il quale la F., determinando le possibilità effettive dell’uomo in tutti i
campi, deve illuminare e dirigere il genere umano nel suo doveroso progresso
verso la felicità universale (Recensione alle « Idee sulla F. della storia » di
Herder, 1784-85; cfr. Critica R. Pura, Dottrina trascendentale del metodo,
capitolo III, in fine). Il Romanticismo, insistendo sul carattere necessario,
perchè razionale, dell’essere, ha costituito, nel suo complesso, un ritorno
alla concezione contemplativa della filosofia. Lo stesso positivismo che
intendeva esplicitamente rifarsi alla dottrina baconiana del sapere come
possibilità di dominio sulla natura, non sempre rimane fedele al riconoscimento
FILOSOFIA del carattere attivo della filosofia. Se per il posifivismo (v.) di
stampo sociale (St.-Simon, Proudhon, Comte, Stuart Mill) la F. è
prevalentemente uno strumento di trasformazione della società umana, per il
positivismo evoluzionistico la F. ha più carattere contemplativo che attivo. La
difesa del mistero che Spencer pone tra i compiti della F., cioè il
riconoscimento dell’insolubilità dei cosiddetti problemi ultimi, porta la F.
sullo stesso piano contemplativo della religione. La discussione intorno alla
solubilità o insolubilità dei cosiddetti « enigmi del mondo + cade interamente
sul piano della F. contemplativa. Il positivismo di Ardigò come il monismo
materialistico (Haeckel) e l’evoluzionismo spiritualistico (Wundt, Morgan,
ecc.) sono ugualmente contemplativi. In realtà il clima romantico è presente
nel positivismo come nell’idealismo e indirizza quello come questo verso il
concetto della F. come contemplazione di una realtà necessaria. Contro tale
concetto costituisce una protesta il « nuovo materialismo » di cui si fece
partigiano Marx, polemizzando, dall’altro lato, contro il materialismo
teoretico di Feuerbach. «I filosofi, egli diceva, hanno finora soltanto
diversamente interpretato il mondo: si tratta ora di trasformarlo » (Tesi su
Feuerbach, 11). Ma per quanto Marx insista sull’impegno di trasformazione che
deve caratterizzare la F. come tale, il fondamento stesso della F. come
contemplazione rimane saldo nella sua dottrina. Quel fondamento è infatti la
necessità del reale; e per Marx la trasformazione della società, cioè il
passaggio dalla società capitalistica a quella senza classi, avverrà « con la
fatalità che presiede ai fenomeni della natura» (Capit., I, 24, $ 7). Su questa
base, il compito della F. appare quello di una profetica Cassandra anzichè
quello di promuovere e orientare la trasformazione stessa. Sotto questo
rispetto, si sottrae talvolta al clima romantico il neocriticismo. Nella
Ucronia Renouvier si propose di eliminare « l'illusione della necessità
preliminare per la quale il fatto compiuto sarebbe il solo, fra tutti gli altri
immaginabili, che avrebbe potuto realmente accadere» (Uchronie, 2* ediz., 1901,
pag. 411). La «F. analitica della storia » ha, secondo Renouvier, il compito di
determinare le concatenazioni generali dei fatti storici per dirigere lo
sviluppo della storia stessa (/nir. d la phil. analytique de l’histoire, 1864,
pag. 551-52). Dall'altro lato la determinazione della F. come «visione del
mondo», determinazione che la F. subì, nella seconda metà del sec. xxx, ad
opera di pensatori di provenienza neocriticistica o positivistica, ha un chiaro
significato contemplativo. Contro l’interpretazione contemplativa della F. si è
invece schierato polemicamente il pragmatismo sin dalla sua origine, che si può
vedere nel saggio Come render 26 — ABBAGNANO, Dirionario di filosofia. 401
chiare le nostre idee (1878) di C. S. Peirce. In questo saggio Peirce affermava
che l’intera funzione del pensiero è di produrre abitudini d'azione (o
credenze) e che pertanto il significato di un concetto consiste esclusivamente
nelle possibilità d’azione che esso definisce. Ma queste affermazioni di Peirce
sono importanti anche da un altro punto di vista. Peirce negava esplicitamente
il presupposto stesso della F. come contemplazione, cioè il carattere
necessario del reale. Peirce mostrava difatti come la regolarità e l’ordine
degli eventi nonchè i legami condizionali tra gli eventi stessi non hanno
niente a che fare con la necessità, che implicherebbe la possibilità della
previsione infallibile (Chance, Love and Logic, II, cap. 2). La definizione data
da Dewey della F. come « critica dei valori » (Experience and Nature, pag. 407)
esprime, proprio sui presupposti stabiliti da Peirce, la funzione direttiva
della filosofia. Secondo Dewey, il compito della F. è quello antico, iscritto
nel significato etimologico della parola: ricerca della saggezza; dove la
saggezza differisce dalla conoscenza per essere « l'applicazione di ciò che è
conosciuto alla condotta intelligente delle faccende della vita umana »
(Problems of Man, 1946, pag. 7). Non diverso significato ha la definizione data
da Morris: « Una F. è un’organizzazione sistematica che comprende le credenze
fondamentali: credenze sulla natura del mondo e dell’uomo, su ciò che è bene,
sui metodi da seguire nella conoscenza, sul modo in cui la vita dev'essere
vissuta» (Signs, Language and Behavior, 1946, VIII, $ 6; traduzione ital, pag.
314). Per Morris, infatti, come per tutto il pragmatismo, la credenza non è che
una regola di comportamento: e la F., come organizzazione delle credenze
fondamentali, costituisce perciò quello che Sartre ha chiamato «il progetto
fondamentale di vita ». Nell'opera stessa di Sartre si può scorgere il
passaggio dalla concezione contemplativa della F., espressa ne L’éfre er le
néant (1943) a quella attiva o illuministica espressa nella Critique de la
raison dialectique (1960). Nel primo scritto, Sartre progettava una ricerca
detta « psicanalisi esistenziale » il cui scopo era quello « di mettere in
luce, in una forma rigorosamente oggettiva, la scelta soggettiva per la quale
ciascuna persona si fa persona cioè si fa annunziare a se stessa ciò che essa
è» (L’étre et le néant, pag. 662). Il risultato di una ricerca di questo genere
avrebbe dovuto essere, secondo Sartre, la classificazione e il confronto dei
vari tipi di condotta possibili, quindi il chiarimento definitivo della realtà
umana come tale (/bid., pag. 663). Il carattere contemplativo di una disciplina
siffatta è evidente. Ma nella sua seconda opera Sartre intende la F. come «
totalizzazione del sapere, metodo, Idea regolatrice, arma offensiva e comunità
di linguaggio » nonchè come 402 uno strumento che agisce, per trasformarle,
sulle società in decadenza e che può costituire la cultura o addirittura la
natura di un'intera classe (Critique de la raison dialectique, pag. 17). Nel
primo caso la F. non dava nulla da fare agli uomini giacchè l’uomo nulla poteva
fare: Sartre definiva l’uomo come « passione inutile» cioè come passione
impossibile di essere Dio (L’éfre et le néant, pag. 708). Nel secondo caso, la
F. s’inserisce come forza umana finita ma efficace, nel mondo, e tende a
trasformarlo. Sottratta al destino del fallimento e a quello del successo, la
nozione di progetto si presta ad esprimere il carattere direttivo e operativo
che alla F. attribuiscono gli indirizzi neoilluministici contemporanei. Un
progetto difatti fa leva sulle conoscenze disponibili e ne determina l’uso
possibile al fine di garantire l'esistenza e la coesistenza degli uomini. Una
F. che progetti in questo senso (che è poi quello già chiarito da Platone) l’uso
umano del sapere è ovviamente la determinazione di tecniche di vita che possono
essere messe a prova, rettificate o rigettate. III La filosofia e î suoi
procedimenti. — Il terzo punto di vista dal quale si possono individuare
costanti di significato che consentano di riconoscere articolazioni
fondamentali nelle interpretazioni storicamente date del concetto di F., è
quello del procedimento o metodo che si ritiene proprio della filosofia. Da
questo punto di vista le F. si possono distinguere in «) F. sintetiche o
creative che procedono producendo concettualmente il loro oggetto, senza
riconoscere limiti o condizioni a questo lavoro di costruzione; e 8) F.
analitiche che riconoscono l’esistenza di defi e procedono a descrivere o
analizzare questi dati stessi. Il carattere proprio delle F. analitiche è la
limitazione cui si ritengono sottoposte da parte del dato, comunque poi
intendano la natura di esso. Il carattere proprio delle F. sintetiche sta
invece nel non riconoscere questa limitazione e nel pretendere che il proprio
metodo è interamente costruttivo cioè capace di esaurire senza residui l’intero
oggetto della filosofia. a) Il procedimento sintetico non può far appello al
controllo di situazioni, fatti o elementi che siano indipendenti da sè; la sua
caratteristica è pertanto quella di valere come controllo a se stesso. Ogni
qualvolta una F. assume che la validità dei propri risultati dipende
esclusivamente dalla organizzazione interna della stessa F. e può essere perciò
riconosciuta e stabilita una volta per tutte, senza bisogno che i risultati
stessi siano messi a prova e convalidati da tecniche o procedure indipendenti
da essa, il suo metodo può essere ritenuto sintetico. La sua procedura infatti
equivale in questo caso alla creazione o composizione ex novo del suo oggetto,
in una forma che non esige FILOSOFIA conferme nè teme smentite. La F. di Hegel
costituisce l’incarnazione più pura di questo tipo di filosofia. Quando Hegel
dice: « La F. non ha il vantaggio, del quale godono le altre scienze, di poter
presupporre i suoi oggetti come immediatamente dati dalla rappresentazione, e
come già ammesso, nel punto di partenza e nel procedere successivo, il metodo
del suo conoscere » (Enc., $ 1), egli afferma per l’appunto l’esigenza che la
F. costruisca da sè, interamente, il suo oggetto e il suo metodo. Ma producendo
da sè sia l’oggetto che il metodo, essa non ha neppure da render conto ad altre
scienze o ad altri eventuali punti di vista dei suoi risultati quali che siano.
Hegel insiste sul carattere assolutamente indipendente o incondizionato del suo
metodo. «Il metodo (egli dice, per es.) così come nella scienza il concetto, si
svolge da se stesso ed è soltanto una progressione immanente e una produzione
delle sue determinazioni » (Fil. del Dir., $ 31). E ancora: «La più alta
dialettica del concetto è produrre e intendere la determinazione, non
semplicemente come limite o posizione, ma traendo da essa il contenuto e il
risultato positivi; in quanto unicamente con ciò essa è sviluppo e progresso
immanente. Questa dialettica non è un fare esterno di un pensiero oggettivo ma
l’anima propria del contenuto, la quale fa germogliare i suoi rami e i suoi
frutti organicamente » (/did., $ 31). La differenza tra questo metodo
produttivo o, come meglio si direbbe, creativo del suo oggetto e il metodo
analitico, che Hegel riconosce proprio delle scienze dopo Cartesio, è espressa
da Hegel stesso nel modo seguente: « Il metodo iniziato da Cartesio rifiuta
tutti i metodi rivolti a conoscere ciò che per il suo contenuto è infinito; si
abbandona perciò allo sfrenato arbitrio delle immaginazioni e asserzioni, ad
una presunzione di moralità e orgoglio di sentimento o ad uno smisurato opinare
e raziocinare il quale si dichiara nel modo più energico contro la F. e i
filosofemi » (Enc., $ 77). Questa concezione attribuisce al procedimento
filosofico la produzione del suo oggetto e fa dell’oggetto, l’infinito stesso
cioè l'Assoluto o Dio, che risolve o annulla in sè ogni fatto o cosa finita.
Prima di trovare in Hegel la sua forma tipica, tale concezione era stata
esposta da Fichte come esigenza che la F., quale dottrina della scienza, dia
forma sistematica non soltanto a se stessa ma anche a tutte le altre scienze
possibili e garantisca per tutte la validità di questa forma (Uber den Begriff
der Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Fichte riteneva infatti che, insieme alla
sua forma, la dottrina della scienza dovesse produrre anche il contenuto; e che
il contenuto della dottrina della scienza racchiudesse in sè ogni possibile
contenuto e fosse perciò «il contenuto assoluto » (/bid., $ 1). RisaFILOSOFIA
lendo ancora più in là, la concezione del metodo sintetico si può vedere in
Spinoza: secondo il quale il procedimento filosofico (che egli chiama
conoscenza intuitiva o terzo genere di conoscenza o amore intellettuale di Dio)
è quello che ha per oggetto la necessità con cui tutte le cose derivano dalla
natura divina. L’amore intellettuale di Dio è lo stesso amore con cui Dio ama
se stesso (£t., V, 36): ciò vuol dire che la conoscenza della necessità con cui
le cose derivano da Dio è la conoscenza stessa che Dio ha di sè. Il
procedimento matematico dell’Erica acquista, da questo punto di vista, un
rilievo fondamentale nella filosofia di Spinoza: esso non è un artificio
espositivo ma l’adeguazione del metodo della F. al procedimento necessario con
cui le cose derivano da Dio. Considerato in questa prospettiva, il metodo
sintetico si rivela nella sua caratteristica più appariscente: nella sua
pretesa di valere come un colpo d'occhio divino gettato sul mondo, come la
conoscenza stessa che Dio ha di sè e dei suoi effetti creati. Èfacileallora
vedere come questa pretesa sia stata spesso avanzata dalla filosofia. « Questa
scienza soltanto, diceva Aristotele, è divina e lo è in un duplice senso:
perchè propria di Dio e perchè concerne il divino. Essa sola ebbe in sorte
entrambi questi privilegi: Dio infatti appare come la causa e il principio di
tutte le cose e solo o principalmente una scienza siffatta può essere propria
di Dio» (Met., I, 2, 983a 5). Aristotele chiamava pertanto seologia la F.
prima. Vero è che la F. prima è tale per la sua universalità e che essa è
universale solo in quanto è scienza dell’essere in quanto essere (/bid., VI, 1,
1026 a 30). Ma la stessa scienza dell’essere in quanto essere è teologia perchè
è la scienza della causa o ragion d’essere e questa causa o ragion d’essere è
Dio. La F. aristotelica ha perciò dichiaratamente carattere sintetico e può
anzi essere considerata come il primo e classico esempio del procedimento
sintetico. Ovviamente, essa non lo è soltanto perchè ha Dio come oggetto della
sua investigazione; ma anche perchè si considera coincidente con la conoscenza
che Dio ha di sè. E da questo tratto può essere agevolmente riconosciuta ogni
F. sintetica come tale. $) Il procedimento analitico della F. si riconosce
negativamente dalla mancanza della pretesa di valere come conoscenza divina del
mondo e positivamente dal riconoscimento di un limite delle sue possibilità e
di un controllo dei suoi risultati. Il procedimento analitico non è, di
conseguenza, la costruzione ex novo del suo oggetto, ma la risoluzione di esso
negli elementi che lo lasciano intendere cioè nelle sue condizioni. In questi
termini, la determinazione del procedimento filosofico è stata fatta da Kant
dapprima in uno scritto 403 precritico del 1764 Sulla distinzione dei principi
della teologia naturale e della morale poi nella seconda parte principale della
Critica della Ragion Pura. Nel primo di questi scritti Kant contrapponeva il
metodo analitico della F. al metodo sintetico della matematica. « Ad ogni
concetto generale, egli diceva, si può pervenire per due strade: o attraverso
un collegamento arbitrario dei concetti oppure isolando quelle conoscenze che
sono state chiarite per suddivisione. La matematica arriva sempre alle sue
definizioni seguendo la prima strada... Le definizioni filosofiche invece sono
del tutto diverse. Qui il concetto delle cose è già dato ma in modo confuso e
non sufficientemente determinato. Bisogna suddividerlo, confrontare nei vari casi
le note che si sono separate con il concetto dato, per poi determinare e render
compiuta questa idea astratta » (Untersuchung Uber die Deutlichkeit der
Grundsatze der natilrlichen Theologie und der Moral, 1, I, $ 1). Nella Critica
della Ragion Pura, Kant distinse la conoscenza filosofica come conoscenza per
concetti dalla conoscenza matematica che consiste nella costruzione di
concetti. La matematica, dice Kant, può costruire concetti perchè dispone di
una intuizione pura che è quella dello spazio-tempo. Ma la F. non dispone di
una intuizione pura ma soltanto di una intuizione sensibile: gli oggetti della
F. devono quindi essere dati e possono pertanto solo essere analizzati, non
costruiti, dal procedimento filosofico (Critica R. Pura, Dottrina del metodo,
cap. I, sez. I). Kant mette pertanto in guardia i filosofi contro la pretesa di
voler organizzare la loro scienza secondo il modello matematico. In F., non ci
sono propriamente definizioni (che siano costruzioni di concetti) nè assiomi,
cioè verità evidenti, nè dimostrazioni, cioè prove apodittiche. Dice Kant a
proposito di queste ultime: « L'esperienza ci insegna ciò che c'è, ma non che
non può essere altrimenti. Princìpi empirici di prova non possono darci nessuna
prova apodittica. Da concetti a priori (nella conoscenza discorsiva) non può
nascere mai una certezza intuitiva cioè un’evidenza, per quanto il giudizio
possa essere apoditticamente certo + (/bid., Dottrina del metodo, cap. I, sez.
I). Da questo punto di vista, il procedimento della F. è ben lontano dal poter
dare all’uomo una conoscenza paragonabile a quella posseduta da Dio. «La
determinazione dei limiti della nostra ragione non può farsi se non su princlpi
a priori; ma la limitatezza della ragione, che viene ad essere la conoscenza,
sia pure indeterminata, di un’ignoranza mai completamente eliminabile, può
anche essere conosciuta a posteriori vale a dire da questo che, in ogni sapere,
ci resta sempre ancora da sapere » (/bid., Della impossibilità di un
appagamento scettico). La F. non è mai una scienza perfetta, che si possa
insegnare od apprendere. 404 4 Si può imparare soltanto a filosofare cioè ad
esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi princìpi
universali a determinate ricerche, ma sempre con la riserva del diritto della
ragione stessa a indagare quei principi alle loro sorgenti e a confermarli o
rifiutarli» (/bid., Dottrina del metodo, cap. III). Queste notazioni di Kant
costituiscono un concetto relativamente compiuto o maturo del procedimento
analitico in filosofia. Il precedente immediato di esso è Locke. « Non è affar
nostro, in questo mondo, aveva detto Locke, conoscere tutte le cose, bensì
quelle che riguardano la condotta della nostra vita. Se dunque possiamo trovare
le regole mediante le quali, una creatura ragionevole, qual è l’uomo,
considerato nello stato in cui si trova in questo mondo, può e deve condurre le
sue opinioni e le azioni che ne dipendono; se, dico, possiamo giungere a tanto,
non dobbiamo farci un cruccio se altre cose sfuggono alla nostra conoscenza »
(Saggio, Intr., $ 6). Il concetto della F. come procedimento analitico cioè
diretto a determinare le condizioni e perciò i limiti delle attività umane,
ispirò l’intero Illuminismo settecentesco. Ma sotto questo rispetto e con la
diversità dovuta alla differenza dei mezzi culturali disponibili, l’Illuminismo
settecentesco riprendeva l’ideale dell’Illuminismo antico, quello dei Sofisti e
di Socrate, che intesero la F. come diretta alla formazione dell’uomo nella
comunità. Di questo Illuminismo, secondo il quale la F. è uno strumento per
l’uomo, si può ritenere una manifestazione lo stesso concetto platonico della
filosofia. Platone infatti negava che la F. potesse essere propria della
divinità. Essa, come l’amore, è mancanza perchè è desiderio di saggezza da
parte di chi la saggezza non possiede per propria natura. L’uomo è filosofo
perchè «sta in mezzo tra il sapiente e l’ignorante » mentre la divinità che
possiede già la sapienza, non ha bisogno di filosofare (Conv., 204 a-b).
Dall'altro lato, la dialettica, che è il metodo della F., è concepita da
Platone come analisi, cioè come un procedimento che consente di distinguere il
discorso vero dal discorso falso, mostrando le cose che possono combinarsi tra
loro e quelle che non possono combinarsi (Sof., 252 d-e). Per mostrare quali
sono le cose che possono e quelle che non possono combinarsi, la dialettica
procede componendo varie determinazioni in un unico concetto e poi dividendo
questo concetto stesso nelle sue articolazioni, come fa un abile scalco (Fedro,
265 e). Essa quindi suppone a ogni passo la scelta opportuna delle
determinazioni da comporre in un concetto solo e dei punti in cui far cadere la
divisione del concetto stesso: scelta che suppone, come ogni altra scelta,
un’utilizzazione di dati: onde il metodo platonico è FILOSOFIA stato
giustamente considerato come un metodo empirico (TavLor, Pilato, 4* ediz.,
1937, pag. 377). Che la F. sia un'attività umana cioè limitata nella sua
portata e nella sua validità; che essa consista nell’effettuare scelte e non
già nel costruire in toto il suo oggetto, sono le caratteristiche fondamentali
della concezione analitica della filosofia. Da questi due caratteri deriva il
terzo, che è forse il più ovvio e appariscente: quello per cui questo metodo è,
tra l’altro e in primo luogo, riconoscimento ed utilizzazione di dari cioè di
fatti, elementi o condizioni che non sono prodotti dal metodo stesso. La scelta
dei dati e la loro elaborazione in vista di una soluzione possibile costituisce
il problema (v.). Le F. analitiche sono in genere contrassegnate dal fatto che
in esse la nozione di problema è fondamentale, mentre non esiste o è
considerata secondaria e trascurabile nelle F. sintetiche (come accade in
quelle di Aristotele e Hegel). Un’ulteriore determinazione di questa concezione
(una determinazione che essa acquista solo nel mondo contemporaneo) è quella
concernente il campo dal quale la F. può o deve trarre i suoi dati e col quale
l’interpretazione di questi dati può o deve essere messa a confronto. È solo un’idea
recente che i risultati della F., come quelli di ogni altra indagine, non sono
definitivi ma hanno bisogno di essere messi a prova e saggiati. Dewey ha
chiamato a questo proposito la F. critica delle critiche. « Può sembrare ad
alcuni un tradimento, egli ha detto, concepire la F. come il metodo critico per
sviluppare i metodi della critica. Ma anche questo concetto della F. attende di
essere messo alla prova, e la prova che lo confermerà o lo condannerà consiste
nella riuscita eventuale. L'importanza della conoscenza che abbiamo acquistato
e dell’esperienza che è stata ravvivata dal pensiero consiste nell’evocare e
nel giustificare la prova » (Experience and Nature, pag. 437). Tuttavia questa
esigenza diventa operante solo quando si determini il campo dal quale la F.
tragga i suoi dati e nel quale trovi le sue possibilità di conferma. La
determinazione di questo campo costituisce la caratteristica propria della F.
analitica dei tempi nostri. Ora i campi a cui si può fare riferimento sono
soltanto due: 1° l’esistenza singola; 2° l’esistenza associata. 1° Le F. che
fanno appello all’esistenza singola per la ricerca dei dati e per la eventuale
messa a prova delle soluzioni considerano abitualmente l’esistenza singola come
coscienza e vedono nella coscienza il dominio proprio della filosofia. Nel
mondo contemporaneo, la più conosciuta e tipica F. di questa specie è quella di
Bergson, che esplicitamente si organizza come ricerca dei « dati immediati
della coscienza » e che utilizza questi dati per soluzioni che possono a loro
volta essere messe a prova FINALISMO soltanto nell’ambito della coscienza. A
questo tipo di F. si riconnette anche la fenomenologia concepita da Husserl
come « un ritorno radicale all’ego cogito puro, per far rivivere i valori
eterni che ne derivano + (Cart. Med., $ 2). Il difetto metodologico di questo
tipo di F. consiste nel fatto che in esse il dato, che deve servire come
limitazione o controllo del procedimento analitico, non è veramente
indipendente da questo procedimento, perchè può essere scoperto o assunto solo
sulla base dei presupposti che lo ispirano. 2° Le F. che fanno appello
all’esistenza associata hanno il loro capostipite nella F. di Platone, che per
l’appunto intendeva mettere a prova i risultati della F. nella vita associata.
Allo stesso genere appartiene la F. di Kant, secondo la quale i risultati della
F. devono essere messi a prova nel dominio morale e politico cioè nel campo dei
rapporti umani in generale e costituire uno strumento di progresso in tale
campo [cfr. lo scritto Se il genere umano sia in costante progresso verso il
meglio, del 1798, nonchè quello Sull’illuminismo, 1784, e quelli
precedentemente citati in questo articolo, II, b)]. L'esperienza inter-umana è
anche quella cui fa riferimento Dewey per la messa a prova dei risultati della
F. cioè delle proposte che essa formula per la condotta intelligente della vita
(Experience and Nature, cap. X). Dall'altro lato, l’esistenzialismo di
Heidegger, per quanto non progetti di mettere a prova i risultati delle sue analisi,
assume i dati di questa analisi dall’esistenza comune quotidiana, da ciò che
accade fra gli uomini « innanzi tutto e per lo più » (Sein und Zeit, $ 9).
Infine a questo stesso orizzonte si può ricondurre la F. intesa come analisi
del linguaggio in quanto scorge nel linguaggio il fatto inter-soggettivo
fondamentale e quindi nel chiarimento e nella rettificazione di esso lo
strumento più adatto per l’eliminazione degli equivoci e la rettificazione dei
rapporti intersoggettivi. Questa almeno sembrerebbe il significato più
importante di una siffatta filosofia. Ma non è il caso di questo significato,
se essa viene intesa semplicemente (come alcuni l’intendono) quale una
«terapia» diretta a liberare dai dubbi, ritenuti fittizi, prodotti dalla
filosofia. In questo caso, poichè nessuno, tranne l’interessato, può giudicare
se si senta o meno sufficientemente « guarito +, la messa a prova della F.
avrebbe per suo campo proprio la vita privata dell’individuo. FILOSOFIA PRIMA
(gr. rpém puocopla; lat. Prima philosophia; ingl. First Philosophy; francese
Philosophie première; ted. Ersten Philosophie). Così Aristotele chiamò talvolta
la F. come scienza dell’essere (o teologia) per distinguerla dalla fisica (F.
seconda) e dalla matematica (Fis., I, 9, 191 a 36; Met., VI, 1, 1026a 16;
ecc.). Bacone adoperò il 405 termine per indicare la «scienza universale + che
è come l’albero da cui si dipartono, come tanti rami, le scienze particolari e
ha per oggetto i princìpi comuni delle scienze (De Augm. Scient., III, 1): (v.
Frrosoria). Nel significato aristotelico il termine è stato sostituito da
quello di metafisica (v.). FINALISMO (ingl. Finalism; franc. Finalisme; ted.
Finalismus). La dottrina che ammette la causalità del fine, nel senso che il
fine sia la causa totale dell’organizzazione del mondo e la causa dei singoli
eventi. La dottrina implica due tesi: 18 il mondo è organizzato in vista di un
fine; 23 la spiegazione di ogni evento del mondo consiste nell’addurre il fine
cui l'evento è diretto. Queste due tesi si trovano spesso congiunte o confuse
insieme; ma talvolta sono distinte e si cerca di ammettere l'una senza
ammettere l'altra. Secondo la testimonianza di Platone e di Aristotele,
Anassagora fu il primo degli antichi ad ammettere la causalità del fine (PLAT.,
Fed., 97 c; ARIST., Met., I, 3, 984b 18). Platone presenta la sua propria
dottrina come una conseguenza del principio di Anassagora che l'intelligenza è
la causa ordinatrice del mondo. « Se l'intelligenza ordina tutte le cose e
ciascuna cosa dispone nel modo migliore, egli dice, trovare la causa per la
quale ciascuna cosa si genera, si distrugge O esiste, significa trovare qual è
per essa il modo migliore di esistere o di modificarsi o di agire + (Fed., 97
c). Ciò che è « meglio » o «eccellente » è, da questo punto di vista la « vera
» causa delle cose mentre sono cause secondarie o concause quelle di natura
fisica che solitamente si adducono (Tim., 46 d; Fil., 54c). Ma la dottrina che
ha fatto prevalere la concezione finalistica nella metafisica antica e recente
è quella aristotelica. Le due tesi proprie del F. sono parti integranti della
metafisica aristotelica. Da un lato Aristotele afferma che « tutto ciò che è
per natura esiste per un fine » (De an., III, 12, 434 a 31) e identifica il
fine con la stessa sostanza «0 forma o ragion d'essere della cosa» (Mef., VIII,
4, 1044a 31). Dall’altro lato, ritiene che l’intero universo è subordinato ad
un unico fine che è Dio stesso, dal quale dipende l’ordine e il movimento
dell’universo stesso (/bid., XII, 7, 1072 b). Su queste basi, Aristotele
difende la causalità del fine contro la tesi che egli chiama della « necessità
»: la quale consiste nell’ammettere che le cose non avvengono in vista del loro
risultato migliore, ma che il risultato migliore è, talvolta, l’effetto accidentale
della necessità. Difatti come si dice che di necessità, date certe cause, è
piovuto e che la pioggia ha accidentalmente prodotto la perdita del raccolto,
senza che questa fosse il fine della pioggia, così si potrebbe tentare di
spiegare allo stesso modo la forma degli organismi animali (Fis., II, 8, 198 b
17). Contro questo modo di ra406 gionare Aristotele osserva che ciò che accade
sempre o per lo più non si può spiegare col caso, ma suppone la necessità
d’azione del fine (/bid., II, 9, 200a 5). Non si trova però in Aristotele
quella forma popolare della teleologia che s’inizia con gli Stoici e che
consiste nel mostrare che le cose del mondo son fatte dalla natura a vantaggio
dell’uomo. Il fondamento di questa teleologia è espresso da Cicerone: « Per chi
dunque si potrebbe dire che è stato realizzato il mondo? Evidentemente per gli
esseri viventi dotati di ragione cioè per gli dèi e per gli uomini; non vi è
nulla infatti che sia più eccellente di essi, dato che la ragione è superiore a
tutto: diviene così credibile che il mondo e tutto ciò che nel mondo esiste è
stato fatto per gli dèi e per gli uomini» (De nar. deor., II, 133). Data la sua
stretta connessione con la teologia, si intende perchè il F. è stato sempre
assunto a fondamento dalla metafisica teologica. Gli Scolastici insistono sulla
superiorità causale del fine che chiamano «causa delle cause ». S. Tommaso,
sulle orme di Aristotele, risolve nella causalità del fine la necessità propria
dei movimenti naturali. « La necessità naturale che inerisce alle cose e le
dirige, egli scrive, viene alle cose stesse impressa da Dio in quanto le dirige
ad un fine: al modo stesso in cui la necessità con cui si muove la freccia e
per cui è diretta verso il bersaglio è stata impressa ad essa da chi l’ha lanciata
e non appartiene alla freccia » (S. Th., I, q. 103, a. 1). Questo è proprio il
pensiero fondamentale che domina e rende straordinariamente uniformi tutte le
teorie finalistiche di cui è ricca la storia della F. fino ai nostri giorni.
Sembrò a Hegel una grande novità la sua propria dottrina del fine come del
«concetto stesso nella sua esistenza » e della finalità come una determinazione
immanente alla natura stessa; ed egli infatti contrappose questa dottrina a
quella, che riteneva propria della tradizione, di un intelletto «extramondano »
che dall’esterno imponga i suoi fini alla natura (Wissenschaft der Logik, III,
sez. II, cap. III; trad. ital, pag. 216 sgg.).. Ma in realtà, come provano i
testi finora citati, non esiste, nella storia della F., la dottrina di una
finalità estrinseca e imposta da un intelletto extra mondano; giacchè per
finalità del mondo Aristotele, come gli Stoici e come S. Tommaso, intendono la
ragion d’essere propria del mondo, la sua necessità immanente: e S. Tommaso
esplicitamente identifica l’impressio di Dio sulla natura con la « necessità
inerente alle cose». Una finalità se è tale è sempre immanente alla totalità di
cui costituisce l'organizzazione. E come già notava Aristotele, il F. sotto
questo aspetto non muta, sia che si tratti di totalità naturali sia che si
tratti di totalità artificiali; nella costruzione di una casa il fine pervade
il materiale di cui ci si FINALISMO serve e inerisce ad esso in maniera non
diversa da come inerisce alle parti di un organismo (Zis., II, 9, 200a 34). In
tutti i casi il F. è, per adoperare l’espressione hegeliana, il concetto stesso
nella sua esistenza: la realizzazione di un concetto che sin da principio
dirige e governa questa stessa realizzazione. Pertanto la polemica contro «
l’intelletto extra-mondano » di Hegel è una polemica teologica: la
contrapposizione di una tesi panteistica ad una tesi teistica; ma non concerne
il finalismo. Diverso significato ha la distinzione tra finalità interna e
finalità esterna fatta da Schopenhauer, il quale tuttavia mantiene immutato il
concetto tradizionale di F., nonostante la sua tesi del carattere irrazionale e
disordinato della forza che regge il mondo. La finalità interna è per
Schopenhauer «l’armonia di tutte le parti di un organismo singolo, in modo tale
che la conservazione di esso e della sua specie si presenti come lo scopo di
questa stessa armonia ». La finalità esterna è invece la «relazione della
natura inorganica con l’organica o di parti della natura organica tra loro, che
rende possibile la conservazione dell’intera natura organica o delle singole
specie» (Die Welt, I, $ 28). Dall'altro lato non costituisce una innovazione
del F. tradizionale la dottrina di Bergson al riguardo. Bergson si è
pronunciato, a proposito della finalità organica, sia contro il « meccanismo
radicale » sia contro il « F. radicale », in entrambi i quali ha riconosciuto
la negazione del carattere «imprevedibile » o «creativo» dell'evoluzione
vitale. L'armonia, egli dice, deve trovarsi all’indietro piuttosto che in avanti
di questa evoluzione. « L’avvenire non è contenuto nel presente sotto la forma
di un fine rappresentato. Tuttavia una volta realizzato, esso spiegherà il
presente come il presente lo spiegava, e ancora meglio; dovrà essere
considerato come un fine altrettanto e più che come un risultato. La nostra
intelligenza ha il diritto di considerarlo astrattamente dal suo punto di vista
abituale, giacchè essa stessa è un’astrazione operata sulla causa da cui emana
» (Évol. créatr., 8 ediz., 1911, cap. 1, pag. 57). Ma anche questa
determinazione bergsoniana non innova gran cosa nel concetto classico del F.;
la cui natura non consiste, come Bergson ritiene, nel negare i caratteri
imprevedibili o nuovi che emergono nel corso della realizzazione del fine, ma
unicamente nell’ammettere la causalità del fine stesso e nel ritenere questa
causalità come principio di spiegazione. La dottrina di Bergson non porta
nessuna innovazione a questi due punti. Essa si lascia pertanto ricondurre
interamente alla concezione classica del F.; come alla stessa concezione si
riconducono le dottrine, che pur ammettendo il meccanismo, lo ritengono incluso
e subordinato al F. generale della natura, come fanno FINALISMO Leibniz (Op.,
ed. Gerhardt, III, pag. 607; IV, pag. 284), Lotze (Mikrokosmus, 1856, I) e con
loro molti spiritualisti contemporanei. Una innovazione significativa del F. si
ha soltanto con l’interpretazione kantiana. Questa interpretazione infatti nega
la tesi 2* del F. stesso cioè quella per la quale spiegare un fenomeno
significa addurre lo scopo. Per Kant, la spiegazione dei fenomeni può essere
soltanto causale; ed il giudizio teleologico è riflettente non determinante
cioè coglie, non un elemento costitutivo delle cose, ma un modo soggettivo, per
quanto inevitabile per l’uomo, di rappresentarsele. « V'è un’assoluta
differenza tra il dire che la produzione di certe cose della natura, o anche di
tutta la natura, non è possibile se non mediante una causa che si determina ad
agire secondo fini, e il dire che, secondo la particolare natura della mia
facoltà conoscitiva, io non posso giudicare della possibilità delle cose e
della loro produzione se non concependo una causa che agisca secondo fini e
quindi un essere che produca analogamente alla causalità di un intelletto. Nel
primo caso voglio affermare qualcosa dell’oggetto, e sono tenuto a dimostrare
la realtà oggettiva del concetto che ammetto; nel secondo caso la ragione non
fa che determinare l’uso delle mie facoltà conoscitive, conformemente alla loro
natura e alle condizioni essenziali della loro portata e dei loro limiti »
(Crif. del Giud., $ 75). Dal secondo punto di vista, che è quello proposto da
Kant, il F. non è che un concetto regolarivo dell’uso dell'intelletto umano:
uso opportuno e necessario per il fatto che l'intelletto umano incontra limiti
ben precisi nella spiegazione meccanica del mondo ed è perciò portato a
ricorrere ad una considerazione complementare. Questa tuttavia non può mai
valere come una spiegazione; e la sua sola funzione è quella di aiutare a
ricercare le leggi particolari della natura (Ibid., $ 78). Questo punto di
vista kantiano (che recentemente è stato rinnovato da N. HARTMANN, Philosophie
der Natur, 1950), mentre nega al F. ogni valore conoscitivo e scientifico gli
riconosce una specie di validità soggettiva, tra estetica e morale, validità
dovuta alla limitazione inevitabile della conoscenza umana. Ovviamente
l’interpretazione kantiana del F. poggia sulla tesi propria degli avversari del
F. cioè sulla negazione del potere esplicativo del F. stesso. Soltanto questa
negazione costituisce in realtà l'abbandono del F. e solo le ragioni che
l'appoggiano costituiscono un'autentica critica di esso. Il F. difatti non è
una generalizzazione empirica a partire dalla considerazione di un certo numero
di esempi teleologici; e pertanto neppure una « disteleologia » cioè
un’elencazione di casi contrari al F. è una critica decisiva del F. stesso. La
407 dottrina di Platone e di Aristotele al riguardo, e specialmente quella di
quest'ultimo, mostra chiaramente quale sia il fondamento del F.: la credenza
che l’unica spiegazione possibile degli eventi è quella che adduce lo scopo per
cui avvengono. Lo scopo infatti, per Platone e per Aristotele, è la forma o
ragion d’essere della cosa; e la determinazione dello scopo è la spiegazione
causale della cosa stessa. Ora di questo principio si è cominciato a dubitare
solo nell’età moderna. L'’epicureismo che, con Lucrezio, negava il F. adducendo
che esso mette prima quel che viene dopo, per es., la vista prima dell’occhio
(LucREZIO, De rer. nat., IV, 829 sgg.) non costituisce la negazione di quel
principio. La prima critica di esso si può invece trovare nella scolastica del
’300 ed è opera di Guglielmo Ockham. Ockham in primo luogo fa vedere che
l’azione del fine non può consistere se non nel muovere ad agire la stessa
causa efficiente; in secondo luogo fa vedere che quest’azione è puramente
metaforica (/n Sent., II, q. 3 G). Ockham osserva che l’azione del fine non
potrebbe consistere se non nell’essere desiderato od amato; e che questo
appunto dimostra il carattere metaforico di tale azione. Nelle azioni naturali,
che si verificano con uniformità, non ha senso chiedersi la causa finale; per
es., non ha senso chiedersi per qual fine il fuoco si genera: infatti non si
richiede l’esistenza del fine affinchè l’effetto si produca (Quodl., IV, q. 1).
Questa è, probabilmente, la prima critica che sia stata rivolta al valore
esplicativo del finalismo. Qualche secolo dopo, la causa finale veniva
completamente trascurata nella spiegazione che Telesio tentava del mondo
naturale (De rerum natura, 1565). E Bacone eliminava esplicitamente la
considerazione del fine dalla ricerca sperimentale (Nov. Org., II, 2). « La
ricerca delle cause finali, egli diceva, è sterile: come una vergine consacrata
a Dio, non partorisce nulla» (De augm. scient., III, 5). A loro volta Galilei
(Op., VII, pag. 80) e Cartesio (Princ. Phil., III, 3) eliminavano dalla scienza
la considerazione della causa finale. E Spinoza contrappose la necessità con
cui le cose derivano dalla natura divina al F. da lui considerato come un
pregiudizio contrario all'ordine del mondo e alla perfezione di Dio (Er., I,
36, App.). Da questa epoca in poi, cioè dalle origini della scienza moderna, il
F. ha cessato di valere come procedimento di spiegazione scientifica. È ben
vero che esso si è sempre insinuato nelle crepe della spiegazione meccanica del
mondo ed è stato spesso considerato come un completamento di questa spiegazione
al di là dei limiti da essa raggiungibili. Ciò è accaduto soprattutto nel
dominio delle scienze biologiche o nella speculazione filosofica sui risultati
di queste scienze. Nonostante 408 i successi ottenuti in questo campo dalla
considerazione fisico-chimica dei fenomeni biologici, il mancato raggiungimento
o addirittura l’irraggiungibilità di una riduzione meccanica di tali fenomeni è
stata frequentemente riconosciuta. Le varie forme del vitalismo (v.), sono per
l’appunto contrassegnate da questo riconoscimento e pertanto dal ricorso ad una
spiegazione teleologica dei fenomeni vitali. Questo ricorso tuttavia è apparso
inevitabile solo nella misura in cui scienziati e filosofi hanno formulato
ipotesi globali sull’origine e la natura della vita; giacchè il lavoro
propriamente scientifico, quello a cui sono dovuti i successi della biologia e
della medicina contemporanea, non ha adoperato altri strumenti, materiali o
concettuali, che quelli propri delle scienze naturali. Questo lavoro pertanto
non ha mai avuto bisogno dell’ipotesi finalistica. Dall'altro lato, la
situazione odierna è caratterizzata: 1° dal riconoscimento dell’originalità dei
fenomeni organici rispetto a quelli fisico-chimici, senza che tale originalità
si faccia consistere nel carattere finalistico di essi (v. EVOLUZIONE;
VITALisMo); 2° dall'abbandono dell’ideale della spiegazione meccanica, sicchè
la differenza radicale che si era venuta stabilendo, in base alla riuscita di
questa spiegazione, tra fenomeni fisici da un lato e fenomeni biologici e
antropologici dall’altro lato è venuta a cadere (v. CausALITÀ; SPIEGAZIONE). In
virtù di questa situazione, da un lato si è espunta la causalità del fine dal
dominio dell’evoluzione organica, dall'altro l’azione stessa di questa
causalità, quale si ammette nell'uomo, può non esser considerata diversa da
quella dalla causalità naturale. Sul primo punto, Simpson afferma: « Lo scopo e
il piano non sono le caratteristiche della evoluzione organica e non sono la
chiave per nessuna delle sue operazioni. Ma lo scopo e il piano sono
caratteristiche della nuova evoluzione [cioè dell'evoluzione sociale o storica]
perchè l’uomo ha scopi e fa piani. Qui scopo e piano entrano definitivamente
nell’evoluzione, come un risultato e non come causa dei processi che la lunga
storia della vita ci mostra. Gli scopi e i piani sono nostri, non dell’universo,
il quale mostra indizi convincenti della loro assenza» (7he Meaning of
Evolution, 1952, pag. 292). Ma dall’altro lato gli scopi e i piani non
costituiscono una forma di causalità a parte, che faccia del mondo in cui essi
si verificano un dominio privilegiato o speciale dell’essere. Nel mondo umano,
la causalità del fine o è stata ricondotta alla motivazione (v.) che non
differisce formalmente dalla spiegazione causale (C. G. HeMPEL-P. OPPENHEIM,
«The Logic of Explanation», in Readings in the Phil. of Science, 1953, pag.
327-28); oppure è stata descritta in termini di comportamento che implicano
ancora meno il riferimento a un tipo di FINALITÀ spiegazione specifica
(ROSEBLUETH-WIENER-BIGELOW, in « Philosophy of Science», 1943, pag. 18 sgg.).
In conclusione, il F., riconosciuto oggi inutile in tutti i campi della
spiegazione scientifica, rimane la caratteristica di quegli indirizzi
metafisici che ritengono troppo modesto per la filosofia il còmpito di
criticare i valori per rettificarli o renderne possibile la conservazione e si
propongono invece quello di dimostrare che i valori sono garantiti dalla stessa
struttura del mondo in cui l’uomo vive e costituiscono il fine di essa. Il F.
ha perduto completamente il carattere scientifico che aveva alle sue origini
nella Grecia antica e rimane solo come una delle tante speranze o illusioni cui
l’uomo fa appello in mancanza di procedimenti efficaci o in sostituzione di
essi. FINALITÀ (ingl. Purposiveness, Finality; francese Finalité; ted.
Zweckmdssigkeit). La rispondenza di un complesso di cose o di eventi ad un
fine. Così, per es., la F. di un piano o progetto è la rispondenza o
l’adeguazione di esso al fine cui è diretto. La F. della natura è la
rispondenza della natura a quelli che si presumono suoi fini; ecc. La parola
non si applica quindi esclusivamente alla causalità dei fini della natura (cui
si applica la parola finalismo), ma designa in generale una certa forma di
organizzazione o di ordine. FINE (gr. 606, où évexa; lat. Finis; inglese End,
Purpose; franc. Fin, But; ted. Zweck). La parola ha i seguenti significati
principali: 1° termine, nel senso in cui Aristotele dice: «la natura cerca
sempre il F.» cioè « fugge l’infinito » (De gen. anim., I, 1, 715b, 16 15).
Nello stesso senso ha usato la parola Dewey: « Possiamo concepire il F. come
dovuto al compimento, al raggiungimento perfetto, alla sazietà,
all’esaurimento, alla dissoluzione, a qualcosa che è venuto meno o ha ceduto»;
e in altri termini i F. sono solo «termini o conclusioni di episodi temporali »
favorevoli o sfavorevoli, buoni o cattivi che siano (Experience and Nature,
pag. 97 sgg.); 2° compimento o perfezione, nel senso che ha frequentemente la
parola greca ié/os. In questo senso si dice « giunta al F. + o « giunta a buon
F.» di una cosa che è stata portata a compimento; 3° scopo o causa finale, nel
senso della quarta delle quattro cause aristoteliche (v. CAuSALITÀ). In questo
significato la parola italiana scopo, quella francese but e quella inglese
purpose sono meglio adoperate. Lo scopo ha carattere oggettivo, sia che
s’intenda come immanente alla natura sia che si intenda come F. di un
comportamento umano: è il termine del progetto o piano cui si riferisce; 4°
intento 0 mira, cioè lo scopo nel suo aspetto soggettivo, come ciò che è il termine
di una certa FINITO intenzione ma che può essere anche diverso dal termine cui
questa intenzione mette capo in realtà. FINI, REGNO DEI (ted. Reich der
Zwecke). È, secondo Kant, la comunità ideale degli esseri ragionevoli in quanto
obbediscono unicamente alla legge della ragione. Il regno dei F., dice Kant è
«il concetto in virtù del quale ogni essere ragionevole deve considerarsi come
fondatore di una legislazione universale per mezzo di tutte le massime della
sua volontà, in modo da poter giudicare se stesso e le sue azioni da questo
punto di vista + (Grundlegune zur Metaphysik der Sitten, II). In tale regno,
inteso come «l’unione sistematica di vari esseri ragionevoli sotto leggi comuni
+, ogni membro è nello stesso tempo legislatore e suddito e vale pertanto come
« fine in se stesso » (Zbid., II). Vedi DIGNITÀ. FINITISMO (ingl. Finitism;
franc. Finitisme; ted. Finitisnus). Con questo termine, usato molto raramente,
s'intende ogni dottrina che affermi la finità del mondo cioè che faccia sue le
resi delle antinomie cosmologiche esposte nella Critica della Ragion Pura di
Kant. FINITO (gr. rnenepacpévov; lat. Finitus; inglese Finite; franc. Fini;
ted. Endlich). Il termine ha i seguenti significati principali, i primi tre dei
quali corrispondono ai significati di infinito: 1° come disposizione o qualità
di una grandezza, cioè in senso matematico, il F. è: a) ciò che è completo o
esauribile, cioè non ha parti fuori di sè: il contrario dell’infinito
potenziale; 5) l’insieme non auto-riflessivo cioè non equipotente ad una sua
propria parte o sottoinsieme (nel senso stabilito nella teoria degli insiemi di
Cantor e Dedekind). 2° Ciò che è stato condotto a termine, quindi è compiuto e
perfetto. In questo senso si parla comunemente di « lavoro F. » o di « opera
d’arte F. » per significare un lavoro accurato, che si è condotto sino in
fondo, o un'opera d’arte portata alla sua forma perfetta. Questo significato
corrisponde all’uso greco del termine. Platone considera F. ciò che ha ordine,
misura e armonia (Fil., 23c sgg.). Aristotele afferma a sua volta: «La cosa che
non ha niente al di là di sè è finita ed intera perchè noi definiamo l’intero
come ciò che non manca di niente... Ora intero e perfetto hanno la stessa
natura, o pressapoco. Ma niente è perfetto che non ha termine, e il termine è
limite» (Fis., III, 6, 207 a 7). 3° Nel senso teologico, ciò che incontra
limiti od ostacoli alla sua possibilità di essere cioè alla sua potenza. Questo
concetto del F. si può far risalire a Plotino, il quale è il primo che ha inteso
l'infinito come illimitatezza della potenza (Enn., IV, 3, 8; VI, 6, 18). Ma
questo è soprattutto il 409 concetto di F. sul quale ha fatto leva il
Romanticismo per affermare la realtà dell’infinito. Per Hegel, l’infinito è la
realtà stessa in quanto illimitata potenza di realizzazione cioè in quanto
Assoluto. Il F. è ciò che non ha abbastanza potere per realizzarsi, l’ideale,
il dover essere (Enc., $ 95; Wissenschaft der Logik, cap. II, sez. I; trad.
ital., I, pag. 163). Da questo punto di vista il F. è « irreale » e trova la
sua realtà soltanto nell’infinito e come infinito. 4° Ciò che può essere o
agire solo in determinate condizioni. Questo è il senso in cui la parola è
stata intesa da Kant. Egli chiama l’uomo un « essere pensante F.+, in quanto le
sue possibilità conoscitive sono limitate dall’intuizione sensibile cioè da
un’intuizione che dipende da oggetti dati (Crit. R. Pura, $ 8, rv). Dal punto
di vista morale l’uomo è un essere F. in quanto la sua volontà non si
identifica con la ragione e la legge di questa vale per essa solo come un
imperativo (Crif. R. Pratica, $ 1, scol.). Infine, l’intera facoltà del
giudizio estetico e teleologico è fondata sulla natura F. dell'uomo cioè sulla
limitazione delle sue possibilità conoscitive in quanto non determinano
interamente il loro oggetto ma solo la forma di esso (Crit. del giud., $ 77).
Questo significato della parola è rimasto in espressioni come «intelletto F.»,
«essere F.», « natura F.», ecc.: nelle quali il F. non esprime una limitazione
spaziale o temporale ma il carattere condizionale di certe possibilità, che non
sono tali da garantire l’onniscienza, l’onnipotenza e l’infallibilità. Nello
stesso significato, il termine è assunto dall’esistenzialismo contemporaneo.
Heidegger vede il carattere F. dell’uomo nel fatto che ogni suo progetto del
mondo è già dominato dal mondo stesso, che limita le possibilità progettabili.
Dice Heidegger: «Il progetto di possibilità, conformemente alla sua essenza, è
via via più ricco del possesso in cui il progettante si trovava anteriormente.
Ma un possesso siffatto può appartenere all’Esserci solo perchè esso, in quanto
progettante, si sente immerso nel mezzo dell’ente. Ma con ciò sono già
sortratte all’Esserci determinate altre possibilità e lo sono in conseguenza
della sua effettività... Che il concreto progetto del mondo acquisti forza e
divenga un possesso solo nella sottrazione, è un documento trascendentale della
finitudine della libertà dell’Esserci. Non si annuncia qui forse proprio
l’essenza F. della libertà in generale? (Vom Wesen des Grundes, Ill; trad.
ital., pag. 68-69). In questo senso, «F.+ è qualità propria solo dell’uomo o
delle possibilità umane; e finitudine è il termine astratto corrispondente.
Ogni filosofia dell’esistenza è una filosofia del F. perchè è l’interpretazione
dell'esistenza in termini di possibilità condizionate (v. ESISTENZA, 3°). 410
FINZIONE (ingl. Fiction; franc. Fiction; tedesco Fiktion). Una filosofia della
F. o finzionismo (Fiktionalismus) è la « Filosofia del come se » (1911) di
Vaihinger, la quale si propone di dimostrare che tutti i concetti, le
categorie, i princìpi e le ipotesi di cui si avvalgono il sapere comune, le
scienze e la filosofia sono F. prive di qualsiasi validità teoretica, spesso
intimamente contraddittorie, che sono accettate e mantenute solo in quanto
utili. Vaihingre ritiene che questa non sia una situazione patologica ma
normale e che l’unica alternativa che essa prospetti è quella di un uso
consapevole e scaltrito delle F. come tali. Ovviamente in questo senso la F. non
è un’ipotesi perchè non esige di essere verificata; si avvicina di più al
concetto di mito (v.). La filosofia della F. è uno degli sviluppi che ha avuto
il concetto kantiano nella filosofia contemporanea del come se (v.). FISICA (gr. quow; lat. Physica;
ingl. Physics; franc. Physique; ted. Physik).
La disciplina che ha per oggetto lo studio della natura, le cui caratteristiche
e i cui metodi sono pertanto in relazione con ciò che s’intende per narura
(v.). Come disciplina specifica, essa si può dire nata con Aristotele che la
considerò come la «filosofia seconda» distinguendola, nel gruppo delle scienze
teoretiche, da un lato dalla feologia dall’altro dalla matematica (Met., XI, 7,
1064b 1). Si possono distinguere tre concetti fondamentali di questa scienza,
che si sono succeduti storicamente: 1° il concetto della F. come teoria del
movimento; 2° il concetto della F. come teoria dell’ordine necessario; 3° il
concetto della F. come previsione dell’osservabile. 1° Alla sua nascita, con
Aristotele, la F. è la teoria del movimento e tale si è mantenuta sino alle
origini della scienza moderna. Aristotele ritiene infatti che la F. ha per
oggetto «quella sostanza che ha in se stessa la causa del suo movimento »
(Mer., VI, 1, 1025b 18); e che pertanto il modo in cui la F. considera le
sostanze dipende dalla natura dei movimenti di cui sono dotate. Ora dei quattro
movimenti distinti da Aristotele (sostanziale, cioè generazione e corruzione;
qualitativo, cioè mutamento; quantitativo, cioè aumento o diminuzione; /ocale,
cioè traslazione; Fis., VIII, 7, 261 a 26), il movimento di traslazione è il
primo e fondamentale: tutti gli altri possono infatti essere spiegati con la
traslazione dei corpi (/bid., VIII, 7. 260 a-b). La determinazione delle varie
sostanze fisiche deve perciò essere fatta in base al movimento di traslazione
che è proprio di ciascuna di esse. Ora il movimento di traslazione è di tre
specie: dall’alto verso il centro del mondo, dal centro verso l’alto, intorno
al centro o circolare. I primi due movimenti sono contrari tra loro e (poichè
la generazione e la corruzione consistono nel passaggio FINZIONE da un
contrario all’altro) sono propri dei corpi soggetti alla generazione e alla
corruzione cioè dei corpi terrestri o sublunari, che risultano composti di
quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco. Il movimento circolare invece non
ha contrari perchè muoversi da destra a sinistra o da sinistra a destra
circolarmente non modifica la circolarità del movimento stesso (De cael., I,
4). Esso sarà allora proprio della sostanza che compone i corpi ingenerabili e
incorruttibili cioè i corpi celesti, e questa sostanza è l’etere. Dei quattro
elementi che compongono il mondo sublunare due, aria e fuoco, si muovono dal
basso in alto; due, acqua e terra, dall’alto in basso. La F. aristotelica è
pertanto una F. qualitativa nel senso che ritiene un determinato movimento
proprio di un determinato elemento e stabilisce così una netta divisione
qualitativa degli elementi tra loro e di tutti gli elementi dall’etere. Da questa
impostazione segue il principio generale della F. aristotelica che è: « Ogni
elemento si muove verso la sua sfera, se non è impedito » (Fis., IV, 1, 208 b
10); principio il quale implica o stabilisce l’esistenza di luoghi assoluti che
sono le sedi naturali degli elementi e ai quali pertanto gli elementi stessi
ritornano quando ne sono allontanati. Questi luoghi sono, secondo Aristotele,
determinati dal peso degli elementi. Al centro del mondo c’è la terra che è
l’elemento più pesante (come risulta, per es., dal fatto che la pietra cade o
affonda nell’acqua). Attorno alla terra c'è la sfera dell’acqua; e attorno alla
sfera dell’acqua quella dell’aria che è ancora più leggera, come dimostra il
fatto che una bolla d’aria rotta nell’acqua sale alla superficie. Attorno alla
sfera dell’aria c’è quella del fuoco, che è l’elemento più leggero, come
dimostra il fatto che le fiamme accese sulla superficie della terra tendono
verso l’alto cioè alla sfera che è al di sopra dell’aria. Su questa base
Aristotele determina i caratteri del mondo: che è unico perchè gli elementi si
addensano ognuno nella sua sfera; finito perchè compiuto e perfetto; e come
tale anche ordinato ad un unico fine, che è Dio stesso. Questa dottrina,
fondata su poche ma comuni esperienze, e ammirevole per la sua eleganza e
semplicità, è stata la maggiore espressione, nel pensiero antico, di una
sintesi delle conoscenze naturali. Di fronte ad essa, la F. atomistica degli
Epicurei e la F. panteistica degli Stoici hanno più carattere di speculazione che
di conoscenza scientifica. Tale infatti è il giudizio che ne fecero gli
scienziati antichi, i quali le trascurarono completamente, per rifarsi invece
costantemente alla F. aristotelica: sulla quale Tolomeo stesso (I1 secolo)
innestò la sua astronomia. La F. aristotelica ha dominato incontrastata per
molti secoli; e nonostante i dubbi che alcuni scolastici del sec. xiv
avanzarono su di essa, il suo FISICA abbandono si ha soltanto con Leonardo,
Copernico, Keplero e Galilei, ai quali è dovuta la prima organizzazione della
scienza moderna. 2° Il secondo concetto fondamentale della F. è quello che la
considera come lo studio dell’ordine sperimentabile della natura. A questo
concetto hanno contribuito gli Aristotelici del Rinascimento con la difesa
della necessità dell’ordine naturale; i Platonici dello stesso Rinascimento, e
specialmente Cusano, con l’affermazione del carattere matematico dell'ordine
naturale; infine la magia con la sua pretesa di attingere ed esercitare un
dominio effettivo sulla natura. Il concetto della natura, che è già chiaro in
Galilei, è quello di un ordine oggettivo, scritto in caratteri matematici,
necessario e privo di finalità, attingibile mediante l’esperimento. Su questo
concetto di ordine si fondava la nozione di armonia che Keplero poneva a base
della scienza della natura (Hermonices mundi, 1619, IV, 1). L’opera di Newton
portava alla sua maturità il corrispondente concetto della fisica. Còmpito
della F. diveniva esplicitamente e unicamente la descrizione dell'ordine
naturale. La F. aristotelica, come teoria del movimento, era diretta allo
studio delle cause del movimento: le quali cause coincidevano con le sostanze
(forme o cause finali) delle cose. Newton chiariva il senso nel quale la
determinazione dell’ordine naturale deve essere oggetto della scienza, proprio
negando, in polemica con la scienza aristotelica, che la F. fosse scienza delle
cause (Optice, 1740, III, q. 31). Nel 1764 Kant così descriveva il concetto
newtoniano della scienza: « Con esperienze sicure e nel caso anche con
l’ausilio della geometria, si devono ricercare le regole secondo le quali si
svolgono certi fenomeni della natura » (Untersuchung ilber die Deutlichkeit de
Grundsdtze der natiirlichen Theologie und der Moral, 1763, II). Queste regole
sono le leggi naturali: leggi che delineano l’ordine dei fenomeni naturali cioè
il modo necessario, perciò uniforme e costante, in cui essi si connettono l’uno
con l’altro. Descrivere questa connessione è il compito della fisica.
L’illuminismo e il positivismo fecero prevalere questo concetto della F.: sul
quale insisteva D'Alembert (É/ements de phil., 1759, $ 4) e che è alla base
della nozione della scienza espressa da Comte. « Il carattere fondamentale
della F. positiva, diceva quest’ultimo, è di considerare tutti i fenomeni come
soggetti a /eggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui
riduzione al minimo numero possibile sono gli scopi di tutti i nostri sforzi,
considerando come assolutamente inaccessibile e priva di senso la ricerca di
quelle che si chiamano cause, sia primarie sia finali » (Cours de Phil.
Positive, lez. I, $ 4). Le leggi non sono infatti altro che le espressioni
dell’ordine necessario della natura. 411 Il concetto della F. come teoria
dell’ordine naturale si contrappone al concetto della F. come teoria del
movimento per la sua pretesa di limitarsi a descrivere la natura nel suo ordine
invece che a spiegarla nelle sue cause. Da Newton in poi la descrizione viene
opposta alla spiegazione, come còmpito proprio della fisica. Oppure, il che ha lo
stesso significato, si considera la spiegazione cui la F. deve legittimamente
aspirare come la determinazione di un rapporto tra due fenomeni in conformità
di una legge: il che è per l’appunto ciò che, sotto un altro aspetto, è una
semplice descrizione. Questo concetto della F. ha pertanto, come sua
caratteristica propria, il riconoscimento delle connessioni necessarie tra i
fenomeni, nelle quali si concreta o prende corpo l’ordine naturale, nonchè la
credenza nella sperimentabilità, cioè accertabilità empirica, di tale
connessione. Il concetto dell’ordine naturale coincide con quello della
causalità necessaria (v. CAUSALITÀ) e pertanto con quello della prevedibilità
infallibile dei fenomeni naturali. Se la natura è l’ordine necessario, la F.
come studio di quest’ordine può stabilire regole che consentono la previsione
infallibile dei fenomeni. Questa è la credenza che ha costituito la base della
F. classica sino ai primi decenni del sec. xx e che ha sorretto altresì
l'ipotesi fondamentale sulla quale essa si reggeva: il meccanicismo (v.).
Questa ipotesi aveva fra l’altro il vantaggio di rendere possibile una
descrizione visuale del corso dei fenomeni: una descrizione cioè che faceva
appello a immagini visive e pretendeva di rappresentare con tali immagini (cioè
mediante particelle in movimento) la struttura effettiva dei fenomeni. Ma
proprio da questa pretesa cominciarono a sorgere le prime difficoltà, quando,
con la F. relativistica, il concetto di campo (v.) cominciò a sostituire la
rappresentazione visiva delle particelle in movimento. « Occorreva una
coraggiosa immaginazione scientifica, notano Einstein e Infeld, per riconoscere
che l’essenziale per l'ordinamento e la comprensione degli eventi può essere
non già il comportamento dei corpi bensì il comportamento di qualcosa che si
interpone fra di essi, vale a dire del campo » (The Evolution of Physics, IV;
trad. ital., pag. 302). La F. quantistica costituiva un passo ulteriore nella
distruzione della possibilità di una descrizione visualizzante. Notava Bohr: «
Nell’adattamento dell’esigenza relativistica al postulato del quantum dobbiamo
prepararci ad andare incontro a una rinuncia alla visualizzazione (nel senso
ordinario del termine) ancora più radicale di quella incontrata nella
formulazione delle leggi quantiche considerate finora. Noi ci troviamo qui sul
cammino intrapreso da Einstein nell’adattare i nostri modi di percezione,
desunti dalle sensazioni. alla conoscenza gradual412 mente più approfondita
delle leggi di natura» (Atomic Theory and the Description of Nature, 1934, pag.
90). La rinuncia alla visualizzazione era in realtà anche la rinuncia alla
descrizione; giacchè l'impossibilità di visualizzare l’intero corso dei
fenomeni non è che l’impossibilità di descrivere il loro ordine necessario
nella sua interezza. Difatti questa impossibilità fu riconosciuta nella F. con
l'introduzione del cosiddetto « principio di indeterminazione » di Heisenberg
(1927) con il quale la causalità rigorosa dei fenomeni fisici veniva per la
prima volta negata, stante l’impossibilità di prevedere con esattezza il
comportamento della particelle atomiche singole (v. CAUSALITÀ;
INDETERMINAZIONE). Caduta la pretesa della causalità rigorosa e per conseguenza
quella della descrizione dell’ordine totale dei fenomeni, la F. non poteva più
essere intesa come una teoria dell’ordine necessario della natura. 3° Il terzo
concetto della F., che si è venuto delineando a partire dal 1930, fa leva su di
una determinazione che era già ritenuta fondamentale dalla nozione della F. che
l’ha preceduta. Già Comte infatti sulle orme di Bacone, aveva insistito sulla
esigenza della scienza di stabilire previsioni che consentano il dominio sulla
natura. « Scienza, donde previsione; previsione, donde azione +, aveva detto
(Cours de Phil. Positive, lez. II, $ 3). Nel 1894 Hertz nei suoi Principi di
meccanica insisteva sullo stesso concetto: « Il più diretto e in un certo senso
il più importante problema che la nostra consapevole conoscenza della natura
deve renderci capaci di risolvere è l’anticipazione degli eventi futuri, per la
quale possiamo organizzare le nostre faccende presenti sulla base di tale
anticipazione ». A_ misura che il còmpito della descrizione totale dell’ordine
degli eventi veniva considerato fuori delle possibilità effettive della F., il
còmpito della previsione acquistava un sempre maggiore rilievo. Il limitarsi a
questo compito ha accresciuto enormemente il potere d’azione o di
trasformazione della fisica. Il principio di complementarità espresso da Bohr
nel 1927 segna l’abbandono definitivo, da parte della F., della sua pretesa di
valere come teoria dell’ordine necessario. Quel principio infatti dice che: «
Una descrizione spazio-temporale rigorosa e una connessione causale rigorosa
dei processi individuali non possono essere realizzati simultaneamente: o l'una
o l’altra dev'essere sacrificata ». Questo vuol dire che la catena delle cause
e degli effetti potrebbe essere quantitativamente verificata solo se l'intero
universo fosse considerato con un unico sistema; ma in questo caso la F.
sarebbe svanita e rimarrebbe solo uno schema matematico (HEISENBERG, Die
physikalischen Prinzipien der Quantentheorie, 1930, IV, $ 1). Da questo punto
di vista, mentre non può FISICALISMO essere descritto l’intero corso di un
fenomeno, si può calcolare con esattezza il risultato di una osservazione
futura. « Ad un certo istante, dice Heisenberg, si misurino certe grandezze
fisiche tanto esattamente quanto è possibile in linea di principio; si hanno
allora in ogni istante successivo grandezze il cui valore può essere calcolato
esattamente, cioè per le quali il risultato di una misura può essere predetto
con esattezza, purchè il sistema da osservarsi non sia sottoposto ad alcuna
perturbazione tranne la misura stessa » (7bid., IV, $ 1). Dirac ha espresso lo stesso
concetto della F. dicendo: «Il solo oggetto della F. teorica è di calcolare
risultati che possono essere paragonati con l’esperimento ed è del tutto
inutile che sia data una descrizione soddisfacente dell’intero sviluppo del
fenomeno» (Principles of Quantum Mechanics, 1930, pag. 7). La F. si è così
trasformata interamente in una teoria della previsione degli eventi osservabili
e ha abbandonato le esigenze descrittive della sua seconda fase, oltre che
quelle esplicative della sua fase anteriore. Dal punto di vista filosofico,
questo carattere fondamentale della F. contemporanea è stato perfettamente
espresso dallo stesso Heisenberg quando ha detto che la F. del nostro tempo non
ci fornisce più « una immagine della natura, ma una immagine dei nostri rapporti
con la natura » (Das Naturbild der heutigen Physik, 1955, pag. 21). FISICALISMO
(ingl. Physicalism; franc. Physicalisme; ted. Physikalismus). Nome proposto da
Neurath (in « Erkenntnis», 1931, pag. 393) come denominazione del Circolo di
Vienna, che vedeva nel linguaggio il campo d°’indagine della filosofia, per
sottolineare il carattere fisico del linguaggio. Il termine fu accettato da
Carnap per indicare il primato del linguaggio fisico e la sua capacità di
valere come il linguaggio universale: « Il linguaggio della fisica, dice
Carnap, è un linguaggio universale, che comprende i contenuti di tutti gli
altri linguaggi scientifici. In altri termini, ogni proposizione di una branca
del linguaggio scientifico è equipollente ad alcune proposizioni della lingua
fisicalistica e può essere pertanto tradotta in essa senza mutare il suo
contenuto» (Philosophy and Logical Syntax, 1935, pag. 89). Questa traducibilità
di ogni proposizione significante in una proposizione della fisica è ciò che si
è chiamato F.: il quale ha costituito l’idea direttiva della Enciclopedia della
scienza unificata (v. EMPIRISMO LOGICO; ENCICLOPEDIA). Carnap ha tuttavia, in
un secondo momento, interpretato il F. come la riducibilità di tutte le
espressioni linguistiche significative al linguaggio cosale (v.), piuttosto che
a quella particolare forma del linguaggio cosale che è il linguaggio fisico («
Testability and Meaning *, in Readings in the Phil. of Science, 1953, pag.
69-70). FONDAMENTO FISICA SOCIALE (ingl. Socia/ Physics; francese Physique
sociale; ted. Sozial Physik). Con questo nome Comte indicò lo studio dei
fenomeni sociali, cioè la sociologia; della quale egli per primo affermò
l'autonomia scientifica (Cours de Phil. Positive, lez. 46) (v. SOCIOLOGIA).
FISICO-TEOLOGICA, PROVA. V. Dio, PROVE DI. FISIOCRAZIA. V. ECONOMIA POLITICA.
FISIOGNOMICA (gr. queroyvopla; ingl. Physiognomonics; franc. Physiognomonie;
ted. Physiognomik). È l’arte di giudicare dall’apparenza visibile di un uomo e
specialmente dai tratti del viso, il suo carattere, cioè il suo modo di sentire
e di pensare. Aristotele (seguito da molti scrittori antichi e medievali) aveva
già ammessa la possibilità di giudicare la natura di una cosa sulla base della
sua forma corporea (An. Pr., II, 27, 70b 7). Cicerone parlava di un
fisionomista Zopiro che si vantava di conoscere la natura e il carattere di un
uomo con l’esame del suo corpo, cioè dei suoi occhi del suo volto e della sua
fronte (De Fato, V, 10). Ma fu soprattutto nel Rinascimento che quest'arte fu
coltivata in particolare, a cominciare da Giambattista della Porta che nel 1580
pubblicava un libro Sulla F. umana. A quest’arte fu data grande diffusione nel
*700 da Lavater (Frammenti F., 1775-78). Kant stesso riconosce il valore della
F. (Antr., II, cap. III). Hegel la distingue con lode dalle cattive arti e dai
vani studi perchè essa afferma l’unità dell’interno e dell’esterno (Phanomen.
des Geistes, I, parte I, cap. V; trad. ital., pag. 281). Ed anche in tempi
moderni la F. trova sostenitori non solo tra psicologi e caratteriologi ma
anche tra filosofi. Spengler ha detto: «La morfologia di ciò che è meccanico ed
esteso, una scienza che scopre e ordina rapporti causali, si chiama
sistematica. La morfologia di ciò che è organico, della storia e della vita, di
tutto ciò che reca in sè direzione e destino, si chiama F.» (Untergang des
Abendlandes, 1, pag. 134). R. Kassner ha addirittura affermata l’identità della
psicologia con la F., sul fondamento che la vecchia distinzione tra essere e
apparire non ha valore: «La psicologia deve quindi essere F., e qualsiasi altra
è tediosa e banale, giacchè, tutto consistendo nella visione, nulla ha più
bisogno di venir sondato oppure scoperto togliendo uno strato dopo l’altro di
parvenze » (Das physiognomische Weltbild, Intr.; trad. ital., in Gli elementi
dell’umana grandezza, 1942, pag. 61 e seguenti). FISIOGNOSI (ingl.
Physiognosy). Termine adoperato da Peirce per indicare il complesso delle
scienze fisiche (Coll. Pap., 1.242). FISIOLOGIA (ingl. Physiology; franc.
Physiologie; ted. Physiologie). Nel senso in cui Aristotele e altri scrittori
antichi usano la parola, studio della 413 natura: lo stesso che fisica. In
questo senso ha anche usato talvolta la parola Kant (Cri. R. Pura, Dottr.
trasc. del met., cap. III). FISIOLOGIA PSICOLOGICA o PSICOFISIOLOGIA. V.
PsicoLOGIA, B). FISSISMO. Termine che non trova riscontro nelle altre lingue,
col quale si indica la dottrina dell’immutabilità delle specie viventi, in
contrapposto con evoluzionismo (v. EVOLUZIONE). FOLLIA. V. PAZZzia. FONDAMENTO (gr.
altia, x6y0g; lat. Ratio; ingl. Foundation; franc. Fondement; ted. Grund). La
causa nel senso di ragion d’essere. Questo è uno dei significati principali del
termine « causa » e precisamente quello per il quale essa contiene la
spiegazione e giustificazione razionale della cosa di cui è causa. Dice
Aristotele: « Noi crediamo di conoscere un oggetto singolo assolutamente — cioè
non accidentalmente o in modo sofistico — quando crediamo di conoscere la causa
per la quale la cosa è, e di conoscere che essa è causa della cosa e che questa
non può essere altrimenti» (Ana/. post., I, 2, 71b 8). In questo senso la causa
è ragione, logos (De part. an., 1, 1, 639 b 15): giacchè fa comprendere non
soltanto l’accadere di fatto della cosa ma il suo « non poter essere altrimenti
» cioè la sua necessità razionale. Nella dottrina aristotelica pertanto, come
in tutte quelle che dipendono da essa, la causa-ragione è un concetto
ontologico che esprime la necessità propria dell'essere in quanto sostanza. In
questo stesso senso adopera Hegel il concetto: « Il F., egli dice, è l’essenza
che è in sè e questa è essenzialmente F.; e F. è soltanto in quanto fondamento
di qualcosa, di un altro» (Enc., $ 121). Difatti in questo senso il F. è «
l’essenza posta come totalità» (/bid., $ 121) cioè la ragione della necessità
di una cosa, come riteneva Aristotele. Per opera di Leibniz, tuttavia, la
nozione aveva acquistato un significato diverso e specifico per il quale si
distingue nettamente da quella di causa essenziale o sostanza necessaria. Passa
cioè a designare una connessione priva di necessità e tuttavia tale da fare
intendere o giustificare la cosa; e il principio di questa connessione viene
chiamato principio di ragion sufficiente (Principium rationis sufficientis,
Satz vom zureichenden Grunde). Leibniz giunge alla formulazione di questo
principio attraverso la contrapposizione tra la connessione libera ma
determinante e la connessione necessitante. Egli dice: « La connessione o
concatenazione è di due specie: l’una è assolutamente necessaria, tale cioè che
il suo contrario implica contraddizione, e tale connessione si verifica nelle
verità eterne come sono quelle della geometria; la seconda non è necessaria che
ex Aypothesi e per così dire per acci414 dente ed è contingente in se stessa,
giacchè il suo contrario non implica contraddizione ». Questa seconda
connessione si verifica nel rapporto tra una sostanza individuale e le sue
azioni: per es., il fondamento del fatto che Cesare passò il Rubicone si trova
indubbiamente nella stessa natura di Cesare, ma ciò non dice che quel fatto sia
necessario in se stesso o che il suo contrario implichi contraddizione. Allo
stesso modo Dio sceglie sempre il meglio, ma lo sceglie liberamente e il
contrario di ciò che sceglie non implica contraddizione. « Ogni verità fondata
su questi tipi di decreti è contingente, per quanto sia certa, perchè questi
decreti non mutano affatto la possibilità delle cose; e per quanto Dio, come ho
già detto, scelga sempre indubbiamente il meglio, ciò non impedisce che ciò che
è meno perfetto non sia e non rimanga possibile in se stesso, benchè non
accadrà, dato che non è la sua impossibilità che lo fa respingere ma la sua
imperfezione. Ora, nulla è necessario il cui opposto sia possibile » (Discours
de Métaphysique, 1686, $ 13). Come appar chiaro da questi testi di Leibniz, il
F. o ragion sufficiente ha una capacità esplicativa diversa dalla causa o
ragion d’essere di Aristotele. Quest'ultima infatti spiega la necessità delle
cose, il perchè la cosa non possa essere altrimenti da com'è. Il fondamento o
ragion sufficiente spiega la possibilità della cosa, cioè spiega perchè la cosa
può esser o comportarsi in un certo modo. Proprio per questo Leibniz destinò il
principio di ragion sufficiente a fondamento delle verità contingenti,
continuando ad ammettere, come aveva fatto Aristotele, il principio di
contraddizione come base delle verità necessarie (De scientia universali, in
Opera, ed. Erdmann, pag. 83). Tuttavia, soltanto Cristiano Wolff riconobbe al
principio del F. (o principio di ragion sufficiente) il rango di principio
della intera filosofia e del metodo di essa. Proprio sulla base di esso Wolff
infatti definiva la filosofia come «scienza delle cose possibili in quanto
possono esistere » (Lop., Disc. prael., $ 29) e vide il còmpito fondamentale di
essa nel dare la « ragione per cui le cose possibili possono conseguire
l’essere » (/bid., $ 31). Da questo punto di vista, tutta l’attività filosofica
consiste nella determinazione del F. (ratio, Grund), intendendosi per F. «la
ragione per cui qualcosa è o accade» (Zbid., $ 4). Woiff tuttavia riconduceva
il principio di ragion sufficiente ad un significato necessaristico. Egli
distingueva difatti il principium essendi che contiene la ragione della
possibilità della cosa dal principium fiendi (o dell'accadere) che contiene la
ragione della realtà (Ont., $ 874). E distingueva dall’altro lato il principium
cognoscendi con il quale intendeva «la proposizione mediante la quale si
intende la verità di un’altra proposizione » (/bid., $ 876). Ora FONDAMENTO è
chiaro che sia il principium fiendi (che è poi il principio di causalità) sia
il principium cognoscendi (che è poi la dimostrazione) hanno un carattere
necessitante. Lo stesso carattere il principio assume nell’opera di Baumgarten,
che tende a ricondurlo a quello di contraddizione (Mer., $ 20). Questa tendenza
prevaleva all'interno della scuola wolffiana (cfr. Cassirer,
Erkenntnissproblem, VII, cap. 3; trad. ital., II, pag. 596 sgg.) e fu soltanto
contrastata da Crusius, che insisteva sulla distinzione del principio di ragion
sufficiente dal principio di causalità, proprio per escludere dal primo il
carattere necessitante (De usu et limitibus principii rationis determinantis,
1743, $ 4): una correzione che Kant accettava in uno dei suoi primi scritti
(Principiorum Primorum Cognitionis Metaphysicae Nova Dilucidatio, 1755). Dopo
di Crusius tuttavia il carattere non necessitante del principio di ragion
sufficiente, cioè quel carattere che aveva convinto Leibniz ad ammetterlo come
un principio a sè, andò del tutto smarrito. La stessa distinzione stabilita da
Crusius tra principio di ragion sufficiente e principio di causalità servì a
considerare i due princìpi come due espressioni del principio di necessità.
Questa fu appunto la via tenuta da Schopenhauer nel suo scritto Die vierfache
Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (1813). Schopenhauer enumerava
quattro forme del principio di ragion sufficiente; cioè, accanto alle due
distinte da Crusius, poneva il principio di ragion sufficiente dell'essere, che
regola i rapporti fra gli enti matematici e il principio di ragion sufficiente
dell’agire, che regola i rapporti fra le azioni e i loro motivi. Il carattere
non necessitante del F. è tuttavia oscuramente riconosciuto nelle utilizzazioni
metafisiche che sono state fatte di esso. Schelling nelle Untersuchungen liber
das Wesen der menschlichen Freiheit (1809) intese per F. la brama o volontà di
vivere da cui dipende l’esistenza sia dell’uomo che di Dio. Il F. in questo
senso non è, ovviamente, una causa necessitante. In un senso analogo Heidegger
ha detto: «la libertà è il F. del F.». «La libertà, egli spiega, in quanto è il
fondo di questo F. è anche l’abisso (senza fondo) dell’Esserci. Non che sia
infondato il singolo libero rapportamento, ma nel senso che la libertà, nella
sua essenziale natura di trascendenza, pone l’Esserci, come poter essere, in
possibilità le quali si distendono innanzi alla sua scelta finita, cioè nel suo
destino » (Vom Wesen des Grundes, 1928, IIl; trad. ital., pag. 77-78). In altri
termini, il F. è per l’esistenza umana quel radicarsi nel mondo per cui le
possibilità progettate sono limitate e comandate dal mondo stesso. Il F.
esprime il condizionamento che il mondo esercita sull’uomo in virtù del
radicarsi stesso dell’uomo nel mondo. FORMA Affiora chiaramente da questi testi
il tratto caratteristico della nozione in esame, che è quello di esprimere un
condizionamento non necessitante. Questo è infatti il significato più comune e
generale del termine sia nel linguaggio comune che in quello filosofico. Il F.
è ciò che dà ragione di una preferenza, di una scelta, della realizzazione di
una alternativa piuttosto che un’altra. Si parla di F. ogni qualvolta la
preferenza o la scelta è giustificata o la realizzazione dell’alternativa è
spiegabile. Similmente un principio « fondamentale » è un principio che
stabilisce la condizione prima e più generale perchè qualcosa possa esserci; e
una scienza fondamentale è quella che contiene le condizioni che rendono
possibili le altre scienze (e in questo senso Wolff chiamava Grundwissenschaft
l’ontologia). Si può dire pertanto che nell’uso moderno la parola ha un
significato non diverso da condizione (v.). L’illuminismo tedesco del *700, che
ha elaborato il concetto di F., ha anche elaborato la nozione del metodo del F.
(ted. Grundlichkeit) di cui lo stesso Wolff ha dato le regole nel IV capitolo
del Discorso preliminare della Philosophia rationalis e che Kant così
riassumeva nella prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion Pura:
«Ci toccherà un giorno, nel sistema futuro della metafisica, di seguire il
metodo del celebre Wolff, il più grande dei filosofi dogmatici il quale per
primo diede l’esempio (e per questo esempio divenne in Germania il creatore di
quello spirito di Grundlichkeit che non si è ancora smarrito) di come si possa
prendere il sicuro cammino della scienza stabilendo regolarmente i princìpi,
determinando chiaramente i concetti, cercando il rigore delle dimostrazioni e
rifiutandosi ai salti nel trarre le conseguenze +». Il metodo della fondazione
consiste nell’addurre il F., cioè la ragione giustificativa, di ogni passo del
filosofare; ed è il metodo dal quale ancora la filosofia può attendersi una
salvaguardia dall’arbitrio. FORMA (gr. uoppf, el8oc; lat. Forma; inglese Form;
franc. Forme; ted. Form). Il termine ha i seguenti significati principali: 1°
L’essenza necessaria o sostanza delle cose che hanno materia. In questo senso
che è quello aristotelico la F. non soltanto si oppone alla materia, ma la
richiama. Aristotele adopera pertanto questo termine in riferimento alle cose
naturali che sono composte di materia e F.; e osserva che la F. è «natura » più
della materia giacchè di una cosa si dice che è ciò che essa è in atto (la F.),
piuttosto che ciò che è in potenza (Fis., Il, 1, 193b 28; Met., IV, 1015 a 11).
Da questo punto di vista non possono dirsi F. le sostanze immobili (Dio e le
intelligenze motrici) che sono prive di materia; ma 415 sono F. le sostanze
naturali in movimento. Di qui la polemica condotta da Aristotele contro il
platonismo, allo scopo di affermare l’inseparabilità della F. della materia.
Gli Scolastici non si sono attenuti rigorosamente a questa terminologia
aristotelica e hanno esteso il termine F. a ogni sostanza, parlando di « F.
separate » per indicare le idee esistenti nella mente di Dio (ALBERTO Magno, S.
7h., I, q. 6; S. Tommaso, .S. 7h., I, q. 15, a. 1) e di «F. sussistenti » per
indicare gli angeli che sono privi di corpo e così di materia (S. Tommaso, .S.
7h., I, q. 50, a. 2). Essi inoltre parlavano di « F. sostanziali o di F.
accidentali» (/bid., I, q. 76, a. 1) la quale ultima espressione è, da un punto
di vista aristotelico, poco meno che contraddittoria. Gilberto Porretano (sec.
xn) aveva distinto nel De sex principiis le F. inerenti, corrispondenti alle
quattro prime categorie aristoteliche (sostanza, qualità, quantità, relazione)
e le F. assistenti che corrispondono alle altre categorie aristoteliche e
costituiscono caratteri non costituenti la sostanza delle cose. In ogni caso,
la F. conserva i caratteri che Aristotele le aveva riconosciuti: è la causa 0
ragion d’essere della cosa, ciò per cui una cosa è quello che essa è; è l’atto
o l’attualità della cosa stessa, perciò il principio e il fine del suo
divenire. Il concetto di F. così inteso è stato ed è adoperato anche fuori
dell’aristotelismo e dei suoi derivati. Non possiede determinazioni diverse da
quelle accennate, la F. di cui parla Bacone come oggetto proprio della scienza
naturale: questa F. è atto e causa efficiente, proprio come la F. aristotelica
(Nov. Organ., II, 17) e si distingue da questa soltanto perchè non si lascia
afferrare, come riteneva Aristotele, dal procedimento deduttivo o
dall’intelletto intuitivo ma solo dall’induzione sperimentale. Al significato
tradizionale della parola fa riferimento Cartesio quando nega che esistano
«quelle F. o qualità di cui si disputa nelle scuole » (Discours, V). E nello
stesso significato è assunta da Bergson quando afferma che «la F. è
un’istantanea presa su di una transizione » cioè una specie di immagine media
cui si avvicinano le immagini reali nel loro mutamento e che viene assunta come
«l’essenza della cosa o la cosa stessa » (Évol. Créatr., IV ed., 1911, pag.
327). A questo concetto di F. si avvicina il senso in cui la parola è usata da
Hegel, come «totalità delle determinazioni », che è poi l’essenza nel suo
manifestarsi come fenomeno (Enc., $ 129). La F. in questo senso è il modo di
manifestarsi dell’essenza o sostanza di una cosa in quanto quel modo di
manifestarsi coincide con l’essenza stessa. Questo è il senso in cui Hegel
usava la parola abitualmente, per es., quando diceva: « Il contenuto umano
della 416 coscienza, prodotto dal pensiero, appare dapprima non in F. di
pensiero, ma come sentimento, intuizione, rappresentazione, F. che sono da
distinguere dal pensiero come F.» (Enc., $ 2). Questo è precisamente il senso
nel quale Croce e Gentile hanno parlato di « forme dello spirito », sia per
stabilirne sia per negarne la diversità. 2° Una relazione o un complesso di relazioni
(ordine) che può mantenersi costante col variare dei termini tra i quali
intercorre. Per es., la relazione « Se p, allora g + può essere assunta come la
F. dell’inferenza, perchè rimane costante quali che siano le proposizioni p e q
tra le quali intercorre. Similmente si dice di solito che la matematica è una
scienza formale nel senso che ciò che essa insegna non vale soltanto per certi
insiemi di cose, ma per tutti gli insiemi possibili, vertendo appunto su certe
relazioni generali che costituiscono l’aspetto formale delle cose. In questo
senso, la parola F. è stata per la prima volta usata da Tetens che intese per
essa le relazioni che il pensiero stabilisce tra le rappresentazioni sensibili
che costituirebbero, dal canto loro, ia « materia » del conoscere
(Philosophische Versuche iber die menschliche Natur, 1776, I, pag. 336).
Analoga distinzione Kant faceva nella dissertazione del 1770: « Alla
rappresentazione appartiene, in primo luogo, qualcosa che si può chiamare
materia e che è la sensazione e, in secondo luogo, ciò che si può chiamare F. o
specie delle cose sensibili, la quale serve a coordinare, mediante una certa
legge naturale dell’anima, le varie cose che colpiscono i sensi + (De mundi
sensibilis et intelligibilis forma et ratione, $ 4). Questa distinzione fra
materia e F. divenne il punto di partenza dell’intera filosofia kantiana; ma
Kant mantenne sempre fisso il significato di F. come relazione o complesso di
relazioni cioè ordine. « L'elemento formale della natura, egli scrisse, per es.,
nei Prolegomeni ($ 17) è la regolarità di tutti gli oggetti dell’esperienza ».
Analogamente la F. dei principi morali è il semplice rapporto in cui una legge
si trova con gli esseri ragionevoli cioè la sua validità per tutti questi
esseri, la sua universalità (Crir. R. Pratica, $ 4). Da Kant in poi il senso
della parola è rimasto pertanto fissato in quello di relazione generalizzabile,
ordine, coordinazione o, più semplicemente, universalità. In tal senso, Kant
distingueva materia e F. nel concetto: «La materia del concetto è l’oggetto; la
F. di esso è l’universalità » (Logik, Elementarlehre, $ 2). Questo è il senso
in cui i logici si avvalgono oggi della parola per caratterizzare l'oggetto
della loro scienza. Ad esso faceva riferimento Peirce (Coll. Pap., 4.611); e ad
esso più recentemente fanno riferimento Strawson (/nir. to Logical Theory,
1952, pag. 4l), Prior (Formal Logic, 1955, $ 1) e Church (/ntroFORMA duction to
Mathematical Logic, 1956, $ 00). Carnap ha detto: « Una teoria, una regola, una
definizione o simili dev'essere chiamata formale quando non fa alcun
riferimento al significato dei simboli (per es., delle parole) o al senso delle
espressioni (per es., degli enunciati) ma unicamente alle specie e all'ordine
dei simboli con le quali le espressioni sono costruite » (Logische Syntax der
Sprache, 1934, $ 1). Allo stesso significato di ordine o relazione si
riconnette l’uso della parola F. (Gestalt) da parte della psicologia
contemporanea quando intende sottolineare il fatto sperimentale che impressioni
simultanee non sono indipendenti l’una dall'altra come fossero pezzi di un
mosaico, ma costituiscono un’unità che ha un ordine definibile (v. PSICOLOGIA).
Nello stesso senso, Born ha proposto che siano considerate come «F. delle cose
fisiche le invarianti delle equazioni, che hanno la stessa realtà oggettiva
delle cose che ci sono familiari » (Experiments and Theory in Physics, 1943,
pag. 12-13). Nell’estetica stessa c’è almeno un significato nel quale la parola
F. può essere ricondotta a quello di ordine od organizzazione delle parti; ed è
il significato chiarito da Dewey: « Solo quando le parti costitutive di un
tutto hanno l’unico fine di contribuire alla perfezione di un’esperienza
cosciente, disegno e figura perdono il carattere sovrapposto e diventano F.+
(Art as Experience, cap. VI; trad. ital., pag. 140). Allo stesso significato si
avvicina l’uso che della parola ha fatto Focillon: «Le relazioni formali in
un’opera e tra le varie opere costituiscono un ordine, una metafora
dell’universo + (Vie des Formes). In generale si può dire che, nell’ambito di
questo significato, si passa alla considerazione della F. ogni qualvolta una
certa relazione viene generalizzata cioè ritenuta valida per un certo numero di
termini o di casi possibili; oppure quando si prescinde dai termini tra i quali
un ordine intercorre per ritenere importante o significativo solo quest’ordine.
3° Una regola di procedura. In questo senso si parla di F. nel diritto, per il
quale una « questione di F. » concerne il rapporto del caso in esame con le
regole della procedura e non già il problema che costituisce la sostanza o il
contenuto del caso. In modo analogo si dice «rispettare le F.» per indicare il
rispetto delle regole delle buone maniere o simili. Talvolta il ricorso o
l’appello alla « F.» esprime l’esigenza dell'autonomia di una procedura o di
una tecnica determinata. Questo è, spesso, il significato dell’insistenza sul
carattere formale dell’arte. Quando, nell’arte, l’appello alla F. non esprime
l’esigenza della organizzazione e dell’ordine (che è un ricorso al significato
2°) esprime l’esigenza che i procedimenti o le tecniche dell’arte siano
indipendenti dai procedimenti o dalle tecniche FORMULA di altre attività come
la conoscenza, la morale, ecc. (cfr. Croce, Breviario di Estetica, pag. 53). In
questo senso, il passaggio alla considerazione formale, in un certo campo, si
ha quando si riconosce l'indipendenza delle tecniche adoperabili in questo
campo da quelle proprie di altri campi. FORMA, PSICOLOGIA DELLA. V. PsiCOLOGIA.
FORMALE (ingl. Formal; franc. Formel; tedesco Formal). 1. Corrispondentemente
al significato 1° di forma: ciò che appartiene all’essenza o sostanza della
cosa, perciò: essenziale, sostanziale, attuale. In questo senso adoperano la
parola gli Sco- lastici, nonchè Cartesio (Méd., III; ZI Réponses, def. IV) e
Spinoza (Er., II, 8). A questo significato si riferisce anche l’uso che fa del
termine Duns Scoto nelle espressioni « distinzione F.» o «ragione F.». La
distinzione F. è infatti una distinzione di essenza o natura che però non
implica una separazione numerica: essa intercede, per es., tra la natura comune
e l’individualità delle cose o tra le varie perfezioni di Dio (Op. Ox., I, d.
8, q. 4, n. 17). 2. Corrispondentemente al significato 2° di forma: ciò che
appartiene a una relazione genera- lizzabile o all'ordine o alla coordinazione
delle parti. In questo senso la parola è adoperata nella logica, nella
matematica moderna e in estetica. In logica questo termine è stato ampiamente
usato, con un senso intuitivamente abbastanza chiaro ma non mai del tutto
determinato. Nella Logica medievale formalis ha il significato fon- damentale
di «inerente alla forma», quindi «es- senziale »; ma anche, di conseguenza, «
universale ?, «valido per ogni contenuto empirico relativo ad una certa forma
+; perciò, come ultimo significato, anche « indipendente dalla natura empirica
dei con- tenuti ». È in questo senso che il termine è passato nella Logica
moderna e contemporanea, in cui, a partire da Leibniz, i termini «forma» (per es.,
gli arguments en forme nella terminologia leibniziana) e « F. » stanno ad
indicare certi schemi, formule, ecc., in cui i termini descrittivi sono
sostituiti da simboli (« variabili ») e pertanto le proprietà, relazioni, con-
seguenze, ecc., dello schema o formula vigono indipendentemente da ogni
possibile designazione dei termini significativi in essa presenti. 3.
Corrispondentemente al significato 3° della parola « forma »: ciò che
appartiene alla procedura, sia essa quella legale o del galateo, ecc. G.P.-N.
A. FORMALI, SCIENZE. V. Scienze, CLASSI- FICAZIONE DELLE. FORMALISMO (ingl.
Formalism; franc. For- malisme; ted. Formalismus). Ogni dottrina che faccia
appello alla forma, in uno qualsiasi dei significati del termine. Verso la fine
del sec. xv si chiamarono « formalisti» i seguaci della metafisica di Duns 27
417 Scoto, i quali si opponevano ai « terministi », se- guaci di Ockham
(GERson, De conceptibus, pag. 806). F. è stato chiamato il punto di vista
kantiano nell’etica perchè fa appello alla forma generale delle massime,
prescindendo dai fini cui sono di- rette. F. è stato chiamato in matematica il
procedi- mento che intende prescindere da qualsiasi signifi- cato dei simboli
matematici e perciò specialmente l’indirizzo di Hilbert. F. si chiama pure
l’accentua- zione dell'importanza della procedura nel diritto o di certe regole
di comportamento nei rapporti tra gli uomini. FORMALIZZATO, LINGUAGGIO. V. Sr
STEMA LOGISTICO. FORMALIZZAZIONE (ingl. Formalisation; franc. Formalisation;
ted. Formalisation). Questo termine è caratteristico della logica e della
filosofia della scienza contemporanea. Con «F. di una teoria » si intende il
procedimento con il quale viene costruito un sistema meramente sintattico di
simboli S, retto da alcuni assiomi (ed, eventual- mente, da regole operative di
formazione e deriva- zione delle formule) dai quali, secondo le regole
sintattiche del sistema stesso, si fanno derivare formule che risultino
trasformazioni tautologiche del gruppo di assiomi. Questo sistema sintattico puro
S costituisce una F. di una data teoria 7 (per es., dell’aritmetica dei numeri
interi, o della teoria degli insiemi, o del calcolo logico elementare) quando 7
risulti essere una interpretazione vera, e possibilmente Z-vera, di S. In
generale tutte le teorie fondamentali delle matematiche pure con- temporanee
hanno ricevuto F.; rimane ancora non del tutto risolto il problema della F.
della logica, e in genere dei metalinguaggi impiegati per la F. delle teorie
matematiche stesse. Tra l’altro, una delle maggiori difficoltà di tale
formalizzazione di secondo grado è data da un noto teorema (di Gédel) per cui
una teoria formalizzata non può contenere la prova della propria
non-contradditto- rietà (v. ASSIOMATIZZAZIONE; MATEMATICA). G. P. FORMAZIONE
(ted. Bildung). Nel significato specifico che questa parola assume in filosofia
e in pedagogia, in relazione con il termine tedesco cor- rispondente, essa
indica il processo di educazione o di civilizzazione, che si esprime nei due
significati di cultura; intesa da un lato come educazione, dall’altro come
sistema di valori simbolici (vedi CULTURA). FORME, PLURALITÀ DELLE. V. Aco-
STINISMO. FORMULA (ingl. Formula; franc. Formule; ted. Formel). 1. L’elemento
di un calcolo (v.). In questo senso la F. si distingue dalla proposizione che è
l’elemento di un sistema semantico (CARNAP, Foundations of Logic and
Mathematics, $ 9). 418 2. Lo stesso che enunciato o proposizione. 3. Più in
generale: una sequenza finita lineare di simboli primitivi. Così ha definito la
formula A. Church, che ha chiamato «F. ben formata» quella che risponde a certe
regole fondamentali di un linguaggio (/ntr. to Mathematical Logic, 1956, $ 7).
FORMULA IDEALE. Così Gioberti chiamò «la proposizione che esprime l'/dea in
modo chiaro, semplice e preciso » cioè la seguente: « L’Ente crea l'esistente,
l’esistente ritorna all’Ente + (Zrnr. allo studio della filosofia, , II, pag.
147, 174; III, pag. 3). La F. I. esprime il concetto neoplatonico della
derivazione del mondo da Dio e del ritorno del mondo a Dio attraverso l’uomo.
FORO INTERIORE (franc. For intérieur). L'espressione deriva dalla vecchia frase
francese, tuttora in vigore, e significa il tribunale della coscienza (v.).
FORONOMIA (ingl. Phoronomics; franc. Pho- ronomie; ted. Phoronomie). Parola
coniata da Lam- bert per indicare la dottrina che studia le leggi del movimento
(Neues Organon, 1764) e ripresa da Kant in un senso analogo (Meraphysische
Anfangs- grilnde der Naturwissenschaft, 1786). FORTEZZA. V. Coragoro. FORTUITO.
Ciò che è dovuto alla fortuna o al caso (v.). FORTUNA (gr. viyn; lat. Fortuna;
ingl. For- tune; franc. Fortune; ted. Glick). Secondo Aristo- tele si distingue
dal caso (v.) perchè si verifica nel dominio delle azioni umane e perciò non
possono andare incontro a F. o a sfortuna gli esseri che non possono agire
liberamente. « Gli esseri inani- mati, le bestie, i bambini, non fanno niente
per F. perchè non hanno scelta; e la buona o la mala F. si attribuisce ad essi
soltanto per similitudine, al modo in cui Protarco disse che le pietre di un
altare sono fortunate perchè sono onorate mentre le loro com- pagne sono
calpestate dai piedi» (Fis., II, 66,197 b 1). Questo significato si è mantenuto
anche nell’uso moderno della parola. Il suo concetto filosofico è pertanto lo
stesso di quello di caso (v.). FORZA (lat. Vis; ingl. Force; franc. Force; ted.
Kraft). Propriamente l’azione causale, non in quanto esplicativa o
giustificativa (come ragion d’essere) ma in quanto produce immancabilmente il
suo effetto. Quindi, più in generale, ogni tecnica atta a garantire
immancabilmente un effetto o che pretenda di garantirlo. In tal senso si dice
«il di- ritto come F. » 0 «lo Stato come F. » per sottolineare l’immancabilità
della realizzazione del diritto o della volontà dello Stato. In tal senso Kant
diceva che ci sono quattro specie di combinazioni della F. con la libertà e la
legge: a) legge e libertà senza F.: anarchia; b) legge e F. senza libertà:
dispotismo; c) F. senza libertà e senza legge: barbarie; 4) F. con FORMULA
IDEALE libertà e legge: repubblica (An:r., II, Delineazione del carattere del
genere umano, 2). In senso analogo Hegel parlava di « F. dell’esistenza » nel
dominio delle relazioni giuridiche fra gli Stati, alludendo alla frase di
Napoleone: «La repubblica francese non ha bisogno di riconoscimento » (Fil. del
Dir., 331, Zusatz). La nozione di F. dev’essere considerata sotto due aspetti
fondamentali e cioè: 1° nell’uso che la scienza ha fatto di essa; 2° nella
interpretazione che la filosofia ne ha dato. 1° Considereremo qui la nozione di
F. esclu- sivamente quale si è venuta configurando agli inizi della scienza
moderna escludendo cioè dal suo ambito le nozioni di potenza, di causa
efficiente o formale, di qualità occulta, ecc., cioè tutte le no- zioni di
carattere metafisico o teologico cui si può retrospettivamente (e
grossolanamente) riferire il termine forza. Tutti questi termini hanno infatti
una portata storica e problematica completamente diversa dal termine in
questione e tale che non può addurre alcuna luce sul suo significato o sui pro-
blemi ad esso attinenti. Intenderemo perciò con il termine F. l’azione causale
infallibile in quanto: a) venga ritenuta diversa o indipendente da qual- siasi
agente o forma metafisica; è) venga ritenuta diversa o indipendente da
qualsiasi forma o agente psichico; c) venga ritenuta suscettibile di
trattamento matematico. La nozione di F. dev'essere anche te- nuta distinta da
quella di energia, nonostante che gli stessi scienziati abbiano talora confusi
i due termini parlando (come fecero, per es., Mayer e Helmholtz) di
conservazione della F., laddove si trattava della conservazione dell'energia.
In questo senso la nascita della nozione di F. si può scorgere nelle
osservazioni di Keplero che con- siderò la virtù (virtus) cui sono dovuti i
movimenti gravitazionali come soggetta a tutte le « necessità matematiche »
(Astronomia nova, III, pag. 241) e negò che essa potesse essere identificata
con l'anima (Mysterium Cosmographicum, 1621, in Opera, edi- tore Frisch, I,
pag. 176). Ma la nozione fu esatta- mente definita solo quando fu esattamente
definito, come principio fondamentale della fisica, il prin- cipio d'inerzia:
cioè con Cartesio. Galilei si serve frequentemente della nozione (per es., nei
Disc. sulle nuove scienze, in Op., VIII, pag. 155, 344, 345, 442, 447, ecc.) ma
non la definisce perchè non defi- nisce neppure la nozione d’inerzia di cui
egualmente si serve. Direttamente in rapporto con quest’ultima, la F. è
definita da Cartesio. Egli dice: «La F. con cui un corpo agisce contro un altro
corpo o resiste alla sua azione, consiste in questo solo che ogni cosa persiste
sin che può nel medesimo stato in cui si trova, conformemente alla prima legge
che è stata esposta [cioè alla legge d’inerzia]. Sicchè un corpo FORZA che è
congiunto ad un altro corpo possiede una F. per impedire che ne sia separato; e
quando ne è separato c’è qualche F. per impedire che gli sia congiunto; e così,
quando esso è in quiete, ha una F. per rimanere in quiete e per resistere a ciò
che potrebbe farlo cambiare; e così, se si muove, ha una F. per continuare a
muoversi con la stessa velocità e verso la medesima banda » (Princ. Phil., II,
43). Ma colui che generalizzò la nozione di di F. e le dette un’espressione
matematica precisa fu Newton. Il secondo principio della dinamica newtoniana
cioè la proporzionalità tra la F. e l’accelerazione impressa (F= m a) fa della
F. una relazione fra due grandezze, che non ha alcun ri- ferimento alle essenze
o qualità nascoste delle quali lo stesso Newton dichiarava l’inutilità per la
fisica. «Io intendo, egli diceva, dare soltanto una nozione matematica delle
forze, senza considerare le loro cause o le loro sedi fisiche (Philosophiae
naturalis Principia mathematica, 1760, pag. 5). La genera- lizzazione
newtoniana consentiva di parlare di F. di gravità, come di F. elettrica o forza
magnetica; sicchè nella seconda metà del xvm secolo il con- cetto di F. divenne
uno dei più popolari e dif- fusi. Ma contemporaneamente esso suscitava le
diffidenze degli scienziati, che spesso si rifiutavano di vedere in esso
qualcosa in più della semplice relazione causale. D’Alembert osservava che se
la relazione tra causa ed effetto è considerata, non di natura logica, ma
fondata solo sull’esperienza, la F. a distanza (cioè la gravità) non
rappresenta un enigma maggiore della trasmissione del mo- vimento attraverso
l’urto: essa infatti non fa che esprimere, precisamente come quest’ultima, una
relazione testimoniata dall’esperienza (Elements de phil., 1759, $ 17). Per gli
stessi motivi, Maupertuis voleva che il concetto di F. come «causa della
accelerazione » fosse eliminato dalla meccanica e sostituito dalle semplici
determinazioni della mi- sura dell’accelerazione (Examen philosophique de la
preuve de l’existence de Dieu, , II, $ 23, 26). Kant non fa che esprimere lo stesso
concetto quando dice che «la F. non è altro che il rap- porto della sostanza A
a qualch’altra cosa 8» e che tale rapporto può essere solo dato dall’esperienza
(De mundi sensibilis et intelligibilis forma et prin- cipiis, $ 28); o che la
F. non è che «la causalità della sostanza + cioè « il rapporto del soggetto
della causa- lità con l’effetto » (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi, cap. II,
sez. III, Seconda analogia dell’esperienza). Già da questo punto di vista
l’interpretazione della F. come un agente causale misterioso e inaccessibile,
quale si ritrova, per es., in Spencer (First Prin- ciples, $ 26) cade
interamente fuori della scienza. Ma anche nel suo specifico significato
galileiano o newtoniano la nozione di F. non esercitò a lungo 419 nella scienza
un compito predominante. Già Leibniz aveva scoperto e chiarito il concetto di
F. viva, che è il prodotto della massa per il quadrato della velo- cità:
concetto che è il punto di partenza della mo- derna nozione di energia
(Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI, pag. 218 sgg.). La sua dottrina
della superiorità della F. sulla materia, che fa da termine medio per la
risoluzione della materia stessa nell’energia spirituale (v. oltre), è per
l’ap- punto fondata su questo concetto di energia. Ma nel secolo successivo, la
scoperta della conserva- zione dell’energia (1842) dovuta a Roberto Mayer e
l’opera di Helmholtz e di Hertz condussero alla formulazione di quello che si
chiamò l’energetismo della meccanica (cfr. PorNcARÉ, La science et l’hy-
pothèse, pag. 148). L’energetismo nega che la F. sia « causa » del movimento e
che perciò sia presente prima del movimento; e considera l’idea della energia
anteriore a quella di forza. Quest'ultima è introdotta da una semplice
definizione e le sue proprietà vengono dedotte dalla definizione e dalle leggi
fondamentali. Nell’energetismo pertanto l’idea di F. non implica più alcuna
difficoltà; è un sem- plice concetto convenzionale. Sulla stessa linea sono i
Principi di meccanica (1894) di Hertz, che con- siderano come fondamentali
soltanto le idee di tempo, spazio e massa, considerando derivata non solo
l’idea di F. ma anche quella di energia. Il concetto di energia tuttavia
conservava la sua im- portanza nella fisica, soprattutto in riferimento al
concetto di campo (v.); mentre il concetto di F. rimaneva quello che
l’energetismo aveva mostrato che fosse: un nome per definire certe relazioni
fra alcune grandezze fisiche. Ha detto Russell a questo proposito: « Si suppone
che la F. sia causa del- l’accelerazione... Ma l’accelerazione è una semplice
finzione matematica, un numero, non un fatto fisico... Quindi una F., se è
causa, è causa di un effetto che non ha luogo » (Principles of Mathema- tics,
1903, pag. 474). 2° Le interpretazioni filosofiche del concetto di F. seguono molto
alla lontana e poco fedelmente lo sviluppo scientifico dello stesso concetto.
Esse obbediscono tutte ad uno schema uniforme; con- sistono nel ricondurre la
nozione di F. ad una esperienza umana. Questa riduzione può tuttavia avere un
duplice significato. Può: a) essere intesa a giustificare la nozione stessa e a
farne un con- cetto metafisico; 5) essere intesa a criticare la no- zione e a
mostrarne, col carattere antropomorfico, la mancanza di fondamento. Leibniz è
il capostipite dei tentativi nel primo senso, Locke lo è dei tenta- tivi nel
secondo senso. a) Nel Système nouveau de la nature (1695) Leibniz racconta che,
dopo essersi affrancato dal giogo di Aristotele, aveva creduto nel vuoto e 420
negli atomi ma che dopo molte meditazioni si era accorto che le unità ultime
non possono essere ma- teriali e perciò non possono essere atomi di materia ma
di spirito. « Bisognava dunque, egli aggiunge, riabilitare le forme sostanziali
così screditate oggi- giorno ma in un modo che le rendesse intelligibili e che
separasse l’uso che se ne deve fare dall’abuso che se n’è fatto. Trovai dunque
che la loro natura consiste nella F. e che da questo segue qualcosa d’analogo
alla coscienza e all’appetito; e che così bisognava concepirle ad imitazione
della nozione che abbiamo delle anime» (Systéme, ecc., $ 3). Questo mostra il
fondamento del primato che Leibniz ha poi sempre concesso alla nozione di F.
nelle sue interpretazioni fisiche e metafisiche: la F. è qualcosa d’analogo
alla coscienza (sentiment) e all’appetito cioè ad esperienze interne dell’uomo.
Vero è che Leibniz intendeva per F. la vis activa che, come si è detto, è
piuttosto energia. Ma la cosa non fa differenza dal punto di vista della sua
metafisica, che è una metafisica della F. spirituale (cfr. Nouv. Ess., II, 21,
$ 1). Questa dottrina di- venta l’archetipo di tutto l’indirizzo filosofico che
ha avuto come suo secondo fondatore, ai princìpi del sec. xrx, Maine De Biran.
Maine de Biran infatti assume la percezione interna e immediata, cioè la
coscienza che l’io ha di sè, come F. volente ed attiva, come la rivelazione
dello stesso carattere originario della realtà, che perciò appunto sarebbe essa
stessa F. « La percezione interna o immediata, eglidice, è la coscienza di una
F. che è il mio stesso io e che serve di tipo esemplare a tutte le no- zioni
generali e universali di causa e di F. (Nouveaux essais d’anthropologie,
1823-24, in (Euvres, ed. Na- ville, III, pag. 5). Quasi contemporaneamente
Scho- penhauer effettuava lo stesso passaggio dalla psi- cologia alla
metafisica, riconoscendo come unica F. costituente l’essenza del mondo quella
che l’uomo percepisce immediatamente in se stesso, cioè la volontà (Die Welt
als Wille und Vorstellung, 1819). Ciò va inteso nel senso che all'uomo appare
come volontà quella stessa potenza attiva che nelle altre parti della natura si
manifesta come F.: «Se quindi dirò: la F. che fa cadere a terra la pietra,
nella sua essenza, in sè, e fuori di ogni rap- presentazione, è volontà; non si
attribuirà a questa affermazione l’insano significato che la pietra si muova
secondo un motivo conosciuto per il fatto che nell'uomo la volontà si manifesta
in questo modo » (Die Welt, I, $ 19). Questa identificazione della F. di cui
l’uomo è conscio nell’esperienza in- teriore con la F. che agisce nel mondo è e
rimane alla base delle filosofie spiritualistiche. La dottrina di Bergson
secondo la quale uno s/ancio vitale, che alla coscienza umana si rivela come
durata reale, dà origine alla vita penetrando la materia e orga- FORZA
nizzandola (Évol. créatr., cap. I) obbedisce alla stessa impostazione
fondamentale. Ma a questa im- postazione obbediscono d’altronde anche le
dottrine materialistiche: ammettere, come faceva, per ces., Haceckel (Die
Weltratsel, ), un’unica F. che spieghi tutto il divenire dell’universo e che
sia ana- loga a quella che si rivela alla coscienza dell’uomo significa
obbedire alla stessa interpretazione della nozione di forza. b) Dall'altro lato
la riduzione di questa no- zione a una esperienza interna ha talora significato
una critica della nozione stessa perchè è stata as- sunta come un segno del suo
carattere arbitrario. Locke a questo proposito aveva messo in luce la
derivazione dell’idea del potere (Power) dalla ri- flessione dello spirito
sulle sue stesse operazioni (Saggio, II, 21, 4). Berkeley, allo scopo di
difendere la sua concezione dell’universo come linguaggio o manifestazione di
Dio, fu a sua volta portato a togliere ai concetti della scienza il loro
carattere realistico: « La F., la gravità, l’attrazione e simili termini, egli
diceva, sono comodi allo scopo di ragionare e di effettuare calcoli sul
movimento e sui corpi che si muovono ma non allo scopo di comprendere la natura
del movimento stesso » (De Motu, $ 17; Siris, $ 234). Hume a sua volta mostrò
che nè dall’esperienza interna nè da alcuna altra fonte lo spirito può
attingere una chiara e reale idea di forza. « Noi ignoriamo è vero, disse Hume,
la maniera con la quale i corpi operano l’uno sul- l’altro, e la loro F. o
energia ci è del tutto incom- prensibile; ma siamo egualmente ignoranti della
maniera o F. con la quale una mente, anche la suprema, opera sia su se stessa
che sui corpi. Da che cosa, domando, riusciamo a farcene una idea?... Che cosa
è più difficile concepire, che il moto nasca da un urto o che nasca da un atto
di volontà? Tutto quello che sappiamo è la nostra ignoranza profonda in
entrambi i casi » (/ng. Conc. Underst., VII, 1). Questa critica di Hume è
rimasta classica e, per un certo aspetto, definitiva. Mach considerava come un
«feticismo» l’uso del con- cetto di F. come d'altronde di quello di causa che
egli voleva sostituito dal concetto di funzione (Analyse der Empfindungen, 9*
ediz., 1922, pag. 74; Popularwissenschaftlichen Vorlesungen, 1896, pa- gina
259; trad. ingl., 1943, pag. 254). Dall’altro lato il fatto che questo concetto
abbia perduto nella scienza ogni còmpito lo sottrae anche all’in- teresse della
critica metodologica. Esso si presenta oggi pertanto come un concetto
scientifico anti- quato, che serve di pretesto (ma ormai sempre più raramente)
a speculazioni metafisiche (cfr. Max JAMMER, Concepts of Force, 1957: opera
ricca di informazione per quanto incerta e confusa nel de- limitare la nozione
che ne è l’oggetto). FUNZIONALE FRECCIA (gr. 8tox6q=epvq Df che si legge: «p
implica g» equivale per defini- zione a «non-p 0 g»; dove pe q stanno rispetti-
vamente, per l’antecedente e il conseguente e il ferro di cavallo > sta per
il segno dell’I. materiale. Corrispondentemente, si è chiamata /. formale
quella che, oltre a rispondere alla condizione di validità dell’I. materiale,
esige, per esser valida, altre con- dizioni. Negli esempi numerati di sopra
solo l’(8) è una pura I. materiale perchè può essere espressa dicendo «0 x non
è un genio filosofico o io sono l’imperatore della Cina ». Le altre, pur
rispettando questa condizione, ne esigono (come si è visto) altre che ne
costituiscono il fondamento. Sicchè si può dire che tutte le I. formali sono
materiali, ma non tutte le I. materiali sono formali. L’I. ma- teriale sarà
perciò definita dalla seguente tavola di verità (nella quale p e 9g stanno per
proposizioni qualsiasi e V e F per vero e falso): P q P29 V V V V F F F V V F F
V (v. TAVOLE DI VERITÀ). 474 L’I. materiale può apparire paradossale dal punto
di vista del senso comune e delle scienze empiriche. Essa, per es., consente di
riconoscere come vera I’I. «Se 2 x 2= $, allora New York è una città piccola +;
e come falsa quest’altra «Se 2x 2=4 allora New York è una città piccola » (cfr.
TARSKI, Introduction to Logic, 1941, $ 8) nelle quali non appare alcuna
connessione causale o contestuale tra l’antecedente e il conseguente: ma la
prima significa «0 2 x 2 non è = 5 o New York è una città piccola » e la
seconda significa o 2 x 2 non è = 4 o New York è una città piccola ». L’I.
mate- riale è soprattutto usata nelle matematiche e Hilbert ha fondato su di
essa gli assiomi della logica delle proposizioni (« Die Logischen Grundlagen
der Ma- thematik », in Mathematische Annalen, 1923, pa- gine 151-65). In forma
di assioma, I’I. materiale significa che «il vero segue da ogni cosa + perché
se q è vero di per sé stesso segue a qualsiasi p, non importa se vero o falso;
e che «ogni cosa segue dal falso » perché se p è falso, da esso può seguire
qualsiasi g sia vero che falso. In realtà, l’I. materiale astrae completamente
da ogni con- nessione causale o contestuale tra l’antecedente e il conseguente
(che può avere fondamenti assai diversi) e costituisce soltanto la condizione
minima sufficiente per la validità di rutte le implicazioni. Alcuni logici tuttavia
hanno cercato di rendere meno astratto il concetto di I. avvicinandolo di più
al significato che ha nell’uso comune. Così l'americano C. I. Lewis (cfr. Lewis
and LANGFORD, Symbolic Logic, 1932, pag. 174 sgg., 248 sgg.) ha parlato di
un'/. stretta secondo la quale «p im- plica g » sarebbe sinonimo di « q è
deducibile da p » nel senso che sarebbe contraddittorio affermare l'antecedente
p e negare il conseguente g. Questo concetto fa ricorso al concetto di
possibilità logica e sarebbe perciò espresso dalla formula —M (pr> g), dove
M sta per « possibile », e che si legge: «non è possibile che p sia vero e gq
non lo sia». Una relazione analoga di I. è stata chiamata entailment da molti
scrittori inglesi, a partire da Moore che l’ha illustrata dal modo seguente: «
Sa- remo in grado di dire veramente che °p entails (involve) g” quando e solo
quando siamo in grado di dire veramente che ‘9 segue da p’ o ‘è dedu- cibile da
p° nel senso in cui la conclusione di un sillogismo in Barbara segue dalle due
premesse prese come una proposizione congiuntiva » (Philo- sophical Studies,
1922, cap. IX; ed. 1960, pag. 291). Carnap a sua volta ha distinto la
C-implicazione, o I. sintattica che è quella materiale di cui si è detto, dalla
L-implicazione o I. semantica che corrisponde all’I. stretta di Lewis
(Introduction to Semantics, 8 9, 14). Nella logica medievale il termine I. era
usato soltanto per indicare una forma della restrizione (v.): IMPLICITO come
nell’esempio « l’uomo, che è bianco, corre » nel quale l’I. è costituita dalla
proposizione « che è bianco», che restringe ai bianchi gli uomini che corrono.
Nei manuali di logica del sec. xvi la parola implicat fu adoperata come
abbreviazione per implicat contradictionem e l’uso ricorre anche nel De
Intellectus Emendatione (1662) e nei Cogitata Metaphysica (1663) di Spinoza
(cfr. W. KNEALE and M. KNEALE, The Development of Logic, 1962, ag. 300).
IMPLICITO (ingl. Implicit; franc. Implicite; ted. Verflechten). Questo
aggettivo ha tre significati principali: 1° I., nel senso logico della implica-
zione (v.) e in questo senso si riferisce esclusivamente a enunciati,
proposizioni o asserzioni; 2° non espli- cito, cioè suggerito da un certo
contesto di di- scorso, come quando si dice «x ha implicitamente ammesso che...
»; 3° potenziale o virtuale. Questo ultimo uso è improprio. IMPOSIZIONE (lat.
Impositio; ingl. Imposi- tion; franc. Imposition). Nella Logica medievale è
l’atto per il quale un nome viene destinato a signi- ficare una cosa (cfr.
Pietro Ispano, Summul. Logic., 6.03). IMPOSSIBILE. V. PossiBILE. IMPREDICATIVA,
DEFINIZIONE (in- glese Zmpredicative Definition; franc. Definition im-
prédicative). Poincaré indicò con questa espres- sione la definizione del
membro di una classe che fa riferimento alla totalità dei membri della classe,
e che pertanto contiene un circolo vizioso. Da tali definizioni sorgono le
antinomie logiche che Poin- caré voleva evitare stabilendo il principio che non
consente tali definizioni (PorNcARÉ, in « Revue de Métaphysique et de Morale»,
1906, pag. 294-317; cfr. anche Dernières Pensées, 1913, IV) (v. ANTI- NOMIA).
IMPRESSIONE (gr. tinwar; lat. Impressio; ingl. Impression; franc. Impression;
ted. Eindruck). La teoria che la conoscenza consista in una impronta o
impressione fatta dalle cose sull’anima nasce con gli Stoici. Essi infatti
dicevano che: « l’imma- gine è un’impronta nell’anima », prendendo il nome
dalla figura che il sigillo imprime sulla cera (Droa. L., VII, 45). Cicerone
cercò di togliere all’I. il suo carattere fisico (7usc. Disp., I, 61). Il
termine fu diffuso nella filosofia e nel linguaggio moderno da Hume che intese
per I. « tutte le nostre sensazioni, passioni ed emozioni, alla loro prima
apparenza nell’anima » (7reatise, I, 1, 1). E distinse le I dalle idee che sono
copie sbiadite di esse (/bid., I, 1, 2). IMPROPRIO, SIMBOLO. V. SINCATEGORE-
MATICO. IMPULSO (ingl. Impulse, Urge; franc. Impul- sion; ted. Impuls). Una
spinta subitanea, tempo- INCONCEPIBILITÀ ranea, e difficilmente controllabile,
ad un’azione determinata. «Impulsivo» dicesi chi è soggetto frequentemente a
spinte di questo genere. Il termine non va confuso nè con istinto (v.) nè con
«ten- denza +, che corrisponde al termine tradizionale appetizione (v.).
IMPUTABILITÀ (gr. altia; lat. Imputatio; ingl. Imputability; franc. Imputabilité;
ted. Zu-’ rechenbarkeit). La possibilità di riferire un’azione a un agente come
a sua causa, in quanto diversa dalla responsabilità (v.). INAUTENTICO. V.
AUTENTICO. INCARNAZIONE (lat. Incarnatio; ingl. In- carnation; franc.
Incarnation; ted. Menschwerdung). L’unità della natura divina e della natura
umana nella persona di Cristo. È questo uno dei due dogmi fondamentali del
Cristianesimo, l’altro es- sendo quello della Trinità. Dopo le discussioni
patristiche che portarono nel sec. v ad alcune interpretazioni che la Chiesa
condannò come ere- tiche, questo dogma è stato nella Scolastica uno dei banchi
di prova della capacità delle filosofie di servire all’interpretazione e alla
difesa delle cre- denze religiose. Da questo punto di vista, non c’è dubbio che
la maggiore capacità in questo senso sia stata dimostrata dal tomismo che ha
dato la più semplice ed elegante interpretazione del dogma. S. Tommaso prende
lo spunto polemico appunto dalle due eresie simmetriche e opposte del sec. v.
L’interpretazione di Eutichio, insistendo sull’unità della persona di Cristo,
riduceva anche le due na- ture ad una sola e precisamente a quella divina,
considerando semplicemente apparente la natura umana rivestita da Cristo.
L’interpretazione di Ne- storio invece, insistendo sulla dualità delle nature
ammetteva in Cristo anche due persone coesistenti insieme, la persona umana
come strumento o ri- vestimento di quella divina. La distinzione reale tra
l'essenza e l’esistenza nelle creature e la loro unità in Dio forniscono a S.
Tommaso la chiave dell’interpretazione. L'essenza o natura divina è in Dio
identica con l’essere; dunque Cristo, che ha natura divina, sussiste come Dio,
cioè come per- sona divina ed è una sola persona, quella divina. Dall'altro
lato, la separabilità della natura umana dall’esistenza fa sì che Cristo possa
assumere la na- tura umana (che è anima razionale e corpo) senza essere persona
umana (Contra Gent., IV, 49; S. Th., III, q. II, a. 6). Questa interpretazione
tomistica co- stituisce la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica.
INCETTIVA, PROPOSIZIONE (franc. Pro- position inceptive ou désistive). La
Logica di Porto- reale chiamò così la proposizione che afferma che una cosa ha
cominciato o ha cessato di essere tale; per es.: «La lingua latina ha cessato
di essere volgare in Italia da molti secoli » (ARNAULD, Log., II, 10, 4). 475
INCLINAZIONE. V. TENDENZA. INCLUSIONE (ingl. Inelusion; franc. Inclu- sion;
ted. Einschliessung). Nella Logica delle classi, il rapporto di I. tra due
classi a e f (simbolo ta > 8») sussiste quando tutti gli elementi della
classe « appartengono anche alla classe 8, ma non necessariamente viceversa
(l’I. è riflessiva e transi- tiva, ma non simmetrica). Al rapporto di I. corri-
sponde un rapporto di implicazione tra i concetti- classe corrispondenti. Per
es., la classe uomo è inclusa nella classe mortale perchè tutti gli uomini sono
mortali. G. P. INCOERENZA. V. CorrENZA. INCOMPATIBILITÀ. V. COMPATIBILITÀ.
INCOMPLETO, SIMBOLO (ingl. Incomplete Symbol). In logica matematica si chiama
così un simbolo che non ha significato per suo conto ma acquista significato
solo in un contesto, al cui significato a sua volta contribuisce. INCOMPLEXUM.
V. CompLesso. INCONCEPIBILITÀ (ingl. /nconceivability; franc. Inconcevabilité;
ted. Unbegreiflichkeit). Il cri- terio cartesiano di accettare per vero tutto
ciò che è evidente per la ragione ha, come suo correlativo negativo, il
criterio di rigettare ciò che non appare tale o che, in generale, è
incompatibile con la ra- gione. Questo è propriamente il criterio delle incon-
cepibilità. Di esso si avvalse soprattutto Leibniz, che esplicitamente lo
difese; «Io riconosco in ve- rità, egli scrisse, che non è permesso di negare
ciò che non s’intende, ma aggiungo che si ha il diritto di negare (almeno nell’ordine
naturale) ciò che non è assolutamente nè intellegibile nè espli- cabile.. La
concezione delle creature non è la misura del potere di Dio ma la loro
concepibilità o forza di concezione è la misura del potere della natura,
giacchè tutto ciò che è conforme all’ordine naturale può essere concepito o
inteso da qualche creatura» (Nouv. Ess., Avant-Propos., Op., ed. Erd- mann,
pag. 202). In altri termini si può ammettere che sia reale in natura ciò che
non s'intende (cioè che non si sa spiegare) ma non ciò che è inconcepi- bile,
cioè « incompatibile con la ragione ». Ma che cosa poi debba intendersi per
incompatibilità con la ragione, non fu spiegato da Leibniz; come non fu
spiegato da coloro (e sono moltissimi), che hanno fatto riferimento allo stesso
criterio. Una critica del quale si trova per la prima volta nella Logica di
Stuart Mill, a proposito dell’uso che di esso avevano fatto Hamilton (Lectures
on Metaphy- sics and Logic, 1859-60) e Spencer (Principles of Psy- chology,
1855). Stuart Mill notava come gli antipodi erano dichiarati impossibili dagli
antichi che trova- vano inconcepibile che ci fossero persone che aves- sero la
testa nella direzione dei nostri piedi; e che uno dei più diffusi argomenti
contro il sistema 476 copernicano era stata l’I. dell'immenso spazio vuoto
richiesto da quel sistema (Logic, V, 3, $ 3; cfr. II, 5,86; 7,8 1-3). In
realtà, l’incompatibilità con la ragione, che è la definizione dell’I., non può
avere altro signifi cato preciso se non quello di incompatibilità con il sistema
di credenze cui si fa riferimento. Ovvia- mente una tale incompatibilità non
può valere come criterio di giudizio per l’attendibilità di una nozione
qualsiasi. Se poi per I. si intende la contraddit- torietà (come talora accade)
bisogna ricordare che il giudizio sulla contraddittorietà o meno di due
asserzioni deve fare riferimento a un campo de- terminato, nel quale siano
implicitamente o espli- citamente definite le regole della coerenza o della
compatibilità. Può darsi, ad es., che non sia con- traddittorio in fisica ciò
che sarebbe contraddittorio in matematica o viceversa; e, per es., la fisica
non ritiene contraddittorio concepire i fenomeni elettro- magnetici insieme
come corpuscolari e come ondu- latori. Ma per questi significati ristretti e specifici
della contraddittorietà, la parola I., con il suo si- gnificato assoluto, è
completamente inadatta. Per- tanto la filosofia contemporanea l’ha messa in
disparte, insistendo, non sull’antitesi razionale- inconcepibile, ma piuttosto
su quella significanza- insignificanza (v. SIGNIFICATO). INCONDIZIONATO (ingl.
Unconditioned; frane. Inconditionné; ted. Unbedingt). Hamilton (Discussions on
Philosophy, 1852) e Mansel (7fe Philosophy of the Conditioned, 1866), hanno
chia- mato I. l’Infinito o l’Assoluto, cioè Dio in quanto sfugge a tutte le
limitazioni del pensiero umano ed è perciò inconcepibile. Per il significato
generico del termine v. Con- DIZIONE. INCONOSCIBILE (ingl. Unknowable, Incogni-
zable; franc. Inconnaissable; ted. Unerkennbar). Ter- mine adoperato da
Hamilton per indicare l’ Assoluto o Infinito, in quanto ritenuto al di là di
ogni possi- bilità di conoscenza e oggetto solo di fede. « Pen- sare è
condizionare, diceva Hamilton (Discus- sions on Philosophy, 1852, pag. 13) e
una limitazione condizionale è una legge fondamentale delle possi- bilità del
pensiero... L’Assoluto non è concepibile che come una negazione della
concepibilità ». Tut- tavia la sfera della credenza è più estesa di quella
della conoscenza: sicchè l’Infinito per quanto non possa essere conosciuto, può
e deve essere creduto (Lectures on Metaph., II, pag. 530-31). Questa no- zione
fu ripresa da Spencer il quale anch’egli affermò l’inconoscibilità
dell’Assoluto e nello stesso tempo la necessità di ammetterlo per rendere pos-
sibile il relativo (First Principles, 1862, $ 26). La no- zione dell’I. divenne
così correlativa con quella di agnosticismo (v.); e come quest’ultima fu estesa
INCONDIZIONATO anche a designare la dottrina di Kant della cosa in sè e della
inconoscibilità di essa. Kant tuttavia non ammetteva l’inconcepibilità della
cosa in sè, come faceva Hamilton rispetto all’Assoluto; e non ammetteva quella
specie di corrispondenza ipote- tica tra l’I. e il fenomeno che Spencer
chiamava realismo trasfigurato (Ibid., $ 50). Il concetto di I. non ha mai
superato i confini del positivismo evo- luzionistico di stampo spenceriano (v.
Cosa IN SÉ). INCONSCIO (ingl. Unconscious; franc. Incon- scient; ted.
Unbewusst). Il primo ingresso di questa nozione nella filosofia è dovuto a
Leibniz che sot- tolineò l’importanza delle « percezioni insensibili + o
«piccole percezioni» cioè delle percezioni non accompagnate dalla
consapevolezza o riflessione. Sono tali percezioni che secondo Leibniz «
formano quel non so che, quei gusti, quelle immagini delle qualità sensibili,
chiare nell’insieme ma confuse nelle parti; quelle impressioni che i corpi che
ci circondano fanno su di noi e che involgono l’in- finito; quel legame che
ciascun essere ha con tutto il resto dell’universo » (Nouv. Ess., Avant-propos,
Op., ed. Erdmann, pag. 197). L'esistenza di questa zona inconscia divenne un
luogo comune nella scuola wolfiana (cfr. WoLFF, Psychol. rationalis, $ 58 sgg.)
e fu ammessa da Kant: il quale rispon- deva all’obiezione di Locke che non si
possono avere rappresentazioni di cui non si è coscienti perchè l’averle
significa precisamente l’esserne co- scienti (Saggio, I, 1, 5) affermando che «
possiamo essere coscienti mediatamente di una rappresenta- zione di cui non
siamo coscienti immediatamente + (Antr., $ 5). Ma fu soltanto con Schelling che
l’L divenne l'elemento fondamentale di una co- struzione metafisica cioè uno
degli aspetti essenziali dell’Assoluto come Identità di natura e spirito (cioè
per l’appunto di I. e coscienza). « Questo eterno I., diceva Schelling, che,
come il sole eterno del regno degli spiriti, si nasconde nel suo proprio lume
sereno e, benchè non divenga mai oggetto, imprime alle azioni libere la sua
identità, è lo stesso per tutta l’intelligenza ed è insieme la radice in-
visibile di cui tutte le intelligenze non sono che le potenze; è l’eterno
intermediario tra il soggettivo, che si autodetermina in noi, e l’oggettivo o
intuente; ed è il fondamento dell’uniformità nella libertà e della libertà
nell’uniformità oggettiva» (System der transzendentalen Idealismus, IV, F;
trad. ital., pag. 280). Ancora più radicalmente Schopenhauer riteneva I. quella
volontà di vivere che costituisce il noumeno del mondo. «La volontà, egli
diceva, considerata in se stessa è I.: è un cieco, irresistibile impeto, quale
noi già vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale, come anche nella
parte vege- tativa della nostra vita» (Die Welt, I, $ 54). E come sintesi dello
Spirito assoluto di Hegel, della INDETERMINAZIONE, RELAZIONI DI Volontà di
Schopenhauer e dell’I. di Schelling, Eduardo Hartmann presentava il principio
della sua filosofia: un principio che egli chiamava per l'appunto l’I. e del
quale lo spirito e la materia sarebbero state due diverse manifestazioni
(Philo- sophie des Unbewussten, 1869). Si può considerare appartenente a questa
stessa linea di pensiero la filo- sofia di Bergson: il quale difendeva I’I.
osservando che la ripugnanza a concepire stati psicologici in- consci viene dal
fatto che si considera la coscienza come la proprietà essenziale degli stati
psichici. « Ma, egli osservava, se la coscienza è soltanto il segno
caratteristico del presente, di ciò che è attualmente vissuto, ovvero di ciò
che agisce, allora ciò che non agisce potrà cessare d’appartenere alla co-
scienza senza cessare necessariamente di esistere in qualche modo» (Matière et
mémoire, cap. III, pag. 147). Con l’I. così inteso s’identifica per Bergson il
ricordo puro cioè la corrente della co- scienza che è poi lo stesso slancio
vitale. Ma mentre così l’I. veniva utilizzato nella me- tafisica e mentre,
dall’altro lato, la psicologia lo ammetteva, sia pure malvolentieri, come un
dato di fatto, esso riceveva un contenuto completamente nuovo ad opera di
Freud. Lo stesso Freud così presentava le due tesi fondamentali della psicanalisi:
«La prima di queste premesse è che i processi psichici sono in se stessi
inconsci e che quelli co- scienti sono soltanto atti isolati, frazioni della
vita psichica totale ». La seconda proposizione che la psicanalisi proclama
come una delle sue scoperte è l’affermazione che tendenze le quali possono es-
sere qualificate solo come sessuali, nel senso ri- stretto o largo della
parola, agiscono come cause determinanti di malattie nervose o psichiche e che
le stesse emozioni sessuali hanno una parte impor- tante nelle creazioni dello
spirito umano nei campi della cultura, dell’arte e della vita sociale » (Einfi-
rung in die Psychoanalyse, 1917, Intr.; trad. franc., pag. 32-33). In tal modo
la psicanalisi toglieva all’I. il carattere indeterminato o amorfo che esso
aveva sino a quel momento conservato nelle interpretazioni dei filosofi e degli
psicologi per acquistare un conte- nuto preciso ed identificarsi con le
tendenze sessuali inibite o negate o comunque camuffate o nascoste. Dapprima
l’estesissima voga, poi l’importanza scien- tifica che la psicanalisi ha
conservato e conserva nel mondo contemporaneo (v. PSICANALISI), hanno fatto
passare in seconda linea la difficoltà teorica connessa con lo stesso
riconoscimento dell’esistenza dell’in- conscio. Ovviamente, l’obiezione di
Locke, tante volte ripetuta, che « esistere », per uno stato mentale significa
«esser percepito » o «esser oggetto di co- scienza » e che pertanto uno stato
mentale inco- sciente è una contraddizione nei termini, ha perduto tutto il suo
valore. Uno stato mentale, per es., 477 un’emozione, una tendenza, una
volizione, può «esistere », anche se non viene « percepita», nel senso che essa
può essere opportunamente posta in luce e riconosciuta, con procedimenti
appropriati (che sono quelli appunto adoperati dalla psicanalisi), come la
condizione di una situazione psichica nor- male o patologica. Freud stesso ha
insistito a questo proposito sulla nozione di sintomo: « Un sintomo, egli dice,
si forma a titolo di sostituzione al posto di qualche cosa che non è riuscito a
manifestarsi al di fuori. Certi processi psichici, non avendo potuto
svilupparsi normalmente, in modo da arri- vare sino alla coscienza, hanno dato
luogo a un sintomo nevrotico » (/bid., trad. franc., pag. 303). L’I. quindi esiste
in primo luogo a titolo di sintomo. Si tratta della stessa soluzione teorica
che Kant aveva visto dicendo che l’I., pur non essendo per- cepito
immediatamente, può essere percepito me- diatamente; ma questa soluzione
teorica è assai migliorata perchè in Freud l’I., come sintomo, non ha neppure
bisogno di essere « percepito +: è un fatto che l’osservazione clinica può
constatare. INCONSEGUENZA (ingl. Inconsistency; fran- cese Inconséquence; ted.
Folgewidrigkeit). L'assenza di compatibilità (v.) delle proposizioni
costituenti un sistema simbolico. Ad es., un insieme di propo- sizioni è
inconseguente quando esso implica una contraddizione cioè quando da esso deriva
formal- mente sia una certa proposizione p sia la nega- zione di p. In
generale, si può dire che l’I. di un sistema qualsiasi è la possibilità di una
contraddi- zione nel sistema stesso. INCONSISTENZA. V. COMPATIBILITÀ. INDAGINE.
V. Ricerca. INDEFINITO (ingl. /ndefinite; franc. Indéfini; ted. Unbegrenzi).
Ciò che non ha limiti nello spazio o nel tempo e che è quindi infinito nel
senso nega- tivo del termine. Questo è almeno il significato della parola che
fu stabilito da Cartesio, il quale pertanto distingueva l’indefinitezza delle
cose dalla infinità di Dio il quale « non ha limiti nelle sue perfezioni » ed è
perciò il solo essere infinito (Prince. Phil., I, 27; I Résp., X capoverso). La
parola equi- vale pertanto a illimitato (v.). Non viene invece usata per dire «
non definito » cioè non espresso da una definizione. INDETERMINATO. V.
DETERMINAZIONE. INDETERMINAZIONE (ingl. Indetermina- tion; franc.
Indétermination; ted. Unbestimmtheit). 1. L'assenza della determinazione logica
(v. DETER- MINAZIONE). Talvolta lo stesso che vaghezza (vedi VAGO). 2.
L’assenza della determinazione causale (vedi INDETERMINISMO). INDETERMINAZIONE,
RELAZIONI DI (ingl. Uncertainty Relations; franc. Relations d’in- 478
détermination; ted. Unbestimmtheitsrelationen). Con questa espressione o con
quella di « principio di I. + si indica, dal 1927, il riconoscimento, nella fisica
subatomica, dell'azione reciproca tra l’oggetto e l’osservatore e pertanto la
perturbazione che l’os- servazione produce sullo stesso oggetto osservato. Fu
Heisenberg a mettere in luce per primo questo aspetto essenziale della fisica
quantistica. Ecco come egli stesso lo esprime: « Nelle teorie classiche l’in-
terazione tra l'oggetto e l’osservatore veniva con- siderata o come
trascurabilmente piccola o come controllabile, in modo da poterne eliminare
l’in- fluenza per mezzo di calcoli. Nella fisica atomica invece tale ammissione
non si può fare perchè, a causa della discontinuità degli eventi atomici, ogni
interazione può produrre variazioni parzialmente incontrollabili e
relativamente grandi. Questa cir- costanza ha come conseguenza il fatto che, in
generale, le esperienze eseguite per determinare una grandezza fisica rendono
illusoria la conoscenza di altre grandezze ottenute precedentemente; esse in-
fatti influenzano il sistema su cui si opera in modo incontrollabile, quindi i
valori delle grandezze pre- cedentemente conosciute ne risultano alterati. Se
si tratta questa perturbazione in modo quantitativo, si trova che in molti casi
esiste, per la conoscenza contemporanea di diverse variabili, un limite di
esattezza finito, che non può essere superato» (Die physikalischen Prinzipien
der Quantentheorie, 1930, I, $ 1). Per l’influenza che la scoperta delle
relazioni di I. ha avuto nel campo scientifico-filo- sofico v. CAUSALITÀ;
CONDIZIONE. INDETERMINISMO (ingl. /Indeterminism; franc. Indéterminisme; ted.
Indeterminismus). Ter- mine introdotto nel linguaggio filosofico nella se-
conda metà del sec. xvm per designare la dottrina che nega il determinismo dei
motivi cioè la de- terminazione della volontà umana da parte dei motivi stessi
(v. DETERMINISMO). Diceva Leibniz: «Quando si pretende che un avvenimento
libero non può essere previsto, si confonde la libertà con l’indeterminazione o
con l'indifferenza piena o di equilibrio; e quando si vuole che la mancanza
della libertà impedirebbe all'uomo d’essere col- pevole si allude a una libertà
priva, non di deter- minazione o di certezza, ma di necessità e di co-
strizione » (77iéod., III, 369). Kant a sua volta affermava: «Non c’è alcuna
difficoltà nel conci- liare il concetto della libertà con l’idea di Dio in quanto
essere necessario: perchè la libertà non consiste nella contingenza dell’azione
(nel fatto che l'azione non è determinata da alcun motivo cioè nell’I.) ma
nell’assoluta spontaneità, la quale sol- tanto è in pericolo col
predeterminismo, giacchè per esso il motivo determinante dell’azione è an-
tecedente nel tempo, quindi l’azione non è più INDETERMINISMO attualmente in
mio potere ma nella mano della natura ed io sono da tale motivo
irresistibilmente determinato » (Religion, I, Osservazione generale, Nota).
L’I. inteso in questo senso, cicè come nega- zione del determinismo dei motivi,
è uno dei tratti salienti dello spiritualismo francese (Ravaisson, La- chelier,
Boutroux, Hamelin, Bergson, ecc. Confronta A. LEvI, L'I. nella filosofia
francese contemporanea, Firenze, 1904) (v. LIBERTÀ). INDICE (ingl. Index).
Termine adoperato da Peirce per indicare la relazione oggettiva (non men- tale)
tra il segno e il suo oggetto. Indici in questo senso sono tutti i segni
naturali e i sintomi fisici. «Chiamo I. uno di tali segni, dice Peirce, perchè
un I. puntato è il tipo della classe » (Co//. Pap., 3.361). INDIFFERENTI. V.
ADIAFORÀ. INDIFFERENZA, LIBERTÀ DI. V. Li- BERTÀ. INDIFFERENZA, PRINCIPIO DI
(inglese Principle of Indifference; franc. Principe d’indiffé- rence; ted.
Indifferenzprinzip). Con questo nome o con quello di « principio di
equiprobabilità » o di « principio di nessuna ragione in contrario » si indica
l’enunciato che gli eventi hanno la stessa proba- bilità quando non c’è ragione
di assumere che uno debba accadere a preferenza dell'altro. Questo principio fu
esposto nell’Essai philosophique sur les probabilités (1814) di Laplace come
secondo prin- cipio del calcolo delle probabilità (cap. 2); ed è a fondamento
della teoria a priori della probabilità, cioè della teoria che cerca di
definire la probabilità indipendentemente dalla frequenza degli eventi cui essa
si riferisce. Il principio è stato pertanto abban- donato da alcune teorie
moderne sulla probabilità (Lewis, Analysis of Knowledge, 1946, cap. X; REI-
CHENBACH, Theory of Probability, 1949, $ 68) (v. PROBABILITÀ). INDIMOSTRABILE
(ingl. Undemonstrable; franc. Indémontrable; ted. Unerweislich). 1. Ciò che non
ha bisogno di dimostrazione perchè la sua verità è evidente. In questo senso
sono I. i prin- cìpi primi della logica di Aristotele (v. ASssioMI) e gli
anapodittici degli Stoici (v. ANAPODITTICO). 2. Le proposizioni primitive o in
generale gli antecedenti di un qualsiasi sistema simbolico in quanto tali
antecedenti sono a fondamento delle regole di dimostrazione proprie del
sistema. In questo senso, sono indimostrabili gli assiomi, le definizioni e le
regole di trasformazione di ogni sistema simbolico. 3. Le proposizioni
indecidibili cioè le proposizioni che non possono essere dette vere o false
nell’am- bito di un dato sistema simbolico ma possono essere decise in sistema
più vasto, nel quale però rina- scono in altra forma. In questo senso, sono
indi- mostrabili le proposizioni costituenti le antinomie INDIVIDUALITÀ logiche
(v.); ed è I. la non contraddittorietà della matematica e in generale dei
sistemi simbolici (vedi ANTINOMIE; MATEMATICA; SISTEMA). 4. Ogni credenza o
pretesa che non possa essere suffragata da prove. Questo è il significato più
generale e indeterminato col quale il termine viene adoperato frequentemente
nel linguaggio comune. Così si chiamano I. certe credenze religiose; e si
chiama I. la pretesa di un credito se non è appog- giata da documenti o
testimonianze. Asserzioni concernenti fatti sono spesso dichiarate I. per la
stessa ragione. INDIPENDENTE (ingl. Independent; fran- cese /Indépendant; ted.
Unabhdngig). Ciò che non deriva da altro il suo essere, la sua validità o la
sua capacità d’azione. Così un uomo o uno Stato si dice I. quando la sua vita o
la sua condotta non dipende da quella di un altro uomo o di un altro Stato. Un
evento si dice I. da un altro quando non dipende causalmente da quest’altro. E
una proposizione qualsiasi è I. da un’altra proposizione o da un sistema di
proposizioni se non è derivabile dall’una o dall'altro. Il requisito
dell’indipendenza reciproca si richiede per la determinazione degli assiomi di
un sistema simbolico. Difatti sarebbe inutile assumere come assioma una
proposizione che si potesse derivare dagli altri assiomi del sistema (v.
ASSIOMA). INDISCERNIBILI. V. IDENTITÀ DEGLI. INDISTINTO. Termine adoperato da
Ardigò per definire l'evoluzione, in sostituzione dell’ omo- geneo » di
Spencer. L’evoluzione sarebbe il pas- saggio dall’I. al distinto: termini che
sono desunti dall’esperienza psichica, mentre quelli di Spencer erano desunti
dalla biologia (ArRDIGÒ, Opere, II, pag. 189 e passim). INDIVIDUALE,
PSICOLOGIA. V. Psico- LOGIA, E). INDIVIDUALISMO (ingl. Individualism; fran-
cese Individualisme; ted. Individualismus). Ogni dot- trina morale o politica
che riconosca all’individuo umano un prevalente valore di fine rispetto alle
comunità di cui fa parte. L’estremo di questa dot- trina è ovviamente la tesi
che l’individuo ha valore infinito e la comunità valore nullo. Tale è la tesi
dell’anarchismo (v.). Ma l’I. è abitualmente assunto nell’accezione più
moderata che si è proposta; e in tal senso è il fondamento teoretico che il
libe- ralismo si è dato al suo primo affacciarsi nel mondo moderno. È difatti
il presupposto comune del giusnaturalismo, del contrattualismo, del liberismo e
della lotta contro lo Stato che costituiscono gli aspetti fondamentali della
prima fase del liberalismo (v.). 1° Il giusnaturalismo consiste nel riconoscere
all'individuo diritti originari e inalienabili che egli conserva, sia pure in
forma diversa o limitata, in 479 tutti i corpi sociali che entra a comporre (v.
GIUSNA- TURALISMO). 2° Il contrattualismo consiste nel considerare la società
umana e lo Stato come risultato di una convenzione fra gli individui: dottrina
che nell’età moderna cioè a cominciare dalle Vindiciae contra tyrannos (1579)
dei Calvinisti di Ginevra è stata spesso adoperata come negazione
dell’assolutismo statale o strumento per limitarlo (v. CONTRAT- TUALISMO). 3°
Il liberismo economico, proprio dei fisio- cratici e della scuola classica
dell'economia poli- tica, è la lotta contro l’ingerenza dello Stato negli
affari economici e la rivendicazione all’individuo dell’iniziativa economica.
Questo è un aspetto ca- ratteristico del liberalismo individualistico (v. Eco-
NOMIA; LIBERALISMO). 4° La lotta contro lo Stato e la tendenza a stabilire
limiti all’azione dello Stato è il carattere globale dell’individualismo. In
questo senso uno dei più significativi documenti del liberalismo mo- derno è
l’opera di SPENCER, L’uomo contro lo Stato (1884) nel quale viene combattuta
l’ingerenza dello Stato (quindi anche del Parlamento) anche nel dominio
dell’igiene e dell’istruzione pubblica, ol- trechè nel dominio economico. Il
postulato soggiacente a tutti questi diversi aspetti dell’I. è la coincidenza
dell'interesse dell’in- dividuo con l'interesse comune o collettivo. L'or- dine
naturale che Adamo Smith riteneva nella Ricchezza delle Nazioni (1776) esser
proprio dei fatti economici, serviva appunto a garantire quella coincidenza. In
questa stessa coincidenza credevano Geremia Benthan e Giacomo Mill. Quando, con
l’osservazione delle anomalie dell’ordine economico e con il riconoscimento che
la semplice limitazione dei poteri dello Stato non elimina nè queste ano- malie
nè il disordine o le disuguaglianze sociali, questa credenza cominciò a
scuotersi, la fase in- dividualistica del liberalismo venne al termine e
s’iniziò quella che si appellava all’azione dello Stato e tendeva perciò ad
esaltare lo Stato stesso. Da questo nuovo punto di vista l’I. fu contrasse-
gnato e criticato: come «atomismo» perchè pre- tendeva far nascere la società
da un insieme di atomi sociali, gli individui; come «anarchismo» perchè
pretendeva che l’individuo non sottostasse all’azione dello Stato; e come
«egoismo» perchè voleva che le attività economiche si volgessero se- condo le
direttive dell’interesse privato. In tal modo però venivano trascurati i motivi
storici che avevano provocato l'indirizzo individualistico del liberalismo e
veniva inconsapevolmente preparata la via a nuove vittorie dell’assolutismo
statalista. INDIVIDUALITÀ (lat. Individualitas; ingl. In- dividuality; franc.
Individualité; ted. Individualitàt). 480 Termine di origine medievale: il modo
d’essere dell’individuo. INDIVIDUAZIONE (lat. Individuatio; inglese
Individuation; franc. Individuation; ted. Individua- tion). Il problema dell’I.
è il problema della costi- tuzione dell’individualità a partire da una sostanza
o natura comune: per es., della costituzione di questo uomo o questo animale a
partire dalla so- stanza «uomo»? o sostanza «animale». Il primo a formulare il
problema fu Avicenna (v. ARABA, FiLosoria) dal quale fu trasmesso alla
Scolastica cristiana. Il presupposto da cui esso nacque è il principio della
necessità della sostanza, che Avi- cenna esprime dicendo: « Tutto ciò che è, ha
una sostanza per la quale è ciò che è e per la quale è la necessità e l’essere
di ciò che è» (Logica, I, ed. Venezia, 1508, fol. 3 v.). In base a questo prin-
cipio, «l’animale è in sè qualcosa ed è la stessa cosa, sia che sia percepito
sia che sia appreso dal- l'intelletto; ed in sè non è nè universale nè singo-
lare » (/bid., III, fol. 12 r.). Ma se è così, che cosa lo fa essere
individuale, cioè che cosa fa della sostanza « animale» questo o quell’animale?
Ecco, secondo Avicenna, il problema dell’individuazione. Ed Avicenna trovava
nello stesso Aristotele la risposta al problema: l’individualità dipende dalla
materia. Aristotele infatti aveva detto: « Tutte le cose che sono numericamente
molte hanno ma- teria: giacchè il concetto di tali cose, per es., del- l’uomo,
è uno e identico per tutte, mentre Socrate (che ha materia) è unico +» (Mer.,
XII, 8, 1074 a 33). Questa soluzione viene accettata da Avicenna (/n Met., XI,
1) e attraverso quest’ultimo da Alberto Magno (/n Mer., III, 3, 10) e da molti
altri scolastici. S. Tommaso presentò una variante di questa so- luzione,
affermando che il principio di I. non è la materia comune (giacchè tutti gli
uomini hanno carne e ossa e quindi non si diversificano in questo); ma la
materia signata o, come egli anche dice, «la materia considerata sotto
determinate dimen- sioni» (De ente et essentia, 2). In altri termini, un uomo è
diverso dall'altro perchè unito a un determinato corpo, diverso per le
dimensioni, cioè per la sua situazione nello spazio e nel tempo, da quello
degli altri uomini (S. 7A., III, q. 77, a. 2). Questo stesso tipo di soluzione
si trova ri- prodotto nell’età moderna da Schopenhauer che, considerando la
volontà come la sostanza unica e comune di tutti gli esseri, vide il principio
d’I. nello spazio e nel tempo. « Infatti, egli disse, per mezzo dello spazio e
del tempo, ciò che è tutt'uno nell’essenza e nel concetto apparisce invece
diverso, come pluralità giustapposta e succedentesi» (Die Welt, I, $ 23).
Dall’altro lato, la corrente agostiniana della scolastica fu portata a
riconoscere il principio di I. INDIVIDUAZIONE nella forma, più che nella
materia, delle cose. Bonaventura riteneva che la forma è l’essenza che
restringe e definisce la materia ad un determinato essere; e poneva il
principio d’I. nella comunica- zione (communicatio) tra la materia e la forma
in quanto l’individuo è un hoc aliquid in cui l’hoc è costituito dalla materia,
l’aliguid dalla forma (In Sent., III, d. 10, a. 1, q. 3). Allo stesso tipo di
soluzione appartiene l’interpretazione che molti sco- lari di Duns Scoto
dettero della haecceitas come di una forma finale che completa e integra una
serie di forme costitutive dell’oggetto naturale (cfr. Herveus NATALIS, De
pluralitate formarum, 5). Infine una terza soluzione del problema è quella
autenticamente scotistica. Duns Scoto nega che la materia o la forma possano
valere come principio d’individuazione. La materia, che è il soggetto
indistinto, non può essere il principio della distin- zione e della diversità
(Op. Ox., II, d. 3, q. 5, n. 1). La forma è poi la stessa sostanza o natura
comune che è antecedente (e indifferente) sia all’universalità che
all’individualità. L’individualità consiste invece in una « ultima realtà dell’ente
» la quale determina e contrae la natura comune all’individualità, ad esse hanc
rem. Quest'ultima realtà, o come egli anche la chiama «entità positiva »
(/bid., II, d. 3, q. 2), è la determinazione ultima e compiuta della materia,
della forma e del loro composto. Da questo punto di vista l’individuo non è
caratteriz- zato dalla semplicità della sua costituzione ma piut- tosto dalla
complessità e ricchezza delle sue deter- minazioni. Come si è detto, il
problema dell’I. nasce dal carattere privilegiato attribuito alla sostanza
comune che esisterebbe in qualche modo prima e indipenden- temente dagli
individui. Il problema pertanto sparisce quando viene negato il carattere
privilegiato della sostanza comune: il che accade col nominalismo empiristico
dell’ultima scolastica. Ockham riconosce nella sostanza comune una forma
dell’universale e la coinvolge nella negazione recisa di ogni realtà
universale: « Nessuna cosa fuori dell’anima, nè di per sè nè per alcunchè di
reale o di mentale che le venga aggiunto, e comunque la si consideri o la
s’intenda, è universale: giacchè tanta è l’impossi- bilità che una cosa fuori
dell’anima sia in qualche modo universale (se non per convenzione arbitraria,
al modo in cui la voce ‘uomo che è singolare diventa universale) quanta è
l’impossibilità che l’uomo, per qualsiasi considerazione o secondo qualsiasi
essere, sia l’asino» (In Sent., I, d. 2, q. 7, S-T). Da questo punto di vista
il problema stesso dell’I. si dissolve. Dice ancora Ockham: « È da ritenersi
indubitabilmente che qualsiasi cosa esistente immaginabile, di per sè, senza
che nulla le venga aggiunto, è una cosa singolare ed una di INDIVIDUO numero:
sicchè nessuna cosa immaginabile è sin- golare per qualcosa che le venga
aggiunta, ma la singolarità è una proprietà che appartiene imme- diatamente a
ogni cosa, perchè ogni cosa è di per sè o identica o diversa dall'altra »
(Expositio aurea. Liber Predicabilium, Proemium). Quando Leibniz in uno dei
suoi primi scritti affermava che « ogni individuo è individuato dalla sua totale
entità » non faceva che esprimere in termini scotistici la stessa posizione di
Ockham, come egli stesso riconosceva (De Principio Individui, 1663, $ 4):
giacchè l’entità totale non è altro che la stessa cosa esistente in quanto
tale. B la stessa implicita negazione del problema dell’individuazione si può
scorgere nella soluzione apparente che a questo problema dà Wolff: « Il
principio d’I. è la determinazione com- pleta di tutte le cose che sono
inerenti a un ente in atto» (Ontolog., $ 229). D'altra parte Locke aveva detto:
«Da ciò che si è detto è facile sco- prire cosa sia il principium
individuationis intorno al quale tanto si è indagato: è chiaro che esso è
l'esistenza stessa, la quale determina un essere, di qualunque specie, in un
particolare tempo e in un particolare luogo, incomunicabili a due esseri della
medesima specie » (Saggio, II, 27, 4). Queste sedicenti «soluzioni » in realtà
sono ne- gazioni del problema: il quale sparisce completa- mente (salvo che in
rare eccezioni) nella filosofia moderna per l’avvenuta dissoluzione del suo
presup- posto: la priorità ontologica della sostanza comune. INDIVIDUO (gr.
&topov; lat. Individuum; in- glese /ndividual; franc. Individu; ted.
Individuum). In senso fisico: l’indivisibile, ciò che non può es- sere
ulteriormente ridotto con un procedimento di analisi. In senso logico:
l’impredicabile, ciò che non si può predicare di più cose. Per Aristotele VI.
è, nel primo senso, la specie, in quanto, ri- sultando dalla divisione del
genere, non può essere a sua volta divisa (Anal. Post., II, 13, 96b 15; Mer.,
V, 10, 1018 b 5). Alla determinazione della indivisibilità, i logici del v
secolo aggiunsero, per caratterizzare l’I., quella della impredicabilità. Dice
Boezio: «Si dice I. ciò che non si può dividere per nulla, come l’unità o la
mente o ciò che non si può dividere per la sua solidità, come il dia- mante; o
ciò che non si può predicare di altre cose simili, come Socrate » (Ad Isag.,
II, in P. L., 64, col. 97). Questa notazione divenne fonda- mentale per la logica
medievale che l’utilizzò per definire I°I.: «I. è ciò che si predica di una
sola cosa, come Socrate e Platone», dice Pietro Ispano (Summ. Log., 2.09). S.
Tommaso parla di un I. vago (vagum), che corrisponde all’individualità della
specie e di un I. singolo: «L’I. vago, per es., l’uomo, significa una natura
comune con un de- terminato modo d'essere che compete alle cose 31 — ADDAGNANO,
Dizionario di filosofia. 481 singole, cioè che sia sussistente per sè e
distinto dagli altri. Ma l’I. singolo significa invece qualcosa di determinato
e che distingue; così il nome So- crate significa questa carne e questo volto »
(S. 7h., I, q. 30, a. 4). L’I. vago non è ovviamente che l’unità solo
numericamente distinguibile da altre unità. E così infatti lo definiva Duns
Scoto: « I., cioè uno di numero, si dice ciò che non è divisibile in molte cose
e si distingue numericamente da ogni altra » (Ir Met., VII, q. 13, n. 17).
Tuttavia nello stesso Duns Scoto ci sono le pre- messe di un concetto diverso
dell’individuo. Questo è caratterizzato, nel suo modo d'essere cioè nella sua
singolarità, da una determinazione ultima o « ultima realtà » della natura che
lo costituisce (vedi INDIVIDUAZIONE): sicchè include un insieme illi- mitato di
determinazioni, in virtù delle quali la natura comune si contrae sino a
diventare questo determinato ente. Da questo punto di vista, l’I. non è
caratterizzato dalla sua indivisibilità ma dalla infinità delle sue
determinazioni. Questo concetto venne espresso chiaramente da Leibniz. « Per
quanto possa sembrare paradossale, egli diceva, ci è im- possibile avere la
conoscenza degli I. e trovare il mezzo di determinare esattamente
l’individualità di una cosa, a meno di non considerarla in se stessa. Infatti,
tutte le circostanze possono ritornare; le differenze minime ci sono
insensibili; il luogo © il tempo ben lungi dall’essere determinanti, hanno
bisogno essi stessi d’essere determinati dalle cose che contengono. Ciò che v'è
di più considerevole in questo è che l’individualità involge l’infinito e che
solo colui che è capace di comprenderlo può avere la conoscenza del principio
di individuazione di questa o quella cosa: il che deriva, a compren- derlo
sanamente, dall’influenza che tutte le cose dell'universo hanno l’una
sull’altra. È vero che non sarebbe così, se ci fossero gli atomi di Demo-
crito; ma allora non ci sarebbe neppure differenza tra due I. diversi della
stessa figura e della stessa grandezza » (Nouv. Ess., III, 3, $ 6). Il
presupposto di questa dottrina è che in natura esistono sol- tanto I. cioè cose
singole: presupposto che, insieme con gli altri punti principali, fu espresso
con tutta chiarezza da Wolff. Questi comincia con l’affer- mare che I’I. è «ciò
che percepiamo col senso interno o col senso esterno o che possiamo im-
maginare, in quanto è una cosa singola» (Log., $ 43), per procedere a definire
l’I. come « l’ente che è determinato sotto tutti i rapporti (ens omni- mode
determinatum) cioè nel quale sono determinate tutte le cose che ad esso
ineriscono » (/bid., $ 74). Questa nozione dell’I. come di ciò che è assolu-
tamente o infinitamente determinato è stata spesso utilizzata dalla metafisica
moderna. È stata per l'appunto questa nozione che ha permesso ad 482 Hegel (e a
molti altri dopo il suo esempio) di par- lare di «I. universale» senza
avvolgersi in una contraddizione nei termini. « Il compito di accom- pagnare
l’I. dal suo stato incolto fino al sapere, dice Hegel, era da intendersi nel
suo senso generale e consisteva nel considerare l'I. universale, lo Spi- rito
autocosciente, nel suo processo di formazione. Per ciò che concerne la
relazione di quei due modi di individualità, nell’I. universale ogni momento si
mostra nell’atto in cui guadagna la forma con- creta e la sua propria
configurazione. L’I. partico- lare è lo spirito non compiuto: una figura
concreta, in tutto il cui essere determinato domina una sola determinatezza e
nella quale le altre sono presenti soltanto di scorcio» (Phanomen. des Geistes,
Pref. II, $ 3; trad. ital., I, pag. 24). Dal punto di vista del concetto di I.
come infinità di determinazioni, Hegel poteva certamente parlare di I. univer-
sale: giacchè un'infinità di determinazioni può essere proprio solo di un I.
assoluto o infinito. Di fronte ad esso, l’I. finito è, come dice Hegel, quello
caratterizzato da una sola determinazione e a cui le altre sono presenti solo
di scorcio. Allo stesso concetto dell’I. fa riferimento Bergson quando afferma
che « l’individualità comporta una infinità di gradi e che in nessuna parte,
neanche nell’uomo, essa è realizzata pienamente » (Évo/. Créatr., cap. I, ed.
1911, pag. 13). Ovviamente, questo concetto dell’I. porta o ad ipostatizzare
l’individualità di un I. assoluto, come ha fatto Hegel o a dichiararla
irraggiungibile, come ha fatto Bergson. Ma questo appunto dimostra che si
tratta di un concetto in- servibile. Nella filosofia contemporanea pertanto
l’I. (come la nozione analoga di elemento [v.]) viene definito rispetto alle
esigenze prevalenti in questo o quel campo d'indagine, o meglio rispetto a
questa o a quella esigenza analitica. Nel campo morale o politico l'’I. è la
persona. Nel campo biologico, l’I. può essere per certi scopi l’organismo, per
altri scopi la cellula. Ma è soprattutto nel campo delle scienze storiche che
la nozione di I. è stata utilizzata dalla filosofia e dalla metodologia con-
temporanea. Windelband (Praludien, II, pag. 145) e Rickert (Grenzen der
naturwissenschaftlichen Be- griffsbildung, pag. 420) hanno messo in luce il
carattere individualizzante delle scienze dello spi- rito, di fronte al carattere
generalizzante delle scienze naturali. La conoscenza storica mira a rappresen-
tare l'I. nel suo carattere singolare e irrepetibile, cioè non come il caso
particolare di una legge, ma come irriducibile agli altri I. con cui è in
connessione causale. L'I., che è in questo caso l'evento storico (fatto,
persona, istituzione, ecc.) è ca- ratterizzato, da questo punto di vista, da
due caratte- ristiche: la singolarità e la irrepetibilità (v. STORIA).
INDUZIONE INDUZIONE (gr. trayovh; lat. Inductio; in- glese /nduction; franc.
Induction; ted. Induktion). « L’I. è il procedimento che dai particolari porta
all’universale »: questa definizione di Aristotele (Top., I, 12, 105a 11) ha
trovato concordi tutti i filosofi. Aristotele stesso vede nell’I. una delle due
vie attraverso le quali riusciamo a formare le nostre credenze; l’altra è la
deduzione (sillogismo) (An. Pr., II, 23, 68 b 30). Egli inoltre attribuisce a
Socrate il merito di aver scoperto i « ragionamenti induttivi » (Met., XIII, 4,
1078 b 28). Tra VI. e il sillogismo, Aristotele stabilisce tuttavia una grande
differenza di valore. Nel sillogismo deduttivo (« Tutti gli uomini sono
animali, Tutti gli animali sono mortali, Dunque tutti gli uomini sono mortali»)
il termine medio (ani- male) costituisce la sostanza o la ragion d'essere della
connessione necessaria tra i due estremi: gli uomini sono mortali perchè sono
sostanzialmente animali. Nel ragionamento induttivo invece (s L'uomo, il ca-
vallo e il mulo sono longevi, L’uomo, il cavallo e il mulo sono animali senza
fiele, Dunque gli animali senza fiele sono longevi »), il termine medio (l’es-
sere senza fiele) compare nella conclusione: il che vuol dire che esso non è un
perchè sostanziale ma un semplice fatto (An. Pr., II, 23, 68b 15). L’indu-
zione è quindi priva di valore necessario o dimo- strativo, per quanto sia più
chiara del sillogismo; e il suo ambito di validità rimane quello del fatto cioè
della totalità dei casi in cui è stata effettiva- mente riscontrata valida.
Essa può perciò essere usata a fini di esercizio, nella dialettica, o a fine di
persuasione, nella retorica (Rher., I, 2, 1356b 13): ma non costituisce
scienza, perchè la scienza è necessariamente dimostrativa (An. Post., I, 2, 71
b 19). Nella filosofia post-aristotelica gli Epicurei ritennero l'I. l'unico
procedimento d’inferenza le- gittima, mentre gli Stoici ne negarono il valore.
Il De Signis di Filodemo ci dà un preciso resoconto della polemica che ci fu a
questo proposito tra le due scuole. Gli Stoici dicevano che non basta constatare
che gli uomini che ci sono intorno sono mortali per dire che in ogni dove gli
uomini sono mortali: bisognerebbe stabilire che gli uomini sono mortali proprio
in quanto uomini, per dare a quell’inferenza la sua necessità (De Signis, III,
35; IV, 10; De Lacy, Philodemus on Methods of Inference, 1941, pag. 31). Il
problema dell’I. si affacciava già in questa difficoltà proposta dagli Stoici.
Ad essi gli Epicurei opponevano che, finchè niente si oppone alla conclusione,
la generalizza- zione induttiva è valida (Z/bid., VI, 1-14; XIX, 25-36; De
Lacy, pag. 34, 66). Sesto Empirico non faceva che ripresentare in forma più
radicale la critica degli Stoici, partendo dalla distinzione tra I. completa e
I. incompleta. « Poichè vogliono, egli diceva, confermare per via dell’I.
l’universale INDUZIONE movendo dai particolari, faranno questo percor- rendo o
tutti i particolari o soltanto alcuni. Se soltanto alcuni, l’I. sarà incerta,
rimanendo possibile che all’universale contrasti qualcuno dei particolari
tralasciati nell'induzione. Se tutti, intraprenderanno una fatica impossibile
perchè i particolari sono in- finiti e illimitati » (Jp. Pirr., II, 204). Era
stato Ari- stotele ad affermare che l’I. si facesse movendo da tutti i casi
particolari possibili (Ar. Pr., II, 23, 68 b 29); mentre gli Epicurei avevano
affermato il valore dell’I. incompleta. Bacone pertanto non fece che riprendere
l'alternativa epicurea quando di- chiarò puerile l’I. completa o per
enumerationem simplicem. «Questa I., dice Bacone, può essere rovesciata da una
qualsiasi istanza contraria; inoltre considera sempre le stesse cose e non
raggiunge il suo fine. Per le scienze occorre invece una forma d’I. che vagli
le esperienze e concluda necessaria- mente, dopo le debite esclusioni ed
eliminazioni » (Nov. Org., Distrib. Op.). Questa forma di I. che Bacone, sia
pure dubitativamente, fa risalire a Platone (/bid., 105) deve invertire
l’ordine della dimostrazione. « Finora, dice Bacone, si usava tra- passare di
volo dai dati del senso e dalle cose particolari alle generalissime, come a
poli fissi della disputa, facendo poi da queste derivare tutte le altre, per
via delle cose intermedie. È questa una scorciatoia, ma troppo scoscesa, per la
quale non si incontra mai la natura, ma soltanto questioni. Si devono invece
estrarre gli assiomi per gradi successivi; e solo da ultimo giungere a quelli
ge- neralissimi i quali non sono semplici nozioni ma fatti ben determinati e
tali che la natura li riconosce veramente per suoi e inerenti all’essenza delle
cose » (/bid., Distrib. Op.). In altri termini la cer- tezza dell’I. consiste,
secondo Bacone, nel fatto che da ultimo l’I. mette capo alla determinazione
della forma della cosa naturale, intendendosi per forma «la differenza vera o
natura naturante o fonte di emanazione » che spieghi il processo latente e lo
schematismo occulto dei corpi (2bid., II, 1). In tal senso, la forma non è che
la stessa «so- stanza » aristotelica: il principio o ragion d’essere della
cosa. Aristotele riteneva che tale sostanza si potesse cogliere col
procedimento sillogistico cioè intuitivo-dimostrativo; Bacone ritiene che essa
si può cogliere con un procedimento induttivo che sceveri e ordini le
esperienze. La vera differenza pertanto tra Bacone e Aristotele è che Bacone
crede che la nuova disciplina del procedimento induttivo da lui proposta
(disciplina che consiste nella formazione di tavole che scelgano e classi-
fichino gli esperimenti e nella istituzione di espe- rimenti di controllo)
renda possibile attingere con certezza quella sostanza cui, secondo Aristotele,
l’I. può solo avvicinare in modo incerto o appros- 483 simativo, e che può
essere attinta nella sua necessità solo dal procedimento deduttivo. Per questa
in- terpretazione del procedimento empiristico nei ter- mini della metafisica
aristotelica, Bacone ha potuto riconoscere all’I. incompleta quella « necessità
» che Aristotele riconosceva al procedimento sillogistico. Da questo punto di
vista, il problema dell’I., nei termini in cui l’aveva prospettato la critica
degli Stoici e di Sesto Empirico non sorgeva neppure. Dall’altro lato il
cartesianesimo non era interessato a porsi il problema dell’I., riservando ad
essa quella stessa funzione preparatoria e subordinata che Aristotele le aveva
riconosciuto. « L’I. da sola, dice la Logica di Portoreale, non è mai un mezzo
certo per acquistare una scienza perfetta perchè la considerazione delle cose
singole è solo una occasione per il nostro spirito di fare attenzione alle sue
idee naturali, secondo le quali giudica della verità delle cose in generale.
Così è vero, per es., che io non avrei mai preso in considerazione la natura
del triangolo se non avessi visto un trian- golo che mi ha dato occasione di
pensarci; tuttavia non è stato l’esame particolare di questi triangoli a farmi
concludere generalmente e certamente che l’area di tutti i triangoli è uguale
al rettangolo co- struito sulla base diviso la metà dell’altezza (giacchè
quest’esame è impossibile) ma la sola considera- zione di ciò che è incluso
nell’idea del triangolo, che trovo nel mio spirito» (ARNAULD, Log., III, 19, $
9). Pertanto, solo dopo che le scienze avevano incominciato ad usare ampiamente
il pro- cedimento induttivo, come avvenne nella seconda metà del ’600, il
problema dell’I. come problema della validità del procedimento induttivo e del
di- ritto di usarlo, fu di nuovo posto ed affrontato. A porlo chiaramente fu,
allora, il dubbio scettico di Hume. Diceva Hume: « Tutte le inferenze tratte
dall’esperienza suppongono, come loro fondamento, che il futuro rassomiglierà
al passato e che poteri simili saranno uniti a simili qualità sensibili. Se ci
fosse qualche sospetto che il corso della natura potesse cambiare e che il
passato non servisse di regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe
inutile e non potrebbe dare origine ad alcuna in- ferenza o conclusione. È
impossibile perciò che argomenti tratti dall’esperienza possano provare la
rassomiglianza del passato con il futuro: giacchè tutti gli argomenti siffatti
sono fondati sulla suppo- sizione di quella rassomiglianza. Sia pure ammesso
che il corso delle cose è stato sempre regolare: questo solo, senza alcun
argomento o inferenza nuova, non prova che per il futuro continuerà così» (Ing.
Conc. Underst., IV, 2). In questi termini il problema dell’I. è stato
costantemente posto nel mondo moderno. Ad esso sono state date tre soluzioni
fondamentali: 484 1° la soluzione oggettivistica; 2° la soluzione
soggettivistica; 3° la soluzione pragmatica. Que- st’ultima soluzione segna il
passaggio dalla con- cezione necessitaristica (presupposta dalle altre due) ad
una concezione probabilistica dell’induzione. 1° La soluzione oggettivistica
consiste nel ri- tenere che esiste un’uniformità della natura che consente la
generalizzazione delle esperienze uni- formi. Questa soluzione è assai antica
perchè si trova sostenuta da Filodemo nella sua polemica contro gli Stoici. «
Dal fatto che tutti gli uomini della nostra esperienza, diceva Filodemo, sono
si- mili anche rispetto alla mortalità, noi inferiamo che tutti gli uomini
universalmente sono soggetti alla morte, dato che nulla si oppone a questa
inferenza o ci mostra che gli uomini non siano suscettibili di morte. Facendo
appello a questa simiglianza, dichiariamo che, nei rispetti della mor- talità,
gli uomini fuori della nostra esperienza sono simili a quelli che si
manifestano nella nostra esperienza » (De Signis, XVI, 16-29; De Lacy, /bid.,
pag. 58 sgg.). In questo passo ovviamente il diritto dell’inferenza induttiva
viene fondato sulla unifor- mità rivelata dalle somiglianze. In modo analogo,
alla fine della Scolastica, Duns Scoto e Ockham po- nevano a base dell’I. il
principio di causalità. Duns Scoto diceva: « Delle cose conosciute per
esperienza io dico che, sebbene l’esperienza non si abbia di tutte le cose
singolari nè sempre ma solo per lo più, l’esperto tuttavia conosce
infallibilmente che è così, sempre e in tutti i casi, sulla base di questa
proposizione esistente nell'anima: tutto ciò che deriva per lo più da una causa
non libera è l’ef- fetto naturale di questa causa » (Op. Ox., I, d. 3, q. 4, n.
9); nel qual passo, effetto narurale significa effetto uniforme perchè
necessario. Ockham a sua volta poneva come fondamento dell’I. il principio «
Cause della stessa natura (ratio) hanno effetti della stessa natura » (/n
Sent., Prol., q. 2 G). E la mede- sima soluzione veniva riproposta nel sec. xrx
da Stuart Mill. Il fondamento dell’I. è il principio delle uniformità delle
leggi di natura e tale principio non è che lo stesso principio di causalità.
Questo a sua volta, non potendo essere ridotto a un istinto infal- libile del
genere umano o a un'intuizione imme- diata, non può essere che il prodotto di
un’indu- zione. « Noi arriviamo a questa legge generale, dice Stuart Mill,
mediante generalizzazione da molte leggi di generalità inferiore. Non avremmo
mai avuto la nozione della causazione (nel significato filosofico del termine)
come condizione di tutti i fenomeni, se molti casi di causazione o in altre
parole molte parziali uniformità di successione non ci fossero diventate
precedentemente familiari. La più ovvia delle uniformità particolari suggerisce
e rende evi- dente l’uniformità generale e l’uniformità generale, INDUZIONE una
volta stabilita, ci permette di dimostrare le altre uniformità particolari
dalle quali risulta » (Logic, III, 21, $ 2). L’uniformità della natura non è
quindi che una semplice I. per enumerationem simplicem. Il circolo vizioso è
evidente. A questo circolo si riduce ogni analoga soluzione del pro- blema. 2°
La seconda soluzione del problema dell’I. è quella soggettivistica o critica
propria del kantismo. Essa fu prospettata dallo stesso Kant come risposta al
dubbio di Hume sulla possibilità della generaliz- zazione scientifica; e
consiste nell’ammettere l’uni- formità della struttura categoriale
dell’intelletto e perciò della forma generale della natura che da esso dipende.
Dice Kant: « Ogni percezione possi- bile, perciò tutto quello che può giungere
alla coscienza empirica — cioè tutti i fenomeni della natura quanto alla loro
unificazione — sottostanno alle categorie, dalle quali dipende la natura, con-
siderata semplicemente come natura in generale, come dal principio originario
della sua necessaria conformità a leggi (quale natura formaliter spectata). Ma
neanche la facoltà pura dell’intelletto arriva a prescrivere, mediante le sole
categorie, più leggi di quelle sulle quali riposa una natura in generale come
regolarità dei fenomeni nello spazio e nel tempo ». Le leggi particolari devono
quindi essere desunte dall’esperienza (Crif. R. Pura, $ 26). Questo significa
che la natura nella sua conformità alle leggi cioè nella sua uniformità,
dipende dalle ca- tegorie cioè dalla struttura uniforme dell’intelletto; e che
pertanto le uniformità o leggi che si possono ritrovare nell’esperienza sono
garantite dall’uni- formità della forma comune (intelletto-natura). Questa
dottrina è simmetrica e opposta a quella dell’uniformità naturale, ma il suo
significato è lo stesso. Una trascrizione in termini spiritualistici della
stessa tesi fondamentale è quella di Lachelier (Fon- damento dell’I., 1871),
secondo la quale la possibilità dell’I. poggia sull'ordinamento finalistico
dell’uni- verso cioè sul fatto che l’ordine della natura è stabilito dallo
spirito (Fondement de l’induction, Paris, 1907, pag. 12). A questo tipo di
soluzione si riducono tutte le giustificazioni spiritualistiche o idealistiche.
3° La giustificazione pragmatica è stata avan- zata, nella filosofia
contemporanea quando si è riconosciuta l’impossibilità di una giustificazione
teoretica ma non si è giunti a negare la legittimità del problema cioè della
richiesta di una giustifica- zione. La giustificazione è stata, in questa
direzione, cercata mediante un’interpretazione probabilistica dell’induzione.
La più semplice espressione della regola dell’I. probabilistica è forse quella
data da Kneale: « Quando abbiamo osservato un numero di cose « e trovato che la
frequenza della cose B INDUZIONE fra esse è f, assumiamo che P (a, 8) = f, cioè
che la probabilità che una cosa a sia 8 dev'essere fa» (Probability and
Induction, Oxford, 1949, pag. 230). Espressioni più complicate della stessa
regola sono state date da Lewis (Analysis of Knowledge, 1946, pag. 272) e da
Reichenbach (Theory of Probability, 1949, pag. 446; cfr. pure Experience and
Prediction, Chicago, 1938, pag. 339 sgg.). Ma tutte equivalgono a dire che,
quando un determinato carattere ri- corre in una certa proporzione dei campioni
esami- nati, si può assumere che questa proporzione valga per tutti gli altri
esempi del caso, salvo prova in contrario. Quando la proporzione è uguale al
cento per cento dei campioni esaminati, cioè quando il carattere in questione
ricorre in tutti, si ha il caso della generalizzazione uniforme o completa. È
questo il caso quando si afferma che «tutti gli uomini sono mortali » per il
fatto che l’essere mortale si è sempre trovato costantemente congiunto con
l’es- sere uomo. Dall'altro lato quando il valore nume- rico di quella
proporzione si assume come misura della possibilità che il carattere in
questione ricorra in un nuovo esempio, si ha un giudizio di proba- bilità (v.).
Ovviamente la generalizzazione completa o il giudizio di probabilità sono
aspetti della ge- neralizzazione statistica. Stando ciò, la giustifica- zione
dell’I. da un punto di vista pragmatico può essere fatta asserendo: a) che l’I.
è il solo mezzo di ottenere previsioni; 5) che essa è il solo metodo
suscettibile di autocorrezione. a) Dice Kneale: « L’I. primaria è una diret-
tiva razionale non perchè sia certo che essa conduce al successo ma perchè è il
solo modo di tentare di fare ciò di cui abbiamo bisogno, cioè previsioni
esatte» (Op. cif., pag. 235). Contro questo argo- mento, che è condiviso da
molti (cfr., per es., REI- CHENBACH, Op. cif., pag. 475), Black osserva che, se
l’I. è l’unico mezzo per ottenere previsioni, il successo delle previsioni
stesse non la conferma, come non la confuta l’insuccesso di esse (Problems of
Analysis, 1954, pag. 174 sgg.). L'argomento, come quello analogo che I’I. è il
solo metodo per controllare gli altri metodi di previsione, ha la pretesa,
osserva Black, di giustificare deduttivamente l’I. stessa cioè di giustificarla
sulla base di argo- menti che hanno, come i loro stessi proponenti riconoscono
(REICHENBACH, Op. cit., pag. 479; J. O. Wispom, Foundations of Inference in
Natural Science, 1953, pag. 229) carattere analitico o tauto- logico. Gli
argomenti genuinamente pratici, osserva ancora Black, non sono deduttivi. Nella
vita quoti- diana, in una situazione che esige una decisione, gli indizi
indicano, con qualche grado di sicurezza, quella che dovrebbe essere l’azione
adatta; ma questa non è deducibile da quella indicazione nè la condotta
contraria implica contraddizione (Pro- 485 blems of Analysis, pag. 185). Questo
tipo di argo- mento non ha pertanto valore come giustificazione del procedimento
induttivo. b) Il secondo argomento fondamentale per la giustificazione pratica
dell’I. è la sua capacità di autocorrezione. Peirce per primo ha insistito su
questo carattere, scorgendo in esso l’essenza stessa dell’I. (Coll. Pap.,
2.729). E Reichenbach ha detto: «Il procedimento induttivo ha il carattere di
un metodo di rrial and error così progettato che per le serie che abbiano un
limite delle frequenze esso condurrà automaticamente al successo in un nu- mero
finito di passi. Può essere chiamato un metodo autocorrettivo o asintotico »
(Op. cit., pag. 446, $ 87; cfr. KNEALE, Op. cit., pag. 235). Contro questo
argomento Black ha osservato che il termine auto- correttivo non è esatto,
giacchè è vero che l’I. in- clude la possibilità costante della revisione ma
per dire che le revisioni siano correzioni, sarebbe ne- cessario mostrare che
esse sono progressive cioè dirette in un’unica direzione e in quella buona. Ma
è proprio questa sicurezza che manca (Problems of Analysis, pag. 170). Ora si
può concedere a Black che neanche questo argomento sia veramente una
«giustificazione » dell’I. nel senso universale o deduttivo della parola «
giustificazione ». Ma che l’autocorreggibilità sia il carattere del
procedimento induttivo come di ogni procedimento scientifico è cosa che non può
essere messa in dubbio; ed è d'altronde il carattere al quale lo stesso Black
fa appello per caratterizzare il metodo scientifico (Op. cit., pag. 23). La
revisione, che l’I. rende pos- sibile e a cui anzi l’intero suo procedimento è
intrinsecamente subordinato, è una correzione nel senso preciso del termine,
cioè come eliminazione di un errore rivelato dal procedimento stesso. Una
modificazione che non fosse revisione o correzione in questo senso non sarebbe
richiesta ed effettuata dall’induzione. Con tutto ciò, lo stato attuale del
problema dell’I. sembra bene espresso dalla conclusione di Black che una
giustificazione dell’I. non solo è impossibile, ma che il problema di essa è
privo di senso, se per giustificazione s’intende la dimostra- zione della
validità infallibile del procedimento in- duttivo. « Insistere che vi
dev'essere una conclusione sarebbe come dire che, poichè un buon giocatore di
scacchi conosce i movimenti da farsi in una partita di scacchi, egli dev’essere
anche capace di sapere i movimenti da farsi in una scacchiera con un solo
pezzo. Ma questo non è un problema di scacchi e non c’è niente che il giocatore
di scacchi debba risolvere. Il problema di ciò che dobbiamo inferire quando
conosciamo solo che alcuni A sono B non è un genuino problema induttivo e non
c’è modo di risolverlo salvo che riconoscendo 486 che sarebbe inopportuno
tentarlo » (Op. cit., pa- gine 188-89; cfr. Language and Philosophy, 1952, cap.
IM. In altri termini, il problema dell’I. in generale come problema di inferire
il futuro dal passato o i casi non osservati da quelli osservati, è un problema
privo di senso per mancanza di dati. Se questi dati sono forniti, non esiste
più un pro- blema dell'I. ma problemi appartenenti ai domini delle singole
scienze. Si deve aggiungere tuttavia che l’eliminazione del problema dell’I.
nella sua forma classica non esime il filosofo dall’analisi dei proce- dimenti
induttivi adoperati dalle singole scienze, dal confronto di tali procedimenti e
dalle genera- lizzazioni che da tale confronto possono nascere. È chiaro
tuttavia che quest'ordine di ricerche, a tutt'oggi non ancora intraprese, non
condurrà mai a una giustificazione dell’induzione. La giustifica- zione
infatti, se fosse raggiunta, avrebbe per suo effetto immediato la eliminazione
di ogni rischio dei procedimenti induttivi e la riduzione di questi
procedimenti alla certezza e alla necessità di quelli deduttivi. In realtà i
procedimenti scientifici e in generale i comportamenti e le direttive razionali
dell’uomo, consistono nel limitare il rischio cioè nel renderlo calcolabile:
non nell’eliminarlo. I pro- blemi filosofici non possono quindi essere posti in
modo che la loro soluzione significherebbe l’elimi- nazione del rischio. Il
carattere chimerico di una simile impostazione fa vedere, meglio di ogni altra
cosa, l’illegittimità del problema della giustificazione dell’induzione. In
forma estrema questa tesi è stata espressa da Popper che ha considerato l’I.
come un semplice mifo, che non è un fatto psicologico, nè un fatto della vita
ordinaria nè una qualsiasi procedura scientifica; e ha ritenuto che la scienza
procede col metodo del trial and error cioè salta di colpo, anche da una
singola osservazione, a una congettura o a un’ipotesi che poi cerca di confutare
e che viene mantenuta finchè la confutazione non è riuscita (Conjectures and
Refutations, 1965, pa- gine Sl sgg.). INDUZIONE MATEMATICA (ingl. Ma-
thematical Induction; franc. Induction mathématique; ted. Mathematische
Induktion). Si indica con questo nome il principio che serve a stabilire la
verità di un teorema matematico in un numero indefinito di casi. Si chiama
anche principio di ricorrenza o ragionamento per ricorrenza (Porncaré, La
science et l’hypothèse, I, $ 3). Peano ha così definito il principio: « Sia S
una classe, supponiamo che O appartenga a questa classe e che tutte le volte
che un individuo appartenga a questa classe, anche quello seguente vi
appartenga; allora tutti i numeri appartengono a questa classe. Si chiama
principio d’I. questa proposizione » (Formul. Mat., $ 10). Il principio non ha
niente in comune con l’I. scientifica INDUZIONE MATEMATICA salvo il carattere
di generalizzazione (cfr. MORRIS R. CoHen-ERNEST NagEL, The Nature of a Logical
or Mathematical System, $ 6, in Readines in the Phil. of Science, 1953, pag.
144). INERENZA. V. Essere, 1, A). INERZIA (ingl. Inertia; franc. Inertie;
tedesco Tragheit). La storia di questo concetto fondamen- tale della meccanica
moderna deve molto alla filo- sofia. Alla fisica di Aristotele questo concetto
era estraneo perchè essa riteneva valido un teorema che lo esclude: il teorema
che «tutto ciò che si muove è mosso necessariamente da qualche cosa » (Fis.,
VII, 1, 241b 24). È ovvio che, se questo principio è vero, un corpo non può
persistere nel suo stato di movimento senza l’azione di un altro corpo. La
teoria dell’imperus, esposta dagli Scola- stici del sec. xIv, costituisce la
prima critica del principio aristotelico e il primo affacciarsi della nozione
di inerzia. A] principio aristotelico, Ockham aveva opposto l’esempio della
freccia, o di qual- siasi altro proiettile, a cui viene comunicato un impulso
che il proiettile conserva senza che il corpo che glielo ha comunicato lo
accompagni nella sua traiettoria (Zn Sent., II, q. 18, 26). Un discepolo di
Ockham, Buridano (sec. xiv) riprende questa dottrina e l’applica al movimento
dei cieli: questi possono benissimo essere mossi da un impeto loro comunicato
dalla potenza divina, impeto che si conserva perchè non viene diminuito o
distrutto da forze opposte (/n Phys., VIII, q. 12). Nicola di Oresme e Alberto
di Sassonia che appartennero anch’essi alla corrente ockhamistica che fiorì nel
sec. xIv nell’Università di Parigi riprendono e difen- dono questa teoria. Da
questa tradizione scolastica la nozione di I. passò nei fondatori della scienza
mo- derna, Leonardo e Galilei. Quest’ultimo si serve della nozione
costantemente e la appoggia a una specie di esperimento mentale. Parlando del
movimento di una palla perfetta su un piano assai liscio egli chiede: «Or
ditemi quel che accadrebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non
fosse nè acclive nè declive »; e risponde che «esso sarebbe perpetuo 1 (Op.,
VII, 273; cfr. VIII, pag. 243). Ma per quanto Galilei si servisse correttamente
della nozione di I., egli non ne formulò esplicitamente il relativo prin-
cipio; e il primo a formularlo fu in realtà Cartesio che stabili come «prima
legge della natura» il principio « Ciascuna cosa particolare continua ad essere
nel medesimo stato fintanto che può e non lo cambia se non per il suo incontro
con altre cose » (Princ. Phil., II, $ 37). Alcuni decenni dopo, ac- colto da
Newton come primo principio della dina- mica nei Principi matematici della
filosofia naturale (1687), il principio d’I. faceva il suo definitivo ingresso
nella scienza moderna, per la quale esso fu e rimane, più che una «legge di
natura+?, nel INFINITO senso in cui Cartesio intendeva il termine, o una verità
sperimentale, un postulato o principio stru- mentale che permette il calcolo
della forza (v.) o dell’energia (v.). Sulla teoria dell’impetus, cfr. DUHEM,
Études sur Léonard de Vinci, Parigi, 1909. INESPRIMIBILE (lat. Ineffabilis;
ingl. Inex- pressible; franc. Inexprimable; ted. Unaussprechlich). Nella
teologia mistica, a partire dalle antiche reli- gioni misteriosofiche, I. è ciò
che si rivela nel punto culminante dell’esperienza mistica, cioè nell’entu-
siasmo o nell’estasi (cfr. PLOTINO, Enn., VI, 9, 1l; Pseupo-DIONIGI, Myst.
Theol., I, 1; S. BONAVEN- TURA, /tinerarium Mentis in Deum, VII, 5; ecc.) Nella
filosofia contemporanea Wittgenstein, nella chiusa del Tractatus
logico-philosophicus (1922) am- metteva l’esistenza dell’I.: « C'è veramente
l’ine- sprimibile. Esso si mostra, è ciò che è mistico» (Tract., 6. 522). « Noi
sentiamo, egli diceva, che se tutte le possibili domande della scienza avessero
una risposta, i problemi della nostra vita non sa- rebbero nemmeno sfiorati.
Certo non rimarrebbe allora alcuna domanda; e questa è appunto la risposta »
(/bid., 6, 52). E il Tractatus si chiudeva con l’affermazione: « Di ciò di cui
non si può par- lare, si deve tacere» (/bid., 7). Dall'altra parte, Carnap
parlava di una « mitologia dell’I.» e con- siderava questa parola
particolarmente pericolosa perchè atta a produrre confusioni e incertezze.
L'enunciato « Vi sono oggetti I. », tradotto in lin- guaggio formale, suona,
per Carnap, semplicemente « Vi sono designazioni di oggetti che non sono de-
signazioni di oggetti» o « Vi sono enunciati che non sono enunciati » (Logische
Syntax der Sprache, 1934, $ 81; trad. ingl., pag. 314). INFERENZA (ingl.
Inference; franc. Inférence; ted. Inferiren). Nel latino medievale si trova
presso molti logici il termine inferre per indicare il fatto che, in una
connessione (o consequentia) di due proposizioni, il primo (antecedente)
implica (0 meglio contiene per « implicazione stretta ») il se- condo
(conseguente). Nella filosofia moderna il termine «I.» (preferito dagli
Anglosassoni) è di solito usato come sinonimo di « illazione » (prefe- rito
dagli Italiani), peraltro in un senso molto sciolto, che va da quello di
implicazione (v.), per es., in Jevons e in genere nei logici inglesi dell’800,
a quello di processo mentale operativo mediante il quale, partendo da certi
dati, si arriva per impli- cazione, o anche per induzione, ad una conclusione
(Stebbing, Dewey). Dice, ad es., Stuart Mill: « In- ferire una proposizione da
una o più proposizioni antecedenti; assentire o credere ad essa come con-
clusione da qualche cosa d’altro, questo è ragionare nel più esteso significato
del termine» (Logic, II, 1, 1). Nello stesso senso generalissimo la parola
viene adoperata da Peirce (Chance, Love and Logic, 487 cap. VI) e da molti
logici contemporanei, Lewis, Reichenbach, ecc. Dewey ha distinto l’I. come
relazione tra segno e cosa significata dall’implica- zione che sarebbe la
relazione tra i significati che costituiscono le proposizioni (Logic,
Introduzione; trad. ital., pag. 96); ma questa proposta non ha avuto sèguito.
a. P. INFINITESIMALE (lat. Infinitesimus; inglese Infinitesimal; franc.
Infinitésimal; ted. Infinitesimal). Una grandezza che può essere resa più
piccola di ogni grandezza assegnabile; o, come anche, meno propriamente, si
dice, una grandezza tendente a zero. Questo concetto fu conosciuto dai Greci
che l’utilizzarono spesso. Esso è presupposto dagli ar- gomenti di Zenone di
Elea contro il movimento (v. ACHILLE; DicoroMia; FRECCIA; STADIO); e fu
chiaramente espresso da Anassagora che disse: 4 Rispetto al piccolo non c'è un
minimo ma c’è sempre un più piccolo perchè ciò che esiste non può venire
annullato » (Fr. 3, Diels). Lo stesso concetto veniva espresso da Aristotele
(Fis., III, 7, 207 b 35). Gli ultimi scolastici ripresero questi concetti (cfr.
per tutti OCKHAM, /n Sent., I, d. 17, q. 8), che fu poi messo da Leibniz a
fondamento del calcolo I., il cui primo documento importante è la memoria dello
stesso Leibniz intitolata Nuovo metodo per î massimi e i minimi (1682).
INFINITO (gr. &respov; lat. /nfinitum; ingl. In- finite; franc. Infini;
ted. Unendlich). Il termine ha i seguenti significati principali che sono tra
loro variamente imparentati: 1° l’I. matematico che è la disposizione o la
qualità di una grandezza; 2° l’I. teologico che è l’illimitatezza di potenza;
3° I’I. metafisico che è l’assenza di compiutezza. 1° La concezione matematica
dell’I. ha ela- borato due diversi concetti di esso e cioè: a) il concetto
dell’I. potenziale come limite di certe ope- razioni sulle grandezze; 5) il
concetto dell’I. attuale come una specie particolare di grandezza. a) Il concetto
dell’I. potenziale è stato ela- borato da Aristotele. Aristotele negava che
I'I. potesse essere arruale cioè reale sia come realtà a sè (sostanza) sia come
attributo di una realtà (Fis., III, 5, 204a 7 sgg.). Questo vuol dire che l’I.
non è sostanza nè proprietà o determinazione sostanziale ma «esiste soltanto in
modo acciden- tale » (/bid., 204 a 28): cioè come disposizione delle grandezze.
Quale disposizione? Aristotele dà due significati fondamentali dell’I.: per il
primo, VI. è «ciò che per natura non può essere percorso » nel senso in cui la
voce è ciò che non può essere visto. Nel secondo, l’I. è ciò che si può
percorrere, ma non tutto, perchè è senza fine; e in questo senso è I. per
composizione o per divisione o per entrambe le cose (/bid., III, 4, 204a 3).
Ora VI. in senso matematico è soltanto quest’ultimo cioè l’I. che 488 si può
percorrere ma mai esaurientemente o com- pletamente. In questo senso l’I. è
tale «che si può prendere sempre qualcosa di nuovo, e ciò che si prende è
sempre finito ma sempre diverso. Sicchè non bisogna prendere l’I. come un
singolo essere, per es., un uomo o una cosa, ma nel senso in cui si parla di
una giornata o di una lotta, il cui modo d’essere non è una sostanza ma un
processo e che, se pure è finito, è incessantemente diverso » (/bid., III, 6,
206 a 27). Non è pertanto I. ciò al di fuori di cui non c’è nulla, come si
ritiene comunemente, ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualcosa; per
conseguenza l’I. rientra più nel concetto di parte che in quello di tutto (Zbid.,
IIl, 6, 206b 32; 207 a 27). Questo concetto aristotelico veniva uti- lizzato da
Lucrezio per difendere la dottrina epi- curea dell’infinità dello spazio ed
espresso con l'immagine di una freccia lanciata a partire dal- l'estremo
confine dell’universo, ipoteticamente am- messo: sia che la freccia incontri un
ostacolo, sia che proceda al di là, l’estremo confine dell’universo non è più
tale perchè è solo il punto di partenza della freccia (De rer. nat., I,
967-982). Anche in quest'immagine l’I. è ciò di cui si può prendere sempre una
parte, e ciò che si prende è sempre finito ma sempre diverso. Questo concetto
dell’I. è es- senzialmente negativo: consiste nella non esauri- bilità di certe
grandezze sottoposte a determinate operazioni che sono quelle della
composizione, cioè dell’aggiunta di una parte sempre nuova, e della divisione
in parti sempre nuove. La prima opera- zione tende all’infinitamente grande, la
seconda all’infinitamente piccolo (cioè all'infinitesimo [v.])): entrambe
definiscono il concetto dell’I. come ine- sauribilità di parti dentro parti. Ma
così inteso il concetto è ovviamente negativo: caratterizza l’ine- sauribilità
o incompletezza di una serie. Giusta- mente a questo proposito Plotino
osservava che l’I. è ciò che non può essere esaurito nella sua grandezza o nel
numero delle sue parti (Enn., VI, 9, 6). E Kant, dallo stesso punto di vista,
di- ceva: « Il vero (trascendentale) concetto dell’infinità è che la sintesi
successiva dell’unità nella misura- zione d'un quantum non può essere mai
compiuta » (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. 2, sez. 2). Questa specie di I. è
quella che i logici del Medioevo ave- vano chiamato I. sincategorematico
(syncategore- maticum): che è l’I. inteso come disposizione (non qualità) di un
soggetto e distinto dall’I. caregore- matico che sarebbe l’I. come qualità o
come so- stanza (Pietro IsPanO, Sum. Log., 12.57; OCKHAM, In Sent., I, d. 17,
q. 8). Era questo anche l’I. che nella matematica del "700 e della prima
metà del- l’800 fu definito mediante il concetto di limite (cioè come il campo
delle serie, delle successioni, ecc.) ma al quale i matematici di quel tempo
non rico- INFINITO nobbero il rango di un tipo di grandezza a sè stante. Diceva
Gauss in una lettera del 1831: « Protesto contro l’uso di una grandezza I. come
qualcosa di completo, uso che non venne mai ammesso nella matematica. L’I. è
soltanto una facon de parler; a voler essere rigorosi si parla in- vece di
limiti cui alcuni rapporti vengono vicini quanto si vuole, mentre ad altri
rapporti è per- messo crescere oltre ogni misura + (cfr. GEYMONAT, Storia e
filosofia dell’analisi infinitesimale, 1947, pag. 174-75). I Paradossi dell’I.
(1851) di Bernardo Bolzano segnano il primo avviamento decisivo verso un nuovo
concetto dell’infinito. 6) Il secondo concetto dell’I. è quello del- l’I.
categorico o (come meno propriamente si dice) attuale, cui solo la matematica
moderna ha dato forma rigorosa. A questo concetto tuttavia essa stessa è stata
avviata dalle discussioni tradizionali sui cosiddetti paradossi dell’infinito.
Già Ruggero Bacone, per confutare l’infinità del mondo, faceva vedere che, se
si ammette l’I., si deve concludere che la parte è maggiore del tutto cui
appartiene (Opus tertium, ed. Brewer, 41, pag. 141-42). E argomenti simili
furono ripetuti frequentemente nella Scolastica del ’300. Ma tale Scolastica ci
offre anche, con Ockham, una risposta a tali ar- gomenti che indica la via la
quale sarà poi seguita dalla matematica della seconda metà dell’800. Af- ferma
infatti Ockham: « Non è incompatibile che la parte sia uguale o non minore del
suo tutto perchè ciò accade ogni qualvolta una parte del tutto è I... Ciò
accade anche nella quantità discreta o in una qualunque molteplicità, una parte
della quale abbia unità non minori di quelle contenute nel tutto. Così in tutto
l’universo non ci sono parti in numero maggiore che in una fava, perchè in una
fava ci sono infinite parti. Sicchè il principio che il tutto è maggiore della
parte vale soltanto per i tutti composti di parti integranti finite » (Cenr. Theol.,
17 C; Quodl., I, q. 9). Questa coraggiosa limita- zione del valore di un
assioma, che appariva allora evidente, non ebbe tuttavia séguito per molto
tempo. Lo stesso Galilei, per evitare la possibilità di una eguaglianza tra la
parte e il tutto (a proposito del rapporto fra i quadrati e la serie naturale
dei nu- meri) affermò « gli attributi di ‘ eguale *, ‘ maggiore ’, e ‘ minore’
non aver luogo negli I. ma solo nelle quantità terminate» (Scienze nuove, Op.,
VIII, pag. 79) lasciando così inalterata la verità del pre- teso assioma. Esso
veniva a cadere e dichiarato frutto di una generalizzazione fallace (cfr.
RUSSELL, Principles of Mathematics, 1903, pag. 360) solo quando Giorgio Cantor
(nei Mathematische Annalen, fra il 1878 e il 1883) e Dedekind (Continuità e nu-
merì irrazionali, 1872; Che cosa sono e che cosa debbono essere i numeri, 1888)
enunciarono un INFINITO nuovo concetto dell’infinito. Questo consiste nell’as-
sumere come definizione dell’I. esattamente quello che era apparso sin allora come
il « paradosso + dell’I. stesso: l'equivalenza della parte e del tutto. Si può
illustrare questa concezione ricorrendo al- l’esempio fatto da Royce (The World
and the Indivi- dual, 1900-01; cfr. il Saggio complementare « L’uno, i molti e
l’I. » aggiunto al vol. I dell’opera). Suppo- niamo che ci sia una carta
geografica idealmente perfetta, tale cioè che, se A è l’oggetto riprodotto ed
A° la carta geografica, questa stia in corrispon- denza con A in modo tale che
per ogni particolare elemento di A, cioè a, è, c, possa essere determinato in
A’ qualche corrispondente elemento a’, bd’, c’, conformemente al sistema di
proiezione prescelto. Poniamo inoltre che questa carta geografica sia disegnata
entro e sopra una parte della superficie della regione riprodotta, per es.,
dell’Inghilterra. Se questa carta è, come dev'essere per ipotesi, idealmente
perfetta, deve rappresentare tutto ciò che c’è sulla superficie
dell’Inghilterra, quindi la stessa carta geografica. La rappresentazione di
quest’ultima, essendo a sua volta perfetta, dovrà contenere come parte di sè la
rappresentazione di sè; e così via senza limite. Un sistema simile è
chiaramente I., non in quanto inesauribile, ma in quanto autorappresentativo, o
come meglio si dice autoriflessivo. In termini matematici, un insieme
autoriflessivo è quello che si può mettere in corri- spondenza biunivoca con
qualche suo sotto-insieme. Questo è proprio il caso della serie naturale dei
numeri che si può mettere in corrispondenza biuni- voca con i suoi
sotto-insieme, per es., con i qua- drati, con i numeri primi, ecc. La potenza
comune di due insiemi tra i quali esista una corrispondenza biunivoca è,
secondo Cantor, il «numero cardinale» dei due insiemi. Questo numero si dirà
transfinito quando l’insieme risulta equipotente ad una sua propria parte o
sottoinsieme. In tal modo, il concetto di numero cardinale I. che era stato
sempre negato come contraddittorio faceva il suo ingresso nella mate- matica.
Esso doveva rivelarsi ben presto fonte di nuove difficoltà e problemi: difficoltà
e problemi che costituiscono i « paradossi » della logica moderna, per quanto
anch’essi non fossero del tutto scono- sciuti allo logica antica (v.
ANTINOMIE). Ma il concetto dell’I. matematico non è stato modifi- cato dalla
trattazione di questi paradossi e dalle soluzioni per essi proposte. 2° Il
secondo concetto di I. è di natura teologica ed è sorto nell’ultimo periodo
della filosofia greca con Filone e Plotino. Quest’ultimo aveva distinto
l’infinità del numero che è « inesauribilità » (Enn., VI, 6, 17) dall’infinità
dell’Uno che è invece « l’il- limitatezza della potenza» (/bid., VI, 9, 6). Con
489 minor precisione di linguaggio, questo concetto viene espresso
frequentemente nella Scolastica me- dievale. S. Tommaso, dopo aver osservato
che i primi filosofi ebbero ragione a ritenere I. il prin- cipio delle cose «
considerando che le cose derivano dal primo principio all’I. », distingue l’I.
della ma- teria che è imperfezione perchè la materia senza forma è incompiuta,
e l’I. della forma che invece è perfezione perchè è proprio di quella forma che
non riceve l’essere da altro ma da se stesso, cioè di Dio (S. 7A., I, q. 7, a.
1). Chiamare I. la forma di per sè sussistente sembra voler significare che
l’I. è ciò che, per essere, non ha bisogno di altro, ed è perciò illimitata
potenza di essere. Non molto diverso è il senso che sembra avere la tesi di
Duns Scoto sull’infinità come modo d’essere proprio di Dio. Duns osserva che se
si dice che Dio è sommo, gli si dà una determinazione che gli compete ri- spetto
alle cose che sono diverse da lui: è sommo fra tutte le cose esistenti. Ma se
si dice che è I., si intende che è sommo nella sua natura intrinseca, cioè che
trascende ogni grado possibile di perfezione (Op. Ox., I, d. 2, q. 2, n. 17).
L’infinità sembra esprimere qui il «quo maius cogitari nequit» di S. Anselmo,
cioè l’essere le perfezioni di Dio al di là di ogni grado raggiungibile dalle
perfezioni finite. La distinzione cartesiana tra I. e indefinito (v.) che
riserva soltanto a Dio l’attributo dell’infinità, sembra coincidere anche
meglio con la distinzione fra II. teologico e l’I. matematico: distinzione che
si trova anche in Locke (Saggio, II, 17, 1) e Leibniz (Nouv. Ess., II, 17, 2).
Ma nella filosofia moderna il concetto dell’I. come illimitatezza della potenza
fa veramente il suo ingresso con Fichte. Per Fichte, l’Io è I. in quanto «è
posto dalla sua propria as- soluta attività » cioè in quanto la sua attività
non trova limiti od ostacoli. Ponendo, nel contempo, un non-Io, l’Io si limita
e diventa finito. Ma da ultimo « la finità deve essere annullata: tutti i
limiti devono sparire e deve restare solo l'Io I., come Uno e come Tutto»
(Wissenschafislehre, 1794, II, $ 4, D). La contrapposizione hegeliana tra «
cat- tivo I.» e «vero I. + costituisce la migliore illustra- zione di questa
nozione di I. nella filosofia moderna. La falsa infinità è l’infinità
matematica del progresso all’I.; giacchè questo « si arresta alla dichiarazione
della contraddizione contenuta nel finito, che questo, cioè, è tanto qualcosa,
quanto l’altra cosa » (Enc., $ 94). Il progresso all'I. rinvia a/ di /è del
finito ma non raggiunge mai questo al di là; perciò la sua negazione del finito
è un « dover essere? che non è mai un «essere». Il vero I. scioglie questa
contraddizione: nega la realtà del finito come tale e lo risolve in sè. Il vero
I. in altri termini è ciò che è, è la realtà. Esso «è ed è determinatamente,
c’è, è presente. Solo il cattivo I. è l’al di là, essendo 490 soltanto la
negazione del finito come tale... La vera infinità presa così in generale,
quale un esserci che è posto come affermativo contro l’astratta negazione, è la
realtà in un senso più elevato che non quella che dapprima si era determinata
quale semplice realtà. La realtà ha acquistato qui un con- tenuto concreto. Non
il finito è reale, ma IL» (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. II, C;
trad. ital., pag. 161-62). In questo senso l’I. è, per usare una frase dello
stesso Hegel, la « forza dell’e- sistenza + (Fil. del Dir., $ 331, Zusatz),
cioè la forza per la quale la ragione abita il mondo e lo domina ed è pertanto
illimitatezza di potenza (Enc., $ ©). È ben noto l'uso che Hegel stesso e tutta
la filo- sofia romantica dell’800 hanno fatto di questo concetto dell’I.: esso
è servito a giustificare la realtà in quanto tale, il fatto, e a respingere la
pre- tesa dell’intelletto « astratto » di giudicare la realtà stessa, di
opporsi ad essa e di inserirsi in essa con un impegno di trasformazione. La
nozione della infinità di potenza infatti è quella per la quale la realtà, ogni
realtà è, in qualsiasi momento, tutto ciò che dev'essere: dato che il principio
che la regge non difetta della potenza necessaria alla propria integrale
realizzazione. 3° Il terzo concetto dell’I. è il corrispettivo metafisico del concetto
matematico tradizionale dell’I. stesso. Si è già visto che per Aristotele l’I.
non può mai essere compiuto, quindi non può mai essere un fuffo; esso è parte,
cioè incompiu- tezza e inesauribilità. Aristotele dava pertanto torto a Melisso
che aveva chiamato I. il tutto e ragione a Parmenide che l’aveva ritenuto
finito (Fis., 6, 207 a 15). Ma tali determinazioni sono quelle che già Platone
aveva riconosciuto proprie dell’I.: I. è ciò che è privo di numero o di misura,
che è suscettibile del più e del meno e perciò esclude l'ordine e la
determinazione (Fil, 24a-25b). È questo il concetto metafisico dell’I. che fu
proprio dei Greci perchè fu strettamente connesso col loro ideale morale
dell’ordine e della misura. Storica- mente parlando, questo concetto non ha
superato i confini della Grecia dell’età classica. INFINITO, GIUDIZIO (ted.
Unendlich Ur- tei). Kant chiamò così le proposizioni in cui il predicato è
costituito da una negazione, per es., « l’anima è non-mortale » (Logik, $ 22;
Crir. R. Pura, $ 9). Il termine I. era già adoperato dalla logica medievale per
indicare i nomi negativi, per es., non-uomo (cfr. Preto Ispano, Summ. Log.,
1.04). INFLUSSO (lat. /nfluxus, Influentia; ingl. In- flux; franc. Influence;
ted. Einfluss). L’azione eser- citata da ciò che è incorporeo su ciò che è
corporeo. Cardano distingueva l’I. in questo senso dal mu- tamento che è
l’azione di un corpo su un altro corpo e dall’afffaro che è l’azione
dell’incorporeo INFINITO, GIUDIZIO sull’incorporeo e si svolge esclusivamente
nell’anima (De Subrilitate, XXI, in Opera, 1663, III, pag. 669 b- 670 a). Il
termine è stato adoperato per indicare: 1° l’azione determinante degli astri
sul destino e le vicende degli uomini, come mediatrice del- l’azione divina
(cfr., ad es.: Cusano, De Docta Ignor., II, 12; PICO DELLA MIRANDOLA, Adv.
Astro- logiam, VI, 2 e passim); 2° l’azione di governo di Dio sul mondo. In
questo senso Campanella parla dei tre « grandi I.» in cui si concreta l’azione
di Dio e che sono la necessità, il fato e l’armonia (Mer., IX, 1; Theol., I,
17, a. 1); 3° l’azione dell'anima sul corpo. In questo senso la parola fu
adoperata nei sec. XVII e xvIn. Dice Leibniz: « Volendo sostenere questa
opinione volgare dell’I. dell'anima sul corpo con l’esempio di Dio che opera
fuori di lui, si fa rassomigliare troppo Dio all’anima del mondo» (IV Lettre è
Clarke, $ 34). « Sistema dell’I. fisico » chiama questa dottrina Baumgarten
(Mer., $ 761). E alla stessa «opinione volgare » fa cenno, per rigettarla,
anche Kant (De mundi sensibilis, etc., IV, $ 17). INFORMAZIONE. V. CIBERNETICA.
INGEGNO (lat. /ngenium; Ingl. Ingenuity, Wit; franc. Genie; ted. Witz).
Riprendendo uno dei si- gnificati tradizionali del termine, Giambattista Vico
chiamò I. la facoltà inventiva della mente umana. Egli contrappose pertanto
l’I. alla ragione car- tesiana; e analogamente contrappose all’arte car-
tesiana della critica fondata sulla ragione, la topica come l’arte che
disciplina e dirige il procedi- mento inventivo dell’ingegno. L’I. ha tanta più
forza produttiva rispetto alla ragione, quanto meno ha, nei suoi confronti, di
capacità dimostrativa (De nostri temporis studiorum ratione, $ 5). Kant a sua
volta intendeva per I. il talento cioè «la superiorità del potere conoscitivo
che dipende dalla disposizione naturale del soggetto e non dall’inse- gnamento
» e lo distingueva in I. comparativo e in I. logicizzante (Antr., I, $ 54). V.
ToPICA. INGENUITÀ (ingl. Naivete; franc. Nalveté; ted. Naivetàt). Nel sec. xvi
questo termine cominciò ad essere adoperato per indicare un certo modo di
espressione estetica. « L’I., diceva Kant, è l’espres- sione dell’originaria
sincerità naturale dell'umanità contro l’arte di fingere, diventata una seconda
na- tura » (Crit. del Giud., $ 54). L’I. non va scambiata con la franca
semplicità che non dissimula la na- tura solo perchè non comprende che cosa sia
l’arte di vivere in società. È piuttosto una natura che si affaccia o si rivela
nell’arte stessa (Z/bid., $ 54). A questi concetti si ispirò Schiller nel
saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795-96). « L’ingenuo, diceva
Schiller, è Ia rappresentazione della nostra infanzia perduta, che rimane per
noi ciò che c’è INQUIETUDINE di più caro e perciò ci riempie di una certa
tristezza ed è insieme quella della suprema perfezione del- l’ideale che perciò
ci eccita in una sublime emo- zione » (Werke, ed. Karpeles, XII, pag. 108).
Alla poesia ingenua in questo senso si contrappone la poesia sentimentale: il
poeta ingenuo è natura; il poeta sentimentale cerca la natura (/bid., pag.
125). Fuori del dominio dell’estetica, il termine è stato talora usato per
caratterizzare le credenze filosofiche dell'uomo comune. « Realismo ingenuo» è
stato detto e si dice la credenza comune nella realtà delle cose. E per quanto
l’aggettivo abbia, in quest’uso, un certo tono dispregiativo, la critica più
recente ha mostrato che non sempre le credenze ingenue sono le più deboli (v.
REALISMO). ININTELLIGIBILE
(lat. Znexplicabilis; ingl. Unintelligible; franc. Inintelligible; ted. Unver-
stîindlich). 1. Propriamente, ciò di cui non si giunge
ad afferrare il perchè nè il come; ossia ciò di cui la causa o condizione o
significato è inafferrabile: l’inesplicabile (cfr. CicER., Acad., II, 29, 95).
Il ter- mine ha pertanto un significato diverso e più pre- ciso che inconcepibile
(v.) il quale indica soltanto una generica incompatibilità con la ragione.
Leibniz stesso stabiliva la differenza tra ciò che non s’intende e ciò che è
inconcepibile (Nouv. Ess., Avant propos, Op., ed. Erdmann, pag. 202). Una
differenza ana- loga è stabilita fra i due termini da Peirce (Chance, Love and
Logic, II, 2; trad. ital., pag. 137). 2. Detto di discorsi scritti o parlati:
oscuro, confuso, non bene esposto ai fini della comunica- zione. INNATISMO
(ingl. Inratism; franc. Innatisme; ted. Nativismus). La dottrina che esistono
nell’uomo conoscenze o princìpi pratici innati, cioè non acqui- siti con
l’esperienza o dall’esperienza, ed anteriori ad essa. Il modello di ogni I. è
la dottrina platonica dell’anamnesi (v.): « Poichè l’anima è immortale ed è
nata molte volte ed ha visto ogni cosa, sia qui che nell’Ade, non c’è niente
che essa non abbia appreso: sicchè non fa meraviglia che possa ricor- dare, sia
intorno alla virtù sia intorno ad altre cose, ciò che prima sapeva » (Men., 81
c). Ma la forma con cui l’I. è passato nella tradizione filosofica è stata data
ad esso dagli Stoici. Essi ammettevano come criterio della verità, accanto alla
rappresen- tazione catalettica, l’anticipazione che è «la nozione naturale
dell’universale » (Dioc. L., VII, 54). Ci- cerone così esponeva il loro punto
di vista: « La natura ci ha dato minuscole fiammelle e noi, ben presto guastati
da cattivi costumi e da false opi- nioni, le spegniamo in modo da far
scomparire il lume della natura. E invero nella nostra indole sono innati i
germi della virtù, e se fosse loro pos- sibile svilupparsi, la natura stessa ci
guiderebbe ad una vita felice» (Tusc., III, 1, 2). Questa specie 491 di I. si
ricollega alla teoria dell’istinto (v.) propria degli Stoici e viene ripresa da
dottrine che hanno l’intento di mettere al riparo dal dubbio certe cre- denze
fondamentali di natura teoretica o pratica. In questo senso l’I. fu ripreso dal
platonismo rinascimentale di cui si può considerare una con- tinuazione il
platonismo inglese del sec. xvi contro le cui tesi fondamentali è diretta la
critica del primo libro del Saggio di Locke. LI. è poi ripreso in Inghilterra
nel secolo successivo dalla scuola scoz- zese del senso comune (v.) e cioè da
Reid e Dugald Stewart. Ma già Cartesio e Leibniz avevano dato all’I. un
significato nuovo. Per Cartesio alcune idee sono innate come «capacità di
pensare e di comprendere le essenze vere, immutabili ed eterne delle cose »
(Méd., III; Lettre à Mersenne, 16-vi-1641, Cuvr., III, 383). E Leibniz
similmente considerava innate le verità che si rivelano immediatamente tali al
lume naturale, senza aver bisogno di altra ve- rifica (Nouv. Ess., I, 1, 21).
In questo senso l’inna- tezza non era più una specie di scultura che l’anima
porta con sè nascendo, secondo l’immagine che Cicerone aveva adoperato (De nat.
deor., II, 4, 12). Al vecchio adagio scolastico: « Nihil est in intellectu,
quod prius non fuerit in sensu», Leibniz aggiungeva la limitazione « nisi ipse
intellectus» in- tendendo dire con ciò che l’anima dispone per suo conto di
categorie, come l’essere, la sostanza, l’uno, lo stesso, la causa, la
percezione, il ragiona- mento, ecc.; che i sensi non potrebbero fornirle (Nouv.
Ess., II, 1, $ 2). Non grande è la distanza tra questa forma di I. e la
dottrina kantiana (che tuttavia si è soliti non designare con questo ter- mine)
della non-derivazione dall’esperienza delle forme a priori della conoscenza.
L’I. appartiene, oggi, al novero di quelle dottrine che non si dibat- tono più
perchè non si dibattono più i problemi di cui esse costituiscono le soluzioni.
Nella filosofia moderna, quando si ammette che qualcosa precede l’esperienza
(come fa, per es., l'idealismo hegeliano) questo qualcosa non è un complesso di
idee o di virtualità, ma tutta la ragione o tutto lo spirito (cfr. A PRIORI).
INQUIETUDINE (ingl. Uneasiness; francese Inquiétude; ted. Unruhe). Al termine
ha dato un significato filosofico preciso Locke, intendendo per esso il disagio
del bisogno inappagato (Saggio, II, 20, 6). Nella seconda edizione del Saggio Locke
vide nell’I. così intesa il movente principale della volontà umana. « Dopo
averci ripensato, diceva Locke, sono portato a ritenere che non sia, come
generalmente si pensa, il maggior bene che si abbia in vista, bensì un qualche
disagio (e per lo più quello più gravoso da cui l’uomo sia attualmente
afflitto) ciò che determina la volontà... Questo di- sagio possiamo anche
chiamarlo desiderio, che è 492 un disagio dello spirito per la mancanza di
qualche bene» (/bid., II, 21, 31). Leibniz accoglieva con favore questa tesi di
Locke (Nouv. Ess., II, 20, $ 6); che fu accolta e utilizzata anche da Condillac
(Traité des sensations, I, 3, $ 2). IN SÈ (gr. aùrs; lat. In se; ingl. In itself; fran-
cese En soi; ted. An sich). Ciò
che si considera senza riferimento ad altro e cioè: 1° indipendente- mente
dalle relazioni con altri oggetti; 2° indipenden- temente dalla relazione col
soggetto considerante. 1° Platone e Aristotele usano l’espressione nel primo
senso. Platone parla del « bello stesso », della «somiglianza stessa», ecc.
(espressioni che di solito sono state tradotte nelle lingue moderne come «bello
in sè», «somiglianza in sè», ecc.) per indicare il bello, la somiglianza, ecc.,
fuori delle loro relazioni con le cose che ne partecipano (Fed., 65d, 75c; Parm.,
130b, 150c, ecc.). Ari- stotele adopera l’espressione nello stesso senso per
indicare una qualità o una sostanza, per es., « ani- male » che si consideri
indipendentemente dalle relazioni con le sue specie (cfr., ad es., Mer., VII,
14, 1039 b 9). Questo significato è anche alla base del valore che Hegel dette
all’espressione indicando con essa ciò che è astratto e immediato, privo di
sviluppo, di riflessione, di relazione. «In sè» è pertanto il concetto nella
sua immediatezza, quale è considerato dalla prima parte della logica cioè dalla
Dottrina dell’essere (Enc., $ 83), nel senso che non è per sè (v.) cioè non è
risolto nella co- scienza. In tal senso Hegel dice: « Le cose si dicono essere
in sè in quanto si astrae da ogni esser per altro, il che in generale
significa: in quanto sono pensate senza alcuna determinazione o come dei nulla
» (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. II, B, a; trad. ital., pag. 124).
In riferimento a questo significato Hegel usò l'espressione per indicare ciò
che è in potenza, cioè che non si è ancora sviluppato e che solo perciò può
essere considerato indipendentemente dalle relazioni con le altre cose. Il
contrario del- l’iîn sè è in questo senso il per sè che è l’attualità o
l’effettualità di una cosa per cui la cosa stessa, nel suo svolgimento si
arricchisce mediante le sue relazioni con le altre. (Cfr. Geschichte der Philo-
sophie, I, Intr., A, 2). 2° Nell’età moderna, a cominciare da Car- tesio,
l’espressione assunse prevalentemente il signi- ficato di «indipendentemente
dalla relazione col soggetto conoscente +, soprattutto nell'espressione Cosa in
sè (v.). Analogamente Sartre ha inteso per « essere in sè » l'essere oggettivo,
in quanto esterno e indi- pendente dalla coscienza; mentre ha chiamato la
coscienza essere per sè (L’étre et le néant, pag. 30, 115 sgg.). In senso più
ristretto, N. Hart- IN SÈ mann ha inteso l’essere in sè dei valori come la loro
«indipendenza dall’opinare del soggetto » (Ethik, 2% ediz., 1935, pag. 149). Un
significato, questo, abbastanza frequente nell’uso filosofico: Bolzano aveva
parlato di una «proposizione in sè », della «rappresentazione in sè» e della
«ve- rità in sè » intendendo per « in sè » in queste espres- sioni il puro
significato logico-obiettivo della pro- posizione, della rappresentazione o
della verità, indipendentemente dal loro esser pensate od espresse
(Wissenschaftslehre, 1837, $ 19, 25, 48). INSIEME (ingl. Ser, Oggaegate; franc.
Ensemble; ted. Menge). Georg Cantor il fondatore della teoria degli insiemi,
defini l’I. come + l’aggregazione in un unico tutto di oggetti definiti e
separati della nostra intuizione o del nostro pensiero: oggetti che sono detti
elementi dell’I. » (Beitràge zur Be- grilndung der Transfinite Mengenlehre,
1895, $ 1). Questa nozione (già implicita nei precedenti lavori di Cantor, a
partire dal 1878) attribuisce agli insiemi le seguenti caratteristiche: 1° L’I.
esiste ogni volta che un molteplice si lascia pensare come uno cioè ogni volta
che un molteplice può essere legato I. mediante una regola. 2° L’I. è
internamente derer- minato, nel senso che, in virtù della regola che lo
costituisce e del principio del terzo escluso, si può sempre decidere se un
oggetto qualsiasi appartiene o no all’insieme stesso. 3° L’I. è una
molteplicità coerente nel senso che gli elementi di esso possono stare insieme
(zusammensein) senza contraddizione. In questo senso la «totalità di tutti gli
oggetti pensabili» non è un I. perché è contraddittoria. 4° L'esistenza dell’I.
è oggertiva cioè indipendente dal pensiero o dal linguaggio che lo esprime. 4°
Come unità, l'I. può sempre costituire l'elemento di un altro insieme. In base
a tali caratteri, Cantor paragonava VI. all’idea di Platone, che è anch'essa
l’unità oggettiva di una molteplicità (v. IpeAa). Cantor utilizzò la teoria degli
I. come fondamento del concetto dell’infinito attuale (v. INFINITO); e da
Cantor in poi essa è stata adoperata per l’assiomatizzazione della matematica.
Mentre i logici in generale non stabiliscono dif- ferenze tra I. e classe (v.),
tranne che per sottoli- neare il carattere astratto della classe nei confronti
del carattere concreto dell’I. (come fa per es. QuINE, From a Logical Point of
View, VI, 3) alcuni indirizzi dell’assiomatica moderna (von Neumann, Gédel),
ritengono che il concetto di I. è più ristretto di quello di classe, cioè che
esistono classi che non sono insiemi. Da questo punto di vista, mentre gli
insiemi sono entità logiche ben determinate, le classi sono estensioni di
predicati, cioè totalità aperte che possono essere continuamente arricchite me-
diante operazioni astrattive effettuate sul mondo INTELLETTO degli I. (Cfr.
BetH, Les fondements logique des mathématiques, 1955, V). INSOLUBILIA. Con
questo nome o con quello di Impossibilia si chiamarono nella logica medievale a
partire dal sec. x1v, quelli che nella logica mega- rico-stoica erano chiamati
ragionamenti ambigui o convertibili e furono anche chiamati dilemmi (v.) e più
tardi antinomie (v.). INSTABILITÀ (ingl. Instability). Precarietà. Uno dei
tratti fondamentali dell’esistenza secondo alcune correnti contemporanee. Dice,
ad es., Dewey: «L’uomo si trova a vivere in un mondo aleatorio; la sua
esistenza implica, per dirlo crudamente, un azzardo. Il mondo è la scena del
rischio: e incerto, instabile, terribilmente instabile. I suoi pericoli sono
irregolari, incostanti, non possono essere riportati a un tempo ed a una
stagione determinata » (Expe- rience and Nature, cap. 2). INTEGRAZIONE (ingl.
Integration; francese Intégration; ted. Integration). Questo termine ha
significati specifici diversi in diverse branche del sapere. In matematica, è
il processo al limite col quale si determina il valore di una grandezza come
somma di parti infinitesimali assunte in numero sempre crescente. In biologia,
significa il grado di unità o di solidarietà fra le varie parti di un or-
ganismo cioè il grado nel quale tali parti sono di- pendenti l’una dall’altra.
Analogamente, in psico- logia significa il grado di unità o di organizzazione
della personalità; e in sociologia il grado di orga- nizzazione di un gruppo
sociale. Spencer nei Primi Principi (1862) vedeva nell’I. una delle
caratteristiche fondamentali dell’evolu- zione cosmica in quanto passaggio da
uno stato indifferenziato, amorfo e indistinto a uno stato differenziato,
formato e unificato (First Principles, $ 94). INTELLETTIBILE (lat.
Intellectibilis). Ciò che non è sensibile e non ha rapporto con ciò che è
sensibile; e in questo è diverso dall’inze/ligibile (v.) che può somigliare al
sensibile o essere appreso in esso (In Porphirium I, P. L., 64, col. 11). La
distin- zione, stabilita da Boezio, fu ripresa da Ugo di San Vittore. L’I. è il
divino o ciò che di divino c’è nell'uomo, per es., l'anima (Didascalion, II, 3,
4). INTELLETTO (gr.
vodc; lat. Intellectus; inglese Understanding; franc. Intelligence; ted.
Verstand). Il termine è stato costantemente usato
dai filosofi in un duplice significato e cioè: 1° in un signifi- cato generico
come facoltà di pensare in genere e 2° in un significato specifico come una
particolare attività o tecnica del pensare. In questo secondo significato il
termine è stato inteso a sua volta in tre modi diversi e cioè: a) come I.
intuitivo; b) come I. operativo; c) come I. comprendente o intelli- genza. 493
1° Platone e Aristotele definiscono in generale l’I. come facoltà di pensare.
Platone infatti dà il nome di I. all’attività che pensa (Sof., 248 e-249 a) e
che pertanto dà limiti, ordine e misura alle cose (Fil., 30c; Tim., 48 a) e
chiama pensiero (vénoic) l’insieme della scienza e della dianoia cioè le atti-
vità superiori dell'anima in quanto contrapposte alla congettura e alla
credenza, raccolte insieme sotto il nome di opinione (Rep., VII, 534 a). A sua
volta Aristotele dichiara di intendere per I. «ciò per cui l’anima ragiona e
comprende » (De An., INI, 4, 429a 23). Questo significato generico era
d’altronde già stato dato al termine da Parmenide (Fr. 16, Diels) e da
Anassagora (Fr. 12, Diels). Ed è ovvio che tutti coloro che, come Anassagora,
Platone e Aristotele, attribuirono all’I. la fun- zione di ordinatore dell’universo
lo intesero, non come una specifica attività o tecnica, ma nel si- gnificato
più generico di attività pensante cioè capace di scegliere, coordinare e
subordinare. La stessa contrapposizione, così frequente negli an- tichi e già
presente nella sua forma estrema in Parmenide (Fr. 8, Diels) tra l’I. ed i
sensi, im- plica che all’I. si attribuisca il significato generico di facoltà
di pensare. Analogamente la sostanzia- lizzazione che l’I. subisce ad opera del
neoplato- nismo è quella della facoltà di pensare in genere, in tutte le sue
molteplici forme (confronta, per es., PLOTINO, Enn., III, 8, 9-10). Questo
significato generico si è conservato nella tradizione filosofica fino al
Romanticismo. San Tom- maso lo esprimeva contrapponendo l’I. ai sensi, «Il nome
di I., egli diceva, implica una certa co- noscenza intima; infelligere è quasi
un leggere dentro (intus legere). Questo è evidente a chi con- sidera la
differenza tra I°I. e i sensi: la conoscenza sensibile concerne le qualità
sensibili esterne, la conoscenza intellettiva penetra sino all’essenza della
cosa » (.S. 7A., II, 2, q. 8, a. 1). Dall'altro lato lo stesso significato
generico si ha quando il ter- mine è contrapposto a volontà, come accade, per
es., in Locke: «La capacità di pensare è ciò che si chiama I. e la capacità di
volere è ciò che si chiama volontà: due capacità o disposizioni dell’anima alle
quali si da il nome di facoltà» (Saggio, II, 6, 2). Leibniz a sua volta
intendeva per I. «la percezione distinta unita alla facoltà di riflettere, che
non c'è nell’anima delle bestie » (Nouv. Ess., II, 21, 5). Questa nozione fu
poi assunta da Wolff (Psychol. empirica, $ 275). La de- finizione dell’I. come
«facoltà di pensare» è un luogo comune nel *700; e Kant non fa che ripe- terlo.
L’I. è per Kant «la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile »,
(Crit. R. Pura, Logica, Intr., I) o «il potere di conoscere in generale »
(Antr., I, $ 6, 40). 494 Ma improvvisamente, con il Romanticismo, l’I. cessa di
avere il valore di facoltà di conoscere in generale: si scopre la «immobilità »
dell’intel- letto. Questa scoperta viene per la prima volta effettuata da
Fichte. «L’I., egli dice, è I. solo in quanto qualcosa è fissato in esso; e
tutto ciò che è fissato è fissato soltanto nell’intelletto. L’I. si può
definire come l’immaginazione fissata dalla ragione o come la ragione provvista
di oggetti dall’immaginazione. L’I. è una facoltà spirituale in riposo,
inattiva, è il puro ricettacolo di ciò che è stato prodotto dall’immaginazione
ed è stato determinato o è ancora da determinare dalla ra- gione »
(Wissenschaftslehre, 1794, II, Deduzione della rappresentazione, III; trad.
ital., pag. 184). Ma colui che ha fatto prevalere nella filosofia la nozione di
un I. « immobile », « rigido », « astratto » è stato Hegel: « Come I., egli
dice, il pensiero si ferma alla determinazione rigida e alla differenza di essa
verso altre: questo prodotto astratto e limitato vale per l’I. come per sè
stante ed esi- stente » (Enc., $ 80). L’I. è caratterizzato dall’im- mobilità
delle sue determinazioni: esso « determina e tiene ferme le determinazioni »
(Wissenschaft der Logik, Pref. alla 1 ediz.; trad. ital., pag. 5). Questa
immobilizzazione è una falsificazione, come appare chiaro nel modo in cui l’I.
intende il rapporto tra infinito e finito, dando luogo al « cattivo infinito ».
« La falsificazione che l’I. intraprende con il finito e l’infinito consistente
nel tener ferma come una diversità qualitativa la relazione dell’uno con
l’altro, nell’affermarli nella loro determinazione come separati e precisamente
come separati in maniera assoluta, si fonda sulla dimenticanza di quel che è
per l’I. stesso il concetto di questi momenti » (/bid., I, I, sez. I, cap. 2,
C, c.; tra- duzione ital., I, pag. 157). In tal modo il « fissare », «
l’immobilizzare +, il «tener fermo», il « determi- nare assolutamente »
divengono le operazioni con cui si descrive l’attività dell’I.: al quale viene
contrapposta come attività autentica del pensiero la ragione, che toglie la
fissità e la rigidezza delle determinazioni intellettuali e le fluidifica e
relati- vizza. Questa contrapposizione diventa un luogo comune in buona parte
della filosofia dell’800: l’I. pertanto decade dal suo rango di facoltà di
pensare per assumere quello secondario o subor- dinato di facoltà del pensare
astratto cioè del falso pensare. La persistenza di questo luogo co- mune, privo
di qualsiasi seria giustificazione, si può vedere nel fatto che ai princìpi del
’900 Bergson riproponeva nell’Evoluzione creatrice (1907) la cri- tica dell’I.,
ritenuto, secondo lo schema hege- liano, come la facoltà che ha per oggetto
spe- cifico ciò che è immobile, inerte, rigido e morto e che pertanto è
radicalmente incapace di com- INTELLETTO prendere il movimento e la vita. In
tal modo alla contrapposizione hegeliana I.-ragione veniva sosti- tuita la
contrapposizione I.-vita o I.-coscienza, che ha ispirato e ancora ispira alcune
manifestazioni della filosofia contemporanea. Tuttavia, anche al di fuori di
queste antitesi stereotipate, la nozione dell’I. come facoltà di pensare in
generale non ricorre più nella filosofia contemporanea nella quale essa è stata
piuttosto sostituita dalla nozione di pensiero o ragione (v.). 2° Il
riconoscimento del significato generico di I. è andato talora congiunto e talora
no col rico- scimento di un significato specifico. Si possono distinguere tre
interpretazioni fondamentali della funzione specifica dell’I. e cioè: a) l’/.
intuitivo; b) 1°I. operativo; c) ’I. comprendente o intelligenza. a) La nozione
dell’I. intuitivo fu elaborata da Aristotele. Per Aristotele l’I., oltre che
essere in generale la facoltà « per cui l’anima ragiona e comprende », è anche
una particolare virtù dia- noetica, cioè un abito razionale specifico. Come
tale, è la facoltà di intuire i princìpi delle dimo- strazioni: princlpi che
non possono essere appresi nè dalla scienza, che è soltanto un abito dimo-
strativo nè dall’arte e dalla saggezza che concer- nono « le cose che possono
essere altrimenti », cioè che sono prive di necessità (Er. Nic., VI, 6, 1140b
31 sgg.). Oltre che tali « definizioni prime », l’I. ha anche il compito di
intuire «i termini ultimi» cioè i fini ai quali dev'essere subordinata l’azione
(/bid., VI, 11, 1143 b). Ed insieme con la scienza, l’I. costi- tuisce la
sapienza « che è insieme scienza e I. delle cose più eccelse per natura +»
(/bid., VI, 7, 1151b 2) e che è perciò la più alta realizzazione dell’uomo.
Questa funzione specifica dell’I., di intuire i princìpi comuni del
ragionamento, fu ammessa da San Tommaso (S. 7%., I, q. 8, a. 1) e da molti
altri scolastici, accanto a quella generica del « pen- sare». Kant a sua volta
esplicitamente distingueva dall’I. nel senso generico un I. come facoltà spe-
cifica che sta accanto al giudizio e alla ragione. «La parola I., egli diceva,
viene intesa anche in un senso più particolare quando viene subordinato, come
membro di una divisione, all’I. inteso in senso più generale cioè alla facoltà
superiore di conoscere costituita da /, giudizio e ragione» (Antr., I, $ 40).
In questo senso specifico, l’I. è la facoltà di giudicare; e il giudizio che
gli com- pete è il giudizio determinante, cioè il giudizio le cui leggi entrano
a costituire l’oggetto naturale in generale (e precisamente la forma di tale
oggetto). Queste leggi sono all’I. « prescritte a priori +, cioè date nel suo
stesso funzionamento (Crif. R. Pura, Analitica dei concetti, sez. I; Critica
del Giudizio, Intr., $ IV). In questo senso specifico, come facoltà di
giudicare, l’I. non è intuitivo nel senso di es- INTELLETTO ATTIVO sere in
rapporto diretto con l’oggetto: esso anzi è in rapporto mediato con l’oggetto
perchè, in quanto giudizio su una rappresentazione è, secondo l’espressione di
Kant, «la rappresentazione di una rappresentazione ». Ma è intuitivo nello
stesso senso in cui è intuitivo l’I. specifico di Aristotele: è in rapporto
immediato con leggi o principi fondamen- tali che entrano a costituire
l’organizzazione della scienza e la struttura dei suoi oggetti. La differenza
tra il punto di vista aristotelico e il punto di vista kantiano si può
esprimere nel modo seguente. Dal punto di vista aristotelico l’I. ha il compito
di formulare i princìpi primi che vengono utilizzati dalla scienza
dimostrativa, e di percepirne l’evi- denza. Dal punto di vista kantiano, l’I.
nell’effet- tuare il suo compito, che è quello di giudicare, mette in opera i
princìpi che lo costituiscono anche senza bisogno di formularli esplicitamente.
Queste due alternative sono le sole che si sono storica- mente presentate
nell’interpretazione dell’I. come facoltà intuitiva specifica. b) La concezione
operativa dell’I. è stata presentata da Bergson, che l’ha innestata sul con-
cetto romantico dell’I. inteso come facoltà del- l’immobile. Da questo punto di
vista, l’I. è «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in partico- lare
utensili per fare utensili, e di variarne indefi- nitamente la fabbricazione »
(Evol. créatr., 1911, 83 ediz., pag. 151). Essa è pertanto la soluzione di un
problema che, su un altra linea evolutiva, ha portato all’istinto: inteso,
quest’ultimo come la facoltà di utilizzare strumenti organizzati. Data la sua
funzione operativa, l’intelligenza tende a co- gliere non le cose, ma i
rapporti fra le cose, perciò non la materia di esse ma la loro forma; ha per
oggetto principale il solido inorganico cioè immo- bile ed è caratterizzata da
una incomprensione na- turale del movimento e della vita (/bid., pag. 179).
Questa analisi di Bergson ha influenzato largamente la filosofia contemporanea,
la quale, nelle sue cor- renti spiritualistiche e idealistiche, ha spesso
utiliz- zato le conclusioni di essa per affermare che «1’I. astratto » è,
tutt’al più, efficace nel dominio della scienza che è conoscenza anch'essa «
astratta » ma che poco o nulla vale nel dominio della conoscenza effettiva, che
sarebbe quella filosofica. Ma anche fuori di queste intenzioni denigratorie che
involgono insieme l’I. e la scienza, la funzione operativa dell’I. cioè la
funzione per cui esso è la capacità di affron- tare con successo le situazioni
biologiche, sociali, ecc., in cui l’uomo viene a trovarsi è rimasta a
caratteriz- zare l’I. stesso; nel quale pertanto difficilmente si può oggi
scorgere un organo puramente teoretico. Il pragmatismo ha contribuito
certamente alla for- mazione di questo punto di vista, che è diventato un luogo
comune della filosofia contemporanea. 495 c) Il terzo significato specifico di
I. è quello per cui esso significa comprensione e per il quale la parola
intelligenza è più appropriata (com'è più appropriato in francese la parola
entendement e in tedesco Verstehen). Questa accezione del ter- mine può a sua
volta essere articolata in due significati. a) Un significato comune e generico
per il quale intendere significa afferrare il significato di un simbolo, la
forza di un argomento, il valore di un’azione, ecc. In tutti questi casi la
parola esprime la possibilità di effettuare correttamente un'operazione
determinata. Per es., l’intelligenza di un segno consiste nella possibilità di
effettuare cor- rettamente, cioè in base all’uso stabilito o alla regola
opportuna, il riferimento del segno al suo referente. L'intelligenza di un
argomento consisterà nella possibilità di effettuare il collegamento tra le sue
parti in modo tale che l’argomento risulti probante, ecc. L'intelligenza, in
questi casi, ha si- gnificati tanto diversi fra loro come sono diversi gli
oggetti o le situazioni cui si fa riferimento. In generale tutto ciò che può
dirsi da questo punto di vista è che l’intelligenza designa una certa capa-
cità di inserirsi nel contesto di tali situazioni e di orientarsi in esso. B)
Un significato più ristretto e specifico per il quale l’intelligenza significa
la comprensione di un certo tipo di oggetti, per es., di un uomo o di una
situazione storica. Per tale significato del termine, v. COMPRENDERE.
INTELLETTO ATTIVO (gr. vods romtiés; lat. Intellectus Agens; ingl. Active
Intellect; francese Intellect Actif; ted. Active Intellekt). Nozione di origine
aristotelica che ha dato luogo ad un pro- blema a lungo dibattuto dai
commentatori antichi di Aristotele, dalla Scolastica araba, dalla Scola- stica
cristiana e dall’Aristotelismo rinascimentale. Il problema nasce dalla
distinzione aristotelica tra I. potenziale e I. attuale. « Come in tutta la na-
tura, dice Aristotele, c'è qualcosa che fa da materia a ciascun genere e
qualcosa invece che è causalità e attività, anche nell'anima devono
necessariamente esserci queste due cose diverse. Difatti da un lato c'è I’I.
che ha la potenzialità di essere tutti gli og- getti, dall’altro c’è l’I. che
li produce, il quale ul- timo si comporta come la luce: anche questa infatti fa
passare all’atto i colori che sono solo in potenza. Questo I. è separato e
impassibile e senza mescolanza, perchè la sua sostanza è l’atto stesso + (De
an., III, 5, 430a 10). Aristotele ag- giunge che soltanto questo I. attuale e
attivo è «immortale ed eterno ». Di qui il problema: ap- partiene tale I.
all'anima umana o fa parte, per la sua incorruttibilità, eternità e attualità
perfetta, della stessa divinità? Tre sono state le soluzioni 496 principali di
questo problema, e precisamente le seguenti: 1° La separazione dell’I. attivo
dall’anima umana. È questa la soluzione difesa nell’antichità dal commentatore
di Aristotele, Alessandro di Afro- disia (sec. m) che identificò l’I. attivo con
la causa prima cioè con Dio; e ritenne proprio dell’anima umana: a) l’I. fisico
o materiale (ilico) che è l’I. po- tenziale, simile all'uomo che è capace di
apprendere un’arte ma non è ancora in possesso di essa; 5) l’I. acquisito
(imiximitéo, adeptus) che è il perfeziona- mento o il compimento del precedente
cioè l’insieme delle abilità proprie nell'uomo educato ed è simile all’artista
che è giunto a possedere la sua arte (De an., I, ed. Bruns., pag. 138-39).
Questa solu- zione, negando all’anima umana il solo I. immor- tale ed eterno
che è quello attivo, da un lato nega l'immortalità dell’anima stessa,
dall’altra accentua la dipendenza dell’attività intellettuale umana dai sensi.
Essa ricorre frequentemente nella storia della filosofia. La riprende infatti
il neoplatonismo arabo con Al Kindi (sec. rx), Al Farabi (sec. rx) e Avi- cenna
(sec. x1): il quale ultimo tuttavia non riteneva questa soluzione contraria
all’immortalità dell’anima giacchè ammetteva che la dipendenza dell’anima
dall’I. attivo e quindi da Dio si conservasse anche dopo la separazione
dell’anima dal corpo e bastasse a dare all’anima l’immortalità (De an., 10).
Ammet- tevano egualmente questa dottrina Avempace (se- colo x) e Mosé Ben
Maimon (sec. x) il più fa- moso dei filosofi giudaici del Medioevo (Guide des
égarés, I, 50-52). L’ammetteva pure Ruggero Bacone (Opus Maius, ed. Bridges,
pag. 143). Nel Rinascimento, la stessa soluzione veniva difesa da Pietro
Pomponazzi: che insisteva sulle condizioni sensibili del funzionamento dell’I.
umano e riteneva impossibile la dimostrazione dell’immortalità (De
Immortalitate animae, 9). 2° La separazione dell’I. attivo e dell’I. pas- sivo
dall’anima umana. Questa fu la soluzione proposta da Averroè. L’I. materiale o
ilico, che i sostenitori della precedente soluzione attribuivano all’uomo,
viene anch’esso ritenuto da Averroè se- parato dall’anima umana. Nell’anima
umana, l’I. materiale non è che una semplice disposizione co- municata dall’I.
attivo; e precisamente una dispo- sizione ad astrarre dalle immagini sensibili
i concetti e le verità universali. All’uomo non rimane per- tanto, che l’I.
acquisito, che Averroè chiama pure speculativo e consiste nella conoscenza
delle verità universali (De an., fol. 165 a). Questa dottrina di- venne tipica
dell’averroismo medievale: fu difesa da Sigieri di Brabante (sec. x11) nello
scritto De anima intellectiva (edito in Mandonnet, Siger de Brabante et
l’averrolsme latin au XIII‘ siècle, II, Lovanio, 1908). Numerpsi seguaci ebbe
questa soluzione nel- INTELLETTUALISMO l’aristotelismo del Rinascimento (cfr.
BRUNO NARDI, Sigierì di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, 1945).
3° L’unità dell’I. attivo e passivo con l’anima umana. Questa tesi fu sostenuta
nel sec. Iv dal com- mentatore di Aristotele, Temistio (De an., 103, 6; trad.
ital., pag. 233) in polemica con Alessandro e più tardi (sec. vi) dall’altro
commentatore Sim- plicio, anch’egli neoplatonico. Essa fu ripresa nel sec. xi,
durante la polemica contro l’averroismo che si svolse nella scolastica latina di
quel tempo. Alberto Magno e S. Tommaso polemizzano contro la separazione
averroistica e alessandristica dell’I. dall’anima umana. Essi ammettono bensì
che c’è al di sopra dell'anima umana l’I. separato di Dio; ma ritengono che
l’uomo partecipa di questo I. e che l’I. attivo fa parte della sua anima come
unaluce che è accesa in questa dall’I. divino (ALBERTO, De intellectu et
intelligibili, II, 1-2; S. Tommaso, S. Th., I,q.79,a. 4). Contro uno scritto di
Sigieri era probabilmente diretto il De unitare intellectus contra Averroistas
di S. Tommaso; al quale è a sua volta una risposta lo scritto De anima
intellectiva di Sigieri. La principale obiezione di S. Tommaso è che, se l’I.
fosse una sostanza separata, non sa- rebbe l’uomo stesso a intendere ma tale
sostanza; al che Sigieri risponde che l’I. agisce nell’uomo, non come un motore
ma operans in operando cioè come principio direttivo della sua attività. Nel
Ri- nascimento, fu soprattutto Marsilio Ficino a di- fendere l’unità dell’I.
con l’anima umana (7heologia platonica, XV, 14). Il problema dell’I. attivo è
specifico dell’aristo- telismo e non ha senso fuori di esso. Pertanto, cessa di
essere dibattuto quando l’aristotelismo cessa di fornire il quadro generale
della filosofia. Già tra la fine del sec. xm e i principi del x1v ci sono
filosofi che esplicitamente negano l’I. attivo ed evitano quindi di proporsi il
problema relativo. Du- rando di S. Pourgain dice che, come non si pone un «
senso attivo », così è inutile porre un I. attivo (In Sent., I, d. 3, q. 5, 26);
e Ockham afferma che la funzione di astrarre, per la quale s’invoca l’I. at-
tivo, si svolge naruraliter cioè come un effetto delle nozioni sensibili e non
richiede l’I. attivo, la cui nozione rimane pertanto poggiata solo
sull’autorità di santi e filosofi (Z Senr., II, q. 25). Questo punto di vista è
senz'altro prevalso sin dai princìpi della filosofia moderna, che abbandona
completamente la nozione in esame. INTELLETTUALISMO (ingl. Intellectua- lism;
franc. Intellectualisme; ted. Intellektualismus). Con questo termine Hegel
designava la filosofia di Plotino, interpretando l’estasi come uscita dalla
coscienza sensibile e « puro pensare ». « L'idea della filosofia plotiniana,
egli diceva, è dunque un I. o INTENSIONE E ESTENSIONE un superiore idealismo
che certamente dal lato del concetto non è ancora idealismo perfetto»
(Geschichte der Philosophie, I, sez. III, Plotino; trad. ital., III, pag. 41).
Il termine è ora usato polemicamente dalle filosofie della vita e dell’azione
per designare l’indirizzo ad esse contrario cioè quello per il quale
l'intelletto (o il pensiero o la ragione) ha una funzione dominante nella
conoscenza e nella condotta dell’uomo. Questo termine è stato fre- quentemente
usato dall’intuizionismo bergsoniano, dalla filosofia dell’azione, dal
modernismo, dal pragmatismo cioè da tutte quelle filosofie le quali tendono a
svalutare il valore dell’intelletto come via d'accesso alla verità o come guida
della con- dotta e a ritenere assai più importante l'intuizione, la simpatia,
l'istinto, la vita, la volontà, ecc. Tal- volta il termine è stato contrapposto
a vo/onta- rismo (v.) per indicare la prevalenza attribuita all’in- telletto
sulla volontà; ed è stato in questo senso adoperato anche allo scopo di
caratterizzare storica- mente certi punti di vista. Si è parlato così dell’I.
di S. Tommaso e del volontarismo di Duns Scoto, allu- dendo al diverso peso che
hanno, per questi filosofi, le due attività umane fondamentali. Si tratta
tuttavia di significati e caratterizzazioni poco precisi. INTELLIGIBILE (gr.
vontéc; lat. /ntelligi- bilis; ingl. Intelligible; franc. Intelligible; ted.
Intelli- gibel). In generale, l'oggetto dell’intelletto. Aristo- tele aveva
detto « tutti gli enti sono o sensibili o I. » (De An., III, 8, 431b 21). L'I.
è l’oggetto dell’intel- letto come il sensibile è l'oggetto dei sensi. Questa
simmetria viene mantenuta da tutti i filosofi che am- mettono la distinzione
tra sensibilità e intelletto. Platone chiamò I. la sfera del conoscere che com-
prende la dianoia e la scienza, in quanto distinta dalla sfera dell’opinione
che comprende la conget- tura e la credenza (Rep., VII, 534 a). Per il neo-
platonismo, il mondo I. comprende le tre prime ipostasi, cioè l’Uno,
l’Intelletto e l’Anima del mondo (PLoTINO, Enn., II, 9, 1). Secondo Kant, il
mondo I. è quel mondo di cui l’uomo fa parte come « attività pura » cioè in
quanto non è influen- zato dalla sensibilità ma agisce in base alla spon-
taneità della ragione. « Da una parte, dice Kant, l’uomo, in quanto
appartenente al mondo sensibile, è sottomesso alle leggi della natura;
dall’altra parte, come appartenente al mondo I. è sottomesso a leggi che sono
indipendenti dalla natura, quindi non empiriche, ma fondate unicamente nella
ragione» (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, IID. In questo senso il mondo
I. è il mondo morale. In senso più specifico, I. si dice ciò che può essere
inteso o compreso, corrispondentemente ai significati 2°, c, di Intelletto
(v.). INTENDIMENTO. Lo stesso che Intelli- genza Iv. INTELLETTO, 2°, c)]. 32 — Annaanano,
Dizionario di filosofia. 497 INTENSIONE e ESTENSIONE (ingl. /n- tension and
Extension; franc. Intension et extension; ted. Sinn und Bedeutung). Questa
coppia di termini fu introdotta da Leibniz per esprimere la distinzione che la
Logica di Portoreale aveva espresso con la coppia comprensione-estensione (v.)e
la logica di Stuart Mill esprimerà con la coppia connotazione-denota- zione
(v.). Dice Leibniz: « L'animale comprende più individui dell’uomo, ma l’uomo
comprende più idee e più forme; l’uno ha più esempi, l’altro più gradi di
realtà; l’uno ha più estensione l’altro ha più I.» (Nouv. Ess., IV, 17, $ 9).
L’uso di questi due termini fu adottato da Hamilton: « L’interna quantità di
una nozione, la sua /. o comprensione è costituita dai differenti attributi di
cui il concetto è la somma, cioè dai vari caratteri connessi dal concetto
stesso in un singolo tutto pensato. La quantità esterna di una nozione o la sua
estensione è costituita dal numero di oggetti che sono pen- sati mediatamente
attraverso il concetto » (Lecrures on Logic, 2* ediz., 1866, I, pag. 142).
L’uso di questi due termini prevale anche nella logica con- temporanea, che li
ha riferiti alla distinzione sta- bilita da Frege tra senso e significato. «
Pensando ad un segno, aveva detto Frege, dovremo collegare ad esso due cose
distinte: e cioè non soltanto l’oggetto designato, che si chiamerà significato
di quel segno, ma anche il senso del segno, che denota il modo in cui
quell’oggetto ci viene dato » (4 Ùber Sinn und Bedeutung», 1892, $ 1; trad.
ital., in Aritmetica e logica, pag. 218). Ovviamente, l’oggetto è l’estensione,
il senso è l’intensione. La distinzione viene ripetuta o presupposta da quasi
tutta la lo- gica contemporanea. L’I. di un termine è definita da Lewis come
«la congiunzione di tutti gli altri termini ciascuno dei quali deve essere
applicabile a ciò cui il termine è correttamente applicabile ». In tal senso
l’I. (o connotazione) è delimitata da ogni corretta defi- nizione del termine e
rappresenta l’intenzione di chi lo usa, perciò il significato primo di «
signifi- cato ». L'estensione, invece, o denotazione di un termine è la classe
delle cose reali alle quali il ter- mine si applica (Lewis, Analysis of
Knowledge and Valuation, 1950, pag. 39-41). Le stesse determina- zioni sono
date da Quine: l’I. è il significato, la estensione è la classe delle entità
alle quali il ter- mine può essere attribuito con verità (From a Logical Point
of View, II, 1). Analogamente sono usati gli aggettivi inrersionale ed
estensionale: quest’ultimo essendo applicato a punti di vista che prendono in
considerazione la denotazione delle proposizioni e prescindono, per quanto è
possibile, dai loro significati intensionali. D'altra parte, l’aggettivo
intensionale, soprattutto applicato al calcolo delle proposizioni o delle fun-
498 zioni proposizionali (v.) significa che si prende in considerazione la
modalità delle proposizioni da cui invece prescinde la considerazione
estensionale che si limita a prendere in esame le funzioni di verità delle
proposizioni stesse (CARNAP, Logica! Syntax of Language, $ 67; RUSSELL, Inquiry into
Meaning and Truth, 1940, cap. 19) (v. ESTENSIONA- LITÀ, TESI DELLA). INTENZIONALITÀ (lat. Intentionalitas; in- glese
/ntentionality; franc. Intentionnalité; ted. Inten- tionalitàt). Il riferimento
di un qualsiasi atto umano a un oggetto diverso da sè: per es., di un’idea o
rappresentazione alla cosa pensata o rappresentata, di un atto di volontà o di
amore alla cosa voluta od amata, ecc. La nozione è stata dapprima ado- perata
nei confronti dell’attività pratica: donde il significato, ancor oggi
prevalente, della parola in- tenzione (v.) che designa appunto il riferirsi
della attività pratica al suo oggetto. Il neoplatonismo arabo l’ha per la prima
volta estesa a designare il rapporto tra la conoscenza e il suo oggetto, chia-
mando intenzioni i concetti. Avicenna, nel deter- minare la differenza tra la
logica e le scienze reali, affermò che mentre queste ultime hanno per og- getto
le prime intenzioni (intensiones primo intel- lectae) cioè concetti che si
riferiscono a cose reali, la logica ha per oggetto le seconde intenzioni
(inten- tiones secundo intellectae) cioè concetti che si riferi- scono ad altri
concetti (Mer., I, 2). Alberto Magno riproduceva questa distinzione (In Mer.,
I, 1, 1), che diveniva familiare ai filosofi del sec. xm. S. Tom- maso, a sua
volta, considerava l’intenzione come «la similitudine della cosa pensata »
(Contra Gent., IV, 11): talvolta distinguendola dalla specie intelli- gibile
per la sua indifferenza all’assenza o alla presenza dell’oggetto e per il suo
astrarre dalle condizioni materiali senza le quali quest’ultima non esiste in
natura (/bid., I, 53); talvolta invece identi- ficandola con la stessa specie
intelligibile (S. 77., I, q. 85, a. 1, ad 4°). Ma il concetto di I. non
acquistò un rilievo proprio se non quando tra la fine del sec. xmi e il
principio del sec. xIV si co- minciò a mettere in dubbio la dottrina della
specie (v.) come intermediaria della conoscenza e si cessò di vedere nell’atto
conoscitivo una « similitudine + cioè una copia o immagine della cosa. Durando
di S. Pourgain affermava che l’oggetto stesso, e non la specie, è presente al
senso e all’intelletto (Ir Sent., II, d. 3, q. 6, n. 10). E Pietro Aureolo
osservava a questo proposito che, se la specie fosse l’og- getto del conoscere,
questo sarebbe non la realtà ma solo l’immagine di essa. Aureolo perciò rite-
neva che l’oggetto della conoscenza fosse la stessa cosa nel suo essere
intenzionale od obiettivo, cioè assunta come termine dell’I. conoscitiva (In
Sent., I, d. 23, a. 2). L’esse intentionale o esse apparens, INTENZIONALITÀ
come anche Aureolo lo chiama, è il manifestarsi della cosa all’I. conoscitiva
della mente (/bid., I, d. 9, a. 1). Questo sembrava ad Ockham ancora un inutile
schermo tra l’intelletto e la cosa (/n Sent., I, d. 27, q. 3 CC). Per Ockham
l’atto conoscitivo è un infentio nel senso che si riferisce direttamente alla
cosa significata. Come intenzione, il concetto non è che un segno che sta in
luogo di una classe di oggetti: uno qualsiasi dei quali può essere so- stituito
al concetto stesso nei giudizi e ragionamenti nei quali ricorre (/bid., I, d.
23, q. 1, D; Quodl., IV, q. 35; Summa Log., I, 12). L'I., come riferimento
all’oggetto, era stata in tal modo ridotta, dalla scolastica medievale, al ri-
ferimento del segno al suo designato; e per molto tempo cessa di essere
utilizzata come nozione au- tonoma. Soltanto nel sec. x1x, Francesco Brentano
riesumava questa nozione per assumerla come ca- ratteristica dei fenomeni psichici
(Psychologie vom empirischen Standpunkt, 1874). Questi si possono classificare
secondo le caratteristiche della loro I., cioè del loro riferimento
all’oggetto: nella rappre- sentazione, l’oggetto è semplicemente presente, nel
giudizio viene affermato o negato, nel sentimento viene amato od odiato. Tutti
e tre questi atti si riferiscono ad un «oggetto immanente» e sono atti
intenzionali; ma la loro I., cioè il loro riferi- mento all’oggetto, è diverso
per ciascuno di essi. Dapprima Brentano ritenne che l’oggetto dell’I. po- tesse
essere indifferentemente reale o irreale; in seguito, nella X/assification der
psychischen Phino- mene (1911) affermò che l’oggetto dell’I. è sempre reale e
che il riferimento ad un oggetto irreale è indiretto cioè effettuato per il
tramite di un soggetto che affermi o neghi l’oggetto stesso. A_ queste idee di
Brentano si ispirava Husserl assumendo la no- zione di I. non più come
contrassegno dei fenomeni psichici intesi come un gruppo di fenomeni che
coesistano insieme con altri fenomeni detti fisici, ma come la definizione
dello stesso rapporto tra il soggetto e l’oggetto della coscienza in generale.
Dice Husserl a questo proposito: «La caratteri- stica delle esperienze vissute
(Erlebnisse) che può essere indicata addirittura come il tema generale della
fenomenologia orientata oggettivamente, è l’intenzionalità. Essa rappresenta
una caratteri- stica essenziale della sfera delle esperienze vissute in quanto
tutte le esperienze hanno, in qualche modo, intenzionalità... L'I. è ciò che
caratterizza la coscienza in senso pregnante e consente di in- dicare la
corrente dell’esperienza vissuta come cor- rente di coscienza e come unità di
coscienza » (Ideen, I, $ 84). In seguito Husserl stesso ha parlato di
«intenzionalità fungente » per la quale l’esperienza vissuta si riferisce non
soltanto al suo oggetto ma anche a se stessa ed è perciò consapevolezza di
INTERESSE sè (v. FUNGENTE). Comunque, nell’ambito della fenomenologia l’I.
veniva assunta come la carat- teristica fondamentale della coscienza; e come
tale essa è rimasta in buona parte della filosofia contemporanea e specialmente
nella fenomeno- logia e nell’esistenzialismo (v. Coscienza). Il con- cetto di
rascendenza (v.), mediante il quale Heidegger ha definito il rapporto tra
l’uomo e il mondo, non è altro che una generalizzazione della intenzionalità.
Dice Heidegger: « Se si considera ogni rapportarsi all’ente come intenzionale,
allora l’I. è possibile solo sul fondamento della trascen- denza; ma, si badi
bene, nè I. e trascendenza si identificano nè questa si fonda in quella» (Vom
Wesen des Grundes, I; trad. ital., pag. 24). INTENZIONE (lat. /ntentio; ingl.
Intention; franc. Intention; ted. Gesinnung). Propriamente, l’in- tenzionalità
nel dominio pratico cioè il riferimento di un’attività pratica (desiderio,
aspirazione, vo- lontà) al suo proprio oggetto. In questo significato
l’intenzionalità dell’atto morale può essere ricono- sciuta da qualsiasi
dottrina morale. Tuttavia l’in- sistenza sul valore dell’I. come condizione
della moralità è uno dei tratti caratteristici dell’etica del fine, in quanto
distinta dall’etica del movente (v. Etica). Nell’etica del movente infatti la
mora- lità dell’azione si giudica sul fondamento della sua efficienza a
produrre il benessere, la felicità, ecc. Nell'’etica del fine, invece, la bontà
dell’azione si misura sul fondamento della direzione che il sog- getto imprime
all’azione, che è per l'appunto l’in- tenzione. San Tommaso giustamente dice a
questo proposito che «l’I. è il nome dell’atto della vo- lontà, essendo
presupposto l’ordinamento della ra- gione che ordina qualche cosa ad un fine +;
e che «l’I. appartiene primariamente e principalmente a ciò che muove verso un
fine » per cui essa è pro- priamente «l’atto della volontà » (S. 7%., II, 1, q.
12, a. 1). In questo senso l’I. è propria del- l’etica del fine. Pertanto la
nozione di essa non si trova nell’etica aristotelica nella quale l’analisi
dell’atto morale è fatta in base a un'etica del movente; e non si trova in
tutte le etiche dello stesso genere, per es., nell’utilitarismo. Dall’altro
lato, soprattutto la morale teologica tende ad in- sistere sul valore
dell’intenzione. Abelardo diceva: « Dio tiene conto non delle cose che si
fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito ed il va- lore di colui che
agisce non consiste nell’azione ma nell’I. » (Scito te ipsum, 3). La stessa
morale kantiana, soprattutto nei suoi aspetti di predica- zione laica ed
edificatoria, insiste fortemente sul valore dell’I.: l’esaltazione della «
buona volontà » con cui s’inizia la Fondazione della metafisica dei costumi è
in realtà un’esaltazione dell’intenzione. E la prima parte della Critica della
Ragion Pratica 499 si conclude anch'essa con l'esaltazione della «I. veramente
morale e consacrata immediatamente alla legge ». Per contro, la differenza tra
l’etica dell’I. e l’etica oggettiva è stata ben espressa da Max Weber: « Nella
sfera della condotta personale vi sono problemi etici specifici che l’etica non
può risolvere sulla base dei suoi propri presupposti. C’è anzitutto la
fondamentale questione: a) se l’intrinseco valore della condotta etica — la ‘
pura volontà * o ‘1’I.* come si suole chiamarla — basti alla sua
giustificazione secondo la massima cri- stiana: “il cristiano agisce bene e
lascia a Dio le conseguenze della sua azione” o 5) se la re- sponsabilità delle
conseguenze prevedibili dell’azione dev'essere presa in considerazione. Ogni
atteggia- mento politicamente rivoluzionario e specialmente il sindacalismo
rivoluzionario, hanno il loro punto di partenza nel primo postulato; ogni
politica rea- listica nel secondo. Entrambi invocano massime etiche. Ma queste
massime sono tra loro in eterno conflitto, un conflitto che non può essere
risolto per mezzo della sola etica + (« Der Sinn der Wert- freiheit der soziologischen
und 6konomischen Wis- senschaften », 1917; trad. ingl., in The Methodology of
the Social Sciences, pag. 16). L’etica moderna e contemporanea, in quanto è
prevalentemente un’etica del movente (v. Erica) dà la prevalenza a quello che
Weber ha chiamato il secondo postu- lato. Dall'altro lato lo scetticismo assai
diffuso nella filosofia contemporanea circa la possibilità di conoscere, con
sufficiente probabilità, ciò che ac- cade nell’intimo della coscienza
individuale, ha con- dotto la psicologia del comportamento a conside- rare l’I.
come l'operazione (o la parte di una operazione) che costituisce l’esecuzione
di un piano o progetto di condotta. In questo caso la frase «Ho l’I. di vedere
Giacomo significa semplicemente che sono impegnato nella esecuzione di un piano
di cui è parte l’incontro con Giacomo (MILLER, GALANTER, PRIBRAM, Plans and the
Structure of Behavior, 1960, pag. 61). INTERAZIONE. TRANSAZIONE. INTERESSANTE
(ingl. Interesting; franc. In- téressant; ted. Interessant). Kierkegaard ha sotto-
lineato l’importanza di questo concetto, considerato da lui come « una
categoria limite ai confini del- l’estetica e dell’etica e perciò come la
categoria del punto critico ». Socrate fu, per es., il più I. degli uomini che
siano vissuti e la sua vita la più I. delle vite vissute. Ma quella esistenza
gli fu asse- gnata dalla divinità e nella misura in cui dovette conquistarla da
sè, dovette conoscere pene e dolori (Furcht und Zittern, in Werke, III, 131).
INTERESSE (ingl. Interest; franc. Intérét; te- desco Interesse). La
partecipazione personale ad V. AZIONE RECIPROCA; 500 una situazione qualsiasi e
la dipendenza che ne deriva per la persona interessata. Si tratta di un
concetto moderno, che Kant utilizza nel dominio dell’estetica, allo scopo di
affermare il carattere « disinteressato » del piacere estetico. Dice Kant: « È
detto I. il piacere che noi congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza
di un oggetto. Questo piacere perciò ha sempre relazione con la facoltà di
desiderare o in quanto causa determi- nante di esso o in quanto necessariamente
atti- nente a tale causa. Ma quando si tratta di giudicare se una cosa è bella,
non si vuol sapere se a noi o a chiunque altro importi o possa importare la sua
esistenza, ma solo come la giudichiamo con- templandola » (Crit. del Giud., $
2). Hegel a sua volta definendo l’I. come « il momento dell’indivi- dualità
soggettiva e della sua attività » intendeva con esso la presenza del soggetto
all’azione (Enc., $ 475). La nozione di I. è stata soprattutto utiliz- zata nel
dominio della pedagogia. L’I. è qui la partecipazione dell’educando al sapere,
per la quale il sapere appare all’educando stesso come utile. Era stata questa
una delle regole proposte per l’educazione nell’Emilio di Rousseau. Ma è stato
Herbart a utilizzare sistematicamente la nozione di 1., indicando come fine
dell’educazione la plurila- teralità degli interessi. Secondo Herbart, 1’I. sta
in mezzo tra l’essere spettatore dei fatti e l’inter- venirvi; è, in altri
termini, una partecipazione non ancora totalmente attiva o impegnata. L’I. poi
si distingue dal desiderio in quanto, mentre l’oggetto di quest’ultimo non
esiste ancora, l’oggetto dell’I. è già presente e reale (A//gemeine Pidagogik,
1873, lI, 1, 2, $ 3). Fra i pedagogisti contemporanei Dewey ha insistito sul
valore dell’I., definendolo come «l'accompagnamento dell’identificazione, at-
traverso l’azione, dell'io con qualche oggetto o idea, per via della necessità
di tale oggetto od idea per il mantenimento dell’autoespressione » (Educa- tional
Essays, ed. by J. J. Findlay, pag. 89). Da questo punto di vista, lo sforzo,
che si suole tal- volta, in pedagogia, contrapporre all’I., implica una
separazione tra l’io e l'oggetto che deve essere appreso o padroneggiato. I
caratteri dell’I. sono, secondo Dewey, l’attività, la proiettività e la pro-
pulsività. Per il primo, l’I. è dinamico cioè spinge all’azione. Per il
secondo, l’I. ha il proprio fine fuori di sè, in qualche oggetto o scopo al
quale esso si attacca. Per il terzo, l’I. significa una rea- lizzazione interna
o un sentimento di valore (/bid., pag. 90-91). Questa concezione dell’I., che è
uno dei punti focali della pedagogia di Dewey, ha fortemente influenzato la
teoria e la pratica del- l'educazione in tutti i paesi dell'Occidente. INTERFENOMENO
(ingl. Interphenomenon). Termine creato da H. Reichenbach per indicare gli
INTERFENOMENO eventi subatomici non osservabili cioè non imme- diatamente
inferibili dall’osservazione: per es., il movimento di un elettrone o di un
raggio lumi- noso dalla sorgente sino all’incontro con un'altra materia. «
Eventi di questa specie vengono intro- dotti attraverso catene di inferenze di
tipo molto più complicato. Essi sono costruiti sotto forma di un’interpolazione
entro il mondo dei fenomeni, e la distinzione tra fenomeni e I. è l’analogo,
nella meccanica quantistica, della distinzione tra cose osservate e quelle non
osservate» (Philosophic Foundations of Quantum Mechanics, I, 6). INTERIORITÀ.
V. ESTERIORITÀ. INTERMUNDI (gr. peraxsopia; lat. Inter mundia). Gli spazi fra i
mondi, nei quali, secondo Epicuro, abitano gli Dei (Diog. L., X, 89; Cice-
RONE, De Div., II, 17, 40; De nat. deor., 16-19). INTERPRETANTE, INTERPRETE
(in- glese Interpretant, Interpreter). Nella semiotica con- temporanea, i due
termini significano rispettiva- mente: la disposizione a rispondere a un segno
e colui (in generale l’organismo) che adopera il segno o si esprime con esso
(Morris, Foundations of a Theory of Signs, $ 3) (v. SEMIOTICA). INTERPRETAZIONE
(gr. tpunvela; lat. Zn- terpretatio; ingl. Interpretation; franc.
Interprétation; ted. Interpretation, Auslegung). In generale, la pos- sibilità
di riferire un segno al suo designato; o anche l’operazione con cui un soggetto
(interprete) riferisce un segno al suo oggetto (designato). Ari- stotele chiamò
I. il libro in cui studiava il rap- porto dei segni linguistici con i pensieri
e dei pensieri con le cose. Egli infatti considerava le parole come «segni
delle affezioni dell'anima che sono le medesime per tutti e costituiscono le
im- magini di oggetti che sono identici per tutti» e considerava inoltre come
soggetto attivo di questo riferimento l’anima o l’intelletto (De Interpr., 1,
16 a, 1 sgg.). Boezio, per il tramite del quale la dottrina è passata nella
Scolastica latina, intendeva per I. «qualsiasi voce che significa qualcosa di
per se stessa » includendo perciò fra le I. i nomi, i verbi e le proposizioni
ed escludendone le congiun- zioni, le preposizioni e in generale i termini del
discorso che non significano nulla di per se stessi. Il riferimento del segno
al suo designato era perciò, per lui, l’essenziale dell’interpretazione. (In
librum de interpr. editio prima, I, in P.L., 64, col. 295). In questa
concezione, l’I. è il riferimento dei segni verbali ai concetti (le « affezioni
della mente +) e dei concetti alle cose. Le caratteristiche della dot- trina
possono essere così fissate: 1° l’I. è un evento che accade «nell'anima» cioè
un evento men- tale; 2° il segno verbale o scritto è diverso dall’af- fezione
della mente o concetto e si riferisce a INTROIEZIONE questo; 3° il rapporto tra
il segno verbale e il concetto è arbitrario e convenzionale mentre il rapporto
tra il concetto e l’oggetto è universale e necessario. Questi capisaldi sono
rimasti per lungo tempo immutati. Nonostante gli sviluppi che la teoria dei
segni ha ricevuto dalla logica stoica, medievale e moderna, la dottrina dell’I.
ha continuato a con- siderare per molto tempo il processo interpretativo come
proprio dell’anima o della mente cioè come un processo mentale. Solo nella
filosofia contem- poranea si è prospettata un’altra alternativa, secondo la
quale esso è un abito o comportamento. Per quanto non manchi anche oggi chi
consideri l’I. un processo mentale (C. K. OpGEN-I. A. RICHARDS, The Meaning of
Meaning, 1952 [1 ediz., 1923], pag. 57; Ducasse, in Journal of Symbolic Logic,
1939, n. 4), la semiotica americana ha presentato l’altra dottrina fondamentale
dell’I. che è quella comportamentistica. I presupposti di questa dot- trina si
trovano nell’opera di Carlo Peirce, che intese l’I. come un processo triadico,
intercedente fra un segno, il suo oggetto, il suo interpretante, intendendosi
per quest’ultimo il rapporto tra il primo e il secondo termine (Coll. Pap.,
5.484). Per quanto in Peirce rimangono ancora molti pre- supposti della vecchia
dottrina, egli intese l’I., non come un atto semplicemente mentale, ma come un
abito d’azione cioè come la risposta abituale e costante che l'interprete del
segno dà al segno stesso (/bid., 5.475 sgg.). Questo è il punto di vista che
Carlo Morris ha fatto prevalere nella semiotica contemporanea (Foundations of a
Theory of Signs, 1938; Signs, Language and Behavior, 1946). Da questo punto di
vista l’I. ha i seguenti caratteri: 1° non è (o non è soltanto) un abito
mentale ma un comportamento (v.) cioè la risposta oggettivamente osservabile e
costante di un orga- nismo ad uno stimolo; 2° non esiste differenza tra segni
mentali e segni verbali, nel senso che i primi siano suscettibili di un’I.
necessaria e gli altri no; 3° il riferimento dei segni ai loro oggetti non è nè
necessario nè arbitrario, ma è determinato dall’uso (nei linguaggi comuni) o da
convenzioni opportune (nei linguaggi speciali). Le notazioni precedenti
concernono la teoria dell’I. nella semiotica (v.). Bisogna però osservare che la
parola ha, nel linguaggio scientifico e filo- sofico odierno, usi specifici
diversi, che solo in- direttamente si possono riportare a quello chiarito. Si
parla di I. nella scienza quando si fa corri- spondere a un sistema assiomatico
un determinato modello (v. ASsioMaATIZZAZIONE, MODELLO): cioè un esempio
concreto o un insieme di entità che soddisfi le condizioni enunciate dal
sistema assio- matico. In questo senso la geometria ordinaria può 501 essere
l’I. di un certo sistema assiomatico, per es., dell’assiomatica di Hilbert. Un
altro uso del ter- mine è quello che si fa nelle discipline storiche, quando si
parla dell’I. di un certo evento o com- plesso di eventi o di un periodo. In
questo caso ’I. è un aspetto della scelta storiografica; e con- siste nella
scelta delle caratteristiche storiche che si assumono come dominanti e
centrali, rispetto alle quali le altre vengono a situarsi in un rango
subordinato e secondario. In questo senso si parla, per es., di I.
materialistica della storia, quando si assumono come primari e fondamentali gli
aspetti materiali (o economici) della storia stessa (v. StoRrIOGRAFIA). L’I.
può avere altri sensi specifici in altri campi di ricerca e può avere anche
quello di spiegazione (come quando si parla, per es., dell’I. di un fenomeno
fisico o, come faceva Ba- cone Nov. Org., I, 26) della natura in generale.
Indipendentemente da tutti i significati richiamati, Heidegger l’ha definita
come lo sviluppo e la realizzazione effettiva della comprensione: « L’I. non è
la presa di cognizione del compreso, ma l’ela- borazione delle possibilità
progettate nella com- prensione » (Sein und Zeit, $ 32). Questo concetto non è
utilizzabile per l’analisi dell'uso del termine nei vari campi. INTERROGAZIONE
MULTIPLA (gr. 16 tà melo tpotiuata Ev rotetv; modvtanthote; lat. Plurium
interrogationum fallacia; ted. Hetero- zetesis). Una delle fallacie extra
dictionem enume- rate da Aristotele e precisamente quella che consiste nella
riduzione di parecchie domande a una sola, giocando così sull’unicità della
risposta che l’av- versario è tentato di dare (ARIST., EI. .Sof., 30, 181 a 30;
Pretro Ispano, Sumun. Logicales, 7.62- 7.64; JunGIus, Logica Hamburgensis, VI,
12, 16; GENOVESI, Ars Logico-critica, V, 11, 12; ecc.) (v. FALLACIA).
INTERSOGGETTIVO (ingl. /ntersubjective; franc. Intersubjectif; ted.
Intersubjektiv). Termine usato nella filosofia contemporanea per designare: 1°
ciò che concerne i rapporti tra i vari soggetti umani, come quando si dice «
esperienza I. +; 2° ciò che è valido per un soggetto qualsiasi, come quando si
dice «concetto I.+ o «verifica I.» (v. UNIVER- SALE, 2). INTIMISMO (franc.
Intimisme). L'atteggiamento che consiste nel concentrarsi sulle proprie vicende
interiori. Si dice soprattutto di poeti e letterati, e in senso leggermente
dispregiativo di filosofie che intendono la filosofia come una specie di auto-
biografia mascherata (v. EGOCENTRISMO; EGOTISMO). INTRINSECO. V. EstRINSECO.
INTROIEZIONE (ingl. /ntrojection; ted. In- trojektion). Termine introdotto da
Riccardo Ave- narius (Kritik der reinen Erfahrung, 1888-90) per 502 designare
il processo col quale, falsificando l’espe- rienza, si riduce l’oggetto a una
rappresentazione interna dell’io e si ammette che anche gli altri individui
hanno una simile rappresentazione interna. Tale processo, che è una
interiorizzazione dell’og- getto, dà origine alla divisione ingannevole tra
esperienza interna ed esperienza esterna, mentre l’esperienza, secondo
Avenarius, è una sola ed è sempre un rapporto diretto tra un oggetto e un
organismo. INTROSPEZIONE (ingl. Introspection; fran- cese /ntrospection; ted.
Introspektion). L’auto-osser- vazione interiore cioè l'osservazione che l’io fa
dei propri stati interni. Il termine fu messo in uso dalla psicologia dell’800,
che indicò con esso il metodo psicologico fondamentale, ritenuto insosti-
tuibile sino all'avvento del comportamentismo (v.). Comte aveva elevato contro
l’I. un’obiezione di principio: « L’individuo pensante, aveva detto, non può
dividersi in due, di cui l’uno ragioni, mentre l’altro lo guardi ragionare.
L’organo osservato e l’organo osservatore essendo in questo caso iden- tici,
come potrebbe l'osservazione aver luogo?» (Cours de phil. positive, 1830, I,
Sez. I, $ 8). Comte aveva concluso perciò all’impossibilità della psicologia e
l’aveva espunta dalla sua enciclopedia delle scienze. Nel 1868, Peirce
rispondeva negati- vamente alla questione «se abbiamo una facoltà di I.» e
concludeva che «il solo modo di investi- gare una questione psicologica è
l’inferenza dai fatti esterni» (Coll. Pap., 5.244-249; 7.418 sgg.). Questa
conclusione di Peirce è il primo accenno dell’avviarsi dell'indagine
psicologica verso il com- portamentismo (v.). INTUIZIONE (gr. emo; lat.
Insuitus, In- tuitio; ingl. Intuition; franc. Intuition; ted. An- schauung). Il
rapporto diretto (cioè privo di in- termediari) con un oggetto qualsiasi:
rapporto che perciò implica la presenza effettiva dell’oggetto. Così l’intuito
è stato costantemente inteso nella storia della filosofia, a cominciare da
Plotino che usa il termine per designare la conoscenza imme- diata e totale che
l’Intelletto divino ha di sè e dei suoi propri oggetti (Enn., IV, 4, 1; IV, 4,
2). In questo senso l’I. è una forma di conoscenza superiore e privilegiata;
giacchè ad essa, come alla visione sensibile su cui si modella, l’oggetto è
immediatamente presente. Boezio parlava dell’ in- tuito divino » che è il colpo
d’occhio con cui Dio abbraccia le cose senza mutarle (Phil. Cons., V, 6). E S.
Tommaso diceva riferendosi a Dio: «Il suo intuito verte su tutte le cose in
quanto sono da- vanti a lui nella loro presenzialità» (S. 7A., I, q. 14, a. 13;
cfr. q. 14, a. 9). La conoscenza di- vina si distingue per questo suo carattere
dalla conoscenza umana, che procede componendo e INTROSPEZIONE dividendo cioè
mediante atti successivi di afferma- zione e negazione (/bid., I, q. 85, a. 5).
Il carattere intuitivo della conoscenza divina si contrappone qui al carattere
discorsivo della conoscenza umana (v. DIANOIA; DISCORSIVO). Ma già la filosofia
medievale adoperò il termine per indicare una forma particolare e privilegiata
della stessa conoscenza umana e in primo luogo la conoscenza empirica. Ruggero
Bacone diceva che «l’anima non s’acqueta nell’inzuito della verità se non la
trova per via dell'esperienza» (Opus Maius, VI, 1). Duns Scoto privilegiava
come co- noscenza intuitiva (cognitio intuitiva) quella che « si riferisce a
ciò che esiste o a ciò che è presente in una certa esistenza attuale +,
distinguendola dalla conoscenza astrattiva (v. ASTRATTIVA) che astrae dall’esistenza
attuale (Op. Ox., II, d. 3, q. 9, n. 6). Questa nozione veniva accettata da
Durando di S. Pourgain (In Sent., Prol., q. 3 F) e da Ockham che, come Bacone,
identificava la conoscenza in- tuitiva con l’esperienza (/n Sent., Prol., q. 1
Z). Da questo momento in poi, e fino a Kant, il signi- ficato specifico del
termine è per l'appunto quello di esperienza (v.). Ma nello stesso tempo il
termine conserva il suo significato generico di rapporto immediato con un
oggetto qualsiasi. In tal senso Cartesio parlava dell’intuito evidente (evidens
intuitus) come di una delle due vie che conducono alla conoscenza certa
(l’altra è la « deduzione necessaria +): intendendo per esso l’apprensione
immediata di un qualsiasi oggetto mentale. « L’intuito della mente, egli diceva,
si estende sia alle cose, sia alla conoscenza delle loro reciproche connessioni
necessarie, sia infine a tutto ciò che l’intelletto sperimenta con precisione
in se stesso o nell’immaginazione » (Regulae ad directionem ingenii, 12). Nello
stesso senso, Locke chiamava intuitiva la conoscenza che percepisce la
concordanza o la discordanza tra due idee imme- diatamente, cioè senza
l’intervento di altre idee (Saggio, IV, 2, 1); e chiamava I., proprio per la
sua immediatezza, la conoscenza che abbiamo della nostra propria esistenza
(Ibid., IV, 9, 3). Ancora nel medesimo senso Leibniz diceva che si conoscono
per I. le «verità primitive» sia di ragione sia di fatto (Nouv. Ess., IV, 2,
1), cioè le verità che l’intelletto apprende o possiede senza la mediazione di
altre. Questo significato veniva accettato da Stuart Mill: «Le verità, egli
diceva, ci sono conosciute in due modi: alcune sono co- nosciute direttamente o
di per se stesse; altre attraverso la mediazione di altre verità. Le prime sono
oggetto dell’I. o coscienza; le seconde del- l’inferenza » (Logic, Intr., $ 4).
Kant a sua volta si riferiva al senso tradizionale del termine affer- mando che
«l’I. è la rappresentazione quale sa- INTULZIONE rebbe per la sua dipendenza
dall’immediata pre- senza dell’oggetto » (Pro/., $ 8). L’I. è perciò in
generale per Kant la conoscenza alla quale l’og- getto stesso è direttamente
presente. Ma Kant distingue una I. sensibile e una I. intellettuale. L’I.
sensibile è quella di ogni essere pensante finito, a cui l’oggetto è dato: essa
è perciò pas- sività, affezione (Crit. R. Pura, Anal. dei concetti, sez. I).
L’I. intellettuale è invece originaria e crea- tiva; è quella per la quale
l’oggetto stesso è posto o creato ed è perciò propria soltanto dell’Essere
creatore, di Dio (/bid., $ 8, in fine; passim). L’I. intellettuale, è, in altri
termini, l’intuito divino della filosofia tradizionale: la presenza
dell’oggetto a questo intuito è inevitabile e necessaria perchè l’oggetto è
creato dall’intuito stesso. Questa distinzione kantiana fu conservata dal
Romanticismo, ma solo allo scopo di rivendicare per l’uomo II. intellettuale o
creativa che Kant e gli antichi riservavano a Dio. E la cosa s'intende:
giacchè, per i Romantici, la conoscenza umana è la stessa conoscenza con cui lo
Spirito assoluto o creatore conosce se stesso, o è almeno un aspetto o un
momento di essa. Così Fichte intende per I. intellettuale «la coscienza
immediata che io opero e di ciò che io opero e che è ciò per cui l’Io sa in
quanto fa» (Werke, I, pag. 463). A sua volta Schelling afferma che «la
filosofia trascendentale dev'essere costantemente accompagnata dall’I. in-
tellettuale » e che l’io stesso è « una continua I. in- tellettuale » in quanto
« produce se stesso ». « Come senza l’I. dello spazio, egli aggiunge, sarebbe
asso- lutamente incomprensibile la geometria, perchè tutte le sue costruzioni
non sono che forme e maniere svariate per limitare quell’I., così pure senza
l’I. intellettuale sarebbe impossibile la filosofia perchè tutti i suoi
concetti non sono che limitazioni di- verse del produrre che ha per oggetto se
stesso cioè dell’I. intellettuale » (System der transzenden- talen Idealismus,
sez. I, cap. I; trad. ital., pag. 39). Hegel a sua volta identificava I. e
pensiero. «Il puro intuire, egli diceva, è il medesimo del puro pensare... Fede
e I. debbono essere prese in senso più alto, come fede in Dio, come I.
intellettuale di Dio: vale a dire si deve astrarre proprio da ciò che forma la
differenza dell’I. e della fede dal pen- siero. Non si può dire che fede e I.
trasportate in questa più alta regione siano ancora diverse dal pensiero »
(Enc., $ 63). La stessa tesi è sostenuta da Schopenhauer che identifica
intelletto e I. e pre- tende che anche le connessioni logiche siano ridotte ad
elementi intuitivi (Die Welt, I, $ 15). Allo stesso ceppo di concetti
appartiene la nozione di un’I. come ricorre in Rosmini, quale apprensione
immediata dell’idea dell’essere in generale (Nuovo saggio, $ 1159;
Antropologia, $ 40, 505; Psicologia, 503 $ 13). E sebbene Gioberti polemizzasse
con Ro- smini circa il carattere indeterminato e vuoto dell’idea dell’essere,
accettava tuttavia la nozione di intuito come rapporto immediato, totale e nc-
cessario della mente umana con Dio e con la sua azione creatrice (/ntr. allo studio
della fil., II, pag. 46). Questa era ancora e sempre una « I. in- tellettuale
». Ma è un'I. intellettuale anche l’I. di cui parla Bergson per quanto carica
di polemica anti-intellettualistica o anti-razionalistica. Essa in- fatti, come
organo proprio della filosofia, possiede i caratteri della romantica I.
intellettuale: un rap- porto immediato o diretto con la realtà assoluta, cioè
con la durata della coscienza o con lo slancio creativo della vita. L’I., dice
Bergson, « è la visione dello spirito da parte dello spirito ». «I. significa
dapprima coscienza ma coscienza immediata, vi- sione che si distingue appena
dall’oggetto visto, conoscenza che è contatto e perfino coincidenza » (La
pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 35-36). Gli stessi caratteri formali
possiede l’I. eidetica o I. delle essenze di cui parla Husserl: «L'essenza è un
oggetto di nuova specie, egli dice. Come il dato dell’I. individuale empirica è
un oggetto in- dividuale, così il dato dell’I. eidetica è un’essenza pura. Non
si tratta di un’analogia esterna, bensì di una radicale affinità. Anche l’I.
eidetica è un’I. come l’oggetto eidetico è un oggetto. La genera- lizzazione
dei concetti correlativi ‘ I.’ e ‘oggetto ’ non è arbitraria ma richiesta
necessariamente dalla natura delle cose» (/deen, I, $ 3). Infine, l’I. che
Croce identifica con l’arte ha gli stessi caratteri formali: è conoscenza
originaria e immediata che perciò non distingue tra reale e irreale; ha
carattere o fisionomia individuale ed esprime direttamente l’oggetto (Estetica,
cap. 1). Ricapitolando i caratteri comuni e quelli diffe- renziali che I’I. ha
rivestito nella storia della filo- sofia, si possono fissare i primi nel modo
seguente. L’I. è un rapporto con l’oggetto caratterizzato: 1° dalla
immediatezza del rapporto stesso; 2° dalla presenza effettiva dell’oggetto.
Costantemente, in base a questi caratteri, l’I. è considerata come una forma di
conoscenza privilegiata. D’altra parte, i suoi caratteri differenziali possono
essere distinti così: 1° l’I. può essere riservata a Dio e consi- derata come
la conoscenza che il creatore ha delle cose create; 2° può essere attribuita
all'uomo e considerata come l’esperienza in quanto conoscenza immediata di un
oggetto presente e in questo senso non è che percezione (v.); 3° può essere
attribuita all'uomo e considerata una conoscenza originaria e creativa nel
senso romantico. Tutte e tre queste alternative hanno perduto buona parte del
loro interesse nella filosofia contemporanea. La prima infatti appartiene alla
sfera delle specula- 504 zioni teologiche. La seconda tende ad essere sosti-
tuita dal concetto dell’esperienza come metodo o come insieme di metodi (v.
EspeRrIENZA). La terza è strettamente legata alla metafisica del Ro- manticismo
(vecchio e nuovo) e sta e cade con esso. Nel 1868 Peirce sottoponeva a critica
il concetto di I., negando: 1° che essa potesse servire a garan- tire il
riferimento immediato di una conoscenza al suo oggetto; 2° che essa potesse
costituire la co- noscenza evidente che l’Io ha di se stesso; 3° che potesse
rendere capaci di distinguere gli elementi soggettivi di conoscenze differenti.
Nello Stesso tempo, Peirce affermava l'impossibilità di pensare senza segni e
di conoscere senza ricorrere al le- game reciproco delle conoscenze medesime
(Coll. Pap., 5.213-263). Queste negazioni e affermazioni di Peirce sono state e
sono largamente accettate dalla filosofia contemporanea. All’I. oggi fanno
appello, più che i filosofi, gli scienziati e in particolare i matematici o i
logici quando vogliono sottolineare il carattere inventivo della loro scienza.
Diceva Claude Bernard: «L’I. o sentimento genera l’idea o l'ipotesi
sperimentale cioè l’interpretazione anticipata dei fenomeni della natura. Tutta
l’iniziativa sperimentale è nell’idea giacchè essa sola provoca l’esperienza.
La ragione o il ragionamento servono solo a dedurre le con- seguenze di questa
idea e a sottoporle all’espe- rienza » (Zntr. d l’étude de la médecine
expérimentale, 1865, I, 2, $ 2). Poincaré ripeteva, con riferimento alle
matematiche, ciò che Bernard aveva detto a proposito delle scienze
sperimentali: « Con la lo- gica si dimostra, ma solo con l’I. si inventa... La
facoltà che ci insegna a vedere è l'intuizione. Senza di essa, il geometra
sarebbe come uno scrittore forte in grammatica ma privo di idee » (Science et
méthode, 1909, pag. 137). Nelle matematiche l’esi- genza logica porta secondo
Poincaré all’imposta- zione analitica, quella intuitiva all'impostazione
geometrica. « Così, la logica e l’I. hanno ciascuna il suo compito. Entrambe sono
indispensabili. La logica, che sola può dare la certezza, è lo stru- mento
della dimostrazione: l’I. è lo strumento dell’invenzione » (La valeur de la
science, 1905, pag. 29). In questo senso, come è stato talora osservato, l’I.
ha più un carattere negativo che positivo: essa anticipa ciò che mon risulta
dall’os- servazione empirica o non può essere dedotto dalle conoscenze già
possedute. Non sembra designare, pertanto, che un certo grado di libertà del
ricer- catore e non ha niente a che fare con il significato filosofico
tradizionale del termine. Ad esso invece si riconduce l’uso che fanno del
termine i mate- matici intuizionisti (v. INTUIZIONISMO, 49). INTUIZIONE DEL
MONDO (ted. Weltan- schauung). Sulla filosofia come «I.» o « visione del
INTUIZIONE DEL MONDO mondo », v. FiLosoria. K. Jaspers ha scritto una
Psicologia delle visioni del mondo, distinguendo l’immagine spazio-sensoriale
del mondo, quella psichico culturale e quella metafisica (Psychologie der
Weltanschauungen, 1925; trad. ital., Roma, 1950). INTUIZIONISMO (ingl.
Intuitionism; francese Intuitionnisme; ted. Intuitionismus). Con questo ter-
mine vengono indicati atteggiamenti filosofici o scientifici diversi che hanno
in comune il ricorso all’intuizione nel senso più generale del termine. In
particolare, vanno sotto il nome di I. i seguenti indirizzi: 1° la filosofia
scozzese del senso comune in quanto ammette che la filosofia si fonda su certe
verità primitive e indubitabili, conosciute per in- tuizione (v. SENSO COMUNE);
2° la dottrina di Bergson secondo la quale l’intuizione è l’organo proprio
della filosofia; 3° la dottrina di N. Hartmann e di Scheler secondo la quale i
valori sono oggetto di un’in- tuizione che s’identifica col sentimento (v.
VALORE); 4° l’indirizzo matematico fondato da L. E. J. Brouwer e che si ispira
alle idee di Leopoldo Kronecker (1923-91): il quale riteneva dato all’in-
tuizione umana il concetto di numero naturale asserendo che i numeri naturali
li ha fatti Dio e gli altri li ha fatti l’uomo. Le tesi tipiche dell'I. di
Brouwer sono le seguenti: 1° l’esistenza degli og- getti matematici è definita
dalla possibilità di co- struzione degli oggetti stessi: perciò « esistono +
solo enti matematici che si possono costruire; 2° il principio del terzo
escluso non è valido rispetto a proposizioni in cui ricorre il riferimento a
gran- dezze infinite; 3° le definizioni impredicative non sono valide. Il
rigetto del principio del terzo escluso implica il rigetto della doppia
negazione quindi del metodo della prova indiretta. Questo metodo è invece a
fondamento dell’indirizzo for- malistico della matematica, patrocinato da
Hilbert; e in conformità di esso basta a stabilire l’esistenza di un’entità
matematica la dimostrazione che essa non implica contraddizione (cfr. A.
HerTING, Ma- thematische Grundlagenforschung, Intuitionismus und Beweistheorie,
Berlin, 1934). INVARIANTE (ingl. Invariant; franc. Inva- riant; ted.
Invariante). Una proprietà costante: più in particolare, nella teoria dei
gruppi, una proprietà che rimane la stessa sotto un gruppo di trasformazioni
(v. GRUPPO; TRASFORMAZIONE). INVENZIONE (ingl. Invention; franc. Inven- tion;
ted. Erfindung). «Inventare qualcosa, disse Kant, è del tutto diverso dallo
scoprire. La cosa che si scopre, si ammette come già preesistente, solo che non
era ancora conosciuta, come l’Ame- rica prima di Colombo; quella invece che si
in- venta, come la polvere da sparo non esisteva affatto prima di colui che la
inventò» (Antr., I, $ 57). La capacità inventiva si chiama, tradizional- mente,
genio (v.). I problemi relativi all’I. assu- mono aspetti diversi nei vari
campi. Nella logica sono stati talora dibattuti a proposito della ro- pica (v.)
o dell’intuizione (v.). Nell’arte a proposito del genio (v.). INVOLGERE (lat.
Involvere; ingl. Involve; ted. Involvieren). Implicare, contenere. Così Spi-
noza diceva, riferendosi alla Causa prima, che «la sua essenza involge
l’esistenza» (Er., I, Def. 1). Il termine corrisponde esattamente all’ingl. To
entail, usato per indicare l’implicazione stretta o formale. V. IMPLICAZIONE.
INVOLUZIONE (lat. /Involutio; ingl. Involu- tion; franc. Involution; ted.
Involution). 1. L’opposto di evoluzione. La parola fu adoperata da Kant per
indicare la teoria biologica opposta a quella della preformazione individuale,
teoria che egli chia- mava dell’evoluzione (Crit. del Giud., $ 81). Oggi, col
nome di I. si indicano i fenomeni opposti a quelli di evoluzione cioè i
fenomeni regressivi del- l'evoluzione. A. Lalande ha sostenuto la tesi che il
progresso in ogni campo dipende, non dal pas- saggio dall’omogeneo
all’etereogeneo, come voleva Spencer, ma dal passaggio dall’etereogeneo
all’omo- geneo che è la dissoluzione o I. (L’idée directrice de la Dissolution
opposée a celle de l'Évolution dans la méthode des sciences physiques et morales,
1898, 28 ediz., col titolo Les Illusions évolutionnistes, 1931). 2. Nella
logica simbolica, il procedimento che corrisponde all’elevazione a potenza
dell’aritmetica (cfr. PEIRCE, Coll. Pap., 3.614-15). IO (lat. Ego; ingl. /,
Self; franc. Moi; ted. Ich). Questo pronome, con cui l’uomo designa se stesso,
è diventato oggetto di investigazione filosofica dal momento in cui il
riferimento dell’uomo a se stesso, come riflessione su di sè o coscienza, è
stato assunto a definizione dell’uomo. Ciò è avve- nuto con Cartesio; e da
Cartesio appunto il pro- blema dell’io è stato per la prima volta posto in
termini espliciti. « Che cosa dunque sono io?, chie- deva Cartesio. Una cosa
che pensa. Ma che cos'è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, con-
cepisce, afferma, nega, vuole o non vuole, imma- gina e sente. Certo non è poco
se tutte queste cose appartengono alla mia natura. Ma perchè non le
apparterrebbero?... È di per sè evidente che sono io che dubito, che intendo e
che desidero e che non c'è bisogno di aggiungere nulla per spiegarlo » (Med.,
II). Come si vede la posizione del problema dell’io è qui subito accompagnata
dalla sua soluzione: l’io è coscienza cioè rapporto con se stesso,
soggettività. Questa è la prima delle interpretazioni storicamente date dell’io.
Possono poi enumerarsi le altre interpretazioni seguenti: IO 505 l'io come
autocoscienza; l’io come unità; l’io come rapporto. 1° La definizione
cartesiana dell’io come co- scienza fu immediatamente accolta e incorporata
nella tradizione filosofica. Locke la faceva sua e la rielaborava allo scopo di
giustificare una carat- teristica formale dell’io: l’unità o identità. Egli
diceva: « Quando vediamo, udiamo, odoriamo, gu- stiamo, tocchiamo, meditiamo o
vogliamo una cosa, noi ci accorgiamo di farla. Altrettanto accade sempre nel
caso delle nostre sensazioni e percezioni attuali; e in tal modo ognuno è a se
stesso ciò che egli chiama se stesso: e in questo caso non si prende in
considerazione il fatto che il medesimo io si continui nelle stesse sostanze o
in sostanze diverse. Poichè la consapevolezza sempre accompagna il pen- siero
ed essendo quella che fa sì che ciascuno sia ciò che egli chiama se stesso e in
tal modo di- stingue se stesso da tutte le altre cose pensanti, in ciò solo
consiste l’identità personale » (Saggio, II, 27, 11). In altri termini, secondo
Locke, l’iden- tità dell'io non è fondata sull’unità o semplicità della
sostanza-anima ma unicamente sulla coscienza; ed è, anzi, questa coscienza in
quanto si riconosce nella diversità delle sue manifestazioni. Leibniz, pure
insistendo sulla importanza di quella che egli chiamava coscienza o sentimento
dell’io, non rite- neva che essa sola costituisse l’identità personale e vi
aggiungeva « l’identità fisica e reale » (Nouv. Ess., II, 27, 10). Questo punto
di vista si trova frequen- temente espresso nella filosofia moderna e contem-
poranea, che talora ha accentuato il carattere attivo o volitivo della
coscienza. Così ha fatto, per es., Maine de Biran. «La causalità o la forza
cioè l’io, egli ha detto, resa manifesta a se stessa mediante il suo solo
effetto o il sentimento imme- diato dello sforzo che accompagna ogni movimento
o atto volontario, è precisamente come il primo raggio diretto, la prima luce
che la vista interiore della mente coglie» (Nouv. Ess. d’Anthropologie, II, 1).
L’io è così, per Maine de Biran, la coscienza originaria dello sforzo. Ma la
migliore espressione della dottrina dell’io come coscienza è stata data da
Kant. Diceva Kant: «Io, come pensante, sono un oggetto del senso interno, e mi
chiamo anima. Ciò che è oggetto del senso esterno si chiama corpo. Pertanto
l’espressione io, come essere pen- sante, designa già l’oggetto della
psicologia che può dirsi la dottrina razionale dell’anima, quando io dell'anima
non voglio sapere più di quanto, indipendentemente dall’esperienza (la quale mi
de- termina più da vicino e in concreto) può essere concluso da questo concetto
dell’io presente in ogni pensiero » (Crir. R. Pura, Dialettica, II, cap. 1).
Accanto a quest’io come «oggetto del senso in- terno » cioè coscienza (cfr.
Prol., $ 46) Kant am- 506 mette poi un’altra specie di io che segna il pas-
saggio a una seconda interpretazione di questo concetto. L’interpretazione
dell’io come coscienza è rimasta frequente nella filosofia moderna e con-
temporanea. Diceva Rosmini: « La parola io al concetto generale dell’anima
unisce ancora la re- lazione dell’anima a se stessa, relazione di identità;
ella contiene dunque un secondo elemento distinto dal concetto dell’anima, è
un’anima che percepisce se stessa, si pronuncia, si esprime » (Psicol., $ 6).
2° L’'interpretazione dell’io come Autocoscienza nasce dalla distinzione che
Kant aveva fatto tra l'io come oggetto della percezione o del senso in- terno e
l’io come soggetto del pensiero o dell’ap- percezione pura, cioè l’io della
riflessione (Antr., I, $ 4, nota; cfr. AUTOCOSCIENZA). Questa distin- zione che
in Kant non avrebbe mai potuto con- durre ad una sostanzializzazione metafisica
dell’io, data la funzionalità che Kant attribuisce all’io stesso, doveva essere
assunta, da Fichte, come punto di partenza per la dottrina dell’Io assoluto,
L’io della riflessione o della appercezione pura è. secondo Kant, la condizione
ultima del conoscere; Fichte ne fa il creatore della realtà. «In quanto è
assoluto, egli dice, l’Io è infinito e illimitato. Esso pone tutto ciò che è; e
ciò che esso non pone non è (per esso; ma al di fuori di esso non c’è nulla).
Ma tutto ciò che esso pone, esso lo pone come Io; ed esso pone l’Io come tutto
ciò che esso pone. Quindi, in questo riguardo, l’Io ab- braccia in sè tutta la
realtà, cioè una realtà infinita ed illimitata» (Wissenschaftslehre, 1794, III,
$ 5, II; trad. ital, pag. 207). Queste tesi venivano fatte proprie e
amplificate da Schelling per opera del quale divennero una delle espressioni
caratte- ristiche del Romanticismo. Nello scritto L’Zo come principio della
filosofia o l’incondizionato nel sapere umano (1795), egli identifica l’Io di
Fichte con la Sostanza di Spinoza. « Io sono diventato spinozista, scriveva in
occasione di questo scritto Schelling a Hegel; vuoi sapere come? Per Spinoza il
mondo è tutto, per me tutto è l’Io ». E per quanto Hegel negasse questa tesi
considerando come sapere as- soluto (e quindi anche come realtà assoluta) un
sapere in cui la distinzione tra l’Io e il non Io, tra il soggettivo e
l’oggettivo, è venuta a sparire, anch’egli tuttavia condivide la tesi del
carattere infinito dell’Io. « L’Io, egli dice, questa immediata coscienza di
sè, appare in primo luogo anch’esso da un lato come immediato, dall’altro poi
come noto in un senso molto più elevato che qualsiasi altra rappresentazione.
Ogni altro noto appartiene infatti certamente all’Io, ma nello stesso tempo è
ancora diverso da esso e però è subito un con- tenuto accidentale; l’Io invece
è la semplice cer- tezza di sè. Ma l’Io in generale è anche nello stesso IO
tempo un concreto o meglio l’Io è il concretissimo, la coscienza di sè come di
un mondo infinitamente molteplice » (Wissenschaft der Logik, I, libro I; trad.
ital., I, pag. 65-66). Gentile non faceva che riecheg- giare la posizione
fichtiana e romantica quando diceva: « L’io è, sì, l’individuo, ma l’individuo
come soggetto, il quale non ha nulla da contrap- porre a se stesso e che trova
tutto in sè; e perciò è il concreto attuale universale. Orbene questo Io, che è
lo stesso assoluto, è in quanto si pone; è causa sui » (Teoria generale dello
spirito, XVII, $ 7). 3° Già nell’interpretazione dell’io come co- scienza e
come autocoscienza si insiste talora su un carattere formale dell’io, cioè
sulla sua wnirà o identità. Si è visto che per Locke l’io è la co- scienza in
quanto fonda l’identità personale; e per Kant l’io della riflessione è «
l’unità dell’apperce- zione pura» (Cri. R. Pura, $ 16; v. APPERCEZIONE). Hume
stesso aveva visto in una certa forma di unità, sia pura fittizia, il carattere
fondamentale dell’io; che egli aveva paragonato ad una repubblica, che può
mutare negli uomini che la governano, come pure nella sua costituzione e nelle
sue leggi, senza perdere la sua identità. L'uomo, allo stesso modo, può mutare
le sue impressioni e le sue idee, rimanendo lo stesso io (7reatise, I, 4, 6).
Tut- tavia per Hume, come si vede da questa stessa immagine, l’unità dell’io
non è assoluta o rigorosa; è un’unità formale e approssimativa, fondata sulla
relativa costanza di certi rapporti fra le parti o i momenti dell’io. Questo
punto di vista rende forse conto, meglio di quello che afferma la rigo- rosa
unità dell’io, dei limiti e dei pericoli a cui l’io va soggetto nell'esperienza
effettiva. 4° Il concetto dell’io come rapporto nasce dal riconoscimento del
più vistoso carattere con cui l’io si presenta a questa esperienza: il
carattere della problematicità per cui esso è una formazione instabile e può
andare soggetto alla malattia e alla morte. La nozione di rapporto è difatti
più gene- rica e meno impegnativa della nozione di unità. L'unità è una forma
di rapporto necessaria, im- mutabile ed assoluta; un rapporto può essere più o
meno saldo e può rompersi. Proprio sotto l’an- golo visuale della « malattia
mortale» dell’io, che è la disperazione, Kierkegaard definì l’io come « un
rapporto che si rapporta a se stesso ». L'uomo è una sintesi d'anima e di
corpo, d’infinito e difinito, di libertà e di necessità, ecc. Una sintesi è un
rapporto; e il ritorno su questo rapporto, cioè la relazione del rapporto con
se stesso, è l’io dell’uomo (Die Krankheit zum Tode, 1849, cap. 1). Kierkegaard
aggiungeva che proprio in quanto rapporto con se stesso, l’io è rapporto con
altro: cioè con il mondo, con gli altri uomini e con Dio. Su questo secondo
rapporto insistono talora i IPOSTASI filosofi contemporanei. Diceva Santayana:
« Quando dico io, il termine suggerisce un uomo, uno fra i molti che vivono in
un mondo che è in contrasto con il suo pensiero il quale tuttavia lo domina »
(Scepticism and Animal Faith, 1923, ed. 1955, pag. 22). Da un punto di vista
diverso, Scheler giunge a un analogo concetto dell’io: « Con la parola io, egli
dice, è connesso un accenno da una parte a un rw, dall’altra ad un mondo esterno.
Dio, ad es., può essere una persona ma non già un io giacchè per lui non ci
sono nè un tu nè un mondo esterno» (Formalismus, ecc., pag. 405). E proprio del
rapporto si avvale Heidegger per definire l’io. « La stessa assunzione dell” Jo
penso qualcosa’ non può ricevere una adeguata deter- minazione se il ‘ qualcosa
* resta indeterminato. Se invece il ‘ qualcosa * viene inteso come ente intra-
mondano, allora porta con sè inespressa la pre- supposizione del mondo. Ed è
proprio questo il fenomeno che determina la costituzione dell’essere dell'io,
quando almeno esso debba poter essere qualcosa come un ‘Io penso qualcosa ’. Il
dire io si riferisce all’ente che io sono in quanto: io-sono- in-un-mondo »
(Sein und Zeit, $ 64). In forma solo apparentemente paradossale, Sartre
affermava in un saggio del 1937: « Noi mostreremo che l’io non è nè formalmente
nè materialmente nella coscienza; esso è fuori, nel mondo. Esso è un essere del
mondo, come l’io di un altro» (Recherches Philosophiques, 1936-37; trad. ingl.,
The Transcendence of the Ego, New York, 1958, pag. 32). Nello stesso senso,
Merleau-Ponty afferma: « La prima verità, è, sì ‘io penso * ma a condizione che
s’intenda con ciò ‘io sono a me stesso * essendo nel mondo » (Phenome- nologie
de la perception, 1945, pag. 466). Conside- rato nel suo rapporto con il mondo,
l’io viene talora determinato in base al suo carattere attivo, alla sua
capacità di iniziativa, al suo potere pro- gettante o anticipante. Dice Dewey:
« Dire in modo significante ‘ Jo penso, credo, desidero ’ invece di dire
soltanto ‘Si pensa, si crede, si desidera’ significa accettare e affermare una
responsabilità e avanzare una pretesa. Non significa che l’io è l’origine o
l’autore del pensiero o dell’affermazione o la sua sede esclusiva. Significa che
l’io, come organizzazione accentrata di energie, identifica se stesso (nel
senso di accettarne le conseguenze) con una credenza o sentimento di origine
esterna e indipendente » (Experience and Nature, pag. 233). Proprio tali
caratteri costituiscono oggi lo schema generale per lo studio sperimentale
della persona- lità che è uno degli oggetti principali della psico- logia.
Dalla personalità, che è l’organizzazione dei modi con cui l’individuo
intelligente progetta i suoi comportamenti nel mondo, l’io si distingue sol-
tanto come quella parte della personalità stessa 507 che è nota all’individuo
interessato e a cui per- tanto egli fa riferimento nel dire «io». La perso-
nalità, dall’altro lato, è più vasta: essa include anche le zone oscure o in
penombra, le sfere di ignoranza più o meno voluta o non voluta, che
caratterizzano il progetto totale delle relazioni del- l'individuo col mondo
(v. PERSONALITÀ). IO PENSO. V. Cocrro. IO TRASCENDENTALE (ingl. Trascendental
Ego; franc. Moi trascendental; ted. Transzendentales Ich). Lo stesso che Io
assoluto (v. Io). IPERBOLICO. V. DuBgio. IPERORGANICO (franc. Hyperorganique).
Termine con il quale gli scrittori positivisti hanno caratterizzato il mondo
propriamente umano cioè psichico e sociale. IPERURANIO (gr. ùrepovpdvioc). La
regione «al di là del cielo» nella quale, secondo il mito di Platone nel Fedro
(247 c sgg.), risiedono le so- stanze immutabili che sono l’oggetto della
scienza. Si tratta di una regione non spaziale; giacchè il cielo racchiudeva
per gli antichi tutto lo spazio e al di là del cielo non c’è spazio.
L'espressione è quindi puramente metaforica; nella Repubblica, Pla- tone stesso
prende in giro coloro che si illudono di vedere gli enti intelligibili
guardando in alto. « Per mio conto, egli dice, non posso riconoscere ad altra
scienza il potere di far sì che l’anima guardi in su se non a quella che
s’occupa dell’es- sere e dell’invisibile; ma se qualcuno cerca di apprendere
qualcosa di sensibile, guardando in su a bocca aperta o a bocca chiusa, io dico
che costui non apprenderà niente perchè non c’è scienza delle cose sensibili e
che la sua anima non guarda in alto ma in basso, anche se egli studi restando
sul dorso a terra o in mare» (Rep., VII, 529 b-c). IPOLEMMA (ingl. Hypolemma).
Così è stata detta da W. Hamilton la premessa minore del sillogismo, in quanto
viene sussunta alla premessa maggiore o lemma (Lectures on Logic, I, pag. 283).
IPOSTASI (gr. sréotacw; ingl. MHypostasis; franc. Hypostase; ted. Hypostase).
Con questo ter- mine Plotino chiamò le tre sostanze principali del mondo
intellegibile cioè l’Uno, l’Intelligenza e l’Anima (Emn., III, 4, 1; V, 1, 10),
che egli para- gonava rispettivamente alla luce, al sole e alla luna (Ibid., V,
VI, 4). La trascrizione latina del nome è «sostanza », che tuttavia è stato
usato dalla tra- dizione filosofica in un significato totalmente diverso (v.
Sostanza). Nelle discussioni trinitarie dei primi secoli, il termine in
questione fu preferito a quello di persona (mpécwrov) che, significando
propria- mente maschera, sembrava evocare l’immagine di qualcosa di fittizio.
Da queste discussioni, il nome di I. rimase fissato a designare la sostanza
indi- viduale cioè per l’appunto la persona. Dice S. Tom- 508 maso: «Secondo
alcuni la sostanza, nella defini- zione della persona, sta per la sostanza
prima, che è l’I.; tuttavia non è superfluo aggiungere individuale; giacchè con
il nome di I. o di so- stanza prima si esclude il rapporto tra l’universale e
la parte. Non diciamo infatti che sia I. il con- cetto di uomo o la mano» (S.
7A., I, q. 29, a. 1). Nel linguaggio moderno e contemporaneo, il termine viene
usato (ma raramente) in senso peg- giorativo: per indicare la trasformazione
fallace o surrettizia di una parola o un concetto in sostanza cioè in una cosa
o in un ente. In questo senso si parla anche di ipostatizzare (franc.
Aypostasier) e di ipostatizzazione). IPOTESI (gr. sré0e015; ingl. Hypothesis;
fran- cese Hypothèse; ted. Hypothese). In generale, un enunciato (o insieme di
enunciati) che possa essere messo a prova, attestato e controllato solo
indirettamente, cioè attraverso le sue conseguenze. La caratteristica dell'I. è
pertanto che essa non include nè una garanzia di verità nè la possibilità di
una verifica diretta. Una premessa evidente non è un’I. ma, nel senso classico
del termine, una assioma. Un enunciato verificabile è una legge o una
proposizione empirica, non un’ipotesi. Un’I. può essere vera; ma la sua verità
può risultare soltanto dalla verifica delle sue conseguenze. In questo senso
intendeva l’I. Aristotele che, pur ado- perando qualche volta il termine nel
senso gene- ralissimo di premessa di una dimostrazione (con- fronta, ad es.,
Mer., V, 1, 1013a 16; 1913b 20; Fis., II, 3, 195a 18), la definiva nel suo
signi- ficato specifico escludendola dal campo delle pre- messe necessarie: «
Ciò che è necessario che sia ed è necessario che appaia necessario, non è nè
un'I. nè un postulato » egli dice (An. Post., I, 10, 76 b 23). Assiomi e
definizioni costituiscono le premesse necessarie del sillogismo; I. e postulati
quelle non necessarie. In particolare, le I. stabili- scono l’esistenza delle
cose definite. Le definizioni, egli dice, debbono solo farci comprendere ciò di
cui si parla; le I. ne stabiliscono l’esistenza, per dedurne le conclusioni
(/bid., I, 10, 76b 35 sgg.). Per conseguenza i ragionamenti fondati su I. pre-
suppongono una specie di convenzione o accordo preliminare (An. Pr., I, 44, 50a
33) e non hanno il valore probativo di quelli fondati sulle definizioni (ibid.,
I, 23, 40b 22). Questa determinazione dell’I. come premessa di grado o qualità
inferiore, cioè priva della neces- sità che è propria delle premesse
autentiche, è caratteristica della posizione di Aristotele. Essa non si trova
in Platone. Secondo Platone le premesse devono essere scelte in base a un
giudizio compa- rativo, che si orienta su quella che è « la più forte » o «la
migliore » tra esse (Fed., 100 a; 101 d). Alle IPOTESI matematiche e in
generale alle discipline prope- deutiche, Platone fa l'appunto, non di muovere
da I., ma di «lasciarle immobili per non esser capaci di dar ragione di esse »
(Rep., VII, 533 c). E I. sono chiamate nel Parmenide tutte le possibili vie
della ricerca, senza che qualcuna sia privile- giata con un nome diverso
(Parm., 135 e). Platone dichiara talora di «indagare per via d’I.» come fanno i
geometri cioè ragionando su questa base: «Se si verificano alcune condizioni,
si otterrà un certo risultato, ma se non si verificano, il risul- tato sarà
diverso » (Men., 87a). L’uso delle I. in filosofia stabilisce una differenza
importante tra la filosofia di Platone e quella di Aristotele, per ciò che
concerne il procedimento della filosofia stessa e in generale del sapere
scientifico. Tale differenza cade però all’interno della nozione generale di
I., come sopra espressa. E nell'ambito di tale nozione si possono distinguere i
seguenti significati specifici: 1° L’antecedente di una proposizione ipotetica
o condizionale o di un ragionamento anapodittico o di un sillogismo ipotetico.
La logica stoica, a differenza da quella aristotelica, privilegiò le pro-
posizioni ipotetiche e i ragionamenti anapodittici, conformamente
all'impostazione generale della lo- gica come dialettica (v. LOGICA;
DIALETTICA; Con- DIZIONALE; CONSEGUENZA; IMPLICAZIONE). 2° Una proposizione
originaria assunta a fon- damento di un discorso scientifico, per es., un
postulato o assioma della matematica. Di tali po- stulati o assiomi infatti non
si afferma nè si nega la verità, ma si riconoscono validi se e nella mi- sura
in cui rendono possibili il discorso matematico. In tal senso le matematiche
sono chiamate « sistemi ipotetico-deduttivi ». Ma proposizioni analoghe ai
postulati o assiomi delle matematiche e, com’essi, assunte ipoteticamente si
possono ritrovare in tutte le scienze che hanno raggiunto un certo grado di
elaborazione concettuale. 3° Una condizione qualsiasi. Tale è il signifi- cato
del termine nell’espressione ex Aypothesi. Ari- stotele parla di ciò che è «
necessario per I.» cioè in virtù di una determinata condizione (Fis., II, 9, 199
b 34 sgg.). 4° La spiegazione causale dei fenomeni. In questo senso la parola
fu adoperata spesso nei sec. xvII e xv. Locke avvertiva di «aver cura che il
nome di princìpi non ci inganni né ci si imponga, facendoci accogliere come
verità incon- testabile quella che, nel miglior caso, non è che una congettura
dubitabilissima: quali sono la maggior parte delle I. della filosofia naturale:
e quasi stavo per dire tutte» (Saggio, IV, 12, 13): dove è ovvio che per Locke
1’I. è quella che enuncia i «princìpi» cioè le cause dei fenomeni. Ancora più
esplicitamente Leibniz diceva: « L’arte di sco- IPSITÀ prire le cause dei
fenomeni, o le vere I., è come l’arte di decifrare, nella quale spesso una
conget- tura ingegnosa abbrevia di molto il cammino» (Nouv. Ess., IV, 12, 13):
dove «I. vere» e « cause dei fenomeni» sono identificate. La rinuncia di Newton
« liypotheses non fingo » si riferisce appunto a questo significato di ipotesi.
Ecco infatti il testo di Newton: « Non ho potuto dedurre finora dai fenomeni le
ragioni di queste proprietà della gra- vità, e non immagino ipotesi. Tutto ciò
che non si deduce dai fenomeni è infatti da chiamarsi I.; e le I. o metafisiche
o fisiche, sia di qualità oc- culte sia meccaniche, non hanno posto nella filo-
sofia sperimentale ». A_ queste I. egli contrappone le cause vere che sono
quelle « necessarie per spie- gare i fenomeni» (Philosophiae naturalis
Principia mathematica, 1687, in fine). E nell’Ortica (1704), Newton faceva
consistere l’I. nell’appello alle qua- lità occulte assunte come cause dalla
metafisica aristotelica: alle quali egli contrapponeva i prin- cipi (la
gravità, la fermentazione, la coesione) « che, egli diceva, io considero non
come qualità occulte, che si suppongano risultare dalle forme specifiche delle
cose, ma come leggi generali di natura, dalle quali le cose stesse sono formate
e la cui verità ci è manifesta dai fenomeni, anche se le loro cause non siano
state scoperte» (Opricks, III, 1, q. 31). La rinuncia di Newton alle I. non è
dunque che la rinuncia alla spiegazione in favore della descri- zione. Alla
metà del sec. xIx l’opposizione tra descrizione e spiegazione ipotetica veniva
ribadita dal fisico inglese J. Macquorn Rankine. « Secondo il metodo astratto,
egli diceva, una classe di og- getti e di fenomeni è definita per descrizione
cioè facendo vedere che un certo insieme di proprietà è comune a tutti gli
oggetti o fenomeni della classe e considerandole quali i sensi ce le fanno
perce- pire, senza introdurre niente d’ipotetico e solo as- segnando loro un
nome o un simbolo. Secondo il metodo iporetico, la definizione di una classe di
oggetti o di fenomeni si deduce da una concezione congetturale circa la loro
natura ». E Rankine pre- vedeva l’abbandono graduale delle teorie ipotetiche e
la loro sostituzione con le teorie astratte (Ouslines of the Science of
Energetics, 1865, in Miscellaneous Scientifics Papers, pag. 210; cfr. P. DuHEM,
La théorie physique, 1906, pag. 80-81). 5° Uno speciale procedimento, che
sostituisce l’induzione, per la formulazione di princìpi da es- sere verificati
sperimentalmente. Secondo Stuart Mill, il procedimento scientifico è composto
di tre parti: induzione, raziocinazione e verificazione. Ora «il metodo
ipotetico sopprime il primo di questi tre passi, l'induzione, per accertare la
legge e si limita alle altre due operazioni, raziocinazione e verificazione: la
legge in base alla quale si ragiona 509 è assunta invece di essere provata»
(Logic, III, 14, 4). Nello stesso senso Peirce mette l’I. accanto alla
deduzione e all’induzione come un tipo di ragio- namento valido che si
distingue dall’induzione perchè mentre questa « procede come se tutti gli
oggetti che hanno certi caratteri fossero conosciuti », l’I. è «l’inferenza la
quale procede come se tutti i caratteri richiesti alla determinazione di un
certo oggetto o classe fossero conosciuti ». « Mentre l’in- duzione può essere
considerata come l’inferenza della premessa maggiore del sillogismo, l’ipotesi
può essere considerata come l’inferenza della pre- messa minore dalle altre
due» («Some Conse- quences of Four Incapacities », in Values in a Universe of
Chance, pag. 44 sgg.). Questo significato del termine è rimasto raro. 6°
L'argomento di un discorso, in quanto posto o enunciato al principio del
discorso stesso (ARISTO- TELE, Rer. ad Al., 30, 1436a 36; Rer., II,18,1391b
13). 7° Una teoria scientifica o parte di una teoria scientifica. In questo
senso Mach dice: « Chiamiamo I. una spiegazione provvisoria che ha per scopo
quello di far comprendere più facilmente i fatti, ma che sfugge alla prova dei
fatti» (Erkenniniss und Irrtum, cap. 14; trad. franc., pag. 240). Per questo
significato, v. TEORIA. IPOTETICO (gr. iro0erix6s; lat. Ayporheticus; ingl.
Hypothetical; franc. Hypothétique; ted. Hypo- thetisch). Questo termine ha
significati corrispon- denti a quelli del sostantivo. Per proposizione
ipotetica, v. CATEGORICO. Per ragionamento ipote- tico, v. SILLOGISMO;
ANAPODITTICO; RAGIONAMENTO; CONDIZIONALE; CONSEGUENZA. IPOTIPOSI (gr.
srotirwar; ted. Ayporypose). Questo termine che significa schizzo o lineamenti
(in questo senso ricorre nel titolo dell’opera di Sesto EMPIRICO, /.
Pirroniane) fu adoperato dai retori per indicare la figura per la quale un
argo- mento è vividamente delineato in parole (QUINTI- LIANO, /nst., IX, 2,
40). In senso analogo ha ado- perato la parola Kant per esprimere il rapporto
tra la bellezza e la moralità: la bellezza, come simbolo della moralità, è l’I.
di essa cioè la sua vivida manifestazione intuitiva. Mentre le parole e gli
altri segni sono semplici espressioni dei concetti, le I. sono esibizioni o
manifestazioni del concetto stesso in forma intuitiva (Crit. del giud., $ 59).
IPSE DIXIT (gr. abròs tpa). Frase con cui i Pitagorici solevano rispondere alla
richiesta di de- lucidazioni sulla loro dottrina: «L'ha detto lui». Il lui era
Pitagora. Cicerone adduce questa usanza come esempio della prevalenza
dell’autorità sulla ragione (De nat. deor., I, 5, 10). IPSITÀ (lat. Ipseitas;
franc. Ipséité). Termine usato da Duns Scoto per indicare la singolarità della
cosa individuale (v. ECCEITÀ). 510 IRASCIBILE. V. FACOLTÀ. IRONIA (gr.
elpuvela; lat. Zronia; ingl. Zrony; franc. Ironie; ted. Ironie). In generale
l’atteggiamento che consiste nel dare un’importanza assai minore del giusto (o
di quella che si ritiene tale) a se stessi o alla propria condizione o
situazione o a cose o persone che hanno stretto rapporto con se stessi. La
storia della filosofia conosce due forme fonda- mentali d’I.: 1° I’I.
socratica; 2° l’I. romantica. 1° L’I. socratica è la sottovalutazione che So- crate
fa di se stesso nei confronti degli avversari con cui discute. Quando nella
discussione sulla giustizia Socrate dichiara: «Io ritengo che l’inda- gine è al
di là delle nostre possibilità e che voi che siete bravi dovete aver pietà di
noi piuttosto che arrabbiarvi con noi», Trasimaco risponde: «Ecco la solita I.
di Socrate» (Rep., I, 336e- 337 a). Aristotele non fa che enunciare generica-
mente questo atteggiamento socratico quando vede nell’I. uno degli estremi
nell’atteggiamento di fronte alla verità. Il veritiero è nel giusto mezzo; chi
esagera la verità è il millantatore e chi invece tenta di diminuirla è
l’ironico. L’I., dice Aristotele, è, sotto questo aspetto, simulazione (Er.
Nic., II, 7, 1108 a 22). Cicerone si rifaceva a questo concetto affermando che
« Socrate spesso nella disputa ab- bassava se stesso ed alzava coloro che
voleva confutare; e così, parlando diversamente da come pensava, adoperava
volentieri quella simulazione che i Greci chiamano I.» (Acad., IV, 5, 15) E a
questo concetto del termine faceva riferimento S. Tommaso che la esamina come
un forma (le- cita) di menzogna (S. 7A., II, 2, q. 113, a. 1). 2° L’I.
romantica poggia sul presupposto del- l'attività creatrice dell’Io assoluto.
Identificandosi con l’Io assoluto, il filosofo o il poeta (che molto spesso
coincidono, per i Romantici) è portato a considerare ogni realtà più salda come
un’ombra o un gioco dell’Io: è portato cioè a sottovalutare l’importanza della
realtà, a non prenderla sul serio. Secondo Federico Schlegel, l’I. è la libertà
assoluta di fronte a qualsiasi realtà o fatto. « Tra- sferirsi arbitrariamente
ora in questa ora in quella sfera come in un altro mondo, non solo con l’in-
telletto e con l’immaginazione ma con tutta l’anima; rinunciare liberamente ora
a questa ora a quella parte del proprio essere, e limitarsi completamente a
un’altra; cercare e trovare il proprio uno e tutto ora in questo, ora in
quell’individuo e dimenticare volutamente tutti gli altri: questo può solo uno
spirito che contiene in sè come una pluralità di spiriti e tutto quanto un
sistema di persone, e nel cui intimo l’universo che, come si dice, è in germe
in ogni mondo, s’è dispiegato ed è perve- nuto alla sua maturità » (Fragmente,
1798, $ 121). Queste notazioni sull’I. trovarono una sistemazione IRASCIBILE
concettuale nell’opera di C. G. F. SOLGER, Erwin (1815) nella quale l’I. veniva
interpretata dal punto di vista della soggettività che comprende se stessa come
cosa suprema e che perciò abbassa a un puro nulla tutte le altre cose, anche
ciò che c’è di più alto. Pur polemizzando contro qualche par- ticolare,
definito « platonico» della dottrina di Solger, Hegel la faceva sua nel
descrivere l’I. nel modo seguente: « Prendete una legge, e schietta- mente qual
è in sè e per sè: io ne sono perciò anche al di là e posso fare così e così.
Non la cosa è superiore, ma sono io superiore e sono il padrone, che al di
sopra della legge e della cosa, scherza con esse come con il suo piacere e in
questa coscienza ironica, nella quale lascio pe- rire il Sommo, godo soltanto
di me» (Fil. del dir., $ 140). L'I. così intesa, come coscienza della
Soggettività assoluta, la quale, come tale, è tutto e di fronte alla quale
perciò tutte le altre cose sono nulla e pertanto come coscienza dell’asso- luto
arbitrio di tale soggettività è, secondo Hegel, un risultato della filosofia di
Fichte quale è stata intesa e interpretata da Federico Schlegel (Fi/. del dir.,
$ 140, Zusatz). «Qui il soggetto si sa in sè medesimo come l’Assoluto e non dà
alcun peso a tutto il resto: esso sa distruggere sempre di nuovo tutte le
determinazioni che esso stesso si dà del giusto e del bene. Esso può dare a in-
tendere a sè ogni cosa ma non mostra altro che vanità, ipocrisia, sfrontatezza.
L’I. sa di dominare qualsiasi contenuto: essa non prende nulla sul serio,
scherza con tutte le forme» (Geschichte der Phil., III, sez. 3, C, 3; trad.
ital., III, 2, pag. 370-71). Quel concetto è rimasto a contrassegnare uno degli
aspetti fondamentali del romanticismo tedesco. Di esso Kierkegaard ha dato
un’interpretazione at- tenuata o metaforica, da un lato concependo l’I.
socratica come la superiorità di Socrate sopra la nequizia del mondo (Diario,
X*, A, 254); dal- l’altro lato intendendo in generale l’I. come «
l’infinitizzazione dell’interiorità dell’io » ma come infinitizzazione
«interiore», in un significato che non ha più la portata che Fichte attribuiva
all’in- finità stessa. «Cos'è l’I.? egli scrive. L’unità di passione etica, che
accentua in interiorità il proprio io infinitamente, e di educazione la quale
nel suo esteriore (nel commercio con gli uomini) astrae infinitamente dal
proprio io. L’astrazione fa sì che nessuno s’accorga della prima unità vissuta
ed in ciò sta l’arte per la vera infinitizzazione dell’inte- riorità» (Diario,
VI, A, 38, trad. Fabro). Poichè l’infinità dell'io è qui soltanto un'infinità «
inte- riore », cioè l’accentuazione all’infinito del valore dell’io nella
coscienza, ma non è l’infinità effettiva e creativa dell’Io assoluto dei
romantici, l’I. non ha più il suo significato romantico: è solo il con-
ISONOMIA 511 trasto tra la coscienza esaltata che l’io ha di sè e la modestia
delle sue manifestazioni esterne. IRRAZIONALISMO (ted. /rrationalismus).
Termine con il quale in italiano e in tedesco si designano le filosofie della
vita o dell’azione cioè quelle filosofie che, come, ad es., quella di Scho-
penhaver, considerano il mondo come la mani- festazione di un principio non
razionale (v. AZIONE, FILOSOFIA DELL’; VITA, FILOSOFIA DELLA). IRREVERSIBILE
(ingl. Zrreversibile; franc. Ir- réversible; ted. Irreversibel). Carattere
delle relazioni non simmetriche e dei processi che hanno un senso determinato.
Platone, nel mito del Politico, affermò la reversibilità del divenire cosmico
affermando che il mondo, una volta raggiunta la misura del tempo che gli è
stato assegnato, «riprende a girare in senso contrario » cioè inverte l’ordine
del tempo. Ciò accade perchè il mondo è da un lato la cosa più perfetta
possibile, ma dall’altro è corpo e come tale soggetto al mutamento. « Perciò
ebbe in sorte di rifare il suo giro in senso inverso, essendo questa ‘ la
minima mutazione possibile del suo mo- vimento * » (Pol., 269 c-e). Questo
concetto, che la reversibilità del processo cosmico è dovuta all’esi- genza di
realizzare la massima possibile identità con se stesso, veniva espresso da
Leibniz nei ter- mini della scienza del suo tempo. Diceva Leibniz: « La
saggezza suprema di Dio gli ha fatto scegliere soprattutto le leggi del
movimento meglio adatte e più convenienti alle ragioni astratte o metafisiche.
Si conserva nell’universo la stessa quantità di forza totale assoluta o di
azione; la stessa quantità di forza rispettiva o di reazione; la stessa
quantità di forza direttiva. In più l’azione è sempre uguale alla reazione e
l’effetto intero è sempre equiva- lente alla sua causa piena» (Princ. de la
nature et de la gréce, 1714, Op., ed. Erdmann, pag. 716). Questa perfetta
equivalenza tra la causa e l’effetto significa la reversibilità del processo
causale. La meccanica classica ammette questa reversibilità. Le equazioni che
esprimono il comportamento dei fe- nomeni meccanici non dànno nessuna
indicazione sul senso in cui scorre il tempo. Il # di queste equazioni è una
variabile continua che non ha un senso determinato, e questo significa che ogni
fenomeno meccanico è reversibile. L’irreversibilità dei fenomeni fu per la
prima volta introdotta con la scoperta del secondo principio della termodina-
mica (detto Principio di Carnot, 1824), secondo il quale il calore passa
soltanto dal corpo più caldo al corpo più freddo. In tal caso, quando, con
questo passaggio, si è raggiunto l’equilibrio della temperatura, è impossibile
tornare indietro. Dal sistema in equilibrio non si può tornare al sistema dello
squilibrio termico che solo rende possibile il passaggio del calore e quindi il
lavoro meccanico. Un sistema in equilibrio termico non può quindi fornire
lavoro meccanico. Con ciò si viene a stabi- lire l’irreversibilità dei fenomeni
naturali i quali, sotto un certo rispetto, sono tutti fenomeni termici. Il Principio
di Carnot ha quindi esclusa l’immagine di un divenire del mondo che, come
pensavano gli antichi, si svolga ciclicamente e ritorni su se stesso.
L’irreversibilità dei fenomeni naturali ha fatto pensare alla morte inevitabile
dell’universo, per il raggiungimento dell’equilibrio termico che rende- rebbe
impossibile ogni trasformazione e quindi ogni vita. E numerose sono state anche
le dottrine che hanno avanzato ipotesi destinate a lasciare intra- vedere per
il nostro universo una sorte diversa (cfr. su di esse MEvYERSON, De
/’explication dans les sciences, 1927, pag. 203 sgg.).. Ma in verità sia la
previsione della catastrofe sia quella delle possibili vie di salvezza vanno
molto al di là di ciò che è consentito dalla portata del principio di Carnot e
in generale da un principio scienti- fico. Questo infatti vale soltanto per
sistemi chiusi o almeno relativamente isolati; ed è uno strumento di previsione
nell’ambito di tali sistemi e non per l’universo o il mondo, cioè per una
totalità aperta o infinita. In un senso diverso e positivo il signifi- cato
filosofico dell’irreversibilità è stato illustrato da E. Paci, Tempo e
relazione, 1954, cap. VI e assim (v. ENTROPIA). ISOLARE (ted. /solieren). Nel
senso di astrarre, come adoperato da Kant; v. ASTRAZIONE. Wundt distingue
l’astrazione isolante che consiste nel se- parare una parte determinata da
un’apparenza com- plessa, dall’astrazione generalizzante che consiste nel
lasciar da parte, intenzionalmente, alcune note con- cettuali (Logik, II, pag.
11 sgg.). ISOMORFISMO (ingl. Isomorphism; franc. Iso- morphisme; ted.
Isomorphie). Termine adoperato in logica e in matematica per indicare la
relazione fra relazioni omogenee di due o più termini e che consiste nella
corrispondenza di termine a termine fra i termini delle relazioni (cfr. R.
CARNAP, Lopical Syntax of Language, $ 71 c; A. CHURCH, /ntro- duction to
Mathematical Logic, $ 55). ISONOMIA (gr. icovoplia; lat. Zsonomia). Se- condo
Alcmeone di Crotone, è il perfetto equilibrio della proprietà che costituiscono
il corpo, cioè la salute; il contrario di essa è la monarchia cioè la
prevalenza di una proprietà sulle altre, che costi- tuisce la malattia (Fr. 4,
Diels). Secondo Epicuro, il perfetto equilibrio e la perfetta corrispondenza di
tutte le parti o gli elementi del tutto nell’infinito. « Da essa deriva la
conseguenza che, se così grande è la moltitudine dei mortali, non minore è
quella degli immortali, e se gli elementi di distruzione sono innumerevoli
anche quelli di conservazione devono essere infiniti » (CIcER., De nat. deor.,
I, 19, 50). 512 ISTANTE. V. ATTIMO. ISTANZA (gr. tvotaoi; lat. Instantia; ingl.
In- stance; franc. Instance; ted. Instanz). 1. Nella logica aristotelica, l’I.
è «una premessa che è contraria a un’altra premessa » (An. Pr., II, 26, 69 a 36).
Aristotele enumera quattro I. fondamen- tali: l’attacco alla premessa
dell’avversario; una nuova premessa; una premessa contraria a quella
dell'avversario; l'appello a precedenti decisioni (Top., VII, 10, 161a 1; Rer.,
II, 25, 1402a 34). 2. Bacone chiamò I. i casi particolari sperimentali di un
determinato fenomeno, per es., del calore; e chiamò «tavole delle I.» l’elenco
di tali casi (Nov. Org., II, 10 sgg.) (v. TavoLE). Stuart Mill ha talora
seguito questa terminologia (Logic., III, 9, 1, passim). ISTINTO (gr. spui; lat.
Znstinctus; ingl. In- stinct; franc. Instinct; ted. Instinkt). Una guida naturale, cioè non acquisita nè
scelta e poco mo- dificabile, della condotta animale ed umana. L’I. si
distingue dalla tendenza (v.) per il suo carattere biologico, in quanto è
diretto alla conservazione dell’individuo e della specie ed è legato ad una
struttura organica determinata; e dall’impulso per il suo carattere stabile.
Esistono due concezioni fondamentali dell’I.: 1° quella metafisica, per cui
l’I. è la forza che garantisce l'accordo delia con- dotta dell’animale con
l’ordine del mondo; 2° quella scientifica per cui l’I. è un tipo di
disposizione biologica. 1° La teoria metafisica dell’I. è stata fondata dagli
Stoici. Per essi, l'ordine provvidenziale del mondo, che tutti gli esseri sono
destinati a man- tenere, dirige la condotta animale mediante l’istinto. « L’I.
primario dell’animale in quanto l’animale è sin da principio diretto dalla
natura, è quello di prendersi cura di sè, dice CrisiPPO nel primo libro Dei
Fini. Dice infatti che la cosa che sta più a cuore a ciascun animale è la
propria costituzione e la coscienza di questa costituzione. Non è veri- simile
che l’animale si estranei da sè o che co- munque faccia in modo di estraniarsi
da sè o di non prendersi cura di sè. Occorre dunque che la natura stessa lo
costituisca in modo che egli abbia cura di sè, sicchè fugga le cose nocive e
persegua quelle favorevoli. Dal che appare falso ciò che alcuni dicono e cioè
che il piacere sia l’I. primario degli animali» (Diog. L., VII, 85). Attraverso
l’I. la natura conduce l’animale a prendersi cura di sè e a conservarsi,
contribuendo così a mantenere l'ordine del tutto. Cicerone esprimeva il
concetto stoico nei termini seguenti: « Ogni specie animale, al fine di conservare
se stessa, la propria vita ed il proprio corpo, evita per natura quanto appare
nocivo e desidera e si procaccia tutto quanto è necessario alla vita come il
cibo, il ricovero, e ISTANTE tutto il resto. È del pari comune a tutti gli
esseri animale l’I. sessuale al fine della procreazione ed una certa qual cura
delle loro creature » (Tusc., I, 4, 1l; De fin., III, 7, 23; De off, I, 28,
101). A un I. così inteso fu talora assimilato il diritto di natura, in quanto
comune non soltanto agli uomini ma anche agli animali. Nel sec. n, Ulpiano
distingueva dal diritto delle genti, che è proprio soltanto degli uomini, il
diritto naturale, che è «quello che la natura ha insegnato a tutti gli ani-
mali e perciò è proprio non solo del genere umano ma è comune a tutti gli
animali che vivono in terra, in mare e in cielo. Da questo diritto dipen- dono
il matrimonio, la procreazione e l’educazione dei figli, tutte cose di cui
anche gli animali sono esperti » (Dig., I, 1, 1-4). Questa concezione dell’I. è
rimasta sempre legata al presupposto metafisico di un ordine provvidenziale di
cui l’I. stesso sa- rebbe la manifestazione negli animali e negli uomini. S.
Tommaso adduceva a prova della tesi che la provvidenza si occupa anche delle
cose singolari contingenti, l’I. naturale da cui gli animali sono dotati e che
appare manifesto nelle api e in molti altri animali (Contra Gent., III, 75).
Dante espri- meva perfettamente questa concezione dell’I.: « In noi seminata e
infusa dal principio della nostra generazione, nasce un rampollo, che gli Greci
chia- mano lormen cioè appetito d'animo naturale... E questo appare chè ogni
animale, siccome ello è nato, sì razionale come bruto, se medesimo ama, e teme
e fugge quelle cose che a lui sono con- trarie e quelle odia » (Conv., IV, 22;
cfr. Par., I, 112-14). Kant ancora parlava dell’I. come della «voce di Dio cui
tutti gli animali obbediscono » e che « dovette originariamente guidare sulle
prime l’uomo primitivo » (Mutmasslicher Anfang der Men- schengeschichte, 1786).
I caratteri dell’I. in questa concezione restano fissati nel modo seguente: 1°
la provvidenzialità; 2° l’infallibilità, che deriva dal precedente carat- tere
e per la quale si ritiene che l’I. è in ogni caso adatto a garantire la vita
dell'animale e la con- tinuazione della specie; 3° l’immutabilità che de- riva
dai due caratteri precedenti e che si ritiene consistere nella non
perfezionabilità dell’I.; 4° la cecità nel senso che l’I. sfugge al controllo
del- l’animale e lo guida senza alcuna sua iniziativa diretta. Alcuni di questi
caratteri sono stati talora assunti o mantenuti anche nella concezione scien-
tifica dell’istinto. Essi sono però propri della con- cezione metafisica,
essendo caratteri presunti, de- dotti dalla funzione che si attribuisce all’I.
nel cosmo e tutti in contrasto con i dati dell’osserva- zione. Questi caratteri
sono anche ammessi e difesi, abitualmente, dai filosofi che hanno una
concezione provvidenzialistica del mondo biologico, per es., dai ISTINTO
filosofi spiritualisti. Hegel ha anche parlato di un «I. della ragione»
(Phénomen. des Geistes, I, cap. V, « L’osservazione della natura »; trad.
ital., I, pag. 222, 225, ecc.), attribuendo a tale I. i caratteri generali
sopra elencati. Una teoria metafisica dell’I. è anche quella di Freud,
specialmente com’è formulata nei suoi ul- timi scritti. Gli I. sono «l’ultima
causa di ogni attività e sono di natura conservatrice: da ogni stato raggiunto
da un essere, sorge una tendenza a ristabilire tale stato quando sia stato
abbando- nato ». Gli I. possono essere molteplici e possono cambiare mèta e
sostituirsi l’uno all’altro; ma da ultimo si possono riconoscere due I.
fondamentali in lotta fra loro: l’Eros o I. di vita e Thanatos I. di
distruzione (Abriss der Psychoanalyse, 1940, cap. II). V. PSICOANALISI. 2° Le
teorie scientifiche dell’I. sono di due specie: A) teorie esplicative; 8)
teorie descrittive. A) Esistono tre fondamentali teorie esplica- tive: a)
quella che lo spiega ricorrendo all’azione riflessa; 5) quella che lo spiega
ricorrendo all’in- telletto; c) quella che lo spiega ricorrendo al sen- timento
(simpatia). a) La dottrina che spiega l’I. ricorrendo all’azione riflessa è la
più antica. Essa fu difesa da SPENCER nei suoi Principi di Psicologia (1855). «
Mentre nelle forme primitive dell'azione riflessa, egli diceva, una singola
impressione è seguita da una singola contrazione; mentre nelle forme più
sviluppate dell’azione riflessa una singola impres- sione è seguita da una
combinazione di contrazioni; in questa che noi distinguiamo come I., una com-
binazione di impressioni è seguita da una combi- nazione di contrazioni; e più
alto è l'I., più complesse sono le coordinazioni direttive ed ese- cutive »
(Princ. of Psychology, $ 194). Questa tesi fu, accettata sostanzialmente e
modificata da Darwin nel senso che lo sviluppo degli I. sarebbe dovuto alla
selezione naturale degli atti riflessi che costi- tuiscono gli I. più semplici.
«La maggior parte degli I. più complessi, diceva Darwin, sembra es- sere stata
acquisita mediante la selezione naturale delle variazioni di atti più semplici.
Tali variazioni sembrano risultare dalle stesse cause sconosciute che
occasionano le variazioni leggere o le diffe- renze individuali nelle altre
parti del corpo, agi- scono anche sull’organizzazione cerebrale e deter- minano
mutamenti che, nella nostra ignoranza, consideriamo spontanei» (Descent of Man,
1871, I, cap. 3; trad. franc., pag. 69). Questa spiegazione dell’I. è rimasta
quella accettata non solo dai darwiniani e dai neodarwiniani ma anche da co-
loro che hanno elaborato la teoria dei riflessi condizionati, i quali hanno
considerato l’I. come un riflesso condizionato complesso (cfr. PAvLOV, 33 —
ARBAGNANO, Dirionario di filosofia. 513 I riflessi condizionati; trad. ital.,
pag. 273). Il di- fetto della teoria è che le variazioni casuali difficil-
mente potrebbero spiegare la formazione di I. così perfezionati e complessi,
come quelli degli insetti. b) La seconda teoria esplicativa ha per l’appunto in
vista la formazione di questi I. più complessi e considera l’I. come intelligenza
degra- data o meccanizzata. Questa dottrina, presentata da Romanes (Mental
Evolution in Animals, 1883), è stata largamente accettata nella psicologia
della fine del secolo scorso. Essa equivale a fare dell’I. un’abitudine che si
è formata e perfezionata attra- verso lo sviluppo di una specie animale. Wundt
specialmente ha contribuito alla diffusione della dottrina. «Gli I., egli dice,
sono movimenti che originariamente derivano da semplici o composti atti di
volontà e che poi, durante la vita indivi- duale o nel corso di uno sviluppo
generale, ven- gono in tutto o in parte meccanizzati » (Grundzijge der
physiologischen Psych., 4% ediz, 1893, II, pag. 510 sgg.; cfr. System der
Phil., 2* ediz., 1897, pag. 590). Questa concezione è stata talora utiliz- zata
dai filosofi, in vista di una metafisica spiri- tualistica (cfr., per es.,
RENOUVIER, Nouvelle Mona- dologie, 1899, pag. 83); ma contro di sè ha il fatto
bene accertato che le abitudini acquisite non sono trasmissibili per eredità
(v. EREDITÀ) e che non basta a spiegare la formazione di I. perfezionati la
ereditarietà della disposizione a contrarre più facilmente abitudini, che
sembra provata in alcuni casi (MacDougall). c) La terza teoria esplicativa è
quella che riporta l’I. al sentimento e in particolare alla simpatia. «I. è
simpatia» dice Bergson. « Nei fe- nomeni del sentimento, nelle simpatie e
antipatie irriflessive, sperimentiamo in noi stessi, sotto una forma ben più
vaga e ancora troppo penetrata d'intelligenza, qualcosa di ciò che deve avvenire
nella coscienza di un insetto che agisce per istinto. L’evoluzione ha
allontanato l’uno dall’altro, per svilupparli sino in fondo, elementi che
all’origine si compenetravano » (Évo/. créatr., 1911, 8% ediz., pag. 190-91).
L’evoluzione vitale ha allontanato fra loro intelligenza ed I. specificando
l’I. nel com- pito di utilizzare o anche di costruire strumenti organizzati e
l’intelligenza invece in quella di fab- bricare e adoperare strumenti
inorganizzati (/bid., pag. 152). La specializzazione dell’I. dipende, se- condo
Bergson, dal fatto che l’I. è per l'appunto l’utilizzazione, per un fine
determinato, d'uno strumento determinato: di uno strumento il quale per di più
è di una enorme complessità di det- taglio per quanto semplicissimo di
funzionamento. Gli strumenti fabbricati dall’intelligenza sono in- vece assai
meno perfetti ma possono continuamente mutare di forma e adattarsi alle nuove
circostanze. 514 Questo spiega anche perchè l’I. non sia cosciente o sia
cosciente in minima parte: la coscienza in- fatti misura lo scarto tra la
rappresentazione e l’azione (cioè tra le diverse possibilità d’agire e l’azione
effettiva): nell’I. questo scarto è minimo perchè una minima parte è lasciata
alla scelta (Ibid., pag. 157). Scheler, facendo riferimento a questa dottrina
di Bergson, in quanto tende a dar ragione degli I. più complicati (per es., di
quello degli imenotteri che paralizzano pungendoli ma senza ucciderli ragni o
scarabei per deporvi le loro uova, cfr. FABRE, Souvenirs entomologiques, I, 35
ediz., 1894, pag. 93 sgg.), dichiara di con- siderare probabile che « negli
atti istintivi di questa specie, nei quali ci si trova in presenza di una
concatenazione finalistica, logica, delle fasi di at- tività di più esseri, non
si tratti che di una esage- razione anormale di ciò che è la vera fusione
affet- tiva nella sfera dell’attività umana» (Sympathie, cap. I; trad. franc.,
pag. 50). Questa è una sostan- ziale accettazione del punto di vista di Bergson
con la correzione che ciò che Bergson chiama simpatia è piuttosto da intendersi
come fusione affettiva (per la differenza fra le due cose, v. SIMPATIA). La
dottrina di Bergson è stata accettata ampia- mente dai filosofi, mentre ha
trovato scarsa acco- glienza presso fisiologi e psicologi. Essa rimane come una
delle possibili alternative per una spie- gazione dell’istinto. Questo infatti
può venir ri- portato o all’una o all'altra nelle due attività che comunemente
si assume dirigano la condotta umana: cioè o all'intelligenza o al sentimento.
L’interpre- tazione 5) cerca di ricondurre l’I. all’intelligenza;
l’interpretazione c) cerca di ricondurlo al sentimento. B) Nella psicologia
contemporanea, l’influsso dell’indirizzo gestaltista, mentre determina il defi-
nitivo abbandono della teoria dei riflessi, che ten- deva a risolvere l’I. in
attività elementari (che sarebbero appunto le azioni riflesse), ha anche fa-
vorito l’abbandono di ogni teoria esplicativa e il ricorso a teorie
descrittive, fondate su ampia base di osservazioni. Da questo punto di vista,
la de- scrizione dell’I. più comunemente adottata è quella data da G. E.
Muller, che ha opportunamente modificata una definizione di MacDougall: « L’I.
è una disposizione psico-fisica, dipendente dall’ere- dità, spesso
completamente formata subito dopo la nascita, altre volte solo dopo un certo
periodo di sviluppo, disposizione che guida l’animale a fare particolare
attenzione ad oggetti di una certa specie o in un certo modo e a sentire, dopo
averli per- cepiti, una spinta verso un’attività determinata, in connessione
con essi + (cfr. D. Katz, Mensch und Tier, 1948; trad. ingl, pag. 171).
Definizioni di questa specie rendono inutile perfino il nome di I. che infatti
alcuni psicologi tendono a sostituire ISTINTO con altri termini, meno
compromessi da un uso secolare (propensione, tendenza, erg). Talvolta si
insiste sul carattere totalitario della disposizione istintiva considerandola
come uno +*schema uni- tario », che cresce e diminuisce come un tutto (cfr. R.
B. CATTELL, Personality, New York, 1950, pag. 195). L’etologia comparata
distingue nell’I. ciò che Konrad Lorenz ha chiamato i/ meccanismo innato
scatenante, che è l’insieme delle condizioni che fanno da stimolo alla condotta
istintiva, e l’atto consumatorio che è costituito da uno schema o piano,
gerarchicamente ordinato, di movimenti, che è il vero e proprio comportamento
istintivo. Questo ordinamento gerarchico del comportamento istintivo diventa
meno flessibile a misura che ci si avvicina al livello della condotta in atto.
Tinbergen ritiene che questa flessibilità dipende dai cambia- menti del mondo
esterno (The Study of Instinct, 1951, pag. 110). Lorenz ritiene che lo
scatenamento della condotta istintiva possa anche essere provo- cato da un
accumulo di energia endogena e ritiene che, nell’animale come nell’uomo, questo
accumulo di energia (prevalentemente di natura fisico-chimica) costituisce un
/. di aggressione che, se abbandonato a se stesso conduce gli uomini alla
distruzione reciproca, ma che può essere disciplinato o convo- gliato verso
mète che non mettano in pericolo la convivenza umana. Lo sfogo dell'aggressione
sopra oggetti costitutivi sarebbe il privilegio dell’uomo, che può essere
capace di mutare la direzione del suo impulso istintivo (Das sogenannte Bose,
1963, cap. XII). Questa dottrina continua tuttavia ad attribuire all’I. la
parte prevalente nella determinazione del comportamento umano, come di quello
animale, ma dall’altra parte si è pure dubitato che si possa per spiegare tale
comportamento usare il concetto di I. (cfr. il simposio su questo argomento nel
British Journal of Educational Psychol., novembre 1941). Oppure si prospetta
una concezione « stati- stica » dell’I., per la quale esso è soltanto « il fat-
tore di un gruppo innato e conativo » (BURT, « The Case for Human Instincts » nella
Riv., cit., 3* parte; cfr. J. FLucEL, Studies in Feeling and Desire, London,
1955). Tale negazione dell’I. riguarda soprattutto l’uomo. Katz aveva detto: «
Nell’uomo gli I. de- terminano solo la forza di una spinta all’azione e il suo
schema generale. Questo schema è indefinito e varia da occasione a occasione e
da un individuo all’altro. Per es., in tutti i bambini l’I. del gioco si
sviluppa e fiorisce a un certo tempo e poi muore. Ma il modo in cui i bambini
realmente giocano varia enormemente. Ciò non di meno, proprio nel- l’infanzia
l'uomo è più soggetto all’influenza degli istinti. Più tardi, la sua condotta
di vità è così controllata dalle forze esterne che la sua base ISTITUZIONE
istintiva può difficilmente esser distinta. A diffe- renza degli animali, egli
non passa la sua vita dentro la sicurezza degli I.; ma ha la capacità di
formarseli da sè » (Animals and Men, cit., pag. 173). Nella sociologia, l’I. è
stato talora invocato come fattore formativo dominante della cultura o dei suoi
aspetti fondamentali. AIl’I. Pareto riportava le azioni « non logiche »
(Sociologia generale, 1923, $ 157). Thorstein Veblen, ricorreva, nelle sue
spiegazioni sociologiche, frequentemente all’I.: per esempio, all’I.
dell’efficienza, all’I. animistico, ecc. (cfr. The Instinct of Workmanship and the State of
Business Enterprise, 1904). Questo
punto di vista è oggi spesso contraddetto: «La cultura non è istintiva sotto
nessun aspetto: essa è esclu- sivamente appresa. A partire dalla pubblicazione
dell’Z. di BERNARD nel 1924, è stato impossibile accettare ogni teoria degli I.
come la spiegazione dello schema culturale universale o come la solu- zione di
qualche problema culturale » (G. P. Mur- DOCK, in R. LinToN, The Science of Man
in the World Crisis, New York, 73 ediz., 1952, pag. 126- 127). 515 ISTITUZIONE
(lat. Institutio; ingl. Institu- tion; franc. Institution; ted. Anstalt). 1.
Nella logica terministica medievale, è l’adozione di un nuovo vocabolo nel
corso della discussione e per il tempo che essa dura (cfr. OcKHaM, Summ. Log.,
III, 3, 38). Lo scopo di questa adozione è quello di rendere il linguaggio più
conciso; o quello di di- scutere di una cosa sconosciuta; o quello di ingan-
nare l’interlocutore o di permettergli di rispondere più facilmente alle
obiezioni. In quest’ultimo senso è una delle obbligazioni (v.). 2. Nella
sociologia contemporanea, il termine è di uso frequente ed è stato assunto, per
es., da Durkheim come l’oggetto specifico della socio- logia definita per
l'appunto come «scienza delle istituzioni » (Régles de la méthode sociologique,
2* ediz., pag. xxm). L'istituzione è stata talvolta intesa come un insieme di
norme che regolano l’azione sociale (come fa per l'appunto Durkheim); talaltra,
in senso più generale, come « qualsiasi atteggiamento sufficientemente
ricorrente in un gruppo sociale » (cfr. ABBAGNANO, Problemi di so- ciologia,
1959, IV, 2). K K. Nella logica di Lukasiewicz la lettera K viene usata per
indicare la congiunzione che più comu- nemente è simboleggiata con un punto
«.». Cfr. A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic, n. 91. KABBALA. Una
delle fonti della filosofia giu- daica medievale. Xabalah (= tradizione) è una
dot- trina segreta che fu dapprima trasmessa oralmente, poi esposta da alcuni
rabbini in un certo numero di trattati, di cui due ci sono giunti interi o
quasi Il libro della Creazione (Yessjrah) e il Libro dello Splendore (Zohar).
Questi libri (di cui non si conosce la data della composizione), espongono una
dottrina simile a quella dei neoplatonici e dei neopitagorici dei primi secoli
dell’era volgare. Dio è in sè inac- cessibile, sfugge ad ogni conoscenza e
rifiuta ogni determinazione: è la negazione di ogni cosa deter- minata, il
niente di ogni cosa. La luce divina si con- centra e si proietta in raggi che
costituiscono le sostanze emanate o Numeri (Sephirot) che formano gli esseri
intermedi e il mondo. Le prime due sostanze sono la Saggezza (Hochma) e
l’Intelligenza (Logos) che, con Dio, formano le prime tre ipostasi nonchè il
mondo invisibile che è modello di quello visi- bile. I due mondi sono legati
insieme dall’amore: il mondo inferiore tende al superiore e in risposta a
quest’impulso il mondo superiore desidera e ama quello inferiore. — La K. ebbe
molta fortuna anche nel periodo del Rinascimento, soprattutto fra i platonici.
In particolare Pico della Miran- dola che cercò di unificare e organizzare in
un nuovo spirito l’intero sapere tradizionale, vide nella K. lo strumento
adatto a penetrare nei misteri di- vini e perciò la guida per l’interpretazione
delle Sacre Scritture. Egli perciò considerava le dottrine della K. in accordo
non solo con il cristianesimo, ma anche con le dottrine di Pitagora e di
Platone, delle quali essa avrebbe rappresentato il precedente antichissimo (De
hominis dignitate, fol., 138 r). Sulla K. confronta H. Sérouva, La Kabbale,
1947; 23 ediz., 1957). KALOKAGATIA (gr. xadQoxaya0la). L'ideale greco della
perfetta personalità umana. Si possono trovare due definizioni di questo
ideale: 1° come virtù intera, e in questo senso è l’ideale platonico. Platone
non usa il termine o lo usa (forse confor- memente al significato corrente),
per indicare i ricchi (Rep., 569 a); ma il suo punto di vista viene riferito
nell’Erica Eudemia (VIII, 15) e nei Magna Moralia dove si dice: « Non a torto
si chiama K. ciò che è perfettamente buono. Buono e bello chiamano infatti chi
è compiutamente bravo, cioè coraggioso e ha tutte le altre virtù... L'uomo
bello e buono non è corrotto dagli altri beni, per es., dalla ricchezza e dalla
potenza » (Magna Mor., II, 9, 1207 b); 2° come virtù magnanima (v. MAgNA-
NIMITÀ). Dice Aristotele: « È difficile essere ma- gnanimi: non è possibile
infatti senza K.» (Er. Nic., IV, 3, 1124a 4). KANTISMO. V. CRITIcISMO. KARMAN.
V. Buppismo. KENNETICO (Ingl. Kenneric). Neologismo co- niato da A.F. Bentley e
tratto (dallo scozzese ken o kenning che significa conoscere) per
contrassegnare l’indagine transazionale (/nquiry into Inquiries, 1954) (v.
TRANSAZIONE). È L. Posposto o anteposto a termini come concetto, verità, ecc.,
significa /ogico. In generale, come dice Carnap, un L-termine, per es., «
L-vero + si applica ogni volta che il termine radicale corrispondente, per es.,
«vero», si applica sulla base di ragioni semplicemente logiche, in contrasto
con ragioni di fatto (Introduction to Semantics, $ 14). LAICISMO (ingl.
Laicism; franc. Lalcisme). Con questo termine si intende il principio
dell’aufo- nomia delle attività umane, cioè l’esigenza che tali attività si
svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall’esterno,
per fini o interessi diversi da quelli cui esse si inspirano. Questo prin-
cipio è universale e può essere legittimamente invo- cato in nome di qualsiasi
attività umana legittima: intendendosi per attività « legittima » ogni attività
che non ostacoli, distrugga o renda impossibile le altre. Pertanto esso non può
essere inteso solamente come la rivendicazione dell’autonomia dello Stato di
fronte alla Chiesa o per meglio dire al clero; giacchè è ser- vito anche, come
la sua storia dimostra, alla difesa dell’attività religiosa contro quella
politica e serve anche oggi in molti paesi a questo scopo; come serve a quello
di sottrarre la scienza o in generale la sfera del sapere alle influenze
estranee e deformanti delle ideo- logie politiche, dei pregiudizi di classe o
di razza, ecc. Papa Gelasio I che alla fine del v secolo esponeva in un
trattato e in alcune lettere la teoria detta delle « due spade» fu
probabilmente il primo a fare ap- pello con chiarezza al principio del L.: il
quale rimase sconosciuto all’antichità classica per il fatto che essa non
conobbe alcun conflitto di principio fra le varie attività umane. La teoria
delle due spade cioè di due poteri distinti, entrambi derivanti da Dio, quello
del papa e quello dell’imperatore, serviva a Gelasio I per rivendicare
l'autonomia della sfera religiosa nei confronti di quella politica. Essa rimase
per molti secoli la dottrina ufficiale della chiesa e ancora nel sec. x il
canonista Stefano di Tournai la esprimeva con estrema nettezza (Summa
Decretorum, Intr.). Il principio espresso in questa dottrina rimane lo stesso,
quando le parti s’inver- tono o la dottrina viene invocata a difendere il
potere politico contro quello ecclesiastico: come fa Giovanni di Parigi nel suo
trattato Su/la potestà regia e papale (1302-3); come farà Dante, alcuni anni
più tardi, nel De monarchia; e come fecero Marsilio da Padova nel Defensor
pacis (1324) e Guglielmo di Ockham nei suoi scritti politici. Cer- tamente le
dottrine politiche ed ecclesiastiche di questi scrittori erano differenti e qualche
volta opposte; ma è chiaro che la teoria dei due poteri non è altro che
l’appello all'autonomia delle sfere rispettive di attività e che quest’ultimo
non trae la sua forza dalla particolarità delle dottrine ma dal riconoscimento
dell’autonomia, che è il principio del laicismo. Questo principio divenne
un'esigenza fondamentale nella vita civile nei comuni italiani, francesi, belgi
e tedeschi (cfr. SALVEMINI, Studi sto- rici, Firenze, 1901; PIRENNE, Les Villes
du moyen dge, Bruxelles, 1927; DE LAGARDE, La naissance de l’esprit lalque, au
déclin du moyen dge, Louvain-Paris, 38 ediz., 1956); il Rinascimento e
l’Illuminismo non sono che due tappe successive della sua progressiva
prevalenza nella vita politica e civile dell'Occidente. Ma, come si è detto, il
principio del L. non vale soltanto nei rapporti tra l’attività politica e
quella religiosa. Nella prima metà del sec. x1v Guglielmo di Ockham rivendicava
con energiche parole l’auto- nomia della ricerca filosofica. A proposito della
con- danna di alcune proposizioni di San Tommaso fatta dal Vescovo di Parigi
nel 1277 egli diceva: «Le asser- zioni principalmente filosofiche, che non
concernono la teologia, non debbono essere da alcuno condan- nate o interdette,
giacchè in esse chiunque dev'essere libero di dire liberamente ciò che gli
piace » (Dialogus inter magistrum et discipulum de imperatorum et pontificum
potestate, I, II, 22). Questa è stata la prima e certo una delle più energiche
affermazioni del principio del L. in filosofia; è dovuta a un 518 frate
francescano del *300. Nel sec. xvm Galilei affermava lo stesso principio nei
confronti della scienza, polemizzando contro i limiti e gli impacci che possono
venire alla scienza dall’autorità eccle- siastica. La Sacra Scrittura e la
natura, egli diceva, procedono entrambe dal Verbo divino; ma mentre la parola
di Dio ha dovuto adattarsi al limitato intendimento degli uomini ai quali si
rivolgeva, la natura è inesorabile e immutabile e mai non tra- scende i termini
delle leggi impostegli perchè non si cura che le sue recondite ragioni siano o
non siano comprese dagli uomini: sicchè « quello degli effetti naturali che o
la sensata esperienza ci pone dinnanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni
ci conclu- dono, non debba in conto alcun esser revocato in dubbio, non che
condannato, per luoghi della Scrit- tura che avessero nelle parole diverso
sembiante » (Lett. alla Grand. Cristina, in Op., V, pag. 316). Galilei
rivendicava così l'autonomia della scienza, negli stessi termini in cui Ockham
aveva rivendi- cato l’autonomia della filosofia. Il principio del L. è stato il
fondamento della cultura moderna ed è indispensabile alla vita e allo sviluppo
di tutti gli aspetti di questa cultura. I soli autentici avversari del L. sono
gli indirizzi politici totalitari cioè quegli indirizzi che intendono
impadronirsi del potere po- litico e esercitarlo a/ solo scopo di conservarlo
per sempre. Tali indirizzi pretendono infatti di impadro- nirsi del corpo e
dell’anima dell’uomo, per impe- dirgli ogni critica o ribellione. Per quanto il
roman- ticismo ottocentesco abbia incoraggiato la persistenza o la reviviscenza
di tali indirizzi, essi si trovano oggi contrastati dalla stessa situazione
oggettiva che esige in ogni campo lo sviluppo del sapere po- sitivo: questo
sapere a sua volta esige l'autonomia delle sue regole, cioè il laicismo.
D’altra parte un indirizzo politico totalitario può essere agevolmente
riconosciuto proprio dal suo atteggiamento nei con- fronti del principio L.:
sia che si appoggi a una con- fessione religiosa, sia che si appoggi ad
un’ideologia razzista o classista o ad altra qualsiasi, esso tende in primo
luogo a sminuire, ed al limite a distrug- gere, l'autonomia delle sfere
spirituali, come tende a diminuire e a distruggere i diritti di libertà dei cittadini.
Il L. difatti è, sul piano dei rapporti delle attività umane fra loro, ciò che
la libertà è sul piano dei rapporti degli uomini fra loro: è il limite o la
misura che garantisce a quelle attività la pos- sibilità di organizzarsi e
svilupparsi, come la libertà è il limite e la misura che garantisce ai rapporti
umani la possibilità di mantenersi e svilupparsi. Riconosciuto nella sua
struttura concettuale e storica, il principio del L. non mostra alcun carattere
di antagonismo con alcuna forma di religiosità, neppure col cattolicesimo. In
primo luogo, esso è servito spesso ai cattolici per difendere l’autonomia
LAMARCHISMO della loro attività; e tuttora costituisce la politica ufficiale
del cattolicesimo nei paesi in cui esso non ha un partito politico a sua
disposizione, per es., nei paesi anglosassoni. In secondo luogo, è interesse
dei cattolici, come di tutti, che l'amministrazione dello stato, le scienze, la
cultura, l'educazione e in generale le sfere dell’attività umana, si
organizzino e reggano su princìpi che possano essere ricono- sciuti da tutti,
cioè che siano indipendenti dalla inevitabile disparità delle credenze e delle
ideologie, e perciò rendano efficaci e feconde le attività che su di essi si
fondano. È abbastanza ovvio che un’ammi- nistrazione politica la quale
favorisca certi gruppi di cittadini a danno degli altri, in vista delle loro
credenze religiose, è semplicemente un’ammini- strazione inefficiente e
corrotta e non può rivendicare meriti «religiosi ». Allo stesso modo, un potere
giudiziario che non applichi con scrupolo ed equità la legge valida dello
stato, non offre garanzie per nessuno, perchè è, parimenti, inefficiente e
corrotto. Una scienza che serva gli interessi di partiti, credenze e ideologie,
non può a nessun titolo considerarsi meritoria: non è affatto una scienza. Essa
sarebbe simile a un’arte medica che assumesse come criterio di diagnosi,
prognosi e cura i desideri del paziente o di altre persone; o più esattamente
un’arte medica siffatta sarebbe un caso di scienza « non laica + cioè clericale
o partitica. Il L. non è nell’interesse di questo o quel gruppo politico,
religioso o ideologico; è nell’interesse di tutti. Posto, s’intende, che
l’interesse di tutti sia lo sviluppo armonico delle attività che assicurano la
sopravvivenza dell'uomo nel mondo. LAMARCHISMO. V. EvoLUZIONE. LASSISMO. V.
Ricorismo. LATENTE (lat. Latens). F. Bacone chiamava L. il processo naturale
che va dalla causa efficiente della materia sensibile sino alla forma: cioè il
processo di costituzione della forma (Nov. Org., II, 1). I processi psichici
latenti di cui parlava la psicologia del secolo scorso sono quelli che oggi si
chiamano inconsci o subconsci. LATITUDINARIO (ingl. Latitudinarian; fran- cese
Latitudinaire; ted. Latitudinarier). Kant chiamò con questo termine colui che
ammette in alcuni casi la neutralità morale cioè l’esistenza di atti o
caratteri umani indifferenti dal punto di vista morale. « Co- storo, egli dice
sono o L. della neutralità, che am- mettono cioè che l’uomo non è nè buono nè cattivo
e si possono chiamare indifferentisti; o L. della coalizione che ammettono che
l’uomo è insieme buono e cattivo e si possono chiamare sincretisti ». L’opposto
di L. è rigorista cioè colui il quale non ammetta alcuna neutralità morale
(Religion, I, Osser- vazione). Il nome aveva originariamente indicato i
sostenitori, nella chiesa inglese del sec. xvi, di una più lata interpretazione
dei dogmi tradizionali. LAVORO LAVORO (gr. révos; lat. Labor; ingl. Labor;
franc. Travail; ted. Arbeit). L'attività diretta a uti- lizzare le cose
naturali o a modificare l’ambiente per l’appagamento dei bisogni umani. Il
concetto di L. implica perciò: 1) la dipendenza dell’uomo, quanto alla sua vita
e ai suoi interessi, dalla natura: il che costituisce il bisogno (v.); 2) la
reazione attiva a questa dipendenza, costituita da opera- zioni più o meno
complesse dirette all’elaborazione o all’utilizzazione degli elementi naturali;
3) il grado più o meno elevato di sforzo, pena o fatica, che costituisce il
costo umano del lavoro. Soprattutto su quest’ultimo aspetto si fonda la
condanna che la filosofia antica e medievale ha pronunciata sul L. manuale (v.
BanAUSIA). Per questo stesso aspetto, il L. fu considerato dalla Bibbia come
parte della maledizione divina che fa séguito al peccato originale (Genesi,
III, 19). E nello stesso testo famoso di San Paolo il precetto: «Chi non vuol
lavorare, non mangi» è derivato dall’obbligo di non addossare agli altri la
fatica e la pena del lavoro (// Tessal., III, 8-10). Nello stesso senso veniva
prescritto il L. da Sant’Ago- stino (De Operibus Monachorum, 17-18) e da San
Tommaso (S. Th., II, II, q. 187 a. 3) come precetto religioso. Dalla esigenza
di distribuire fra tutti la pena e la degradazione del L. manuale sono ispirate
l’Utopia (1516) di Tommaso Moro e la Città del sole (1602) di Campanella, che
prescri- vono per tutti i membri delle loro città ideali l’ob- bligo del
lavoro. Su questa base, la contrapposizione tra L. ma- nuale e attività
intellettuale, tra arti meccaniche e arti liberali, rimaneva salda; ed anche
nel Rina- scimento la difesa quasi unanime che letterati e filosofi fanno della
vita attiva di fronte a quella contemplativa e l’unanime condanna dell’ozio (al
quale è tolto il carattere, che l’età classica gli attri- buiva, di disponibilità
per attività superiori) non sempre conducono ad una rivalutazione del L. ma-
nuale. Un passo di Giordano Bruno afferma che la provvidenza ha disposto che
l’uomo « vegna oc- eupato ne l’azione delle mani, e contemplazione per
l’intelletto, de maniera che non contemple senza azione, e non opre senza
contemplazione » (Spaccio della bestia trionfante, 1584, in Op. Ital., II, pag.
152). Ma è soprattutto negli scritti scientifici e tecnici che si afferma, a
partire dal 400, la dignità del L. manuale. Galileo esplicitamente riconosceva
il valore delle osservazioni fatte dagli artigiani mec- canici ai fini della
ricerca scientifica (Discorsi in- torno a due nuove scienze, in Op., VIII, pag.
49). Bacone poneva a fondamento del suo sperimenta- lismo le «arti meccaniche»,
che agiscono sulla natura e s’arricchiscono della luce dell’esperienza (Nov.
Org., I, 74) e riteneva pertanto indispensabili 519 le operazioni materiali o
manuali per il raggiungi- mento di un sapere che è nello stesso tempo un potere
sulla natura in vista dei bisogni e degli interessi umani (/b., I, 83). Se
Cartesio dava poca importanza alla parte tecnica o strumentale della scienza
(che per lui rimaneva un sistema rigida- mente deduttivo) e così al L. manuale,
Leibniz insisteva invece sull'importanza del L. degli arti- giani, dei
contadini, dei marinai, dei mercanti, dei musicisti, non solo ai fini della
scienza, ma anche a quelli della vita e della civiltà umana (Phil. Schriften,
VII, pag. 180 sgg.). Queste idee divennero predominanti nell’Illumi- nismo
soprattutto per opera di Bacone e di Locke; quest’ultimo riconosceva nella
ricerca sperimentale, diretta a determinare le proprietà dei corpi fisici,
l’unico strumento di cui l’intelletto umano dispone per accrescere la
conoscenza dei corpi stessi, la cui sostanza rimane sconosciuta (Saggio, IV,
II, 25). L’articolo « Arr» di Diderot nell’Encyclopedie, cri- ticava sulle orme
di Bacone la distinzione delle arti in liberali e meccaniche, considerandola un
pregiu- dizio tendente «a riempire le città di ragionatori orgogliosi e di
contemplativi superflui e le cam- pagne di tirannelli oziosi, pigri e altezzosi
». L’Illu- minismo in generale segna la rivendicazione della dignità del L.
manuale; dal quale Rousseau voleva che Emilio acquistasse la prima idea della
solida- rietà sociale e degli obblighi che essa impone (Émile, [1762], IV).
Kant, pur distinguendo il L. dall’arte non riteneva possibile una netta
separazione perché anche nelle arti liberali « è necessario qualcosa di
costretto o come si dice un meccanismo senza del quale lo spirito non
acquisterebbe corpo e svapo- rerebbe del tutto » (Crit. del Giud., $ 43). Ma
solo con il Romanticismo si cominciò a sta- bilire il rapporto tra il L. e la
natura stessa del- l’uomo. Fichte affermava che anche l’occupazione ritenuta
più bassa e insignificante, in quanto è connessa con la conservazione e la
libera attività degli esseri morali, è santificata allo stesso modo dell’azione
più elevata (Sirrenlehre, III, $ 28). Ed Hegel ha dato la prima dottrina filosofica
del L., che utilizza i risultati raggiunti da Adamo Smith nell’economia
politica (v.). Già nelle Lezioni di Jena (1803-04) Hegel considerava il L. come
« la media- zione tra l’uomo e il suo mondo »; difatti, a dif- ferenza degli
animali, l’uomo con consuma imme- diatamente il prodotto naturale ma elabora,
nei modi e per i fini più diversi, la materia fornita dalla natura, dando così
a tale materia il suo valore e la sua conformità allo scopo (Fil. del dir., $
196). Soltanto nella soddisfazione dei bisogni per mezzo del L., l’uomo è
veramente tale: perché si educa sia teoricamente, attraverso le conoscenze che
il L. richiede, sia praticamente perché si abitua all’oc- 520 cupazione, adegua
la propria attività alla natura della materia e acquista attitudini
universalmente valide. Perciò a differenza del barbaro che è pigro, l’uomo
incivilito è educato alla consuetudine e al bisogno dell'occupazione (/5., $
197 e Zusatz). Attraverso il L., «l’egoismo soggettivo si converte
nell’appagamento dei bisogni di tutti gli altri » sicché mentre «ciascuno
acquista, produce e gode per sé appunto perciò produce e acquista per il
godimento degli altri » (/b., $ 199). Hegel ha anche messo in luce la crescita
indefinita dei bisogni, l’importanza della divisione del L. e il rilievo che
acquista, in base a questa divisione, la distinzione delle classi (Ib., $$ 195,
241, 245). Ha visto pure che la divi- sione del L. porta alla sostituzione
della macchina all'uomo. Difatti, con quella divisione, si accresce sì la
facilità del L. e quindi la produzione; ma si ha pure la limitazione a una sola
abilità e quindi la dipendenza incondizionata dell’individuo dal complesso
sociale. L'abilità stessa diventa così mec- canica e ne deriva la possibilità
di surrogare al L. umano la macchina (Enc., $ 526). Questi capisaldi hegeliani
sono accettati da Marx, il quale però insiste sul carattere naturale o
materiale del rap- porto che il L. stabilisce tra l’uomo e il mondo, contro il
carattere spirituale che Hegel gli aveva riconosciuto e che gli permetteva di
considerarlo come un momento o una manifestazione della co- scienza. Gli uomini
cominciarono a distinguersi dagli animali, secondo Marx, quando « comincia-
rono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato
dalla loro organizza- zione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli
uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale » (/deologia
tedesca, I, A; trad. it. pag. 17). Il L. non è quindi solo il mezzo con cui gli
uomini si assicurano la loro sussistenza: è la stessa estrinsecazione o
produzione della loro vita è un modo di vita determinato. La produzione e il L.
non sono perciò, una condanna per l’uomo: sono l’uomo stesso, il suo modo
specifico di essere e di farsi uomo. Attraverso il L. la natura diventa «il
corpo inorganico dell’uomo » e l’uomo può as- surgere alla coscienza di sé, non
tanto come indi- viduo, ma come «specie di natura universale + (Manoscritti
economico-politici del 1844, I, trad. it. pag. 230 sgg.). Il L. fa anche
dell’uomo un ente sociale perché lo mette in rapporto oltreché con la natura,
con gli altri individui: sicché i rapporti di L. e di produzione costituiscono
la trama o la struttura autentica della storia, della quale sono un riflesso le
varie forme della coscienza. Questo accade tuttavia nel L. non alienato, cioè
non divenuto merce, quale è invece nella società capitalistica: giacché in
questo caso insorge il contrasto tra la personalità del singolo proletario e il
L. come con- LAVORO dizione di vita che gli è imposta dai rapporti in cui entra
come oggetto e non più come soggetto (Ideologia tedesca, I, C; trad. it. pag.
75). Dal punto di vista di un’etica religiosa, Kierke- gaard affermava a sua
volta la stretta connessione del L. con la dignità dell’uomo. « Quanto più basso
è il gradino in cui sta la vita umana, egli diceva, tanto meno si mostra la
necessità di lavorare; quanto più in alto sta, tanto più questa necessità si
manifesta. Il dovere di lavorare per vivere esprime l’universale umano e lo
esprime anche nel senso che è una manifestazione della libertà. Proprio con il
L. l’uomo si rende libero; il L. signoreggia la natura, con il L. egli mostra
che sta più in alto della natura » (Entweder-Oder, II, in Werke, III, pag.
301). Questa stretta connessione del L. con l’esistenza umana, che nobilita il
L. stesso e ne fa un fine oltre che un mezzo, diventa un luogo comune della
filosofia e in generale della cultura contemporanea. E anche al di fuori
dell'ambito marxista, il carat- tere penoso del L. è messo sul conto, non del
L. stesso, ma delle condizioni sociali nelle quali esso si svolge nella società
industriale. Dice Dewey: «È naturale che l’attività sia piacevole. Essa tende a
trovare una via d'uscita e il trovarla è in sé sod- disfacente perché segna una
riuscita parziale. Se l’attività produttiva è diventata così inerentemente
insoddisfacente che gli uomini hanno bisogno di essere artificialmente indotti
a impegnarsi in essa, questo fatto è un’ampia prova che le condizioni sotto le
quali il L. è svolto impediscono il com- plesso delle attività invece di
promuoverle, irritano e frustrano le tendenze naturali invece di indiriz- zarle
verso la fruizione » (Human Nature and Con- duct, II, 3, pagg. 123-24).
Nietzsche tuttavia aveva già visto nel L., un tradimento alla spiritualità
gioiosa e contemplativa che dovrebbe essere pro- pria dell’uomo. Aveva scritto
a proposito degli americani: «Il loro furibondo L. senza respiro — il vizio
peculiare del Nuovo mondo — comincia già per contagio a inselvatichire la
vecchia Europa e a estendere su di essa una prodigiosa assenza di spiritualità
». Aveva notato come solo il L. dà «la buona coscienza» e che invece
l’inclinazione alla gioia, chiamata «bisogno di creazione» co- mincia a
vergognarsi di sé (Die Froehliche Wissen- schaft, 1882, $ 329). E aveva visto
in un L. così concepito «la miglior polizia, che tiene tutti sog- giogati ed è
in grado di impedire vigorosamente lo sviluppo della ragione, del desiderio
violento, del gusto dell’indipendenza » (Morgenròthe, 1881, $ 173). A queste
idee di Nietzsche si rifanno impli- citamente o esplicitamente, coloro che
contrappon- gono il gioco al L. o vogliono trasformare il L. in gioco. «Il
gioco è improduttivo e inutile, ha LEGGE scritto Marcuse, proprio perché
cancella i tratti repressivi e sfruttatori del L. e dell’agio; esso *
semplicemente gioca * con la realtà». Ma dal- l’altro lato lo stesso Marcuse
afferma che un ordine « non repressivo » del L. è un ordine di abbondanza che
si ha «quando tutti i bisogni fondamentali possono soddisfarsi con un dispendio
minimo di energia fisica e psichica e in un tempo minimo.» (Eros e civiltà,
cap. 9, trad. it. pagg. 212-13). AI fondo della negazione del valore del L.
sta, più che la condanna delle forme alienate e meccaniz- zate che il L. ha
assunto nella civiltà contempo- ranea, la nostalgia di una vita puramente
contem- plativa, la fede in una vita istintiva che, se non è repressa dal L.,
riporta infallibilmente l’uomo al paradiso perduto. LEGALISMO (ingl. Lepalism;
franc. Lépa- lisme; ted. Legalismus). L’atteggiamento che in- siste sulla
osservanza letterale della legge. In morale, è lo stesso che rigorismo (v.).
Fuori della morale, consiste nel dare eccessivo valore alle prescrizioni o ai
procedimenti formali. LEGALITÀ (ingl. Legality; franc. Légalité; ted.
Legalitàt, Gesetzlichkeit). La conformità di un’azione alla legge. Kant
distinse la L. così intesa dalla vera e propria moralità. «Il puro accordo o
disaccordo di un’azione con la legge, egli disse, senza riguardo al movente
dell’azione stessa, si chiama L. (conformità alla legge); quando in- vece
l’idea del dovere derivata dalla legge è nello stesso tempo movente dell’azione
si ha la moralità (dottrina morale)» (Met. der Sitten, Intr., $ III; cfr. Crit.
R. Prat., I, cap. III. Questa distinzione era stata, in forma più attenuata,
introdotta per la prima volta da Tomasio per distinguere la norma giuridica
dalla norma morale (v. Diritto); e allo stesso scopo se ne avvale Kant nella
Metafisica dei costumi. LEGGE (gr. vépoc; lat. Lex; ingl. Law; fran- cese Loi;
ted. Gesetz). Una regola dotata di necessità, intendendosi per necessità: 1°
l'impossibilità (o l’im- probabilità) che la cosa regolata accada altrimenti;
oppure 2° una forza che garantisca la realizzazione della regola. La nozione di
L. è distinta da quella di regola e da quella di norma. La regola (che è ter-
mine generalissimo) può anche essere infatti priva di necessità; e regole sono
non solo le L. naturali o le norme giuridiche ma anche le prescrizioni del-
l’arte o della tecnica. La norma poi è una regola che concerne soltanto le
azioni umane e non ha di per sè valore necessitante: pertanto non sono norme le
leggi naturali e le regole tecniche; ed una norma, ad esempio di natura morale,
non è costrit- tiva allo stesso modo di una legge giuridica. Da questo punto di
vista esistono solo due specie di L.: le L. di natura e le L. giuridiche.
Poichè la nozione 521 di L. giuridica è stata analizzata sotto la voce Di-
RITTO, rimane qui da analizzare la nozione di L. naturale. Si possono
distinguere le seguenti fonda- mentali interpretazioni di essa: 1° la L. come
ra- gione; 2° la L. come uniformità; 3° la L. come convenzione; 4° la L. come
relazione simbolica. 1° La nozione della L. come ragione è sorta nella Grecia
antica dal trasferimento al mondo naturale di quel concetto di giustizia o di
ordine ch’era stato elaborato nei confronti del mondo umano (cfr. JAE- GER,
Paideia, I, cap. 6; trad. ital., I, pag. 212 ag.). Anassimandro per primo
trasferì la nozione di dike dal mondo della polis al mondo della natura e
intese il legame causale nel nascere e nel perire delle cose come la L. che
presiede a una contesa giudiziaria nella quale tutti gli esseri, egli dice: «
debbono reciprocamente pagarsi il fio della loro ingiustizia nell’ordine del
tempo» (Fr. 9, Diels). Eraclito a sua volta concepiva questa L. come la stessa
ragione o Logos: del quale, come egli diceva «si nutrono tutte le L. umane»
(Fr. 114, Diels). Per quanto Platone (cfr. Tim. 83€) e Aristotele (De Cael., I,
1, 268 a 13) usino solo eccezionalmente l’espressione « L. di natura », il
concetto della razio- nalità della natura e della esprimibilità di tale
razionalità in proposizioni universali e necessarie è stato fatto prevalere
proprio da loro nella storia della filosofia. Lucrezio si servì dell’espressione
« patto di natura» (foedus naturae; De nat. rer., V, 57, 924; VI, 906). E il
concetto stoico del destino o della provvidenza è l’espressione dello stesso
punto di vista (Diog. L., VII, 149). Plotino ammet- teva, anche per le cose che
si sottraggono al destino, una legge che deriva per esse direttamente dall'In-
telletto divino (Enn., IV, 3, 15). La soggettivazione delle L. di natura
operata da Kant nel tentativo di vedere la loro « sorgente » nell'intelletto e
precisa- mente nelle forme a priori dell’intelletto (categorie) non muta molto
il concetto di L. naturale che ri- mane, anche per Kant, l’espressione della
raziona- lità della natura e sia pure di una razionalità che nella natura (come
fenomeno) è introdotta dallo stesso intelletto. « Le L. naturali, dice Kant, se
vengono considerate come princìpi dell’uso empirico dell’intelletto hanno
insieme l'impronta della ne- cessità e quindi almeno la presunzione di una
deter- minazione derivante da princìpi valevoli in sè a priori e
antecedentemente ad ogni esperienza. Tutte le L. della natura, senza
distinzione, sottostanno ai principi superiori dell’intelletto e applicano tali
princìpi a casi particolari del fenomeno. Questi princìpi soltanto dànno il
concetto che contiene la condizione, e per così dire l’esponente di una re-
gola in generale; ma l’esperienza dà il caso che è sottoposto alla regola»
(Crir. R. Pura, Analitica dei Princ., cap. II, sez. 3). Schelling interpretava
la 522 formulazione delle L. naturali come la progressiva trasfigurazione della
natura in razionalità. «La scienza della natura, egli diceva, toccherebbe il
sommo della perfezione se giungesse a spiritualizzare perfettamente tutte le L.
naturali in L. della intui- zione e del pensiero. I fenomeni (il materiale)
deb- bono scomparire interamente e rimanere soltanto le L. (il formale). Accade
perciò che, quanto più nel campo della natura balza fuori la L., tanto più si
dissipa il velo che l’avvolge, gli stessi fenomeni si rendono più spirituali e
infine spariscono del tutto. I fenomeni ottici non sono altro che una geometria
le cui linee sono tracciate per mezzo della luce e questa luce stessa è già di
dubbia materialità » (System des transzendentalen Idealismus, 1800, Intr., $ 1;
trad. ital., pag. 8-9). Si può dire che ogni interpretazione razionalistica
della scienza faccia proprie, in un certo grado, queste tesi di Schelling. La
L. non è da questo punto di vista che l’espressione della razionalità della
natura; e la sua formulazione, da parte della scienza, non ha che lo scopo di
ridurre la natura a ragione. 2° La concezione della L. naturale come di un
rapporto costante tra i fenomeni è stata proposta per la prima volta da Hume.
La L. naturale è, secondo Hume, il risultato di « un’esperienza fissa e
inalterabile » (Ing. Conc. Underst., X, 1): l’espe- rienza della « congiunzione
costante di oggetti si- mili», alla quale si riduce il rapporto causale. La
connessione abituale e costante tra eventi diversi è quella che autorizza a
parlare di causalità, con- sente la previsione degli eventi futuri ed esclude
il miracolo (/bid., VII, 2). Questa concezione veniva adottata da Comte e con
lui dalla scienza positi- vistica. «Il carattere fondamentale della filosofia
positiva, diceva Comte, è di considerare tutti i fenomeni come soggetti a L. naturali
invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al minimo numero
possibile sono lo scopo di tutti i nostri sforzi ». Queste L. consistono non
già nell’esporre «le cause generatrici dei fenomeni » ma solo espri- mono ciò
che connette i fenomeni gli uni con gli altri mediante « relazioni normali di
successione e di simiglianza» (Cours de phil. positive, I, lez. I, $ Il). Dallo
stesso punto di vista, Stuart Mill considerava le L. come casi speciali
dell’uniformità della natura. «Le varie uniformità, egli diceva, quanto sono
accer- tate da ciò che è considerata come un’induzione suf- ficiente sono
dette, nel comune linguaggio, L. di na- tura. Scientificamente parlando, il
titolo è adoperato in senso più ristretto per designare le uniformità che sono
state ridotte alla loro espressione più semplice » (Logic, III, 4, $ 1). Questa
concezione ha dominato l’intero positivismo classico ed è entrata in crisi sol-
tanto col riconoscimento del carattere economico delle L. naturali, effettuato
da Mach. LEGGE 3° Il concetto di L. naturale come convenzione nasce sul
fondamento della funzione economica che alla conoscenza scientifica aveva
riconosciuto Mach. Egli aveva, a questo proposito, affermato il carattere
soggettivo delle L. naturali. Solo i nostri concetti e la nostra intuizione,
egli diceva, prescrivono L. alla natura. « Le L. naturali sono le restrizioni
che noi, guidati dall'esperienza, prescriviamo alla nostra aspettazione dei
fenomeni » (Erkenniniss und Irrtum, cap. 23; trad. franc., pag. 368). Il progresso
della scienza conduce a una restrizione crescente delle possibilità di
previsione cioè alla loro crescente de- terminazione e precisione. Questo
riconoscimento del carattere economico o utilitario della scienza è stato, in
filosofia, largamente incoraggiato dalla filosofia di Bergson e dal
pragmatismo. La prima, attribuendo all’intelligenza soltanto la funzione vitale
di fabbricare oggetti e di orientarsi nel mondo naturale, faceva della scienza,
che è la creazione dell’intelligenza, « l’ausiliaria dell’azione » (BERGSON, La
penseé et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 158) e non poteva riconoscere alle
L. scientifiche alcuna validità teoretica. Il pragmatismo, a sua volta,
generalizzando la tesi della strumentalità della co- noscenza, incoraggiava l’interpretazione
delle L. scientifiche come semplici strumenti dell’orienta- zione pratica
dell’uomo nel mondo. Alcune forme dello spiritualismo e dell’idealismo hanno
interpre- tato questa funzione economica della scienza come segno
dell’inferiorità teoretica della scienza stessa (talvolta dell’intero pensiero
discorsivo) nei con- fronti della filosofia e dei suoi organi specifici.
Eduardo Le Roy, portando all’estremo la critica di Bergson, affermò il
carattere convenzionale della scienza e perciò la natura arbitraria delle sue
leggi. Il compito della scienza è, secondo Le Roy, quello di trovare costanti
utili; ed essa le trova perchè l’azione umana non comporta una precisione asso-
luta ma esige solo che la realtà sia approssimativa- mente rappresentata, nei
suoi rapporti con noi, da un sistema di costanti simboliche chiamate L.
(Science et philosophie, 1899-1900). La stessa tesi, in un’esagerazione quasi
caricaturale, si può trovare espressa da Croce: « Appunto perchè queste L.,
egli diceva, sono nostre costruzioni e dànno come fisso il mobile, non
solamente esse non sono inec- cepibili e patiscono talvolta eccezioni, ma
addirittura non vi ha fatto reale che non sia eccezione alla sua L.
naturalistica ». Ciò accade perchè non ci sono uniformità rigorose e un
orsacchiotto non è mai del tutto simile ai suoi genitori. « Onde si potrebbe
definire: le L. inesorabili della natura sono L. che a ogni attimo vengono
violate; e, per converso, le L. filosofiche sono quelle che vengono in ogni
attimo osservate... Le scienze naturali, che non forniscono conoscenze vere,
hanno ancora minore LEMMA diritto (se è lecito esprimersi così) a parlare di
pre- visione » (Logica, II, cap. 5; 4* ediz., 1920, pag. 218). Contro la natura
convenzionale delle L. si espresse Poincaré polemizzando contro Le Roy. La L.
non è una creazione arbitraria dello scienziato, ma è l’espressione,
approssimativa o provvisoria, di una costanza d’azione che permette la
previsione. È ben vero che talvolta qualche L. viene elevata a prin- cipio e
così sottratta al controllo dell’esperienza e all’incessante revisione che essa
comporta; ma in tal caso la L. cessa di essere vera o falsa per diventare
soltanto comoda; e il controllo continua ad essere esercitato sulle relazioni
che esprimono «il fatto bruto dell’esperienza» (La valeur de la science, pag.
239). Poincaré osserva pure che «lo scienziato crea nel fatto soltanto il
linguaggio nel quale lo enuncia » ma che, una volta enunciato una predi- zione
in un determinato linguaggio « non dipende evidentemente da lui che la
predizione stessa si realizzi o non si realizzi » (/bid., pag. 233). La stessa
critica veniva rivolta alla tesi del carattere convenzio- nale delle L.
scientifiche da Moritz Schlick. Utiliz- zando la distinzione tra enunciato e
proposizione la quale è un enunciato dotato di significato (in quanto compie
realmente la funzione della comuni- cazione) Schlick ritenne che «il contenuto
proprio di una legge naturale consiste nel fatto che a certe regole
grammaticali (per. es., di una geometria) corrispondono alcune proposizioni
definite come descrizioni vere della realtà ». Poichè questo fatto è
completamente invariante rispetto a ogni arbitrario mutamento delle regole
grammaticali, non si può effettuare la riduzione delle L. di natura a mere
convenzioni linguistiche. «Solo le proposizioni sono vere o false, non gli
enunciati. Gli enunciati infatti sono soggetti a modificazioni arbitrarie ma
questo non concerne chi si preoccupa della conoscenza dei fatti. Con l’aiuto
delle regole dei simboli (la cui grammatica egli deve certo conoscere perchè
senza di essa gli enunciati sarebbero privi di senso per lui) egli può sempre
giungere sino alle proposizioni genuine la cui verità non dipende dalle
predilezioni dei simboli » (Gesetz, Kausalitàt, und Wahrschein- lichkeit,
Vienna, 1948; ora in Readings in Phil. of Science, 1953, pag. 181 sgg.). 4° Le
critiche di Poincaré e Schlick alla tesi della natura convenzionale della L.
scientifica muovono da quella che si può chiamare la quarta concezione
fondamentale della L. stessa, cioè la concezione della L. come rapporto
simbolico tra i fatti. Questa tesi è stata espressa per la prima volta da Duhem
nel suo libro sulla Teoria fisica e veniva da lui riassunta così: « Una L. di
fisica è una relazione simbolica la cui applicazione alla realtà concreta esige
che si conosca e si accetti tutto un insieme di teorie » (Théorie physique,
1906, pag. 274). Questo 523 vuol dire che i termini simbolici, che una legge
mette in relazione, sono astrazioni prodotte dal lavoro lento, complicato e
consapevole che è servito a ela- borare le teorie fisiche; e che questo lavoro
non è mai definitivamente compiuto. « Ogni L. fisica, dice Duhem, è una L.
approssimata: di conseguenza, per il logico rigoroso, essa non può essere nè
vera nè falsa; ogni altra L. che rappresenti le stesse espe- rienze con la
stessa approssimazione può pretendere, con lo stesso diritto della prima, al
titolo di L. vera, o per parlare più rigorosamente, di L. accettabile » (Ibid.,
pag. 280). Questi concetti sono rimasti sostan- zialmente immutati nella
filosofia contemporanea. Le osservazioni di Schlick contro la convenzionalità
delle L. naturali e in favore del carattere simbolico delle L. stesse,
costituiscono una conferma sostan- ziale dal punto di vista di Duhem. Una L. è
pur sempre un enunciato grammaticale e presuppone pur sempre la grammatica del
linguaggio in cui si esprime; ma per quanto tale grammatica possa essere
considerata convenzionale, non lo è il signi- ficato della L. in quanto si
riferisce a rapporti tra fatti, verificabilmente costanti e tali da rendere
possibile una previsione probabile. Per quanto la teoria di Duhem sia stata
formulata anteriormente al riconoscimento del carattere probabilistico della
scienza, quella che egli chiamava « approssimazione delle L. di natura »
lasciava la via aperta a quello che oggi si chiama carattere probabilistico
delle L. stesse. Piuttosto, la funzione che la metodologia delle scienze tende
oggi a riconoscere sempre più come predominante alla L. scientifica è la capacità
di previsione. « Una proposizione, ha detto Peirce, non può essere chiamata
‘legge di natura’ finchè la sua capacità di previsione non sia stata messa a
prova e confermata in modo tale che nessun dubbio rimanga su di essa » (Values
in a Universe of Chance, pag. 290). Una L. è in generale una formula per la
previsione. Da questo punto di vista la L. cessa di avere la necessità che la
prima e la seconda inter- pretazione le riconoscevano. La sua validità si mi-
sura dalla sua efficienza; e questa efficienza dalla possibilità di ottenere
con essa previsioni che risul- tino sufficientemente corrette. LEGGE
BIOGENETICA. V. BIOGENETICA. LEGGE DEI TRE STADI. V. Posirivismo. LEGGE DELLA
MINIMA AZIONE. Vedi AZIONE MINIMA. LEGGE MODALE. V. MODALE. LEGGE PSICOFISICA. V.
PsicoLOGIA, b). LEIBNIZIANISMO. V. CARATTERISTICA; SPIRITUALISMO. LEKTON. V.
SignIFICATO. LEMMA (gr. Xfuua; ingl. Lemma; francese Lemme; ted. Lemma). 1. La
proposizione che si as- sume come prima premessa di un ragionamento 524
(ARisT., Top., VIII, 1, 156 a, 21; Dio. L. VII, 76; Cicer. De Div., II, 53,
108). In questo senso Kant chiamava L. la proposizione che una scienza assume
senza dimostrazione, desumendola da un’altra scienza (Crit. del Giud., $ 68;
Logik, $ 39). 2. Un teorema matematico laterale o subordi- nato, fuori della
catena deduttiva (LEIBNIZ, Nouv. Ess., IV, 2, 8). LENINISMO. V. Comunismo.
LETIZIA (gr. eòpposivn; lat. Laetitia). V. Giora. LEVIATANO (ingl. Leviathan).
Dal nome di un biblico mostro (Giob., 40, 20) Hobbes chiamò così « lo stato, in
latino civitas, che è un uomo arti- ficiale, benchè di più grande statura e
forza dell’uomo naturale, per la cui protezione e difesa fu ideato » (Leviath.,
Intr.); e dette questo titolo alla sua opera politica fondamentale (1561).
LIBERALISMO (ingl. Liberalism; franc. Libé- ralisme; ted. Liberalismus). La
dottrina che si assunse la difesa e la realizzazione della libertà nel campo
politico. Tale dottrina nasce e s’afferma nell'età moderna e può essere
considerata divisa in due fasi: 1° La fase settecentesca, caratterizzata
dall’indivi- dualismo; 2° la fase ottocentesca caratterizzata dallo statalismo.
1° La prima fase è caratterizzata dai seguenti indirizzi dottrinali che
costituiscono gli strumenti delle prime affermazioni politiche del L.: a) Il
giu- snaturalismo (v.) che consiste nel riconoscere all’in- dividuo diritti
originari e inalienabili; 5) Il con- trattualismo (v.) che consiste nel
considerare la società umana e lo stato come frutto di una convenzione fra
individui; c) Il L. economico, proprio della scuola fisiocratica, che combatte
l'intervento dello stato nelle faccende economiche e vuole che queste seguano
esclusivamente il loro corso naturale (v. ECoNOMIA); d) Come conseguenza
globale delle precedenti dottrine: la negazione del- l’assolutismo statale e la
riduzione dell’azione dello stato in limiti definiti, mediante la divisione dei
poteri (v. SATO). Il postulato fondamentale di questa fase del L. è la
coincidenza dell’interesse privato con l'interesse pubblico. Un giusnaturalista
e moralista come Bentham crede che basti al singolo seguire intelligentemente
il proprio piacere perchè persegua, contemporaneamente, il piacere di tutti gli
altri. E la dottrina economica di Adamo Smith è fondata sul presupposto analogo
della coincidenza tra il be- ninteso interesse economico del singolo e
l’interesse economico della società (v. INDIVIDUALISMO). 2° La seconda fase del
L. s’inizia quando questo postulato entra in crisi. Tale crisi ha i suoi
precedenti nelle dottrine politiche di Rousseau, Burke, e Hegel nonchè nel
fatto che il L. individualistico sembrava, sul terreno politico ed economico
realizzare la difesa di una classe determinata di cittadini (la LENINISMO
borghesia) anzichè della totalità dei cittadini stessi. Il Contratto sociale
(1762) di Rousseau costituisce già il capovolgimento dell’individualismo. I
diritti che il giusnaturalismo aveva riconosciuti agli indi- vidui
appartengono, secondo Rousseau, soltanto al cittadino. « Ciò che l’uomo perde
per il contratto sociale è la sua libertà naturale e il diritto illimitato a
tutto ciò che lo tenta e che può ottenere; ciò che guadagna è la libertà civile
e la proprietà di tutto ciò che possiede ». Ma in realtà solo « l'obbedienza
alla legge che ci si è prescritta è la libertà »: cosicchè solo nello stato
l'uomo è libero (Contrat social, I, 8). L’affermata infallibilità della « volontà
gene- rale » che risulta dalla « alienazione totale di ciascun associato con
tutti i suoi diritti a tutta la comu- nità » (/bid., I, 6) trasforma quella che
per l’indivi- dualismo è la coincidenza dell'interesse singolo con l’interesse
comune nella coincidenza, preliminare e garantita, dell’interesse statale con
l’interesse sin- golo. In tal modo si veniva riaffermando quella superiorità
dello stato sull’individuo contro la quale il L. era insorto nella sua prima
fase. Tale superio- rità viene riconfermata anche da Burke. «La so- cietà è un
contratto, egli diceva. Ma se i contratti per oggetti di interesse occasionale
possono essere sciolti a piacere, non si può considerare lo stato come niente
di meglio che un accordo di parti in un commercio di pepe e caffè... Si deve
considerarlo con reverenza perchè non è la partecipazione a cose che servono
soltanto all’esistenza animale...: è una società in tutte le scienze, in tutte
le arti, in tutte le virtù e in ogni perfezione » (Reflections on the Revolution
in France, 1790; Works, II, pa- gina 368). Ma il culmine di questo nuovo
ricono- scimento dello stato si ha con la dottrina di Hegel per la quale esso è
« l’ingresso di Dio nel mondo + e per cui il suo fondamento è «la potenza della
ragione che si realizza come volontà» (Fil. del Dir., $ 258, Zusatz).
Concordava con questa esal- tazione dello stato l’altra branca del romanticismo
ottocentesco, il positivismo. Questo, con Comte, preconizzava uno statalismo
egualmente assolu- tistico di quello hegeliano (Systéme de politique positive,
1851-54; IV, pag. 65) e con Stuart Mill, pur senza indulgere a concessioni
assolutistiche, faceva larga parte all’azione dello stato proprio in quel
dominio che il liberalismo classico voleva riservato esclusivamente all’iniziativa
individuale: il dominio economico (Principles of Political Economy, 1848). Il
saggio Su/la Libertà (1859) di Stuart Mill tendeva, nello stesso tempo, a
togliere la libertà dal novero delle condizioni indispensabili per l’eser-
cizio dell'attività morale giuridica economica, ecc. (secondo la concezione del
L. classico) e a farne un ideale o un valore in sè cioè indipendente dalle
possibilità che offre. Ciò non toglie che lo scritto LIBERTÀ sia uno delle più
nobili e appassionate difese della libertà stessa. Il sec. xx nei suoi primi
decenni ha visto la conti- nuazione di questo L. statalista. Idealismo inglese
e idealismo italiano insistettero sul carattere divino dello stato. Così fece
Bernardo Bosanquet nello scritto The Philosophical Theory of the State (1899) e
così fece Gentile identificando lo stato con l’Io assoluto (Genesi e struttura
della società, postumo, 1946). L'ispirazione hegeliana prevaleva d’altronde
anche nella dottrina di Croce il quale tuttavia rima- neva fedele all’ideale
classico della libertà, cui ren- deva pratica testimonianza nel periodo del
fascismo. Per Croce infatti il L. è la stessa dottrina dello svol- gimento
dialettico della storia, che tutto assolve e giustifica, anche l’assolutismo e
la negazione della libertà (Etica e politica, 1931, pag. 290). Di questa stessa
forma di L. (al quale direttamente si collega attraverso Hegel) si può
considerare una manifesta- zione lo stesso socialismo marzxistico (v. MATERIA-
LISMO). I partiti politici che dai primi dell’ottocento in poi hanno innalzata
la bandiera liberale si sono ispirati all’uno o all’altro degli indirizzi
fondamen- tali ora espressi cioè o all’individualismo o allo statalismo.
Pertanto un coacervo di indirizzi poli- tici disparati e talora opposti hanno
potuto richia- marsi al L. (su di essi vedi DE RucGiERO, Storia del L. europeo,
1925). Si sono infatti richiamati ad esso partiti che hanno negato il valore
dello stato (come il radicalismo inglese del secolo scorso) e par- titi che lo
hanno esaltato (come la cosiddetta « destra storica » nell'Italia
postrisorgimentale); par- titi che hanno negato ogni ingerenza dello stato in
materia economica (come fanno tuttora alcuni par- titi liberali europei) e
partiti che invece invocano l'intervento dello stato nell’iniziativa e nella
dire- zione degli affari economici; infine partiti che hanno ritenuto la
libertà condizione operante d’ogni attività umana e partiti che l’hanno
relegata nell’em- pireo dei puri « valori ». Questi contrasti sono la
manifestazione evidente del carattere composito della dottrina liberale. E a
sua volta questo carat- tere composito dipende dal modo approssimativo e
confuso con cui è stata trattata la nozione che dovrebbe essere fondamentale
per il L.; quella di libertà. Il ricorso casuale o surrettizio all’uno o
all’altro dei concetti di libertà che sono stati ela- borati nella storia del
pensiero filosofico ha reso l’idea liberale in politica confusa e oscillante e
l'ha talora condotta alla difesa o alla accettazione della non libertà (v.
LIBERTÀ). LIBERO ARBITRIO. V. LiBERTÀ. LIBERTÀ (gr. #ev0epla; lat. Libertas;
in- glese Freedom, Liberty; franc. Liberté; ted. Freiheit). Il termine ha tre
significati fondamentali, corrispon- 525 denti a tre concezioni che si sono
intersecate nel corso della sua storia e che possono essere caratte- rizzate
nel modo seguente: 1° la concezione della L. come autodeterminazione o
autocausalità, secondo la quale la L. è assenza di condizioni e di limiti; 2°
la concezione della L. come necessità, che si fonda sullo stesso concetto della
precedente, cioè su quello di autodeterminazione, ma attribuisce
l’autodeterminazione stessa alla totalità (Mondo, Sostanza, Stato) cui l'uomo
appartiene; 3° la con- cezione della L. come possibilità o sceltà, secondo la
quale la L. è limitata e condizionata, cioè finita. Non costituiscono concetti
diversi di L. le forme che la L. assume nei vari campi, per es., la L.
metafisica, la L. morale, la L. politica, la L. economica, ecc. Le dispute
metafisiche, morali, politiche, economiche, ecc., intorno alla L. sono infatti
dominate dai tre concetti in questione, ai quali pertanto sono ricon- ducibili
le forme specifiche di L. intorno a cui tali dispute vertono. 1° La prima
concezione della L., quella per cui essa è assoluta, incondizionata e quindi
non subisce limitazioni e non ha gradi, è stata espressa dicendo che è libero
ciò che è causa di se stesso. Questa concezione è stata per la prima volta
affacciata da Aristotele. Sebbene l’analisi aristotelica della volontarietà
delle azioni, sembra che faccia appello al concetto della L. finita, la
definizione di ciò che è volontario è quella della L. infinita: volontario è
cioè che è « principio di se stesso ». Aristotele co- mincia col dire che la
virtù dipende da noi e così pure il vizio. « Nelle cose infatti, egli prosegue,
in cui l’agire dipende da noi, anche il non agire dipende da noi; e là dove
siamo in grado di dir no, possiamo anche dir si. Sicchè se il compiere
un’azione bella dipende da noi, dipenderà da noi anche non compiere un’azione
brutta » (Er. Nic., III, 5, 1113 b 10). Questo è quanto già Platone aveva detto
nel mito di Er. Ma per Aristotele questo significa che «l’uomo è il principio e
il padre dei suoi atti, come dei suoi figli » (/bid.). Difatti «solo per colui
che ha in se stesso il suo proprio principio, l’agire o il non agire dipende da
se stesso » (/bid., III, 1, 1110 17); sicchè l’uomo «è il principio dei suoi
atti » (/bid., III, 3, 1112 b 15-16). Questa nozione di « principio di se
stesso » è la definizione della L. incondizionata. Essa ricorre, per es., in
Cicerone. « Per i moti volontari dell'anima, egli dice, nonèda richiedersi una
causa estranea giacchè il movimento è in nostro potere e dipende da noi: nè
perciò è senza causa, dato che la sua causa è la sua stessa natura » (De Fato,
11). La nozione di L. aveva in Epicuro lo stesso significato di
autodeterminazione assoluta: autodeterminazione che egli faceva risalire agli
atomi cui attribuiva il potere di deviare dalla propria traiettoria. Dice
Lucrezio: « Noi possiamo deviare i nostri movimenti 526 senza essere
determinati nè dal tempo nè dal luogo ma secondo che ci ispira lo spirito;
giacchè senza dubbio è la volontà il principio di quegli atti e da essa. il
movimento si espande in tutte le membra» (De nat. rer., II, 260). La nozione della
L. come autocausalità o autodeterminazione (aòrtorpayia) è a fondamento anche
del concetto della L. come necessità. Gli Stoici ammettevano che fossero libere
le azioni che hanno in se stesse la loro causa o il loro principio: « Solo il
sapiente è libero, essi dicevano, e tutti i malvagi sono schiavi, giacchè la L.
non è altro che l’autodeterminazione, mentre la servitù è la privazione
dell’autodeterminazione » (Diog. L., VII, 121). Epitteto, conseguentemente
chiamava «libere » le cose che sono «in nostro potere » cioè gli atti dell'uomo
che hanno il loro principio nell'uomo stesso (Diss., I, 1). Questo concetto si
è trasmesso per tutto il Medio Evo. Origene lo ha per primo difeso nel mondo
cri- stiano, chiarendolo nel senso che la L. consiste non soltanto nell'avere
in sè la causa dei propri movimenti ma nell’essere questa causa. Questa
definizione, che si applica a tutti gli esseri viventi, privilegia l’uomo
perchè la causa dei movimenti umani è ciò che l’uomo stesso sceglie come
movente, in quanto giudice e arbitro delle circostanze esterne (De Princ., III,
5). Considerazioni analoghe ricor- rono nel De Libero arbitrio di Sant'Agostino
(cfr. ad es.: I, 12; III, 3; III, 25). «Sente che l’animo si muove da sè colui
che sente in sè la volontà » dice egli altrove (De div. quaest. 83, 8). Alberto
Magno chiamava libero l’uomo che è causa di sé e che il potere altrui non può
costringere (S. Th., II, 16, 1). E per San Tommaso: « Il libero arbitrio è la
causa del proprio movimento perchè l’uomo, per il libero arbitrio, determina se
stesso ad agire ». San Tommaso aggiunge che non è necessario, affinchè ci sia
L., che l’uomo sia la prima causa di se stesso e difatti non lo è, perchè tale
prima causa è Dio. Ma la Prima causa non toglie nulla alla autocausalità dell’uomo
(S. Th., I, q. 83, a. 1; cfr. Contra Gent., II, 48). L’ul- tima scolastica,
mantenne questo concetto di L.; accentuò anzi l’indifferenza della volontà
rispetto ai suoi possibili determinanti. Duns Scoto afferma che «la L. della
nostra volontà consiste nel potersi determinare ad atti opposti, sia
successivamente che nel medesimo istante » (Op. Ox., I, d. 39, q. 5, n. 16). E
questa determinabilità ad atti opposti esprime la perfetta indifferenza della
volontà rispetto ad ogni motivazione possibile. Ockham, pur negando la
possibilità simultanea di atti opposti, sottolinea ugualmente l'indifferenza
assoluta della volontà: «Per L., egli dice, s'intende il potere per il quale
posso indifferentemente e contingentemente porre cose diverse, sicchè posso
causare e non causare lo stesso effetto, senza che ci sia nessuna diversità
LIBERTÀ tranne che in questo potere» (Quod/., I, q. 16). Ockham non ritiene
tuttavia che si possa dimostrare che la volontà sia libera in questo senso. La
L. si può solo conoscere per esperienza giacchè « l’uomo sperimenta che, per
quanto la ragione gli detti qualcosa, la volontà può tuttavia volerla e non vo-
lerla » (/bid., I, q. 16). Buridano osservava a questo proposito che la L. non
consiste nel poter non seguire il giudizio dell’intelletto; giacchè se
l’intelletto rico- noscesse con evidenza due beni come perfettamente uguali,
non potrebbe decidersi nè per l’uno nè per l’altro; consiste invece nel poter
sospendere o impe- dire il giudizio dell’intelletto (/Zn Eth., II, q. 1-4).
Così poneva le premesse del caso che si chiamò dell’Asino di Buridano (v.): il
quale, non avendo L., muore di fame nella condizione in cui l’uomo, invece, può
sospendere il giudizio ed effettuare arbitrariamente la scelta. Il concetto di
autopraghia o causa sui ricorre frequentemente nella filosofia moderna e
contem- poranea. « La sostanza libera, dice Leibniz, si de- termina da se
stessa cioè seguendo il motivo del bene appercepito dall’intelligenza, che la
inclina senza necessitarla: tutte le condizioni della L. sono com- prese in
queste poche parole » (Théod., III, $ 288). Questo stesso concetto persuase
Kant ad ammettere il carattere « noumenico » della libertà. « Se si deve
ammettere la L., egli dice, come proprietà di certe cause dei fenomeni, essa
deve, in rapporto ai feno- meni come eventi, essere la facoltà di iniziare da
sé (sponte) la serie dei propri effetti, senza cioè che l’attività della causa
debba avere un inizio e senza che abbisogni di un’altra causa che determini
tale inizio » (Proleg., $ 53). La « facoltà di iniziare da sè un evento +, è
esattamente la causa sui del concetto tradizionale di libertà. Questa è anche
chiamata nello stesso senso «spontaneità assoluta» cioè attività che non riceve
altra determinazione che da se stessa (Crit. R. Prat., I, libro I, cap. III,
Delucidazione critica). Ma proprio come causa sui o spontaneità assoluta, «la
causa libera non può essere nei suoi stati sottomessa a determinazioni di
tempo, non dev’essere un fenomeno, dev'essere una cosa in sè e soltanto i suoi
effetti sono da ritenersi fenomeni + (Proleg., $ 53). Kant ha voluto conciliare
la L. umana, come potere di autodeterminazione, con il determinismo naturale
che per lui costituisce la razionalità stessa della natura; perciò ha
considerato la L. come noumeno, ritenendo che ciò che da un punto di vista
(quello dei fenomeni) può considerarsi come necessità, da un altro punto di
vista (quello del noumeno) può considerarsi come libertà. Ma il concetto di L.
non è stato per nulla innovato da questo artificio kantiano. Lo stesso concetto
si trova espresso da Fichte: « L’assoluta attività, egli dice, la si chiama
anche libertà. La L. è la rappre- LIBERTÀ sentazione sensibile
dell’auto-attività » (Siftenlehre, Intr., 7, in Werke, IV, pag. 9). Allo stesso
concetto fa appello anche oggi ogni forma di indeterminismo (v.). Nelle forme
spiritua- listiche dell’indeterminismo (che sono le più diffuse)
l’autodeterminazione viene considerata come una esperienza interna
fondamentale, come una specie di creazione «interiore». Essa diventa la stessa
« autocreazione dell’io ». Dice Maine de Biran: « La L. o l’idea di L., presa
nella sua sorgente reale, non è che il sentimento stesso della nostra attività
o di questo potere di agire, di creare lo sforzo costitutivo dell’io » (Essai sur
les fondements de la psychologie, 1812, in CEuvres, ed. Naville, I, pa- gina
284). Una concezione analoga si può trovare nel Mikrokosmus di Lotze (I, pag.
283 sgg.) e, con qualche attenuazione, nella Nouvelle Monadologie, di Renouvier
(pag. 24 sgg.). Lo spiritualismo fran- cese con Sécretan, Ravaisson, Lachelier,
Boutroux, Hamelin, si attiene strettamente allo stesso concetto. «La conoscenza
delle leggi delle cose, dice Bou- troux, ci permette di dominarle e così, lungi
dal nuo- cere alla nostra L., il meccanismo la rende efficace ». Pertanto non
solo le cose interne, come voleva Epit- teto, ma anche quelle esterne dipendono
da noi (De l’idée de loi naturelle, 1895, pag. 133, 143). Da questo punto di
vista il motivo non è la causa necessitante dell’azione umana: la volontà dà la
sua preferenza a un motivo piuttosto che a un altro e il motivo più forte non è
tale indipendentemente dalla volontà, ma proprio in virtù di essa (La
contingence des lois de la nature, 1874, pag. 124). Il concetto bergsoniano di
L. non fa che riesprimere questa stessa tesi. Bergson afferma che il concetto
che egli difende della L. è situato tra la nozione di L. morale cioè della
«indipendenza della persona di fronte a tutto ciò che non è essa stessa » e la
nozione di libero arbitrio, secondo il quale ciò che è libero « dipende da sè
come un effetto dipende dalla causa che lo determina necessariamente ». Contro
questa ultima concezione Bergson obbietta che gli atti liberi sono impreve-
dibili e che perciò ad essi non può applicarsi la causalità, secondo la quale
cause uguali hanno effetti uguali. La L. rimane perciò indefinibile; e va
identificata con lo stesso processo della vita co- sciente, cioè con la durata
reale (Essais sur /es données immédiates de la conscience, 1899, pa- gina 131
sgg.). Ma in realtà il concetto di libero arbitrio faceva leva proprio sulla
imprevedibilità dei fatti umani (i cosidetti « futuri contingenti +) e sulla
autocausalità della volontà. La dottrina bergsoniana nega l’indifferenza della
volontà ai motivi solo per sostenere che la volontà crea o costituisce i motivi
e conferisce ad essi la forza determinante di cui dispongono. Ma in tal modo
l’autodeterminazione rimane la definizione della libertà; e come tale ri- 527
mane anche nel concetto (proposto da F. LOMBARDI, La libertà del volere e
l'individuo, 1941, p. 192) di un atto 0 movimento che «si riproduce o si pro-
duce di continuo» e che in questa autoproduzione trascina con sè « l’intero
mondo in cui opera ». Nè ha un senso diverso la dottrina di Sartre per la quale
la L. è la scelta che l’uomo fa del suo essere proprio e del mondo. « Ma
precisamente perchè si tratta di una scelta, Sartre dice, questa scelta, nella
misura in cui si effettua, designa in generale altre scelte come possibili. La
possibilità di queste altre scelte non è nè resa esplicità nè posta, ma è
vissuta nel senti- mento d’ingiustificabilità e si esprime nel fatto del-
l’assurdità della mia scelta e, per conseguenza, del mio essere. Così la mia L.
divora la mia libertà. Essendo libero, io progetto il mio possibile totale, ma
pongo con ciò che sono libero e che posso annientare questo primo progetto e
confinarlo nel passato » (L’érre et le néant, pag. 560). Ma una scelta che non
ha nulla da scegliere, cioè non è limitata da condizioni determinate, è una
scelta solo di nome; in realtà, è un’autocreazione gratuita. La dottrina di
Sartre non fa che portare all’estremo il vecchio concetto della L. come
autocausalità. A questo concetto fanno appello sia l’indetermi- nismo che il
determinismo. Ciò che il determinismo nega è ciò che l’indeterminismo afferma:
la possi- bilità di una causa sui. Si è visto come Kant stesso la ritenesse
impossibile nel dominio dei fenomeni e la rinviasse al dominio del noumeno:
così fa pure Schopenhauer che ritiene valide le ragioni addotte da Priestley
nella sua Dottrina della necessità filosofica (v. DETERMINISMO) e afferma che
la L. come autocausalità è soltanto della volontà come forza noumenica o
metafisica, della volontà come principio cosmico (Die Welt, I, $ 55). In generale
il determinismo consiste nel ritenere universale la portata del principio di
causalità nella sua forma empirica e pertanto nel negare la causalità auto-
noma. Claude Bernard in questo senso affermava l’inerzia dei corpi viventi,
come di quelli inorga- nici, cioè l’incapacità di tali corpi e darsi da sè il
movimento; e vedeva nel riconoscimento di tale inerzia la condizione per il
riconoscimento del determinismo assoluto (Intr. d /’étude de la méde- cine
expérimentale, 1865, II, 8). L’equivalente politico della concezione della L.
come auto-causalità è la nozione della L. come assenza di condizioni o di
regole, rifiuto d’ogni obbligazione e, in una parola, anarchia. Il più delle
volte, questo concetto viene utilizzato come strumento polemico per negare la
L. stessa. Così fece per primo Platone quando volle mostrare come dalla troppa
L. concessa dal regime democra- tico nascono la tirannide e la schiavitù.
Difatti il rifiuto costante di ogni limite e restrizione 528 « rende i
cittadini così ombrosi che non appena si propone qualcosa che sembri minacciare
la loro libertà, essi si dolgono e si ribellano e finiscono per ridersi delle
leggi scritte o non scritte, perchè non vogliono in alcun modo sottoporsi a un
padrone » (Rep., VIII, 563 d). La L. qui è intesa (non tuttavia da Platone, per
il quale vedi oltre) come assenza di misura, rifiuto di ogni norma.
L’illimitato potere su tutto, nel quale secondo Hobbes consiste la L. allo
stato di natura (De cive, I, $ 7) ha lo stesso significato. Filmer credeva infatti
di esprimere il significato della dottrina di Hobbes quando diceva: « La L.
consiste per ciascuno nel fare ciò che gli pare, nel vivere come gli piace,
senza esser vincolato da alcuna legge » (Observations upon Mr. Hobbes’s
Leviathan, 1652, pag. 55). Ma forse la migliore e più coerente espressione di
questa no- zione di L. è l'Unico di Max Stirner: l’individuo che non ha alcuna
causa fuori di sè, che è lui la sua stessa causa e la causa di tutto. In questa
forma estrema la tesi della L. anarchica viene difesa assai rara- mente: assai
spesso invece viene presupposta come termine polemico ed a essa vengono in
buona o mala fede ricondotte le altre concezioni della L. politica. 2° La
seconda concezione fondamentale della L. è quella che la identifica con la
necessità. Questa concezione è strettamente imparentata con la prima. Il
concetto di L. cui fa riferimento è ancora quello di causa sui; ma, come tale,
la L. viene attribuita non alla parte ma al tutto: non all’uomo singolo ma
all’ordine cosmico o divino, alla Sostanza, all’Assoluto, allo Stato. L'origine
di questa conce- zione è negli Stoici. Come già si è visto, gli Stoici
ritenevano che «la L. consiste nell’autodetermina- zione e che pertanto solo il
sapiente è libero» (Diog. L., VII, 121). Ma perchè il sapiente è libero? Perchè
egli solo segue una vita conforme alla natura: egli solo cioè si conforma
all’ordine del mondo, al destino (Diog. L., VII, 88; StoBeo, F/or., VI, 19;
CiceR., De Fato, 17). La L. del sapiente coincide pertanto con la necessità dell’ordine
cosmico. Crisippo tuttavia tentò di sfuggire a questa conse- guenza. Egli
distingueva le cause perfette e principali dalle cause ausiliarie e prossime.
Il destino opera soprattutto attraverso le prime; ma tra le ultime c'è
l’assenso che l’uomo dà alle cose e di conse- guenza la sua azione. Accade come
nel caso di un cilindro cui una piccola spinta basta per roto- lare su un piano
inclinato: la natura del cilindro e del piano fanno sì che esso continuerà a
rotolare una volta che sia stato spinto, ma affinchè ciò accada occorre la
spinta. Allo stesso modo, l’ordine delle cose fa sì che un'azione una volta
iniziata continui in un certo modo; ma ad iniziarla occorre l’assenso dell’uomo
e questo assenso rimane in potere di lui (Cicer., De Fato, 18-19). Tuttavia,
LIBERTÀ anche per Crisippo la L. non è che l’adeguarsi dell’assenso umano
all’ordine del mondo: le cause ausiliarie infatti non cadono fuori dell'ordine
ne- cessario del mondo più che non cadano fuori di esso le cause principali, e
la spinta che fa rotolare il cilindro appartiene a quell’ordine come la forma
del cilindro e il piano sul cui rotola. Da questo punto di vista, negare che
l’uomo come tale sia libero o affermare che esso è libero in quanto
manifestazione dell’autodeterminazione cosmica o divina, è la stessa cosa.
Tutto ciò appare chiarissimo nella formulazione spinoziana. Secondo Spinoza, «
si dice libera la cosa che esiste solo per la necessità della sua natura e che
da sè sola è determinata ad agire; mentre è necessaria o coatta la cosa che è
indotta ad esistere e ad agire da un’altra cosa, secondo una certa e
determinata ragione» (Er., I, def. 7). In questo senso Dio solo è libero perchè
egli solo agisce in base alle leggi della sua natura e senza essere costretto
da nessuno (/bid., I, 17, coroll. II); mentre l’uomo, come ogni altra cosa, è
determinato dalla necessità della natura divina e può credersi libero solo in
quanto ignora le cause delle sue volizioni e dei suoi desideri (/bid. I app.;
II, 48). Tuttavia l’uomo stesso può diventar libero se è guidato dalla ragione
(Ibid. IV, 66 scol.): se cioè agisce e pensa soltanto come parte della Sostanza
infinita e riconosce in sè la necessità universale di essa (/bid., V, VI,
scol.). In altri termini l’uomo di- venta libero mediante l’amore intellettuale
di Dio (che è per l’appunto la conoscenza della necessità di- vina): amore che
è identico con quello con cui Dio ama se stesso (/bid. V, 36 scol.). Nessuna
innovazione è apportata a questo punto di vista dalla elaborazione e
amplificazione che la filosofia romantica ne ha fatto. Schelling afferma
esplicitamente la coincidenza di libertà e necessità. « L’Assoluto, egli dice,
opera per mezzo di ogni singola intelligenza, cioè la sua azione è anche
assoluta in quanto non è nè libera nè priva di L. ma l’uno e l’altro insieme:
assolu- tamente libera, perciò anche necessaria + (System des transzendentalen
Idealismus, IV, E). Le Ri- cerche filosofiche sull'essenza della L. umana
(1809) dello stesso Schelling, trasferiscono in Dio, o meglio nella natura o
fondamento di Dio, l’atto con cui l’uomo sceglie quella natura o fondamento da
cui ogni sua inclinazione o azione sarà determinata. La tendenza ad attribuire
all’Assoluto la L. e a identificarla con la necessità si chiarisce così come la
caratteristica propria della concezione romantica. Hegel, a questo proposito,
contrappone «il con- cetto astratto della L.» cioè la L. come esigenza o
possibilità, alla « L. concreta » che è la «L. reale» o «la realtà stessa»
dello spirito o degli uomini (Enc., $ 482; Fil. del dir., $ 33, Zusatz). Questa
L. reale che è la realtà stessa dell’uomo è lo Stato, LIBERTÀ il quale appunto
perciò è considerato da Hegel come «Iddio reale » (Fil. del dir., $ 258,
Zusatz). Lo stato è «la realtà della L. concreta» (/bid., 8 260). Ciò significa
che esso «è la realtà in cui l’individuo ha e gode la sua L., in quanto però
l’individuo stesso è scienza, fede e volontà dell’uni- versale. Così lo stato è
il centro degli altri aspetti concreti della vita cioè del diritto, dell’arte
dei co- stumi, degli agi. Nello stato la L. è realizzata og- gettivamente e
positivamente ». Questo non signi- fica che la volontà soggettiva del singolo
si realizza mediante la volontà universale, che sarebbe quindi un mezzo per
essa; ma piuttosto che la volontà universale si realizza attraverso i cittadini
che sotto questo aspetto sono suoi strumenti. « Sono piut- tosto il diritto, la
morale, lo stato, e solo essi la positiva realtà e soddisfazione della libertà.
L’ar- bitrio del singolo non è libertà. La L. che viene limitata è l’arbitrio,
concernente il momento par- ticolare dei bisogni» (Philosophie der Geschichte,
ed. Lasson, I, pag. 90). Questa coincidenza di L. e necessità che conduce ad
attribuire la L. stessa sol- tanto all’Assoluto o alla sua realizzazione nel
mondo, che è lo Stato, da un lato è rimasta a caratterizzare tutte le dottrine
di derivazione romantica, dall’altro è stata utilizzata, fuori dell'ambito di
tali dottrine, per la difesa dell’assolutismo statale e per il rifiuto del
liberalismo politico. Gentile e Croce condivisero quella dottrina: il primo
identificando la L. con la necessità dialettica dell’Assoluto (Teoria generale
dello spirito, XII, $ 20) il secondo identificando la L. con «la creatività
delle forze che si chiamano individuali e coincidono con l’unità dell’
Universale » (Storiografia e idealità morale, pag. 58). Ma la con- divise pure
Martinetti affermando che la L. non è che la spontaneità della ragione e che la
spontaneità della ragione non è che la necessità stessa sicchè in ogni caso si
identificano L. e spontaneità, spon- taneità e concatenazione necessaria (La
libertà, 1928, pag. 349). In forma diversa, la dottrina ritorna in alcune
manifestazioni della filosofia contempo- ranea, per es., nel realismo di
Nicolai Hartmann e nel- l’esistenzialismo di Jaspers. Secondo Hartmann, la L.
consiste nel fatto che, per ogni piano dell’essere, al determinismo dei piani
inferiori si aggiunge il determinismo proprio del piano stesso. I piani, in
altri termini, sono contingenti l’uno rispetto all’altro in quanto ognuno ha
una forma specifica di determi- nismo non riducibile a quella dei piani
inferiori; la L. non è che il superdeterminismo di un piano dell’essere
rispetto agli altri. Dice Hartmann: « La L. in senso po- sitivo non è un minus
ma un plus nella determina- zione. Il nesso causale non permette un minus
perchè la sua legge afferma che una serie di effetti, una volta in corso, non
può essere arrestata in alcun modo. Ma ammette invece un plus — se questo c'è —
34 529 perchè la sua legge non afferma che agli elementi di determinazione
causale di un processo non pos- sano aggiungersi altri elementi di
determinazione » (Erhik, pag. 649). Sul piano dello spirito, questo plus di
determinazione è costituito dalla teleologia propria dell’uomo, che impone ai
processi causali fini desunti dalla sfera dei valori. Ma è ovvio che in questo
senso la L. non è altro che l’aggiunta di un determinismo « superiore » ai
determinismi inferiori: è cioè l’autodeterminazione dei piani, che si aggiunge
alla determinazione esterna. Nello stesso senso, Jaspers afferma l’unità di L.
e necessità, espressa nella formula « io posso perchè devo + (nel senso della
necessità di fatto, /ch muss: Phil., II, pag. 186, 195). In questo caso la L.,
l’autodeterminazione, appar- tiene alla situazione esistenziale totale, di cui
l’io è l’espressione. Siamo sempre nell’ambito della conce- zione che
identifica la L. con l’autocausalità di una totalità metafisica (o politica o
sociale, ecc.) cioè con la necessità con cui tale totalità si realizza. Questa
dottrina è stata talora difesa da filosofi o scrittori di spiriti liberali, ma
è in realtà l’insegna stessa dell’antiliberalismo moderno. Difatti, sul piano
me- tafisico, essa riconosce come soggetto di L. soltanto l’essere, la sostanza,
il mondo e sul piano politico soltanto lo stato, la chiesa, la razza, il
partito, ecc.; e attribuisce alla totalità così privilegiata un po- tere di
autocausalità o autocreazione che è un altret- tanto assoluto potere di
coercizione sugli individui, che ne sono considerati le manifestazioni o le
parti. 3° Mentre le prime due concezioni della L. hanno un nucleo concettuale
comune, la terza non fa appello a questo nucleo perchè intende la L. come
misura di possibilità, quindi scelta motivata o condizionata. In questo senso
la L. non è auto- determinazione assoluta e non è quindi un tutto od un nulla,
ma piuttosto un problema sempre aperto: il problema di determinare la misura,
la condizione o la modalità della scelta che può garan- tirla. Libero, in questo
senso, non è chi è causa sui o si identifica con una totalità che è causa sui;
ma chi possiede, in un grado o misura determinata, possibilità determinate.
Platone per primo ha enun- ciato il concetto che la L. consista in una « giusta
misura» (Leggi, 693€); ed ha illustrato questo concetto nel mito di Er. In
questo mito si dice che le anime, prima di incarnarsi, sono condotte a
scegliere il modello di vita cui poi rimarranno legate. « Per la virtù,
annuncia la parca Làchesi, non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a
se- conda che la onorerà o la trascurerà. Ciascuno è l’autore della sua scelta,
la divinità è fuori causa? (Rep., X, 617e). Ma l’importante è che questa
scelta, di cui ciascuno è l’autore, e la cui causa- lità per ciò non può essere
addossata alla divinità, è limitata in un senso dalle possibilità oggettive,
530 cioè dai modelli di vita disponibili, ein un altro senso dalla motivazione
giacchè, come dice Platone, «la maggior parte delle anime sceglie secondo la
consue- tudine della vita precedente» (/bid., 620a). La situazione mitica qui
illustrata è esattamente quella di una L. finita cioè di una scelta tra
possibilità determinate e condizionata da motivi determinanti. Una tale L. è
delimitata: 1° dal rango delle possi- bilità oggettive che sono sempre più o
meno ristrette di numero; 2° dal rango dei motivi della scelta che possono
ancora restringere, fino all’unità, il rango delle possibilità oggettive.
Pertanto questo concetto di L. è una forma di determinismo, sebbene non di
necessitarismo: ammette la determinazione del- l’uomo da parte delle condizioni
cui la sua attività risponde, senza ammettere che a partire da tali condizioni
la scelta sia infallibilmente prevedibile. Questo concetto di L. è andato
interamente smarrito nell’antichità e nel Medio Evo per la prevalenza del
concetto di L. come causa sui. Quando si è riaffacciato, ai principi dell’età
moderna, ha assunto, in polemica con la nozione di libero arbitrio, la forma
della negazione della L. di volere e dell’affermazione della L. di fare. In
questa forma si trova espressa da Hobbes. Questi, identificando la volontà con
l’appetito, afferma che non si può non volere ciò che si vuole (non si può non
aver fame quando si ha fame, non aver sete quando si ha sete, ecc.); ma si può
fare o non fare ciò che si vuole (mangiare o non mangiare quando si ha fame,
ecc.). Esiste quindi una L. di fare, non una L. di volere (De Homine, 11, $ 2;
De Corp., 25, $ 13). Questa dottrina veniva sostanzialmente accolta da Locke,
che definiva la L. come « il fatto per cui si è in grado di agire o non agire
secondo che si scelga o si voglia» (Saggio, II, 21, 27). Ma in Locke la
dottrina stessa si complica e diventa confusa, perchè da un lato egli distingue
l’appetito dalla volontà che ritiene costituita da un potere di scelta o di
preferenza o di inibizione (cioè di sospensione del desiderio, /bid., II, 21,
48); dall’altro ammette che tale scelta o preferenza o inibizione sia
necessaria- mente determinata dal motivo (che egli identifica in un primo tempo
con il desiderio del bene, in un secondo tempo con il disagio proprio del
desiderio, Ibid., II, 21, 31). Non si vede pertanto come, da questo punto di
vista, possa parlarsi di L. di fare o di non fare, dato che la scelta stessa o
la preferenza accordata all’uno o all’altra di queste alternative è
necessariamente determinata. Comunque, l’inten- zione della dottrina di Locke è
chiara: essa tende da un lato a garantire il determinismo dei motivi, negando
il libero arbitrio come autocausalità della volontà; dall’altro a garantire la
L. dell'uomo contro il determinismo rigoroso. Molto meglio Locke è riuscito a
esprimere questo stesso concetto sul ter- LIBERTÀ reno politico, negando,
contro Filmer, che la L. consiste per ciascuno nel fare ciò che gli pare, e
affermando: «La L. naturale dell'uomo consiste nell’essere libero da ogni
potere superiore sulla terra e nel non sottostare alla volontà o all'autorità
legislativa di alcuno e nel non avere per propria norma che la legge di natura.
La L. dell’uomo in società consiste nel non sottostare ad altro potere
legislativo che a quello stabilito per consenso nello stato nè al dominio di
altra volontà o alla limitazione di altra legge che quella che questo potere
legislativo stabilirà conformemente alla fiducia riposta in lui » (Two
Treatises of Government, II, 4, 22). Nello stato di natura la L. consiste nella
possibilità di scelta limitata dalla norma di natura, che è una norma reciproca
che prescrive di riconoscere agli altri quelle stesse possibilità che si
riconoscono a sè (Ibid., II, 2, 4). Nella società, la L. consiste nella
possibilità di scelte delimitate da una legge stabilita da un potere a ciò
destinato dal consenso dei citta- dini. In altri termini la L. politica suppone
due condizioni: 1° L'esistenza di norme che circoscrivino le possibilità di
scelta dei cittadini; 2° La possibilità dei cittadini stessi di controllare, in
una certa misura, lo stabilimento di queste norme. Da questo punto di vista il
problema della L. politica è un problema di misura: la misura nella quale i
cittadini devono partecipare al controllo delle leggi e la misura nella quale
tali leggi debbono restringere le loro possibilità di scelta. Questo è sempre
stato il problema del liberalismo classico e cioè di ogni liberalismo
autentico, antico e moderno. Montes- quieu riproponeva la dottrina della L.
politica di Locke nell’Esprit des lois (1748, XI, 3-4). Hume e l’Illuminismo
riprendevano la dottrina della L. filosofica. Il primo affermava: « Per L. non
possiamo significare che un potere di agire o di non agire secondo la
determinazione della volontà; cioè che se deliberiamo star fermi, possiamo
farlo e se deliberiamo muoverci, lo possiamo egualmente + (Ing. Conc. Underst.,
VIII, 1); e nello stesso tempo metteva in luce il determinismo dei motivi, senza
il quale le leggi e le sanzioni sarebbero inoperanti. L’illuminismo, per bocca
di Voltaire, riprendeva la stessa dottrina: la L. di indifferenza è « una
parola priva di senso » giacchè essa significherebbe che c’è nell'uomo «un
effetto senza causa ». Si è liberi di fare quando si ha il potere di fare
(Dictionnaire philosophique, art. Liberté). Kant stesso si avvaleva del
concetto di L. finita per definire la L. giuridica o politica: essa è «la
facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne tranne che a quelle cui io ho
potuto dare il mio assenso » (Zum ewigen Frieden, II, art. 1, n. 1). La
concezione di un determinismo non necessitaristico è rimasta tradizionale
nell’orien- tamento empiristico. Stuart Mill mostrava come il LIBERTINISMO
fatalismo scaturisce da un concetto della necessità che non si riduce a quello
della determinazione. Questa significa soltanto « uniformità di ordine e ca-
pacità di predizione +. Ma i sostenitori della neces- sità « sentono come se ci
fosse un più forte legame tra le volizioni e le loro cause: come se, quando di-
cono che la volontà è governata dall’equilibrio dei motivi, si dicesse qualcosa
in più dell’affermazione che si può, conoscendo i motivi e la nostra abituale
suscettibilità ad essi, predire il modo in cui agiremo » (Logic, VI, 2, $ 2).
Dewey traduce questa stessa dottrina nei termini del pragmatismo cioè di un
empirismo orientato verso il futuro. «Si assume talora, egli dice, che se si
può mostrare che la deli- berazione determina la scelta ed è determinata dal carattere
e dalle condizioni, non c’è libertà. Questo è come dire che un fiore non può
portare frutti perchè viene dalla radice e dallo stelo. La questione non
concerne gli antecedenti della deliberazione della scelta ma le loro
conseguenze. Che cosa hanno esse di proprio? Questo, che ci dànno il controllo
delle possibilità future che si aprono a noi. Questo con- trollo è il nucleo
della nostra libertà. Senza di esso, noi siamo spinti dal didietro, con esso
camminiamo nella luce » (Human Nature and Conduct, 1922, pag. 311). La L. di
cui Heidegger parla come «trascen- denza + e « progettazione » dell’uomo nel
mondo è anch'essa una L. finita perchè condizionata e li- mitata dal mondo
stesso in cui si progetta (Vom Wesen des Grundes, 1949, III; trad. ital., pag.
64 sgg.). Questa dottrina della L. si è rafforzata ed è diventata più chiara e
coerente dacchè la scienza stessa, a partire dal quarto decennio del nostro
secolo, ha abbandonato l’ideale della causalità necessaria e della previsione
infallibile. La preva- lenza del concetto di condizione su quello di causa,
della spiegazione probabilistica sulla spiegazione necessitaristica, che si è
delineata, come effetto del principio di indeterminazione, nella fisica atomica
(v. CAUSALITÀ; CONDIZIONE), ha reso ovviamente anacronistico la conservazione
dello schema neces- sitaristico per la spiegazione degli eventi umani. Nello
stesso tempo, l’opposizione tra scienza e coscienza, tra l’esigenza della
causalità propria della prima e la testimonianza di L. propria della seconda, è
venuto a perdere il suo significato. Da un lato si è visto che la coscienza non
testimonia una L. assoluta nè può far valere assolutamente una sua qualsiasi
testimonianza in proposito; dall’altro lato, si è visto che la scienza non
esige la causalità neces- saria, che autorizzerebbe la previsione infallibile
degli eventi, ma un determinismo condizionante che autorizza la previsione
probabile degli eventi stessi. La conclusione è che il concetto della L. come
autocausazione (quale ancora compare in Bergson e Sartre) è così poco
sostenibile come il 531 concetto del determinismo come necessità. Corri-
spondentemente, sul piano politico, il concetto della L. come potere di fare
ciò che piace e quello della L. come potere assoluto della totalità cui l’uomo appartiene
(stato, chiesa, razza, partito, ecc.) sono egualmente mistificatori. La L. è
oggi, come ai tempi in cui ne veniva per la prima volta formulata la nozione
nel mondo moderno, una questione di misura, di condizioni e di limiti; e ciò in
qualunque campo, da quello metafisico e psicologico a quello economico e
politico. Si insiste oggi sul fatto che la L. umana è « una libertà situata,
una L. inquadrata nel reale, una L. sotto condizione, una L. relativa »
(GURVITCH, Déterminismes sociaux et liberté humaine, 1955, pag. 81). Si esprime
talora questo concetto dicendo che la L. non è una scelta ma piuttosto una «
possibilità di scelta»: cioè una scelta tale che una volia effettuata può
essere ancora e sempre ripetuta nei confronti di una situazione determinata
(ABBAGNANO, Possibilità e Libertà, 1956, passim). In questa forma, la L. può
essere riconosciuta pro- pria di tutte le attività umane ordinate ed efficaci,
anche e principalmente dei procedimenti scientifici, le cui tecniche di
controllo consistono per l’appunto in possibilità di scelte nel senso suddetto.
Un pro- cedimento valido è un procedimento che può essere da chiunque
efficacemente adoperato nelle circo- stanze adatte: è una « possibilità di
scelta » che si ripresenta a chiunque si trovi nelle condizioni opportune.
Analogamente, le L. politiche sono pos- sibilità di scelta che assicurano ai
cittadini la possi- bilità di scegliere ancora. Un tipo di governo è libero non
già semplicemente se è scelto dai cittadini ma se consente ai cittadini in certi
limiti una continua possibilità di scelta, nel senso della possibilità di
mantenerlo o modificarlo o eliminarlo. Le cosid- dette «istituzioni strategiche
della L.+, come le L. di pensiero, di coscienza, di stampa, di riunione, ecc.,
sono per l’appunto dirette a salvaguardare ai citta- dini la possibilità di
scelta nel dominio scientifico, religioso, politico, sociale, ecc. Pertanto i
problemi della L. nel mondo moderno non possono essere risolti da formule
semplici e totalitarie (quali sarebbero quelle suggerite da un concetto di L.
anarchico o necessitaristico), ma dallo studio dei limiti e delle condizioni
che, in un campo e in una situazione determinata, possono rendere effettiva ed
efficace la possibilità di scelta dell’uomo. LIBERTARISMO (ingl. Libertarianism).
Lo stesso che anarchismo. Libertario (ingl. Libertarian; franc. Libertaire): lo
stesso che anarchico. (v. ANAR- CHISMO. LIBERTINISMO (franc. Libertinisme). La
corrente antireligiosa che si diffuse soprattutto negli ambienti eruditi di
Francia e d’Italia nella prima metà del sec. xvii e che costituisce la
reazione, in 532 gran parte sotterranea, che accompagna in quel periodo il
predominio politico del cattolicesimo. Tale corrente non ha idee filosofiche
ben determinate. Ad essa infatti appartennero: cattolici sinceramente attaccati
alla chiesa, che tuttavia ritenevano impos- sibile accettarne integralmente
l’impalcatura dottri- nale come Gassendi, Gaffarel, Boulliau, Launoy, Marolles,
Monconys; protestanti emancipati da ogni preoccupazione religiosa come Diodati,
Prio- leau, Sorbière e Lapeyrère; e scettici dichiarati, che si rifanno alle
dottrine del paganesimo classico o almeno alla forma che esse avevano assunto
nell’umanesimo rinascimentale, come Guyet, Luil- lier, Bouchard, Naudé,
Quillet, Trouiller, Bourdelot, Le Vayer. Non si può pertanto parlare, a
proposito del L., di un corpo di dottrine coerente, ma piuttosto di un certo
numero di temi comuni, che possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° La
negazione della validità delle prove dell’e- sistenza di Dio e della
possibilità di intendere e difendere i dogmi fondamentali del cristianesimo. 2°
La negazione della morale ecclesiastica e in genere della morale tradizionale e
l’accettazione del piacere come guida o ideale per la condotta della vita. Il
significato che la parola libertino ha nell’uso corrente deriva appunto da
questo aspetto. 3° L'accettazione della dottrina dell’ordine ne- cessario del
mondo, quale era stata elaborata e difesa dagli aristotelici del Rinascimento;
e per conseguenza: a) la negazione della libertà umana; b) la negazione
dell'immortalità dell'anima; c) la negazione della possibilità del miracolo,
interpretato come frutto dell’immaginazione o come fatto naturale insolito.
Questi punti di dottrina collegano il L. con l’aristotelismo del Rinascimento.
4° La tesi che la religione è, in generale, un prodotto dell’impostura delle
classi sacerdotali. S° L'accettazione del principio della « ragion di stato »
cioè del machiavellismo politico. 6° Lo smantellamento di credenze e pratiche
religiose, l’irrisione di esse e talvolta la loro tradu- zione in imagini
oscene. 7° Il fideismo, cioè la dichiarata accettazione, sincera o meno, delle
credenze tradizionali, in con- trasto con le conclusioni della ragione, secondo
quel principio della « doppia verità» che era stato an- ch’esso proprio
dell’aristotelismo rinascimentale (e dell’averroismo medievale). 8° Il
carattere aristocratico attribuito al sapere e in particolare alla riflessione
filosofica e i limiti imposti alla loro diffusione e al loro uso per evitare
che entrino in urto con gli interessi dello Stato e delle istituzioni con esso
collegate. Quest’ultimo punto soprattutto stabilisce la dif- ferenza radicale
tra L. e Illuminismo (v.): il quale consiste propriamente nel togliere ogni
freno alla LIBERTISMO critica razionale, nel portarla in ogni campo (quindi
anche nel campo politico, oltre che in quello reli- gioso) nella volontà di far
parte dei risultati di essa a tutti gli uomini e di utilizzarli per il
migliora- mento dei loro modi di vivere. Tuttavia non c’è dubbio che il L. è un
anello importante di congiun- gimento tra lo spirito dell’Umanesimo e lo
spirito dell’Illuminismo. Il suo storico migliore, R. Pintard, così riassume il
suo giudizio su di esso: « Se si crede, come tutto conduce ad ammettere, che lo
slancio dello spirito filosofico della fine del xvIr secolo è in gran parte un
seguito del Rinascimento del xvi secolo, — bisogna anche concludere che il L.
trionfante dei Fontenelle e dei Bayle non sarebbe esistito senza il L.
militante dei Le Vayer, dei Gas- sendi e dei Naudé che fu anche un L. dolorante
— esitante, combattuto, imbarazzato da scrupoli e da timori e che arrivò ad
esprimersi solo rinnegandosi » (Le Libertinage érudit dans la première moitié
du XVII siècle, 1943, I, pag. 576). LIBERTISMO (franc. Libertisme). Questo
termine è stato adoperato da Bergson (in Revue de Métaph. et de Morale, 1900,
pag. 661) in luogo di quello più comune «Filosofia della libertà » per indicare
lo spiritualismo francese del sec. xix nel quale si inserisce la stessa
dottrina di Bergson. LIBIDO. Termine con il quale è stata designata da Freud e
dagli psicanalisti la tendenza sessuale nella forma più generale e
indeterminata. Dice Freud: « Analoga alla fame in generale, la L. designa la
forza con la quale si manifesta l’istinto ses- suale, come la fame designa la
forza con la quale si manifesta l'istinto d’assorbimento del nutri- mento ?
(Einfithrung in die Psychoanalyse, cap. 21; trad. franc. pag. 336). In questo
senso le prime ma- nifestazioni della L. si connettono ad altre funzioni
vitali: nel lattante, ad es., l’atto di succhiare pro- cura un piacere che
rimane separato da quello dell’assorbimento del cibo e viene ricercato per suo
conto. Freud pertanto designa la zona bucco- labiale come «zona erogena » e
considera il pia- cere procurato dall’atto di succhiare come un pia- cere
sessuale. La L. in questo senso può non aver niente a che fare con ciò che è in
rapporto alla sfera genitale. Freud pensa poi che non si guadagna niente a
chiamare la L. col nome di istinto, come ha fatto Jung (/bid., pag. 442 sgg.;
cfr. C. G. Jung, Wandlungen und Symbole der Libido, 1925). LICEO (gr. Avxewov).
Così fu chiamata, dal territorio in cui era situata, sacro ad Apollo Liceo, la
scuola di Aristotele o Peripato. Dopo la morte di Aristotele la scuola fu retta
da Teofrasto di Eresso, sino alla morte di costui (288 od 86 a. C.), che la
indirizzò soprattutto all’organizzazione del lavoro scientifico e alle ricerche
particolari. A Teo- frasto successe Stratone di Lampsaco che la tenne LINGUA
per 18 anni e dopo il quale la scuola continuò il suo lavoro attraverso
numerosi altri rappresentanti dei quali ci restano scarse notizie e frammenti.
Nel primo secolo avanti Cristo Andronico di Rodi pubblica le opere esoteriche
di Aristotele e dà inizio a una nuova forma di attività filosofica: il com-
mento agli scritti del maestro. In questa attività emerse specialmente
Alessandro di Afrodisia vissuto intorno al 200 d. C. (cfr. WEHRLI, Die Schule
des Aristoteles, Texte und Kommentar, Basilea, 1944 sgg.). LIMITAZIONE (lat.
Limitatio; ingl. Limitation; franc. Limitation; ted. Limitation, Begrenzung).
Nella logica del *600 cominciò a chiamarsi con questo nome ciò che nella logica
medievale era chiamato restri- zione (restrictio, cfr. Pietro Ispano, Summul.
Logic., 11.01) cioè la riduzione di un enunciato a un signi- ficato più
ristretto. Dice, ad es., Jungius: «Si dice che un enunciato viene limitato
quando si sostituisce ad esso un altro enunciato il quale dichiari che il
predicato conviene al soggetto non immediatamente ma mediante una sua parte o
accidente. Ad es., ‘l’Etiope è bianco” viene limitato da ‘l’Etiope è bianco nei
denti *» (Logica Hamburgensis, 1638, II, 8, 8). Nello stesso senso si esprime
Wolff che tuttavia distingue la proposizione restrittiva da quella limitata in
quanto la L. si assume ab intrin- seco cioè dalla parte stessa del soggetto
come nel caso dell’enunciato sull’Etiope, mentre la restri- zione si assume ab
extrinseco come nell’enunciato «L'aria è leggera rispetto ai fluidi » (Logica,
$ 1106). Kant ha chiamato L. la terza categoria della qualità, che è «la realtà
unita con la negazione» (Crif. R. Pura, $ 11), e che corrisponde al giudizio
infinito cioè alla proposizione che afferma un predicato negativo (/bid., $ 9)
(v. INFINITO, GIUDIZIO). In tutti questi casi la L. era considerata come una
restrizione applicata al soggetto della proposizione. W. Hamilton considerò
invece la restrizione appli- cabile al predicato e chiamò L. la restrizione solo
in espressioni come « La virtù è la sola nobiltà + (Lectures on Logic, 2*
ediz., pag. 262). LIMITE (gr. népas;
lat. Limes; ingl. Limit; franc. Limite; ted. Grenze). Aristotele ha perfetta- mente distinti ed
enumerati i diversi significati del termine (Met., V, 17, 1022a 4 sgg.), che
sono i seguenti: 1° L’ultimo punto di una cosa cioè il primo punto al di là del
quale non c’è alcuna parte della cosa e al di qua del quale c’è ogni parte di
essa. Oggi questo concetto si esprime dicendo che il L. è un punto che non può
essere raggiunto; o che è una grandezza tale che la differenza tra essa e gli
ele- menti della serie infinita cui appartiene sia e ri- manga inferiore a ogni
grandezza assegnabile (cfr. Perrce, Coll. Pap., 4.117; JORGENSEN, A Treatise of
Formal Logic, III, pag. 87 sgg.). SEGNICA 533 2° La forma di una grandezza o di
una cosa che ha grandezza. 3° Il termine: sia il terminus ad quem o punto di
arrivo sia, talvolta, il terminus a quo o punto di partenza. 4° La sostanza o
l’essenza sostanziale di una cosa; giacchè questo è il L. di conoscenza della
cosa e perciò anche della cosa stessa. In questo senso L. significa condizione.
Per Aristotele la condizione della conoscenza e dell’essere stesso della cosa è
la sostanza o essenza necessaria (v. ESSENZA; SOSTANZA). Al primo significato
del termine si connette l’uso che Kant fece della parola. « Un L., egli
scrisse, negli esseri estesi, presuppone sempre uno spazio che è al di là di
una certa superficie deter- minata e la include in sè; il confine invece non ha
bisogno di questo ma è una pura negazione che qualifica una grandezza, in
quanto non è una tota- lità assoluta e perfetta. Ora la nostra ragione vede, in
qualche modo, intorno a sè, uno spazio per la conoscenza delle cose in sè,
sebbene non possa mai averne concetti determinati e sia puramente limitata ai
fenomeni» (Prol., $ 57). In questo senso Kant, chiamò concetto-limite il
concetto di noumeno in quanto serve «a circoscrivere le pretese della sensi-
bilità e perciò di uso puramente negativo + (Crif. R. Pura; Anal. dei Princ.,
cap. 3; cfr. Cosa in SÈ). Ciò che ha L. in questo senso è il finito nel
significato 4 del termine. LINGUA (lat. Lingua; ingl. Language, Tongue; franc.
Langue; ted. Sprache). Un insieme organiz- zato di segni linguistici. La distinzione
tra L. e linguaggio è stata fatta prevalere da Saussure che ha definito la L.
come « insieme delle abitudini lingui- stiche che permettono ad un soggetto di
compren- dere e di farsi comprendere » (Cours de languistique générale, 1916,
pag. 114). La L. in questo senso da un lato è un sistema o struttura (v.)
dall’altro suppone una « massa parlante » che la costituisce come una realtà
sociale. Si possono distinguere due specie di L.: 1° le L. storiche che sono
quelle la cui massa parlante è una comunità storica: per esempio l'italiano,
l’inglese, il francese, ecc.; 2° le L. artificiali che sono quelle la cui massa
parlante è un gruppo distinto da una competenza specifica; e tali sono le L.
delle tecniche particolari (che talvolta, meno propriamente, sono dette
linguaggi), r es., la L. matematica, la L. giuridica, ecc. LINGUA SEGNICA
(ingl. Sign Language). Con questo termine s’intende il linguaggio costituito da
gesti il quale, secondo le cosidette teorie psicolo- giche del linguaggio,
costituisce la prima fase di ogni linguaggio. Wundt ha distinto a questo pro-
posito due specie di gesti, l’indicativo e l’imitativo. Il gesto indicativo
sarebbe derivato biologicamente 534 dal movimento di afferrare (Die Sprache,
Volkspsy- chologie, I, 2* ediz., pag. 129). Sono state anche studiate
particolari L. segniche, come quelle dei napoletani di bassa classe, dei monaci
trappisti (che hanno il voto del silenzio), degli indiani d’America e di alcuni
gruppi di sordomuti. LINGUAGGIO (gr. 26y06; lat. Sermo; inglese Language,
Speech; franc. Langage; ted. Sprache). In generale, l’uso dei segni
intersoggettivi. Per intersoggettivi si intendono i segni che rendono possibile
la comunicazione. Per uso si intende: 1° la possibilità di scelta (istituzione,
mutazione, correzione) dei segni; 2° la possibilità di combi- nazione di tali
segni in modi limitati e ripetibili. Questo secondo aspetto si riferisce alle
strutture sintattiche del L., mentre il primo si riferisce al dizionario del L.
stesso. La scienza moderna del L. ha (come si vedrà) sempre più insistito
sull’im- portanza delle strutture linguistiche cioè delle possibilità di
combinazioni che il L. delimita. Elementi come « Socrate » « uomo 1 «è» «er
«tutti » «non», ecc., sono egualmente parole cioè segni in- tersoggettivi, ma possono
entrare in un discorso solo con una funzione determinata: cioè possono
combinarsi con gli altri segni solo in modi che sono limitati e riconoscibili.
Il L. si distingue dalla lingua che è un particolare insieme organizzato di
segni intersoggettivi. La di- stinzione fra L. e lingua è stata fatta prevalere
nella scienza del L. da Ferdinando de Saussure, che l’espri- meva nel modo
seguente: « La lingua è un prodotto sociale della facoltà del L. e nello stesso
tempo un insieme di convenzioni necessarie adottate dal corpo sociale per
permettere l’esercizio di questa facoltà presso gli individui. Preso nel suo
insieme, il L. è multiforme ed eteroclito; a cavallo di domini diversi — quello
fisico, quello fisiologico e quello psichico — esso appartiene anche al dominio
indi- viduale e al dominio sociale; non si lascia classifi- care in alcuna
categoria di fatti umani perchè non si sa come determinare l’unità » (Cours de
/an- guistique générale, 1916, pag. 15). Dal punto di vista generale o
filosofico il problema del L. è il problema della intersoggettività dei segni
cioè del fondamento di questa intersoggettività. Non è che una forma di questo
problema quello della « ori- fine » del L. dibattuto nel sec. xv e nel sec.
xIx: le due soluzioni tipiche di esso non sono infatti che due modi di
garantire l’intersoggettività dei segni linguistici. Che il L. si origini dalla
convenzione significa semplicemente che quella intersoggettività è frutto di
una stipulazione, di un contratto fra gli uomini; e che il L. si origini dalla
natura significa semplicemente che quella intersoggettività è garantita dal
rapporto del segno linguistico con la cosa, o con lo stato soggettivo, cui esso
si riferisce. Si pos- LINGUAGGIO sono distinguere quattro soluzioni
fondamentali del problema della intersoggettività del L. e pertanto quattro
interpretazioni del L.: 1° L. come conven- zione; 2° il L. come natura; 3° il
L. come scelta; 4° il L. come caso. Le prime tre di queste interpreta- zioni
erano state già distinte e contrassegnate da Platone. Le prime due hanno in
comune l’affermazione del carattere necessario del rapporto tra il segno
linguistico e il suo oggetto (quale che sia). La tesi convenzionalistica,
infatti, affermando la perfetta arbitrarietà di tutti gli usi linguistici e
pertanto l’impossibilità di confrontarli e correggerli, riconosce a tutti la
stessa validità. La tesi del carattere naturale del L. è condotta, dall’altro
lato, ad ammettere le medesime conclusioni. Poichè tutti i segni linguistici
sono tali per natura e ognuno è suscitato o prodotto dall’oggetto che esprime,
tutti sono ugualmente va- lidi ed è impossibile confrontarli, modificarli o
cor- reggerli. Entrambe le tesi portano alla conseguenza che è impossibile dire
ciò che non è perchè dire ciò che non è significa non dire. Megarici e Cinici
che nella filosofia greca dei tempi di Platone rap- presentavano le due tesi in
questione, avevano in comune questo teorema fondamentale, ch’essi de- rivavano
(come Aristotele testimonia) dal principio che « niente si può predicare di una
cosa salvo il suo stesso nome», principio che non esprime altro che la
necessità del rapporto tra il segno linguistico e il suo oggetto (Met., V, 29,
1024 b 33; per i Megarici ed in particolare Stilpone cfr. PLUTARCO, Ad Colot.,
23, 1120 a). Sarà facile mostrare che queste tesi caratteristiche delle due
dottrine necessaristiche del L. si ritrovano ugual- mente nelle forme che tali
dottrine hanno assunto nel mondo moderno. 1° L’interpretazione del L. come
convenzione ha avuto origine con gli Eleati. L’inesprimibilità del- l’Fssere
(come necessario e unico) doveva condurli a vedere nelle parole nient'altro che
«le etichette delle cose illusorie » come dice Parmenide (Fr. 19, Diels).
Questa concezione sembra condivisa da Empedocle (Fr. 8-9, Diels); ma solo Demo-
crito la giustifica con argomenti empirici. De- mocrito infatti fonda la tesi
della convenziona- lità su quattro argomenti: l’omonimia, per la quale cose
diverse sono designate dal medesimo nome; la diversità dei nomi per una
medesima cosa; la possibilità di mutare i nomi; e la mancanza di analogie nella
derivazione dei nomi (Fr. 26, Diels). I Sofisti insistevano con Gorgia sulla
diversità tra i nomi e le cose e sulla conseguente impossibilità che attraverso
i nomi si comunicasse la conoscenza delle cose. «Il L., diceva Gorgia, non
manifesta le cose esistenti proprio come una cosa esistente non manifesta la
propria natura ad un’altra di esse + LINGUAGGIO (Fr. 3, 153, Diels). Si è già
detto come Stilpone affermasse il teorema della impredicabilità di una cosa
dell’altra: teorema che esprime la necessità del riferimento del segno
linguistico all’oggetto. Ai Megarici faceva riferimento Platone: «O forse
preferisci quel modo che dice Ermogene con molti altri: cioè che i nomi sono
convenzioni e son chiari per quelli che li hanno stipulati e conoscono le cose
cui corrispondono e che questa è la giustezza dei nomi, sicchè non importa se
si convenga secondo quanto si è già stabilito oppure sul contrario e, per es.,
di chiamar grande quel che oggi chiamiamo pic- colo 0 piccolo quel che oggi
chiamiamo grande? + (Crat., 433 e). Questo convenzionalismo schietto, che
afferma la pura arbitrarietà del riferimento linguistico, viene perduto da
Aristotele in poi e non si presenta di nuovo che nel pensiero contemporaneo.
Aristotele per la prima volta inserisce tra il nome e il suo designato
l’affezione dell’anima cioè la rappresenta- zione o concetto mentale (o l’idea
o la parola interiore o com'altro si chiamerà in seguito) che scinde ed
articola il rapporto tra il nome e il suo designato. L'inserimento di questo
termine con- sente di riconoscere nello stesso tempo la conven- zionalità del
L. e la necessità dei suoi signi- ficati. Aristotele infatti afferma che « il
nome è una voce semantica secondo convenzione + intendendo 4 per convenzione +
che « nessuno dei nomi è tale per natura ma solo quando è diventato un simbolo»
(De Interpr., 2, 16 a 18; 26-28). Le parole, come suoni vocali o segni scritti,
non sono le stesse per tutti. Esse tuttavia si riferiscono alle « affezioni
dell’anima che sono le stesse per tutti e costituiscono imagini di oggetti che
sono gli stessi per tutti » (/bid., I, 16 a 3-8). Si ha perciò: 1° gli oggetti
sono gli stessi per tutti; 2° le affezioni dell'anima, come imagini degli
oggetti, sono le stesse per tutti; 3° le parole scritte o parlate non sono le
stesse per tutti. Sicchè il rapporto parola-imagine mentale è convenzionale
mentre il rapporto imagine mentale-cosa è naturale. Il primo può cambiare senza
che muti il secondo; e l'immutabilità o necessità del secondo determina, essa
sola, la struttura generale del L. che dipende, non dalla convenzionalità dei
segni ma dalla « unione e separazione» dei segni stessi cioè dal modo in cui
essi sono uniti e separati tra loro. Ciò stabilisce, secondo Aristotele, il
carattere privilegiato del L. apofantico: che è quello in cui hanno luogo le
determinazioni di vero e falso a seconda che l'unione o la separazione dei
segni riproduce 0 meno l’unione o la separazione delle cose. Aristotele non
nega che esistano discorsi non apofantici, per es., la pre- ghiera (Zbid., 4,
17a 2). Ma, privilegiando il di- scorso apofantico, fa di esso il vero L.,
quello sul quale gli altri più o meno si modellano o dal punto 535 di vista del
quale debbono essere giudicati. E difatti la poetica e la retorica, che si
occupano del L. non apofantico, sono da Aristotele trattate in connessione con
l’analitica. Ora il L. apofantico non ha più nulla di convenzionale: le sue
strutture sono naturali e necessarie perchè sono quelle stesse dell’essere, che
esso rivela. Questo convenzionalismo apparente o zoppo che può combinarsi con
la tesi del carattere apofantico del L. è la forma che il convenzionalismo
assume nel Medio Evo e nell’età moderna. Il nominalismo medievale riprende
appunto in questa forma la tesi convenzionalistica. Ockham, ad es., distingue i
segni « istituiti ad arbitrio a significare più cose + cioè le parole, dai
segni naturali che sono i concetti (Summa Log., I, 14); e questa posizione non
fa che riprodurre sostanzialmente quella aristotelica. Identica è la posizione
di Hobbes il quale, mentre insiste sull’arbitrarietà del segno linguistico,
ritiene che esso sia « una nota con la quale si possa richia- mare nell’anima
un pensiero simile ad un pensiero passato » (De Corp., 2, 4). Questa
corrispondenza tra le parole e i pensieri è assunta da Locke come defi- nizione
della funzione segnica del linguaggio. « Le parole, dice Locke, che di loro
natura erano adatte a questo scopo, vennero impiegate dagli uomini come segni
delle loro idee: non per alcuna connessione na- turale che vi sia tra
particolari suoni articolati e certe idee, poichè in tal caso non ci sarebbe
fra gli uomini che un solo L., ma per una imposizione volontaria mediante la
quale una data parola viene assunta arbitrariamente a contrassegno di una tale
idea» (Saggio, III, 2, 1). L'inserimento del « segno natu- rale » o « pensiero
+ 0 «idea +» tra la parola e il suo designato toglie, come si è visto, alla
tesi convenzio- nalistica il suo carattere proprio e l’avvicina alla tesi
opposta, sino a confonderla con essa. Quella tesi si riduce infatti
all’affermazione dell’arbi- trarietà del segno linguistico isolato, della
parola intesa come suono, ma non si estende all’uso vero e proprio delle parole
(nel quale propriamente consiste il L.) e pertanto alle regole di quest’uso.
Essa equivale a dire, per es., che nel gioco degli scacchi è indifferente
chiamare pedina la torre o torre la pedina, ma che è necessario che un certo
pezzo (pedina o torre) si usi in un modo e che un altro (torre o pedina) si usi
in un altro modo. Il linguaggio è il gioco di scacchi che, in questo caso, si
dichiara necessario: la convenzionalità delle parole cioè dei semplici suoni
articolati non diminuisce tale necessità. Pertanto il ripristino della tesi
classica del conven- zionalismo si ha soltanto con l’eliminazione di qualsiasi
intermediario tra il segno linguistico e il suo designato; o in altri termini
con la dichiarazione di arbitrarietà non dei suoni isolati ma dell'uso di 536
tali suoni e cioè delle regole che lo limitano. Questa è stata la posizione del
Wittgenstein della seconda maniera (nelle Philosophische Untersuchungen). Wittgenstein ha ammesso
l’arbitrarietà e perciò l’equivalenza di tutti i « giochi linguistici » in uso,
ammettendo che tali giochi possono avere caratteri e regole diversissime sicchè
anche chiamarli tutti insieme « L.» non significa altro che essi hanno l’uno
con l’altro relazioni differenti (Philosophical Investigations, I, 65). Da
questo punto di vista ritor- nano le tesi classiche del convenzionalismo; e in
primo luogo l’impossibilità di rettificare il L., per cui L. dev’essere
dichiarato sempre vero e perfetto 0, come Wittgenstein preferisce, in ordine: «
È chiaro che ogni enunciato del nostro L. è in ordine come esso è. Cioè, noi
non stiamo perseguendo un ideale come se i nostri enunciati ordinariamente
vaghi non avessero ancora raggiunto un senso inecce- pibile e come se un L.
perfetto aspettasse di essere costruito da noi. Dall’altro lato, sembra chiaro
che dove c’è senso ci dev'essere ordine perfetto. Così ci dev'essere ordine
perfetto nella più vaga delle proposizioni + (Zbid., I, 98). Da questo punto di
vista l’ideale linguistico, la lingua perfetta è qualcosa di già esistente
nell’uso. « L'ideale, dice Wittgenstein, deve essere trovato nella realtà.
Finchè non abbiamo ancora veduto come si trova in essa, non comprendiamo la
natura di questo deve. Pensiamo che dev'essere nella realtà perchè pensiamo di
averlo già veduto » (/bid., 101). Questo punto di vista si può dire coincida
con quello di Carnap. Il « principio di tolleranza » o « di conven- zionalità
+, stabilito da Carnap, esprime la perfetta equivalenza dei sistemi
linguistici. « In logica, dice Carnap, non c’è morale. Ciascuno può costruire
come vuole la sua logica cioè la sua forma di linguaggio. Se vuol discutere con
noi, deve solo indicare come lo vuol fare, e dar regolazioni sintattiche invece
di argomenti filosofici » (Logica! Syntax of Language, $ 17). Da questo punto
di vista la stessa costruzione di un L. ideale o perfetto è fatto sulla base di
ciò che un certo tipo di L. è in linea di fatto. «I fatti, dice Carnap, non
determinano se l’uso di una certa espressione sia corretto o sbagliato ma
soltanto quanto frequentemente porta all’effetto cui tende e simili. Una
questione intorno a ciò che è corretto o sbagliato deve sempre riferirsi a un
sistema di regole. A stretto rigore, le regole che elencheremo non sono regole
del L. B, come è dato di fatto, costi- tuiscono piuttosto un sistema
linguistico in corri- spondenza con 2 che chiameremo il sistema seman- tico
B-S. Il L. B appartiene al mondo dei fatti... Invece il sistema linguistico B-S
è qualcosa di costruito da noi; ha tutte e sole quelle proprietà che stabiliamo
mediante le regole. Tuttavia noi costruiamo 8-S non arbitrariamente ma con ri-
LINGUAGGIO guardo ai fatti di 8. Quindi possiamo fare l’affer- mazione empirica
che il L. B è in una certa misura in armonia con il sistema B-S» (Foundations
of Logic and Mathematics, I, 4). Il sistema seman- tico B-S ha perciò, secondo
Carnap, le seguenti proprietà: 1° costituisce il criterio in base al quale si
può giudicare della correttezza o meno del L. B; 2° le regole di B-S non sono
convenzionali perchè sono scelte sulla base di dati di fatto forniti da 8. Carnap
pertanto ammette contemporaneamente la tesi della convenzionalità dei L. e la
tesi della naturalità dei sistemi semantici cioè dei L. perfetti. 2° La
dottrina che il L. sia « per natura» e che il rapporto tra il L. e il suo
oggetto (quale che sia) venga stabilito dall’azione causale di quest’ul- timo è
anch’essa caratterizzata dal riconoscimento della necessità del rapporto
semantico. Mentre la precedente dottrina affermava che il rapporto se- mantico
è sempre esatto perchè è in ogni caso istituito ad arbitrio, la dottrina in
esame afferma che è sempre esatto perchè sfugge all’arbitrio ed è istituito
dall’azione causale dell’oggetto. Questa tesi si può far risalire ad Eraclito
(Fr. 23, Diels; 114, Diels); ma esplicitamente fu esposta dai Cinici, e specialmente
da Antistene, il cui punto di vista è espresso da Cratilo nel dialogo omonimo
di Pla- tone: « Le cose hanno i nomi per natura ed è arte- fice di nomi non uno
qualsiasi ma solo colui che guarda al nome che per natura è proprio di ciascuna
cosa e che è capace di esprimere la specie di essa in lettere e sillabe»
(Crar., 390d-e). Sappiamo d’altronde che Antistene aveva definito il L. di-
cendo che è «quello che manifesta ciò che era o è» (Dioa. L., VI, 1, 3); e che
traeva da questa dottrina le stesse conseguenze che i Megarici con Stilpone
traevano dalla tesi della convenzionalità: e cioè che « è impossibile
contraddire o anche dire il falso » (ARIST., Met., V, 29, 1024 b 33). Questa di
Antistene è tuttavia una soltanto delle forme che la dottrina in esame può
assumere ed ha assunto nel corso della sua storia. Queste forme sono di-
stinguibili sul fondamento del tipo di oggetto che si assume come designato dal
linguaggio. Tutte le forme di questa dottrina asseriscono che il L. è
apofantico cioè in qualche modo rivelativo del suo oggetto; esse differiscono
tra loro nel deter- minare il tipo di oggetto che il L. rivelerebbe in modo
primario o privilegiato. Si possono così distinguere: a) la teoria
dell’interiezione; b) la teoria dell’onomatopeia; c) la teoria della metafora;
d) la teoria dell’immagine logica. a) La teoria dell’interiezione che fu detta
da Max Miiller (Lectures on the Science of Language, 1861, cap. 9; trad. ital.,
pag. 363) teoria del pu/-puh è stata esposta per la prima volta da Epicuro: «
Le parole, egli disse, non sono in principio create LINGUAGGIO per convenzione;
ma è la stessa natura umana che, influenzata da determinate emozioni e in vista
di determinate imagini, fa sì che gli uomini emet- tano l’aria in modo
appropriato alle singole emo- zioni ed imagini. Le parole sono dapprima diverse
per la diversità delle genti, che dipende anche dai luoghi; ma poi vengono rese
comuni affinchè i loro significati siano meno ambigui e più rapida- mente
comprensibili » (Dioc. L., X, 75-76). Lu- crezio esprimeva più succintamente lo
stesso con- cetto: «La natura costrinse gli uomini a emettere i vari suoni del
L. e l’utilità condusse a dare a ciascuna cosa il suo nome» (De nat. rer., V,
1027-28). In tempi moderni la dottrina è stata ripresa da Condillac (Sur
l’origine des connaissances humaines, 1746, I, $ 1 sgg.) ed esposta nel modo
più brillante da Rousseau. « Il primo L. dell’uomo, diceva quest’ultimo, il L.
più universale e più energico e il solo di cui aveva bisogno prima che gli
occorresse di persuadere uomini riuniti, è il grido di natura. Poichè questo
grido era strappato da una specie d’istinto nelle occasioni pressanti, per
implorare soccorso nei grandi pericoli o sol- lievo nei mali violenti, esso non
era di grande uso nel corso ordinario della vita in cui regnano senti- menti
più moderati. Quando le idee degli uomini cominciarono ad estendersi e
moltiplicarsi e si sta- bill tra essi una comunicazione più stretta, e si
cercarono segni più numerosi e un L. più esteso, essi moltiplicarono le inflessioni
della voce e vi aggiunsero i gesti che, per loro natura sono più espressivi e
di cui il senso dipende meno da una determinazione anteriore » (De /’inépalité
parmi les hommes, I; cfr. pure il saggio « Sull’origine delle lingue », in
(Euvres, 1877, vol. I). Ma il problema in cui questa dottrina si urta è proprio
quello del passaggio da una lingua costituita da semplici gridi o interiezioni
a una lingua oggettiva, costituita da termini generali o astratti. Ancora nel
mondo mo- derno non è mancato chi ha visto nell’interiezione l'origine di quei
suoni che, gradualmente purificati e organizzati, si trasformarono in vero e
proprio linguaggio. Così pensava, ad es., O. Jespersen (Lan- guage, its Nature,
Development and Origin, 1923, pag. 418 sgg.) e più rigorosamente la stessa tesi
è stata presentata da Grace de Laguna che ha cercato di definire meglio il
passaggio dall’interiezione al L. come un processo di oggettivazione, per il
quale alle espressioni emotive si vengono via via sostituendo gli aspetti percepiti
delle situazioni effettive (Speech, its Function and Development, 1927, pag.
260 sgg.). Ma ciò che riesce difficile a comprendersi è per l'appunto questo
processo di oggettivazione e pu- rificazione dei gridi emotivi: tanto più che
lc stesse dottrine che si appellano ad essi hanno messo in luce ed
esplicitamente riconosciuta la differenza 537 fra le parole e le interiezioni
(che non si distinguono dai gridi animali) nonchè il fatto che le parole si
affermano a danno delle interiezioni. b) La teoria dell’onomatopeia, che Max
Miiller (Lectures on the Science of Language, 1861, cap. 9) chiamò teoria del
bau-bau, è quella che afferma che le radici linguistiche sono imita- zioni di
suoni naturali. La teoria era conosciuta da Platone; il quale la critica osservando
che, « in tal caso, coloro che rifanno il verso delle pecore, dei galli e degli
altri animali darebbero il nome agli animali di cui contraffanno la voce»
(Crar., 423 c). La teoria fu difesa da Herder nel suo 7rat- tato sull'origine
del L. (1772): egli considerò i suoni naturali (per es., il belare di un
agnello) come i segni di cui l’anima si avvale per ricono- scere l’oggetto in
questione. « Il suono del belare, notato come contrassegno distintivo, diventa
il nome dell’agnello. Il contrassegno compreso per il quale l’anima si riflette
chiaramente in un’idea, è la parola. E che cos’è l’intero L. umano se nonun
insieme di tali parole?» (Werke, ed. Suphan, V, pag. 36-37). La principale
obiezione contro questa dottrina è stata portata dai glottologi: non è vero che
l'origine di tutte le radici linguistiche è onomatopeica. Neppure nella
formazione dei nomi degli animali, nella quale il principio onomatopeico si
potrebbe presumere più efficace, esso ha vera- mente una funzione dominante.
Contro di esso sta poi l’obiezione filosofica, che già Platone avan- zava, che
altro è l’imitazione di un suono, altro è l'imposizione di un nome. Tuttavia,
il principio dell’onomatopeia è stato molte volte utilizzato dai glottologi per
spiegare la formazione delle parole originali in questa o quella lingua e il
loro distri- buirsi in gruppi distinti. Lo stesso Cassirer ammette come prima
fase dell’espressione linguistica uno stadio mimetico nel quale «i suoni
sembrano avvi- cinarsi all’impressione sensoria e riprodurre la sua diversità
il più fedelmente possibile» (Phil. der symbolischen Formen, 1923, I, cap. 2, $
2; tradu- zione ingl., pag. 190). c) La terza forma della dottrina della natu-
ralità del L. è quella che lo considera come meta- fora. Le tesi
caratteristiche in cui si esprime questa teoria sono le seguenti: 1° il L. non
è imitazione ma creazione. Questa tesi distingue questa teoria da quella
onomatopeica; 2° la creazione linguistica mette capo non a concetti o termini
generali ma a imagini, che sono sempre individuali o particolari; 3° ciò che la
creazione linguistica esprime non è un fatto oggettivo 0 razionale ma
soggettivo o sentimentale; e questo è propriamente l’oggetto del linguaggio.
Con queste caratteristiche la teoria fu espressa per la prima volta da Vico; il
quale affermò che «il primo parlare» non fu «un par- 538 lare secondo la natura
delle cose » ma « un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte
immaginate divine » (Scienza Nuova, II, Della logica poetica). I primi poeti,
secondo Vico, dettero «i nomi alle cose dalle idee più particolari e sensibili;
che sono le due fonti, questa della metonimia e quella della sineddoche» (Ibid,
Corollari d’intorno ai tropi, 2). Di conseguenza i primi uomini conce- pirono
l’idea delle cose « per caratteri fantastici di sostanze animate e mutoli »; e
si spiegarono « con atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee
(quanto, per es., lo hanno l’atto di tre volte fal- ciare o tre spighe per
significare tre anni) ». Questo, secondo Vico, è facile a osservarsi nella
lingua la- tina, «che quasi tutte le voci ha formate per tra- sporti di nature
o per proprietà naturali o per effetti sensibili »; ma « generalmente la
metafora fa il maggior corpo delle lingue appo tutte le nazioni + (Ibid.,
Corollari d’intorno ai tropi, 2). Espressa in forma assai più immaginifica,
questa teoria si ritrova nello Hamann secondo il quale il L., che è «l’organo e
il criterio della ragione +, non è una semplice collezione di segni ma «il
simbolo e la rivelazione della stessa vita divina» (Schriften, II, 19, 207,
216). Nel sec. xtx la teoria della metafora, anche senza l’impostazione
metafisica o teologica con cui compare in Haman è il tratto comune delle
dottrine che sono state chiamate del din-don cioè del carattere risonante della
natura umana. Così Max Miller affermava che il L. è il prodotto di una «facoltà
creativa la quale dà a ciascuna impressione, nel modo che penetra per la prima
volta nel cervello, un’espressione fonetica +; e che i fonemi così creati
vengono poi selezionati e com- binati naturalmente attraverso il processo
storico di formazione del L. stesso (Lectures, cit., 9; trad. ital., pag. 394).
ll carattere metaforico del L., consi- stendo nel ricorso a termini ambigui od
equivoci, favorisce (secondo questa teoria) l’origine e la for- mazione del
mito. « Nel L. umano, ha detto F. Max Milller è impossibile esprimere idee
astratte se non sotto metafora e non si esagera dicendo che l’in- tero
dizionario dell’antica religione era fatto di metafore... Di qui una sorgente continua
di equivoci molti dei quali sono consacrati nella mitologia e nella religione
del mondo antico» (Contributions on the Science of Mythology, 1897, I, 68
sgg.). Questa connessione del L. con il mito era già stata fatta da Vico che,
per di più, non aveva equiparato ad una malattia del L. la formazione del mito.
Le dottrine moderne del mito (v.) negano questa equiparazione, ma mantengono la
connes- sione del mito col linguaggio. In senso analogo Croce ha stabilita la
connessione del L. con l’arte in generale. Il L. ha, per Croce, natura
fantastica o metaforica ed è quindi legato più strettamente con LINGUAGGIO la
poesia che con la logica. « L'uomo, dice Croce, parla a ogni istante come il
poeta, perchè come il poeta esprime le sue impressioni e i suoi sentimenti
nella forma che si dice di conversazione o familiare, e che non è separata per
nessun abisso dalle altre forme che si dicono prosastiche, prosastico-poetiche,
narrative, epiche, dialogate, drammatiche, liriche, meliche, cantate, e via
enumerando » (Breviario di estetica, 1913, II). Un abisso c’è tuttavia (e Croce
lo ha affermato più tardi) tra l'espressione poe- tica che placa e trasfigura
il sentimento ed è perciò un conoscere, dagli altri tipi di espressione (o sen-
timentale o prosastica) che, vincolati strettamente al sentimento e all’idea,
non operano quella tra- sfigurazione che è propria dell’espressione autentica e
pertanto non possono neppure dirsi linguaggio. Fsse sono, secondo Croce
soltanto «suoni artico- lati » (La poesia, 1936, pag. 9 sgg.). Questa con-
clusione cui Croce, non senza coerenza, ha condotto la teoria in esame, mostra
i limiti della teoria stessa. Questa si trova nell’incapacità di spiegare il
pas- saggio dal L. metafora al L. concettuale, dal L. che è grido o gesto o altro
« carattere poetico + (secondo l’espressione di Vico) al L. che è struttura,
organiz- zazione e regola. d) La quarta forma della dottrina della natu- ralità
del L. è quella che lo considera come la espressione o l’imagine dell’essenza o
dell’essere delle cose. Questa dottrina è assai antica perchè la sua prima
manifestazione è la teoria di Anti- stene secondo la quale « il L. è quello che
manifesta ciò che era o è» (Dioa. L., VI, 1, 3). Gli Stoici a loro volta
affermarono che « parlare significa pronunziare un suono che significa
l’oggetto pen- sato » (Sesto E., Adv. Math., VIII, 80). La carat- teristica di
questa dottrina è che essa porta la sua attenzione non tanto sui singoli segni
o parole ma sulle loro connessioni sintattiche cioè sulle regole del loro uso
nelle proposizioni e nei ragionamenti e pertanto sulle strutture formali del
linguaggio. A questo indirizzo appartiene propriamente la teoria che abbiamo
chiamato del convenzionalismo apparente o zoppo: cioè la teoria che, mentre i
singoli segni linguistici sono scelti ad arbitrio, i loro modi di combinarsi
non sono arbitrari ma naturali e necessari perchè corrispondono ai modi di
combinarsi dei concetti mentali che a loro volta corrispondono ai modi di
combinarsi delle cose. Questa teoria, avanzata da Aristotele, è stata ri-
prodotta più volte dall’empirismo moderno e con- temporaneo (v. sopra). In
questa forma la dottrina è caratterizzata dall’inserzione, tra il segno lin-
guistico e la cosa, del concetto mentale, attraverso il quale lo stesso segno
linguistico, nei suoi modi di combinazione, viene a partecipare della necessità
oggettiva delle cose. Un fondamento analogo ha LINGUAGGIO l’affermazione della
naturalità del L. fatta da Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca (1808) dove
si afferma che «esiste una legge fondamentale se- condo cui ogni concetto
assume, attraverso gli organi, un suono; quello e non un altro» (IV; trad.
ital., Allason, pag. 78), o quella di Hegel che «il L. dà alle sensazioni,
intuizioni e rappre- sentazioni una seconda esistenza, più alta di quella
immediata, un’esistenza in universale, che ha vigore nel dominio della
rappresentazione +» (Enc., $ 459). Ma la tesi della naturalità del L. è stata
ripresa nella sua forma rigorosa e perciò nei suoi teoremi classici soltanto ad
opera della logica matematica contemporanea. Questa difatti ha riaffermato il
principio di una corrispondenza di termine a ter- mine tra i segni linguistici
e le cose, principio che i Cinici avevano espresso dicendo che il L. è ciò che
manifesta quello che una cosa era od è. Questo principio che fa del L. la
riproduzione pittorica della realtà o in generale dell’essere, è stato dapprima
difeso da Russell ma ha trovato la sua formulazione più rigorosa nel Tractatus
logico-philosophicus (1922) di Wittgenstein. Il principio veniva esposto da
Russell nella forma seguente: «In ogni proposizione che possiamo apprendere
(cioè non solo in quelle la cui verità o falsità possiamo giudicare ma in tutte
quelle che possiamo immaginare) tutti i costituenti sono realmente entità di
cui abbiamo conoscenza diretta » (€ On Denoting », 1905, ora in Logic and
Knowledge, 1956, pag. 56; cfr. Mysticism and Logic, 1918, pag. 219, 221; The
Problems of Philosophy, 1912, pag. 91). Questo vuol dire che ad ogni termine
adoperato nelle proposizioni deve corrispondere un termine o entità oggettiva
di cui si abbia conoscenza diretta (acquaintance): o che dev’esserci una corri-
spondenza di termine a termine fra gli elementi che entrano a comporre le
proposizioni e le entità di cui si ha conoscenza diretta. Russell osserva a
questo proposito che « dobbiamo attribuire un signi- ficato alle parole che
usiamo se vogliamo parlare con qualche significato e non per pura chiacchera; e
il significato che attribuiamo alle parole dev’essere qualcosa di cui abbiamo
già conoscenza» (Problems of Phil., pag. 91). Questa è semplicemente la ripre-
sentazione della tesi di Antistene secondo la quale parlare significa dire
qualcosa e precisamente qual- cosa che è, sicchè non si può dire ciò che non è:
con l’aggiunta che ciò che è, vale a dire le entità corrispondenti ai termini
del L., dev'essere « diret- tamente conosciuto ». Russell fondava su questo
principio la sua teoria della denotazione: secondo la quale « quando c’è
qualcosa di cui non abbiamo conoscenza immediata ma solo una definizione per
mezzo di frasi denotanti, le proposizioni nelle quali questa cosa è introdotta
per mezzo di una frase denotante non contengono realmente la cosa 539 come
costituente ma contengono invece i costi- tuenti espressi dalle diverse parole
della frase denotante » (€ On Denoting +, /bid., pag. 55-6). Così ad es.,
poichè non abbiamo diretta esperienza dello spirito degli altri, noi non
conosciamo, se A è uno di tali spiriti, che « A ha questa e quella proprietà 1;
ma conosciamo soltanto che « Tal dei Tali ha uno spirito che ha questa o quella
proprietà ». Tuttavia, se un linguaggio ideale ci potesse essere, esso do-
vrebbe contenere unicamente elementi costitutivi ultimi sicchè in esso « non ci
sarebbe che una parola e non più di una per ogni oggetto semplice ed ogni cosa
che non fosse semplice sarebbe espressa da una combinazione di parole, ciascuna
delle quali sta- rebbe per una cosa semplice » (« The Phil. of Logical
Atomism+, Logic and Knowledge, pag. 197-98). Secondo Russell il L. dei
Principia Mathematica mira ad essere un L. di questa specie: in esso c’è solo
sintassi e niente vocabolario (/b., pag. 198). E ciò lo rende uguale al L.
proposto dai dotti dell’Accademia di Lagado di cui parla Swift nei Viaggi di
Gulliver. Essi proponevano di abolire le parole perchè « dal momento che le
parole sono solo nomi per le cose, sarebbe più comodo per tutti gli uomini
portare con loro le cose che sono ne- cessarie a esprimere le particolari
faccende di cui intendono discorrere +. Questi saggi portavano perciò con loro
sacchi pieni di oggetti e facevano conver- sazione mostrandosi reciprocamente
gli oggetti stessi (Gulliver’s Travels, III, cap. 5). Lo stesso ideale è stato
espresso da Wittgenstein (prima maniera) con formule semplici e precise. Eccone
alcune: «Il nome significa l’oggetto: l’og- getto è il suo significato »
(Tractatus, 3.203). « Alla configurazione dei segni semplici nella proposizione
corrisponde la configurazione degli oggetti nella si- tuazione +» (/bid.,
3.21). « Il nome è il rappresentante dell'oggetto nella proposizione » (/bid.,
3.22). Witt- genstein ha espresso con tutta la chiarezza deside- rabile il
concetto del linguaggio (che non è altro che «la totalità delle proposizioni +,
/bid., 4.001) come raffigurazione pittorica del mondo. « A prima vista, egli
dice, non sembra che la proposizione, così come, ad es., è stampata sulla carta
sia un’imagine della realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non
sembra a prima vista un'imagine della musica nè la nostra scrittura fonetica (a
let- tere) sembra un’imagine del nostro L. parlato. Eppure questi simboli si
dimostrano anche nel senso ordinario del termine, imagini di ciò che
rappresentano » (/bid., 4.011). Buona parte dell’em- pirismo logico e in
generale della filosofia contem- poranea condivide o ha condiviso questa
dottrina del L. come imagine logica del mondo. L'obiezione fondamentale contro
di essa è stata bene espressa da Max Black: « Non c’è motivo che il L. debba
540 ‘ corrispondere * o © assomigliare * al ‘ mondo * più che non vi sia motivo
che debba assomigliare al mondo il telescopio con cui l’astronomo lo studia »
(Language and Philosophy, V, 4; trad. ital., pag. 173). È interessante
constatare che all’altro estremo della filosofia contemporanea, cioè all’estremo
me- tafisico o ultra-metafisico, si ha un concetto analogo del linguaggio.
Heidegger non ammette certo la corrispondenza di termine a termine tra gli
elementi del L. e gli elementi dell’essere; ma afferma tuttavia, con energia
uguale a quella di Wittgenstein, il carat- tere apofantico del L. rispetto alla
totalità dell’essere. In questo senso egli ha chiamato il L. «la casa
dell’essere ». Ed ha aggiunto: « Discorrere di casa dell'essere non significa
per nulla trasferire l’imma- gine della casa all’essere; un giorno ci sarà
possibile, muovendo da un adeguato pensamento dell’es- senza dell'essere,
giungere a comprendere che cosa significhino casa ed abitare (« Brief liber den
Huma- nismus », in P/atos Lehre von der Wahrheit, 1947, pag. 112). In altri
termini il L. è l'immediata rivela- zione dell'essere; e l’uomo accede
all’essere attra- verso il linguaggio. 3° La terza dottrina fondamentale del L.
è quella che lo interpreta come uno strumento, cioè come un prodotto di scelte
ripetute e ripetibili. Questa dottrina è stata per la prima volta presentata da
Platone. Di fronte alle due tesi opposte della con- venzionalità e della
naturalità del L., Platone evita, nel Cratilo, di decidere in favore di una di
esse. «A me piace, egli dice, che, per quanto è possibile, i nomi siano
simiglianti alle cose; ma io temo che, per dirla con Ermogene, questa
attrazione della simiglianza ci porti su di un terreno sdrucciolevole e che
perciò sia necessario servirci anche di un mezzo un pò grossolano, cioè della
convenzione, per renderci conto della giustezza dei nomi » (Crat., 435 c). I
nomi dei numeri, ad es., difficilmente si potrebbero, secondo Platone, ritenere
naturali nel senso di essere simili a ciò che indicano. Ma se nè la convenzione
nè la natura cioè nè la dissimiglianza tra la parola e la cosa nè la
simiglianza costituisce il significato, che cosa in ogni caso lo costituisce?
L'uso. Dice Platone: « Se l’uso non è una conven- zione, sarebbe meglio dire
che non la somiglianza è il modo in cui le parole significano ma piuttosto
l’uso: questo infatti, a quanto sembra, può signi- ficare sia mediante la
simiglianza sia mediante la dissimiglianza » (Crar., 435a-b). Platone ha qui
espresso una tesi fondamentale della linguistica moderna: è soltanto l’uso che
stabilisce o per dir meglio costituisce il significato delle parole. Ma questa
tesi presuppone l’altra, del carattere strumen- tale del linguaggio: tesi,
quest’ultima, che Platone ha espresso dicendo che il L. è uno strumento e che,
come tutti gli strumenti, dev'essere adatto allo LINGUAGGIO scopo (Crar. 387
a). Da questo punto di vista, l’uso è la scelta ripetuta o convalidata che ha
condotto a forgiare un determinato strumento linguistico; e come tutti gli
altri strumenti, così pure gli strumenti linguistici possono riuscire più o
meno perfetti e adeguati allo scopo. Si giustifica così quello che, secondo
Platone, è il fondamentale teorema filosofico intorno al L.: la fallibilità del
L. stesso, la possibi- lità di dire ciò che non è (Sof., 261 b). La caratte-
ristica comune delle due dottrine precedenti è, come si è visto, la negazione
di questo teorema. La tesi della convenzionalità esclude che il L. possa
includere l’errore perchè una convenzione non può avere che lo stesso valore di
un’altra. La tesi della naturalità esclude che il L. possa includere l’errore
perchè deve riconoscere che il L. rappresenta, in ogni caso, ciò che è ed è
quindi sempre nel vero. Entrambe le tesi escludono che il L. si possa giudi-
care o che abbia un senso il giudizio sulla sua cor- rettezza. La tesi del L.
come operazione, uso, scelta, include invece questa possibilità giacchè vede in
esso il prodotto di operazioni dirette a costituire uno strumento efficace e
considera come non infallibile la riuscita di queste operazioni. Il fondamento
oggettivo di quella possibilità è che «il discorso nasce dalla unione reciproca
delle specie » (.Sof. 259 d) e che le specie non sono nè tutte insieme unite nè
tutte disgiunte, ma alcune possono unirsi e altre no. Le possibilità del L.
sono pertanto limitate dalle possibilità di combinazione delle specie o forme
dell’essere (Sof., 262 c). Questa posizione platonica veniva riprodotta da
Leibniz. «Io so, egli diceva, che si suol dire nelle scuole e dappertutto che i
significati delle parole sono arbitrari (ea instituto) ed è vero che non sono
determinati da una necessità naturale, ma lo sono tuttavia per opera di ragioni
naturali, in cui il caso ha la sua parte, e talvolta morali, in cui entra una
scelta » (Nouv. Ess., III, 2, 1). Herder partiva dalla stessa considerazione
preliminare e definiva come astrazione la scelta che si fa di una qualità
dell’oggetto allo scopo di nominarlo. « L’uomo mette in atto la riflessione non
solo quando percepisce tutte le qualità di un oggetto vividamente e con
chiarezza ma anche quando può riconoscere una o più qualità come qualità
distintive... E con quali mezzi effettua questo riconoscimento? Attra- verso la
sua capacità di astrazione » (Werke, ed. Suphan, V, pag. 35). È in questa
tradizione che Humboldt formulò quella dottrina del L. che doveva avere così
vasta influenza sulla scienza moderna del linguaggio. La formazione degli
strumenti linguistici è difatti, da questo punto di vista, la for- mazione di
connessioni, di symploké (come diceva Platone) e pertanto il L. non è un
complesso ato- mistico di parole, ma è discorso organizzato. LINGUAGGIO 541
Humboldt esprimeva chiaramente questo concetto. « Non possiamo concepire il L.,
egli diceva, come avente inizio dalla designazione degli oggetti me- diante le
parole e come procedente in un secondo tempo alla organizzazione delle parole
stesse. In realtà, il discorso non è composto da parole che lo precedono, ma al
contrario le parole prendono origine dall’intero discorso» (« Einleitung zum
Kawi-Werk », Werke, VII, 1, pag. 72 sgg.). Pertanto la comunicazione non è
effettuata dalla singola parola ma dalle frasi e solo queste sono gli strumenti
particolari di cui è formato il L. (/bid., pag. 169 sgg.). Queste idee hanno
dominato e continuano a domi- nare la scienza del linguaggio. Esse si trovano
incorporate negli stessi concetti di cui questa scienza si avvale, per es., nel
concetto di fonema. Un fonema è «l’unità minima dotata di caratteristiche
sonore distintive» ed è pertanto un’unità di significato non di suono
(BLOOMFIELD, Language, 1933, 5.4). Ogni lingua sceglie i suoi fonemi; ma questa
scelta non può essere qualificata nè come « casuale + o «arbitraria » e neppure
come « naturale » o « ne- cessaria »: perchè una scelta condiziona o limita le
altre e ogni gruppo o serie di esse è condizionata dall’esigenza dell’efficacia
comunicativa del lin- guaggio. I fonemi possono pertanto essere ridotti a tipi
che la scienza del L. si propone di determinare. Le determinazione di questi
tipi fornisce il fonda- mento delle scelte che costituiscono le strutture
fondamentali del L., e perciò spiega, in qualche misura, tali strutture, senza
che ne giustifichi la perfezione o l’infallibilità. Nella linguistica contem-
poranea, la concezione del L. come strumento è sostenuta specialmente dai funzionalisti,
che vedono nel L. «uno strumento di comunicazione» per il quale l’esperienza
umana si analizza in unità o monemi che hanno un contenuto semantico o una
forma fonica: questa forma fonica a sua volta si articola in unità distinte e
successive, « fonemi, la cui natura e i cui rapporti variano da lingua a lingua
» (MAR- TINET, A Functional View of Language, 1962, cap. I). 4° La quarta
concezione del L., che è quella che abbiamo chiamata del caso, è in realtà una
specifi cazione della terza o per meglio dire è una prospet- tiva di studio
aperta dalla terza concezione. Questa prospettiva è costituita dallo studio
statistico del linguaggio. È noto che azioni che sono individual- mente
mutevoli e imprevedibili presentano unifor- mità e costanza se considerate in
gran numero. Non si può certo prevedere se una particolare per- sona si sposerà
l'anno venturo, ma si può prevedere con sufficiente approssimazione il numero
delle persone che si sposeranno l’anno venturo in una determinata comunità
sulla base delle statistiche degli ultimi anni. Allo stesso modo si possono
stu- diare le frequenze statistiche con la quale espressioni determinate
ricorrono in una comunità sufficiente- mente vasta: cioè si possono fissare
certe costanti statistiche del L. e assumerle come base per lo studio delle
strutture linguistiche. Certamente tale indagine statistica non è
indispensabile per lo studio di massa del linguaggio. C'è anche l’altro metodo,
che è quello dell’osservazione sociologica, per la quale l’osservatore
linguistico può, partecipando alla vita di una comunità, descriverne gli usi
linguistici. Questo è anzi il metodo prevalentemente seguito sin ora dai
glottologi, i quali solo raramente, e quasi esclusivamente nei confronti di
opere letterarie, hanno fatto ricorso al metodo statistico. Si può ricordare a
questo proposito l’opera di Lutoslawski sullo stile di Platone (The Origin and
Growth of Plato’s Logic, 1897) che riuscì a porre su nuova e più sicura base la
cronologia degli scritti platonici. Ma non mancano oggi proposte di un ricorso
siste- matico al metodo statistico in vista della soluzione di tutti i problemi
della linguistica strutturale. Dice a questo proposito G. Herdan: « Se
consideriamo la lingua come il totale dei segni linguistici più la loro
probabilità di ricorrere nel discorso individuale e perciò come i vari modi nei
quali l’evento segno può accadere insieme con le relative frequenze dei
differenti segni nell’uso effettivo, la concezione risponde a tutte le esigenze
di quella che si chiama la popolazione statistica di tali eventi o il loro uni-
verso statistico. Ogni enunciato individuale (la parole nella terminologia di
de Saussure) compie l’ufficio di campione di quella popolazione» (Language as
Choice and Change, 1956, 1.3). Da questo punto di vista, se si esaminano testi
differenti di una stessa lingua si trova per esempio che le frequenze relative
con le quali un particolare fonema è stato usato dagli scrittori sono su per
giù le stesse. Questo autorizza a considerarle come fluttuazioni della probabilità
costante di quel particolare fonema in quel lin- guaggio. E questo significa
che il parlatore o scrit- tore obbedisce a certe leggi del caso e che solo
quando si considerano grandi masse di forme linguistiche si ha l’impressione di
una determinazione causale nel loro uso. In altri termini avverrebbe qui ciò
che accade nella fisica per la quale il determinismo macroscopico è soltanto
l’effetto di una considera- zione di massa degli eventi microscopici. I
sostenitori di questa concezione del L. affermano pertanto che ciò che dal
punto di vista intuitivo appare nel L. come una relazione di causa ed effetto
(la determi- nazione delle scelte linguistiche) è, dal punto di vista
quantitativo, soltanto caso. La teoria pertanto spiega le differenze fra i
testi non con l’intenzione dei parlanti o con un determinismo causale ma con le
leggi statistiche del caso (HERDAN, op. cif., 1.4; C. E. SHanNON and W.
WerAVER, The Mathematical Theory of Communication, Urbana, 1949). 542
LINGUAGGIO, Questo punto di vista da un lato ha reso pos- sibile la ricerca di
una grammatica generativa cioè di un «sistema di regole che in qualche modo
esplicito e ben definito, assegnino descrizioni strut- turali agli enunciati»
(CHomsky, Aspects of Theory of Syntax, 1965, pag. 8). Dall'altro lato, ha reso
possibile, nello studio del L., l’uso dei modelli (v. MopetLo) che qualche
volta sono considerati come costituenti la stessa realtà sistematica del L.
(Sapir, Language, 1921) e talaltra come costrutti cioè come strutture
ipotetiche opportunamente co- struite (REZvIN, Models of Language, 1966, $ 2).
V. STRUTTURA; STRUTTURALISMO. LINGUAGGIO, ANALISI DEL. V. Empi- RISMO LOGICO.
LINGUAGGIO CHIUSO. V. Lingcuaggio- OGGETTO. LINGUAGGIO FORMALIZZATO. V. Si-
STEMA LOGISTICO. LINGUAGGIO-OGGETTO (ingl. Object- Language). Questa nozione
nasce corrispondente- mente a quella di metalinguaggio (v.) ogni qualvolta si
assume che un L. è «semanticamente chiuso » cioè non contiene, in aggiunta alle
sue espressioni, anche i nomi di queste espressioni o termini (come «vero» e
«falso +) che si riferiscano ad esse. In tal caso, infatti, bisogna distinguere
il L. de/ quale si parla e che è l’argomento della discussione e il L. con il
quale si parla e con il quale desideriamo costruire la definizione di verità
per il primo lin- guaggio. Quest'ultimo è il metalinguaggio; il primo è il
L.-oggetto. La distinzione tra L.-oggetto e metalinguaggio fu introdotta dai
logici polacchi verso il 1919 e diffusa da Tarski (cfr. « The Semantic Conception of
Truth », 1944, in Readings in Philo- sophical Analysis, 1949, pag. 60). La distinzione fu accettata da Carnap (Foundations of
Logic and Mathematics, 1939, $ 3). A volte tuttavia il L.-og- getto e il
metalinguaggio coincidono come quando, ad es., si parla in italiano
dell’italiano. La distin- zione vale soprattutto per i linguaggi formaliz- zati
(v.). LIRICO (ingl. Lyric; franc. Lyrique; ted. Ly- risch). Aggettivo adoperato
da Croce per specifi- care l’espressione artistica come espressione del
sentimento. « Ciò che dà coerenza e unità all’intui- zione, dice Croce, è il
sentimento: l’intuizione è veramente tale solo perchè rappresenta un senti-
mento e solo da esso e sopra di esso può sor- gere... Etica e lirica, o dramma
e lirica, sono sco- lastiche divisioni dell’indivisibile: l’arte è sempre
lirica, cioè espressione etica e drammatica del sentimento » (Breviario di
Estetica, 1912, in Nuovi saggi di estetica, pag. 28). La liricità costituisce
per Croce il carattere soggettivo o romantico del- l’arte. ANALISI DEL
LITIGIOSUS. Così fu chiamato il dilemma di Protagora e del suo scolaro Euatlo
(AuLo GELLIO, Noct. Att., V, 10) (v. DILEMMA). LOCKISMO (ingl. Lockianism). La
dottrina di Locke assunta come l’espressione tipica dell’empi- rismo (v.).
LOGICA (ingl. Logic; franc. Logique; tedesco Logik). L'etimologia stessa (da
>Aéyos, che signi- fica « parola», « proposizione», «discorso ?, ma anche «
pensiero 1) è equivoca come è equivoca la nozione. In Aristotele, un gruppo di
scritti del quale, raccolti nell’Organon, costituiscono la prima ampia trattazione
di questa disciplina, manca qual- siasi parola per designarla. Agli inizi degli
Anglitici, lo scritto più strettamente «logico » di questa rac- colta,
Aristotele definisce, senza darle un nome, la scienza che si accinge a
ricercare come scienza della dimostrazione e del sapere dimostrativo (Anal.
Pr., I, 24a 10 sgg.) dove però, tra l’altro, il testo non è del tutto chiaro. I
suoi oggetti sareb- bero quelli elencati nel seguito del medesimo passo: la
proposizione (come enunciato apofantico, inse- rito in un discorso
dimostrativo), i termini di essa (soggetto e predicato) e finalmente il
sillogismo. Qui e in altri testi (principalmente nei 7opici e nella Rerorica)
Aristotele distingue due tipi di di- scorso, dialettico e dimostrativo: il
primo che muove dal problematico e dal probabile e termina necessariamente nel
probabile; il secondo invece che muove dal vero e termina nel vero. Ma, a parte
il valore conoscitivo della premessa, avverte che formalmente i due discorsi
sono identici, consi- stono sempre nel sillogismo e nelle sue tipiche
strutture. Ill termine Xoyiy) (sottinteso céeym) si trova invece negli scritti
degli Stoici per indicare l’arte del discorso persuasivo in genere: si divide
pertanto in reforica e dialettica, quest’ultima con- tenendo quello che sarà
l’oggetto fondamentale della L., la dottrina del discorso dimostrativo e degli
oggetti che vi si collegano (proposizione, ter- mini, sillogismo, ecc.). solo
nei commentatori peripatetici e platonici di Aristotele, o negli scritti di eclettici
che a questi si riferiscono (come Cice- rone o Galeno), gli uni e gli altri
influenzati dalla terminologia degli Stoici, che il termine «L.», usato come
stretto sinonimo di « Dialettica », viene introdotto come nome di quella
dottrina che aveva il centro negli Analitici aristotelici, cioè la teoria del
sillogismo e della dimostrazione. Boezio dà il nome di «L.» (anche qui,
alternante con « Dia- lettica ») all’insieme delle dottrine contenute nel-
l’Organon aristotelico, cui si viene ad aggiungere, come una specie di
introduzione generale, l’/sagoge di Porfirio. E così per tutto il Medio Evo,
per lo meno a partire dal x secolo, l’esposizione, lo studio e il commento
dell’/sagoge porfiriana se- LOGICA guita dai libri dell’Organon (nell’ordine,
divenuto tradizionale, di: Categorie, De Interpretatione, Primi Analitici,
Secondi Analitici, Topici, Elenchi Sofistici), spesso con i commenti e nelle
traduzioni o riduzioni boeziane, costituisce un’ars (una delle «sette arti
liberali +) detta indifferentemente Dialettica o Lo- gica. La differenza che in
essa si viene ad introdurre durante il sec. xl, tra ars verus e ars nova, non
ha poi molto rilievo, trattandosi di una distinzione meramente storica e
scolastica tra i libri di Porfirio e di Aristotele da tempo noti nella
traduzione boeziana (/sagoge, Categorie, De Interpretatione) e quelli resisi
noti più recentemente con la diffusione di nuove traduzioni latine
dell’Organon. In so- stanza, l’insegnamento di L. alla fine dell'Età an- tica e
nel Medio Evo comprendeva questi argomenti: 1° teoria delle quinque voces o
predicabili (genere, specie, differenza, proprio, accidente); 2° teoria delle
categorie o predicamenti (sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo,
posizione, avere, azione, passione); 3° dottrina delle proposizioni e regole
della conversione; 4° dottrina del sillogismo categorico; 5° dottrina del
sillogismo ipotetico; 6° dialettica: a) topica; 5) dottrina dei sofismi o
fallaciae. Che poi si potevano raggruppare in tre parti: dottrina dei termini,
dottrina delle proposi- zioni, dottrina del ragionamento (categorico oppure
ipotetico, apodittico oppure dialettico). A_ queste parti di origine
aristotelica o (tramite Boezio) stoica il pensiero medievale aggiunse alcune
dot- trine che costituiscono un apporto originale alla tradizione L.
dell’Occidente — la dottrina della designazione e denotazione (de
proprietatibus ter- minorum), la dottrina dei segni logici e delle propo-
sizioni molecolari (de syncategorematibus), la dot- trina dell’implicazione materiale
(de consequentiis) — tutte dottrine appartenenti a quella parte della L. che
oggi si chiama « semantica ». Per capire le trasformazioni intervenute, nel
corso dello stesso Medio Evo, non solo nella tradizione dottrinaria, ma nello
stesso ambito di oggetti co- perto dal nome « L. », bisogna tener presenti
alcune considerazioni. Più preoccupato di creare la nuova disciplina che non di
fondarla, e ancora più preoc- cupato di crearne le dottrine fondamentali in
vista di applicazione a problemi filosofici più « concreti » (principalmente,
alla metafisica e all'etica) che non di svolgerle e di esporle
sistematicamente, Aristotele lasciò la L. non soltanto senza un nome proprio
per designarla, ma anche equivoca nel suo status come disciplina e non ben
determinata nei riguardi della sua materia subiecta. Che sono propriamente gli
oggetti di cui si occupa la Logica? Entità reali, oppure pensieri, o forme del
discorso? Il problema si pone già nella tarda Antichità. A proposito degli
universali (categorie, generi, specie) che appaiono 543 costituire propriamente
gli elementi in cui si ri- solve il discorso logico: gli universali sono
sostanze reali, o no? Porfirio nell’/sagoge imposta il pro- blema, Boezio ne
tenta una soluzione che tuttavia si aggira in circolo e risulta
insoddisfacente; donde nel Medio Evo la disputa tra i realisti (Bernardo di
Chartres, Guglielmo di Champeaux, Anselmo di Aosta, ecc.), i quali affermano
l’esistenza reale degli universali e quindi fanno della L. una specie di
Ontologia, e i nominalisti (Roscellino, Abelardo, più tardi Guglielmo
d’Ockham), i quali negano la sussistenza ontologica degli universali. Abelardo
di- scutendo la questione degli universali per primo arriva, attraverso un
profondo commento al testo boeziano, a fissare il piano proprio della L.:
questa è scientia sermocinalis; i termini della L. sono sermones, quindi
parole, discorsi, non però meri suoni (flarus vocis, come sembra sostenesse Ro-
scellino), bensì parole con una intenzione (intentio) significativa, vale a
dire volte a significare cose, o meglio qualità, date nell’esperienza. Da
allora si precisano nella L. medievale due correnti o metodi (viae): la via
antiqua (o antiquorum) fedele alla tra- dizione realistica, quindi
ontologizzante, e la via moderna (o modernorum), che sviluppa una L. « ter-
ministica », ossia puramente sermocinalis, dove i termini del discorso sono
assunti come tali, indi- pendentemente da ogni ipotesi metafisica sull’esi-
stenza reale o meno del loro oggetto. E questo fu in sostanza il punto di vista
che si impose nella L. a partire dal sec. xn e sul quale furono impostati i
testi scolastici di questa disciplina in uso fino agli inizi dell’Età moderna,
come le Summulae Logicales di Pietro Ispano (sec. xm), essendosi oramai diffusa
la convinzione che la stessa questione degli universali appartenesse piuttosto
alla meta- fisica e alla gnoseologia che non alla L. propria- mente detta, la
quale rimane relativamente indiffe- rente alle eventuali risposte date a quel
problema. Tuttavia si veniva a porre un’altra distinzione, la quale in parte è
arrivata fino ai nostri giorni: quella per cui oggetto della L. sono fatti
mentali (Duns Scoto, ma anche Tommaso d’Aquino e d’altra parte alcuni
nominalisti), e quella per cui non sitrattapropriamente di atti mentali bensì
di forme strutturali, intenzionalmente di- rette alla costituzione di contenuti
semantici ma, come forme, indipendenti e da tali con- tenuti e dagli atti
mentali in cui tali contenuti vengono appresi (Buridano e i suoi continuatori
dei sec. XIV e Xv: Alberto di Sassonia, Nicola di Autre- court, Marsilio di
Inghen, ecc.). Sarà quest’ultima posizione che, ripresa nell’età contemporanea
da E. Husserl (e in modo meno chiaro da B. Russell e da L. Wittgenstein)
determinerà l’attuale rinascita della concezione della L. come formale pura.
544 Ma intanto si veniva a porre un altro problema. La L. è scienza o arte?
Cioè: è disciplina che, come, per es., le matematiche, espone rapporti
obiettivi sussistenti tra i suoi oggetti (per es., tra le premesse del sillogismo
e la sua conclusione), oppure una tecnica per ottenere discorsi corretti e
veri? In genere i Logici medievali ritengono che sia una cosa e l’altra; ed
anche come arte, sia in- sieme una precettistica (Logica docens) e un eser-
cizio attivo di discorso o discussione controllato da quei precetti (Logica
utens). La reazione umani- stica contro la Scolastica porta, nel campo della
L., ad un’esaltazione di quest’ultimo aspetto e ad una aspra polemica contro il
formalismo tradizionale (Coluccio Salutati, Lorenzo Valla, ecc.). Alla L.
«inglese » (cioè terministica), la quale spesso nel- l’insegnamento e
nell’esercizio scolastico si perdeva in sterili arguzie e cavilli disputatori
(come già l’antica eristica ai tempi di Platone e di Aristotele), si contrappone
una L.-retorica, per lo più di ispi- razione ciceroniana, come ricerca dei
mezzi di persuasione mediante il discorso e insieme disci- plina euristica che
guidi alla ricerca delle verità nel campo delle cose naturali ed umane
(storiche ed etiche). Questo movimento di riforma della L. culmina nel ramismo
(da Petrus Ramus, cioè Pierre de la Ramée). Accanto a questa corrente si deve
ricordare anche l’altra, di ispirazione invece peri- patetica, fiorita a Padova
nel sec. xvi e che ebbe i massimi esponenti nel Fracastoro e nello Zaba- rella,
i quali accentrarono le loro ricerche sul pro- blema, appena accennato nella
trattazione aristo- telica, dell’inferenza induttiva, delle sue difficoltà e
dei suoi presupposti. Anche in questi logici (sebbene, naturalmente, in forma
meno drastica che non nei retori umanisti) l’interesse per le strut- ture
formali del discorso deduttivo è fortemente diminuito a vantaggio di una
concezione pragma- tica e metodologica della scienza della logica. All’inizio
del Seicento Francesco Bacone porta, in un certo senso, a compimento questo
processo, tentando con il Novum Organon (il cui nome stesso è programmatico)
una radicale riforma della L. con- cepita esclusivamente come metodologia
scientifica generale. Scartata quasi per intero la tradizione L.
peripatetico-scolastica (quella che aveva il suo centro nella teoria formale
del sillogismo), anche nella L. umanistica (di Ramo, ecc.) scevera gli aspetti
più propriamente metodologici, allo scopo di farne uno «strumento» per guidare
e inqua- drare la ricerca scientifica. Con il che l’antica no- zione di « L.»
appare interamente mutata. Il disinteresse per il formalismo logico, e in sua
vece l'interesse per problemi gnoseologici, psicolo- gici e metodologici di una
Logica utens si accen- tuano nel corso dell'Età moderna: si che nel corso
LOGICA dei sec. XVII, XVII e XTX « L. » diviene il nome sco- lastico di una
serie eterogenea di insegnamenti filosofici, ed i manuali di questa «materia»
(di questo titolo) espongono varie e diverse cose: ac- canto alla sillogistica
tradizionale (spesso però ri- dotta a pochi cenni e comunque conservata più per
ragioni di tradizione che per un interesse reale), contengono annotazioni
metodologiche, schizzi di teoria della conoscenza, analisi di certi concetti
generali, ecc. Tipica a questo proposito è l’Arf de Penser dei maestri
portorealisti, nota anche col nome di Logique de Port Royal, che rimase a lungo
il testo più importante di questa disciplina e il modello più o meno fedelmente
seguito e compen- diato dagli altri trattati. Tuttavia la « rinascita » della
geometria euclidea, iniziatasi nel sec. xVI e proseguita trionfalmente (almeno
per quanto ne concerne l'aspetto logico- formale) fino quasi ai nostri giorni,
ripropone, insieme al modello del « rigore » euclideo, il problema di fissare
le strutture discorsive da cui quello stesso rigore è costituito e risulta.
Cartesio (Regulae ad directionem ingenii, Discours de la méthode) e poi Pascal
(Esprit de géométrie e Art de persuader) cominciano ad estrapolare in forma di
regole metodologiche alcuni aspetti di quel «rigore», riportandosi, pur in
polemica con la sillogistica tradizionale, sul medesimo terreno di indagine
delle forme strutturali di un linguaggio perfetto (qui, il linguaggio
matematico), e quindi ripro- ponendo alcuni problemi fondamentali di L. for-
male, quali il problema della definizione (nomi- nale e reale) e quello della
validità della deduzione da assiomi. Contemporaneamente Hobbes, muo- vendo egli
pure dall’euclidismo della nuova scienza (galileiana) della natura, compiva un
passo decisivo verso la concezione della L. formale pura moderna. Hobbes
infatti introduce la fecondissima idea del raziocinio come « calcolo logico +,
cioè come combi- nazione e trasformazione di simboli secondo certe regole le
quali già a Hobbes apparivano — ed in seguito appariranno sempre più —
convenzionali (comunque poi si abbia ad intendere tale « conven- zionalità +).
Appariva quindi nella storia del pensiero quel convenzionalismo che era
destinato in seguito a dimostrarsi il punto di vista più efficace per togliere
alla L. ogni presupposto dogmatico e meta- fisico, per liberarla dalle
contaminazioni psicolo- gistiche (che continueranno ad incepparne lo svi- luppo
fin quasi ai nostri giorni) e ad assestarla come disciplina della strutture
formali del discorso « rigo- roso » secondo determinati modelli
ideal-linguistici. Però il punto di vista convenzionalistico non era destinato
ad agire immediatamente sul pensiero logico moderno, che dai filosofi
precedentemente nominati prese piuttosto l’idea del calcolo logico LOGICA
basato sulla distinzione delle idee in semplici e complesse, e sull’analogia
(meramente formale) tra certe operazioni logiche e certe operazioni
aritmetiche. Rappresentando i termini con simboli generici (per es., lettere
dell’alfabeto: a, b, c, ..., x, Y, z; X, Y, Z; e simili) e le operazioni
logiche con simboli vari (di solito presi in prestito dall’aritmetica: +, X, =;
ecc.) si può tentare di svolgere una dot- trina matematica (formale) del
discorso. Leibniz fece parecchi tentativi in questa direzione, tutti però
infruttuosi e da lui stesso abbandonati; e tentativi del genere, analogamente
infruttuosi, fu- rono compiuti in seno alla scuola leibniziana, per esempio da
Lambert, Holland, Castillon. Ma più che in questi tentativi, forse
sopravvalutati dai logici matematici del nostro secolo, l’importanza di Leibniz
per la rinascita della L. dopo la crisi ini- ziatasi con l’Umanesimo, sta
nell’idea, ampiamente sviluppata dai suoi seguaci tedeschi del Settecento
(Lambert, Wolff, Crusius) di una «architettonica della ragione » (concepita non
più psicologicamente, ma in modo tale da preludere al punto di vista
«trascendentale » della filosofia posteriore) espli- cantesi nelle forme e
strutture del discorso; « archi- tettonica » che costituirà l’oggetto proprio
della Logica. L’eredità leibniziana è raccolta poi da Kant: il quale nella
Logik distingue nettamente quest’ul- tima disciplina sia dalla psicologia (con
la quale tendevano a confonderla gli Illuministî) sia dal- l’Ontologia (con la
quale tendevano a confonderia alcuni leibniziani — in particolare il Crusius),
affermandone il carattere di dottrina formale pura — non però del discorso,
bensì del pensiero: donde le possibilità di ricaduta in una specie di psicologismo
trascendentale, insite nel kantismo. Infatti, com'è noto, accanto alla L.
formale pura Kant pone una L. trascendentale come dottrina delle funzioni pure
della conoscenza; gli idealisti, in particolare Fichte e Hegel, accentuando
tale interpretazione psicolo- gistico-trascendentale risolveranno entrambe le
parti della L. kantiana nella parte trascendentale, inter- pretando poi
quest’ultima come una specie di «metafisica della mente» o del « Pensiero». Da
allora in vaste zone della filosofia contemporanea, tutte più o meno
influenzate dall’idealismo, il termine « L. » ha perduto interamente il suo
senso tradizionale per ritornare all’accezione illuministica di « filosofia del
pensare » in genere. La fine dell’Ot- tocento presenta appunto questo quadro.
La L. è intesa come una «teoria del pensiero » e quindi trattata con metodi
naturalistici dai positivisti (per es. Sigwart, Wundt, ecc.), con metodi
metafisico- trascendentali dagli idealisti. Edm. Husserl (Logische
Untersuchungen, I, 1900-1901) ha criticato a fondo questo punto di vista e,
riprendendo le idee di un logico boemo dimenticato, B. Bolzano (Wissen- 35 545
schaftslehre, 1838), ripropone l’idea della L. formale pura come dottrina delle
proposizioni in sè (nella loro pura apofanticità L., indipendenti quindi sia
dagli atti psicologici in cui vengono pensate, sia dalla realtà intorno a cui
vertono) e della pura deduzione di proposizioni da proposizioni (in sè). Già in
questa prima opera, ma più ancora nelle successive (particolarmente nella Formale
und trans- zendentale Logik, 1928), Husserl riprende l’idea della ragione come
« ragione formale », ossia pura architettonica del pensiero che si esplica
storica- mente nell’attività scientifica da una parte, e nella riflessione
logica dall’altra. La rinascita della L. formale pura, caratteristica
dell’epoca contemporanea, doveva però avvenire mediante una ripresa e uno
sviluppo, con idee più chiare e maggiore indipendenza da dottrine metafi-
siche, degli abortiti tentativi leibniziani per costruire la nostra disciplina
nella forma di calcolo simbolico. Quest'opera venne iniziata da un gruppo di
filosofi e matematici inglesi nella metà del secolo scorso. G. Bentham, W.
Hamilton, A. De Morgan fecero lo sforzo, storicamente decisivo, che doveva tra-
sformare la L. in disciplina matematica, superando l’ostacolo contro il quale
si erano arenati i tentativi di Leibniz: ostacolo costituito dal fatto che
nella L. aristotelica le considerazioni quantitative venivano introdotte solo
nei riguardi del soggetto della pro- posizione, ma non del predicato. Spetta
soprattutto allo Hamilton la cosidetta « quantificazione del predicato », ossia
l’analisi delle proposizioni secondo forme che introducono quantificatori (e
tutti», « qualche +) non solo per il soggetto, ma anche per il predicato: per
es., che interpreta una proposizione del tipo « tutti gli uomini sono mortali »
come « tutti gli uomini sono alcuni mortali ». In realtà non si trattava di una
mera «correzione» alla L. aristo- telica (nella quale l’omissione di quantificatori
per il predicato non era affatto casuale), bensì dell’intro- duzione di un
punto di vista nuovo, del punto di vista puramente esferssionale, per il quale
i concetti sono considerati solo come classi o collezioni di oggetti, e le
proposizioni vengono interpretate come inclusioni (o esclusioni) totali o
parziali di classi in (da) classi («tutti gli uomini sono mortali», «la classe
‘ uomo * è inclusa nella classe ‘mortale ’ 1). In tal modo l’Analitica
aristotelica (comprendente principalmente la teoria della conversione e quella
del sillogismo) veniva trasformata in — veniva sostituita da — una specie di
calcolo delle classi. Muovendo da questi studi, una serie di logici e
matematici inglesi (G. Boole, Jevons, Venn, Whi- tehead) e alcuni continentali (Schròder,
Poretsky, Couturat) crearono una disciplina più formalizzata e assai più
indipendente dalla L. tradizionale, l’Algebra della Logica: un calcolo
ambivalente 546 (interpretabile, cioè, come calcolo delle classi e come calcolo
delle proposizioni), del tutto simile, nella sua forma esteriore, all’Algebra
simbolica ordinaria, però con alcune peculiarità, per es., che in esso le
equazioni possono assumere solo i valori 1 («universo di discorso » oppure «
vero +) o 0 («classe vuota» oppure « falso +»); che a-a=aea+a=a;ecc. Sarà
quest'Algebra della L. a fornire i concetti-base e molti materiali dottrinari
alla Logica matematica, creata tra la fine del secolo scorso e gli inizi del
nostro da G. Frege, G. Peano e B. Russell, e cul- minante nei Principia Mathematica
di B. Russell e A. N. Whitehead, pubblicati tra il 1900 e il 1913. In
quest'opera la L. veniva ad essere costituita di due discipline fondamentali:
il calcolo proposi- zionale, secondo le operazioni principali della ne-
gazione, disgiunzione o affermazione alternativa, congiunzione o affermazione
simultanea, implica- zione materiale; e il calcolo delle funzioni proposi-
zionali (enunciati contenenti variabili); quest’ultimo dà origine alla
considerazione di enunciati generali ed enunciati particolari o esistenziali,
mediante gli operatori « per ogni x» ed «esiste almeno un x tale che» (risp.
‘(x) ”. e ‘(Hx) ’.). Da quest’ultima dottrina deriva quella dei simboli
incompleti: de- scrizioni (tipo « il re di Francia +) e classi. Il calcolo
delle classi quindi non è più una dottrina fondamen- tale della L., essendo
derivabile da quello delle funzioni proposizionali: tuttavia, data la sua
impor- tanza, molti logici contemporanei ne fanno ancora un capitolo a sè (e lo
stesso si dica di quello delle relazioni). In seguito il Wittgenstein, nel
7ractasus, enuncerà una specie di seconda tesi estensionale per le
proposizioni: distinguendo proposizioni ato- miche (cioè semplici) da
molecolari (cioè complesse) affermerà che queste ultime dipendono tutte, per la
loro verità o falsità, dalla verità o falsità delle componenti atomiche più le
regole semantiche delle operazioni di composizione (per es., l’enunciato
«poqg»è vero se, e solo se, almeno p o qè vero): donde un assetto del calcolo
proposizionale sulla base di certi diagrammi logici meramente combina- tori.
Partendo da questi, nel periodo tra le due guerre mondiali, alcuni logici,
principalmente polacchi, tenteranno di elaborare delle Logiche polivalenti,
nelle quali gli enunciati oltre 1 (« vero +) e 0 (« falso 1) possono assumere
altri valori intermedi. Mancava ancora nei Principia, esclusivamente rivolti
alla fondazione dell’Aritmetica dei numeri naturali, una trattazione della
Logica modale, ossia un calcolo di valori modali come « possibile », «
necessario », ecc., la quale verrà tentata in seguito da logici come il Lewis e
il von Wright. La L. matematica aveva soprattutto due scopi: 1° di costituire
la disciplina matematica fondamen- tale, di cui tutte le altre matematiche,
secondo la LOGICA tesi /ogicistica, sostenuta appunto da Frege e da Russell,
dovrebbero costituire dei rami, più o meno complessi, ma tuttavia pur sempre
con quel mede- simo materiale concettuale e ad esso riducibili; e 2° di
costituire (secondo il programma formalistico del Peano, sviluppato poi da D.
Hilbert) metodi di assetto rigoroso e di controllo logico delle disci- pline
matematiche vere e proprie. La L. diviene così uno strumento di analisi
filosofica. Per opera di Russell e Wittgenstein essa viene a costituire una
specie di linguaggio ideale o perfetto, o meglio, lo schema generale (perchè
meramente simbo- lico) di un tale linguaggio, secondo il quale schema si
dovrebbero poi costruire linguaggi, o frammenti di linguaggi, scientifici, in
cui dovrebbero venir tradotti, e così analizzati secondo le strutture logiche
di quel linguaggio, gli enunciati delle singole discipline sotto esame. Sotto
questa luce, la L. simbolica russelliana non è più strettamente legata alle
matematiche come tali: è la L. tout court, uno strumento di analisi scientifica
in generale. E fu applicata anche all'analisi filosofica dallo stesso Russell,
da Wittgenstein, da Wisdom, e in seguito (con un deciso abbandono dei
presupposti metafisici dell’atomismo logico russelliano) dagli empiristi
logici. Ma il programma russelliano, accentrato nella nozione di linguaggio
ideale, venne sottoposto ad aspre critiche, principalmente, ma non esclusiva-
mente, da parte degli « analisti dell’uso » di Oxford. D'altra parte in altri
settori (per es., nella scuola tedesca discendente da Hilbert e da Scholze, e
nella scuola polacca di Lukasiewicz e Tarski) gli interessi matematici e
l'interesse per la L. stessa come disciplina strettamente matematica, rimasero
pre- valenti. Di qui uno scindersi (per ora soltanto par- ziale) della L. in
una serie di discipline sempre più formalizzate e matematizzate, con i
problemi, assai complessi, inerenti alla formalizzazione di una di- sciplina
matematica fondamentale (la metamate- matica), per la quale non si può usare di
un altro linguaggio formalizzante senza cadere in un circolo: donde i problemi,
affrontati da Gédel, da Hermes, da Tarski e in parte anche da Carnap. Invece in
seno alla ex-scuola di Vienna, ora scuola di Chicago, e sotto l’influenza di
altre correnti (neopositivismo inglese, pragmatismo americano) la logica si è
venuta orientando, per opera soprattutto di Morris, di Carnap, di Hempel, in
senso più analitico-filo- sofico, tendendo a diventare parte di una disci-
plina assai più ampia, la semiotica o teoria generale dei segni (di cui la
teoria del linguaggio è la parte più interessante), creata da Ch. W. Morris
sotto la doppia spinta della sintassi logica carnapiana e della Logica
deweyana. Abbandonato ogni presupposto coscienzialistico o mentalistico e ogni
velleità me- LOGOS tafisica, la scienza del pensiero diviene scienza del
linguaggio, ossia di un tipico e fondamentale com- portamento umano. L’analisi
logica diviene analisi linguistica: ma quella che la tradizione considerava
come dimensione « L. +» è soltanto una dimensione del linguaggio, o meglio due
(come distinsero Morris e Carnap, con una distinzione largamente accettata, ma
oggi anche assai controversa): la dimensione sintattica, per cui i segni che
compongono il discorso {il linguaggio) si connettono tra loro secondo regole di
formazione e trasformazione (derivazione) rela- tive alla sola forma del
discorso stesso; e la dimen- sione semantica, per cui il discorso, e gli
enunciati che lo compongono, può essere vero o falso, cioè porta su fatti ed
eventi, e di conseguenza — conse- guenza però che molti filosofi, per es., i
fenomenisti, contesterebbero — le parole che lo compongono portano su cose e
qualità. Questi sono i due aspetti fondamentali, L. matematica e L. formale
analitica, in cui si divide oggi la L., divisione tuttavia che non significa
separazione in due diverse, e tanto meno antitetiche, discipline, bensì due
diverse direzioni della ricerca logica, mosse da due tipi diversi di inte-
resse teoretico. G. P. LOGICI, PRINCIPI. V. CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI;
FONDAMENTO; IDENTITÀ, PRINCIPIO DI; TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL. LOGICISMO
(ingl. Logicism; franc. Logicisme; ted. Logicismus). Con questo nome si usa
designare una corrente di pensiero logico-matematico che tra la fine del secolo
scorso e gli inizi del nostro ebbe i primi e massimi rappresentanti in R.
Dedekind, G. Frege e B. Russell; e nel sec. xx ebbe molti seguaci, soprattutto
(ma non esclusivamente) in seno al cosidetto «Circolo di Vienna + (Carnap). I
pensatori di questo indirizzo sostengono che la matematica (pura) è un ramo
della Logica, ossia che tutte le proposizioni delle matematiche pure (in
particolare dell’Aritmetica, e quindi dell’Analisi) si possono enunciare con il
solo vocabolario e la sola sintassi della Logica matematica, la quale diviene
così la disciplina matematica per eccellenza. Con questa convinzione Dedekind,
Frege e Russell avevano condotte le loro celebri analisi del con- cetto di «
numero » (intero) appunto per definirlo soltanto mediante nozioni (simboli)
della Logica matematica. Al L. si oppongono il formalismo e l’intuizionismo (v.
MATEMATICA). G. P. LOGICO (ingl. Logica!; franc. Logique; te- desco Logisch).
1. Lo stesso che razionale. 2. Ciò che concerne un determinato tipo di logica.
In questo senso si chiama oggi « verità lo- gica » la verità che consiste
nell’enunciazione di una tautologia, conformemente al concetto della logica
come studio delle tautologie (v. LoGICA; RAGIONE). 547 LOGISTICA (ingl.
Logistic; franc. Logistique; ted. Logistik). Nell’Antichità (per es., nei
frammenti del pitagorico Archita di Taranto) il termine « L. »era a volte usato
per indicare l’aritmetica pura. Leibniz usò il termine come sinonimo di «
calcolo logico » o «logica matematica »: e con questo significato di «logica
simbolica +» 0 « matematica » venne proposto da Couturat e Lalande al Congresso
Internazionale di Filosofia di Parigi nel 1904. Ma, dopo aver avuto una certa
fortuna, il termine « L. » è oggi raramente adoperato. 0. P. LOGISTICO,
SISTEMA. V. SisreMma Lo- GISTICO. LOGOS (gr. x6y0c; lat. Verbum). La ragione in
quanto 1° sostanza o causa del mondo; 2° per- sona divina. 1° La dottrina del
L. come sostanza o causa del mondo è stata per la prima volta difesa da
Eraclito. « Gli uomini sono ottusi nei confronti dell’essere del L., dice
Eraclito, sia prima che dopo averne sentito parlare; e sembrano inesperti,
sebbene tutto avvenga secondo il L.» (Fr. 1, Diels). Il L. è concepito da
Eraclito come la legge stessa del mondo: « Tutte le leggi umane si alimentano
di una sola legge divina: perchè questa domina tutto ciò che vuole e basta a
tutto e prevale su tutto + (Fr. 114, Diels). Questa concezione fu fatta propria
dagli Stoici, i quali videro nella ragione il « principio attivo » del mondo,
che anima, ordina e guida il principio passivo di esso, che è la materia. «Il
principio attivo, dicevano, è il L. che è nella materia cioè Dio: esso è eterno
e attraverso la materia è l’artefice di ogni cosa » (Diog. L., VII, 134). Il L.
così inteso, cioè come principio formativo del mondo, è identificato dagli Stoici
col destino (/bid., VII, 149). Nello stesso senso Plotino afferma: « Il L. che
agisce nella materia è un principio attivo naturale: non è pensiero nè visione
ma potenza capace di modificare la materia, potenza che non conosce ma agisce
come il sigillo che imprime la sua forma o come l’oggetto che riproduce il suo
riflesso nell’acqua; come il cerchio viene dal centro, così la potenza
vegetativa o generatrice riceve d’altronde la sua potenza produttiva cioè dalla
parte principale dell’anima, la quale gliela comunica modificando l’anima
generatrice che risiede nel tutto » (Enn., II, 3, 17). In tal senso il L. è lo
stesso Intelletto divino in quanto ordinatore del mondo: « Dall’intelligenza
emana il L. e ne emana sempre, fin tanto che l’Intelletto è presente in tutti
gli esseri » (Ibid., III, 2, 2). Questa concezione è servita da modello a tutte
le forme del panteismo moderno (v. Dio). 2° La dottrina del L. come ipostasi o
persona divina trova la sua prima formulazione per opera di Filone di
Alessandria. In questa dottrina, il L. 548 è un ente intermedio tra Dio e il
mondo, il tra- mite della creazione divina. Dice Filone: « L'ombra di Dio è il
suo L., servendosi del quale come di strumento, Dio creò il mondo. Quest’ombra,
è quasi l’immagine derivata e il modello delle altre cose. Giacchè come Dio è
il modello di quella sua immagine o ombra che è il L., così il L. è il modello
delle altre cose » (Leg. A//., IHI, 31). Dal cristianesimo, il L. viene
identificato col Cristo. Il prologo del- l’Evangelo di San Giovanni, accanto
alle funzioni che già Filone attribuiva al L., aggiunge la deter- minazione
propriamente cristiana: « Il L. si è fatto carne ed ha abitato tra noi»
(Joann., I, 14). Nella sua elaborazione della teologia cristiana, i Padri della
chiesa insistettero sui due punti seguenti: 1° sulla perfetta parità del
Logos-Figlio col Dio- Padre; 2° sulla partecipazione del genere umano al L.
stesso in quanto ragione: «Noi imparammo, dice ad es. Giustino, che Cristo è il
primogenito di Dio e che è il L., del quale partecipa tutto il genere umano»
(Apol. Prima, 46). Contro gli Gnostici seguaci di Valentino, per i quali il L.
è l’ultimo degli Eoni, che, per essere più vicino al mondo, è quello destinato
a formarlo, Ireneo afferma l’uguaglianza di essenza e di dignità tra Dio padre
e il L., come di entrambi e dello Spirito Santo (Adv. haeres., II, 13, 8). Su
questi concetti dovevano fondarsi le formulazioni dogmatiche del sec. Iv,
specialmente le decisioni del Concilio di Nicea (325) intorno ai due dogmi
fondamentali del cristianesimo, la Trinità e l’Incarnazione. Ma nel frattempo
la nozione di L. continuò ad oscillare tra l’interpre- tazione che esige la
perfetta parità del L. con Dio e quella che invece stabilisce una certa
differenza gerarchica fra le due ipostasi. La dottrina di Origene, che fu il
primo grande sistema di filosofia cristiana (m secolo), inclina piuttosto verso
la seconda inter- pretazione. Origene afferma che si può dire del L., ma non di
Dio, che è l’essere degli esseri, la sostanza delle sostanze, l’idea delle
idee: Dio è al di là di tutte queste cose (De Princ., VI, 64). Pertanto, il L.
è coeterno con il Padre, il quale non sarebbe tale se non generasse il Figlio,
ma non è eterno nello stesso senso. Dio è la vita e il Figlio riceve la vita
dal Padre. Il Padre è Iddio il figlio è Dio (In Joann., II, 1-2). Come già si è
detto, la Chiesa, nelle sue assisi conciliari, si pronunciò contro questa
inter- pretazione, che rimase l’appannaggio di tentativi eretici, più volte
rinnovati nel corso della sua storia. La dottrina del L. è rimasta una dottrina
religiosa. I filosofi hanno fatto ricorso ad essa solo quando hanno voluto dare
una veste religiosa alla loro dottrina. Così ha fatto Fichte nella seconda fase
del suo pensiero. Nella Introduzione alla vita beata (1806) Fichte, ricorrendo
al prologo dell’Evangelo di San Giovanni, vuol mostrare l’accordo del suo
LOQUACITÀ idealismo con il Cristianesimo; e pertanto riconosce nel L. ciò che
egli chiama l’Esistenza o la Rivela- zione di Dio (al di là della quale rimane
l’Essere di Dio): cioè il Sapere, l’Io, l’Immagine, di cui la vita divina è a
fondamento (Werke, V, pag. 475). LOQUACITÀ (gr. dSoreoxta; lat. Loquacitas;
ingl. Loquacity; franc. Loquacité; ted. Redseligkeit). Secondo Aristotele, uno
dei caratteri delle persone anziane che sono più interessate al passato che al
futuro (che ormai promette poco per loro) e perciò godono di rievocarlo
parlando (Rer., II, 13, 1390 a 6). LOTTA PER LA VITA. V. SELEZIONE NA- TURALE.
LUCE (lat. Lux; ingl. Ligh:; franc. Lumiere; ted. Lich). Una tradizione
filosofica, che pro- babilmente ha la sua lontana origine nella reli- gione
persiana che adorò in Mitra lo « Spirito della L.» (cfr. Cumont, Oriental
Religions in Roman Paganism; trad. ingl., pag. 155), fa della L. una realtà privilegiata
di natura incorporea, tramite della comunicazione fra le regioni superiori del
mondo e l’uomo. Le caratteristiche salienti di questa dottrina sono le
seguenti: 1° la L. è una realtà superiore privilegiata, che è Dio stesso o è da
Dio; 2° la L. è incorporea e fa da tramite tra mondo incorporeo e mondo
corporeo; 3° la L. è la forma generale (cioè l’essenza o la natura) delle cose
cor- poree. Le prime due tesi sono di carattere religioso e di schietta
derivazione orientale. La terza è pro- priamente filosofica e rimane
caratteristica del- l’agostinismo medievale. Nella filosofia occidentale, la
metafisica della luce è introdotta da Parmenide. « Poichè tutte le cose si
dicono luce e notte e poichè luce e notte sono pre- senti a questa o a quella
cosa, secondo le loro possibilità, il tutto è pieno di L. e insieme di invi-
sibile tenebra e L. e tenebra sono eguali perchè nessuna prevale sull’altra »
(Fr. 9). La sostanzia- lizzazione della L. si affaccia frequentemente nelle
Enneadi di Plotino dove talora non è facile distin- guere la L. come metafora
dalla L. come sostanza (per es., Enn., V, 3, 9; IV, 3, 17). Si affaccia con
tutta chiarezza nelle speculazioni degli Gnostici che sono di diretta
derivazione manichea: « Prima che l’uni- verso visibile avesse origine
sussistevano due supremi princìpi: l’uno buono, l’altro perverso. La dimora del
primo, del Padre della grandezza, era nella regione della luce. Egli si
moltiplicava in cinque ipostasi: l’Intelletto, la Ragione, il Pensiero, la
Riflessione, la Volontà» (BuoNAIUTI, Frammenti gnostici, 1923, pag. 55). In uno
dei libri della Kabala, il Zohar, la L. viene intesa come la sostanza primitiva
che appare talvolta come cielo; e pertanto come l’elemento nel quale gli altri
si dissolveranno alla fine dei tempi (cfr. SfRouva, La XKabbale, LUME Parigi,
1957, pag. 346 sgg.). Questa dottrina passò nella filosofia ebraica del Medio
Evo e da essa nella scolastica cristiana. In questa, essa fu caratteristica
dell'indirizzo agostiniano, difeso specialmente dai Francescani. Nel sec. xm,
Roberto Grossatesta affermava che tutti i corpi hanno una forma comune, la
quale si unisce alla materia prima, anteriormente alla specificazione di essa
nei vari elementi. Questa forma prima è la luce. « La L., egli dice, si
diffonde da sè in tutte le direzioni, in modo che da un punto luminoso viene
immediatamente generata una sfera di L. grande quanto si vuole, a meno che non
le faccia ostacolo qualche corpo opaco. Dall'altro lato la corporeità è ciò che
ha per conseguenza necessaria l'estensione della materia nelle tre dimensioni »
(De inchoatione formarum, ed. Baur, 51-52). Ro- berto identificava così la
diffusione istantanea della L. in tutte le direzioni con la tridimensionalità
dello spazio, e quindi la L. con lo spazio. Quasi negli stessi termini
Bonaventura da Bagnorea affermava che la L. non è un corpo, ma la forma di
tutti i corpi. «La L. è la forma sostanziale di ogni corpo naturale». Tutti i
corpi ne partecipano più o meno e a seconda che ne partecipano hanno maggiore o
minore dignità e valore nella gerarchia degli esseri. Essa è il principio della
formazione generale dei corpi; la loro formazione speciale è dovuta al so-
praggiungere di altre forme, elementari o miste (In Sent., II, d. 13, d. 2, q.
1-2). Nella seconda metà dello stesso xm secolo la Perspectiva di Witelo espone
idee molto simili. « L'azione divina si esplica nel mondo per il tramite della
luce. Le sostanze inferiori ricevono da quelle superiori la L. derivata dalla
fonte della divina bontà; in generale l’essere di ogni cosa deriva dall’essere
divino, ogni intellig- gibilità deriva dall’intelletto divino e ogni vitalità
dalla vita divina. Di tutte queste influenze il principio il mezzo e il fine è
la L. divina dalla quale, per la quale e alla quale tutte le cose sono disposte»
(Perspectiva, ed. Bacumker, pag. 127-28). L’ottica che studia le leggi della
diffusione della L. diventa così l’intera fisica in quanto l’intero mondo
fisico è determinato dalla diffusione della L. (/bid., pa- gina 131). Forse
l’ultima manifestazione di questa fisica o metafisica della L. si può vedere
nel progetto di Cartesio di descrivere il mondo dal punto di vista della luce.
«Come i pittori non potendo rap- presentare nel quadro tutte le diverse facce
di un corpo ne scelgono una delle principali, che mettono verso la L., e
situando in ombra le altre le fanno apparire solo quel tanto che si può
vederle; così temendo di non poter mettere nel mio discorso [cioè nel
progettato libro sul Mondo che poi non pubblicò] tutto ciò che avevo nel
pensiero, progettai di esporre molto ampiamente soltanto ciò che pensavo della
L.; poi, in questa occasione, 549 di aggiungere qualcosa sul sole e le stelle
fisse perchè essa deriva quasi tutta da queste fonti; sui cieli perchè la
trasmettono; sui pianeti, sulle comete e la terra perchè la riflettono; in
particolare su tutti i corpi che sono sulla terra perchè sono o colorati o
trasparenti o luminosi; e infine sull'uomo perchè ne è lo spettatore »
(Discours, V). LULLIANA, ARTE (lat. Ars /ulliana; in- glese Lullic Art; franc.
Art lullien; ted. Lullische Kunst). Propriamente l’ars magna di Raimondo Lullo
(1235-1315) cioè la scienza universale che insegna a combinare i termini per la
scoperta sin- tetica dei princìpi delle scienze. A differenza della logica
aristotelica, l’ars magna vuol essere un pro- cedimento inventivo che non si
ferma a risolvere le verità conosciute ma procede a scoprire le nuove. La
nozione di quest’arte che trovò nel Rinasci- mento seguaci entusiasti, tra i
quali Agrippa, Bo- villo e Bruno, fu ripresa da Leibniz che la chiamò
Caratteristica generale (v. CARATTERISTICA). LUME (gr. péyyos; lat. Lumen;
ingl. Light; franc. Lumiére; ted. Licht). Il criterio direttivo del pensiero e
della condotta dell’uomo, in quanto paragonato a un L. proveniente dall’alto o
dal- l'esterno. Aristotele paragonava alla luce, che fa venire all’atto i
colori che nell’oscurità sono soltanto in potenza, l’azione dell’intelletto
attivo sull’animo umano (De An., III, 5, 430 a 15). Gli Stoici parlavano della
facoltà sensibile e della rappresentazione catalettica come di un « lume della
natura +. « Come lume di natura per il riconoscimento della verità, essi
dicevano, ci è stata data la facoltà sensibile e la rappresentazione che
attraverso di essa si genera » (Sesto E., Adv. Math., VII, 259). E Cicerone
diceva: «La natura ci ha dato minuscole fiammelle e noi, ben presto guastati da
cattivi costumi e da false opinioni, le spegniamo in modo da far scomparire
totalmente il L. della natura» (7usc., III, 1, 2). Plotino a sua volta parla del
Bene come della « luce di cui l’intelletto è illuminato » (Enn., VI, 7, 24). Ma
solamente in Sant'Agostino la nozione di L. divenne fondamentale e solo
attraverso l’opera di lui si diffuse e rimase viva nella tradizione occiden-
tale. Sant'Agostino riconosce agli Stoici il merito di aver visto in Dio « il
L. delle menti » (De Civ. Dei, VIII, 7). Questo L. è la condizione di ogni
conoscenza vera e di ogni comunicazione di verità. La luce della verità che,
partendo da Dio, illumina diretta- mente l’anima e la guida, è il concetto
centrale della filosofia agostiniana. « Anche gli ignoranti, dice
Sant'Agostino, quando sono bene interrogati ri- spondono correttamente intorno
ad alcune disci- pline perchè è presente ad essi, nella misura in cui lo
possono ricevere, il L. della ragione eterna, nel quale essi vedono le verità
immutabili » (Retractiones, I, 4, 4). Questo significa che il funzionamento na-
550 turale dell’intelletto umano esige la presenza della luce divina e che
pertanto la conoscenza della verità è, per l’uomo, la visione della verità
stessa in Dio, resa possibile, ogni volta, dalla diretta illuminazione divina.
Ai primordi della Scolastica questa dottrina veniva riprodotta da Scoto
Eriugena (De divis. nat., II, 23). Ma nel corso ulteriore della Scolastica essa
doveva diventare uno dei massimi punti di dissenso tra la scolastica
agostiniana e la scolastica aristotelica. Tale dissenso si può vedere
tipicamente espresso nelle posizioni di San Bonaventura e di San Tommaso. San
Bonaventura si rifà alle parole di Agostino «il quale a chiare lettere e con
ragioni dimostra che la mente, nella sua conoscenza certa, dev'essere regolata
da regole immutabili ed eterne, non attraverso una sua disposizione (habitus)
ma direttamente da queste regole stesse, che sono al di sopra di essa, nella
Verità eterna » (De Scientia Christi, q. 4). San Tommaso, dal suo canto,
ammette che «tutto ciò che si sa con certezza, deriva del L. della ragione che
per opera divina è innato interiormente all’uomo » (De Ver., q. 11, a. 1, ad
13). Ma interpreta aristotelicamente questo L. come la conoscenza innata dei
primi princìpi indimostrabili «che si conoscono per il L. dell’intelletto
agente » (Contra Gent., III, 46). In altri termini, la conoscenza umana della
verità non è visione in Dio o illumina- zione diretta da parte di Dio: ma l’uso
di una « forma » che Dio ha comunicato alla mente umana e che costituisce
pertanto il «L. naturale » di essa (S. 7h., I, g.106, a. 1). San Tommaso
distingue da questo L. naturale, il L. di gloria (/umen gloriae) che rende «
deiforme » la creatura razionale cioè la rende capace di vedere l’essenza
divina e nega che il L. di gloria possa essere una disposizione naturale
dell’uomo (/bid., I, q. 12, a. 5); e che possa esserlo il lumen gratiae cioè la
grazia giustificante (/bid., I, q.106, a. 1). Il significato agostiniano del
concetto di L. cioè quello per il quale significa l'illuminazione continua da
parte di Dio si conserva nelle dottrine che, nel mondo moderno e contemporaneo,
si rifanno all’agostinismo. Sono le dottrine per le quali la conoscenza è una «
visione in Dio». Tale essa era per Malebranche (Recherche de la vérité, III, 2,
6), per Rosmini (Nuovo Saggio, $ 396) e per Gioberti (Introd. allo studio della
fil., II, pag. 175). Dal- l’altro lato, cioè lungo la linea della seconda in-
terpretazione, il L. naturale finisce per perdere ogni connessione teologica.
Il titolo che Cartesio dette a un dialogo lasciato incompiuto, che doveva
riassumere la sua filosofia, dimostra il modo in cui egli intendeva la nozione
in esame: « Ricerca della verità con il L. naturale che, da sè, e senza il
soccorso della religione e della filosofia, deter- mina le opinioni che deve
avere un onest’uomo LUOGHI su tutte le cose che possono occupare il suo pen-
siero e penetra fino nei segreti delle scienze più curiose ». Il L. naturale,
inteso così, è quel « buon senso o ragione » che nei primi righi del Discorso
del metodo è detta «la cosa del mondo meglio distribuita »; e di cui nei
Principi di filosofia (I, 30) si dice: « La facoltà di conoscere che ci è stata
data e che noi chiamiamo L. naturale non percepisce che oggetti veri, in quanto
li appercepisce cioè in quanto li conosce chiaramente e distintamente ».
Leibniz a sua volta afferma che «il L. naturale suppone una conoscenza distinta
» (Nouv. Ess., I, 1, 21) e Cristiano Wolff intendeva per «L. del- l’anima » la
«chiarezza delle percezioni » (Psychol. empirica, $ 35). In questi usi,
l’espressione non ha più nulla del significato tradizionale, cioè di una luce
che venga dal di fuori o dall’alto a investire la mente umana e a guidarla. Il
L. naturale è qui soltanto la chiarezza del pensiero umano. Leibniz dice
parlando della massima « Bisogna seguire la gioia ed evitare la tristezza »
che: « Si tratta di un principio innato, ma che non fa parte del L. na- turale,
giacchè non lo si conosce affatto in modo luminoso » (Nouv. Ess., I, 2, 1). Il
significato che l’espressione «i L.» assunse nel periodo illumini- stico è
proprio questo chiarito da Leibniz. I L. sono la chiarezza della critica
razionale portata in tutti i campi possibili del sapere e assunta come cri-
terio direttivo del pensiero e della condotta del- l’uomo. LUOGHI (gr. r6ror;
lat. Loci; ingl. Topics; franc. Lieux; ted. Òrter). Secondo Aristotele, sono
gli oggetti propri dei ragionamenti dialettici e re- torici cioè quegli «
argomenti che sono comuni all’etica, alla politica, alla fisica e a molte altre
discipline diverse, come, per es., l'argomento del più e del meno» (Rer., I, 2,
1358 a 10). Questi sarebbero i L. comuni. Ma vi sono anche, secondo Aristotele,
L. speciali 0 propri cioè argomenti co- stituiti da proposizioni che
appartengono, per es., alla fisica ma su cui è impossibile fondare propo-
sizioni concernenti l’etica o reciprocamente. I L. co- muni non hanno oggetto
specifico perciò non ac- crescono la conoscenza delle cose; i L. propri invece,
specialmente se utilizzano proposizioni op- portunamente scelte, contribuiscono
alla conoscenza delle scienze speciali (Res., I, 2, i358a 21). I retori latini
sottolinearono l’importanza che la ricerca degli argomenti e specialmente degli
argo- menti (o L.) comuni — che non accrescono il sapere ma sono strumenti di
persuasione — ha per l’arte oratoria (CICERONE, Top., 2, 7; De orat., II, 36,
152; QuinTILIANO, /nst., V, 10, 20). E at- traverso le opere logiche di Boezio
(De diff. to- picis, I; P.L., 64°, col. 1174) la nozione passò nella logica
medievale. Pietro Ispano definisce il LUOGO L. come «la sede di un argomento o
ciò da cui si trae un argomento conveniente alla questione pro- posta »
(Summul. Log., 5.06). Come si è detto, la parte della logica che studia i L. è
la 7opica. Cicerone la interpretò come la parte inventiva della logica stessa
cioè come quella che escogita gli argomenti utili a convincere, più che limitarsi
a giudicarli dal punto di vista della loro validità. E rimproverò agli Stoici
di aver coltivata la sola dialettica e di aver trascurato la Topica (Top., 2,
6). Ma in realtà non c’è cenno in Aristotele della capacità inventiva della
Topica: la quale è piuttosto intesa come una ricerca diretta a ricondurre sotto
un numero ristretto di capi (che sono appunto i L.) gli argomenti che ricorrono
in più scienze o in più parti di una stessa scienza. Comunque, anche la
credenza nel carattere inven- tivo della Topica passò nella tradizione
(attraverso Boezio, De diff. top., 1; P. L., 64°, col. 1173); ed anzi, quando
si cominciò a riconoscere il carattere improduttivo della logica aristotelica,
le si con- trappose l’importanza della Topica come arte del- l'invenzione. Così
fece Pietro Ramo nelle sue Dialecticae Institutiones (1543); e così fece Vico
che nel De antiquissima Italorum Sapientia (1710) con- siderò la Topica come
l’arte propria dell'ingegno che è la facoltà dell’invenzione. Ancora nella Lo-
gica Hamburgensis (1638) di Jungius c'è un’am- plissima trattazione dei L.
logici che è però con- tenuta sotto il titolo della Dialettica (libro V). Ma la
Logica di Portoreale (1662) affermava già la scarsa utilità dello studio dei
Topici: « Per formare gli uomini in un’eloquenza giudiziosa e solida, scrisse
Arnauld, sarebbe utile insegnare loro a ta- cere più che a parlare, cioè a
sopprimere e ad eliminare i pensieri bassi, comuni e falsi, piuttosto che a
produrre, come fanno, un ammasso confuso di ragionamenti buoni e cattivi dei
quali si riem- piono libri e discorsi » (Logigue, cap. 17). Lo studio dei L. di
questo genere serve perciò soltanto a riconoscerli ed a evitarli. La Logica di
Portoreale ne enumerava tre specie: quelli grammaticali, quelli logici e quelli
metafisici (Zbid., cap. 18). In seguito, lo studio dei L. ha cessato di essere
parte integrante della logica. Kant generalizza il concetto di luogo logico
intendendo per esso «ogni concetto, ogni titolo sotto il quale si raccolgono
molte cono- scenze » e parla di una «Topica trascendentale » che ha per oggetto
«la determinazione del posto che spetta nella sensibilità o nel concetto puro a
ciascun concetto, secondo la diversità del suo uso » (Cri. R. Pura, Anal. dei
princ., Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). In questo 551
senso la Topica coincide con la « Dottrina degli elementi» della stessa Critica
della Ragion Pura. LUOGO (gr. r6rog; lat. Locus; ingl. Place; franc. Lieu; ted. Ort). La situazione di un corpo nello spazio. Vi sono
due dottrine del L.: 1° quella aristotelica per la quale il L. è il limite che
circonda il corpo ed è quindi una realtà per suo conto; 2° quella moderna, per
la quale il L. è un certo rapporto di un corpo con gli altri. 1° Secondo
Aristotele, il L. è «il primo limite immobile che abbraccia un corpo» (Fis.,
IV, 4, 212a 20): o in altri termini è ciò che abbraccia o circonda
immediatamente il corpo. In questo senso si dice che un corpo è nell’aria
perchè l’aria circonda il corpo ed è ad immediato contatto con esso. Questa
concezione rimane lungo tutta la filo- sofia medievale ed è ripetuta
sostanzialmente anche dai critici della fisica aristotelica, per es., da Ockham
(Summulae in libros Phys., IV, 20; Quodl., I, 4). In base a questa concezione
esistono «luoghi na- turali », che sono quelli nei quali un corpo natural-
mente sta o a cui ritorna quando ne è allontanato: « Una cosa, dice Aristotele,
si muove o natural- mente o non naturalmente e i due movimenti sono determinati
dai luoghi propri e dai luoghi estranei. Un L. nel quale una cosa rimane o
verso la quale si muove non per sua natura, dev'essere il L. na- turale di
qualche altra cosa, come l’esperienza dimostra » (De Cael., I, 7, 276 a 11).
L'intera fisica aristotelica poggia su questo teorema (v. FISICA). 2° La teoria
aristotelica dei luoghi veniva sot- toposta a una critica decisiva da Galilei
nei Dialoghi dei massimi sistemi (1632, Giornata seconda). Car- tesio
esprimeva, qualche anno più tardi, con tutta chiarezza, il concetto di L. che
emergeva dalle nuove impostazioni della scienza. « Le parole ‘ L. * e ‘spazio
’, egli diceva, non significano nulla che differisca veramente dai corpi che
diciamo essere in qualche L. e indicano solamente la loro grandezza e figura e
come essi sono situati fra gli altri corpi. Bisogna infatti, per determinare
questa situazione, riferirsi ad altri corpi che consideriamo immobili; ma
potendo tali corpi esser diversi, possiamo dire che una stessa cosa, nello
stesso tempo, muta e non muta di L.» (Princ. Phil., II, 13). E Cartesio porta qui
l’esempio dell’uomo che è seduto in una barca che si allontana dalla riva: il
L. di questo uomo non muta rispetto alla barca ma muta ri- spetto alla riva.
Con queste osservazioni, che espri- mono la relatività del movimento
(relatività gali leiana), era raggiunto il concetto moderno di L. come
riferimento di un corpo ad un altro corpo assunto come sistema di riferimento.
M MACHIAVELLISMO (ingl. Machiavellianism; franc. Machiavélisme; ted.
Machiavelismus). La dottrina politica di Machiavelli o il princìpio nel quale
essa viene convenzionalmente riassunta. La dottrina politica di Machiavelli ha
esplici- tamente lo scopo di additare la via attraverso la quale le comunità
politiche in generale (ed in parti- colare quella italiana) possono rinnovarsi
conservan- dosi o conservarsi rinnovandosi. Tale via è il ritorno ai principi,
conformemente alla concezione che il Rinascimento (v.) ha del rinnovamento
dell’uomo in ogni campo. Il ritorno ai princìpi di una comunità politica
suppone due condizioni e cioè: 1° che le origini storiche di una comunità
vengano chiara- mente riconosciute, il che può essere fatto solo da una
indagine storica obbiettiva; 2° che siano riconosciute nella loro verità
effettuale le condizioni a partire dalle quali o attraverso le quali il ritorno
dev'essere realizzato. L’oggettività storiografica e il realismo politico
costituiscono così i due capisaldi del machiavellismo originario. Il secondo di
essi fa di Machiavelli il fondatore della scienza empirica della politica cioè
di una disciplina empirica che studi le regole dell’arte di governo senz’altra
preoccupazione che l'efficacia di tali regole. Della dottrina politica di
Machiavelli fanno parte integrante il concetto della fortuna cioè del caso che
con la sua imprevedi- bilità costituisce sempre una condizione dell'attività
politica; e il connesso concetto dell’impegno poli- tico per il quale gli
uomini « debbono bene non si abbandonare mai» nel senso che non devono di-
sperare né rinunziare all’azione ma inserirsi attiva- mente negli eventi la cui
riuscita, data la presenza del caso, non è mai predeterminata (Sulla dottrina
di Machiavelli e le sue interpretazioni v. G. Sasso, N. M., Storia del suo
pensiero politico, Napoli, 1958). Per machiavellismo s'intende anche il
principio nel quale convenzionalmente, a partire dal sec. xVII, si è riassunta
la dottrina di Machiavelli: cioè che «il fine giustifica i mezzi». Tale massima
tuttavia non è stata formulata da Machiavelli, che non considera lo stato come
fine assoluto e non lo con- sidera dotato di un'esistenza superiore a quella
del- l’individuo (nel senso in cui farà, per es., HEGEL, Fil. del dir., $ 337).
Machiavelli inoltre orientava tutte le sue simpatie verso l’onestà e la lealtà
nella vita civile e politica e pertanto ammirava gli stati che si reggevano o
si erano retti su queste virtù, come, ad es., quelli dei Romani e degli
Svizzeri. Tuttavia il suo scopo era, come si è detto, di for- mulare, sulla
base dell’esperienza politica antica e nuova, regole di governo efficaci; ed
egli considerò tale efficacia indipendente dal carattere morale o immorale
delle regole stesse. Dall’altro lato, egli si rendeva conto che la morale e la
religione possono essere, e talvolta sono, forze politiche che condizio- nano,
come tutte le altre forze, l’attività politica e la sua riuscita; come pure
vedeva che talvolta ciò non accade e che l’azione politica riesce efficace
anche esercitandosi in senso contrario alle leggi della morale. Poichè questo
caso era il più frequente nella società (specialmente italiana e francese) del
suo tempo, la quale perciò è da lui detta « corrotta », e poichè Machiavelli ha
soprattutto in vista l’appli- cazione delle sue regole politiche alla società
italiana per la costituzione di uno stato unificato, si spiega la sua
insistenza su certe massime immorali di con- dotta politica: insistenza che è
malamente espressa o generalizzata nella massima che il fine giustifica i
mezzi. Questa massima fu in realtà propria dalla morale gesuitica. Hegel la
cita nella forma che essa aveva ricevuta dal padre gesuita Busenbaum MAGIA
(1602-68): « Quando il fine è lecito, anche i mezzi sono leciti » (Medulla
theologiae moralis, IV, 3, 2); e la giustifica sia formalmente cioè come
espressione tautologica, sia sostanzialmente, come « coscienza indeterminata
della dialettica dell’elemento positivo + (Fil. del dir., $ 140, d); cfr. sul
M., F. MEINECKE, Die Idee der Staatsràson in der neueren Geschichte, 1925;
trad. ingl., Machiavellianism, 1957). MACROCOSMO. V. Microcosmo. MADRE (gr.
pipe) Secondo Platone, la madre dell’universo è la materia amorfa, come il
padre di esso è il modello eterno al quale il De- miurgo lo crea simile. «
Questa madre e ricettrice di tutto ciò che di visibile e di sensibile viene
creato, non dobbiamo chiamarla nè terra nè aria nè fuoco nè acqua nè altra cosa
che nasca da queste o da cui queste nascano; ma piuttosto una specie invisibile
e amorfa, capace di accogliere tutto, partecipe del- l’intellegibile e
difficile a concepirsi» (Tim., 51 a-b). MAGIA (gr. pay) tex; lat. Magia; ingl. Ma-
gic; franc. Magie; ted. Magie). La scienza che pre- tende di dominare le forze
naturali con gli stessi pro- cedimenti con cui si assoggettano gli esseri
animati. Il presupposto fondamentale della M. è pertanto l’animismo e la
migliore definizione di essa è quella che è stata data da Reinach come «la
strategia dell’animismo » (Mythes, Cultes et Religions, II, Introd., pag. XV).
Strumenti di questa strategia sono gli incantesimi, gli esorcismi, i filtri, i
talismani, medianti i quali il mago comunica con le forze naturali o celestiali
o infernali e le persuade a obbe- dirgli. Il carattere violento o subdolo delle
opera- zioni con cui si persuadono le forze naturali a obbe- dire, è un altro
contrassegno della M.: che è una strategia d'assalto, che vuol conquistare d’un
colpo solo: a differenza di quella che sarà la strategia della scienza moderna,
la quale tende a una graduale conquista della natura, e prescinde dai mezzi
vio- lenti o subdoli. La M. è di origine orientale e si diffuse in occi- dente
nel periodo greco-romano (cfr. F. CUMONT, Oriental Religions in Roman Paganism,
cap. VID. Essa circolò più o meno nascostamente nel Medio Evo per ritornare
alla piena luce nel Rinascimento: durante il quale fu spesso considerata come
il com- pimento della filosofia naturale cioè come quella parte di essa che
consente all’uomo di agire sulla natura e di dominarla. Così, per es., la
considerava Pico della Mirandola (De MHominis Dignitate, fol. 136 v); e così la
consideravano tutti i naturalisti del rinascimento. Giovanni Reuchlin, Cornelio
Agrippa, Teufrasto Paracelso, Gerolamo Fracastoro, Gerolamo Cardano,
Giovambattista della Porta mirano tutti ugualmente a togliere alla M. il
carattere diabolico che le era stato attribuito nel Medio Evo e a farne la
parte pratica della filosofia. Della Porta 553 distinse nettamente dalla M.
diabolica, che si avvale delle azioni degli spiriti immondi, la M. naturale che
non oltrepassa i limiti delle cause naturali e le cui operazioni appaiono
meravigliose solo perchè ne rimane nascosto il procedimento (Magia natu- ralis,
1558, I, 1). Questa distinzione veniva ripetuta da Campanella; che distingueva,
inoltre, anche una M. divina che opera in virtù della grazia divina, come
quella di Mosè e degli altri profeti (De/ senso delle cose e della M., 1604,
IV, 12). Sulla M. nel Rinascimento, cfr. GARIN, Medioevo e Rinascimento, 1954,
cap. III. Il progredire della scienza, eliminando il presup- posto della M.,
cioè l’animismo, toglieva ogni base a quella strategia d’assalto in cui essa
consisteva. Francesco Bacone, che pure è l’erede maggiore di quella esigenza
operativa che la M. rappresentava, paragona la M. stessa ai romanzi
cavallereschi del ciclo di Artù; e la ritiene derivare dalla metafisica che
indaga le forme; mentre dalla fisica, che è la ricerca delle cause efficienti e
materiali nasce, come scienza operativa, la meccanica (De augm. scient, III,
5). Pertanto, nel mondo moderno, la M. è sparita dall’orizzonte della scienza e
della filosofia. Per ciò che riguarda quest’ultima, costituisce un’eccezione
l’opera di Novalis che, nel periodo romantico, difese un «idealismo magico» per
il quale è M. buona parte delle più comuni attività umane. Dice, per es.,
Novalis: « L'uso attivo degli organi non è altro che pensiero magico, tauma-
turgico, o uso arbitrario del mondo dei corpi; infatti la volontà non è altro
che magia, energica capacità di pensiero» (Fragmente, $ 1731). Egli esprimeva
così il principio del suo idealismo magico: «Il più gran mago sarebbe quello
che sapesse anche incantare se stesso sino al punto che le sue stesse magie gli
apparissero fenomeni estranei e autonomi. E non potrebbe essere questo il caso
nostro?» (/bid., $ 1744). Ma sparita dal mondo della filosofia e della scienza,
la M. rimane come una delle categorie interpretative della sociologia e della
psicologia. Sulla funzione della M. nell’uomo primitivo, così si esprime Ma-
linowski: «La M. fornisce all’uomo primitivo un numero di atti e di credenze
rituali già fatti, una tecnica mentale e pratica definita la quale serve a superare
gli ostacoli pericolosi in ogni importante impresa e in ogni situazione
critica... La sua funzione è quella di ritualizzare l’ottimismo dell’uomo, di
rafforzare la sua fede nella vittoria della speranza sulla paura» (Magic
Science and Religion, ed. Anchor Book, pag. 90). Ma l’atteggiamento primitivo
non è solo dell’uomo primitivo: l’uomo civilizzato ricade in esso in
determinate circostanze che vanno dalla mancanza di tecniche adatte per
affrontare situazioni difficili alle incapacità di trovare a utiliz- 554 zare
queste tecniche. Credenze magiche sono perciò frequenti nella vita di ogni
giorno, anche se spesso non confessate. Comportamento magico è stato chiamato,
non senza ragione, da Sartre la reazione emotiva patologica che talora è alla
base dei disturbi mentali (v. Emozione). D'altronde Jung ha visto l’origine
della M. nell’idea di una Energia univer- sale che egli ritiene latente
nell’inconscio di tutto il genere umano e che si identifica con l’idea di Dio
(Psicologia dell’inconscio, 1942, cap. 5). E Levi- Strauss ha stabilito
un’analogia tra la cura magica e la psicanalisi (v.) perchè entrambe rendono
pos- sibile, attraverso la presa di coscienza dei conflitti interni del malato,
un’esperienza specifica nella quale i conflitti possono svilupparsi e
manifestarsi libera- mente (Antropologie $tructurale, 1958, pag. 217 sgg.).
MAGNANIMITÀ (gr. usyadopuyla; lat. Ma- gnanimitas; ingl. Magnanimity; franc.
Magnanimité; ted. Grossmuth). Secondo Aristotele, la virtù che consiste nel
desiderare grandi onori e nell’esserne degni. Aristotele dà molto rilievo a
questa virtù, in quanto accompagna e « rende più grandi » tutte le altre. «Chi
è degno di piccole cose, egli dice, e si considera degno di esse sarà moderato
ma non magnanimo; la M. è indisgiungibile della gran- dezza come la bellezza da
un grande corpo, giacchè i piccoli corpi saranno graziosi e proporzionati ma
non belli » (Er. Nic., IV, 3, 1123 b 7). L’insistenza su questa virtù è il
segno della persistenza in Ari- stotele dell’etica aristocratica arcaica (cfr.
JAEGER, Paideia, I, cap. I; trad. ital., I, pag. 43 sgg.). Car- tesio
considerava la M. identica con la generosità e la identificava con la virtù che
consiste nel giu- dicare se stesso secondo il proprio valore e nel- l’esser
privo di gelosia e d’invidia verso gli altri (Passions de l’ame, art. 156-61). MAIEUTICA (gr. porvi) réxw;
ingl. Maieu- tics; franc. Maleutique; ted. Mdàeutik). L'arte della levatrice alla quale Socrate,
nel Teefeto platonico, paragona il suo insegnamento, in quanto consiste nel
portare alla luce le conoscenze che si formano nella mente dei suoi allievi.
«Io ho questo in comune con le levatrici, dice Socrate: sono sterile di
sapienza; e ciò che molti da anni mi rimproverano, che interrogo gli altri ma
non rispondo mai da me perchè non ho alcun pensiero saggio da esporre, è
rimprovero giusto » (Teer., 150 c.). MALE (gr. 76 xaxéy; lat. Malum; ingl.
Evil; franc. Mal; ted. Bòse). Questo termine ha una varietà di significati
altrettanto estesa del termine bene (v.) di cui è correlativo. Dal punto di
vista filosofico, tuttavia, questa varietà si lascia ricondurre alle due
interpretazioni fondamentali che sono state date della nozione nel corso della
storia della filo- sofia, e che sono: 1° la nozione metafisica del M. secondo
la quale esso è a) il non-essere, oppure MAGNANIMITÀ b) una dualità
nell’essere; 2° la nozione soggetti- vistica, secondo la quale il M. è
l'oggetto di una appetizione negativa o di un giudizio negativo. 1° La
concezione metafisica del M. consiste o nel considerarlo come il non essere di
fronte all’es- sere che è il bene; o nel considerarlo come una dualità
dell’essere, come un dissidio o un contrasto interno all'essere stesso. a) La
concezione del M. come non essere si affaccia negli Stoici ed è chiaramente formulata
dai Neoplatonici. Ritenendo che l’esistenza dei mali condiziona quella dei beni
sicchè, ad es., non ci sarebbe giustizia se non ci fossero offese, non ci
sarebbe operosità se non ci fosse ignavia, non ci sarebbe verità se non ci
fosse menzogna, e così via, gli Stoici e in particolare Crisippo ritenevano che
i cosidetti mali non sono veramente tali perchè sono necessari all’ordine e
all’economia dell’universo (GeLLIO, Noct. Att., VII, 1). Marco Aurelio espri-
meva perfettamente questo punto di vista dicendo: t Viene mutilata e
compromessa l’integrità del tutto, ogni volta che tu tagli via una particella
qualsiasi dell’ordine e della continuità dell'universo... E vera- mente tagli
via, per quanto è in tuo potere, qual- cosa dell’universo ogni volta che ti
rammarichi dell’accaduto; in un certo senso condanni a morte così facendo, nel
tuo desiderio, l’intero universo + (Ric., V, 8). Poichè non si può dover amare
una cosa e considerarla cattiva, il punto di vista stoico equivale a
considerare buona ogni cosa esistente e a ridurre il M. al non essere. Questa
riduzione diventa esplicita nel neoplatonismo. Plotino dice: « Se tali sono gli
enti e tale è ciò che è al di là degli enti [cioè Dio] il M. non esiste nè in
quelli nè in questo, giacchè sia l'uno che l’altro è bene. Resta dunque che, se
esista, esiste in ciò che non è; e che sia una specie di non-essere e si trovi
perciò nelle cose mescolate di non-essere o partecipanti al non-essere » (Enn.,
I, 8, 3). E in questo senso Plotino identifica il male con la materia: la
materia è il non essere «Il M. non consiste in una deficienza parziale ma in
una deficienza totale: la cosa che manca parzialmente del bene non è cattiva e
può anche essere perfetta nel suo genere. Ma quando c’è deficienza totale, come
nella materia, allora c’è il vero M., che non ha alcuna parte di bene. La
materia non ha neppure l’essere che le renderebbe possibile partecipare del
bene: si può dire che essa sia solo in un senso equivoco; in verità essa è lo
stesso non essere » (/bid., I, 8, 5). L’identificazione del male col non essere
diventa tradizionale nella filosofia cristiana. Essa viene ripresa da Clemente
Alessandrino (Strom., IV, 13), da Origene (De Princ., I, 109) e da S. Agostino
che la diffonde nel mondo occidentale. Dice S. Ago- stino: « Nessuna natura è
M. e questo nome non MALE indica altro che la privazione del bene » (De Civ.
Dei, XI, 22). Pertanto « Tutte le cose sono buone e il male non è sostanza
perchè se fosse sostanza sa- rebbe bene» (Conf., VII, 12). Boezio a sua volta
affermava: «Il male è niente, perchè non lo può fare Colui che può ogni cosa»
(Phil. cons., III, 12). La scolastica è altrettanto unanime su questo punto. S.
Anselmo ribadiva la dottrina del M. come non essere negli stessi termini di S.
Agostino (De casu diaboli, 12-16). La scolastica giudaica ripete, con
Maimonide, la stessa tesi (Guide des égarés III, 10); e la ripetono nella
scolastica cristiana, sia gli agostiniani, ceme Alessandro di Hales (S. 7A., I,
q. 18,9) sia gli aristotelici come Alberto Magno (S. 77%., I, q. 27, 1) e S.
Tommaso. « Poichè bene, dice S. Tommaso, è tutto ciò che è appetibile e poichè
ogni natura appetisce il suo essere e la sua perfezione è necessario dire che
l’essere e la perfezione di qualsiasi natura è essen- zialmente bene. Non può
essere perciò che « M.» significhi un qualche essere o una qualche forma o
natura; e rimane che significhi soltanto l’assenza del bene » (S. 77., I, q.
48, a. 1). AIM. si può riferire il verbo essere solo nel senso della «verità
della proposizione » cioè nel senso in cui si dice che «la cecità è nell'occhio
»; un senso che non implica in alcun modo la realtà (enritas rei) (Ibid., I, q.
48, a. 2). Dopo le osservazioni scettiche di Pietro Bayle sulla compatibilità
del M. (in tutte Ie sue forme) con l’onnipotenza divina e con la perfezione
del- l'universo, la teodicea di Leibniz è fondata sulla dottrina tradizionale
del M. come negazione del bene. «I Platonici, S. Agostino e gli Scolastici,
dice Leibniz, hanno avuto ragione di dire che Dio è la causa materiale del M.,
che consiste nella sua parte positiva, e non della forma di esso, che consiste
nella privazione; come si può dire che la corrente è la causa materiale del
ritardo cioè della velocità di un battello, senza essere causa della forma del
ritardo stesso cioè dei limiti di questa velocità + (Théod., I, 30). Le
considerazioni di Leibniz a questo proposito sono rimaste a fondamento di ogni
ulte- riore tentativo di feodicea (v.). D’altra parte, la nullità del M. è
rimasta costantemente la tesi propria delle dottrine che identificano l’essere
col bene o, in termini moderni, con la razionalità o il dover essere: come
accade in Hegel per il quale il M., inteso come volontà cattiva, è « la nullità
assoluta » di questa volontà (Enc., $ 512). Dal punto di vista di un idealismo
assoluto come quello di Hegel e della sua scuola, si ripresenta il problema
tradizionale della teodicea, quello della possibilità del M.; e l’unica
soluzione disponibile è ancora quella tra- dizionale, la nullità del M. stesso.
Diceva Gentile: « Non errore e verità, ma errore nella verità, come 555 suo
contenuto che si risolve nella forma; nè M. e bene; ma M. onde il bene si nutre
nel suo assoluto formalismo » (Teoria generale dello spirito, XVI, 10). A sua
volta Croce affermava: «Il M., quando è reale non esiste se non nel bene, che
gli contrasta e lo vince e quindi non esiste come fatto positivo: quando invece
esiste come fatto positivo è, non già un M., ma un bene (e a sua volta ha come
ombra il M. contro cui lotta e vince) ». (Fil. della pratica, 1909, pag. 139).
Non essere o nullità o irrealtà del M. è la tesi che viene costantemente
riscoperta come nuova ogni volta che, in una forma qualsiasi, viene posta
l’identità fra essere e bene. b) La seconda concezione metafisica del M. è
quella che lo considera come un contrasto interno dell’essere, cioè come la
lotta tra due princìpi. Si tratta di una concezione per la quale il dominio
dell’essere è diviso in due campi opposti, dominati da due princìpi
antagonisti. Il modello di questa concezione è la religione persiana, cioè la
religione di Zarathustra o Zoroastro che contrapponeva alla divinità (Ahura
Mazda o Ormazd) un’antidivinità (Ahriman) che è il principio del M. (cfr.
PETTAZZONI, La religione di Zaratustra, Bologna, 1921; Du- CHESNE-GUILLEMIN,
Ormazd et Ahriman, Parigi, 1953). Questa dottrina costituisce una soluzione
estremamente semplice del problema del M.: una so- luzione che, mentre limita
la potenza delle divinità, non viene meno al monoteismo perchè concepisce la
potenza limitante come una anti-divinità. Se- condo questa soluzione, il M. è
reale allo stesso titolo del bene; e come tale ha una sua propria causa,
antitetica a quella del bene. La dottrina evita la riduzione, così poco
convincente per l’uomo comune, del M. al nulla; e fa appello allo stesso tipo
di giustificazione cui ricorre la negazione meta- fisica della realtà del male.
Il dualismo persiano ritornava nel culto di Mitra: personaggio che, secondo la
testimonianza di Plutarco, occupava un posto intermediario tra il dominio della
luce proprio di Ahura Mazda e il dominio delle tenebre proprio di Ahriman (De
Iside et Osiride, 46-47; cfr. F. Cu- MONT, Ze Mysteries of Mithra, cap. I).
Ritornava altresì, con qualche attenuazione, in qualche setta gnostica dei
primi secoli dell’era volgare e special- mente in quella di Basilide (cfr.
BuonaIUTI, Fram- menti gnostici, 1923, pag. 42 sgg.) nonchè nella setta dei
Manichei contro i quali conduce una delle sue principali polemiche S. Agostino
(v. MANI- CHEISMO). Ma la filosofia non ha mai accettata questa soluzione del
problema del M. nella forma semplice in cui l’aveva originariamente formulata
la religione persiana. Essa, cioè, non ha mai ammessa la separazione dei due
princìpi. Quando ha accettato quella soluzione l’ha modificata nel senso di
includere entrambi i princìpi in Dio: cioè di considerare sia il 556 principio
del bene sia il principio del M. come uniti in Dio, proprio in virtù del loro
contrasto. Nel sec. xv Jakob Bòhme, insistendo sulla presenza, in tutti gli
aspetti della realtà, di due princìpi in lotta, che sono poi il bene e il M.,
attribuiva la causa di questa lotta alla presenza in Dio dei due princìpi
antagonisti che egli indicava con vari nomi: lo spirito e la natura, l'amore e
l'ira, l’essere e il fondamento, ecc. Questi due princìpi sarebbero in Dio
strettamente avvinti in una specie di lotta amorosa. « La divinità, diceva
Bòhme, non se ne sta tranquilla, ma le sue potenze operano senza tregua e
lottano amorosamente, si muovono e combattono: come accade a due creature che
giocano in grande amore l’una con l’altra e si abbracciano e si stringono;
talora l’una è vinta, talora l’altra; ma il vincitore subito si arresta e
lascia che l’altra riprenda il suo giuoco » (Aurora oder die Morgenròte im
Aufgane, 1634, cap. XI, $ 49). In altri termini il dualismo del bene e del M. è
in Dio stesso e in Dio stesso i due princìpi com- battono una lotta «amorosa»
nella quale nes- suno è definitivamente sconfitto. Quella sottocor- rente del
pensiero filosofico che si chiama reosofia (v.) ha sempre fatta propria questa
soluzione del pro- blema del male. La quale nel periodo romantico, ritornava
nelle Ricerche sull’essenza della libertà umana (1809) di Schelling: in cui
Schelling soste- neva proprio come Bòhme, che in Dio, c’è non solo l’essere, ma
a fondamento di questo essere un substrato o natura che è distinto da lui ed è
un’oscura brama, un inconscio desiderio di essere, di uscire dall’oscurità e di
raggiungere la luce di- vina (Werke, I, VIII, pag. 359). Schelling tuttavia
affermava che, essendo questi due princìpi stret- tamente uniti in Dio, non c’è
in lui distinzione tra bene e M.: con la separazione di quei prin- cìpi
nell'uomo nasce invece la possibilità del bene e del M. e del loro contrasto
(/bid., pag. 364). Ancora in tempi relativamente recenti, e in più diretto
riferimento alla religione persiana, una solu- zione simile del problema del M.
veniva riproposta da G.T. Fechner: il quale ammetteva in Dio la stessa dualità
tra la volontà razionale e gli istinti oscuri che è riscontrabile nell'uomo
(Zend-Avesta, 5° ediz., 1922, pag. 244-245). Prospettate meno espli- citamente,
si possono scorgere soluzioni analoghe in alcune forme dello spiritualismo e
nella psicana- lisi (v.). Ma si tratta spesso di soluzioni di carat- tere
religioso o teosofico, che difficilmente possono essere considerate come vere e
proprie spiegazioni filosofiche. 2° La seconda concezione fondamentale del M. è
quella che lo considera, non già come una realtà o irrealtà, ma come l’oggetto
negativo del desiderio o in generale del giudizio di valutazione. Questa MALE
RADICALE concezione è ammessa da tutti coloro che difendono quella che è stata
chiamata la teoria soggettivistica del bene. Hobbes, Spinoza, Locke,
condividono questa teoria (v. per i relativi testi l’art. BENE); alla quale
Kant ha dato la sua forma più generale. Egli dice: «I soli oggetti di una
ragion pratica sono il bene ed il male. Col primo s’intende un og- getto
necessario della facoltà di desiderare, col se- condo un oggetto necessario
della facoltà di abbor- rire, ma entrambi secondo il solo principio della
ragione » (Crit. R. Prat., cap. 2). Kant insisteva soprattutto nel sottrarre le
determinazioni di bene e M. (in tedesco Gut e Bose) alla sfera della « facoltà
di desiderare inferiore » alla quale appartengono il piacevole e il doloroso
(in tedesco Wohl e Ùbel). «Ciò che noi dobbiamo chiamar bene, egli diceva,
dev'essere un oggetto della facoltà di desiderare a giudizio di ogni uomo
ragionevole; il M. dev'essere un oggetto di avversione agli occhi di ognuno:
sicchè per tali giudizi occorre, oltre il senso, anche la ragione» (/bid.).
Tuttavia Kant era d'accordo con la teoria soggettivistica nel ritenere che il
bene e il M. non possono essere determinati indipendente- mente dalla facoltà
di desiderare dell’uomo: il che vuol dire che essi non sono realtà o irrealtà
per loro conto. La filosofia moderna e contemporanea con- divide questo
indirizzo. Il M. è, per essa, semplice- mente un disvalore cioè l’oggetto di un
giudizio negativo di valore; e implica pertanto il riferimento alla regola o
norma sul quale il giudizio di valore si fonda (v. VALORE). Così, ad es., un
terremoto è un M. se distrugge vite umane o fonti di sussistenza o di benessere
per l’uomo, ma non lo è se non fa questo perchè in tal caso non contrasta col
desiderio o con l’esigenza umana della sopravvivenza e del benessere. Comunque
si voglia considerare tale esigenza, essa si esprime in regole o norme, con le
quali possono entrare in contrasto sia avvenimenti naturali sia comportamenti
umani. Tali avvenimenti o comportamenti sono detti mali, non perchè abbiano uno
speciale status metafisico, ma sul fondamento di quel contrasto. Proprio da
questo punto di vista Kant interpretava lo stesso « M. radicale » della natura
umana come una massima che è fondamento del comportamento di tutti gli esseri
razionali finiti: cioè come la massima di allontanarsi, occasionalmente, dalla
legge morale (Religion, I, 3). Tale massima non esprime altro che la
possibilità di contravvenire alle norme morali che sono proprie dell’uomo; e
pertanto definisce il M. radicale come la possibilità generale del disva- lore
nella condotta dell’uomo. MALE RADICALE. V. MALE. MALTHUSIANESIMO (ingl.
Malthusianism; franc. Malthusianisme; ted. Malthusianismus). 1. La dottrina
economica di Thomas Robert Malthus MASSIMA (1766-1834) esposta nel Saggio sulla
popolazione (1798): nella quale veniva riconosciuta in linea di principio la
diversa proporzione di accrescimento tra la popolazione e i mezzi di
sussistenza e consi- derati i mezzi per evitare lo squilibrio tra l’una e gli
altri. Malthus teneva presente lo sviluppo del Nord America inglese e osservava
che qui la popola- zione tendeva a crescere secondo una progressione
geometrica, raddoppiandosi ogni venticinque anni, mentre i mezzi di sussistenza
tendevano a crescere secondo una progressione aritmetica. Secondo Malthus, lo
squilibrio che così si determina fa inter- venire i mezzi repressivi (la
miseria, il vizio e altri flagelli sociali) che falciano la popolazione; e non
c'è altro modo di evitare l’azione di tali mezzi se non sostituendoli con mezzi
preventivi, che consistono nel controllo delle nascite. Malthus vedeva perciò
l’unico rimedio ai mali sociali nell’astensione dal matrimonio delle persone
che non sono in grado di provvedere al mantenimento dei figli, raccoman- dando
nello stesso tempo «una condotta stretta- mente morale durante il periodo di
questa asten- sione ». Questa dottrina ha posto un problema che rimane vivo e
attuale nella società contemporanea, tenuto conto dell'enorme proporzione di
crescita della popolazione mondiale. 2. In generale, la teoria e la pratica del
controllo volontario delle nascite. MANICHEISMO (ingl. Manicheism; fran- cese
Manichéisme; ted. Manichaismus). La dottrina del sacerdote persiano Mani (/ar.
Manichaeus) vissuto nel mi secolo che si proclamò il Paracleto cioè colui che
doveva portare la dottrina cristiana alla sua perfezione. Il M. è una
mescolanza fanta- stica di elementi gnostici, cristiani e orientali, sul
fondamento del dualismo della religione di Zara- tustra. Ammette infatti due
princìpi, uno del bene o principio della luce, l’altro del male o principio
delle tenebre. Questi princìpi sono rappresentati nell'uomo da due anime, una
corporea che è quella del male, l'altra luminosa che è quella del bene. La
prevalenza dell’anima luminosa si può raggiun- gere con una ascesi particolare
che consiste in un triplice sigillo: astenersi dal cibo animale e dai discorsi
impuri (signaculum oris); astenersi dalla proprietà e dal lavoro (signaculum manus);
aste- nersi dal matrimonio e dal concubinaggio (signa- culum sinus). Il M. fu
molto diffuso in Oriente e in Occidente e qui durò sino al sec. vu. Il grande
avversario del M. fu S. Agostino che dedicò alla cunfutazione di esso un
numeroso gruppo di opere. Cfr. H. C. PuEcH, Le manichéisme: Son fondateur, Sa
doctrine, Parigi, 1949. MANIERA (ingl.
Manner; franc. Manière; ted. Manier). A partire dal xvm secolo la parola è
stata adoperata per designare una forma parti- 557 colare, di minor pregio,
dell’espressione artistica; e precisamente quella che è il prodotto di una
ricerca fallita di originalità. Dice Kant: « La M. è una specie di
contraffazione la quale consiste nell’imitazione dell’originalità in generale e
quindi nell’allontanarsi per quanto possibile dagli imitatori senza però
possedere il talento di essere per se stesso esemplare... Il prezioso, il
ricercato, l’affettato, che vogliono distinguersi dal comune, ma riescono
senz’anima, somigliano ai modi di chi sta ad ascoltare se stesso o si muove come
se fosse sulla scena » (Crif. Giud., $ 49). Nello stesso senso, Hegel definiva
la M. come quella forma d’arte nella quale l’artista, invece di conservare
all’arte la sua « oggettività » cerca di assorbirla nella sua individualità «
parti- colare e accidentale »; e la contrapponeva perciò all’originalità, che è
la «vera oggettività» del- l’opera d’arte (Vorlesungen iber die Aesthetik, ed.
Glockner, I, pag. 391 sgg.). MANIFESTAZIONE (ingl. Manifestation; franc.
Manifestation; ted. Manifestation). Lo stesso che espressione, rivelazione o
fenomeno (v.), nel senso positivo di quest’ultimo termine. MANTICA (gr. pavtix)
rex; ingl. Mantic; franc. Mantique; ted. Mantik). La visione anticipata o la
scienza delle cose future. Così definisce la M. Cicerone (De Divin., I, 1) il
quale riporta e discute soprattutto il modo in cui tale scienza era intesa
dagli Stoici. Per essi, la M. è fondata sull’ordine necessario del mondo, cioè
sul destino: giacchè appunto interpretando quell’ordine, si possono anticipare
gli eventi che esso determina. « Gli Stoici, dice Cicerone, affermano che
soltanto il sapiente può essere indovino. Crisippo definisce la M. con queste
parole: la facoltà di conoscere, di vedere e spiegare i segni mediante i quali
gli Dei manifestano la loro volontà agli uomini» (De Divin., II, 63, 130).
MARXISMO. V. CoMunISMO, MATERIALISMO DIALETTICO, MATERIALISMO STORICO. MASSIMA
(lat. Maxima propositio; ingl. Maxim; franc. Maxime; ted. Maxime). Questo
termine ha due significati diversi: 1° proposizione evidente; 2° regola di
condotta. 1° Il significato di proposizione evidente è il più antico e si trova
stabilito a proposito dalla teoria dei luoghi logici. Boezio chiamò +«
proposizione massima » la proposizione indimostrabile ma evi- dente (In top.
Cicer., I; De diff. topicis, II; in P.L., 64°, col. 1151, 1185) e questo
significato rimase fissato nella logica medievale. « La proposizione massima,
dice Pietro Ispano, è la proposizione di cui non ce n’è un’altra più nota o più
primitiva, come ad es., ‘Ogni tutto è maggiore della sua parte ’» (Summ. Log.,
5.07). Più tardi, si accentuò talvolta il carattere di probabilità della
massima; per essa Jungius intende infatti «un enunciato universale 558
massimamente probabile » (Log. Hamburgensis, 1638, V, 3, 5). In questo significato
che è sinonimo di assioma usavano la parola sia Locke (Saggio, IV, 12, 1) che
Leibniz (Nouv. Ess., IV, 12, 6). Questo significato è ora in disuso giacchè per
esso viene costantemente adoperato il termine assioma. 2° Furono i moralisti
francesi della seconda metà del ’600 i primi ad adoperare il termine per
significare una regola morale. La Rochefoucauld intitolava la raccolta dei suoi
pensieri Reffexions ou Sentences et Maximes Morales, (1665); e Kant accoglieva
quest’uso, intendendo per M. una regola di condotta in generale. Egli
distingueva la M. come « principio soggettivo della volontà » dalla legge che è
il principio oggettivo, cioè universale, della condotta. L'individuo può
assumere come sua M. sia la legge sia un’altra regola qualsiasi e perfino quella
di allontanarsi dalla legge stessa (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, I,
1, nota; Crit. R. Prat., $ 1, Def.; Religion, I, Oss.). Questo secondo
significato del termine è il solo rimasto. MATEMATICA (gr. Ma@nuatuh; lat. Mathe-
matica; ingl. Mathematics; franc. Mathématique; ted. Mathematik). Le definizioni filosofiche della M. esprimono da un
lato orientamenti diversi della ricerca matematica, dall’altro modi diversi di
giu- stificare la validità e la funzione delle M. nell’in- sieme delle altre scienze.
Possono distinguersi quattro definizioni fondamentali: 1° la M. come scienza
della quantità; 2° la M. come scienza delle relazioni; 3° la M. come scienza
del possibile; 4° la M. come scienza delle costruzioni possibili. 1° «Scienza
della quantità » è stata la prima definizione filosofica della matematica. Già
implicita nelle considerazioni di Platone sull’aritmetica e sulla geometria, le
quali tendevano soprattutto a mettere in luce la differenza tra le grandezze
per- cepite dei sensi e le grandezze ideali che sono l'oggetto della M. (Rep.,
VII, 525-27), questa defì- nizione veniva chiaramente formulata da Aristotele.
«Il matematico, diceva Aristotele, costruisce la sua teoria per mezzo
dell’astrazione: egli prescinde da tutte le qualità sensibili, quali il peso e
la leggerezza, la durezza e il suo contrario, il caldo e il freddo, e le altre
qualità opposte e si limita a considerare solo la quantità e la continuità,
qualche volta in una sola dimensione, qualche volta in due, qualche volta in
tre; nonchè i caratteri di queste entità in quanto sono quantitative e
continue, trascurando ogni altro aspetto di esse. Conseguentemente egli studia
le posizioni relative e ciò che ad esse inerisce, la com- mensurabilità o
l’incommensurabilità e le propor- zioni» (Met., XI, 3, 1601a 28; cfr. Fis., II,
2, 193 b 25). Questo concetto delle matematiche è durato assai a lungo e solo
nel secolo scorso è comin- ciato ad apparire insufficiente a esprimere tutti
gli MATEMATICA aspetti dell’indagine matematica. Kant stesso lo utilizzava
traducendolo nel linguaggio della sua filosofia. Egli poneva la distinzione tra
M. e filosofia in questo che, mentre la filosofia procede mediante concetti, la
M. procede mediante la costruzione di concetti: ma la costruzione dei concetti
è possibile in M. solo sul fondamento dell’intuizione a priori dello spazio,
che è poi la forma della quantità in generale. « Coloro, dice Kant, i quali
hanno creduto di distinguere la filosofia dalla M. dicendo che questa ha per
oggetto solo la quantità, han preso l’effetto per la causa. La forma della
conoscenza M. è la causa per cui essa può riferirsi unicamente a quan- tità.
Soltanto infatti il concetto di quantità si può costruire, cioè esporre a
priori nell’intuizione dello spazio » (Crit. R. Pura, Dottr. del metodo, cap.
I, sez. 1). Il concetto della M. come costruzione e quindi in qualche modo
intuizione, doveva ritornare nella M. contemporanea (v. oltre, n. 4). Ma quello
di M. come scienza della quantità si è trovato innumerevoli volte ripetuto dai
filosofi. Le lun- ghe e fantastiche disquisizioni di Hegel sui concetti
fondamentali della M. nella grande Logica sono fondate su di esso (Wissenschaft
der Logik, I, I, sez. II). E anche assai più tardi, Croce si riferiva
imperterrito allo stesso concetto « Le M. forniscono concetti astratti che
rendono possibile il giudizio numeratorio; costruiscono gli strumenti per
contare e calcolare e per compiere quella sorta di finta sin- tesi a priori che
è la numerazione degli oggetti sin- goli » (Logica, 1920, pag. 238). 2° La
seconda concezione fondamentale della M. è quella che la considera come scienza
delle relazioni quindi come strettamente collegata con la logica o parte di
essa. L’antecedente di questa concezione si può trovare in Cartesio, che
affermava: « Per quanto le scienze che si chiamano comune- mente matematiche
abbiano oggetti diversi, esse si accordano tutte in quanto non considerano
altro che i diversi rapporti o proporzioni che si ritrovano in essi» (Discours,
II). Il concetto leibniziano dell’ars combinatoria (v.) o M. universale si può
assumere certo come inizio del concetto della M. come logica; ma esso non
impediva allo stesso Leib- niz di aderire ancora al concetto tradizionale della
M. come arte della quantità (De Arte combi- natoria, 1666, Proemium, 7, in Op.,
ed. Erdmann, pag. 8). Ovviamente, la stretta connessione della M. con la logica
cominciò ad apparire in modo evidente come tratto caratteristico delle M.
quando la logica stessa assunse la forma di un calcolo matematico. Boole
affermava che poichè « le ultime leggi della logica sono matematiche nella loro
forma +, l’esibizione della logica nella forma di un calcolo non è un modo
arbitrario di presentarla, ma qualcosa che dipende dalle stesse leggi del pen-
MATEMATICA siero (Laws of Thought, 1854, cap. I, $ 10). Le ri- cerche di
Dedekind sui fondamenti dell’aritmetica (Was sind und sollen die Zahlen?, 1887)
si muo- vono nello stesso ordine di pensieri. Ma soprat- tutto contribuì a
inscrivere la M. nel dominio della logica l’opera di Frege e la sua polemica
contro lo psicologismo. In un saggio del 1884 Frege mostrava l’importanza del
concetto di re- lazione per la definizione del numero naturale e diceva: «Il
concetto di relazione appartiene — non meno che il semplice concetto — al campo
della logica pura. Qui non interessa il contenuto speciale della relazione ma
esclusivamente la sua forma logica. Se qualcosa può venire affermata di essa,
la verità di questo qualcosa risulta analitica e viene riconosciuta a priori »
(Eine /ogisch-mathe- matische Untersuchung iber den Begriff der Zahi, 1884, $
70; trad. ital., in Aritmetica e logica, pag. 139). Da questo punto in poi la
stretta connessione della matematica con la logica attraverso la teoria delle
relazioni, poteva considerarsi acquisita e fu costan- temente assunta per la
definizione della matematica. Tuttavia anche le definizioni che hanno in comune
questo fondamento sono state formulate in modo diverso. La più ovvia
formulazione di una defini- zione di questo tipo è quella che considera la M. come
« una teoria delle relazioni ». Poincaré espo- neva questa definizione nella
forma generale asse- rendo: « La scienza è un sistema di relazioni. Solo nelle
relazioni va cercata l’oggettività e sarebbe vano cercarla negli esseri
considerati come isolati gli uni dagli altri» (Le valeur de la science, 1905,
pag. 266). Questo concetto fu condiviso da Russell che vedeva la coincidenza
tra M. e logica proprio nell'ambito della teoria delle relazioni e riteneva che
il tema comune delle due scienze fosse la forma degli enunciati, definita come
« ciò che resta invariato quando ogni componente dell’enunciato viene sosti-
tuito da un altro » cioè quando l’enunciato è rivolto alla pura relazione
(/ntr. to Mathematical Philosophy, 1918, cap. XVIII). Dall'altro lato Peirce,
pur ammettendo la connes- sione tra M. e logica, aveva cercato di distinguere
la M. dalla logica, affermando che mentre la M. è la scienza che deriva
conclusioni necessarie, la logica è la scienza del modo in cui derivare
conclusioni necessarie. «Il logico non si cura particolarmente circa questa o
quella ipotesi o circa le sue conseguenze eccetto in quanto queste cose possono
gettar luce sulla natura del ragionamento. Il matematico è intensamente
interessato ai metodi efficienti di ra- gionare mirando alla loro possibile
estensione a nuovi problemi ma, in quanto matematico, non si preoccupa di
analizzare quelle parti del suo metodo la cui correttezza è data come ovvia +
(Coll. Pap., 4.239). Questa distinzione era però fondata sulla 559 nozione della
logica come di una scienza categorica e normativa (/bid., 4.240): nozione che
non ha avuto fortuna nella logica contemporanea, di cui si è sempre più
accentuato il carattere convenzionale (v. CONVENZIONALISMO; Logica). Pertanto
la mi- gliore definizione della M., da questo punto di vista, è quella data da
Wittgenstein: « La matematica è un metodo logico. Le proposizioni della M. sono
equazioni, dunque pseudo-proposizioni. La propo- sizione matematica non esprime
alcun pensiero. E infatti non è mai la proposizione matematica di cui abbiamo
bisogno nella vita ma l’adoperiamo solo per concludere da proposizioni che non
ap- partengono alla M. ad altre che parimenti non le appartengono » (Tractatus,
1922, 6.2; 6.21; 6.211). Le equazioni della M. corrispondono alle tautologie
della logica (/bid., 6.22); e, come queste, non dicono nulla. Un punto di vista
analogo a questo è stato assunto da Carnap: «I calcoli costituiscono un genere
particolare di calcoli logici, distinguendosene soltanto per la loro maggiore
complessità. I calcoli geometrici sono un genere particolare di calcoli fisici
» (Foundations of Logic and Mathematics, 1939, $ 13). Questa è la formulazione
migliore della tesi del logicismo (v.). Da questo punto di vista, si tratta in
primo luogo di costruire una logica esatta; in seguito, di derivare da essa la
M., nel modo seguente: 1° definendo tutti i concetti delle M., cioè dell’arit-
metica, dell’algebra e dell'analisi, in termini dei concetti della logica; 2°
deducendo da queste defi- nizioni e per mezzo dei princìpi della logica stessa
(inclusi gli assiomi di infinità e di scelta) tutti i teo- remi della M. (cfr.
C. G. HEMPEL, « On the Nature of Mathematical Truth +, 1925, in Readings in the
Philosophy of Science, 1953, pag. 59). 3° La terza concezione fondamentale
della M. è quella propria della corrente formalistica e si può esprimere
dicendo che per essa la M. è «la scienza del possibile »; dove per possibile
s'intende ciò che non implica contraddizione (v. PossisiLe, 1). Da questo punto
di vista, la M. non è parte della logica e non la presuppone. Nel modo in cui è
stato conce- pita da Hilbert e Bernays (Grundiagen der Mathe- matik, I, 1934;
II, 1939) la M. può essere costruita come un semplice calcolo, senza esigere
alcuna in- terpretazione. Essa diventa allora un sistema as- siomatico (v.
ASsIOMATIZZAZIONE) nel quale: 1° tutti i concetti di base e tutte le relazioni
di base siano enumerate completamente, e sia ricondotto ad essi, mediante una
definizione, ogni concetto ulteriore; 2° gli assiomi siano enumerati
completamente e da essi siano dedotti tutti gli altri enunciati in modo
conforme alle relazioni di base. In un sistema sif- fatto, la dimostrazione
matematica è un procedimento puramente meccanico di derivazione di formule; ma
560 nello stesso tempo si aggiunge alla M. formale una metamatematica che è
costituita da ragionamenti non formali intorno alla matematica. « In tal modo,
ha detto Hilbert, si realizza, mediante scambi con- tinui, lo sviluppo della
totalità della scienza mate- matica, in due modi: derivando dagli assiomi nuove
formule dimostrabili mediante deduzioni formali e d’altra parte aggiungendo
nuovi assiomi e la prova di non contraddizione, per mezzo di ragionamenti che
hanno un contenuto ». Le M. costituiscono al- lora un sistema perfettamente
autonomo; cioè che non presuppone un limite o una guida fuori di sè e che si
sviluppa in tutte le direzioni possibili: intendendosi, per direzioni
possibili, quelle che non portano a contraddizioni. È pertanto essenziale a
questo concetto della M. la possibilità di determinare la possibilità (cioè la
non-contraddittorietà) dei sistemi assiomatici. Ma proprio questa possibilità è
stata messa in dubbio da un teorema scoperto da Gédel nel 1931: secondo il
quale non è possibile dimostrare la non contrad- dittorietà di un sistema S con
i mezzi (assiomi, definizioni, regole di deduzione, ecc.) che appar- tengono
allo stesso sistema $S; ma occorre, per effettuare una tale dimostrazione
ricorrere a un sistema Si, più ricco di mezzi logici che S (« Uber formal
unentscheidbare Sitze der Principia Mathe- matica und verwandter Systeme », in
Monatschrifte fir Mathematik und Physik, 1931, pag. 173-98). Questo teorema di
Gòdel ha avuto nella M. moderna una grande risonanza. È stato possibile,
finora, dare la dimostrazione della non contraddittorietà di alcune parti delle
M., per es. dell’aritmetica (fu data da Gentzen nel 1936): ma le cose non sono
andate molto oltre su questa via; sicchè la «scienza del possibile » trova oggi
che il suo più difficile compito è quello di mostrare la « possibilità » delle
sue parti. Quanto alla possibilità dell’intera M. come sistema unico e totale,
essa è ovviamente esclusa dalla stessa formulazione del teorema di Giodel. Il
quale ha mostrato anche il limite dell’as- siomatica, perchè ha mostrato come
nessun sistema assiomatico contiene «tutti» gli assiomi possibili e che
pertanto nuovi princìpi di prova possono essere continuamente scoperti. Altra
conseguenza del teo- rema di Gédel è una limitazione delle capacità delle
macchine calcolatrici, la cui costruzione è stata enormemente facilitata dal
concetto formali- stico della matematica. Si può infatti costruire una macchina
per risolvere un problema definito, ma non una macchina che sia capace di
risolvere ogni problema (cfr. E. NagEL-G. R. NEWMAN, Gòdel’s Proof, 1958, pag.
98 sgg.). 4° La quarta concezione fondamentale della M. è quella secondo la
quale essa è la scienza che ha per oggetto la possibilità della costruzione. Si
tratta, MATEMATICA come è evidente, della nozione kantiana della M. come
«costruzione di concetti» perciò questo indirizzo è chiamato comunemente
intuizionismo; ma i suoi precedenti si sogliono scorgere nella pole- mica
antiformalistica di Poincaré, nell'opera di Kronecker (Uber den Zahibegrif,
1887) nella tendenza empiristica di alcuni matematici fran- cesi (Borel,
Lebegue, Bayre) nel filosofo viennese F. Kaufmann ecc. Secondo Brouwer, che è
uno dei principali rappresentanti dell’intuizionismo, la M. si identifica con
la parte esatta del pensiero umano: perciò essa non presuppone alcuna scienza,
neppure la logica, ma esige piuttosto un’intuizione che permetta di cogliere
l’evidenza dei concetti e delle conclusioni. Le conclusioni, pertanto, non
devono essere derivate in virtù di regole fisse contenute in un sistema
formalizzato, ma ogni conclusione deve essere direttamente controllata in base
alla sua propria evidenza. Da questo punto di vista, il procedimento di
dimostrazione matematica non ha in vista la deduzione logica ma la costruzione
di un sistema matematico. Brouwer insiste sul fatto che anche nel caso di una
dimostrazione di impossibi- lità, ottenuta mettendo in vista una
contraddizione, l’uso del principio di contraddizione è soltanto ap- parente:
in realtà si tratta dell’affermazione che una costruzione matematica, la quale
doveva soddisfare certe condizioni, non è realizzabile (cfr. A. HEy- TING,
Mathematische Grundlagenforschung. Intuitio- nismus und Beweistheorie, 1934
[trad. franc., 1955], I, 5, 1). Heyting a sua volta ha dimostrato, sulle orme
dello stesso Brouwer, che mentre il principio di contraddizione può essere
utilizzato, non così accade del principio del ferzo escluso (v.) (Die formalen
Regeln der intuitionistischen Logik, in L. B. Preusz. Akad. Wiss., 1930).
L'intuizionismo, definendo la M. come la scienza delle costruzioni possibili
non fa tuttavia appello, come faceva Kant, a una forma a priori dell’intui-
zione; né ad alcuna forma di intuizione empirica o mistica. La costruzione di
cui l’intuizionismo parla è una costruzione concettuale, che non fa riferimento
a fatti empirici. Così Heyting ha riassunto il punto di vista di Brouwer: 1° la
M. pura è una creazione libera dello spirito e non ha in sè alcun rapporto con
i fatti di esperienza; 2° la semplice constatazione di un fatto di esperienza
contiene sempre l’identificazione di un sistema matematico; 3° il metodo della
scienza della natura consiste nel riunire i sistemi matematici contenuti nelle
esperienze isolate in un sistema puramente mate- matico costruito a questo
scopo (cfr. HEYTING, Op. cit., IV, 3). Se si tengono presenti queste
conclusioni, si vede che il distacco tra formalismo e intuizionismo (cioè fra
la terza e la quarta concezione della M.) MATERIA non è così radicale come in
apparenza sembrerebbe. In primo luogo, la costruzione in cui gli intuizio-
nisti vedono l’oggetto proprio del procedimento matematico è un oggetto
formale, la cui possibilità è determinata da regole formali. Dall’altro lato, i
limiti del formalismo, messi in luce dal teorema di Gédel, mettono in valore alcune
esigenze affacciate dal concetto intuizionistico delle matematiche. E poichè è
difficile disconoscere il valore dell’aspetto linguistico delle matematiche,
che è quello su cui specialmente si fonda il /ogicismo, un certo eclet- tismo
domina il pensiero matematico contemporaneo (cfr. ad es., E. W. BETH, Les
fondements logiques des mathématiques, 2% ediz., 1955). Tuttavia, dal punto di
vista filosofico, cioè dei concetti di base e degli orientamenti generali di
ricerca, la differenza fra le definizioni enunciate nel presente articolo
rimane importante. MATERIA. In senso gnoseologico v. FORMA, 2. MATERIA (gr.
65m; lat. Materia; ingl. Matter; franc. Matière; ted. Materie). Uno dei
princìpi costitutivi della realtà naturale, cioè dei corpi. Le definizioni principali,
che sono state date della M. sono le seguenti: {9 la M. come soggetto; 2° la M.
come potenza; 3° la M. come estensione; 4° la M. come forza; 5° la M. come
legge; 6° la M. come massa; 7° la M. come densità di campo. Le prime quattro
sono definizioni filosofiche, le ultime due scientifiche. ‘1° La definizione
della M. come\soggetto) si al- terna, in Platone e Aristotele, con quella della
M. come potenza. Secondo questo concetto la M. è ricettività o passività; e
Platone in questo senso la chiama madre delle cose naturali giacchè essa
«accoglie in ‘sè tutte le cose ma non prende mai alcuna fatti che somigli alle
cose in quanto è come la(cefa)che riceve l'impronta » (7im., 50 b-d). In questo
senso la M. è il materiale grezzo, amorfo, passivo e ricettivo di cui sono
composte le cose naturali. TAristotelei chiama questo materiale sog- getto
(Lroxeluevov). «Chiamo M., egli dice, il soggetto primo di una cosa, ciò da cui
la cosa si genera non accidentalmente » (Fis., I, 9, 192 a 31). Come soggetto
la M. «è ciò che rimane attraverso i mutamenti opposti: come, ad es., nel
movimento, il mobile rimane lo stesso pur essendo ora qua e ora là e nel
mutamento quantitativo rimane lo stesso ciò che diventa più piccolo o più
grande e nel mutamento qualitativo rimane la stessa cosa quella che talvolta è
in buona salute talaltra no » (Met., VIII, 1, 1042a 27). Nel suo aspetto di
soggetto la M. è priva di forma, indeterminata, quindi di per sè inconoscibile
(/bid., VII, 11, 1037 a 27; VII, 10, 1036a 8): caratteri che sono posse- duti
in modo eminente dalla «M. prima» cioè da quella M. che non costituisce il
materiale (per es., 36 — ABBAGNANO, Distonario di filosofia. S61 il bronzo o il
legno) di cui una cosa è fatta ma il soggetto comune, e inconoscibile, di tutti
i ma- teriali (/bid., IX, 7, 1049a 18 sgg.). Il concetto della M. come soggetto
passivo fu ripreso dagli IStoici! che per l’appunto designarono la M. da questo
suo carattere (Dioc. L., VII, 134). Per questo carattere di passività, per cui
essa è pronta a ricevere l’azione creatrice della (Ragione fron che è il
principiq attivo) gli Stoici chiamarono la M. « sostanza prima » (Diog. L.,
VII, 150; cfr. SENECA, Ep., 65, 2).'Plotino non faceva che portare al limite
questa concezione della M. affermando che essa «non è anima, nè intelletto, nè
vita, nè forma, nè ragione, nè limite (giacchè è assenza di limite), nè potenza
(giacchè che cosa potrebbe creare?). Priva com’è di tutti i caratteri, non può
neppure esserle attribuito l’essere nel senso, per es., in cui si dice che c’è
il movimento o la quiete; essa è veramente il non essere, un’immagine illusoria
della massa corporea” e una aspirazione all'esistenza » (Enn., III, 6, 7).
Questo concetto della M. fu co- stantemente adoperato a scopi teologici. Nella
pa- tristica lo ripetono (Origene: (Contra Cels., III, 41; De Princ., II, 1) e
S. Agostino. Quest’ultimo con- sidera la M., secondo il concetto classico, come
« assolutamente informe e priva di qualità » e « pros- sima al nulla » ma
tuttavia ‘esistente in quanto do- tata della capacità di essere formata (Conf.,
XII, 8; De natura boni, 18). S. Tommaso a sua volta nega che la M. sia «
potenza operativa » (S. 7A., I, q. 44, ad. 3°); ed insiste sulla sua
imperfezione o incom- piutezza relativamente alla forma (/bid., I, q. 4, a. 1).
La scolastica agostiniana, pur riconoscendo alla M. una certa realtà attuale e
negando perciò che essa sia un « quasi nulla » o una pura + possi- bilità
d’essere », non ne innova il concetto. Duns Scoto, ad es., pur riconoscendo
alla M. una certa realtà (enzitas), la considera tuttavia come « ricet- tiva di
tutte le forme sostanziali e accidentali», secondo il concetto aristotelico
(Op. Ox., II, d. 12, q. 1, n. 11); e le nega la potenza attiva negando in essa
la presenza delle ragioni seminali (/bid., d. 18, q. 1, n. 3). Da questo punto
di vista la passi- vità o ricettività rimane la caratteristica fondamen- tale
della materia. A questa caratteristica fecero pure appello alcuni naturalisti
del Rinascimento come, ad es., Paracelso (Metreor., 72) e Telesio: il quale
considerò la M. come la « massa corporea ? destinata a subire l’azione delle
due « nature agenti », il caldo e il freddo (De rer. nat., I, 4). Questa con-
cezione fu condivisa da Locke che concepì la M. come « morta e inattiva »
(Saggio, IV, 10, 10); ed essa ritorna frequentemente, ancor oggi, nella filo-
sofia e nel pensiero comune. Ritorna, per es., in ‘Bergson che intende la M.
come l’arresto potenziale del movimento della vita e la considera definita 562
dalla sua «inerzia», che la contrappone al «vi- vente » (Évol. Créatr., 8*
ediz., 1911, pag. 216 sgg.). 2° Il concetto della M. come\potenza}s’intreccia
in Platone e Aristotele, con quello della M. come soggetto. Platone dice che la
M. «non perde mai la propria potenza » (Tim., 50 b).|Aristotele iden- tifica la
M. con la potenza. « Tutte le cose prodotte sia dalla natura che dall'arte
hanno M. giacchè la possibilità che ha ciascuna di essere o_non es- .sere,
questa è, per ciascuna di esse, la sua M.» (Met., VII, 7, 1032a 20). Ma la
potenza non è, secondo Aristotele, solo questa pura possibilità di essere o non
essere: è una potenza operativa € attiva; « Una casa esiste potenzialmente se
non c'è niente nel suo materiale che le impedisca di diven- tare una casa e se
non c'è nient’altro che debba essere aggiunto, rimosso o mutato... E le cose
che hanno in se stesse il principio della loro genesi esisteranno di per se
stesse quando niente di esterno lo impedisca » (Mer., IX, 7, 1049 a 9 sgg.).
Questa autosufficienza della potenza a produrre la cosa, per la quale la M. non
è solo il grezzo materiale ma una capacità effettiva di produzione, esprime un
concetto che non è più quello della M. come passi- vità o ricettività. Come
potenza operativa, la M. non ‘ è un principio necessariamente corporeo! Plotino
che da un lato, come si è visto, riduce la M. al non es- sere, dall’altro la
identifica, come potenza, con l’in- finito (En., II, 4, 15). E ammette, accanto
alla M. sensibile, una M. intelligibile che resta sempre iden- tica a se stessa
e possiede tutte le forme, sicchè ‘manca per essa la ragione di trasformarsi
(#bid., II, 4, 3). Da questa dottrina trae origine la tradizione che insiste
sull'attività della M.: tradizione che passa attraverso Scoto Eriugena (De
divis. nat., III, 14), e ha una nuova fase nella dottrina di Avicebron della
composizione ilomorfica universale. Secondo Avion anche le cose spirituali sono
composte di M. e forma e la M. si identifica con la prima delle categorie
aristoteliche, la sostanza in quanto «sostiene» le altre nove categorie (Fons
vitae, II, 6). Solo sul fondamento del carattere attivo o creativo della M.
Davide di Dinant potette iden- tificare Dio con la M. (ALBERTO Magno, S. 7h.,
I, 4, q. 20; S. Tommaso, S. 7A., I, q. 4, a. 8). Ma la M. conserva il suo
carattere di attività anche nella scolastica agostiniana, che contemporanea-
mente insisteva nel riconoscere una realtà posi- tiva alla M. e la presenza di
essa anche negli esseri spirituali, secondo il concetto di Avicebron. ‘S.
Bonaventura]dice, per es.: « La ragione seminale è la potenza attiva insita
nella M.; e questa potenza attiva è l'essenza della forma giacchè da essa si
genera la forma mediante il procedimento della natura che non produce nulla dal
nulla » (7 Sent., II, d. 18, a. 1, q. 3). Questo concetto della M. ve- MATERIA
niva trasmesso al Rinascimento attraverso Nicola Cusano che considera la M.
come la « possibilità * indeterminata » nella quale esistono, in forma con-
tratta, tutte le cose dell’universo. « La disposizione della possibilità,
diceva Cusano, dovette essere con- tratta e non assoluta: giacchè se la terra,
il sole e le altre cose non fossero nascoste nella M. come possibilità
contratte, non ci sarebbe ragione per cui esse dovrebbero venire all’atto
anzichè non venire » (De docta ignor., II, 8). In altri termini, solo per la
presenza, allo stato contratto, di possi- bilità determinate nella M., queste
possibilità ven- gono fuori con la creazione. È un concetto sul quale Giordano
Bruno doveva fondare quello della M. come principio attivo e creativo della
natura: « Quella M. per essere attualmente tutto quello che può essere, ha
tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni; e perchè le
aveva tutte non ne ha nessuna, perchè quello che è tante cose diverse, bisogna
che non sia alcuna di quelle particolari ». In questo senso la M. coin- cide
con la forma (De la causa, IV). 3° Il concetto della M. come estensione fu
difeso da Cartesio. «La natura della M. o dei corpi in generale, egli diceva,
non consiste nell’es- sere una cosa dura o pesante o colorata o che tocca i
nostri sensi in qualche altro modo, ma solamente, nell’essere una sostanza
estesa, in lunghezza, lar- ghezza e profondità » (Princ. phil., II, 4). Questo
concetto viene largamente accettato nel 600. Hobbes, per es., identifica la M.
prima degli aristotelici con il corpo in generale cioè col «corpo considerato a
prescindere da qualsiasi forma e da qualsiasi accidente, eccetto la sola
grandezza o estensione e l’attitudine a ricevere forma e accidenti» (De Corp.,
VIII, 24). Questo stesso concetto del corpo in generale come materia è
accettato da Spinoza che anch'egli lo identifica con l'estensione (£r., II,
def. 1). Ci sono motivi per credere che questa defi- nizione della M. sia
quella implicita nell’ipotesi atomistica. Il termine « M.» ricorre, come è
noto, per la prima volta in Aristotele in significato filo- sofico; ma
Aristotele stesso parla, in riferimento a Democrito, del «corpo comune di tutte
le cose» e afferma che, secondo Democrito, tale corpo dif- ferisce, nelle sue
parti, in grandezza e figura (Fis., III, 4, 203a 33-203b 1). Ora «grandezza e
fi- gura » non sono altro che estensione. Altrove Ari- stotele enumera tre
differenze fra gli atomi cioè la figura, l’ordine e la posizione (Mer., I, 4,
985 b 15); ma figura, ordine e posizione non sono altro che estensione.
Estensione è pure la figura a cui, secondo Epicuro, si riducono tutte le
qualità dell’atomo (Dico. L., X, 54). L’ipotesi atomistica implica perciò il
concetto della M. come MATERIA estensione. Su tale concetto d’altronde
insisteva Guglielmo di Ockham nel sec. x1v: « È impossibile che ci sia M. senza
estensione: giacchè non è possibile che ci sia M. che non abbia le parti
distanti l’una dall'altra: onde sebbene le parti della M. possano unirsi come
si uniscono quelle dell’acqua e dell’aria, non possono tuttavia essere nel
medesimo luogo» (Summulae physicorum, I, 19; Quodl., IV, q. 23). 4° Il concetto
della M. come forza o energia viene dapprima difeso dai Platonici di Cambridge
del sec. xv, poi accettato da Leibniz e da molti filosofi del sec. xvm. Secondo
Cudworth, la M. è una natura plastica cioè una forza vivente che è diretta
emanazione di Dio (The True Intellectual System of the Universe, I, 1, 3). H.
More a sua volta riduce, con Cartesio, la M. a estensione; ma identifica
l’estensione stessa con lo spirito, ri- solvendola in particelle indivisibili
che egli chiama monadi fisiche e che non hanno più nulla di ma- teriale
(Enchiridion metaphysicum, I, 8, 8; I, 9, 3). Queste considerazioni metafisiche
assunsero un più preciso significato per opera di Newton e Leibniz. Newton
riteneva impossibile ammettere che «la M. fosse vuota di ogni tenacità e
attrito di parti e comunicazione di movimento » e la considerava perciò in
strettissima relazione con le «forze» o « principi » che si manifestano
nell’esperienza (Op- ticks, 1704, III, 1, q. 31). Leibniz ritiene che la M. sia
costituita, oltre che dall’estensione, da una forza passiva di resistenza che è
l’impenetrabilità o antitipia (v.) (Op., ed. Erdmann, pag. 157, 463, 466, 691).
La stessa dottrina fu accettata da Wolff che definiva la M. « un ente esteso
fornito di forza d'inerzia » e riteneva che essa possedesse di per se stessa
una forza attiva (Cosmol., $ 141-42). Questa interpretazione della M. divenne
uno dei temi comuni dell’Illuminismo e della polemica degli illuministi contro
Cartesio. Diceva Diderot: « Non so in qual senso i filosofi hanno supposto che
la M. sia indifferente al movimento e al riposo. È certo, invece, che tutti i
corpi gravitano gli uni sugli altri; che tutte le particelle dei corpi
gravitano le une sulle altre; che in questo universo tutto è in tra- slazione o
in nisu o in traslazione e in nisu in- sieme » (Principes phil. sur la Matière
et le Mouve- ment, in (Euvr. phil., ed. Vernière, pag. 393). Questa fu anche la
concezione accettata da Kant. « La M., egli diceva, riempie uno spazio, non
attraverso la sua pura esistenza ma mediante una particolare forza motrice »:
una forza repulsiva di tutte le sue parti (Metaphysische Anfangsgrilnde der
Naturwis- senschaft, II, Lehrsatz, 2, 3). Il concetto romantico della M. come
forza o attività quale si trova, ad es., espresso da Schelling non è che
l’amplificazione di questa dottrina. Le tre dimensioni della M. sono
determinate, secondo Schelling dalle tre forze che 563 la costituiscono: cioè
dalla forza espansiva, dalla forza attrattiva e da una terza forza sintetica:
che corrispondono nella natura rispettivamente al magnetismo, all’elettricità e
al chimismo (System des transzendentalen Idealismus, III, cap. II, Dedu- zione
della materia; trad. ital., pag. 109 sgg.). Più genericamente Schopenhauer
identificava la M. con l’attività (Die Welt, I, $ 4). Nel dominio scientifico
questo punto di vista è stato realizzato come ener- getismo (v.). G. Ostwald ha
sostenuto alla fine del secolo scorso, l’inutilità perfetta, per la scienza
della natura, del concetto di M. e la sua sostituzione con quello di energia
(Die Uberwindung des wissen- schaftlichen Materialismus, 1895). 5° Mentre la
riduzione operata da Berkeley della M. a percezioni o idee non si può chiamare
un concetto della M. perchè è la semplice negazione di essa, si può considerare
invece come definizione della M. quella data da Mach come di una « de-
terminata connessione degli elementi sensibili in conformità di una legge»
(Analyse der Empfin- dungen, XIV, 14). Questa definizione non tende in- fatti a
negare la materia o a ridurla a elementi soggettivi e psichici ma a sostituire
la stabilità rela- tiva di una legge alla rigidità e inerzia tradizional- mente
attribuite alla materia. Il concetto fondamen- tale è, in questa definizione,
quello di legge, che si intende come l’espressione di una connessione co-
stante. La M. sarebbe appunto la connessione co- stante nella quale si
presentano raggruppati gli elementi ultimi delle cose cioè le sensazioni. 6° I
precedenti usi del termine son tutti di natura filosofica anche se talora sono
stati proposti o sostenuti da scienziati. Nel dominio della scienza, e
precisamente della meccanica, la nozione di M. si identifica con quella di
massa (definita dal secondo principio della dinamica come rapporto tra la forza
e l’accelerazione impressa). La massa può essere intesa o come massa inerziale
o come peso. Il principio della «conservazione della M.+ che la scienza
dell’800 considerava come uno dei suoi pilastri, accanto a quello della «
conservazione del- l’energia », si riferisce per l'appunto alla M. intesa come
peso; giacchè il suo significato specifico gli fu dato soltanto dalle celebri
esperienze con cui Lavoisier dimostrava (1772) che nelle reazioni chi- miche
(ivi compresa la combustione) il peso del composto è la somma dei pesi dei
componenti. 7° Nella scienza contemporanea il concetto di M. tende ad essere
ridotto a quello di densità di campo. « Una volta riconosciuta l’equivalenza
tra massa ed energia, la divisione fra M. e campo appare artificiosa e non
chiaramente definita. Non potremmo allora rinunciare al concetto di M. ed
edificare una fisica del puro campo? Ciò che fa impressione sui nostri sensi
come M. è in realtà 564 una grande concentrazione di energia in uno spazio
relativamente limitato. Sembra quindi lecito assi- milare la M. a regioni
spaziali nelle quali il campo è estremamente forte » (EINsTEIN-INFELD, The Evo-
lution of Physics, cap. II; trad. ital, pag. 253). Questo indirizzo della
fisica contemporanea non si può tuttavia confondere con l’energetismo perchè
non implica la riduzione della M. a energia ma piuttosto la riduzione dei due
concetti di M. e di energia a quello di campo (v.). MATERIALISMO (ingl. Materialism;
fran- cese Matérialisme; ted. Materialismus). Questo termine fu usato per la
prima volta da Roberto Boyle nello scritto del 1674 intitolato The Excel- lence
and Grounds of the Mechanical Philosophy (cfr. EUCKEN, Geistige Stromungen der
Gegenwart, 5* ediz., 1916, pag. 168). Esso designa in generale ogni dottrina
che attribuisca la causalità soltanto alla materia. In tutte le sue forme
storicamente individuabili (fuori dell’uso polemico del termine) il
materialismo consiste infatti nell'affermare che la sola causa delle cose è la
materia. La vecchia defi- nizione di Wolff secondo la quale sono materialisti
«i filosofi che ammettono solo l’esistenza degli enti materiali cioè dei corpi»
(Psychol. rationalis, $ 33) non è sufficiente a individuare le forme storiche
del M. perchè porterebbe a includere in questa cor- rente dottrine che le
ripugnano (v. oltre). Si possono su questa base distinguere: 1° il M.
metafisico o cosmologico, che si identifica con l’atomismo filo- sofico; 2° Il
M. metodologico secondo il quale l’unica spiegazione possibile dei fenomeni è
quella che fa ricorso ai corpi e ai loro movimenti; 3° il M. pratico che è
quello che riconosce nel piacere l’unica guida della vita; 4°il M. psicofisico
che è quello che ammette la stretta dipendenza causale dei fenomeni psichici da
quelli fisiologici. Queste sono le forme storica- mente riconoscibili del M.
oltre quelle note sotto i nomi di M. dialettico e M. storico (v.), considerati
a parte. Non si può assumere invece come storica- mente legittimo il
significato che Berkeley attribuisce al termine, intendendo per materialisti
tutti coloro che comunque riconoscano l’esistenza della materia (Principles of
Human Knowledge, $ 74) perchè in questo senso sarebbero materialisti anche
Aristo- tele e gli aristotelici. Neppure si possono chiamare materialisti gli
Stoici per quanto ritenessero che tutto ciò che è in natura è corpo (Diog. L.,
VII, 1, 56; PLUT., De Com. Not.) giacchè ammettevano un principio razionale
divino come causa del mondo; e non può essere ritenuto materialista, per motivi
analoghi, Tertulliano, il quale pure afferma che «tutto ciò che esiste è corpo
» (De An., 7: De carne Christi, 11). 1° Il M. cosmologico è caratterizzato
dalle seguenti tesi: 4) Il carattere originario o inderivabile MATERIALISMO
della materia, che precede ogni altro essere e ne è la causa. Non è pertanto un
M. la dottrina di Gassendi secondo la quale gli atomi costituenti l'universo
sono stati creati da Dio. 5) La struttura atomica della materia. c) La presenza
nella materia, quindi negli atomi, di una forza capace di farli muovere e
combinarsi in modo tale da dare origine alle cose. Democrito ammetteva che gli
atomi si muovono per loro conto dall’eternità (ARIST., Fis., VII, 1, 252a 32) e
questo presupposto è rimasto in tutte le forme dell’atomismo. L'ultima forma
sto- rica che il M. ha assunto, quella che ebbe la massima diffusione negli
ultimi decenni del secolo scorso, per opera del biologo tedesco Ernesto Haeckel
am- metteva addirittura che gli atomi fossero dotati, oltre che di movimento,
anche di vita e di sensibi- lità (Die Weltràtsel, 1899). d) La negazione del
finalismo dell’universo e in generale di ogni ordine che non consista nella
semplice distribuzione delle parti materiali nello spazio. e) La riduzione dei
poteri spirituali umani alla sensibilità, cioè il sen- sismo. In questa forma,
il M. si è presentato: nell’antichità, nelle dottrine di Democrito e di
Epicuro; nell’età moderna, in quelle di alcuni il- luministi e numerosi
positivisti dell’Ottocento. 2° Il M. metodico è stato difeso per la prima volta
da Hobbes e la sua tesi fondamentale consiste nel ritenere che la nozione di
materia, cioè di corpo e di movimento, sia il solo strumento disponibile per la
spiegazione dei fenomeni. Hobbes affermava difatti che la conoscenza di una
cosa è sempre cono- scenza della sua genesi, e che la genesi è movimento.
Perciò ogni conoscenza è conoscenza del movimento; e il movimento implica
corpo. Perciò egli ha chia- mato De Corpore (1655) il suo trattato di filosofia
prima. Da questo punto di vista la spiegazione mate- rialistica è l’unica
possibile anche per ciò che riguarda lo spirito e le cose spirituali. Così
Hobbes obiettava a Cartesio: « Che diremo se il ragionamento non è altro che un
insieme e una connessione di nomi per mezzo della parola «è »? Segue da questa
tesi che mediante la ragione non possiamo concludere nulla che riguardi la
natura delle cose ma solo riguardo ai loro appellativi e cioè che con essa noi
vediamo soltanto se raggruppiano bene o male i nomi delle cose, secondo le
convenzioni che abbiamo stabilito a nostro arbitrio per i loro significati. Se
è così, come può ben darsi, il ragionamento di- penderà dai nomi, i nomi
dall’immaginazione, e l'immaginazione forse (e questo secondo la mia opinione)
dal movimento degli organi corporei e così lo spirito non sarà altro che un
movimento in certe parti del corpo organico» (/// Objections, 4). Il corpo è
pertanto, secondo Hobbes, l’unico oggetto possibile del sapere umano e la
filosofia si divide in due parti, la filosofia naturale e la filosofia civile
MATERIALISMO DIALETTICO a seconda che studia il corpo naturale cioè la natura o
il corpo artificiale cioè la società (De Corp., I, 9). Un M. metodico è stato,
in tempi recenti sostenuto dai filosofi del circolo di Vienna e specialmente da
Carnap, ma in un senso ancora diverso da quello di Hobbes e riferentesi al
linguaggio: tale M. è l’esigenza di tradurre nei termini del linguaggio fisico
i dati protocollari, per costruire con essi un linguag- gio intersoggettivo.
Questo M. s’identifica perciò col fisicalismo (v.) e non implica nessuna
affermazione sull’esistenza della materia (cfr. Erkenntnis, 1931, pag. 447).
Tale M. non implica neppure la deduci- bilità delle leggi biologiche e
psicologiche dalle leggi fisiche. L’unificazione delle leggi della scienza è
senza dubbio, secondo questo punto di vista una meta della scienza stessa; ma
non si può esclu- dere nè prevedere che questa meta sarà raggiunta (CARNAP,
Logical Foundations of the Unity of Science, 1938, pag. 61). 3° Nel suo
significato pratico o morale, il M. è un termine che appartiene al linguaggio
comune più che a quello filosofico. Si parla infatti di « epoca materialistica
», di «tendenze materialistiche » o del «materialismo » di gruppi o ceti di
persone per indicare la tendenza al benessere o, più esatta- mente, un’etica
che assuma il piacere come sola guida della condotta. Il termine filosofico per
questo è edonismo (v.). L’edonismo si accompagna spesso col M. ma non
necessariamente. L’etica di Epicuro e dei materialisti dell’800 è edonista; ma
non lo è l’etica di Democrito. D'altronde l’edonismo può essere proprio di
filosofie non materialistiche; e per es. fu accettato dai Cirenaici e degli
Empiristi del xvm secolo. Nella sua forma estrema tuttavia l’edonismo costituì
una manifestazione caratte- ristica del M. psicofisico settecentesco, che, su
questo punto, fu una continuazione del /iberti- nismo (v.). L’opera di
HELVETIUS, De l’esprit (1758) è particolarmente significativa a questo riguardo
perchè contiene un’esaltazione indiscri- minata del piacere: come l’altra di
qualche anno anteriore di La METTRIE, L’art de jouir ou l’école de la volupté
(1751). 4° Il materialismo psicofisico consiste nell’af- fermare la stretta
dipendenza causale dell’attività spirituale umana dalla materia cioè
dall’organismo, dal sistema nervoso o dal cervello. Questa tesi si è presentata
in diverse forme nel xvm e xIx secolo. Una di queste forme è la concezione del-
l’uomo macchina. L'espressione fu usata dal fran- cese La METTRIE come titolo
d’una sua opera famosa (1748); ma il concetto si trova anche espresso
nell'opera di Dave HARTLEY, Observations of Man (1749) e in quella di GiusepPE
PRIESTLEY Disquisitions Relating to Matter and Spirit (1777). Il Système de la
nature di Holbach è forse la mi- 565 gliore espressione di questo punto di
vista: secondo il quale tutte le facoltà umane sono modi d’essere e di agire
che risultano dall’organismo fisico del- l’uomo, a sua volta determinato dalla
macchina dell’universo. Una più ristretta e specifica forma di questo M. è
quella che esso assunse nell’opera del medico francese Pietro CABANIS, Rapports
du physique et du moral de l'homme (1802) che insiste sulla dipendenza delle
attività psichiche dal sistema nervoso. Verso la metà dell’800 questa
dipendenza causale dei poteri spirituali umani dal sistema ner- voso sembrò a
molti filosofi e scienziati un fatto stabilito. Il M. di quell’epoca fa leva
appunto su questo fatto. Lo zoologo Carlo Vogt in uno scritto del 1854, La fede
del carbonaro e la scienza (KOhler- glaube und Wissenschaft, 1854) affermava
che «il pensiero sta al cervello nella stessa relazione in cui la bile sta al
fegato o l’urina ai reni»: una affermazione cui faceva riscontro quella dello
sto- rico e letterato francese Ippolito Taine: «Il vizio e la virtù sono
prodotti come il vetriolo e lo zuc- chero, e ogni dato complesso nasce
dall’incontro di altri dati più semplici da cui dipende » (Histoire de la
littérature anglaise, 1863, Intr.). Un’altra forma più attenuata o se si vuole
più signorile della stessa dottrina è quella secondo la quale la coscienza è
l’epifenomeno dei processi nervosi nel senso che mentre è prodotta da essi non
reagisce su di essi più che l’ombra non reagisca sull’oggetto che la produce
(Huxley, Clifford, Ribot). La Storia del M. (Geschichte des Materialismus,
1866) di Fede- rico Alberto Lange impernia l’esposizione del M. proprio sul M.
psicofisico: nel quale egli vede un salutare mernento contro la pretesa di
estendere il sapere umano al di là di certi limiti. Il M., secondo Lange,
rinasce tutte le volte che l’uomo dimentica questi limiti e pretende dare
valore oggettivo a costru- zioni metafisiche che hanno solo valore fantastico.
Sia il M. metafisico sia il M. psicofisico della metà dell’800 hanno un carattere
romantico. Non vogliono, cioè, limitarsi ad essere tesi filosofiche dotate di
maggiori o minori possibilità di conferme ma pretendono essere dottrine di
vita, destinate a sconfiggere la religione e a soppiantarla. Questa pretesa dà
a tali dottrine un tono violentemente polemico e profetico, per cui la «
Scienza » diventa la nuova tavola della verità assoluta. Questo atteg- giamento
si chiamò scientismo (v.) e costituisce l’avanguardia romantica della scienza
dell’800. Di tale scientismo, il M. costituì il credo: un credo che la scienza
stessa in buona parte contribuì a smantel- lare, con la crisi in cui entrava,
negli ultimi decenni del secolo, la concezione meccanistica di essa.
MATERIALISMO DIALETTICO (ingl. Dia- lectical Materialism; franc. Matérialisme
dialectique; ted. Dialektischer Materialismus). S’intende con 566 questa
espressione la filosofia ufficiale del comunismo in quanto teoria dialettica
della realtà (naturale e storica). Più che di un materialismo (v.), si tratta
veramente di un dialettismo naturalistico, i cui principi furono posti da Marx
(v. DIALETTICA), ma svolti da Engels in un modo che è poi stato più o meno
pedissequamente seguìto dai filosofi del mondo comunista, che sono i soli
seguaci di tale filosofia. Secondo Engels, Hegel ha perfettamente riconosciuto
le leggi della dialettica, ma le ha consi- derate come « pure leggi del
pensiero + sicchè non sono state ricavate dalla natura e dalla storia, ma «
elargite ad esse dall’alto come leggi del pensiero ». Ma «se noi capovolgiamo la
cosa, tutto diviene semplice: le leggi della dialettica che nella filosofia
idealistica appaiono estremamente misteriose diven- tano subito semplici e
chiare come il sole» (Anti- Diihring, pref.). Tali leggi sono, secondo Engels,
tre: 1° La legge della conversione della quantità in qualità e viceversa; 2° La
legge della compene- trazione degli opposti; 3° La legge della negazione della
negazione. La prima significa che nella natura le variazioni qualitative
possono essere ottenute soltanto aggiungendo o togliendo materia o movi- mento,
cioè mediante variazioni quantitative. La seconda legge garantisce l’unità e la
continuità del mutamento incessante della natura. La terza significa che ogni
sintesi è a sua volta la tesi di una nuova antitesi che metterà capo ad una
nuova sintesi (EncELS, Dialektik der Natur, passim). L'insieme di queste leggi
determina, secondo Engels, l’evoluzione necessaria, e necessariamente
progressiva, del mondo naturale. L'evoluzione storica continua, con le stesse
leggi, quella naturale. Il senso dell’intero processo è ottimistico.
L'organizzazione della pro- duzione secondo un piano, quale si attuerà nella
società comunista, è destinato a sollevare gli uomini al di sopra del mondo
animale dal punto di vista sociale, come l’uso degli strumenti della produzione
lo ha fatto dal punto di vista della specie. Come si vede il M. dialettico di
Engels non è altro che la teoria dell'evoluzione (la quale celebrava ai tempi
di Engels i suoi primi trionfi) interpretata nei termini delle formule dialettiche
hegeliane e condotta al suo più ottimistico esito. Si considerano abitualmente
come parti integranti del M. dialettico, il materialismo storico e il mate-
rialismo metafisico. Sul primo, v. la voce a parte. Sul secondo, hanno
insistito, più che Marx e Engels, Lenin e i comunisti russi. Lenin così
recapitolava le tesi del materialismo: «1° Ci sono cose che esistono
indipendentemente dalla nostra coscienza, indipen- dentemente dalle nostre
sensazioni, al di fuori di noi. 2° Non esiste e non può esistere alcuna
differenza di principio tra il fenomeno e la cosa in sè. La sola differenza
effettiva è quella tra ciò che è cono- MATERIALISMO STORICO sciuto e ciò che
non lo è ancora. 3° Sulla teoria della conoscenza, come in tutti gli altri
campi della scienza, si deve ragionare sempre dialetti- camente cioè non
supporre mai invariabile e già fatta la nostra conoscenza ma analizzare il pro-
cesso per cui la conoscenza nasce dall’ignoranza o grazie al quale la
conoscenza vaga e incom- pleta diventa conoscenza più adeguata e precisa »
(Materialismus und Empiriokritizismus, 1909; tra- duzione ital., pag. 75). Come
si vede, neppure queste tesi esprimono una concezione materiali- stica, ma
costituiscono una rivendicazione del realismo gnoseologico. MATERIALISMO STORICO
(ingl. MHisto- rical Materialism; franc. Matérialisme historique; ted.
Historischer Materialismus). Con questo nome fu designato da Engels il canone
di interpretazione storica proposto da Marx e precisamente quello che consiste
nel riconoscere ai fattori economici (tecniche di lavoro e di produzione,
rapporti di lavoro e di produzione) un peso preponderante nella determinazione
degli eventi storici. Il presup- posto di questo canone è il punto di vista
antro- pologico difeso da Marx, secondo il quale la perso- nalità umana è
costituita intrinsecamente (cioè nella sua stessa natura) dai rapporti di
lavoro e di produ- zione in cui l’uomo entra per far fronte ai suoi bisogni. Di
questi rapporti la « coscienza » dell’uomo (cioè le sue credenze religiose, morali,
politiche, ecc.) è piuttosto un risultato che un presupposto. Questo punto di
vista venne difeso da Marx soprattutto nello scritto /deologia tedesca
(Deutsche Ideologie, 1845-46). Stando ciò, la tesi del materialismo sto- rico è
che le forme che la società storicamente assume dipendono dai rapporti
economici che prevalgono in una certa fase di essa. Dice Marx: « Nella produ-
zione sociale della loro vita, gli uomini entrano in determinati rapporti
necessari e indipendenti dalla loro volontà, rapporti di produzione che
corrispon- dono ad una certa fase di sviluppo delle loro forze produttive
materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura
economica della società, che è la base reale su cui si edifica una
soprastruttura giuridica e politica e alla quale corri- spondono determinate
forme sociali di coscienza... Il modo di produzione della vita materiale
condiziona perciò in generale, il processo della vita sociale, po- litica e
spirituale » (Zur Kritik der politischen Oko- nomie, 1859, Pref.; trad. ital.,
pag. 17). Marx elaborò questa teoria soprattutto in opposizione al punto di
vista di Hegel: per Hegel è la coscienza che determina l’essere sociale
dell’uomo; per Marx invece è l’essere sociale dell’uomo che determina la sua
coscienza. Non bisogna tuttavia credere che Marx abbia voluto farsi sostenitore
di un fatalismo economico per il quale le condizioni economiche necessitereb-
MATRICI, METODO DELLE bero l’uomo a determinate forme di vita sociale. Negli
stessi rapporti economici, in quanto dipen- dono dalle tecniche di lavoro, di
produzione, di scambio, ecc. l’uomo entra come elemento attivo e condizionante;
e pertanto la condizionalità che la struttura economica esercita sulle
soprastrutture sociali è, almeno parzialmente, una auto condi- zionalità
dell’uomo nei confronti di se stesso (Deutsche Ideologie, I, C; trad. ital.,
pag. 69 sgg.). Engel parlò in seguito di un «rovesciamento della prassi storica
+, cioè di una reazione della coscienza umana alle condizioni materiali, opposta
all’azione di questa su quella. Ma dal punto di vista di Marx, di tale
rovesciamento non c’è bisogno: giacchè non è la soprastruttura che reagisce
sulla struttura, ma l’uomo che, intervenendo, con le sue tecniche, a mutare o a
migliorare la struttura economica, si autocondiziona attraverso di essa. Il
materialismo storico ha proposto all’attenzione degli storici un canone di
interpretazione al quale in molti casi è indispensabile far ricorso per la
spiegazione di eventi e di istituzioni storico-sociali. A questo canone fanno
infatti ricorso, in più o meno larga misura, storici di tutti i domini
dell'attività umana, in quanto esso apre alla spiegazione storica una via che,
talvolta, è la sola possibile. Tuttavia non è sempre la sola possibile. Si tende
oggi a inter- pretare il materialismo storico, non come un prin- cipio
dogmatico (quale soprattutto Engel lo pro- pose), ma come una possibilità
esplicativa cui si debba far ricorso in circostanze appropriate. In altri
termini, affermare che in ogni caso eventi o situazioni storico-sociali debbano
essere spiegate col determinismo dei fattori economici è tesi al- trettanto
dogmatica di quella che volesse esclu- dere assolutamente e in ogni caso il
determinismo di tali fattori. Lo storico si trova, in una data situazione, a
dover determinare il peso relativo dei fattori determinanti; e si tratta di
stabilirlo di volta in volta, di fronte alle situazioni partico- lari, senza
che esso possa essere deciso in anticipo e una volta per tutte. Sottratto alla
sua impostazione dogmatica, il materialismo storico ha offerto alla tecnica
della spiegazione storiografica una delle sue possibilità più feconde e un
nuovo grado di libertà alla scelta storiografica (v. STORIOGRAFIA).
MATESIOLOGIA (franc. Mathésiologie). Ter- mine adoperato da Ampère per indicare
la scienza che dovrebbe avere per oggetto « da una parte le leggi che si devono
seguire nello studio o nell’in- segnamento delle conoscenze umane, dall’altra
la classificazione naturale di queste conoscenze » (Essai sur la philosophie
des sciences, 1834, pag. 31). MATHEMA (gr. uk0nua). Tutto ciò che è oggetto di
apprendimento. In tal senso Platone chiama l’idea del bene «il più grande M.»
(Rep., 567 VI, 505 a). Sesto Empirico riteneva che il M. im- plicasse, oltre la
cosa appresa, colui che la apprende, e il modo dell’apprendimento (Adv. Math.,
I, 9) e intendeva per «matematici» tutti i cultori di scienze oltre che i
filosofi. Kant restrinse la parola a indicare le proposizioni della matematica,
che sono quelle ottenute mediante «la costruzione di concetti » (Cri. R. Pura,
II, cap. 1, sez. 1). La parola più vicina all’uso classico del termine è
disciplina (v.): una scienza in quanto si apprende o insegna. MATHESIS
UNIVERSALIS. Così Leibniz (Op., ed. Erdmann, pag. 8) chiamò l’arte combina-
toria o caratteristica universale (v.). Husserl ha ri- preso il termine per
indicare la logica formale o pura come «scienza eidetica dell’oggetto in gene-
rale », che egli caratterizza così: « Oggetto è per essa tutto ed ogni cosa e
perciò possono essere costituite le verità infinitamente molteplici che si
distribuiscono nelle molte discipline della mathesis. Queste ultime per altro
rimandano tutte ad un piccolo patrimonio di verità immediate o fonda- mentali
che nelle discipline puramente logiche fun- gono da assiomi + (Ideen, I, $ 10;
Logische Untersu- chungen, I, cap. ultimo). MATRICI, METODO DELLE (ingl.
Method of matrices; franc. Méthode des matrices). Il me- todo con cui si costruiscono le tavole di
verità (v. TAVOLA) e che consiste nell’enumerazione sistematica delle
possibilità di verità per un certo numero di proposizioni semplici cioè
nell’enumera- zione delle combinazioni possibili dei valori di verità di queste
proposizioni. Per una proposizione si hanno due possibilità (vero o falso), per
due proposizioni quattro e in generale per n proposi- zioni 2° possibilità di
verità. Questo metodo fu introdotto da Peirce in uno scritto del 1885 (Coll.
Pap., 4.359-403), fu sviluppato da Schréder (A4/- gebra der Logik, 1890)
adoperato dai logici polacchi e specialmente da Lukasiewicz per la costruzione
delle logiche polivalenti (cioè che ammettono oltre ai due valori di verità,
vero e falso, il valore possibile) (cfr. TARSKI, Logic, Semantics,
Metamathematics, 1956, cap. IV), ed è adoperato oggi su vasta scala da molti
logici matematici (cfr., ad es., BETH, Les fondements logiques des
mathematiques, 1955, $ 34). Il metodo era conosciuto nell’antichità e Filone di
Megara se ne servì nella sua analisi delle pro- posizioni condizionali. Egli infatti
asserì che tali proposizioni sono vere nei casi seguenti: 1° se sia
l’antecedente sia il conseguente sono veri; 2° se l’antecedente è falso e il
conseguente è vero; 3° se l’antecedente e il conseguente sono entrambi falsi;
ma sono false se l’antecedente è vero e il conse- guente è falso (Sesto
EmMpPIRICO, Adv. Math., 1, 309). V. CONDIZIONALE; IMPLICAZIONE. 568 Il metodo
delle M. serve in generale per rico- noscere se una proposizione del calcolo
proposi- zionale è vera e se perciò può essere enumerata fra le leggi del
calcolo (TARSKI, Introduction to Logic, $ 13; CHurc8Ò, Introduction to
Mathematical Logic, I, $ 15). MATRIMONIO (gr. l'&uoc; lat. Matrimonium;
ingl. Marriage; franc. Mariage; ted. Ehe). Qual- siasi progetto di vita in
comune tra persone di sesso diverso. Questa è una definizione generaliz- zata
che tiene conto della varietà di forme che il M. assume in gruppi sociali
diversi nonchè dei diversi concetti che ne sono stati dati. Tali con- cetti
possono essere raggruppati nel modo seguente: 1° Il M. come istituzione
naturale. Così lo concepirono Platone che vide «nella società co- niugale il
principio e l’origine di tutti gli stati » (Leggi, IV, 721 a); e Aristotele che
considerò la famiglia «anteriore e più necessaria dello Stato » (Er. Nic., 8,
12, 1162a 18 sgg.); sebbene sia Pla- tone che Aristotele ritenessero
indispensabile che lo Stato intervenisse a ordinare le modalità del matrimonio.
In questo caso, il fine esclusivo del M. è la procreazione e l’educazione della
prole. 2° Il M. come istituzione contrattuale. Così il M. venne inteso dal
diritto romano e dal diritto canonico. In tal caso, pur riconoscendosi il fine
del M. nella procreazione ed educazione della prole, si distingue da esso la
forma o essenza del M. considerato come un’associazione o comunità di vita
(consortium omnis vitae, Dig., XXI, 23, 2) o « una qualche indivisibile
congiunzione degli animi », come dice S. Tommaso (S. 7h., III, q. 29, a. 2), la
cui condizione indispensabile è il consenso espresso nelle forme stabilite dalla
legge civile o religiosa. Sull’aspetto contrattuale del M. insisteva Kant che
lo definì come «l’unione di due persone di sesso diverso per il possesso
reciproco delle loro facoltà sessuali durante tutta la vita »; lo considerò
come fonte di un diritto reale oltre che personale nel senso che ognuno delle
due persone è acquistata dall'altra proprio come una cosa; ma vide nella
reciprocità di tale acquisto il riscatto della perso- nalità dei due coniugi
(Mer. der Sitten, I, $ 24-25). Hegel invece insisteva sull’unità
etico-sentimentale del M.: «Il M., egli diceva, non è essenzialmente nè unione
meramente naturale, bestiale, nè un puro contratto civile, ma un’unione morale
del senti- mento, nel mutuo amore e fiducia, che fa di due persone una sola
persona » (Philosophische Propà- deutik, I, $ 51; Enc., $ 519; Fil. del Dir., $
162). 3° Il M. come istituzione sociale. Questo è il punto di vista degli
antropologi e sociologi che hanno riscontrato nei diversi gruppi umani, tutte
le forme possibili di M.: quello di un uomo e di una donna, di un uomo e di più
donne, di più MATRIMONIO donne e di un uomo, di più uomini e più donne (cfr.,
ad es., W. N. STEPHENS, The Family in Cross- Cultural Perspective, 1963). Da
questo punto di vista, Levi-Strauss ha considerato le regole del M. come una
specie di linguaggio, cioè un certo tipo di comunicazione: più specificamente
come la co- municazione delle donne nel seno di un gruppo (Structures
élémentaires de la parenté, 1949; cfr. An- thropologie structurale, 1958, pag.
69 sgg.). MECCANICISMO (ingl. Mechanism; francese Mécanisme; ted. Mecanismus).
Ogni dottrina che faccia ricorso alla spiegazione meccanicistica. Per
spiegazione meccanicistica si intende quella che si serve esclusivamente del
movimento dei corpi, in- teso nel senso ristretto di movimento spaziale. In
questo senso, una teoria meccanicistica della natura è quelia che non ammette
altra spiegazione possi- bile dei fatti naturali, a qualsiasi dominio apparten-
fano, se non quella che li considera come movi- menti o combinazioni di
movimenti di corpi nello spazio. Il M. può essere considerato: 1° come una
concezione filosofica del mondo; 2° come un me- todo o un principio direttivo
della ricerca scien- tifica. 1° Come concezione filosofica del mondo, il M. si
è presentato, sin dall’antichità, come asomismo (v.). La concezione del mondo
come di un sistema di corpi in movimento, cioè di una grossa macchina, è
propria dell’atomismo antico. Il materialismo del *700 e dell’800 ha ripreso
questa concezione, la quale è contrassegnata dalle seguenti caratteri- stiche:
a) la negazione di ogni ordine finalistico. La polemica fra M. e finalismo è
cominciata non appena, a partire dal ’600, il M. si è affermato col sorgere
della scienza moderna. Anche oggi, spesso, per M. non s'intende che la
negazione del fina- lismo (v.); b) il determinismo rigoroso cioè il con- cetto
di una causalità necessaria che investa tutti i fenomeni della natura. Oggi si
considera come non meccanicistica ogni concezione del mondo che neghi il
determinismo rigoroso. I due tratti precedenti si trovano tipicamente espressi
nella filosofia di Hobbes che costituisce una delle migliori espressioni del M.
filosofico (v. MATERIALISMO). Dall'altro lato, la veduta più scaltrita che le
filosofie antimeccanicistiche dell’800 assunsero di fronte al M. fu quella
espressa da Lotze nel Microcosmo (1856) e cioè che «il com- pito che spetta al
M. nell’ordinamento dell’uni- verso è universale senza eccezioni quanto alla
sua estensione, ma nel tempo stesso affatto secondario quanto alla sua
importanza» (Mikrokosmus, I, Intr.; trad. ital., pag. 10): o, in altri termini,
che il M. non è che lo strumento di cui il Principio razionale o divino
dell’universo si è avvalso per raggiungere i suoi scopi. Questo punto di vista
si è intrecciato, MECCANICISMO nella filosofia spiritualistica contemporanea,
con la critica ab extrinseco dei princìpi scientifici del mec- canicismo. Nel
frattempo, tuttavia, cioè a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, il
M. come concezione filosofica generale non trovava più so- stenitori per motivi
che saranno chiari nel seguito. 2° Il M. scientifico può essere considerato: a)
nella fisica; 5) nelle altre scienze. a) Nella fisica, il M. consiste nella
tesi che tutti i fenomeni della natura debbano essere spie- gati con le
semplici leggi della meccanica; e che pertanto la meccanica stessa possegga uno
status privilegiato fra le altre scienze, in quanto fornisce a tutte i princìpi
di spiegazione. Ora la meccanica come scienza è creazione relativamente
recente. Archimede conosceva gli elementi della srarica cioè di quella parte di
essa che tratta dell’equilibrio delle forze ma la dinamica, cioè lo studio dei
mo- vimenti dei corpi sotto l’azione delle forze, rimase sconosciuta agli
antichi ed è stata fondata da Galilei e da Newton. Il principio di D’Alembert
unificava poi la statica e la dinamica mostrando che un problema di dinamica
può essere trasformato in un problema di equilibrio di forze, quindi di sta-
tica, prendendo in considerazione forze fittizie dette « forze d’inerzia »: e
così, per es., l’orbita di un pianeta intorno al sole può essere considerata
come l’equilibrio tra la forza gravitazionale e una forza centrifuga uguale ed
opposta. Con questa concezione la meccanica era in qualche modo con- clusa
quanto ai suoi teoremi fondamentali. Da allora essa ha subìto soltanto
trasformazioni con- cettuali e linguistiche che hanno mirato a renderla più
coerente e semplice. Da questo punto di vista, una seconda fase dello sviluppo
della meccanica può essere considerato quello che essa ha subìto verso la metà
dell’800, ad opera soprattutto di Hamilton, con la sostituzione dell’idea di
energia a quella di forza. La prima fase della meccanica era caratterizzata dal
tentativo di spiegare i feno- meni naturali col ridurli a innumerevoli azioni a
distanza fra gli atomi della materia. La seconda fase si ispira all'importanza
che il principio di conservazione dell’energia (enunciato da Helm- holtz nel
1847) aveva assunto nella scienza e dalla espressione, in termini di energia cinetica
e poten- ziale, delle leggi fondamentali della meccanica. Una terza fase fu
iniziata verso la fine del secolo, da Hertz, che cercò di ridurre la dinamica
alla cine- matica, ammettendo come legge fondamentale quella del minimo
principio: ogni sistema libero persiste nel suo stato di riposo e di movimento
uniforme lungo la via più breve. Da queste vicende della meccanica è relativa-
mente indipendente il M. della fisica. Come si è detto, la caratteristica delle
teorie meccanicistiche 569 in fisica è quella di utilizzare esclusivamente le
grandezze che sono proprie della meccanica (la forza, la massa, l’energia,
ecc.). Si può distinguere: la teoria meccanistica della discontinuità e la
teoria meccanistica del conrinuo. La teoria meccanistica del discontinuo è la
teoria atomica che è stata invocata a spiegare, oltre che la luce (teoria
crepuscolare), vari fenomeni fisici come l’adesione, la coesione, la
capillarità; e che ha dato luogo alla teoria cinetica dei gas e alle prime
teorie dei fenomeni elettrici. Le teorie mec- canistiche fondate sulla
continuità furono rese pos- sibili soltanto dalla scoperta di più complicati
strumenti di calcolo differenziale; e trovano il loro esemplare nella ipotesi
di Fresnel sull’etere ela- stico come mezzo di propagazione delle onde lu-
minose. Entrambe queste teorie sono state nella fisica eliminate dalla teoria
del campo (v.) con la quale i concetti della meccanica hanno cessato di valere
come princìpi esplicativi generali della fisica. Contemporaneamente l’altra caratteristica
fondamentale del M. cioè il determinismo rigoroso o necessitarismo veniva
eliminato dall’affermarsi della teoria quantistica (v. CAUSALITÀ). « Le leggi
della fisica quantistica, dicono a questo proposito Einstein e Infeld, non
governano le vicende nel tempo di oggetti singoli ma governano le variazioni
della probabilità nel tempo» (The Evolution of Physics, IV; trad. ital., pag.
298). Con questa tra- sformazione la fisica è uscita dalla sua fase mecca-
nistica, costituendosi come scienza della previsione probabile (v. Fisica). b)
Il M. non è stato soltanto un principio direttivo della fisica; a partire dalla
metà del se- colo xvm è stato anche il principio direttivo di tutte le altre
scienze naturali compresa la biologia, la psicologia e la sociologia.
Ovviamente, fuori della fisica, il M. ha avuto un carattere assai meno
rigoroso: non si è mai raggiunto neanche per la spiegazione dei più semplici
fenomeni biologici, psicologici o sociologici, l’esattezza quantitativa dei
modelli meccanici impiegati a spiegare, per es., il fenomeno della capillarità
o quello dell’interfe- renza della luce. Fuori della fisica, pertanto, il M. è
stato più un’aspirazione generica, una tesi filo- sofica o nella migliore
ipotesi una generica esi- genza di metodo, che un effettivo strumento di
spiegazione. Polemicamente, esso ha fatto valere l’istanza della necessità
causale contro il finalismo; e positivamente ha affermato in ogni campo l’esi-
genza dell’analisi quantitativa. Oltre a questo, le tesi del M., nei vari campi
della scienza, sono tesi riduzionistiche: il M. della biologia consiste nel
ridurre le leggi biologiche a leggi fisico-chimiche; il M. della psicologia
consiste nel ridurre le leggi psicologiche a leggi biologiche; e così il M.
nella 570 sociologia consiste nel ridurre le leggi sociolo- giche a leggi
biologiche e psicologiche. Queste ten- denze riduzionistiche hanno avuto la
loro utilità nello sgombrare il campo delle rispettive scienze da impalcature
concettuali antiquate, da presup- posti metafisici o teologici che impacciavano
la ricerca o addirittura la bloccavano. La scienza del sec. xx, a partire
soprattutto dal terzo decennio di esso, ha tuttavia abbandonato l’impostazione
riduzionistica e perciò il M. senza tuttavia ritornare alle posizioni cui il M.
si contrapponeva. La bio- logia, ad es., ha abbandonato il presupposto che i
fenomeni vitali siano retti solo da leggi fisico-chi- miche senza tuttavia
ammettere una qualsiasi forma di vitalismo (v. EvoLUZIONE; VITALISMO). Si può
dire pertanto che il M. è stato abbandonato; ma bisogna aggiungere che con esso
sono stati abbandonati anche gli indirizzi concettuali ai quali il M. si con-
trapponeva e dei quali rappresentava la correzione. MEDIANITÀ (ted.
Durchschaittlichkeit). Se- condo Heidegger, quel che l’uomo è in media o
all’ingrosso, nella sua esistenza quotidiana e indif- ferente: una
determinazione fondamentale dell’esi- stenza dalla quale l’analisi esistenziale
deve pren- dere le mosse (Sein und Zeit, $ 9). MEDIATORE PLASTICO (franc.
Médiateur Plastique). Così fu chiamata da alcuni filosofi del- 1°800 la «
natura plastica » di cui parlava Cudworth come Ectipo (v.) cioè intermediario
tra Dio e il mondo (The True Intellectual System of the Uni- verse, I, 1, 3).
L'espressione si trova usata da Laromiguière (Lecons de phil., 1815-18, II, 9)
e da Galluppi (Zezioni di logica e metafisica, 1832- 1836, II, pag. 273).
MEDIAZIONE (ingl. Mediation; franc. Mé- diation; ted. Vermittelung). La
funzione che mette in relazione due termini o due oggetti in gene- rale. Tale
funzione è stata riconosciuta propria: 1° del termine medio nel sillogismo; 2°
delle prove nella dimostrazione; 3° della riflessione; 4° dei demoni nella
religione. 1° Secondo Aristotele il sillogismo è determinato dalla funzione
mediatrice del termine medio che con- tiene in sè un termine ed è contenuto
dall’altro ter- mine (An. Pr., I, 4, 25b 35) (v. SILLOGISMO). 2° Secondo la
logica di Portoreale, la M. è indispensabile in qualsiasi ragionamento. «
Quando la sola considerazione di due idee non basta a far giudicare se si deve
affermare o negare l’una dell’altra, si ha bisogno di ricorrere a una terza
idea, semplice o complessa, e questa terza idea si chiama medio » (ARNAULD,
Log., III, 1). A sua volta Locke diceva: « Le idee intermedie che ser- vono a
dimostrare la concordanza tra due altre sono chiamate prove; e quando con
questo mezzo è chiaramente ed evidentemente percepita la con- MEDIANITÀ
cordanza o discordanza, questa è detta una dimo- strazione » (Saggio, IV, 2,
3). Nello stesso senso d’Alembert affermava: « Tutta la logica si riduce a una
regola semplicissima: per confrontare due o più oggetti lontani gli uni dagli
altri ci si serve di più oggetti intermediari. Lo stesso accade quando si
vogliono confrontare due o più idee; l’arte del ragionamento non è che lo
sviluppo di questo principio e delle conseguenze che ne risultano » (CEuvres,
ed. Condorcet, 1853, pag. 224). 3° Secondo Hegel, la M. è la riflessione in
generale (Werke, ed. Glockner, II, pag. 25; IV, pag. 553; ecc.). « Un contenuto
può essere cono- sciuto come la verità, dice Hegel, solo in quanto non è
mediato con un altro, non è finito, si media dunque con se stesso, ed è così,
tutto in uno, M. e relazione immediata con se stesso ». In altri termini, la
riflessione esclude non solo l'immediatezza, che è l'intuire astratto cioè il
sapere immediato, ma anche la «relazione astratta» cioè la M. di un concetto
con un concetto diverso (le prove di Locke) che Hegel ritiene propria (e con
ragione) del secolo dell'illuminismo (Enc., $ 74). 4° Una funzione mediatrice
tra gli dèi e gli uomini fu riservata, nell’antichità, ai demoni. Il Demiurgo
platonico incarica le divinità inferiori o demoni di creare le generazioni
mortali e comple- tare l’opera della creazione (Tim., 41 a-c). Plotino dice che
i demoni sono eterni, in relazione con noi, e «intermediari fra gli dèi e la
nostra specie » (Enn., III, 5, 6). Come mediatore era concepito Mitra e
precisamente come mediatore tra l’irrag- giungibile divinità delle sfere eteree
e il genere umano (CuMONT, The Mysteries of Mithra, pa- gina 127 sgg.). Infine
secondo la dottrina cristiana, «al solo Cristo compete di essere mediatore in
modo semplice e perfetto », mentre angeli e sacer- doti sono piuttosto
strumenti di M. (S. TomMaso, S. Th., III, q. 26, a. 1). MEDIETÀ (gr. ueoémg;
lat. Medietas; in- glese Mean; franc. Milieu; ted. Mittel). Il mezzo, o giusto
mezzo, tra gli estremi, che, secondo Ari- stotele, può essere definito o in
relazione alle cose o in relazione a noi. « Se ogni scienza, dice Aristo- tele,
adempie bene al suo compito mirando al giusto mezzo e indirizzando ad esso le
sue opere (onde siamo soliti dire delle buone opere che non c’è nulla da
togliere nè da aggiungere in quanto l’eccesso e il difetto rovinano ciò che sta
bene mentre la M. lo salva) se cioè i buoni artisti lavo- rano guardando a
questo mezzo, la virtù che è, come la natura, più accurata e migliore di ogni
arte, dovrà tendere proprio al giusto mezzo » (Er. Nic., II, 6, 1106b 8). La M.
è tuttavia la definizione soltanto della virtà etica (v.) o morale perchè solo
questa concerne passioni o azioni che MEMORIA sono suscettibili di eccesso o
difetto (cfr. pure S. Tommaso, S. 7A., I, II, q. 59, a. 1) (v. VIRTÙ).
MEDITAZIONE. V. MisticIsMO. MEGARISMO (ingl. Megarism; franc. Méga- risme; ted.
Megarismus). La scuola socratica di Megara, fondata nel sec. v a. C. da Euclide
(da non confondere col matematico Euclide che visse ed insegnò ad Alessandria
circa un secolo dopo). Altri rappresentanti della scuola sono Eubulide di
Mileto, Diodoro Crono e Stilpone che insegnò in Atene verso il 320 avanti
Cristo. La caratteristica della scuola è quella di unire l’insegnamento di
Socrate con la dottrina eleatica. Euclide riteneva che uno solo è il bene ed è
l'Unità, chiamata con vari nomi: Saggezza, Dio, Intelletto, ecc. Pertanto come
gli Eleati, i Megarici polemizzavano contro la realtà del movimento, del
mutamento e del molteplice. A confutare questa realtà miravano vari argomenti,
di natura sofistica, da essi ad- dotti: come l’argomento del sorife (v.) o del
calvo; come pure mirava la negazione della pos- sibilità fatta da Diodoro Crono
(per quest’ultima v. PossisiLiTÀà). Alcuni di questi argomenti furono ripresi
dagli Stoici, in quei ragionamenti « am- bigui » o « convertibili » che in
seguito si chiama- rono dilemmi (v.) che oggi chiamano paradossi o antinomie
(v.). MEGLIORISMO (ingl. Meliorism; frane. Mé- liorisme; ted. Meliorismus).
Parola recente, usata soprattutto da scrittori anglossassoni, per indicare un
atteggiamento di fronte al mondo non pessi- mistico nè ottimistico ma orientato
verso la speranza del meglio e la volontà di realizzarlo. MELANCONIA (gr. uérac
yo; ingl. Melan- cholia; franc. Mélancolie; ted. Melancholie). Pro- priamente,
umor nero (v. TEMPERAMENTO). Nel linguaggio comune, tristezza senza motivo.
MEMORIA (gr. uviun; lat. Memoria; ingl. Me- mory; franc. Mémoire; ted.
Gedachtnis). La possi- bilità di disporre delle conoscenze passate. Per
conoscenze passate bisogna intendere quelle che sono state già, in un modo
qualsiasi, disponibili; e non già semplicemente conoscenze de/ passato. La
conoscenza del passato può essere anche di nuova formazione: per es.,
disponiamo ora di informa- zioni circa il passato del nostro pianeta o del
nostro universo che non sono affatto ricordi. Una conoscenza passata non è
neppure, semplicemente, un’impronta, una traccia qualsiasi: un’impronta o
traccia è difatti alcunchè di presente, non di pas- sato. La tristezza o
l’imperfezione fisica lasciati da un incidente di cui si è stati vittima, non
sono la M. di questo incidente, per quanto ne siano le tracce, mentre un
ricordo può essere disponibile e pronto senza l’aiuto di alcuna traccia, come è
il caso di una formula per il matematico e in ge- 571 nerale dei ricordi che
sono affidati a formazioni o ad abiti professionali. La M. sembra costituita da
due condizioni o momenti distinti: 1° la conservazione o persistenza, in una
certa forma, delle conoscenze passate che, per esser passate, devono essersi
sottratte alla vista: questo momento è la rifentiva; 2° la possibilità di
richiamare, all’occorrenza, la conoscenza passata e di renderla attuale o
presente: che è propriamente il ricordo. Questi due momenti furono già distinti
da Platone che li chiamò rispettivamente « conser- vazione di sensazione» e
«reminiscenza» (Fil, 34 a-c); e da Aristotele che si serve degli stessi
termini. Aristotele pone anche chiaramente il pro- blema che emerge dalla
conservazione della rappre- sentazione come traccia (impressione) di una cono-
scenza passata. « Se rimane in noi, egli dice, qualcosa che è simile a
un’impronta o ad una pittura, come può la percezione di questa impronta essere
M. di qualch’altra cosa e non soltanto di sè? Infatti, chi effettivamente
ricorda non vede che questa im- pronta e solo di essa ha sensazione: come può
allora ricordare ciò che non è presente?» (De Mem., 1, 450b 17). La risposta di
Aristotele a questa difficoltà è che l’impronta nell’anima è come un quadro che
può essere considerato o per sè o per l’oggetto che rappresenta. « Come, egli
dice, un animale dipinto in un quadro è sia un animale sia un’immagine ed è
insieme entrambe le cose, sebbene il loro essere non sia lo stesso, sicchè può
essere considerato sia come animale sia come immagine; così anche l’immagine
mnemonica che è in noi dev'essere considerata un oggetto di per se stesso e
nello stesso tempo rappresentazione di qualche altra cosa» (/bid., 450b 21). La
spiega- zione dell’intero processo della M., sia come ri- tentiva sia come
ricordo, è poi, secondo Aristotele interamente fisica: a un movimento è
affidata la ritentiva e la produzione dell’impronta ed è un mo- vimento che
produce il ricordo. Il ricordo tuttavia, a differenza della ritentiva, è una
specie di dedu- zione (sillogismo); giacchè « chi ricorda deduce che ha già
ascoltato, o comunque percepito ciò che ri- corda; ed è questa una specie di
ricerca » (Ibid., 453 a 11). Il ricordo è perciò soltanto degli uomini. Con ciò
Aristotele metteva in luce un altro carat- tere fondamentale della M. come
ricordo: il suo carattere attivo di deliberazione o di scelta. L’ana- lisi
platonico-aristotelica della M. ha messo in luce i seguenti punti: a) la
distinzione tra ritentiva e ricordo; 5) il riconoscimento del carattere attivo
o volontario del ricordo di fronte al carattere naturale o passivo della ritentiva;
c) la base fisica del ricordo come conservazione di movimento o movimento
conservato. Questi punti si può dire che rimangano costanti nella storia
successiva del 572 concetto. Tuttavia le dottrine che successivamente si
presentano possono essere suddivise in due gruppi, a seconda che fanno leva,
per l’interpretazione della M., sull’aspetto per cui essa è ritentiva o conser-
vazione o sull’aspetto per cui è ricordo. A) La psicologia antica ha insistito
sull’aspetto per il quale la M. è conservazione, persistenza di conoscenze
acquisite. La trattazione misticheggiante di Plotino, oltre a negare la base
fisica della M. e a vedere dal corpo un ostacolo più che un aiuto di essa
(Enn., IV, 3, 26) proporziona la M. alla forza e alla persistenza della conservazione:
« Se l’immagine persiste nell’assenza dell’oggetto, v’è già M., anche se
persiste per poco; se persiste per poco, la M. è corta; se dura di più la M.
aumenta perchè la forza dell’immaginazione è maggiore; e se difficilmente vien
meno, la M. è indistruttibile » (4bid., IV, 3, 29). In modo analogo,
l’elencazione che S. Agostino fa dei « miracoli » della M., poggia sullo stesso
concetto di essa come ricettacolo delle conoscenze o, secondo la sua
espressione, « ventre dell’anima » (Conf., X, 14). Questo è pure il concetto
che della M. ebbero i filosofi medievali. S. Tommaso la chiama «il tesoro e il
posto di conservazione delle specie » (S. 7%., I, q. 29, a. 7), ripetendo un
luogo comune della filosofia medievale. Ciò equi- valeva ad insistere sulla M.
come ritentiva. Ma sulla M. come conservazione insistono anche concezioni
moderne e contemporanee che, ripren- dendo la concezione agostiniana del tempo
come distensio animi o durata di coscienza, vedono nella M. la conservazione
integrale dello spirito da parte di se stesso: cioè la persistenza in esso di
tutte le sue azioni e affezioni, di tutte le sue manifesta- zioni o modi
d’essere. Questa concezione fu già esposta da Leibniz che concepiva la M. come
conservazione integrale sotto forma di virtualità o « piccole percezioni +
delle idee che non hanno più la forma di pensieri o di «appercezioni»: onde
osservava contro Locke: «Se le idee non fossero che forme o modi dei pensieri,
cesserebbero con essi; ma voi stesso, Signore, avete riconosciuto che esse sono
gli oggetti interni dei pensieri e come tali possono sussistere. E io mi
meraviglio che voi possiate fare a meno di queste potenze o fa- coltà pure, che
abbandonate, a quanto sembra, ai filosofi della scuola » (Nouv. Ess., II, 10,
2). Sotto forma di virtualità o facoltà può e deve conser- varsi integralmente
ogni atto o manifestazione dello spirito giacchè lo spirito è per l’appunto
questa auto-conservazione. Tale è la concezione della M. propria di ogni
filosofia spiritualistica o coscienzia- listica. Nel modo migliore e più
circostanziato tale concezione è stata esposta da Bergson in Materia e M.
(1896) e da lui contrapposta alla concezione della M. fondata sul ricordo. «La
M., egli ha MEMORIA detto, non consiste nella regressione dal presente al passato,
ma al contrario nel progresso dal pas- sato al presente. È nel passato che noi
ci situiamo di colpo. Partiamo da uno stato virtuale, che con- duciamo a poco a
poco, mediante una serie di piani di coscienza diversi, sino al termine in cui
esso si materializza in una appercezione attuale cioè sino al punto in cui
diviene uno stato pre- sente e agente, cioè, infine, sino a quel piano estremo
della nostra coscienza su cui si disegna il nostro corpo. In questo stato
virtuale consiste il ricordo puro» (Matiére et mémoire, 7® ediz., pag. 245). La
M. pura (o ricordo puro) è la cor- rente di coscienza in cui tutto vien
conservato allo stato di virtualità. La limitazione del ricordare effettivo non
appartiene alla M. ma al ricordo attuale che Bergson identifica con la
percezione e che è una scelta operata nella M. pura per le esi- genze
dell’azione. Pertanto le lesioni cerebrali non affettano la M. vera e propria,
ma soltanto la reminiscenza dei ricordi nella percezione cioè il meccanismo
attraverso il quale la M. si inserisce nel corpo e diventa azione. Questa
teoria, che Bergson appoggiava ad una analisi dei disturbi delle funzioni
mnemoniche, è caratterizzata da due punti fondamentali: 1° la distinzione tra
la M. pura e il ricordo, intendendosi per M. pura la conservazione integrale,
indipendente da ogni cir- costanza, dello spirito da parte dello spirito. Ora è
evidente che tale M. non ha niente a che fare con la memoria osservabile; 2° la
negazione di ogni base fisiologica della M. pura e la restrizione della base
fisiologica al fenomeno della percezione. Anche questa negazione non ha alcuna
conferma di fatto mentre trova il suo precedente storico nella teoria di
Plotino. Da Cartesio in poi (Princ. Phil., IV, 196) la base fisiologica della
M. non è stata negata. La stessa conservazione integrale dello spirito da parte
dello spirito è la «corrente della coscienza » di cui parla Husserl, che
anch'egli ri- corre al concetto adoperato da Leibniz e da Bergson di virtualità
o potenzialità per contrassegnare la me- moria. « Oltre che nell’appercezione,
dice Husserl, le cose possono essere esperite nel ricordo e nelle
ripresentazioni affini al ricordo... Appartiene all’es- senza di queste
esperienze vissute quella importante modificazione che trasporta la coscienza
dal modo dell’attualità al modo dell’inattualità e viceversa. In un caso
l’esperienza vissuta è coscienza esplicita del suo oggetto; nell’altro è
coscienza implicita, soltanto potenziale» (/deen, I, $ 35). Il presup- posto è
sempre quello della totale conservazione di tutto il contenuto della coscienza:
il feno- meno del ricordo è legato al passaggio del conte- nuto dallo stato
attuale a quello potenziale o viceversa. MENTALITÀ B) Ad un secondo gruppo di
teorie della M. appartengono quelle che hanno fatto soprattutto leva sul
fenomeno del ricordo. Hobbes, per es., ha definito la M. come «il sentire di
aver già sen- tito» (De corp., 25, 1): il che significa definirla in rapporto
all’atto con cui si riconosce, in ciò che si percepisce, ciò che si è percepito
altra volta. Da questo stesso punto di vista Wolff definiva la M. come «la
facoltà di riconoscere le idee ripro- dotte e le cose da esse rappresentate»
(Psychol. rationalis, $ 278): un concetto che si ritrova anche in Baumgarten
(Me., $ 579). Da questo punto di vista si tende talvolta a riconoscere il
carattere attivo della M. cioè la funzione della volontà o della scelta
deliberata nel richiamare i ricordi. Di- ceva Locke: « In questo richiamo delle
idee riposte nella M., lo spirito stesso non è puramente passivo perchè la
rappresentazione di questi quadri dor- mienti dipende a volte dalla volontà»
(Saggio, II, 10, 7). Kant metteva in luce egualmente questo carattere attivo:
«La M., egli diceva, differisce dalla semplice immaginazione riproduttiva in
questo che, potendo essa riprodurre volontariamente la rap- presentazione
precedente, l’anima non è in balia di questa » (Anfr., I, $ 34). A questo
stesso gruppo di dottrine appartengono: a) quelle che interpretano la M. come
intelligenza; 5) quelle che interpretano la M. come meccanismo associativo. a)
Come intelligenza o pensiero la M. (sempre nel suo aspetto di ricordo) è stata
interpretata da Hegel. Hegel vede nella M. «il modo estrinseco, il momento
unilaterale dell’esistenza del pensiero ». E nota che già la lingua tedesca dà
alla M. « l’alta situazione della parentela immediata col pensiero » (Enc., $
464). La M. è, secondo Hegel, pensiero esteriorizzato, pensiero che crede di
trovare qual- cosa di esterno, cioè la cosa che viene ricordata o rievocata, ma
che in realtà non trova che se stesso perchè anche la cosa ricordata o
rievocata è pensiero. Perciò Hegel dice che lo spirito «si fa come M., in se
stesso, qualcosa di esterno; cosicchè ciò che è suo appare come qualcosa che
vien trovato » (/bid., $ 463). Qui viene teorizzata soprattutto la M. come
ricordo; ed è evidente la parentela di questa dottrina con quelle spirituali-
stiche o coscienzialistiche: l’identificazione della M. col pensiero ha lo
stesso senso dell’unificazione della M. con la coscienza o con la sua durata.
b) Il concetto della M. come meccanismo as- sociativo è stato espresso per la
prima volta da Spinoza nel modo seguente: «La M. non è altro che una certa
concatenazione delle idee implicanti la natura delle cose che sono fuori del
corpo umano; la quale si produce nella mente secondo l’ordine e la
concatenazione delle affezioni del corpo umano ». Spinoza distingue la
concatenazione propria della 573 M. da quella delle idee «che si compie secondo
l’ordine dell’intelletto e che è uguale in tutti gli uomini » (Ef., II, 18,
schol.). Non c’è dubbio per- tanto che Spinoza alludeva a un meccanismo asso-
ciativo, del tipo di quelli che fu più tardi teoriz- zato da Hume, « È evidente
che esiste un principio di connessione fra i vari pensieri o idee dello spi- rito
e che nel loro apparire alla M. o alla imma- ginazione essi si presentano l’uno
dopo l’altro con un certo grado di metodo e di regolarità» (Ing. Conc.
Underst., III). Come è noto, Hume enunciava tre leggi di associazione, la
rassomiglianza la con- tiguità e la causalità; ma soltanto le prime due furono
adoperate dalla psicologia associazionistica per la spiegazione dei fenomeni
psichici (v. Asso- CIAZIONISMO). La psicologia moderna si è fondata in gran
parte sull’ipotesi associazionistica nello studio dei feno- meni della M., sino
a che la psicanalisi da un lato, la teoria della forma dall’altro, hanno
mostrato la importanza degli interessi e degli atteggiamenti vo- litivi nel
ricordo e quella dell’intera personalità nel riconoscimento del già visto. Lo
studio sperimen- tale della M. ha confermato il detto di Nietzsche: «Io ho
fatto questo, — mi dice la memoria. Non posso averlo fatto, — sostiene il mio
orgoglio che è inesorabile. Alla fine cede la M.» (Jenseits von Gut und Bose,
1886, $ 68). L'impianto delle analisi psicologiche moderne continua così ad
essere im- perniato sul fatto del ricordo più che su quello della ritentiva: il
quale invece continua ad essere preferito dalle teorie filosofiche della
memoria. MENDELISMO. V. GENETICA. MENTALISMO (ingl. Mentalism). Vocabolo usato
per lo più da scrittori filosofici anglosassoni per indicare cose in verità
assai diverse, e cioè: o come sinonimo di « soggettivismo + e « idealismo
soggettivo » (del tipo berkeleyiano); o come sino- nimo di psicologismo (v.), vale
a dire la tendenza, vivamente combattuta dalla Logica odierna ma tuttavia
tenacemente persistente, a considerare le forme, figure e strutture della
Logica come forma- zioni, rappresentazioni ed operazioni mentali (psi-
cologiche) e le regole della Logica come «leggi del pensiero ». Negli scritti
dei seguaci della meto- dologia operativistica e dei pragmatisti (per es.,
Dewey) « M.» viene usato in un’accezione lieve- mente diversa: e cioè a
designare la tendenza empiristica a risolvere l’esperienza e i concetti em-
pirici in meri «stati mentali», trascurandone gli aspetti obiettivi
(fisiologici, operativo-manuali, lin- guistici, storici, ecc.). G. P. MENTALITÀ
(ingl. Mentality; franc. Menta- lite; ted. Mentalitàt). 1. Termine adoperato
dai so- ciologi per indicare gli atteggiamenti, le disposizioni e i
comportamenti istituzionalizzati in un gruppo 574 e adatti a caratterizzare il
gruppo stesso. Per es., «la M. dei primitivi », «la M. borghese», ecc. 2.
Spaventa. chiamò « M. pura» il pensiero ri- flesso o consapevole, che egli
ritenne debba accom- pagnare anche le prime categorie della logica he- geliana
(quelle dell’essere e dell’essenza) (Scritti filosofici, 1901, passim). MENTE
(lat. Mens). 1. Lo stesso che intel- letto (v.). 2. Lo stesso che spirito: cioè
l’insieme delle fun- zioni superiori dell’anima, intelletto e volontà (vedi
SPIRITO). 3. Lo stesso che dottrina. In questo senso si dice (o meglio si
diceva perchè questo significato è an- tiquato). « La M. di Aristotele » per
dire la dottrina di Aristotele su un argomento qualsiasi. MENTITORE (gr. yevdsuevos; lat.
Mentiens; ingl. Liar; franc. Menteur; ted. Liigner). Uno degli argomenti che gli antichi
chiamavano ambigui o convertibili e i moderni chiamano antinomie o pa- radossi:
quello che consiste nell’affermare di men- tire: così, se si dice la verità, si
mente; e se si mente, si dice la verità. La conclusione è impossibile.
Attribuito a Eubulide di Megara (Diog. L., II, 108) l’argomento viene riportato
da molti scrittori an- tichi (ArIst., E/ Sof., 25, 180b 2; CICER., Acad., Il,
95; De Div., II, 4; Getto, Nocr. Att., 18, 2). Ripreso nell’ultimo periodo
della Scolastica, l’ar- gomento viene tuttora discusso dalla logica come una
delle antinomie logiche (v. ANTINOMIE). MENZIONE. V. Uso. MENZOGNA (gr. qeùsoc;
lat. Mendacium; ingl. Lie; franc. Mensonge; ted. Lige). Aristotele distingue
due specie fondamentali di M., la mil- lanteria che consiste nell’esagerare la
verità e la ironia (v.) che consiste nel diminuirla. Queste tut- cavia sono le
M. che non riguardano le relazioni d’affari nè la giustizia: in questi casi
infatti non si tratta di semplici M. ma di vizi più gravi (frode, tradimento,
ecc.) (Et. Nic., IV, 7, 1127a 13). S. Tom- maso ha dato una minuziosa
classificazione della M., dal punto di vista della morale teologica (S. 7H.,
II, 2, q. 110). MERAVIGLIA. V. AMMRAZIONE. MERITO (lat. Meritum; ingl. Merit;
francese Mérite; ted. Verdienst). Titolo per ottenere appro- vazione,
ricompensa o premio. Si dice non solo di persone ma anche di opere, per es., «Il
M. di questo libro è... ». Il M. è diverso dalla virtù e dal valore morale ma
costituisce quanto della virtù stessa o del valore morale può essere valutato
ai fini di una ricompensa qualsiasi, sia pure quella dell’approvazione.
MESOLOGIA. V. EcoLogia. METABASI (gr. peràBao el 0 yévoc). Il passaggio,
legittimo o meno, a un altro soggetto MENTE di discorso o a un altro campo.
Dice Aristotele: «Noi non possiamo passare, al di là del corpo, ad un altro
genere, come passiamo dalla lunghezza alla superficie e dalla superficie al
corpo» (De Cael., I, 1, 268 b 1). Quintiliano considera questo passaggio come
una figura retorica (/nst. Or., IX, 3, 25). METABIOLOGIA (ingl. Merabiology;
fran- cese Métabiologie; ted. Metabiologie). Le specula- zioni metafisiche che assumono
il loro punto di partenza dai fenomeni biologici. Oppure: l’analisi della
struttura linguistico-concettuale della biologia. METACRITICA (ted.
Merakritik). Questo ter- mine compare come titolo di due opere tedesche
dedicate alla critica del kantismo; e precisamente nell'opera di HAManN,
Metacritica del Purismo della Ragione (1788) e nell’opera di HERDER, M. della
Critica della Ragion Pura (1799). Il ter- mine vuol significare «critica della
critica». METAFISICA (gr. tà perà tà puovd; lat. Mera- physica; ingl.
Metaphysics; franc. Métaphysique; ted. Metaphysik). La scienza prima cioè la
scienza che ha come proprio oggetto l’oggetto comune di tutte le altre e come
proprio principio un principio che condiziona la validità di tutti gli altri.
Per questa sua pretesa di priorità (che la definisce) la M. presuppone una
situazione culturale deter- minata: cioè la situazione nella quale il sapere si
è già organizzato e diviso in scienze diverse, rela- tivamente indipendenti
l’una dall’altra e tali da esigere la determinazione dei loro rapporti scam-
bievoli e la loro integrazione su di un fondamento comune. Questa era appunto
la situazione che si era verificata ad Atene verso la metà del rv secolo, per
opera di Platone e dei suoi discepoli, che ave- vano contribuito potentemente
allo sviluppo della matematica, della fisica, dell’etica e della politica. Il
nome stesso di questa scienza, che solitamente si attribuisce al posto in cui
gli scritti aristotelici relativi capitarono nella raccolta di Andronico di
Rodi (1 secolo a. C.), ma che Jaeger attribuisce a un peripatetico anteriore ad
Andronico (Aristoteles; trad. ital., pag. 517) si presta ad esprimere bene la
natura di essa, in quanto procede al di là della fisica, che è la prima delle
scienze particolari, per raggiungere il fondamento comune su cui tutte si
fondano e determinare il posto che a ciascuna compete nella gerarchia del
sapere; e ciò spiega, se non l’origine, almeno la fortuna che il nome ha
incontrato. Platone presentò l’esigenza di questa scienza su- prema dopo aver
chiarito la natura delle scienze particolari che costituiscono il curriculum
del filo- sofo: aritmetica, geometria, astronomia e musica. «Io penso, egli
disse, che se lo studio di tutte queste scienze che abbiamo passato in rassegna
è fatto METAFISICA in modo da condurci a intendere la loro comu- nanza e
parentela reciproca e si colgono le ragioni per le quali sono intimamente
connesse, la loro trattazione ci porterà alla meta cui ci indirizziamo e la
nostra fatica non sarà vana; in caso contrario sarà proprio vana» (Resp.,
531c-d). In questa scienza delle scienze Platone riconosceva la dialet- tica
(v.) il cui compito fondamentale sarebbe quello di sottoporre a critica o
vagliare le ipotesi che le scienze singole assumono a loro fondamento ma che «
non osano toccare perchè non sono in grado di darne ragione» (Resp., 533 c).
Aristotele chiamava una disciplina siffatta « filo- sofia prima + o « la
scienza di cui andiamo in cerca »; e ne determinava il progetto nei tredici
problemi enumerati nel terzo (8) libro della Metafisica. Tali problemi vertono
tutti direttamente o indi- rettamente, sui rapporti tra le scienze e i loro og-
getti o princìpi relativi: sulla possibilità di una scienza che studi tutte le
cause (996 a 18) o tutti i primi princìpi (996 a 26) o tutte le sostanze (997 a
15) o anche le sostanze e i loro attributi (997 a 25) e le sostanze non
sensibili (997 a 34); e su altri problemi (come quelli delle parti costi-
tuenti di tutte le cose, della possibile diversità di natura tra i princìpi,
dell’unità dell’essere, ecc.), che si situano tutti nella zona di
intersecazione e di incontro delle singole discipline scientifiche e sono di
interesse comune per esse. Pertanto la M., come l’ha intesa e progettata
Aristotele, è la scienza prima nel senso che fornisce a tutte le altre il
fondamento comune cioè l’oggetto cui esse tutte si riferiscono e i princìpi da
cui tutte di- pendono. La M. implica, perciò, una enciclopedia delle scienze;
cioè un prospetto completo ed esau- riente di tutte le scienze nei loro
rapporti di co- ordinazione e subordinazione e nei compiti e nei limiti
assegnati a ciascuna una volta per tutte (v. EncicLoPEDIA). La M. si è
presentata, nella sua storia, sotto tre forme fondamentali diverse e cioè: 1°
come teologia; 2° come ontologia; 3° come gnoseologia. La caratterizzazione
oggi corrente della M. come «scienza di ciò che è al di là dell’espe- rienza »
si può riferire soltanto alla prima di queste forme storiche, cioè alla M.
teologica; e si tratta, anche, di una caratterizzazione imperfetta in quanto
coglie un tratto subordinato, perciò non costante, di questa metafisica. 1° Il
concetto della M. come teologia consiste nel riconoscere come oggetto della M.
l’essere più alto e perfetto dal quale dipendono tutti gli altri esseri e cose
del mondo. Il privilegio di priorità attribuito alla M. dipende, in questo
caso, dal ca- rattere privilegiato dell’essere che ne è l'oggetto: questo è
l’essere superiore a tutti e da cui tutti gli altri dipendono. 575 Nell’opera
di Aristotele questo concetto si in- treccia con l’altro, della M. come
ontologia, cioè come scienza dell’essere in quanto essere. Così Aristotele lo
esprime: « Se c’è qualcosa di eterno, di immobile e di separato, la conoscenza
di esso deve appartenere ad una scienza teoretica, ma cer- tamente non alla
fisica (che si occupa delle cose in movimento) nè alla matematica, bensì ad una
scienza che è prima di entrambe... Solo la scienza prima ha per oggetto le cose
separate ed immobili. Sebbene tutte le prime cause siano eterne, queste cose
sono eterne in modo speciale, perchè sono le cause di ciò che del divino è
accessibile a noi. Di conseguenza, ci sono tre scienze teoretiche: la
matematica, la fisica e la teologia: giacchè se il divino è dappertutto esso è
specialmente nella natura più alta e la scienza più alta deve avere per oggetto
l’essere più alto... Se non ci fossero altre sostanze oltre quelle fisiche, la
fisica sarebbe la scienza prima; ma se c’è una sostanza immobile, essa sarà la
sostanza prima e la filosofia la scienza prima; e in quanto prima anche la più
universale perchè sarà la teoria dell’essere in quanto essere e di ciò che
l’essere in quanto essere è o implica + (Met., VI, 1, 1026 a 10). L’ultima
frase fa vedere come Aristotele intrecci il concetto della M. come ontologia
col concetto della M. come teologia. Quest'ultimo tuttavia è completamente
diverso dal- l’altro. In base ad esso, l'oggetto della M. è pro- priamente il
divino; e la priorità della M. consiste nella priorità che l’essere divino ha
su ogni altra forma o modo d’essere. Le scienze si graduano, da questo punto di
vista, in base all’eccellenza o alla perfezione dei loro oggetti rispettivi, e
l’eccel- lenza o la perfezione di tali oggetti si misurano col confronto tra
essi e l’essere divino. Era questo il criterio che Platone aveva seguito
nell'ordinamento delle scienze, privilegiando la scienza che ha per oggetto «
ciò che è ottimo ed eccellente » cioè la perfezione stessa (Fed., 97 d) e
graduando rispetto a questa tutte le altre (Rep., VII, 525a sgg.). Questa
concezione tuttavia confinava tutte le scienze diverse dalla M. ad un livello
di irrimediabile in- feriorità; e raggiungeva lo scopo, non già di giu-
stificare le altre scienze cioè di fondare la loro validità e nobilitare la
loro ricerca, ma piuttosto di svalutarle col confronto con la scienza prima e
col carattere sublime del suo oggetto. Questo pro- babilmente fu il motivo per
cui Aristotele cominciò ad un certo punto ad insistere sull’altro concetto
della M. come ontologia, pur senza mai rinnegare o abbandonare il primo. La M.
teologica tuttavia si ripresenta ogni volta che si fa corrispondere ad un
essere primo e per- fetto una scienza egualmente prima e perfetta. Una M.
teologica è pertanto quella di Plotino, 576 che contrappone alle scienze che
hanno per oggetto il sensibile quelle che hanno per oggetto l'intelli- gibile,
cioè la realtà suprema. « Tra le scienze che sono nell’anima razionale, egli
dice, alcune hanno per oggetto le cose sensibili e seppure si possono chiamare
scienze giacchè meglio converrebbe ad esse il nome di opinioni; esse vengono
dopo le cose e sono immagini di esse. Le altre, le vere scienze, hanno per
oggetto l’intelligibile, vengono all’anima dall’intelletto divino e non hanno
nulla di sensi- bile » (Enn., V, 9, 7). Questa spartizione della realtà in due
domini, di cui l’uno superiore e privilegiato, l’altro inferiore e derivato, è
il presupposto carat- teristico della M. teologica: la quale pretende di avere
come proprio oggetto la realtà primaria e privilegiata. Una M. teologica è
pertanto la dot- trina di Spinoza in quanto ha come oggetto l'or- dine
necessario del mondo cioè Dio stesso (Er., II, 46-47). E una M. teologica è la
filosofia di Hegel che assume di avere come proprio oggetto Dio stesso: « La
filosofia ha i suoi oggetti in comune con la religione, perchè oggetto di
entrambe è la Verità, e nel senso altissimo della parola, in quanto cioè Dio, e
Dio solo, è la Verità » (Enc., $ 1). Per- tanto di fronte alla filosofia, tutte
le altre scienze restano in condizione di inferiorità: il loro oggetto è il
finito, cioè l’irreale, mentre l’oggetto della filosofia, cioè Dio è
l’infinito. Dice Hegel: « Le scienze particolari, al pari della filosofia,
hanno per elemento conoscenza e pensiero; senonchè si occupano degli oggetti
finiti e del mondo dei fenomeni. Una collezione di conoscenze relative a questa
materia resta di per sè esclusa dalla filosofia, cui non si addice nè questo
contenuto nè la forma relativa » (Geschichte der Philosophie, Einleitung, B, 2,
a; trad. ital., I, pag. 69). Ed è evidente che, nonostante le esplicite
proteste an- timetafisiche, una M. teologica è anche la filosofia dello spirito
di Croce che ha per oggetto la Storia eterna dello Spirito universale: una
realtà sublime, di fronte alla quale scadono al rango di apparenze particolari
o di accidentalità empiriche gli oggetti di tutte le altre scienze (Teoria e
storia della sto- riografia, 1917; La Storia come pensiero e come azione,
1938). Infine, una M. teologica è la filo- sofia di Bergson che pretende « fare
a meno dei simboli » ed entrare direttamente a contatto con una realtà
privilegiata, di natura divina che è la corrente della coscienza (*
Introduction à la mé- taphysique », in La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934,
pag. 206 sgg.); e che si contrappone come tale alla scienza, detta semplice
«ausiliaria del- l’azione » (/bid., pag. 158). Ogni forma di spiri- tualismo o
coscienzialismo tende, più o meno chiaramente, a una metafisica teologica di
questa specie. METAFISICA 2° La seconda concezione fondamentale è quella della
M. come ontologia o dottrina che studia i caratteri fondamentali dell’essere:
quei ca- ratteri che ogni essere ha e non può non avere. Le proposizioni
principali della M. ontologica sono le seguenti: 1° Esistono determinazioni necessarie
dell’essere cioè determinazioni che nessuna forma o modo d'essere può non
avere. 2° Tali determi- nazioni sono presenti in tutte le forme e i modi
d'essere particolari. 3° Esistono scienze che hanno per oggetto un modo
d’essere particolare, isolato in virtù di opportuni principi. 4° Deve esistere
una scienza che abbia per oggetto le determinazioni necessarie dell’essere,
anch'esse rese riconoscibili in virtù di un adatto principio. 5° Questa scienza
precede tutte le altre ed è perciò scienza prima in quanto il suo oggetto è
implicito negli oggetti di tutte le altre scienze e in quanto, conseguente-
mente, il suo principio condiziona la validità di ogni altro principio. La M.
che si esprime in queste proposizioni implica, di regola: a) una determinata
teoria dell’essenza e precisamente quella dell’es- senza necessaria (v.
EsseNZA); è) una determinata teoria dell’essere predicativo e precisamente
quella dell’inerenza (v. EsseRE, 1); c) una determinata teoria dell’essere
esistenziale e precisamente quella della necessità (v. ESSERE, 2). Le
proposizioni precedenti esprimono la forma più matura che la M. ha assunto
nell’opera di Aristotele e precisamente nei libri VII, VIII, IX della
Metafisica. Esse esprimono, cioè, la M. come teoria della sostanza, intendendosi
per sostanza «ciò che un essere non può non essere» cioè l’es- senza necessaria
o la necessità d’essere (v. So- sTANZA). Il principio della M. in questo senso
è il principio di contraddizione. Solo questo prin- cipio infatti consente di
delimitare e di riconoscere l’essere sostanziale. « Coloro, dice Aristotele,
che negano questo principio distruggono completamente la sostanza e l’essenza
necessaria giacchè sono co- stretti a dire che tutto è accidentale e non c'è
qualcosa come l’essere uomo o l’essere animale. Se infatti c'è qualcosa come
l’essere uomo, questo non sarà l’essere non uomo o il non essere uomo, ma
queste saranno negazioni di quello. Uno solo è infatti il significato
dell’essere e questo è la so- stanza di esso. Indicare la sostanza di una cosa
non è altro che indicare l’essere proprio di essa + (Met., IV, 4, 1007a 21). Da
questo punto di vista la sostanza è oggetto della M. in quanto costituisce il
principio di spiegazione di tutte le cose esistenti. Dice Aristotele: «La
sostanza di ciascuna cosa è la causa prima dell’essere di questa cosa. Alcune
cose non sono sostanze ma quelle che sono tali sono naturali e sono poste dalla
natura, sicchè è chiaro che la sostanza è la na- METAFISICA tura stessa e che
non è elemento ma principio » (Ibid., VII, 17, 1041 b 27). La sostanza in
questo senso non è una realtà privilegiata o sublime, che conferisca alla
scienza che ne faccia oggetto una dignità superiore. In quanto sostanze, Dio e
l’in- telletto (come Aristotele dice, Er. Nic., I, 6, 1096a 24) o anche Dio e
un filo d’erba (come si potrebbe dire) hanno lo stesso valore; e le scienze che
li as- sumono ad oggetto la stessa dignità. In un passo famoso delle Parti
degli Animali Aristotele ha espli- citamente riconosciuto l’uguale dignità di
tutte le scienze in quanto hanno per oggetto la sostanza. « Le sostanze
inferiori, dice Aristotele, essendo più e meglio accessibili alla conoscenza
vengono ad avere il sopravvento nel campo scientifico; e poichè sono più vicine
a noi e più conformi alla nostra natura, la scienza di esse finisce per essere
equi- valente alla filosofia che ha per oggetto le cose divine... Infatti anche
nel caso di quelle meno favorite dal punto di vista dell'apparenza sensibile,
la natura che le ha prodotte dà gioie indicibili a coloro che sanno
comprenderne le cause e sono per loro natura filosofi» (De Part. An., I, 5,
645a 1). È ovvio che, da questo punto di vista, la priorità della M. non
consiste nell’eccellenza del suo oggetto (com’è nel caso della M. teologica) ma
solo nel fatto che la M., avendo come og- getto specifico la sostanza consente
di intendere gli oggetti di tutte le scienze sia nei loro caratteri comuni e
fondamentali sia nei loro caratteri spe- cifici: senza la sostanza, infatti, e
per es., senza l'essere e l'unità che le appartengono, « ogni cosa sarebbe
distrutta, giacchè ogni cosa è ed è una» (Met., XI, 1, 1059b 31). In altri
termini: ogni scienza è, come tale, studio della sostanza in qual- cuna delle
sue determinazioni, per es., della so- stanza in movimento la fisica, della
sostanza come quantità la matematica; la M. è la teoria della sostanza in
quanto tale. La priorità della M. sulle altre scienze è, da questo punto di
vista, una priorità logica, non di valore. E si tratta di una priorità logica
fondata sulla priorità ontologica del suo oggetto specifico. Consiste nel fatto
che tutte le altre scienze presup- pongono la M. allo stesso modo che tutte le
de- terminazioni della sostanza presuppongono la so- stanza; ora la riforma che
S. Tommaso ha fatto subire alla M. aristotelica nel sec. xm mira a restrin-
gere la superiorità logica della metafisica. Secondo S. Tommaso, la M. come
teoria della sostanza non include Dio tra i suoi oggetti possibili, in quanto
Dio non è sostanza (S. Tk., I, q. 1, a. 5, ad 1°). L'identità di essenza ed
esistenza in Dio distingue nettamente l’essere di Dio dall’essere delle
creature nelle quali invece l’essenza © l’esistenza sono se- parabili (/bid.,
I, q. 3, a. 4). La determinazione 37 577 dei caratteri sostanziali dell’essere
in generale non concerne pertanto Dio ma solo le cose create o finite. Con ciò
la M. perde la sua priorità, che passa alla teologia, considerata come una
scienza a sè, originaria, che ripete i suoi princlpi diretta- mente da Dio. « E
così la teologia non riceve nulla dalle altre scienze, come se queste le
fossero su- periori, ma si serve di esse come di inferiori e di serve, come le
scienze architettoniche si servono di quelle che procurano i materiali e la
scienza civile della militare » (/bid., I, q. 1, a. 5, ad 2°). Con la negazione
del carattere analogico dell’essere, operata da Duns Scoto, si ritorna a
riconoscere la priorità della metafisica. Duns Scoto infatti defi- nisce la M.
come «la scienza prima dello scibile primo » cioè dell’essere (In Mer., VII, q.
4, n. 3). L’essere che è oggetto della M. è, secondo Duns Scoto, l’essere
comune: comune cioè a tutte le creature e a Dio, per quanto non si tratta di un
genere che avrebbe ancora un estensione troppo ristretta. La comunità
dell’essere comprende il do- minio intero dell’intelligibile: la scienza
dell’essere, la M., è perciò la scienza prima e più estesa (Op. Ox., I, d. 3,
q. 3, a. 2, n. 14). La caratteri- stica di questo punto di vista di Scoto è che
esso distingue nettamente tra la priorità di valore che appartiene alla
teologia e la priorità logica che appartiene invece alla metafisica. Questa
distinzione viene mantenuta nel corso ul- teriore della storia della M.
ontologica. Nel se- colo xv tale M. cominciò ad essere contrassegnata col nome
che le è proprio di ontologia. Questo nome ricorre nello Schediasma Historicum
(1655) di Giacomo Thomasius (padre di Cristiano); e viene giustificato da
Clauberg nel modo seguente: «Come viene detta /eosofia o teologia la scienza
che si occupa di Dio, così quella che verte non intorno a questo o a quell’ente
insignito di un nome speciale o distinto dagli altri da una certa proprietà, ma
intorno all’ente in generale, non im- propriamente sembra che possa essere
detta onto- sofia od ontologia » (Op. Phil., 1691, I, pag. 281). Un'ontologia
così intesa, e nettamente distinta dalla teologia, non implicava alcun
antagonismo aperto o nascosto con i dati dell’esperienza. Essa anzi comincia ad
essere considerata come l’esposizione ordinata e sistematica di quei caratteri
fondamentali dell’essere che l’esperienza rivela in modo ripetuto o costante.
Tale è il concetto che della M. come ontologia ebbe Wolff: il quale dette a
questa disciplina la forma sistematica che le garantì, per qualche tempo, il
successo. Secondo Wolff, il pensiero comune possiede già in forma confusa le
nozioni che l’ontologia espone in forma distinta e sistematica. Esiste cioè una
« ontologia naturale + costituita dalle «confuse nozioni ontologiche vol- 578
gari ». Essa può definirsi come « il complesso delle nozioni confuse che
rispondono ai termini astratti coi quali esprimiamo i giudizi generali intorno
al- l’essere e che acquistiamo con l’uso comune delle facoltà della mente »
(On;., $ 21). Questa ontologia naturale, che gli Scolasti ci completarono senza
to- glierla dalla confusione, si distingue dall’ontologia artificiale o
scientifica come la logica si distingue dai procedimenti naturali
dell’intelletto (/bid., $ 23; Log., $ 11). Essa non è un semplice dizionario
filosofico ma una scienza dimostrativa, il cui og- getto è costituito dalle
determinazioni che appar- tengono a tutti gli enti, sia assolutamente sia sotto
determinate condizioni (Onf., $ 25). In tal modo, per opera di Wolff, faceva il
suo ingresso nel- l’organismo tradizionale della M. ontologica una esigenza
descrittiva ed empiristica che tendeva ad eliminare il contrasto tra
l’apriorismo deduttivo della M. e l’esperienza. In base alla stessa esigenza,
Wolff distingueva una psicologia empirica « nella quale si stabiliscono in base
all'esperienza i prin- cìpi che possono rendere ragione di ciò che può accadere
nell'anima umana» (Log., Disc. Prel., $ 111) dalla psicologia reazionale che è
la « scienza di tutte le cose che sono possibili nell’anima umana + (/bid., $
58). Dall'altro lato Wolff distin- gueva dall’ontologia le tre discipline M.
speciali, cioè la teologia, la psicologia e la fisica (di cui è parte la
cosmologia) rispettivamente dirette a conoscere Dio, l’anima umana e le cose
naturali (Ibid., 8 55-59). L’ontologia wolfiana rendeva possibile un’inter-
pretazione empirica di questa scienza per la quale essa fu talora difesa dagli
stessi illuministi. Diceva, per es., D'Alembert: « Poichè sia gli esseri spiri-
tuali sia quelli materiali hanno proprietà generali in comune, come
l’esistenza, la possibilità, la du- rata, è giusto che questo ramo della
filosofia, dal quale tutti gli altri rami prendono in parte i loro princìpi, si
denomini ontologia ossia scienza del- l’essere o M. generale » (Discours
préliminaire, $ 7, in @Euvres, ed. Condorcet,! pag. 115). In questo senso
d’Alembert si fece sostenitore di una nuova M. cioè di « una M. che sia creata
più per noi e si tenga più vicina e più attaccata alla terra, una M. cioè le
cui applicazioni si estendano alle scienze naturali e ai diversi rami della
matematica. Non esiste infatti in senso stretto alcuna scienza che non abbia la
sua M., se con ciò si intendono i prin- cìpi generali su cui è costruita una
determinata dottrina e che sono, per così dire, i germi di tutte le verità
particolari » (Éclaircissement, $ 16). In un senso assai vicino a questo
l’ontologia veniva in- tesa da Crusius (Entwurf der notwendigen Vernunft-
wahrheiten, 1745, $ 1) e da Lambert (Architektonik, 1771, $ 43). Con una più
radicale rinuncia al ca- METAFISICA rattere sistematico della scienza,
un’ontologia de- scrittiva o «denotativa» che mentre si limiti «a osservare e
registrare i tratti dell’esistenza » prenda anche in considerazione lo
strumento di questa osservazione cioè la riflessione umana e le condi- zioni
che la sollecitano, può vedersi ancora oggi difesa (DeWEY, Experience and
Nature, 1926, cap. 2; J. H. RANDALL, Nature and Historical Experience, 1958,
cap. 5). 3° Il terzo concetto della M. come gnoseologia è quello espresso da
Kant. Veramente, l'origine di questo concetto dev’essere riconosciuta nella no-
zione di filosofia prima di Bacone: «una scienza universale, che sia madre di
tutte le altre e costi- tuisca nel progresso delle dottrine la parte della via
comune, prima che le vie si separino e disgiun- gano ». Tale scienza doveva
essere, secondo Bacone, «il ricettacolo degli assiomi che non sono propri delle
scienze particolari ma spettano in comune a parecchie di esse » (De Augm.
scient., III, 1). Questo ‘ concetto di filosofia prima ha una sua propria
storia che è quella del concetto positivistico della filosofia; ma con esso il
concetto kantiano della M. ha in comune l’accento posto sui princlpi, più che
sull’oggetto, della scienza. La M. è, secondo Kant lo studio di quelle forme o
princìpi conoscitivi che, per essere costitutivi della ragione umana, anzi di
ogni ragione finita in generale, condizionano ogni sapere e ogni scienza; e dal
cui esame per- tanto possono ricavarsi i princìpi generali di cia- scuna
scienza. Kant esponeva questo concetto della M. nelle ultime pagine della
Critica della Ragion Pura e precisamente nel capitolo sull’architettura. La M.
può intendersi, dice Kant, o come la se- conda parte della « filosofia della
ragion pura» e cioè come «il sistema della ragion pura (scienza), come l’intera
conoscenza filosofica (sia vera che apparente) che deriva dalla ragion pura in
con- nessione sistematica »: e in questo senso essa esclude da sè la parte
preliminare o propedeutica della filosofia della ragion pura, cioè la critica.
Oppure può intendersi come l’intera filosofia della ragion pura compresa la
critica. È in questo secondo senso, che Kant chiamava ontologia la M. nello
scritto del 1793 con cui rispondeva al tema proposto dall’Accademia di Berlino:
« Quali sono i progressi reali che la M. ha fatto dal tempo di Leibniz e Wolff?
». Ontologia, M. e critica coincidono, da questo punto di vista: « La critica,
e solo la cri- tica, diceva Kant nei Prolegomeni, contiene il di- segno ben
verificato e saggiato d’una M. scienti- fica, come pure il materiale necessario
per realiz- zarlo. Per qualunque altra via o mezzo, essa è impossibile » (Prof,
A, 190). La M. kantiana si contrapponeva così come M. « scientifica » o « cri-
tica » alla M. dogmatica tradizionale, che Kant METAFISICA sottometteva a
critica nelle tre parti distinte da Wolff, teologia, psicologia e cosmologia.
Ma nè nella dialettica trascendentale nè altrove Kant ha sottoposto a critica
la prima parte fondamentale della M. wolfiana, cioè l’ontologia. In realtà il
concetto fondamentale dell’ontologia rimaneva va- lido per Kant con la
correzione del carattere cri- tico o gnoseologico di essa cioè col passaggio
dal significato realistico al significato soggettivi- stico della disciplina in
questione. Della M. critica od ontologica fanno parte, secondo Kant, una M.
della natura e una M. dei costumi. La M. della natura comprende «tutti i
principi razionali puri derivanti da semplici concetti (quindi con esclusione
della matematica) della scienza teoretica di tutte le cose» La M. dei costumi
comprende «i principi che determinano a priori e rendono necessario il fare o
il non fare» ed è perciò la «morale pura» (Crit. R. Pura, Dottr. del Me- todo,
cap. 3). Il carattere proprio della M. kantiana è la sua pretesa di essere «una
scienza di concetti puri» cioè una scienza che abbraccia le conoscenze che
possono essere ottenute indipendentemente dalla esperienza, sul fondamento
delle strutture razionali della mente umana. Da questo punto di vista, la
continuazione storica di essa nella filosofia contem- poranea è l’ontologia
fenomenologica di Husserl. A differenza di Kant, Husserl prende in conside-
razione non già i princìpi generalissimi, da ritenersi come costitutivi della
ragione in generale, ma i principi che costituiscono il fondamento di deter-
minati campi del sapere cioè di una scienza o di un gruppo di scienze e che
perciò chiama mate- riali. «Ogni oggetto empirico concreto, egli dice, si
inserisce con la sua essenza materiale in una specie materiale superiore, in
una regione di oggetti empirici. All’essenza regionale corrisponde poi una
scienza eidetica regionale o, come possiamo anche dire, una ontologia
regionale». Pertanto « ogni scienza di dati di fatto o di esperienza ha i suoi
fondamenti teoretici essenziali in ontologie regio- nali... Così, ad es., a tutte
le discipline naturalistiche corrisponde la scienza eidetica della natura
fisica in generale (l’ontologia della natura) in quanto alla natura fattizia
corrisponde un eidos puramente apprendibile, la ‘ essenza natura in generale,
con inclusa una massa infinita di rapporti essenziali + (Ideen, I, $ 9).
L’affermazione del carattere « mate- riale» cioè determinato o specifico dei
princìpi ontologici, che si riferiscono sempre ad un deter- minato genere di
essenze o campo del sapere, porta così Husserl a stabilire il carattere «
regionale » dell’ontologia. Dal suo punto di vista, l’ontologia generale o
formale non è che la logica pura, che è «la scienza eidetica dell’oggetto in
generale » (Ibid., 579 $ 10) (v. MATHESIS UNIVERSALIS). Ad una ontologia
generale, invece, è ritornato N. Hartmann, che ha in comune con Husserl il
presupposto fenomenolo- gico. L'oggetto dell’ontologia è, secondo Hartmann,
l’ente non l’essere; giacchè l’essere è unicamente «ciò che v’è di comune in
ogni ente». L'essere e l’ente si distinguono come la verità e il vero, la
realtà e il reale e così via: ci sono molte cose vere, ma l’essere della verità
è uno solo. Analogamente l’essere dell’ente è uno solo benchè l’ente possa
essere vario e le differenziazioni dell’essere appar- tengono allo sviluppo
dell’ontologia e non al suo inizio, che verte su ciò che è comune e universale
(Grundiegung der Ontologie, 1935, pag. 42). L’im- postazione schiettamente
realistica della ontologia di Hartmann sembra ravvicinarla a quella tradizio-
nale, specialmente a quella di Wolff; ma in realtà ciò che costituisce
l'oggetto dell’ontologia è, secondo Hartmann, la datità dell’essere cioè il
modo in cui l’essere è dato (/bid., pag. 48) all’esperienza fenomenologica:
sicchè la sua ontologia fa parte integrante della corrente fenomenologica. E
alla stessa corrente appartiene l’ontologia di Heidegger intesa come la
determinazione del senso dell’essere a partire dall’essere di quell’ente che
pone le do- mande e formula le risposte: cioè dell’uomo. Hei- degger riafferma
il carattere primario o privilegiato dell’ontologia. « Il problema dell’essere
tende non solo alla determinazione delle condizioni @ priori della possibilità
delle scienze che studiano l’ente in quanto ente così e così e che perciò si
muovono già sempre in una comprensione dell’essere, ma bensì anche alla
determinazione delle condizioni e della possibilità delle ontologie che
precedono e fondano le scienze ontiche [cioè empiriche] » (Sein und Zeit, $ 3).
Tutte le dottrine cui si è fatto riferimento finora (tranne quelle di Dewey e
Randall) ammettono il presupposto sul quale la M. è stata tradizional- mente
imperniata e cadono perciò nei limiti del concetto di essa. Tale presupposto è
il carattere necessario e primario della M.: necessario in quanto ha per
oggetto l’oggetto necessario di tutte le altre scienze; e primario perchè è,
come tale, a fon- damento di tutte le scienze. Ciò che della M. ri- mane nella
filosofia contemporanea — e vi rimane non come mera sopravvivenza ma come parte
viva dell'indagine — non possiede più questi caratteri tradizionali. La M. è
difatti presente e operante nella filosofia contemporanea nella forma di due
problemi connessi: 1° il problema del significato o dei significati di
esistenza nel linguaggio delle diverse scienze; 2° il problema delle relazioni
fra le diverse scienze e delle indagini su oggetti che cadono nei punti di
intersezioni o di incontro fra di esse. 580 1° Rispetto al primo problema, si
parla oggi esplicitamente di ontologia, nel senso di un impegno ad usare in un
determinato senso il verbo essere e i suoi sinonimi. Dice, ad es., Quine: « La
nostra accettazione di una ontologia è simile, in linea di principio, alla
nostra accettazione di una teoria scientifica cioè di un sistema di fisica: noi
adot- tiamo, almeno in quanto siamo ragionevoli, lo schema concettuale più
semplice nel quale i disor- dinati frammenti dell’esperienza grezza possono es-
sere adattati e distribuiti. La nostra ontologia è determinata una volta che
abbiamo fissato lo schema concettuale totale per adattarvi la scienza nel suo
senso più vasto; e le considerazioni che determinano la costruzione ragionevole
di una parte qualsiasi di quello schema concettuale, per es., la parte
biologica o fisica, non sono differenti, in ispecie, dalle considerazioni che
determinano la ragionevole costruzione dell’intero schema » (From a Logical
Point of View, pag. 16-17). Carnap, pure obiettando contro l’uso della parola «
onto- logia +, in quanto sembra faccia riferimento a convinzioni metafisiche,
mentre si tratta in realtà di una pratica decisione «come la scelta di uno
strumento +, ha sostanzialmente confermato il punto di vista di Quine (Meaning
and Necessity, $ 10). In questo senso si parla frequentemente di onto- logia
nella logica e nella metodologia contempo- ranea. 2° Rispetto al secondo
problema, l’erede della M. tradizionale è la metodologia dalla quale ven- gono
abitualmente dibattuti i problemi concernenti i rapporti fra le singole scienze
e le questioni sor- genti dalle interferenze marginali tra le scienze stesse.
Certamente la metodologia non ha ereditato la pretesa di stabilire una
enciclopedia delle scienze che definisca, una volta per tutte, i compiti e i
limiti di ciascuna; e perciò non rivendica la dignità di arbitra o regina fra
le scienze. Si tratta piuttosto di ordinare via via l'universo concettuale nel
modo più semplice e comodo: cioè nel modo, che, mentre favorisca la
comunicazione continua tra una scienza e l’altra, non attenti alla
indispensabile autonomia
di ciascuna scienza. Si tratta, a questo
scopo, di problematizzare, a ogni fase della ricerca scienti- fica, i rapporti
tra le varie discipline o i vari indirizzi di ricerca sia a vantaggio dello
sviluppo delle disci- pline singole, sia a vantaggio dell’uso che di esse può o
deve fare l’uomo: cioè della filosofia. METAFORA (gr. uetapopd; ingl. Metaphor;
franc. Métaphore; ted. Metapher). Trasferimento di significato. Dice
Aristotele: « La M. consiste nel dare ad una cosa un nome che appartiene a
un’altra cosa: trasferimento che può effettuarsi dal genere alla specie o dalla
specie al genere o da specie a specie o sulla base di una analogia » (Poet.,
21, METAFORA 1457 b 7). La nozione di M. è stata talora adope- rata per
determinare la natura del linguaggio in generale (v. Linguaggio). Come
particolare stru- mento linguistico, la sua definizione non è diversa, oggi, da
quella data da Aristotele. Per la M. mitica dei popoli primitivi che è
sostanzialmente l’identi- ficazione dell’espressione metaforica con l’oggetto,
cfr. CassiRER, Language and Myth, 1946. METAGEOMETRIA (ingl. Mesageometry;
franc. Métagéométrie; ted. Metageometrie). La geo- metria non euclidea: cioè
ogni geometria che parta da assiomi diversi da quelli di Euclide (v. Geo-
METRIA). METALINGUAGGIO (ingl. Metalanguage; franc. Métalangage). Quando D.
Hilbert introdusse la concezione delle matematiche come sistemi me- ramente
sintattico-deduttivi (sistemi arbitrari di simboli nei quali, dati certi
assiomi fondamentali e certe regole operative, si procede per via mera- mente
simbolica, operando cioè sulle formule co- stituenti gli assiomi secondo le
date regole opera- tive, a trarne le « conseguenze» senza riguardo ai possibili
od eventuali significati extrasimbolici, in- tuitivi o altro, di quegli stessi
simboli), si venne a porre il problema di controllare la non-contraddit-
torietà dei sistemi di assiomi delle discipline mate- matiche così
formalizzate, nonchè di controllare la correttezza delle singole derivazioni
(deduzioni). Poichè, secondo un noto teorema (di Gédel) non si può provare la
non-contraddittorietà di un si- stema matematico formalizzato entro il sistema
stesso, D. Hilbert e la sua scuola ricorsero alla creazione di particolari
sistemi per il controllo dei sistemi simbolici (cioè delle singole discipline
ma- tematiche: algebra, geometrie, ecc.). Tali sistemi di controllo furono
detti mefamatematici. Per ana- logia, o meglio per estensione del termine, i
logici polacchi e Carnap chiamarono M. ogni sistema linguistico (per es., il
linguaggio della Logica, della grammatica, ecc.) che non porta su denotata
extra- linguistici, ma che semanticamente porta su simboli e fatti linguistici;
e mefalinguistica ogni espressione che parla non di cose (reali o ideali),
bensì di parole o discorsi (per es.: «‘ Mario” è un nome proprio di persona
maschile singolare»; « ‘accelerazione ” è un termine della Fisica »). La
distinzione tra lin- guaggio e M. acquista moltissima importanza nel- l’analisi
filosofica neopositivistica, essendo uno dei fondamenti della critica alla
metafisica speculativa, nella quale espressioni metalinguistiche vengono
sistematicamente scambiate per espressioni lingui- stiche (v.
LINGUAGGIO-OGGETTO). G. P. METALOGICO (ingl. Meralogical; franc. Mé- talogique;
ted. Metalogisch). 1. Questo termine da Carnap in poi (Logische Syntax der
Sprache, 1934; trad. ingl., 1937; $ 2) ha lo stesso significato che METODO «
sintattico », cioè caratterizza lo studio sistematico delle regole formali di
un linguaggio (v. SINTASSI). 2. Schopenhauer chiamò « verità metalogica »
quella propria dei quattro princìpi del pensiero cioè princìpi d’Identità, di
Contraddizione, del Terzo Escluso e di Ragion Sufficiente (Uber die vierfache
Wurzel des Satzen vom zureichenden Grunde, 1813, $ 33). 3. Metalogicon è il titolo
di un’opera di Giovanni di Salisbury (sec. xn): avrebbe dovuto significare «
difesa della logica ». METAMATEMATICO (ingl. Metamathe- matic; franc.
Métamathématique; ted. Metamathe- matisch). Lo stesso che sintattico o
metalogico. Nel senso di Hilbert, la teoria della prova cioè la for-
malizzazione della prova matematica mediante un sistema logistico (v. PROVA).
METAMORALE (ingl. Metamoral; franc. Mé- tamorale). Lo studio dei fondamenti
della morale. Oppure: lo studio delle strutture logico-linguistiche della
morale. METAPSICHICA (ingl. Psychical Research; franc. Métapsychique; ted.
Parapsychologie, Me- tapsychik). L’esame spregiudicato, e con intendi- mento
scientifico, di quelle facoltà umane, reali o immaginarie, che risultano
inesplicabili sulla base delle ipotesi generalmente riconosciute. Questa è
almeno la definizione di questa scienza data dai suoi più seri cultori. I
fenomeni che essa investiga cadono in due categorie fondamentali: i cosiddetti
fenomeni mentali, che consistono in informazioni acquistate con mezzi
ultra-normali o fenomeni di percezione extra-sensoriale; i fenomeni fisici 0
pro- digi, per es., oggetti che fluttuano nell’aria, colpi, rumori, ecc. La M.
cerca di stabilire la realtà di tali fenomeni e di presentare opportune ipotesi
per la loro spiegazione. Cfr. D. J. WEST, Psychical Research Today, London,
1954. METASTORICO. Si indicano con questo ter- mine i valori eterni che la
storia tende a realizzare e che pertanto si assume che costituiscano la sua
struttura o il piano provvidenziale che la regge (v. STORIA).
METEMPIRICO (ingl. Metempirical; francese
Metempirique; ted. Metempirisch). Ciò che è al di là dei limiti dell’esperienza
possibile (LEWES, Problems of Life and Mind, 1874, I, pag. 17). METEMPSICOSI
(ingl. Merempsychosis; fran- cese Métempsychose; ted. Metempsychose). La cre-
denza nella trasmigrazione dell’anima di corpo in corpo. La credenza è
antichissima e di origine orientale, ma il termine compare soltanto negli
scrittori dei primi tempi dell’epoca cristiana. Plo- tino usa talvolta quello
di metensomatosi (Enn., II, 9, 6, 13), che sarebbe più esatto. La credenza
diffusa dalle sètte degli Orfici e dei Pitagorici fu accettata da Empedocle
(Fr., 115, 117, 119), da Platone S81 (Tim., 49 sgg.; Rep., X, 614 sgg.) da
Plotino e dai Neoplatonici e dallo gnostico Basilide (BUONAIUTI, Frammenti
gnostici, pag. 63 sgg.). Cfr. E. ROHDE, Psyche, 1890-94; trad. ital., Bari,
1916. METENSOMATOSI. V. METEMPSICOSI. METESSI (gr. pé0ek.c). Partecipazione. La
pa- rola fu usata da Platone per indicare uno dei modi possibili del rapporto
tra le cose sensibili e le idee (Parm., 132 d). Gli altri modi in cui Platone
con- cepì lo stesso rapporto furono quelli della mimesi o imitazione (Rep., 597
a; Tim., S0c) e della pre- senza dell’idea nelle cose (Fed., 100 d). Il termine
è stato usato in questa forma da Gioberti nella Protologia per designare il
ciclo di ritorno del mondo a Dio, che culmina in un rinnovamento finale o
palingenesi (Prot., II, pag. 107). Gioberti adopera lo stesso termine (come
quello di mimesi, con cui indica l'allontanamento del mondo da Dio) per
caratterizzare un termine di varie coppie di cose o enti del mondo: per es., il
corpo è la mimesi, l’anima è la M., la femmina è la mimesi, il maschio è la M.,
ecc. (/bid., pag. 319). METODICA. Così talora è stato chiamato la dottrina del
metodo pedagogico: per es., RAYNERI, Primi principi di metodica (1850);
RosMiInI, Del Principio supremo della metodica (1857); ecc. METODO (gr.
ué0080c; lat. Methodus; ingl. Me- thod; franc. Méthode; ted. Methode). Il
termine ha due significati fondamentali: 1° ogni ricerca o orien- tamento di
ricerca; 2° una particolare tecnica di ricerca. Il primo significato non si
distingue da quello di «indagine» o « dottrina ». Il secondo si- gnificato è
più ristretto e indica un procedimento di indagine ordinato, ripetibile e
autocorreggibile, che garantisca il conseguimento di risultati validi. AI primo
significato vanno riferite espressioni come «il M. hegeliano », « il M.
dialettico », ecc. o anche «il M. geometrico », « il M. sperimentale », ecc. AI
secondo significato vanno riferite espressioni come «il M. sillogistico », «il
M. dei residui » e in gene- rale quelle che designano particolari procedimenti
di indagine o di controllo. Sia Platone (Sof., 218 d; Fed., 270c) che
Aristotele (Po/., 1289a 26; Er. Nic., 1129a 6) adoperano il termine in entrambi
i significati. Nell’uso moderno e contemporaneo prevale il secondo significato.
Ma bisogna osser- vare che non c'è dottrina o teoria, sia scientifica che
filosofica, che non possa essere considerata sotto l'aspetto del suo ordine
procedurale e perciò detta metodo. Cartesio stesso, ad es., espose la stesso
contenuto del Discorso del metodo nella forma delle Meditazioni metafisiche e
dei Principi di filosofia: ciò che per un verso era M., per un altro era
dottrina. E in generale non c’è dottrina che non possa essere considerata e
chiamata M., se vista come ordine o procedura di ricerca. Per- 582 tanto la
classificazione dei M. filosofici e scientifici sarebbe senz’altro una
classificazione delle dottrine rispettive. Per le dottrine che più
frequentemente o a maggior ragione sono dette M., v. le voci rispettive:
ANALISI; ASSIOMATIZZAZIONE; (CONCOMI- TANZA} (CONCORDANZA; DEDUZIONE;
DIALETTICA; DIFFERENZA; DIMOSTRAZIONE; INDUZIONE; PROVA; ResIpUI; SiLLogIsMo;
SINTESI; ed inoltre le voci dedicate alle singole discipline: FILosoFIA;
FISICA; GroMETRIA; LoGIcA; MATEMATICA; SCIENZA; ecc. METODOLOGIA (ingl.
Merhodology; francese Méthodologie; ted. Methodologie, Methodenlehre). Sotto
questo termine si possono intendere quattro cose diverse: 1° la logica o la
parte della logica che studia i metodi; 2° la logica trascendentale ap-
plicata; 3° l’insieme dei procedimenti metodici di una scienza o di più
scienze; 4° l’analisi filosofica di tali procedimenti. 1° Come M., la logica è
stata intesa nell’età post-cartesiana. Dice la Logica di Portoreale: « La
logica è l’arte di ben condurre la propria ragione nella conoscenza delle cose,
tanto per istruire se stessi quanto per istruire gli altri ». Nello stesso
senso Wolff definiva la logica come «la scienza di dirigere la facoltà
conoscitiva nella conoscenza della verità » (Log., $ 1). Questo concetto della
logica si può vedere espresso anche nella definizione che Stuart Mill dà di
essa come «la scienza delle ope- razioni dell'intelletto che servono alla
valutazione della prova» (Logic, Intr., $ 7). Dall'altro lato la M. è stata
anche considerata come una parte della logica. Pietro Ramo distingueva la
logica in quattro parti e precisamente nella dottrina del con- cetto, del giudizio,
del ragionamento e del metodo (Dialecticae Institutiones, 1543): e questa
partizione accettata dalla Logica di Portoreale è rimasta tra- dizionale ed è
stata costantemente seguita dalla logica filosofica del sec. xrx (v. per tutti
BENNO ERDMANN, Logik, 1892, I, $ 7). Da Wolff (Log., $ SOS sgg.) in poi la
dottrina del metodo si chiamò spesso logica pratica. 2° Come logica
trascendentale applicata o « pratica », la M. è stata intesa da Kant. Essa
costituisce la seconda parte principale della Critica della Ragion Pura la
quale ha per iscopo «la de- terminazione delle condizioni formali di un sistema
completo della ragion pura»; e comprende una disciplina, un canone,
un’architettonica e infine una storia della ragion pura. Kant stesso mette a
raffronto questa parte della sua opera con la logica formale applicata o
pratica: « Dal punto di vista trascendentale, egli dice, faremo quello che
nelle scuole si è cercato di fare sotto il nome di logica pratica, rispetto
all’uso dell’intelletto in generale, ma si è fatto male perchè, non limitandosi
a un METODOLOGIA modo speciale di conoscenza intellettuale (per es., a quello
puro) e neanche a certi oggetti, la logica generale non può far altro che
proporre titoli di metodi possibili e di espressioni tecniche» (Crif. R. Pura,
Dottr. Trasc. del Metodo, Intr.). 3° Col nome di M. viene oggi spesso indicato
l’insieme dei procedimenti tecnici di accertamento o di controllo in possesso
di una determinata di- sciplina o gruppo di discipline. In questo senso si
parla, per es., della « M. delle scienze naturali + o della «M. storiografica».
In questo senso la M. è elaborata all’interno di una disciplina scien- tifica o
di un gruppo di discipline e non ha altro scopo se non quello di garantire alle
discipline in questione l’uso sempre più efficace delle tecniche di procedura
di cui dispongono. 4° Dall’altro lato, e in stretta connessione con la M. nel
senso precedente, la M. si viene costi- tuendo come disciplina filosofica
relativamente au- tonoma e destinata all’analisi delle tecniche di ricerca
adoperate in una o più scienze. L'oggetto della M. in questo senso non sono i «
metodi» delle scienze cioè le grandi e approssimative clas- sificazioni
(analisi, sintesi, induzione, deduzione, esperimento, ecc.) in cui cadono le
recniche della ricerca scientifica, ma proprio soltanto queste tecniche,
considerate nelle loro strutture specifiche e nelle condizioni che ne rendono
possibile l’uso. Tali tecniche comprendono ovviamente ogni pro- cedura
linguistica od operativa, ogni concetto come ogni strumento, di cui una o più
discipline si av- valgono per l’acquisizione e il controllo dei loro risultati.
In questo senso, la M. è l’erede: a) della metafisica, perchè ad essa competono
i problemi concernenti i rapporti tra le scienze e le zone di interferenza (e
talora di contrasto) tra scienze di- verse; 5) della gnoseologia, in quanto
alla consi- derazione della «conoscenza + intesa come forma globale
dell’attività umana o dello Spirito in gene- rale, sostituisce la
considerazione dei singoli pro- cedimenti conoscitivi in uso in uno o più campi
della ricerca scientifica. La M. in questo senso si chiama anche « critica
delle scienze ». Per quanto il lavoro fatto da essa in questa direzione,
iniziato dai primi decenni del secolo, sia già ingente, manca finora una
precisa determinazione del compito e degli orientamenti di questa disciplina.
Cfr. tut- tavia: Autori vari, Fondamenti logici della scienza, Torino, 1947;
Id., Saggi di critica delle scienze- Torino, 1950: entrambi a cura del Centro
di Studi Metodologici di Torino. MEZZO (ingl. Means; franc. Moyen; ted.
Mittel). 1. Tutto ciò che rende possibile il conseguimento di un fine,
l’esecuzione di un proposito o la rea- lizzazione di un progetto. Su rapporto
tra M. e fine, v. VALORE. MIRACOLO 2. Ambiente e specialmente ambiente
biologico. In questo senso la parola corrisponde al francese milieu che è stato
cominciato ad usare in questo significato verso la metà del secolo scorso (vedi
AMBIENTE). MICIURINISMO. V. GENETICA. MICROCOSMO (gr. puixpds xbopoc; lat. Mi-
crocosmus; ingl. Microcosm; franc. Microcosme; ted. Mikrokosmos). La
corrispondenza tra il macro- cosmo cioè il mondo, e il M., cioè l’animale e
talvolta l’uomo, è un tema filosofico antico nato dalla tendenza a interpretare
l’intero universo sul fondamento di quell’universo minore che l’uomo è a se
stesso. Aristotele così esponeva questo prin- cipio di interpretazione a
proposito della possibilità del movimento autonomo: « Se questo è possibile
nell’animale, che cosa impedisce che accada anche nel mondo? Se accade nel M.,
può accadere anche nel cosmo grande; e se accade nel cosmo, può accadere anche
nell’infinito, se è possibile che l’in- finito si muova o stia in quiete nella
sua totalità » (Fis., VIII, 2, 252 b 25). Ora questa è un’obiezione che
Aristotele rivolge a se stesso e che confuta negando la possibilità del
movimento autonomo dell'universo e ammettendo, perciò, il primo mo- tore. La
corrispondenza tra M. e macrocosmo non è pertanto un principio a cui Aristotele
faccia appello. Ma già ai tempi di Aristotele era un principio antico giacchè
esso era a fondamento della cosmogonia degli Orfici e precisamente della
dottrina che il mondo è nato da un uovo: difatti è nato da un uovo perchè è un
animale (cfr. A. OLI- VIERI, Civiltà greca nell’Italia meridionale, Napoli,
1931, pag. 23 sgg). Platone stesso chiamò il mondo «un grande animale» (7im.,
30 b) fornito perciò d’anima e intelligenza, assumendo come realtà let- terale
una corrispondenza metodologica; e questo fu il senso in cui solitamente tale
corrispondenza fu assunta dopo di lui dagli Stoici, dai Neo-pitago- rici e in
generale da tutti coloro che insistettero sul carattere animato dell’universo.
La corrispondenza tra M. e macrocosmo fu uno dei temi preferiti della
letteratura magica. La magia infatti intende dominare il mondo naturale o
incan- tandolo o addomesticandolo come si fa con un animale; e il suo
presupposto è precisamente questo, che il mondo sia un animale e che tutti i
suoi aspetti siano controllabili con procedimenti che si rivolgono ad essi come
ad attività viventi. La cor- rispondenza M.-macrocosmo fu pertanto uno dei temi
obbligati della magia rinascimentale. Cornelio Agrippa affermava che l’uomo
raccoglie in sè, tutto ciò che è disseminato nelle cose e che questo gli consente
di conoscere la forza che tiene avvinto il mondo e di servirsene per operare
azioni mira- colose (De Occulta philosophia, I, 33). Osservazioni 583 analoghe
si ripetono in tutti gli scrittori del Rina- scimento che ammettono la magia
(per es., CAM- PANELLA, De Sensu rerum, I, 10). Teofrasto Para- celso
impiantava proprio sulla corrispondenza tra macrocosmo e M. l’intera scienza
medica; e perciò esigeva che questa si fondasse su tutte le scienze che
studiano la natura dell’universo e cioè sulla teologia, la filosofia,
l’astronomia e l’alchimia (De Philosophia occulta, II, pag. 289). Con
l’abbandono, da parte della scienza, del principio antropomorfico
nell’interpretazione della natura, la corrispondenza tra M. e macrocosmo ha
cessato di essere una guida utile della ricerca ed è apparsa piuttosto come un
pregiudizio. Lo stesso Lotze che ha intitolato M. la sua opera fon- damentale
non ammette quella corrispondenza se non nella forma del condizionamento che il
mondo esercita sull’uomo e cerca di restringerne la por- tata in limiti
ristrettissimi (Mikrokosmus, VI, K, 1; trad. ital., II, pag. 312 sgg.).
MILLENARISMO. V. Chitiasmo. MIMAMSA. Uno dei grandi sistemi filosofici
dell’India antica, la cui fondazione viene attribuita a Jaimini. Esso è
sostanzialmente una interpreta- zione della dottrina dei vedanta (v.) e vuol
essere una tecnica della liberazione. Si oppone al concetto di un Dio creatore
e ammette la realtà della ma- teria e delle anime (cfr. G. Tucci, Storia della
filosofia indiana, 1957, pag. 127 sgg.). MIMESI. V. MeETESSI. MINIMUM. Così
Lucrezio chiamò l’atomo (De nat. rer., I, 620). Cusano insisteva sulla
coincidenza del massimo e del minimo in Dio (De docta ignor., I, 4) e Giordano
Bruno usò la parola nel senso di Cusano (De minimo triplici et mensura, I, 7)
(v. ATOMO). MIRACOLO (gr. vépas;
lat. Miraculum; in- glese Miracle; franc. Miracle; ted. Wunder). Un fatto eccezionale o inspiegabile, assunto
come segno o manifestazione di una volontà divina. Tale era la nozione che del
M. si aveva nell’antichità clas- sica (per es., Iliade, II, 234; Odissea, III,
173; XII, 394; ecc.); e tale è la nozione che si ebbe di esso nel Medioevo e
che viene così espressa da S. Tommaso: « Nel M. possono scorgersi due cose: Una
è quel che accade e che è certo qual- cosa che eccede la facoltà della natura;
e in questo senso i M. si dicono potenze (virtutes). La seconda è ciò per cui i
M. accadono cioè la manifestazione di qualcosa di soprannaturale; e in questo
senso comunemente i M. si dicono segni, mentre si di- cono portenti per la loro
eccellenza e prodigi in quanto mostrano qualcosa da lontano » (S. 7à., II, 2,
q. 178, a. 1, ad 3°). Quando, come accadde con l’averroismo medie- vale, con
l’aristotelismo rinascimentale e special- 584 mente con il primo affermarsi
della scienza moderna, si cominciò ad insistere sull’ordine necessario della
natura, il M. cominciò ad essere considerato come una « eccezione + a
quest’ordine perciò negato come tale o ridotto ad evento insolito ma conforme
all’ordine naturale. Nel libro Sugli Incantesimi, Pomponazzi, ad es., negava
che i M. fossero eventi contrari alla natura ed estranei all’ordine del mondo;
e li ammetteva solo come fatti inconsueti e rarissimi, che non accadono secondo
l’andamento abituale della natura ma ad intervalli lunghissimi: fatti tuttavia
che rientrano nell’ordine naturale, dal quale sono anzi determinati (De
Incantationibus, 12). Spinoza a sua volta affermava che «il M., sia esso contro
natura, sia esso al di sopra della natura, è una mera assurdità e che per M.,
nella Sacra Scrit- tura, non è possibile intendere che un'opera della natura la
quale superi l’intelligenza degli uomini o si creda che la superi» (7ractatus
teologico- politicus, cap. 6). Spinoza riteneva che Dio si co- noscesse meglio
dall’ordine e dalla necessità della natura che non da pretesi miracoli. Ma
anche Hume, che parte da una concezione tutta diversa, nega la possibilità del
miracolo. * Un M., egli dice, è una violazione delle leggi della natura e
siccome un’esperienza fissa e inalterabile ha stabilito queste leggi, la prova
contro il M., tratta dalla stessa natura del fatto, è così completa quanto ci
si può immaginare che sia un argomento tratto dall’espe- rienza » (/nq. Conc.
Underst., X, 1). Tutte le limita- zioni che il concetto di legge naturale ha
subito da Hume in poi, non hanno reso più facile la nozione di M. dal punto di
vista della scienza e della fi- losofia. Ma forse si tratta di una nozione che,
dal punto di vista della religione, non deve essere resa più facile. Dice
Kierkegaard: « È in fondo ugualmente assurdo tanto (e lo fa anche Lessing
pubblicando i Frammenti di Wolfenbatteln) aguzzare il proprio ingegno per
provare l'assurdità, l’inverosimiglianza del M. e poi, dal fatto che è
inverosimile, conclu- dere: ergo, ciò non è M. (ma sarebbe poi un M. se fosse
verosimile?), quanto (ed è questa la sa- pienza della speculazione) sforzarsi
di comprendere o di rendere comprensibile il M., concludendo in- fine: ergo, è
un miracolo. Un M. comprensibile non è più un miracolo. No, il M. rimanga quel
che è, oggetto di fede» (Diario, X3, A, 373). Da questo punto di vista cadono,
ovviamente, le obie- zioni contro il M.; ma dall’altro lato il M. cessa di
essere a qualsiasi titolo oggetto della ricerca scientifica e filosofica.
MISOLOGIA (gr. puoodoyia; ingl. Misology; franc. Misologie; ted. Misologie).
Termine creato da Platone per indicare l’odio dei ragionamenti. Secondo
Platone, «la M. nasce allo stesso modo MISOLOGIA della misantropia ». Come la
misantropia nasce dall’aver avuto fiducia in qualcuno senza discer- nimento,
così la M. nasce dall’aver creduto, senza possedere l’arte del ragionamento,
alla verità di ragionamenti che poi sono apparsi falsi (Fed., 89 d-90 b).
Secondo Kant la M. nasce quando si affida alla ragione il compito di conseguire
«il godimento della vita e la felicità»: compito al quale essa è in realtà
inadatta giacchè il suo destino, come facoltà pratica, è quello di condurre
alla moralità (Grundlegune der Metaphysik der Sitten, I). Secondo Hegel una
forma di M. è il sapere immediato (Enc., $ 11). MISTERO (gr. puothpioy; lat. Mysterium; in- glese
Mystery; franc. Mystère; ted. Mysterium).
Nel senso in cui la parola cominciò ad essere usata dagli scrittori ermetici
dell’antichità (per es., Corpus Hermeticum, I, 16) significa una verità rivelata
da Dio che va mantenuta segreta. La parola passò poi, nell’uso cristiano, a
indicare qualcosa di in- comprensibile o di significato oscuro o nascosto.
Jacob Bòhme chiamava in questo senso Dio Myste- rium magnum (è il titolo di una
sua opera del 1623). Dai moderni la parola viene adoperata: 1° nel senso di
verità di fede indimostrabile, quindi in un certo senso incomprensibile: per
es., «i M. della Trinità e dell’Incarnazione +; 2° nel senso di un problema che
si ritiene insolubile o la cui soluzione si attribuisce al do- minio religioso
o mistico: per es., «il M. dell’es- sere ». Non mancano anche oggi i filosofi
che, come già Spencer (First Princ., $ 14), ritengono che il M. sia il dominio
proprio della religione; 3° nel senso di un qualsiasi problema di difficile o
non immediata soluzione; e in questo senso anche un problema poliziesco è un
mistero. MISTICISMO (ingl. Mysticism; franc. Mysti- cisme; ted. Mysticismus).
Ogni dottrina che am- metta una comunicazione diretta tra l’uomo e Dio. La
parola mistica cominciò ad essere usata in questo senso negli scritti di
Dionigi l’Areopagita, che ap- partengono alla seconda metà del v secolo e si
ispirano al neoplatonico Proclo. In tali scritti viene accentuato il carattere
mistico del neoplato- nismo originale, cioè della dottrina di Plotino. Per far
ciò, si insiste da un lato sull’impossibilità di giungere a Dio o di realizzare
una qualsiasi comu- nicazione con lui mediante i procedimenti ordinari del
sapere umano; dal punto di vista del quale non si può far altro che definire
Dio negativamente (teologia negativa). Dall'altro, si insiste su un rap- porto
originario, intimo e privato tra l’uomo e Dio: rapporto in virtù del quale
l’uomo può ri- tornare a Dio e congiungersi infine con lui in un atto supremo.
Quest’atto è l’estasi che Dionigi considera come la deificazione dell’uomo.
MISTIFICAZIONE Lo schema di ogni dottrina mistica è questo, che il falso
Dionigi ricavò dagli scritti neo-platonici e che contiene anche molte tracce
delle credenze orientali cui questi dovevano una parte della loro ispirazione.
Il M. medievale si pose talvolta come un'alternativa escludente la via della
ricerca ra- zionale: tale fu in Bernardo di Chiaravalle (se- colo xm): nel
quale la difesa della via mistica si accompagna alla polemica contro la
filosofia e in generale l’uso della ragione. Altra volta, invece, la via
mistica e la via della speculazione scolastica sono entrambe ammesse e
riconosciute: come fe- cero i Vittorini (Ugo, Riccardo) nello stesso se- colo
xm. E gli stessi caratteri il M. conserva in S. Bonaventura, che coltiva
ugualmente la specula- zione filosofica e quella mistica. Dall’altro lato la
grande corrente del M. speculativo tedesco del sec. xIv (Maestro Eckhart,
Taulero, Susone, ecc.) è di nuovo in posizione polemica contro ogni ten- tativo
di adoperare la ragione nel campo della religione; ma la sua caratteristica è
quella di essere una speculazione sulla fede, ritenuta come il tra- mite della
comunicazione diretta tra l’uomo e Dio. Cadono poi interamente fuori del
dominio della filosofia, ma non di quello del M., i mistici pratici del
cristianesimo come Santa Teresa, Santa Cate- rina da Siena, S. Francesco,
Giovanna D'Arco, ecc. (cfr. H. Deacror:, Études d’histoire et de psycho- logie du mysticisme,
Paris, 1908; J. H. LEUBA, The Psychology of Religious Mysticism, 1925). La ricerca mistica consiste essenzialmente nel
definire i gradi progressivi dell’ascesa dell’uomo a Dio, nell’illustrare con
metafore lo stato di estasi e nel cercare di promuovere tale ascesa con oppor-
tuni discorsi edificatori. I gradi dell’ascesa mistica sono abitualmente tre:
il pensiero (cogitatio) che ha per suo oggetto le immagini provenienti dal-
l’esterno ed è diretto a considerare l'orma di Dio nelle cose; la meditazione
(meditatio) che è il rac- cogliersi dell'anima in se stessa e che ha per
oggetto l’immagine stessa di Dio; e la contemplazione (contemplatio) che si
rivolge a Dio stesso. Questi gradi sono variamente illustrati e suddivisi dai
mistici che abitualmente dividono ognuno di questi gradi in due altri,
enumerando così, con l’estasi, sette gradi di ascesa. Ad es., secondo
Bonaventura, il pensiero può considerare le cose o nel loro ordine oggettivo (I
grado) o nell'apprensione che di esse ha l’anima umana (II grado). La
meditazione può contemplare l’immagine di Dio nei poteri naturali dell'anima,
memoria, intelletto e volontà (III grado) oppure nei poteri che l’anima
acquista in virtù delle tre virtù teologali (IV grado). La contempla- zione può
considerare Dio nel suo primo attributo cioè nel suo essere (V grado) oppure
nella sua massima potenza, che è il bene (VI grado) (/tine- 585 rarium mentis
in Deum, 1259). Al di là di questi gradi, per tutti i mistici, c’è l’estasi
(v.) o excessus mentis, definita talvolta come « ignoranza dotta » (v.) e in
ogni caso considerata come il «deîficarsi dell’uomo » cioè l’unirsi dell’uomo a
Dio. Da un punto di vista filosofico-religioso è impor- tante l’apprezzamento
che Kierkegaard fece del misticismo. Il mistico è, secondo Kierkegaard, «colui
che sceglie se stesso in un isolamento com- pleto » cioè nel suo isolamento dal
mondo e dai rapporti umani (Aut Aut, in Werke, II, pag. 215) ma così facendo
egli commette una certa indiscre- zione nei riguardi di Dio. Giacchè, in primo
luogo, egli disdegna l’esistenza, la realtà nella quale Dio lo ha posto; e in
secondo luogo egli degrada Dio e se stesso. « Degrada se stesso perchè è sempre
una degradazione essere essenzialmente differenti dagli altri grazie a una
semplice accidentalità; e de- grada Dio perchè fa di lui un idolo e di se
stesso un favorito alla corte di lui» (Ibid, Werke, II,g pag. 219). Nella
filosofia contemporanea, il M. è stato difeso da Bergson. Nel M., Bergson ha
visto la « religione dinamica » cioè la religione che continua lo slancio creativo
della vita e tende a creare forme di vita più perfette per l’uomo. « L’amore
mistico, dice Bergson, si identifica con l’amore di Dio per la sua opera, amore
che ha creato ogni cosa, ed è in grado di rivelare a chi sappia interrogarlo il
mistero della creazione. È composto di un’essenza più metafisica che morale.
Vorrebbe, con l’aiuto di Dio, perfezionare la creazione della specie umana e
fare dell'umanità quello che sarebbe potuto es- sere subito se avesse potuto
costituirsi definitiva- mente senza l’aiuto dell’uomo ». In altri termini è
allo slancio mistico che può essere dovuto il ripristino della «funzione
essenziale dell’universo, che è una macchina destinata a creare divinità »
(Deux Sources; trad. ital., pag. 256, 349). Questa interpretazione del M. data
da Bergson non si differenzia dal comune panteismo (v.). MISTIFICAZIONE (ingl.
Mystification; fran- cese Mystification; ted. Mystification). L’interpreta-
zione di un concetto in modo oscuro, fallace o tendenzioso. Diceva, per es.,
Marx: «La M. alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie
in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e
consapevolmentele forme generali del movimento della dialettica stessa »
(Carteggio Marx-Engels; trad. ital., V, pag. 28). Secondo Marx la dialettica di
Hegel era «mistificata» perchè interpretata idealistica- mente invece che
materialisticamente. In modo analogo si dice che si ha un concetto mistificato
della libertà quando si fa coincidere la libertà con la necessità e così implicitamente
la si nega, ecc. 586 MISURA (gr. uérpov; lat. Mensura; ingl. Mea- sure; franc.
Mesure; ted. Mass). Già Platone aveva diviso l’arte della M. in due parti,
situando nella prima le arti «che misurano il numero, la lun- ghezza,
l'altezza, la larghezza e la velocità in rap- porto ai loro contrari» e nella
seconda «le arti che misurano il rapporto al giusto mezzo, al con- veniente,
all’opportuno, al doveroso e insomma a quelle determinazioni che stanno nel
mezzo tra due estremi » (Polit., 284 e). Conseguentemente, si può intendere per
misura: 1° il rapporto tra una grandezza e l’unità. A questo proposito
Aristotele osservava che l’unità può essere intesa in due modi: come unità
conven- zionale o apparente e come unità assolutamente indivisibile (Mer., X, 1,
1053a 22). Lo stesso Aristotele riconosceva la condizione di ogni M. in questo
senso nella omogeneità tra ciò che si misura e ciò con cui si misura (/bid., X,
1, 1053 a 22); 2° il criterio o il canone di ciò che è vero o bene. In questo
senso Cleobulo uno dei Sette Savi diceva: « Ottima è la M.» (Diog. L., I, 93),
Pla- tone vedeva nella giusta M. l’ordine e l’armonia delle cose (Fi/., 24c-d)
e Aristotele faceva della medietà (v.) il canone della virtù etica. Nello
stesso senso usava la parola Protagora nel suo famoso principio che l’uomo è M.
delle cose; e Aristotele quando vedeva nell'uomo virtuoso «il canone e la M.
delle cose» (Er. Nic., III, 4, 1113a 33). In questo senso la M. è uno dei
concetti fonda- mentali della cultura classica greca. MITO (gr. w6006; lat. Mytus;
ingl. Myth; fran- cese Myrhe; ted. Mythos).
Oltre l’accezione gene- rica di «racconto» nella quale la parola è usata, per
es., nella Poetica (I, 1451 b 24) di Aristotele si possono distinguere, dal
punto di vista storico, tre significati del termine, e precisamente: 1° quello
del M. come di una forma attenuata di intellettua- lità; 2° quello del M. come
una forma autonoma di pensiero o di vita; 3° quello del M. come stru- mento di
controllo sociale. 1° Nell'antichità classica il M. è considerato come un
prodotto inferiore o deformato dell’atti- vità intellettuale. AI M. si
attribuì, al massimo, la « verosimiglianza » di fronte alla « verità » propria
dei prodotti genuini dell’intelletto. Questo fu il punto di vista di Platone e
di Aristotele. Platone contrappone il M. alla verità o al racconto vero (Gorg.,
523 a); ma nello stesso tempo gli riconosce la verosimiglianza che, in certi
campi, è la sola validità cui il discorso umano possa aspirare (Tim., 29 d) e
che, in altri campi, esprime ciò di cui non si può trovare di meglio nè di più
vero (Gorg., 527 a). Il M. costituisce, anche, per Platone la «via umana e più
brcve» della persuasione; ed in complesso il suo dominio è rappresentato da
quella MISURA zona che è al di là della stretta cerchia del pensiero razionale
e nella quale non è lecito avventurarsi che con supposizioni verosimili.
Sostanzialmente lo stesso atteggiamento ha di fronte al M. Aristotele. Il M. è
talora opposto alla verità (Mist. An., VII, 12, 597 a 7); ma talora è anche la
forma appros- simativa e imperfetta che la verità assume quando, per es., di
una cosa si dà «la ragione in forma di M. » (Zbid., VI, 35, 580 a 18). A questo
concetto del M. come verità imperfetta o diminuita va congiunta, spesso,
l’attribuzione al M. di una va- lidità morale o religiosa. Ciò che il M. dice,
si suppone, non è dimostrabile nè chiaramente con- cepibile, ma il suo
significato morale o religioso vale a dire ciò che insegna rispetto alla
condotta dell’uomo rispetto agli altri uomini o rispetto alla divinità, risulta
chiaro. Così Platone dice nel Gorgia, a proposito dei M. morali che vi sono
esposti: « Forse queste cose ci sembreranno M. da vecchie donne e le
considererai con disprezzo. E non sa- rebbe fuor di luogo spregiarle se con la
ricerca potessimo trovare altre cose migliori e più vere. Ma anche voi tre, tu,
Polo e Gorgia, che siete i più saggi greci di oggi, non riuscite a dimostrare
che convenga vivere altra vita che questa » (Gorg., 527 a-b). Analogamente, un
significato religioso si attribuisce al M., ogni qualvolta che con questo nome
si designano credenze determinate come, per es., quando si dice « M.
cosmogonico » 0 « M. soteriologico » 0 « M. escatologico », ecc. Nel co- mune
linguaggio, prevale questa accezione del si- gnificato nella sua forma estrema
cioè come di credenza dotata di minima validità e di scarsa ve- rosimiglianza;
in questo senso si chiama mitico ciò che è irraggiungibile o contrario ai
criteri del co- mune buonsenso, per es., « una perfezione mitica ». All’ambito
di questa interpretazione del M. ap- partengono le cosiddette teorie
naturalistiche che sono prevalse nel secolo scorso in Germania. Se- condo
queste teorie, il M. è un prodotto dello stesso atteggiamento teoretico o
contemplativo che darà poi luogo alla scienza e consiste nell’assumere un
determinato fenomeno naturale come chiave per la spiegazione di tutti gli altri
fenomeni. I fenomeni astronomici, quelli meteorologici e altri sono stati di
volta in volta invocati a questo scopo. Più re- centemente un’altra scuola
sociologica ha visto nel mito soprattutto il ricordo degli eventi passati.
Nell’uno e nell’altro caso queste «spiegazioni na- turalistiche » del M. non
fanno altro che ridurlo a una forma imperfetta di attività intellettuale. 2° La
seconda concezione del M. è quella per la quale esso è una forma autonoma di
pensiero e di vita. In questo senso il M. non ha una validità o una funzione
secondaria e subordinata rispetto alla conoscenza razionale, ma funzione e
validità MITO originaria e primaria; e si colloca su un piano diverso, ma
dotato di uguale dignità, di quello dell'intelletto. Fu Vico a esprimere per la
prima volta questo concetto del M.: « Che le favole nel loro nascere furono
narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio) le quali
nac- quero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi
alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, ed
alla fine incredibili; che sono sette fonti della dif- ficoltà delle favole»
(Sc. N., II, Pruove filos. per la discoverta del vero Omero, IV). La verità del
M. non è dunque una verità intellettuale corrotta o degenerata ma una verità
autentica, sebbene di forma diversa da quella intellettuale, cioè di forma
fantastica o poetica: «I caratteri poetici nei quali consiste l’essenza delle
favole nacquero da neces- sità di natura, incapace d'’astrarne le forme e le
proprietà da ‘subbietti *; e in conseguenza dovette essere maniera di pensare
d’intieri popoli, che fus- sero stati messi dentro tal necessità di natura,
ch'è nei tempi della lor maggior barbarie » (/bid., VI). Da questo punto di
vista «i poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni » (/bid., X); e i
caratteri poetici contengono significati storici che furono, nei primi tempi,
trasmessi a memoria dai popoli (Ibid., IX). Il Romanticismo fece proprio questo
concetto del M. e lo amplificò in una metafisica teologica. La Filosofia della
mitologia di Schelling vede nel M., considerato come la religione naturale del
genere umano, una fase della autorivelazione dell’ Asso- luto. Il M. fa parte
integrante del processo della teofania; esso non ha a che fare con la natura o
meglio ha a che fare con essa solo indirettamente, in quanto la natura stessa è
la rivelazione di Dio. Il M. è una fase della teogonia che è al di là e al di
sopra della natura perchè è la manifestazione di Dio come coscienza della
natura o rapporto di essa con l’io (Werke, II, I, pag. 216 sgg.). Al di fuori
di queste speculazioni che appartengono in proprio all’idealismo romantico, la
dottrina del M. come forma autonoma di espressione e di vita ha trovato ampia
accoglienza nella filosofia e nella sociologia contemporanee. Nella filosofia,
la mi- gliore espressione di questa interpretazione del M. è il secondo volume
della Filosofia delle forme sim- boliche (1925) di Ernesto Cassirer: nel quale
la caratteristica del pensiero mitico è scorta nella mancata o imperfetta
distinzione tra il simbolo e l’oggetto del simbolo e cioè nella mancata o im-
perfetta consapevolezza del simbolo come tale. «Il M., dice Cassirer, sorge
spiritualmente al di sopra del mondo delle cose ma nelle figure e nelle
immagini con le quali esso sostituisce questo mondo, esso non vede che un'altra
forma di materialità e 587 di legame con le cose » (Philosophie der symbolischen
Formen, II, 1925; trad. ingl., 1955, pag. 24). Più tardi, nel Saggio sull'uomo,
Cassirer ha visto il carattere distintivo del M. nel suo fondamento emotivo.
«Il sostrato reale del M. non è un so- strato di pensiero ma di sentimento. Il
M. e la religione primitiva non sono certo del tutto incoe- renti, non sono
interamente privi di senso o di ra- gione. Ma la loro coerenza proviene molto
di più da un’unità sentimentale che da regole logiche. Questa unità è uno degli
impulsi più forti e più profondi del pensiero primitivo » (Essey on Man, cap.
7; trad. ital., pag. 124-25). Anche questa con- cezione tuttavia cade
nell’ambito dell’interpreta- zione che fa del M. una forma spirituale autonoma
di fronte all’intelletto. E all'ambito di questa stessa interpretazione ap-
partiene l’interpretazione sociologica che fa del M. il prodotto di una
mentalità pre-logica. Questa è stata la tesi dei sociologi francesi Durkheim e
Lévy- Bruhl. Il primo aveva affermato che il vero mo- dello del M. non è la
natura ma la società e che esso è in ogni caso la proiezione della vita sociale
dell’uomo: una proiezione che ne riflette le carat- teristiche fondamentali
(Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912). Il secondo ha definito il
pensiero mitico come pensiero pre-logico, nel senso che esso prescinderebbe
completamente dall’ordine necessario che per il pensiero logico costituisce la
natura e vedrebbe la natura stessa come « una rete di partecipazioni e di
esclusioni mistiche nella quale non valgono la legge di contraddizione e le
altre leggi del pensiero logico » (La mentalité primitive, 1922; L'dme
primitive, 1928). 3° La terza concezione del M. è la moderna teoria sociologica
di esso, che si può far risalire principalmente a Fraser (Golden Bough,
1911-15) e a Malinowski. Quest’ultimo vede nel M. la giusti- ficazione
retrospettiva degli elementi fondamentali che costituiscono la cultura di un
gruppo. « Il M. non è un semplice racconto nè una forma di scienza, nè una
branca d’arte o di storia nè una narrazione esplicativa. Esso compie una
funzione sui generis strettamente connessa con la natura della tradizione e la
continuità della cultura, con la relazione tra maturità e giovinezza e con
l’atteggiamento umano verso il passato. La funzione del M. è, in breve, quella
di rafforzare la tradizione e di darle maggior valore e prestigio connettendola
alla più alta, mi- gliore e più soprannaturale realtà degli eventi ini- ziali
». In questo senso il M. non è limitato al mondo o alla mentalità dei
primitivi. È anzi in- dispensabile a ogni cultura. « Ogni mutamento sto- rico
crea la sua mitologia, che è tuttavia solo indirettamente relativa al fatto
storico. Il M.» un costante accompagnamento della fede vivente 588 che ha
bisogno di miracoli, dello status sociolo- gico che domanda precedenti, della
norma morale che esige sanzione» (« Myth in Primitive Psycho- logy », 1926, in
Magic, Science and religion, 1955, pag. 146). Dall'altro lato Levi-Strauss ha
indagato la struttura (v.) del M. nelle società primitive, analizzando alcuni
M. nei loro elementi più sem- plici (mitemi) e studiandone le combinazioni pos-
sibili, che spiegano anche le somiglianze e le dif- ferenze tra M. in vigore
presso gruppi umani diversi (Anthropologie structurale, 1958, cap. XI). Egli ha
inoltre mostrato che il M. non è un rac- conto storico ma piuttosto la
rappresentazione ge- neralizzata di fatti che ricorrono uniformemente nella
vita degli uomini: la nascita e la morte, la lotta contro la fame e le forze
della natura, la sconfitta e la vittoria, il rapporto tra i sessi. Il M. non
riproduce perciò mai la situazione reale ma si oppone a questa situazione, nel
senso che la rappresenta abbellita, corretta e perfezionata ed esprime così le
aspirazioni che la situazione reale fa sorgere. Egli adopera la parola
dialettica (v.) per caratterizzare il rapporto tra il M. e la realtà che lo
ispira (« The Story of Asdiwal», in 7he Structural Study of Myth and Totemism,
ed. by Leach, 1969, pag. 29 sgg.). Altri autori preferiscono parlare di
retroazione (Feedback); nel senso che il M. reagisce sulla situazione che l’ha
provocata, cioè tende a modificare l'universo sociale dal quale sorga e che,
una volta modificato, provoca a sua volta una risposta nel campo del M. e così
via (DougLas, nello stesso volume, pag. 57 sgg.). In ogni caso, il M. appare
come « una filosofia nativa » (secondo l’espressione di Levi-Strauss) cioè la
forma in cui un gruppo sociale esprime il proprio atteg- giamento di fronte al
mondo o un modo per ri- solvere il problema della sua esistenza. Da questo
punto di vista il M. non è definito nei confronti di una determinata forma
dello spi- rito, per es., dell'intelletto o del sentimento, come accade nelle
due interpretazioni precedenti, ma ri- spetto alla funzione che compie nelle
società umane: funzione che può essere chiarita e descritta in base a fatti
osservabili. La svalutazione del M. propria della prima concezione e la
sopravvalutazione di esso propria della seconda sono, da questo terzo punto di
vista, egualmente fuori posto. Questo è certamente un vantaggio del punto di
vista in questione. Un altro vantaggio è che esso spiega la funzione che il M.
esercita nelle società progredite e i caratteri disparati che in tali società
può assu- mere. Possono costituire M., in esse, non solo racconti favolosi,
storici o pseudostorici, ma figure umane (l’eroe, il condottiero, il duce) o
concetti o nozioni astratte (la nazione, la libertà, la patria, il
proletariato) o infine progetti di azione che non MITO DELLA CAVERNA si
realizzeranno mai (lo « sciopero generale » di cui parlava Sorel come del M.
proprio del proletariato; cfr. Réfléxions sur la violence, 1906). La disparità
di contenuto del M. denuncia l’impossibilità di riportarlo, in base al
contenuto, a questa o quella forma spirituale; e l’opportunità di studiarlo,
in- vece, rispetto alla funzione che compie nella so- cietà umana. MITO DELLA
CAVERNA. V. CAVERNA. MITOLOGICO (ted. Mythologisch). Un signi- ficato speciale
ha ricevuto questo termine ad opera di Rudolf Bultmann: significato che è
importante per l’interpretazione del cristianesimo data da questo pensatore: «
M., egli dice, è la forma di rappresentazione in cui ciò che non è mondano, ciò
che è divino, viene raffigurato come mondano, umano, l’al di là come al di qua,
in cui, ad es., la trascendenza di Dio viene pensata come distanza spaziale;
rappresentazione in conseguenza della quale il culto viene inteso come
un’azione in cui, per opera di mezzi materiali, vengono comunicate forze non
materiali ». In questo senso, è ovvio che la parola mito non ha il senso
moderno «in cui non significa altro che ideologia» (Keryema und Mythos, I,
1951, pag. 22, n. 2). Cfr. MIEGGE, L’Evangelo e il mito, Milano, 1956.
MNEMONICA, MNEMOTECNICA (la- tino Ars memoriae; ingl. Mnemonics; franc. Mné-
monique; ted. Mnemonik, Mnemotechnik). L'arte di coltivare la memoria. Si
tratta di un’arte antichis- sima, che Cicerone attribuisce già a Simonide di
Ceo (De Or., II, 86, 351). Quest’arte fu coltivata dai Sofisti e Ippia si
vantava di esserne maestro (Ippia Min., 368 d; Ippia Mag., 286 a). Il gusto di
quest'arte risorse nel Rinascimento e fu coltivata specialmente da Giordano
Bruno, che dedicò ad essa un gruppo di scritti (De umbris idearum, 1582; Ars
memoriae, 1582; Cantus circaeus, 1582; Triginta sigillorum explicatio, 1583;
ecc.) (v. CLAvIS UNIVERSALIS). La psicologia contemporanea è ritor- nata a
occuparsi di quest'arte, con mezzi spe- rimentali. MOBILE, PRIMO (gr. rpitov
ximréy; la- tino Primum mobile; ingl. First Mobile; franc. Premier mobile; ted.
Primare Bewegliches). Così Aristotele chiamò il primo cielo al quale il
movimento è comunicato direttamente dal primo motore o mo- tore immobile e che
perciò è altrettanto semplice, ingenerato e incorruttibile del primo motore (De
Cael., II, 6, 288 a 14 sgg.). Aristotele stesso para- gona al primo M. la
facoltà appetitiva dell’anima, come paragona al motore immobile il bene (De
An., III, 10, 433 b 14). Il primo M. è il cielo che Dante chiama «cristallino »
cioè diafano o traspa- rente e al di là del quale ammette il cielo empireo o
sede dei beati (Conv., II, 4; Par., 30, 107). MODALITÀ MOBILISMO (franc.
Mobilisme). La parola è moderna (cfr. Cume, Le mobilisme moderne, 1908) poco
usata anche in italiano e in francese, ma si presta ad esprimere
l’atteggiamento filosofico di quelli che Platone chiamava i «fluenti» (7eer.,
181 a) cioè di coloro i quali ammettono che tutto muta e nulla sta fermo: come
facevano nell’anti- chità i seguaci di Eraclito e come fanno, nella filosofia
moderna, i filosofi del divenire (v.). MODA (ingl. Fashion; franc. Mode; ted.
Mode). Kant ha interpretato la M. come una forma di imitazione, fondata sulla
vanità, in quanto « nes- suno vuole apparire da meno degli altri anche in ciò
che non ha alcuna utilità ». Da questo punto di vista «stare alla M. è
questione di gusto; chi è fuori di M. e aderisce a un uso passato, si dice
antiquato; chi non dà nessun valore all’esser fuori di M. è un eccentrico».
Kant dice che «è meglio esser matto secondo la M. che fuori di essa» e che la
M. è veramente pazza solo quando sacrifica alla vanità l’utile o addirittura il
dovere (Antr., I, $ 71). In realtà questa analisi di Kant non è oggi più
sufficiente perchè è noto che la M. investe tutti i fenomeni culturali e anche
quelli filosofici. M. sono state nell’età moderna il cartesianesimo,
l'iluminismo, il newtonismo, il darwinismo, il po- sitivismo, l’idealismo, il
neoidealismo, il pragma- tismo, ecc.: tutte dottrine che hanno avuto una
importanza decisiva nella storia della cultura. D’al- tronde sono state M.
anche movimenti culturali che poca o nessuna traccia hanno lasciato. Si può
dire che la funzione della M. è quella di inserire negli atteggiamenti
istituzionali di un gruppo, o più in particolare nelle sue credenze, per mezzo
di una rapida comunicazione e assimilazione, atteg- giamenti o credenze nuove
che, senza la M., do- vrebbero combattere a lungo per sopravvivere e farsi
valere. Questa funzione specifica per la quale la M. agisce come un controllo
che limita o in- debolisce i controlli della tradizione rende inutile ogni esaltazione
e ogni disdegno nei confronti della moda. MODALE (ingl. Modal; franc. Modale;
te- desco Modal). Si chiama con questo termine la proposizione nella quale la
copula riceve una qual- siasi determinazione complementare. Per le propo-
sizioni M., v. MODALITÀ. MODALE, LEGGE (ted. Modales Grund- gesetz). Così
Nicolai Hartmann ha chiamato la riduzione di tutte le modalità dell’essere
(cioè della possibilità e della necessità) all’effettualità cioè al- l’essere
di fatto (Mbplichkeit und Wirklichkeit, 1938, pag. 71) (v. NECESSITÀ).
MODALISMO (ingl. Modalism; franc. Moda- lisme; ted. Modalismus). Si chiama così
l’inter- pretazione della Trinità cristiana che consiste nel 589 vedere nelle
tre persone divine tre modi o mani- festazioni dell'unica sostanza divina.
Questa inter- pretazione è stata sempre condannata come eretica dalla chiesa
cristiana che ha insistito sull’ugua- glianza e la distinzione delle persone
divine. Nel sec. Im il M. fu sostenuto da Sabellio; ma una specie di M. è stato
visto anche nella dottrina di Scoto Eriugena e di Abelardo al quale ultimo fu
rimproverato da S. Bernardo (De Erroribus Abe- lardî, 3, 8). Un altro nome per
la stessa eresia è monarchismo (v.). MODALITÀ (lat. Modalitas; ingl. Modality;
franc. Modalité; ted. Modalitàt). Le differenze della predicazione cioè le
differenze cui può dar luogo il riferimento di un predicato al soggetto nella
proposizione. Tali differenze furono per la prima volta riconosciute da
Aristotele sulla base del suo proprio concetto dell’essere predicativo (v. Es-
seRE, Il) che è l’inerenza. Egli dice infatti che «altro è l’inerire, altro è
l’inerire di necessità e il poter inerire: giacchè molte cose ineriscono, ma
non di necessità, altre non ineriscono nè di neces- sità nè semplicemente, ma
possono inerire» (An. Pr., I, 8, 29 b 29). In tal modo Aristotele distingue: 1°
l’inerire puro e semplice del predicato al sog- getto; 2° l’inerire necessario;
3° l’inerire possibile. In seguito, cioè dai commentatori di Aristotele,
vennero chiamati modi la seconda e la terza forma della predicazione; e vennero
dette « proposizioni modali » le proposizioni necessarie e possibili (AM-
MONIO, De interpr., f. 171 b; Boezio, De Interpr., II, V, P. L. 64°, col. 582).
Nel Medioevo, simil- mente, si chiamò proposizione de inesse o de puro inesse
quella che oggi diciamo proposizione asser- toria; e si chiamarono modali le
proposizioni ne- cessarie o possibili (ABELARDO, Dialect., II, pag. 100; Pierro
Ispano, Summ. Log., 1.31). Nella Logica (1638) di Jungius è detta « enunciazione
pura» la proposizione assertoria ed «enunciazione modifi- cata o modale» la
proposizione necessaria o pos- sibile. Lo stesso uso fu seguito dalla Logica di
Portoreale (I, 8) e da Wolff (Log., $ 69). Si può dire pertanto che Kant non
faceva che riesporre questa lunga tradizione affermardo: «La M. dei giudizi è
una loro funzione tutta particolare, che ha questo carattere distintivo: non
contribuisce per niente al contenuto del giudizio (giacchè oltre la quantità,
la qualità e la relazione, non c’è altro che formi il contenuto del giudizio)
ma tocca solo il valore della copula rispetto al pensiero in gene- rale.
Giudizi problematici sono quelli in cui l’affer- mare o il negare si ammette
come semplicemente possibile (arbitrario); assertori quelli in cui si considera
come reale (vero); apodittici quelli in cui si considera come necessario »
(Crif. R. Pura, $9, 4). 590 Nella logica contemporanea la trattazione della M.
non è stata portata a un grado sufficiente di chiarezza concettuale e di
elaborazione analitica. Ciò è dovuto al fatto che la logica contemporanea si
modella sulle matematiche che praticamente igno- rano, o possono ignorare,
l’uso delle modalità. Non fa meraviglia pertanto che sia stata proposta quella
tesi dell’estensionalità (v.) che equivale alla elimi- nazione delle M. da ogni
enunciato. Questa tesi non ha tuttavia impedito ai suoi stessi proponenti di
tentare un’interpretazione delle modalità. Rus- sell ha affermato che le M.
sono proprietà non delle proposizioni ma delle funzioni proposizio- nali (v.):
sicchè sarebbe necessaria la funzione pro- posizionale: «Se x è un uomo, x è
mortale» che è sempre vera; possibile la funzione « x è un uomo » che è qualche
volta vera; e impossibile la fun- zione * x è un unicorno » che non è mai vera
(« The Philosophy of Logical Atomism », 1918, cap. V; in Logic and Knowledge,
pag. 230 sgg.). Ma questa interpretazione di Russell equivale semplicemente a
una paradossale inversione delle M. in quanto il senso modale dell’espressione
« Se x è un uomo, x è mortale » non è la necessità ma la possibilità; essa
significa infatti «x può esser mortale». Un altro suggerimento di Russell
(Scritto cit., pag. 231) è l’identificazione del necessario con l’analitico,
cioè con affermazioni del tipo «x è x». Carnap, a sua volta, si è appigliato
appunto a questa in- terpretazione tentando una costruzione della M. sulla base
del concetto di necessità logica cioè della analiticità e definendo la
possibilità come la negazione di tale necessità (Meaning and Necessity, 1957, $
39). È appena necessario notare che questa interpretazione equivale alla
negazione pura e sem- plice delle M. stesse e non può valere come una logica di
esse. D'altronde, Quine ha mostrato le difficoltà inerenti a tutte le
trattazioni delle M., fondate, come quella di Carnap, sulla quantifica- zione
(From a Logical Point of View, VIII, 4). Circa la distinzione delle M. o, come
oggi si dice, dei valori modali delle proposizioni, la più antica e accreditata
tavola di tali valori è quella data da Aristotele nel De Interpretatione, che
ne comprende sei: vero, falso; possibile, impossibile; necessario, contingente
(De /nr., 12, 21 b). Questa logica a sei valori rimase immutata nel Medioevo
(cfr., ad es., Pietro Ispano, Sum. Logic., 1.30) ed è stata sviluppata e difesa
anche da logici con- temporanei, per es., da Lewis (A Survey of Sym- bolic
Logic, 1918). Talvolta i valori modali sono stati ridotti a cinque con
l’identificazione della possibilità e della contingenza (per es.: O. BECKER,
«Zur Logik der Modalititen», in Jahrb. fiir Phil. and Phdnom. Forschung, 1930,
pag. 496-548). Lu- kasiewicz e Tarski hanno a loro volta costruito MODALITÀ una
logica a tre M.: vero, falso e possibile (cfr. gli articoli in Compres Rendus
des Séances de la So- ciété des Sciences et Lettres de Varsovie, 1930, pag. 30,
50, 176; cfr. per Luxkasiewicz: Polish Logic 1920-39, Oxford, 1967). Carnap ha
accet- tato le sei M. della tradizione aristotelica (Meanine and Necessity, $
39). Il concetto stesso di M. è assai poco chiaro in queste dottrine della logica
contemporanea. Si pos- sono qui soltanto indicare le confusioni più fre-
quenti: 1° il tentativo di ridurre gli enunciati modali a enunciati
quantitativi; 2° il tentativo di ridurre la M. a un valore di verità della
proposizione; 3° il tentativo di predicare le M. l'una dell’altra. 1° Il primo
tentativo consiste nel far corri- spondere enunciati universali alle
proposizioni ne- cessarie ed enunciati particolari alle proposizioni possibili.
Così « tutti gli uomini muoiono » sarebbe l’equivalente di « gli uomini debbono
morire +; e «alcuni uomini sono artisti » sarebbe l’equivalente di «gli uomini
possono essere artisti ». Queste trascrizioni sono indubbiamente insufficienti
perchè nè la proposizione necessaria nè quella possibile esprimono fatti come le
corrispondenti proposizioni universale e particolare (cfr. A. PAP, Semantics
and Necessary Truth, 1958, pag. 368) e perchè la propo- sizione possibile ha un
significato distributivo (« ogni uomo può essere artista ») che sarebbe escluso
dalla corrispondente proposizione particolare. Ma è poi evidente che nessuna
trascrizione del genere è possibile per proposizioni modali del tipo «x può
essere »: proposizioni che tuttavia ricorrono in tutti i rami della scienza,
ogni qualvolta si tratta di ipotesi, predizioni, probabilità, anticipazioni,
ecc. 2° La seconda confusione è quella per cui la M. si allinea tra i valori di
verità delle proposizioni: una confusione di cui han dato esempio le stesse
cosiddette logiche delle modalità. Ora i valori di verità delle proposizioni
(vero, falso, probabile, inde- terminato, ecc.) appartengono a un livello
diverso dalla M. che è una determinazione della predica- zione cioè della
relazione tra soggetto e predicato della proposizione. I valori di verità
appartengono alla sfera del riferimento semantico delle proposi- zioni; le M.
appartengono alla struttura relazionale delle proposizioni stesse. Esse
indicano pertanto se tale struttura può essere o no diversa da com°è: cioè
indicano se il contenuto di un enunciato (il suo significato) può essere o no
diverso da come l’enunciato lo esprime. Le M. fondamentali sono quindi due e
due soltanto: possibilità e necessità, con i loro opposti non-possibilità e
impossibilità Esse modificano i valori di verità delle proposizioni nel senso di
limitarli o estenderli ma non vanno confusi con tali valori: la predicazione
reciproca suppone anzi la diversità dei livelli e si può dire MODERNISMO
«necessariamente vero» o «possibilmente vero », proprio perchè possibilità e
verità, verità e neces- sità, appartengono a due sfere diverse e non si esclu-
dono tra loro. 3° La terza confusione è quella inerente al ten- tativo di
predicare le M. una dell’altra. Questo ten- tativo è contraddittorio come
quello di predicare una dell'altra i valori di quantità o di verità delle pro-
posizioni. Il teorema fondamentale a questo pro- posito è quello che riconosce
il carattere alternativo delle modalità. Ma questo teorema è stato solita-
mente disconosciuto o ignorato dai logici della M. a partire da Aristotele. Questi
infatti si preoccupò di predicare le M. l’una dell’altra, affermando ad es.,
che ciò che è necessario che sia, deve anche essere possibile che sia, dal
momento che non può dirsi che è impossibile che sia (De /nz., 13, 22 b 11). Ma
questa affermazione o porta a considerare il necessario stesso come possibile
cioè come non necessario o porta a dividere in due il concetto di possibile
(che è la via seguita da Aristotele) col riconoscimento di una specie di
possibile che s’identifica col necessario (v. PossisiLe). Dall'altro lato,
l'affermazione reciproca (che Aristotele il- lustrò col famoso esempio della
battaglia navale) che il possibile è necessario nel senso che necessa- riamente
c'è un possibile (per es., necessariamente domani ci sarà o non ci sarà una
battaglia navale) equivale a rendere necessaria l’indeterminazione e a negare
il possibile come tale. Difatti « È neces- sario che x sia possibile» significa
che x deve mantenersi indeterminato senza mai realizzarsi; ma in tal caso x non
è un possibile. Queste antinomie o paradossi sorgono dal disconoscimento del
ca- rattere esclusivo delle differenze modali che, in virtù di questo
carattere, costituiscono alternative inconciliabili. Dall'altro lato i valori
di verità pos- sono essere predicati delle M.; c’è un possibile Vero, per es.,
«l’uomo può essere bianco» e un possibile falso come «l’uomo può esser rettan-
golo ». E ci può essere una necessità vera ed una necessità falsa, che è
l’assurdo. Queste notazioni esigerebbero adeguati sviluppi analitici. Per ulte-
riori osservazioni, v. NECESSARIO; POSSIBILE. MODELLO (ingl. Model; franc.
Modéle; te- desco Modell). 1. Una delle specie fondamentali di concetti
scientifici (v. CONCETTO) e precisamente quello che consiste in una
disposizione caratteriz- zata dall’ordine degli elementi di cui si compone,
anzichè dalla natura di questi elementi. Perciò due M. sono identici se il
rapporto dei loro ordini può essere espresso come una corrispondenza biuni-
voca, cioè tale che a un termine dell’uno corrisponda uno, e uno solo,
dell’altro e a ciascuna relazione di ordine fra gli elementi dell’uno
corrisponda una identica relazione fra i corrispondenti elementi del- 591
l’altro. L’ordinario calcolo numerico è il migliore esempio della
corrispondenza biunivoca: se ci sono da una parte cinque libri e dall’altra
cinque lapis si possono allineare queste due serie di oggetti nello stesso
ordine o collocare uno sull’altro. Allo stesso modo, la serie dei numeri interi
è in corri- spondenza biunivoca con i numeri pari e così via. Per essere utile
un M. deve avere i seguenti carat- teri: 1° la semplicità che ne renda
possibile l’esatta definizione; 2° la possibilità di essere espresso me- diante
parametri suscettibili di trattamento mate- matico; 3° la somiglianza o
l’analogia con la realtà che è destinata a spiegare. I M. meccanici erano
apparsi indispensabili alla scienza del sec. xrx; ma oggi M. puramente teo-
retici sono utilizzati da discipline diverse: dalla economia (che si avvale dei
giochi), dalla psicologia, dalla biologia e dall’antropologia (cfr. HEMPEL,
Aspects of Scientific Explanation, 1965, pag. 445 e nota 28). Levi-Strauss ha
considerato la strut- tura (v.) come un M. di questo genere per la spie-
gazione dei fatti sociali (Anthropologie Structurale, 1958, cap. XV). 2. Lo
stesso che archetipo (v.). MODERNI. V. ANTICHI. MODERNISMO (ingl. Modernism;
franc. Mo- dernisme; ted. Modernismus). Un tentativo di ri- forma cattolica che
ebbe qualche diffusione in Italia e in Francia nell’ultimo decennio dell’800 e
nel primo del nostro secolo e fu condannato dal papa Pio X con l’enciclica
Pascendî dell’8 settembre 1907. Questo tentativo è ispirato dalle esigenze
della filosofia dell’azione (v.) e consiste nell’attingere da questa filosofia
il significato da dare ai con- cetti fondamentali della religione: Dio,
rivelazione, dogma, grazia, ecc. Il M. si ispira soprattutto alle idee di Ollé
Laprune e di Blondel, che però rima- sero estranei al movimento, e conta i nomi
di Luciano Laberthonnière, Alfredo Loisy ed Eduardo Le Roy. In Italia assunse
specialmente la forma della critica biblica (Salvatore Minocchi, Ernesto
Buonaiuti) e della critica politica (Romolo Murri) mentre il dibattito
filosofico si limitava a riprodurre, con scarsa originalità, le idee del M.
francese. I capisaldi possono essere così esposti: 1° Dio si rivela
immediatamente (senza interme- diari) alla coscienza dell’uomo. « Se, dice per
esempio Laberthonniére, l’uomo desidera possedere Dio ed essere Dio, Dio s’è
già dato a lui. Ecco come nella natura stessa possono trovarsi e si trovano le
esi- genze del soprannaturale» (Essais de philosophie religieuse, 1903, pag.
171). Questo principio dimi- nuiva o annullava la distanza fra il dominio della
natura e quello della grazia e anche tra l’uomo e Dio, facendo di Dio il principio
metafisico della coscienza umana. Tale è il fondamento del cosid- 592 detto «
metodo dell’immanenza » cioè di quel me- todo che vuole trovare Dio e il
soprannaturale nella coscienza dell’uomo. 2° Dio è soprattutto un principio
d’azione e l'esperienza religiosa è soprattutto un'esperienza pratica. Questo
punto che deriva anch’esso stretta- mente dall’Azione (1893) di Blondel
equivale a far coincidere la religione con la morale: che è una delle tesi
fondamentali di Loisy (La religion, 1917, pag. 69). 3° I dogmi non sono che
l’espressione simbolica ed imperfetta, perchè relativa alle condizioni sto-
riche del tempo in cui si costituiscono, della vera rivelazione, che è quella
che Dio fa di se stesso alla coscienza dell’uomo. Tale fu il punto di vista che
Loisy difese nel più famoso scritto del M., L’évangile et l’église (1902). 4°
Alla Bibbia vanno applicati senza limita- zione gli strumenti di indagine di
cui dispone la ricerca filologica: il che vuol dire che essa va con- siderata e
studiata come un documento storico dell’umanità, sia pure di carattere
eccezionale e fondamentale. Questa fu la convinzione sia di Loisy sia di coloro
che in Italia accettarono il punto di vista del M. su questo punto e special-
mente di Buonaiuti. 5° Il cristianesimo non può condurre, nel campo della
politica, alla difesa dei privilegi del clero o di altri gruppi sociali ma solo
al progresso e all’ascesa del popolo, la cui vita nella storia è la
manifestazione della stessa vita divina. Tali fu- rono le idee politiche difese
soprattutto da Romolo Murri. Cfr. E. BUONAIUTI, Le modernisme catholique, 1927;
J. Riviére, Le modernisme dans l’église, 1929; Garin, Cronache di filosofia
italiana 1943- 1955, 1956. MODERNO (lat. Modernus; ingl. Modern; franc. Modern;
ted. Modern). Quest’aggettivo, in- trodotto dal latino post-classico e che
significa propriamente « attuale » (da modo = ora) fu ado- perato nella
Scolastica a partire dal sec. xm a indicare la nuova logica terministica,
designata come via moderna di fronte alla via antiqua della logica
aristotelica. Esso designò anche il nomina- lismo che è strettamente connesso
alla logica ter- ministica. Dice, per es., Walter Burleigh: « Sebbene
l’universale non abbia esistenza fuori dell’anima, come dicono i moderni,
tuttavia, ecc.» (Expositio super artem veterem, Venetiis, 1485, f. 59 r;
PRANTI, Geschichte der Logik, III, pag. 255, 299, ecc.). Nel senso storico, in
cui la parola viene oggi solitamente adoperata e in cui in questo dizionario si
parla di « filosofia moderna », essa indica il pe- riodo della storia
occidentale che comincia dopo il Rinascimento cioè a partire dal xvi secolo.
Dal periodo M. si suol spesso distinguere quello MODERNO « contemporaneo +, che
comprende gli ultimi de- cenni. MODIFICAZIONE RIPRODUTTIVA (te- desco Reproduktive
Modifikation). Così Husserl ha chiamato le ripresentazioni delle cose e delle
espe- rienze vissute, che ci sono già state darte una volta nelle loro
peculiari modalità (/deen, I, $ 44). MODO (gr. rtpéroc; lat. Modus; ingl. Mode; franc. Mode;
ted. Modus). Con questo termine sono stati
intesi: 1° Le diverse forme dell’essere predicativo (v. MODALITÀ). 2° Le
determinazioni non necessarie (o non incluse nella definizione di una cosa). In
tal senso il M. era già inteso dalla logica medievale (cfr., ad es., Pierro
IsPano, Sumun. Logic., 1.28). E fu ripreso da Cartesio che intese per M. le
qua- lità secondarie mutevoli delle sostanze e li con- trappose agli arrributi
che costituiscono invece le qualità permanenti o necessarie. « Poichè, egli
disse, non devo concepire in Dio alcuna varietà o muta- mento, io dico che in
lui vi sono, non M. o qua- lità, ma piuttosto attributi; e anche nelle cose
create, ciò che si trova in esse sempre costante, come l’esistenza e la durata
della cosa che esiste e dura, io lo chiamo attributo e non M. o qualità +
(Princ. Phil., I, 56). Questo concetto fu ripetuto da Spinoza (Et., I, def. 5)
e da Wolff il quale dice: «Ciò che non ripugna alle determinazioni essen-
ziali, ma non è determinato da esse, si dice M.» (Ont., $ 148). Dall’altro lato
la Logica di Portoreale definiva il M. non distinguendolo dall’attributo o
dalla qualità come «ciò che, essendo concepito nella cosa, e come tale da non
poter sussistere senza di essa, la determina a essere in una certa maniera e a
farla nominare corrispondentemente » (I, 2). Di questa definizione Locke
accettava la notazione secondo la quale il M. non può sussi- stere
indipendentemente dalla sostanza; e pertanto definiva M. « quelle idee
complesse che, per quanto composte, non contengono in sè la supposizione di
sussistere di per se stesse ma si considerano dipendenze o affezioni delle
sostanze, come sono quelle espresse dalle parole ‘triangolo *, ‘ gratitu- dine
*, ‘omicidio *, ecc. + (Saggio, II, 12, 4). All’ambito dello stesso concetto
appartiene il significato che Spinoza attribuisce al termine, in- tendendolo
come «ciò che è in un’altra cosa e il cui concetto si forma per mezzo di
quest’altra cosa + (Er., I, 8, scol. 2). Tuttavia il M. deriva necessariamente,
secondo Spinoza, dalla natura di- vina e perciò si distingue dall’attributo non
per la sua assenza di necessità ma per la sua particolarità: M. sono le cose
particolari e i singoli pensieri che esprimono gli attributi di Dio, il
pensiero e l'estensione (/bid., I, 25 scol.; II, 1). MONADE 3° Le forme, le
specie, gli aspetti, le determina- zioni particolari di un oggetto qualsiasi.
Questo significato è il più generale e comune e il meno preciso. 4° La
specificazione delle figure del sillogismo a seconda della qualità e della
quantità delle pre- messe (v. FIGURA; SILLOGISMO). MODUS PONENS, MODUS TOLLENS.
Così furono detti, nella logica del ’600, i due modi del sillogismo ipotetico,
in quanto il primo, posto l'antecedente, pone il conseguente (se A è, è B; ma A
è, dunque è 2); e il secondo tolto il con- seguente toglie l’antecedente (se A
è, è B; ma B non è, dunque A non è) (JuncIUS, Logica, 1638, III, 17, 10-11;
WOLFF, Logica, $ 409-10). MOLECOLARE, PROPOSIZIONE (inglese Molecular
Proposition; franc. Proposition molécu- laire; ted. Molekular Satz). Termine
entrato in uso col Tractatus di Wittgenstein, e corrispondente alla propositio
hypothetica della Logica boeziano-scola- stica: è una proposizione formata da
una o più atomiche (v.) legate da certe costanti logiche, come «non», «e», «01,
«implica» («se..., ...1) (nega- zione, congiunzione, disgiunzione,
implicazione), e altre. Nella Logica russelliana alle proposizioni molecolari
corrispondono le proposizioni funzio- . a. P. MOLINISMO. V. GRAZIA.
MOLTEPLICITÀ (gr. và road; ingl. Multipli» city; franc. Multiplicité; ted.
Mannigfaltigkeit). Ciò che è molteplice e vario: i « molti » in contrapposto
all’ uno », sui quali si esercitavano, di preferenza, stando alla testimonianza
di Platone (Fi/., 14d), le discussioni dialettiche del sec. rv avanti Cristo.
Platone stesso stabilì il concetto autentico del mol- teplice, che non è quello
della dispersione illimi- tata, ma quello del numero: il quale, come diceva
Platone, è nello stesso tempo uno e molti perchè è l’ordine di una M.
determinata (Fi/., 18 a-b) {(v. Numero). Il senso di questa parola è ritornato
ad essere quello di una dispersione disordinata in alcuni usi moderni, per es.,
in quello che Kant ne fa come della « materia » della conoscenza cioè del
contenuto sensibile, nel suo stato disordinato o grezzo, indipendentemente
dall’ordine e dalla unità che esso riceve ad opera delle forme a priori della
sensibilità e dell’intelletto (Crir. R. Pura, $ 1). MOLTIPLICAZIONE LOGICA
(ingl. Lo- gical Multiplication; franc. Multiplication logique; ted. Logische
Multiplikation). Nell’ Algebra della Lo- gica (v.) si chiama così l'operazione
«a-b», la quale gode di proprietà formali analoghe a quelle della M. aritmetica
(importantissima l’eccezione «a-a=a+) Interpretata come operazione tra classi,
«4-5» viene a formare la classe contenente tutti e soli gli elementi comuni
alle classi a e d. 38 593 Interpretata come operazione tra proposizioni, «a-b»
ne indica l’affermazione congiuntiva, simul- tanea («a e 51). a. P. MOMENTO
(ingl. Moment; franc. Moment; ted. Moment). 1. Concetto meccanico: l’azione
istantanea di una forza su di un corpo. Così definisce il M. Kant
(Metaphysische Anfanesgriinde der Naturwissenschaft, Nota sulla meccanica;
Crit. R. Pura, Analitica dei Principi, B, in fine). 2. Concetto temporale: una
parte minima di tempo, priva di successione (cfr. Locke, Saggio, II, 14, 10).
3. Concetto dialettico: una fase o determina- zione del divenire dialettico:
per cs., possibilità e accidentalità sono «i M. della realtà» (HEGEL, Enc., $
145); la condizione, la cosa e l’attività sono «i tre M. della necessità»
(HEGEL, /bid., $ 148); l’essere e il nulla sono «i M. del divenire » (HeceL,
Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. I, C, nota 2; trad. ital., vol. I,
pag. 87 sgg.); ecc. Questo concetto del M. come fase dialettica è il più comune
nella filosofia contemporanea. 4. Concetto logico: fase o stadio di una dimo-
strazione o di un ragionamento qualsiasi. MONADE (lat. Monas; ingl. Monad;
franc. Mo- nade; ted. Monade). In
quanto ha significato di- stinto da quello di Unità (v.), il termine designa
un’unità reale inestesa, quindi spirituale. Giordano Bruno adoperò per primo il
termine in questo senso, concependo la M. come il minimum, cioè l’unità
indivisibile, costituente l’elemento di tutte le cose (De Minimo, 1591; De
Monade, 1591). Il termine fu ripreso nello stesso senso dai neoplato- nici
inglesi e specialmente da H. More che elaborò il concetto delle « M. fisiche »,
inestese, perciò spi- rituali, come componenti della natura (Enchiridion
Metaphysicum, 1679, I, 9, 3). A partire dal 1696 Leibniz si avvale del termine
per designare la sostanza spirituale in quanto componente semplice
dell’universo. La M. è, secondo Leibniz, un atomo spirituale, una sostanza
priva di parti e di esten- sione, quindi indivisibile. Come tale non si può
disgregare ed è eterna: solo Dio può crearla 0 annullarla. Ogni M. è diversa
dall'altra giacchè non vi sono in natura due esseri perfettamente uguali (v.
IDENTITÀ DEGLI INDISCERNIBILI). Ogni M. costituisce un punto di vista sul mondo
ed è quindi tutto il mondo da un determinato punto di vista (Monadologie, 1714,
$ 57). Le attività fondamentali della M. sono la percezione e l’appetizione; ma
le M. hanno infiniti gradi di chiarezza e distin- zione: quelle fornite di
memoria costituiscono le anime degli animali e quelle fornite di ragione
costituiscono gli spiriti umani. Ma anche la ma- teria è costituita da M.:
almeno la materia seconda; giacchè la materia prima è la semplice potenza 594
passiva o forza di inerzia (Op., ed. Gerhardt, III, pag. 260-61). La totalità
delle M. è l’universo. Dio è «l'unità primitiva o la sostanza semplice origi-
naria di cui tutte le M. create o derivate sono pro- duzioni e nascono, per
così dire, per fulgurazione continua dalla divinità di momento in momento » (Mon.,
$ 47). I tratti di questa dottrina di Leibniz ricorrono uniformemente ogni
qualvolta i filosofi fanno ri- corso al concetto di monade. E ricorrono anche,
sostanzialmente, nelle dottrine metafisiche dello spi- ritualiimo
contemporaneo. Si consideri il sapore leibniziano del passo seguente di
Husserl: «La costituzione del mondo obiettivo comporta essen- zialmente
un’armonia di M., più precisamente una costituzione armoniosa particolare in
ciascuna M. e per conseguenza una genesi realizzantesi armo- niosamente nelle
M. particolari » (Carr. Med., $ 49) (v. SPIRITUALISMO). MONADOLOGIA (ingl.
Monadology; fran- cese Monadologie; ted. Monadologie). Con questo termine
Leibniz intitolò la breve esposizione del suo sistema che compose a richiesta
del Principe Eugenio di Savoia nel 1714. Il termine è rimasto a designare la
dottrina delle monadi. Kant inti- tolò M. Physica un suo scritto del 1756. E il
termine da allora ricorre frequentemente (cfr., ad es., RENOUVIER e PRAT,
Nouvelle Monadologie, 1899). MONARCHIA. V. Governo, FORME DI. MONARCHISMO. V.
MopaLISMO. MONARCOMACO (ingl. Monarchomachist ; franc. Monarchomachiste; ted.
Monarchomache). Così furono detti nel sec. xvm i seguaci del di- ritto
naturale, in quanto combattevano l’assolu- tismo monarchico. Il nome ricorre
per la prima volta nel titolo dell’opera del cattolico scozzese GUGLIELMO
BARKLAY, De regno et regali potestate adversus Buchananum, Brutum, Boucherium,
et re- liquos monarcomachos, Parigi, 1600. MONASTICO. Vico chiamò filosofi M. o
so- litari gli Stoici e gli Epicurei in quanto « vogliono l’ammortimento dei
sensi», e « niegano la provvi- denza, quelli faccendosi strascinare dal fato,
questi abbandonandosi al caso, e i secondi oppinando che muoiano l’anime umane
coi corpi ». Ai filosofi M. Vico contrappose i filosofi politici e specialmente
i Platonici che convengono coi legislatori nell’ammet- tere la provvidenza e
l'immortalità nonchè la modera- zione delle passioni (Scienza Nuova, 1744,
Degnità V). MONDANO (gr.
xoapx6c; ingl. Worldly, Mun- dane; franc. Mondain; ted. Weltlich). Questo ag- gettivo si adopera quasi esclusivamente in
corri- spondenza del significato e) di mondo, vale a dire designa ciò che
appartiene al campo di attività, di interessi o di comportamenti che sono
estranei alla vita religiosa e talvolta in antagonismo con MONADOLOGIA ensibile
», cioè attingibile dagli organi sensori o « M. intellettuale » cioè
attingibile da strumenti intellettuali. In questo senso si parla pure di « M.
ambiente» per indicare l’insieme delle relazioni di un essere vivente con le
cose circostanti o la situazione in cui si trova; ma la parola non ha
significato diverso da am- biente (v.); c) la totalità di una cultura come
quando si dice «M. antico » o «M. moderno » o «M. pri- mitivo » o «M. civile»;
d) una totalità geografica come quando si dice « Nuovo M.+ per designare
l’America o « Vecchio M. » per designare il Conti- nente antico; e) la totalità
di ciò che è estraneo alla religione. In questo senso la parola è costante-
mente adoperata nel Nuovo Testamento (Mattàh., 4, 8; XVI, 26; Joan., I, 10;
VII, 7; XII, 31; ecc.); e la «sapienza del M.» viene contrapposta come
stoltezza alla sapienza di Dio (/ Cor., I, 20). La nozione di M. in questo
senso è comune a tutti gli scrittori cristiani; ed ad essa si fa anche riferi-
mento quando si chiamano «sapienti del M.» co- loro che «si avvalgono della
ragione naturale », come fa Ockham (Suruna logicae, III, 1). Di questi
significati, i più specificamente filoso- fici sono i primi due, che si
riflettono in tutti gli altri. Il significato d) è puramente amplificativo o
retorico, il significato e) puramente religioso. Si possono pertanto
distinguere tre concetti fonda- mentali di M.: 1° il M. come ordine totale; 2°
il M. come totalità assoluta; 3° il M. come totalità di campo. I significati 1°
e 2° sono articolazioni del significato a); il significato 3° è il significato
6). 1° Si dice che per primo Pitagora abbia chia- mato cosmo il M. per
contrassegnare l'ordine di esso (StoBEO, Ecl., 21, 450; Fr. 21, Diels); certo è
che questa è l’interpretazione del concetto pre- valente nella filosofia greca.
Platone la accetta (Gorg., 508 a). E Aristotele, che distingue il tutto (tè
rav) nel quale la disposizione delle parti può MONDO mutare, dalla totalità (cò
&Xov) in cui le parti hanno posizioni fisse (Met., V, 26, 1024 a 1), dice a
pro- posito del M.: « Se la totalità del corpo, che è un continuo, è ora in
questo ordine o in questa disposizione ora in un’altra, e se la costituzione
della totalità è un M. o un cielo, allora non sarà il M. che si genera e si
distrugge ma solo le sue disposizioni + (De Cael., I, 10, 280a 19). Aristo-
tele intende dire in questo passo che il M. è la costituzione (o struttura)
della totalità (il suo or- dine) e che tale costituzione o struttura rimane immutata
anche se le sue singole parti si dispon- gono diversamente. Ciò equivale a
definire il M. come l’ordine immutabile dell’universo. Analoga- mente gli
Stoici distinguevano l'universo (tò rv) come la totalità di tutte le cose
esistenti, compreso il vuoto, dal M., considerato come «il sistema del cielo e
della terra e degli esseri che sono in essi »: nel quale senso il M. è Dio
stesso (STOBEO, Ecl., I, 421, 42 sgg.). Questa interpretazione del M. pre-
valse nell’antichità e fu adottata dalla filosofia cri- stiana la quale trovava
in essa un opportuno punto di partenza per le dimostrazioni dell’esistenza di
Dio (cfr., per es., AGOSTINO, De Ordine, I, 2). Essa entrò in crisi soltanto
quando la nozione di ordine co- minciò a incorporarsi con quella di natura più
che con quella di M.: il concetto di totalità ebbe allora il sopravvento. 2° I
primi ad esporre il concetto del M. come totalità che abbraccia ogni cosa
furono gli Epicurei. « Il M., diceva Epicuro, è la circonferenza del cielo che
abbraccia gli astri e la terra e tutti i fenomeni + (Dioc. L., X, 88). Ma solo
nella filosofia moderna questo concetto prevalse soppiantando interamente
quello più antico del M. come ordine. Dice Leibniz: «Chiamo M. tutta la serie e
tutta la collezione di tutte le cose esistenti, affinchè non si dica che più M.
possano esistere in diversi tempi e luoghi. Bisognerebbe infatti contarli tutti
insieme per un solo M. o, se preferite, per un solo universo » (Théod., I, $
8). Da questo punto di vista il M. è «l’insieme totale delle cose contingenti»
(/bid., I, $ 7); e l’elaborazione successiva del concetto ha specialmente
insistito su questo concetto di totalità assoluta. Pertanto le due nozioni di,
universo e di M. che gli antichi tendevano a distinguere l'una dall’altra
vengono considerate coincidenti. Dice Wolff: «La serie degli enti finiti sia
simultanei che successivi, tra loro connessi, si dice M. o anche universo »
(Cosmol., $ 48). A sua volta Baumgarten chiarisce meglio il senso della
totalità assoluta, affermando che essa non può essere parte di altra totalità.
« Il M., egli dice, è la serie (la moltitudine, la totalità) dei finiti reali
la quale non è parte di un'altra serie» (Mer., $ 354). Una determinazione che
veniva ripetuta da Crusius: « Il M. è un reale 595 concatenamento di cose
finite tale da non essere a sua volta parte di un altro, a cui appartenga in
virtù d’un reale concatenamento » (Entwurf der notwendigen Vernunft-Wahrheiten,
1745, $ 350). È questo il concetto che viene criticato nella dialet- tica
trascendentale di Kant. Kant osservava che la parola M. «nel senso ni si passa
alla richiesta della totalità delle condizioni, che è l’incondizionato o M. e
non è più niente di empirico (/bid., sez. 7). Non c’è quindi da meravigliarsi
che la nozione di M., fondata com'è su un procedimento sofistico, dia luogo ad
antinomie irresolubili: antinomie che concernono la finità o l'infinità del M.,
il suo cominciamento o non cominciamento nel tempo, l’esistenza o non esistenza
di parti semplici in esso e la presenza o l’assenza della libertà (v. ANTI-
NOMIE KANTIANE). La soluzione di tali antinomie si ha, secondo Kant, soltanto
rinunciando alla nozione stessa di M. o considerando tale nozione sempli-
cemente come una regola della conoscenza empi- rica; e precisamente come la regola
che « esige il regresso nella serie delle condizioni dei dati feno- menici, un
regresso nel quale non sia mai dato di arrestarsi a qualcosa di assolutamente
incondizio- nato» (/bid., sez. 8). Da questo punto di vista il M. non è una
realtà ma « un principio regolativo della ragione ». Questa critica di Kant è,
si può dire, rimasta decisiva. È ben vero che cercano di dimenticarla non solo
le dottrine che costituiscono sopravvivenze della metafisica teologica ma anche
dottrine cosmo- logiche moderne, sedicenti «scientifiche » che specu- lano sul
M. e sulla creazione (v. CosmoLogia). Ma è anche vero che queste dottrine
s’imbattono subito in antinomie insolubili, che riproducono quelle kan- tiane,
non appena fanno appello al concetto del M. come totalità assoluta. In realtà
ciò di cui la scienza può parlare è soltanto il M. osservabile 596 inteso come
«il più inclusivo insieme di oggetti astronomici che possa essere identificato
con l’aiuto degli strumenti disponibili ad un dato tempo» (M. K. MunITZ, Space,
Time and Creation, 1957, pag. 93). Ma in questo senso il M. è una to- talità di
campo, non una totalità assoluta. 3° La terza interpretazione del concetto di
M., che è in regola con la critica kantiana, s’identifica con quello che
abbiamo enunciato come signifi- cato 5): per esso il M. è la totalità di un
campo o di più campi di attività o di indagine o di rela- zioni. Da questo
punto di vista, la parola M. senza aggettivi non designa una totalità assoluta
ma semplicemente l’insieme di un campo specifico, che è quello dell’astronomo o
del cosmologo. In questo senso, la parola è perfettamente analoga a ciò che la
«materia» è per il fisico o la «vita» per il biologo: l’indicazione di un campo
generico determinato dal convergere o dal sovrapporsi di un determinato gruppo
di tecniche di ricerca (M. K. MuUNITZ, Op. cif., pag. 69). In generale, da
questo punto di vista, può dirsi che la nozione designa « un insieme di campi
definiti da tecniche relativamente compatibili e in qualche misura con-
vergenti. Possiamo così parlare del ‘ M. naturale * come dell'insieme dei campi
coperti dalle scienze naturali nella misura in cui le loro tecniche sono
relativamente compatibili e convergenti; o di ‘ M. storico * come dell’insieme
dei campi in cui pos- sono essere adoperate le tecniche dell’indagine sto-
riografica; ecc. » (ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, pag. 154-55). A
questa stessa nozione si ricollega quella data da Heidegger ed accettata dalla
filosofia esistenzia- listica, del M. come il campo costituito dalle rela-
zioni dell’uomo con le cose e con gli altri uomini. «È egualmente erroneo, dice
Heidegger, assumere l’espressione M. tanto per designare la totalità delle cose
naturali (concetto del M. naturalistico) O per indicare la comunità degli
uomini (concetto personalistico), Ciò che di metafisicamente essen- ziale
contiene il significato più o meno chiaro di M. è che esso mira
all’interpretazione dell’Esserci umano nel suo rapportarsi all’ente nel suo
insieme » (Vom Wesen des Grundes, 1929, I; trad. ital., pag. 53). Ovviamente,
da questo punto di vista, la parola M. fa parte integrante dell’espressione «
essere nel M.» che designa il modo d’essere che è proprio dell’uomo in quanto «
è situato nel mezzo dell'ente come rapportantesi all'ente» cioè è in rapporto
essenziale con le cose e con gli altri uomini. M. significa, in tal caso,
l’insieme delle relazioni tra l’uomo e gli altri esseri: la totalità di un
campo di relazioni (v. TUTTO; UNIVERSO). MONDO DELLA VITA (ted. Lebenswelt).
Termine introdotto da Husserl nella Krisis per de- MONDO DELLA VITA signare «il
mondo in cui viviamo intuitivamente, con le sue realtà, così come si dànno,
dapprima nella semplice esperienza poi anche nei modi in cui esse diventano
oscillanti nella loro validità (oscil- lanti tra l’essere e l'apparenza ecc.)»
(Krisis, $ 44). Husserl contrappone tale mondo a quello to della loro dottrina,
il termine è stato costan- temente monopolizzato dai materialisti; e quando è
usato senza aggettivo designa appunto il materia- lismo. Ciò è probabilmente dovuto
al fatto che esso fu adottato da uno dei più popolari autori di scritti
materialistici cioè dal biologo Ernesto Haeckel (Der Monismus als Band zwischen
Religion und Wissenschaft, 1893). In questo senso il termine, fu adoperato nel
nome della Associazione Monistica Tedesca (Deutsche Monistenbund) fondata nel
1906 da Haeckel e da Ostwald; nonchè nel titolo di una delle più antiche
riviste filosofiche americane The Monist fondata nel 1890 da Paul Carus.
MONOFILETISMO (ingl. Monophyletism; franc. Monophylétisme; ted.
Monophyletismus). La dottrina secondo la quale tutte le specie viventi derivano
da un unico ceppo originario. La dottrina contraria si chiama polifiletismo.
MONOFISISMO (ingl. Monophysism; fran- cese Monophysisme; ted. Monophysismus).
Un’in- terpretazione eretica del dogma cristiano dell’Incar- nazione: il Verbo
o Cristo avrebbe una sola natura, quella divina. Tale interpretazione fu
sostenuta nel sec. v da Eutiche, in opposizione al resroriane- simo (v.) che
sosteneva l’eresia opposta; e fu condan- nata dal Concilio di Calcedonia del
451. MONOGENISMO (ingl. Monogenism; fran- cese Monogénisme; ted. Monogenismus).
La dottrina secondo la quale tutte le razze umane viventi discen- dono da un
unico ceppo. La dottrina contraria si chiama poligenismo. MORTE MONOPSICHISMO
(ingl. Monopsychism; franc. Monopsychisme; ted. Monopsychismus). La dottrina
averroistica dell’unità dell’anima intellettiva in tutti gli uomini. V.
INTELLETTO ATTIVO. MONOSILLOGISMO (ingl. Monosyllogism; franc. Monosyllogisme;
ted. Monosyllogismus). Ra- gionamento costituito da un solo sillogismo, così
detto in opposizione a polisillogismo (v.). MONOTEISMO (ingl. Monotheism;
franc. Monothéisme; ted. Monotheismus). La dottrina dell’unicità di Dio. V.
DIO, 3°, 5). MONOTELETISMO (ingl. Monotheletism; franc. Monothélétisme; ted.
Monotheletismus). Inter- pretazione eretica del dogma dell’incarnazione,
secondo la quale esiste in Cristo una sola volontà, quella divina, che
costituisce il tratto d’unione delle due nature che sono in lui, la divina e
l’umana. Tale eresia fu sostenuta dal patriarca di Costanti- nopoli Sergio nel
sec. vi e condannata dal VI Con- cilio ecumenico nel 680. MONTANISMO (ingl.
Montanism; franc. Mon- tanisme; ted. Montanismus). Setta religiosa cristiana
del r secolo detta così dal nome del suo fondatore Montano, ex sacerdote di
Cibele. Montano inten- deva trasferire nel cristianesimo il culto entusiastico
della sua setta di provenienza: i montanisti vivevano in continua agitazione
nell’attesa dell’imminente ritorno del Cristo. Tertulliano appartenne per un
certo tempo a questa setta. MONUMENTALE, STORIA. V. ArcHEo- LOGICA, STORIA.
MORALE (lat. Moralia; ingl. Morals; franc. Mo- rale; ted. Moral). 1. Lo stesso
che Etica. 2. L’oggetto dell’etica, la condotta in quanto diretta o
disciplinata da norme, l’insieme dei mores. In questo significato la parola è
adoperata nelle seguenti espressioni: «la morale dei primitivi» «la morale
contemporanea », ecc. MORALE (gr. 866; lat. Moralis; ingl. Moral; franc. Moral;
ted. Moral). Questo aggettivo ha in primo luogo i due significati
corrispondenti a quelli del sostantivo morale e cioè 1° attinente alla dot-
trina etica, 2° attinente alla condotta e quindi suscet- tibile di valutazione
M.: e, specialmente, di valu- tazione M. positiva. Così non soltanto si parla
di atteggiamento M. o di persona M. per indicare un atteggiamento o persona
moralmente valutabile ma anche si intendono con le stesse espressioni cose
positivamente valutabili cioè buone. L’aggettivo ha avuto poi in inglese, francese,
ita- liano, e ancora conserva in certe espressioni, il significato generico di
« spirituale». Hegel ricordava questo significato in riferimento al francese
(Enc., $ 503). E ancora tale significato rimane, per esempio, nell’espressione
«scienze morali», che sono le «scienze dello spirito ». 597 MORALISMO (ingl.
Moralism; franc. Mora- lisme; ted. Moralismus). 1. La dottrina che fa dell’at-
tività morale la chiave per l’interpretazione di tutta la realtà. Il termine fu
adoperato in questo senso da Fichte nella esposizione della Wissenschaftslehre
del 1801 ($ 26 in Werke, II, pag. 64)e fu ripreso e dif- fuso da scrittori
francesi della fine del secolo scorso. 2. Nel linguaggio comune e, sempre più
fre- quentemente, in quello filosofico il termine designa l’atteggiamento di
chi si compiace di moralizzare su ogni cosa, senza sforzarsi di comprendere le
situa- zioni cui il giudizio morale va riferito. In questo senso il M. è un
formalismo o conformismo morale, che ha poca sostanza umana. Cfr. A. BANFI, «
M. e moralità », L'uomo copernicano, 1950, pag. 279 sgg. MORALITÀ (lat.
Moralitas; ingl. Morality; franc. Moralité; ted. Moralitàt). Il carattere
proprio di tutto ciò che si conforma alle norme morali. Kant ha contrapposto la
M. alla legalità. Quest’ul- tima è il semplice accordo e disaccordo di
un’azione con la legge morale senza riguardo al movente del- l’azione stessa.
La M. consiste invece nell’assumere come movente di azione l’idea stessa del
dovere (Me- taphysik der Sitten, I, Intr.,$ 3; Crit. R. Prat.,I, 1, 3). Marco
Aurelio, è il riposo dai contraccolpi dei sensi, dai movimenti impulsivi che ci
tirano qua e là come marionette, dalle divagazioni dei nostri ragionamenti,
dalle cure che dobbiamo avere per il corpo» (Ricordi, VI, 28). Leibniz
concepiva la fine del ciclo vitale come diminuzione o involu- zione della vita.
« Non si può, egli diceva, parlare di generazione totale o di morte perfetta,
intesa rigoro- samente come separazione dell’anima. Ciò che chia- miamo
generazioni sono sviluppi e accrescimenti e ciò che chiamiamo morti sono
involuzioni e dimi- nuzioni » (Mon., $ 73). Con la M., in altri termini, la
vita diminuisce e scende a un livello inferiore a quello dell’appercezione o
coscienza, in una specie di «stordimento +, ma non cessa (Principes de la nature
et de la gràce, 1714, $ 4). A sua volta, Hegel considera la morte come la fine
del ciclo dell’esistenza individuale o finita per la sua impossibilità di ade-
i all’universale. « La inadeguatezza dell’animale all’universalità, egli dice,
è la sua malattia originale; ed è il germe innato della morte. La negazione di
questa inadeguatezza è appunto l’adempimento del suo destino » (Enc., $ 375).
Infine il concetto biblico della M. come pena del peccato originale (Gen., II,
17; Rom., V, 12) è, nello stesso tempo, il concetto di essa come conclusione
del ciclo della vita umana perfetta in Adamo e il concetto di una limitazione
fondamentale che la vita umana ha subito a partire dal peccato di Adamo. Dice
S. Tommaso a questo proposito: « La M., la malattia e qualsiasi difetto
corporeo dipende da un difetto nell’assog- gettamento del corpo all’anima. E
come la ribellione dell’appetito carnale allo spirito è la pena del peccato dei
primi genitori, tale è anche la M. ed ogni altro difetto corporeo» (S. 7h., II,
2, q.164, a.l). Ma questo secondo aspetto, che è proprio della teologia
cristiana, appartiene propriamente al con- cetto della M. come possibilità
esistenziale. c) Il concetto della M. come possibilità esi- stenziale implica
che la M. non sia un evento MOTIVO particolare, situabile all’inizio o al
termine di un ciclo di vita proprio dell’uomo, ma una possibilità sempre
presente alla vita umana e tale da deter- minare le caratteristiche
fondamentali di essa. Alla considerazione della M. in questo senso ha avviato,
nella filosofia moderna, la cosiddetta filosofia della vita e specialmente
Dilthey. «Il rapporto che ca- ratterizza in modo più profondo e generale il
senso del nostro essere, egli ha detto, è quello della vita con la M., perchè
la limitazione della nostra esistenza mediante la M. è decisiva per la
comprensione e la valutazione della vita» (Das Erlebnis und die Dichtung, 5*
ediz., 1905, pag. 230). L’idea importante espressa qui da Dilthey è che la M.
costituisca « una limitazione dell’esistenza » non già in quanto ne costituisce
il termine ma in quanto costituisce una condizione che accom- pagna tutti i
momenti di essa. Questa concezione che riproduce in qualche modo, sul piano
filoso- fico, la concezione della M. della teologia cristiana, è stata espressa
da Jaspers col concetto della situa- zione-limite: cioè di una «situazione
decisiva, es- senziale, che è collegata con la natura umana in quanto tale ed è
inevitabilmente data con l’essere finito» (Psychologie der Weltanschauungen,
1925, III, 2; trad. ital., pag. 266; cfr. Phil., II, pag. 220 sgg.).
Rifacendosi a questi precedenti, Heidegger ha con- siderato la M. come
possibilità esistenziale. « La M., egli ha detto, come fine dell’Esserci, è la
pos- sibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e, come tale,
indeterminata e insuperabile » (Sein und Zeit, $ 52). Da questo punto di vista,
cioè come possibilità, «la M. non offre niente da rea- lizzare all'uomo e
niente che possa essere come realtà attuale. Essa è la possibilità
dell’impossibilità di ogni rapporto, di ogni esistere » (/bid., $ 53). E poichè
la M. può essere compresa solo come possibilità, la sua comprensione non è nè
l’attesa di essa nè il fuggire di fronte ad essa, il « non pen- sarci », ma
l’anticipazione emotiva di essa, l’an- goscia (v.). L'espressione usata da
Heidegger nel definire la M. «la possibilità dell’impossibilità » può a buon
diritto apparire contraddittoria. Essa è suggerita a Heidegger dalla sua
dottrina della im- possibilità radicale dell’esistenza: la M. è la mi- naccia
che tale impossibilità fa incombere sull’esi- stenza medesima. Se si vuol
prescindere da questa interpretazione dell’esistenza in termini di necessità
negativa, si può dire che la M. è «la nullità pos- sibile delle possibilità
dell’uomo e dell’intera forma dell’uomo » (ABBAGNANO, Struttura dell’
esistenza, 1939, $ 98; cfr. Possibilità e libertà, 1956, pag. 14 seguenti).
Poichè ogni possibilità può, come pos- sibilità, non essere, la M. è la nullità
possibile di ognuna e tutte le possibilità esistenziali; in questo senso,
Merleau-Ponty dice che il senso della M. è la «contingenza del vissuto», cioè
«la minaccia per- petua per i significati eterni in cui esso crede di
esprimersi per intero » (Structure du comportement, 1942, IV, II, $ 4).
MOTIVAZIONE (ingl. Morivation; franc. Mo- tivation; ted. Motivation). 1. La
causalità del motivo. Schopenhauer per primo ha nettamente distinto questa
forma della causalità dalle altre tre che sono: la causalità della causa, la
causalità della ragione, e la causalità della ragion d’essere (Ueber die
vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, 1813, $ 20, 29, 36). Dice
Schopenhauer: «L’efficienza del motivo viene ad essere conosciuta da noi non
solo dal di fuori, come quella di tutte le altre cause e perciò solo mediatamente,
ma anche dall’interno, in modo immediato... Di qui risulta l’importante
proposizione: la M. è la cau- salità vista dall’interno... Bisogna perciò
proporre la M. come una forma speciale del principio di ragion sufficiente
dell’agire cioè come legge della M.» (Vierfache Wurzel, $ 43). Anche senza il
carattere privilegiato che Schopenhauer le ricono- sceva come rivelazione
immediata del modo di agire intrinseco della causalità, la M. è rimasta a
indicare l’azione determinante del motivo, quali che siano i limiti che si
pongano a tale deter- minazione. I problemi della M. sono da un lato di natura
psicologica e concernono il modo di agire dei motivi in quanto si presta ad
essere os- servato dagli strumenti di cui la psicologia dispone; dall’altro
lato, sono di natura filosofica in quanto concernono i limiti o le modalità
della determina- zione e quindi la libertà e il determinismo (v.). 2. Husserl
ha chiamato M. le connessioni del- l’esperienza che condizionano la possibilità
della sperimentazione ulteriore. « La sperimentabilità, egli ha detto, non
significa una vuota possibilità logica ma una possibilità motivata dalla
connessione del- l’esperienza. Questa è via via una catena di M. in quanto
assume sempre nuove M. e trasforma quelle già formate » (/deen, I $ 47). MOTIVO
(ingl. Motive; franc. Motif; te- desco Motiv). La causa o la condizione di una
scelta, cioè di una volizione o di un’azione. Il M. può essere più o meno
chiaramente riconosciuto da colui sul quale agisce: si chiama talvolta mo- vente
(franc. Mobile; ted. Triebfeder) il M. che non ha carattere « razionale » cioè
che non può essere considerato come una «ragione» della scelta. Già Aristotele
aveva detto: « Poichè ci sono tre cose: primo, il motore; secondo, ciò con cui
muove; e terzo, ciò che è mosso, si ha che il motore im- mobile è il bene
pratico, il motore che è anche mosso è la facoltà appetitiva, e ciò che è mosso
è l’animale » (De An., III, 10, 433 b 14). Il M. è inteso qui come un motore
unico e immutabile che 600 è il bene, il fine cui tende la vita dell’animale.
Ma nel mondo moderno di un motore in questo senso non si parla più e si parla
invece di motivo. Wolff intendeva con questo termine « la ragione suf- ficiente
della volizione o della nolizione » (Psychol, empirica, $ 887): una definizione
che, si può dire, non ha subìto mutamenti, tranne che nel diverso grado di
determinazione attribuito al motivo. Il problema di questi diversi gradi di
determinazione è il problema della /ibertà (v.). Dall'altro lato, l’importanza
del concetto di M. per la spiegazione della condotta umana è stata talvolta
messa in dubbio nella filosofia contemporanea. Dewey, per es., ha affermato che
«l’intero concetto di M. è in verità extrapsicologico ». Nessuna persona di
buon senso attribuisce gli atti di un animale o di un idiota ad un M.; ed è
assurdo chiedere che cosa induce un uomo all’attività. « Ma quando abbiamo
bisogno di condurlo ad agire in un modo specifico piuttosto che in un altro,
quando vo- gliamo dirigere la sua attività in una direzione specifica, allora
la questione del M. è pertinente. Il M. è allora l’elemento del complesso
totale del- l’attività umana che, se sufficientemente stimolato, darà luogo a
un atto avente conseguenze specifiche ». In altri termini il M. è piuttosto che
un fattore di spiegazione della condotta umana, uno stru- mento per orientarla
e guidarla (Human Nature and Conduct, pag. 119-20). MOTORE. V. Dio, Prove DI;
MOVIMENTO. MOVENTE. V. Motivo. MOVIMENTO (gr. x(vnow; lat. Motus; in- glese
Motion; franc. Mouvement; ted. Bewegung). 1. In generale, un mutamento o
processo di qual- siasi specie. Questo significato corrisponde a quello del
termine greco. Platone distingueva due specie di M., l’alterazione e la
traslazione (7eer., 181 d); Aristotele ne distingueva quattro e cioè, oltre le
due precedenti, il M. sostanziale (generazione e corruzione) e il M.
quantitativo (aumento e dimi- nuzione) (Fis., III, 1, 201a 10). Per le singole
specie del M., v. le voci relative. Il M. in generale fu definito da Aristotele
come «l’entelechia di ciò che è in potenza » (Fis., III, l, 201 a 10):
definizione che è rimasta celebre nei secoli. Essa vuol dire che il M. è la
realizzazione di ciò che è in potenza: ad es., la costruzione, l’apprendimento,
la guarigione, la crescita, l’invec- chiamento, sono realizzazioni di
potenzialità (/bid., 201 a 16). Nel M. così inteso la parte fondamen- tale è
quella del motore, dal cui contatto si genera il movimento. « Quale che sia il
motore, dice Ari- stotele, esso sempre apporterà una forma — so- stanza particolare
o qualità o quantità — che sarà principio e causa del M., quando il motore muo-
verà; al modo in cui l’entelechia nell'uomo fa dell’uomo in potenza un uomo»
(/id., III, 2, 202 a 8). La fisica aristotelica è, dal principio alla fine, una
teoria del M. in questo senso (v. Fisica). Il suo teorema fondamentale « tutto
ciò che si muove è mosso da qualcosa » (/bid., VII, 1, 256a 14) porta alla
teoria del primo motore immobile dell’universo (v. Dio, Prove DI). 2. In senso
specifico, il M. locale o traslazione. Aristotele afferma la priorità di questo
M. sugli altri tre. Gli altri M. possono infatti essere ridotti a quest’ultimo,
che dall’altro lato è il solo che può appartenere alle cose eterne cioè agli
astri (Fis., VIII, 7, 260b). Le specie del M. locale ca- ratterizzano, secondo
Aristotele gli elementi del- l’universo, compreso quello costitutivo delle so-
stanze celesti cioè l’etere, che si muove di M. circolare (v. Fisica). Questa
dottrina del M. è rimasta per lungo tempo immutata perchè tutta la filosofia
antica e medievale l’ha ripetuta senza mo- difiche sostanziali. Una teoria del
M. che ebbe fortuna nell’ultimo periodo della scolastica è quella elaborata da
Duns Scoto, della forma fluente. Se- condo Duns Scoto, un corpo che si muove
acquista ad ogni istante qualcosa: ma non il luogo, che non è un suo attributo
ma risiede nei corpi che lo attorniano, bensì piuttosto una specie di deter-
minazione qualitativa, analoga al calore che è acquisito dal corpo che si
riscalda. Questa deter- minazione è il dove (ubi). Il M. è quindi la perdita o
l'acquisizione continua del dove e in questo senso è una « forma fluente »
(Quod!., q. 11, a. 1). La dottrina veniva criticata dalla scolastica della fine
del ’200 e del *300. Ockham la sottometteva a una critica radicale,
considerando il M. come il mutamento del rapporto di un corpo con i corpi
circostanti (Quod?., VII, q. 6). Questo era il con- cetto che doveva prevalere
nell’età moderna ad opera della scienza. Cartesio l’esprimeva nel modo
seguente: « Il M. è il trasporto di una parte della materia o di un corpo dalla
vicinanza dei corpi che lo toccano immediatamente e che consideriamo in riposo,
alla vicinanza di altri corpi» (Prince. Phil., II, 25). Sul concetto del M.
nella scienza contemporanea, v. RELATIVITÀ. MUSICA (gr. uovowi téixvn; lat.
Musica; in- glese Music; franc. Musique; ted. Musik). Due sono le definizioni
filosofiche fondamentali che sono state date della musica. La prima è quella
che la con- sidera come la rivelazione all'uomo di una realtà privilegiata e
divina: rivelazione che può assumere o la forma della conoscenza, o quella del
senti- mento. La seconda è quella che la considera come una tecnica o un
insieme di tecniche espressive, che concernono la sintassi dei suoni. 1° La
prima concezione, che passa per essere la sola « filosofica » ma che veramente
è metafisica o teologizzante, consiste nel ritenere che la M. è una scienza o
un’arte privilegiata in quanto ha per oggetto la realtà suprema o divina o una
sua caratteristica fondamentale. Di questa concezione si possono distinguere
due fasi: a) la prima vede l’oggetto della M. nell’armonia come caratteristica
divina dell’universo e considera pertanto la M. come una delle scienze supreme.
5) Per la seconda l'oggetto della M. è lo stesso principio cosmico (Dio, o la
Ragione autocosciente, o la Volontà infinita, ecc.) e la M. è l’autorivelazione
di questo principio nella forma del sentimento. Entrambe queste concezioni
hanno un tratto fondamentale in comune: la separazione della M., come arte «
pura », dalle tecniche in cui essa si realizza. Pla- tone polemizza contro i
musici che vanno alla ri- cerca di nuovi accordi sugli strumenti (Rep., VII,
531 b) e così fa pure Plotino. Schopenhauer e Hegel parlano della « essenza »
della M., della sua natura universale ed eterna, in quanto è separabile dai
mezzi espressivi nei quali essa prende corpo come fenomeno artistico. a) La
dottrina della M. come scienza dell’ar- monia e dell’armonia come ordine divino
del cosmo è nata coi Pitagorici. «I Pitagorici, che Platone segue spesso,
dicono che la M. è armonia di con- trari e unificazione dei molti e accordo dei
discor- danti » (FinoLao, Fr., 10, Diels). La funzione e i caratteri
dell'armonia musicale sono gli stessi che la funzione e i caratteri
dell'armonia cosmica: la M. è perciò il mezzo diretto per elevarsi alla co-
noscenza di questa armonia. Platone pertanto in- cludeva la M. fra le scienze
propedeutiche al quarto posto (dopo l’aritmetica, la geometria piana e so- lida
e l’astronomia) e quindi la considerava la più vicina alla dialettica e la più
filosofica (Fed., 61 a). Come scienza autentica tuttavia la M. non con- siste,
secondo Platone, nel cercare con l’orecchio nuovi accordi sugli strumenti: in
questo modo si anteporrebbero gli orecchi all’intelligenza (Rep., VII, 531 a).
Coloro che così fanno «si regolano come gli astronomi perchè cercano i numeri
negli accordi accessibili all’udito ma non risalgono ai problemi, non indagano
quali numeri siano armo- nici e quali no e donde venga la loro differenza » (Ibid.,
VII, 531 b-c). Per questa possibilità di pas- sare dai ritmi sensibili
all’armonia intelligibile, la M. è ritenuta da Plotino una delle vie per ascen-
dere a Dio. « Dopo le sonorità, i ritmi e le figure percepibili dai sensi, egli
dice, il musico deve pre- scindere dalla materia nella quale si realizzano gli
accordi e le proporzioni e attingere la bellezza di essi in se stessi. Deve
apprendere che le cose che lo esaltavano sono entità intelligibili: tale è
infatti l'armonia: la bellezza che è in essa è la bellezza assoluta, non quella
particolare. Per questo, egli 601 deve servirsi di ragionamenti filosofici che
lo con- ducono a credere a cose che aveva in sè senza saperlo » (Enn., I, 3,
1). Furono queste le considerazioni che portarono a includere la M. nel novero
delle «arti liberali » ritenute fondamentali per tutto il Medioevo. S. Ago-
stino espone il passaggio della M. dalla fase della sensibilità, in cui essa si
occupa dei suoni, alla fase della ragione in cui diventa contemplazione
dell’armonia divina. «La ragione, egli dice, com- prese che in questo grado,
tanto nel ritmo quanto nell’armonia, i numeri regnano e conducono tutto a
perfezione: osservò allora con la massima dili- genza di quale natura fossero e
li scoprì divini ed eterni perchè col loro aiuto erano state ordinate tutte le
cose supreme» (De Ordine, II, 14). Nelle Nozze di Mercurio e della Filologia,
Marciano Ca- pella, verso la metà del v secolo, includeva la M. tra le arti
liberali (ridotte a sette) e con questa la stabiliva come uno dei pilastri
dell'educazione medievale. Alcuni secoli dopo, Dante paragonava la M. al
pianeta Marte: giacchè come questo è «la più bella relazione» perchè è al
centro degli altri pianeti, e il più caloroso perchè il suo calore è simile a
quello del fuoco, così è la M.: «la quale è tutta relativa siccome si vede
nelle parole armo- nizzate e nelli canti, dei quali tanto più dolce ar- monia
risulta tanto più la relazione è bella»; e la quale « trae a sè gli spiriti
umani che sono quasi principalmente vapori del cuore sicchè quasi ces- sano da
ogni operazione » (Conv., II, 14). Ciò che qui Dante chiama « relazione » è
l'armonia di cui parlavano gli antichi e il carattere cosmico della M. è
espresso nel confronto di essa con uno degli astri maggiori dell’universo. b)
La dottrina della M. come autorivelazione del Principio cosmico tende a
privilegiare la M. al di sopra di tutte le altre arti o scienze e a farne la
più diretta via d’accesso all’Assoluto. Queste sono le caratteristiche proprie
della concezione ro- mantica della M., caratteristiche che si trovano ben
realizzate nella teoria di Schopenhauer. Se- condo Schopenhauer, mentre l’arte
in generale è l’oggettivazione della Volontà di vivere (che è il Principio
cosmico infinito) in tipi o forme univer- sali (le Idee platoniche) che
ciascun’arte riproduce a suo modo, la M. è rivelazione immediata o di- retta
della stessa Volontà di vivere. « La M., egli dice, è dell’intera Volontà
oggettivazione ed im- magine tanto diretta quant'è il mondo; o anzi come sono
le Idee, il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti.
La M. non è quindi, come le altre arti, l’immagine delle idee, bensì l'immagine
della Volontà stessa, della quale sono oggettività anche le idee. Perciò
l’effetto della M. è tanto più potente e insinuante di quello delle altre arti:
giacchè queste ci dànno solo il riflesso mentre quella ci dà l’essenza » (Die
Welt, 1819, I, $ 52). Con questa esaltazione della M. coincide la dottrina di
Hegel: la quale tuttavia aggiunge l'importante determinazione, che la M. è
l’espres- sione dell’assoluto nella forma del sentimento (Gemiith). «La M.,
dice Hegel, costituisce il punto centrale di quella rappresentazione la quale
esprime il soggettivo come tale sia rispetto al contenuto sia rispetto alla forma,
giacchè essa partecipa dell’interiorità e rimane soggettiva anche nella sua
oggettività ». In altri termini essa non lascia, come fanno le arti figurative,
che l’esterio- rizzazione sia libera di svilupparsi di per se stessa e di
arrivare a un'esistenza di per sè stante « ma supera l’oggettivazione esterna e
non s’immobi- lizza in essa fino a farne qualcosa di esterno che abbia
esistenza indipendentemente da noi» (Vorlesungen liber die Aesthetik, ed.
Glockner, III, pag. 127). Ciò vuol dire che nella M., a differenza che nelle
altre arti, la forma sensibile in cui l’Idea si manifesta od esprime è
interamente superata come tale e risolta in pura interiorità, in puro
sentimento. Da questo punto di vista Hegel dice che il sentimento è la forma
propria della M.: «Il com- pito fondamentale della M. consiste nel far risuo-
nare, non già la stessa oggettività ma, all’opposto le forme e i modi nei quali
la più interna sogget- tività dell’io e l’anima ideale si muove in se stessa»
(4bid., pag. 129). Col riconoscimento del sentimento come forma propria della
M. e come giustificazione della superiorità di essa, la teoria romantica della
M. aveva trovato la sua espressione definitiva. È solo un’esagerazione di
questa espressione la teoria di Kierkegaard che la M. « trova il suo oggetto
asso- luto nella genialità erotico-sensuale » (Aus Auf, Le tappe erotiche,
ecc.; trad. franc., Prior e Guignot, pag. 54). La definizione della M. come
l’arte di esprimere «i sentimenti » o «le passioni » mediante i suoni, fu
ripetuta infinite volte e si perdette per- sino il senso delle sue implicanze
teoretiche. Essa fu assunta come una definizione oggettiva o scientifica della
M. (cfr. HANSLICK, Vom Musikalisch-Schònen, 1854, la nota finale del cap. 1).
Fu questa la defi- nizione della M. cui si ispirò l’opera di Wagner, che
infatti condivideva la filosofia di Schopenhauer sulla musica. Federico
Nietzsche a sua volta fu, nella sua giovinezza, un seguace di questa conce-
zione: dalla quale si staccò a partire dal 1878 (con Umano, troppo umano)
quando cominciò a scorgere nell’opera di Wagner, orientata nostalgicamente
verso il cristianesimo, un abbandono di quei valori vitali che erano propri
dell'antichità classica e uno spirito di rinuncia e di rassegnazione. Ma dal
concetto romantico della M. neppure Nietzsche si staccò mai veramente. L'ideale
che egli vagheggiò di una M. « meridionale» (del tipo di quella di Bizet)
conserva ancora la caratteristica romantica di essere l’espressione del
sentimento per quanto di un sentimento situato «al di là del bene e del male ».
Egli scrisse infatti: « Il mio ideale sarebbe una M. il cui maggior fascino
consistesse nell’igno- ranza del bene e del male, una M. resa tremula tutt'al
più da qualche nostalgia di marinaio, da qualche ombra dorata, da qualche tenera
rimem- branza; un’arte che assorbisse in se stessa, da una grande distanza
tutti i colori di un mondo morale che tramonta, un mondo divenuto quasi incom-
prensibile, e la quale fosse ospitale e profonda abbastanza per accogliere in
sè i tardi fuggiaschi » (Jenseits von Gut und Bòse, $ 255). Anche oggi si fa
frequentemente ricorso alla definizione della M. come espressione del
sentimento o almeno la si presuppone come cosa ovvia e sicura (cfr., per es.,
Dewey, Art as Experience, cap. 10; trad. ital., pag. 278 sgg.). In Italia ha
contribuito a raffor- zarla la dottrina crociana dell'arte come espressione del
sentimento; ma, ovviamente, questa dottrina non è che la generalizzazione a
tutto il dominio dell’arte della definizione romantica della musica. Questa
definizione ha trovato e trova pure incar- nazioni frequenti nella figura del
musicista, sacer- dote o profeta, che sa ascoltare la voce dell’Assoluto e
tradurla nel linguaggio sonoro del sentimento. Anche oggi difficilmente si
rinuncia a vagheg- giare questa raffigurazione romantica della M.: la quale
consente agli intenditori di essa di sen- tirsi rapiti dentro un orizzonte
mistico nel quale gli accordi musicali sono parole di una divinità nascosta. 2°
La caratteristica della seconda concezione fondamentale della M. è l'identità,
che essa implica, tra la M. e le sue tecniche. Tale identità fu chiara- mente
espressa da Aristotele con il riconoscimento della molteplicità delle tecniche
musicali. «La M., egli diceva, non va praticata per un unico tipo di beneficio
che da essa può derivare, ma per usi molteplici, poichè può servire per
l'educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per il riposo, il
sollevamento dell’anima e la sospensione dalle fatiche. Da ciò risulta che
bisogna far uso di tutte le armonie, ma non di tutte allo stesso modo,
impiegando per l’educazione quelle che banno un maggiore contenuto morale, per
l’ascolto di M. eseguite da altri quelle che incitano all’azione o ispirano
alla commozione » (Po/., VIII, 7, 1341 b 30 sgg.). Queste considerazioni che,
nella loro ap- parente semplicità, sembrano escludere un’inter- pretazione
filosofica della M., in realtà esprimono il concetto che la M. è un insieme di
tecniche espressive, aventi scopi o usi diversi e che possono essere indefinitamente
e opportunamente variate. E questo concetto è in realtà il solo che ha aiutato
e sorretto lo sviluppo dell’arte musicale. Esso ritornò nel Rinascimento e
veniva così espresso da Vincenzo Galilei: «L’uso della M. fu dagli uomini
introdotto per il rispetto e il fine che di comun parere dicono tutti i savi;
il quale non da altro principalmente nacque che dall’esprimere con efficacia
maggiore i concetti dell'animo loro nel celebrare le lodi degli Dei, dei geni
e, degli eroi, come dai canti fermi e piani ecclesiastici, ori- gine di questa
nostra a più voci si può in parte comprendere, e d’imprimergli,
secondariamente, con pari forza nelle menti dei mortali per utile e co- modo
loro» (Dialogo della M. antica e della moderna, 1581, ed. Fano, 1947, pag. 95-96).
In queste parole di Galilei appare anche chiara- mente riconosciuto il
carattere espressivo delle tecniche musicali: un carattere che fa della M.
un’arte nel senso moderno del termine (v. ESTE- TICA). Il concetto di tecnica
espressiva è espresso da Kant con la nozione di « bel gioco di sensa- zioni »
di cui egli si avvale per definire sia la M. sia la tecnica dei colori. Kant
osserva che «non si può sapere con certezza se un colore e un suono siano
semplici sensazioni piacevoli o se siano già in se stessi un bel gioco di
sensazioni e quindi contengano, in quanto gioco, un piacere che di- pende dalla
loro forma nel giudizio estetico ». Alcuni fatti, e specialmente la mancanza
della sen- sibilità artistica in alcuni uomini e l’eccellenza di tale
sensibilità in altri, convincono a considerare le sensazioni dei due sensi,
vista e udito, non come semplici impressioni sensibili, ma come « l’effetto di
un giudizio formale nel gioco di molte sensa- zioni +. In ogni caso, «a seconda
che si adotterà l'una o l’altra opinione nel giudicare del principio della M.
ne sarà diversa la definizione e o si defi- nirà, come noi abbiamo fatto, quale
un bel gioco di sensazioni (dell’udito) o come un gioco di sen- sazioni
piacevoli. Secondo la prima definizione, la M. è considerata come arte bella
senz'altro, con la seconda è invece considerata, almeno in parte, come arte
piacevole » (Crit. del giud., $ 51). Il concetto di « bel gioco di sensazioni »
tende già ad esprimere una nozione sintattica della M. e per di più una nozione
per la quale la ricerca sintattica può essere indirizzata liberamente in tutte
le dire- zioni (questo è implicito nella parola « gioco »). Verso la metà
dell’800 questa nozione veniva più rigorosamente e chiaramente formulata nello
scritto di EpuaRDO HANSLICK, // bello musicale (1854) che rimane a tutt'oggi
una delle più importanti opere di estetica musicale. Hanslick si schiera po-
lemicamente contro il concetto romantico della M. come «rappresentazione del
sentimento». L’og- getto proprio della M. è piuttosto il bello musi- cale:
intendendosi con ciò «un bello che, senza dipendere e senza abbisognare di
alcun contenuto esteriore, consiste unicamente nei suoni e nel loro artistico
collegamento. Le ingegnose combinazioni di bei suoni, il loro concordare e opporsi,
il loro sfuggirsi e raggiungersi, il loro crescere e morire, questo è ciò che
in libere forme si presenta alla intuizione del nostro spirito e che ci piace
come bello. L'elemento primordiale della musica è l’eu- fonia, la sua essenza
il ritmo» (Vom Musikalisch- Schònen, III; trad. ital., 1945, pag. 82). Così in-
tesa la M. s’identifica con la tecnica realizzatrice. Dice Hanslick a questo
proposito: « Se non si sa riconoscere tutta la bellezza che vive nell’elemento
puramente musicale, molta colpa è da attribuirsi al disprezzo del sensibile che
negli antichi esteti troviamo in favore della morale e del sentimento, in Hegel
in favore dell’idea. Ogni arte parte dal sensibile e in esso si muove. La
teoria del senti- mento disconosce questo fatto, trascura comple- tamente
l’udire e prende in considerazione imme- diatamente il sentire. Essi pensano
che la M. sia fatta per il cuore e che l’orecchio sia una cosa triviale »
(/bid., INI, pag. 85-86). Dall'altro lato Hanslick ha espresso pure con
chiarezza il carat- tere che differenzia il linguaggio musicale dal lin-
guaggio comune. « La differenza, egli dice, consiste in questo, che nel
linguaggio il suono è solo un segno cioè un mezzo per esprimere qualcosa di
comple- tamente estraneo a questo mezzo, mentre nella M. il suono ha importanza
in sè, cioè è scopo a se stesso. La bellezza autonoma delle bellezze so- nore
qui, e l’assoluto predominio del pensiero sul suono come su un puro e semplice
mezzo di espressione là, si contrappongono in maniera così definitiva che una
mescolanza dei due prin- cìpi è una impossibilità logica » (/bid., IV, pag.
113). Questo carattere tuttavia non è proprio soltanto del linguaggio musicale
ma di ogni linguaggio artistico, di fronte al comune linguaggio (vedi
ESTETICA). Per quanto la nozione di M. cui esplicitamente hanno fatto e fanno
ricorso musicisti, critici e stu- diosi di estetica musicale sia ancora e
sempre quella di «rappresentazione del sentimento », la nozione della M. come
tecnica di una sintassi dei suoni le cui regole possano essere indefinitamente
variate, è quella che ha prevalso nella pratica della crea- zione musicale e
nella ricerca di nuovi e più liberi modi di tale creazione. L'ultimo e più
radicale tentativo di liberazione della lingua musicale dalla sintassi tradizionale
è la cosiddetta M. atonale. Questa non è altro che l’affermazione programma-
tica della libertà del linguaggio musicale di scegliere la sua propria
disciplina: la quale, in qualche casoparticolare può essere anche quella
tonale. Dice a questo proposito Schénberg: « L'emancipazione della dissonanza,
cioè la sua equiparazione con i suoni consonanti (che nella mia Harmonielehre
spiego con il fatto che la differenza tra consonanza e disso- nanza non è una
differenza antitetica ma graduale, che cioè le consonanze sono i suoni più
vicini al suono fondamentale e le dissonanze quelli più lon- tani; e che di
conseguenza la loro comprensibilità è graduata, essendo i suoni più vicini più
facil- mente afferrabili di quelli lontani) avvenne incon- sapevolmente, col
presupposto che la sua compren- sibilità può essere garantita quando venga
favorita da determinate circostanze. Non bastando l’orecchio da solo a
riconoscere e a comprendere i rapporti e le funzioni, tali circostanze si
trovarono nel campo dell’espressione e in quello, fino allora poco considerato,
della sonorità » (« Gesinnung oder Er- kenntnis? +, 1926, in L. ROGNONI,
Espressionismo e dodecafonia, 1954, pag. 249). Da questo punto di vista la
tonalità si definisce in modo generalissimo come « tutto ciò che risulta da una
serie di note, coordinata sia mediante il diretto riferimento ad un’unica nota
fondamentale sia mediante collegamenti più complicati » (Harmo- nielehre, 1922,
3* ediz., III, pag. 488; in ROGNONI, Op. cit., pag. 243). Alban Berg osservava che
«la rinuncia alla tonalità ‘maggiore’, ‘ minore” non implica affatto l’anarchia
armonica » perchè « anche se per la perdita del ‘maggiore’ e del ‘ minore ’,
sono venute meno alcune possibilità armoniche, sono però rimasti tutti gli
altri elementi essenziali della M. vera ed autentica» («Was ist Atonal», 1930,
in RogNONI, Op. cit., pag. 290). Quale che sia il giudizio di gusto che si vuol
dare sulle opere musicali ispirate da questo programma, non c’è dubbio che il
programma stesso non è altro che la liberalizzazione della lingua musicale e
delle sue tecniche dalle pastoie della sintassi tradizionale e l'avviamento
alla ricerca di nuove forme sintattiche, che possono anche, occasionalmente,
coincidere con quelle tradizionali. La M. atonale è pertanto la realizzazione,
nel campo della M., di quella stessa esigenza di liberazione che nel campo
della pittura è l’astrattismo: come quest’ultimo intende prescin- dere dalle
forme stabilite o riconosciute della rap- presentazione o della percezione,
così la M. intende prescindere dalle forme stabilite e riconosciute del-
l'armonia musicale. L’una e l’altra vanno in cerca di nuove discipline, di
nuove forme sintattiche per le loro tecniche espressive. E l’una e l’altra pre-
suppongono (pur senza averne sempre un chiaro concetto) la nozione dell’arte
come «tecnica del- l’espressione +; intendendosi per espressione le forme
libere e finali della sintassi linguistica. Poichè fu quella nozione di M. che
presiedette, sul finire del Medioevo e nel Rinascimento, alla genesi della M.
moderna in quanto si presentò fin dall'inizio come ricerca di tecniche
espressive, si può scorgere in essa la condizione che garantisce anche oggi
alla M. la sua capacità di sviluppo. MUTAMENTO (ingl. Change; franc. Change-
ment; ted. Verdnderung). 1. Lo stesso che movi- mento, 1 (v.). 2. Lo stesso che
alterazione (v.). MUTAZIONISMO (ingl. Mutationism; fran- cese Mutationisme;
ted. Mutationismus). 1. Lo stesso che evoluzionismo (v.). 2. La dottrina che
spiega la trasformazione delle specie viventi l'una nell’altra con l'insorgenza
di pic- cole mutazioni brusche ed ereditarie che si produr- rebbero a caso nel
corso di una o più generazioni. Questa dottrina fu presentata da De VRIES nel-
l’opera La teoria delle mutazioni (1901). N. Nella logica di Lukasiewicz la
lettera N è usata per indicare la negazione, che viene comune- mente
simboleggiata con —, sicchè Np significa > p (cfr., A. CHURCH, Introduction
to Mathematical NARCISISMO (ingl. Narcissism; franc. Nar- cissisme; ted.
Narzissismus). 1. Secondo Plotino, il mito di Narciso significa la situazione
dell’uomo che, non sapendo di portare la bellezza dentro di sè, la cerca nelle
cose esterne e tenta di abbrac- ciarla inutilmente in esse (Enn., I, 6, 8; V,
8, 2). Questa interpretazione acquista rilievo sullo sfondo della
preoccupazione fondamentale di Plotino che è quella della ricerca interiore, o
dell’interiorità di coscienza (v.). Talvolta, da autori moderni, il significato
del mito è stato invertito: il narci- sismo rappresenterebbe non già l’inanità
del ten- tativo di cercare nell’esterno ciò che è interno, ma l’autentico
destino dell’uomo che è quello di proiettare fuori di sè e di amare come tale
ciò che è dentro di lui (cfr. LAVELLE, L’erreur de Narcisse, 1939). 2. Una
forma o un modo della sessualità, se- condo la psicanalisi, e precisamente
quella per la quale la libido (v.) reinveste l'Io disinvestendo l’og- getto,
sicchè l'Io «si comporta verso gli investi- menti oggettuali come il corpo di
un animaletto protoplasmatico verso gli pseudopodi da esso emessi » (FREUD,
Introduzione del narcisismo, 1914). NATIVISMO. V. InnatisMo. NATURA (gr. quo;
lat. Natura; ingl. Nature; franc. Nature; ted. Natur). Un insieme di con-
cetti, diversamente imparentati tra loro, sono stati utilizzati per definire questo
termine. I prin- cipali sono i seguenti: 1° il principio del mo- vimento o la
sostanza; 2° l’ordine necessario o la connessione causale; 3° l’esteriorità, in
quanto contrapposta alla interiorità della coscienza; 4° il campo d'incontro o
di unificazione di certe tecniche d’indagine. 1° L'interpretazione della N.
come principio di vita e di movimento di tutte le cose esistenti è la più
antica e venerabile e ha informato di sè l’uso corrente del termine. « Lasciar
fare alla N. +, « Abbandonarsi alla N.?, « Seguire la N.», e via dicendo, sono
espressioni suggerite dal concetto che la N. è un principio di vita che si
prende buona cura degli esseri in cui si manifesta. In questo senso,
esplicitamente, la N. fu definita da Aristotele. «La N., egli disse, è il principio
e la causa del movimento e della quiete della cosa alla quale inerisce
primieramente e di per sè, non accidental- mente » (Phys., II, 1, 192b 20).
L'esclusione del- l’accidentalità serve, come Aristotele stesso spiega, a
distinguere l’opera della N. da quella dell’uomo. La N. può anche essere la
materia se si ammette, come facevano i Presocratici, che la materia ha in se
stessa un principio di movimento e di mutamento; ma è veramente questo
principio, quindi la forma o la sostanza della cosa, in virtù della quale la
cosa stessa si sviluppa e diviene -quella che è (Phys., II, 1, 193a 28 sgg.).
Questo è il motivo per cui la N. assume il significato di forma o sostanza o
essenza necessaria: una cosa possiede la sua N. quando ha raggiunto la sua
forma, quando è per- fetta nella sua sostanza. In conclusione, la migliore
definizione della N. è, secondo Aristotele, la se- guente: « La sostanza delle
cose che hanno il prin- cipio del movimento in se stesse »: a questa defini-
zione possono ricondursi tutti i significati del termine (Met., V, 4, 1015a
13). In questo senso la N. è non solo causa, ma causa finale (Fis., II, 8, 199b
606 32). La tesi del finalismo della N. si trova di regola congiunta con questo
concetto di essa. Tale concetto, che è poi la sintesi dei due concetti
fondamentali della metafisica aristotelica, quelli di sostanza e di causa, ha
dominato per lungo tempo nella speculazione occidentale e non è mai stato
completamente obliterato da concetti diversi e concorrenti. Per la sua
causalità, la N. è lo stesso potere creatore di Dio: è N. naturante. Ma poichè
tale causalità è inerente alle cose che produce, la N. è la totalità stessa di
queste cose, è N. narurata. Questa distinzione che si trova in Scoto Eriugena
senza però i termini relativi (De divis. nar., III, 1), veniva introdotta nella
scolastica latina da Averroè (De Cael., I, 1) e largamente accettata (cfr. S.
ToM- MASO, S. Th., II, 1, q. 85, a. 6). Spinoza non faceva che riesporla quasi
negli stessi termini (Er., I, 29 Schol.). A questa distinzione, precisamente al
concetto di N. naturata, si connette l’altro significato subordinato, quello
della N. come l’universo o il complesso delle cose naturali: concetto che
coesiste (perchè ne è il risultato) con quello della N. come principio di movimento;
e coesiste anche, come si vedrà, con quello della N. come ordine perchè designa
in questo secondo caso, la N. « materiale » (materialiter spectata).
L’esaltazione speculativa che della N. fece il naturalismo del Rinascimento fa
appello al concetto della N. naturante o universale. Nicolò Cusano diceva: « È
lo Spirito diffuso e contratto per tutto l’universo e per tutte le sue singole
parti, che si chiama N. La N. è perciò, in qualche modo, la com- plicazione di
tutte le cose che si generano attraverso Il movimento » (De docta ignor., II,
10). E Giordano Bruno affermava: «La N. o è Dio stesso o è la virtù divina che
si manifesta nelle cose» (Summa Terminorum, in Op. latine, IV, 101). Nello
stesso senso Spinoza identificava la N. con Dio (Et., I, 29, Schol.). E questo
concetto della N. permaneva nel *700 e veniva riaffermato da Wolff (Cosm., $
503-506) e da Baumgarten (Mer., $ 430). Quando nello stesso secolo, si cominciò
a contrapporre la N. all’uomo e si bandì il «ritorno alla N.», la N. cui si
fece appello è ancora quella del vecchio concetto aristotelico: un principio
direttivo insito nell'uomo sotto forma di istinto. Tale fu il concetto che della N.
ebbe Rousseau (De /’inégalité parmi les hommes, I). Questo concetto è ormai passato nel patrimonio delle
credenze comuni del nostro mondo; e perciò spesso fa capolino, senza farsi
notare, nelle più elaborate concezioni filosofiche. Come si è visto, esso
comprende tre concetti coordinati o equipollenti: a) la N. come causa
(efficiente e finale); 2) la N. come sostanza o essenza necessaria; c) la N.
come totalità delle cose. NATURA 2° La seconda concezione fondamentale della N.
è quella che la intende come ordine e necessità. L’origine di questa concezione
è negli Stoici. Essi dicevano che «la N. è la disposizione a muoversi da sè
secondo le ragioni seminali, disposizione che porta a compimento e tiene
insieme tutte le cose che da essa nascono a determinati tempi e coincide con le
cose stesse dalle quali si distingue » (Dioa. L., VII, 1, 148). In questa
definizione viene accentuata la regolarità e l'ordine del divenire al quale la
N. presiede. A questo concetto di N. si connette la nozione di legge naturale,
che ha avuto per tutta l’antichità e sino al sec. xrx un’im-portanza
grandissima nella morale e nel diritto (v.). Difatti la legge di N. è la regola
di comportamento che l’ordine del mondo esige sia rispettata dagli esseri
viventi, regola la cui realizzazione, secondo gli Stoici, era affidata o
all’istinto (negli animali) o alla ragione (nell'uomo) (Diog. L., VII, 1, 85).
L’aristotelismo del Rinascimento riprende il con- cetto della N. come ordine.
Nel De Fato Pietro Pomponazzi difendeva esplicitamente, nel xvI secolo, il fato
stoico, cioè la necessità assoluta dell’ordine cosmico stabilito da Dio. E il
pensiero che è alla base delle prime manifestazioni della scienza mo- derna
cioè dell’opera di Leonardo, Copernico, Keplero e Galileo è quello di un ordine
necessario, di carattere matematico, che la scienza deve rintrac- ciare e
descrivere. «La necessità, diceva Leonardo, è tema e inventrice della N., e
freno e regola eterna» (Works, ed. Richter, n. 1135). Galileo a sua volta
riteneva che la N. è l’ordine dell’universo, un ordine che è unico e non è mai
stato nè sarà diverso (Op., VII, pag. 700). L°’insistenza sulla natura come
ordine e necessità si accompagna alla negazione del finalismo della natura
stessa che è invece la carat- teristica della prima concezione (v. FINALISMO).
Questo concetto della N. è rimasto a fondamento della scienza moderna in tutto
il suo periodo classico. « La N. è assai consonante e conforme a se stessa »
diceva Newton (Opricks, 1704, III, 1, q.31): ma fu Boyle che su questo punto
ebbe le idee più chiare affermando esplicitamente: « La N. non dev'essere
considerata come un agente distinto e separato, ma come una regola o piuttosto
come un sistema di regole, secondo le quali gli agenti naturali e i corpi su
cui essi operano sono determinati dal Grande Autore delle cose ad agire e a
patire». Fu questa la concezione della N. accettata da Kant. «Con l’espressione
‘ N.’ (in senso empirico) inten- diamo la connessione dei fenomeni, per la loro
esistenza secondo regole necessarie o leggi. Vi sono dunque certe leggi, e
leggi a priori, che rendono prima di tutto possibile una N.; le leggi empiriche
possono esserci ed essere scoperte solo mediante l’esperienza, perciò in
seguito a quelle leggi origi- NATURA narie per cui comincia ad essere possibile
l’espe- rienza stessa» (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. II, sez. 3, Terza
analogia). Altrove, Kant distingue la N. materialiter spectata dalla N.
formaliter spectata: la prima sarebbe «l’insieme di tutti i fenomeni »; la
seconda sarebbe « la regola- rità dei fenomeni nello spazio e nel tempo +»
(/bid., $ 26). Ma la prima non è altro che il materiale cui si applica la
seconda e il concetto della N. rimane pertanto quello di una regolarità dovuta
a leggi {Prol., $ 14). Questa dottrina è stata ripetuta nume- rose volte nella
filosofia moderna e contemporanea. Fra gli ultimi che la ripetono si può ricordare
Whitehead, che intende per N. «un complesso di enti in relazione » dove
l’enfasi è posta sulla relazione, e che attribuisce alla filosofia naturale il
compito di «studiare come si connettano i vari elementi della N. » (The Concept
of Nature, 1920, cap. I-II; trad. ital., pag. 13, 28). 3° La terza concezione
della N. è quella che l’intende come la manifestazione dello spirito o come uno
spirito diminuito o imperfetto, reso « esterno » o « accidentale » o «
meccanico » cioè de- gradato dai suoi veri caratteri. Questa concezione si
trova espressa chiaramente in Plotino. « La sag- gezza, egli dice, è il primo
termine, la N. è l’ultimo. La N. è l’immagine della saggezza ed è l’ultima
parte dell’anima: come tale non ha in sè che gli ultimi riflessi della ragione...
L'intelligenza ha in sè ogni cosa, l’anima dell’universo riceve le cose
eternamente e essa è la vita e l’eterna manifesta- zione dell’intelletto; ma la
N. è il riflesso del- l’anima nella materia. In essa, o anche prima di essa, la
realtà finisce giacchè essa è il termine del mondo intellegibile: oltre di
essa, non ci sono che imitazioni » (Enn., IV, 4, 13). Che la N. sia la
manifestazione, nel senso di « esteriorizzazione ?, con ciò che di diminuito o
degradato ha l’esterio- rità di fronte all’interiorità della coscienza, è il
concetto della N. che è stato condiviso (e con- tinua ad esserlo) da tutte le
metafisiche spirituali- stiche. Esso viene ripreso dalla teosofia rinasci-
mentale, e si trova, per es., espresso da Jakob Bohme (De signatura rerum, TX).
Ma fu il roman- ticismo che soprattutto lo amplificò e diffuse. Diceva Novalis:
« Che cosa è la N. se non l’indice enciclopedico sistematico o il piano del
nostro spirito? » (Fragmente, n. 1384). E Hegel esprimeva nel modo più rigoroso
e completo questo stesso concetto. « La N., egli diceva, è l’idea nella forma
dell’essere altro » cioè della «esteriorità» (Erc., $ 247). Come tale essa non
mostra, nella sua esi- stenza, libertà alcuna ma solo necessità e acciden-
talità. Pertanto « nella N., non solo il gioco delle forme è in preda a una
accidentalità sregolata e sfrenata; ma ogni forma manca per sè del con- 607
cetto di se stessa». Hegel riconosce che la N. è soggetta a «leggi eterne » ma
questo non la salva: la N. è peggiore del male. « Quando l’accidentalità
spirituale, l’arbitrio, giunge fino al male, perfino il male è qualcosa di
infinitamente più alto che non i moti regolari degli astri e l’innocenza delle
piante; perchè colui che così erra è pur sempre spirito » (Ibid., $ 248). È ben
vero che non tutta la filosofia romantica condivise la condanna hege- liana
della natura. Schelling fu portato piuttosto a esaltare la N. stessa, a
considerarla come parte o elemento della vita divina. In uno scritto del 1806,
egli rimproverava a Fichte di considerare la N. o col sentimento del più rozzo
e pazzo asceta, cioè come un puro nulla, o da un punto di vista pu- ramente
meccanico e utilitario, cioè come uno strumento di cui l’Io assoluto si serva
per realiz- zare se stesso (Werke, I, VII, pag. 94, 103). E in realtà nel
considerare la N. come manifestazione dell’Assoluto, Schelling non insisteva
tanto sulla inferiorità della manifestazione rispetto al Prin- cipio
manifestantesi, quanto piuttosto sulla stretta relazione tra i due. Questa è
l’altra alternativa offerta dalla concezione della N. di cui qui trat- tiamo.
Si può infatti da un lato insistere sugli aspetti per cui la N. si distingue
dallo spirito e in qualche modo si contrappone ad esso, cioè sul-
l’esteriorità, l’accidentalità, il meccanismo. Ma si può anche, dall’altro
lato, insistere sull’aspetto per cui la N., come manifestazione dello spirito,
pre- senta i suoi stessi caratteri sostanziali. Così ha fatto Schelling. Ma più
frequentemente prevale la prima alternativa. Lo spiritualismo francese del secolo
scorso ha condiviso quasi unanimemente la tesi che Ravaisson esprimeva alla
fine del Rapport sur la philosophie en France au XIX° siècle (1868), e cioè che
la N. sia il degradarsi in meccanismo e necessità di un Principio spirituale
che è spon- taneità e libertà. Questa concezione è stata fatta prevalere anche
nello spiritualismo del nostro se- colo da Bergson. La N., come esteriorità o
spa- zialità, è una degradazione dello spirito. Così Bergson espone il progetto
di una teoria della co- noscenza della N.: « Bisognerebbe, con uno sforzo sui
generis dello spirito, seguire la progressione o piuttosto la regressione
dell’extra-spaziale degra- dantesi in
spazialità. Situandoci dapprima nel punto più alto della nostra propria
coscienza per lasciarci poi cadere a poco a poco, noi abbiamo il senti- mento
che il nostro io si estenda in ricordi inerti esteriorizzati gli uni rispetto
agli altri, in luogo di tendersi in un volere indivisibile ed agente. Ma questo
è solo l’inizio, ecc. + (Évol. Créatr., 11 ediz., 1911, pag. 226). Lo stesso
senso di degradazione ha la N. nella filosofia di Gentile per il quale essa è
il « passato dello spirito» ed è perciò un limite 608 astratto che lo spirito
ricomprende in sè e « signo- reggia » (Teoria generale dello spirito, XVI, 18).
4° La quarta concezione della N. è quella che si può intravvedere come
presupposta o implicita nelle operazioni effettive della ricerca scientifica e
in alcune analisi della metodologia scientifica con- temporanea. Per essa la N.
è definita in termini di campo (v.) e più precisamente è il campo cui fanno
riferimento e in cui si incontrano (o talora si scontrano) le tecniche
percettive e di osservazione di cui l’uomo dispone; delle quali le prime non
sono meno complesse delle seconde, nonostante che appaiano « naturali» cioè
tali da poter essere messe in opera senza il concorso di progetti deli- berati.
Alle tecniche percettive fa costante riferi- mento l’arte che dà sempre
qualcosa da « vedere » o da «sentire» anche quando pretende di essere «
astratta » e di prescindere perciò dalle forme che sono comunemente offerte
dalla percezione comune. Alle tecniche osservative fa riferimento la scienza
naturale che, pur iniziando il suo lavoro dalla per- cezione, se ne allontana
rapidamente sia nei suoi strumenti di osservazione sia negli oggetti che riesce
a individuare (per es., « massa», «energia», «elet- troni +, « fotoni », ecc.)
alcuni dei quali si compor- tano molto diversamente dalle «cose» che sono
l'oggetto della percezione comune. Il campo og- gettivo cui fanno riferimento
sia i vari modi del percepire comune sia i vari modi dell’osservazione
scientifica, così come è intesa e praticata nelle varie branche della scienza
naturale, si può inten- dere oggi come « N. ». In questo senso la N. non si
identifica con un principio o con un'apparenza metafisica nè con un determinato
sistema di con- nessioni necessarie; ma può essere determinata, a ogni fase
dello sviluppo culturale dell'umanità, come la sfera degli oggetti possibili di
riferimento delle tecniche di osservazione di cui l’umanità è in pos- sesso. Si
tratta, come è ovvio, di una concezione non dogmatica ma funzionale, che non è
stata finora fatta oggetto di indagini metodologiche suf- ficienti alla sua
chiarificazione, ma che sembra tut- tavia richiesta dalla fase attuale della
metodologia scientifica. NATURA, FILOSOFIA DELLA (inglese Philosophy of Nature;
franc. Philosophie de la nature; ted. Naturphilosophie). Questa espressione, in quanto diversa da quella
tradizionale « filosofia naturale » che designa la fisica o la scienza naturale
in generale, è stata per la prima volta adoperata da Kant per designare una
disciplina nettamente distinta dalla scienza stessa. Per filosofia della N. o
metafisica della N., Kant intese infatti la disci- plina che « abbraccia tutti
i princìpi razionali puri derivanti da semplici concetti (quindi con esclusione
della matematica) della conoscenza teoretica di NATURA, FILOSOFIA DELLA tutte
le cose» (Crit. R. Pura, Dottr. trasc. del metodo, cap. III. Così intesa la
filosofia della N. è una delle due parti fondamentali della filosofia, di cui
l’altra è la filosofia morale; e comprende solo i princìpi a priori su cui è
fondata la co- noscenza della N., cioè i fondamenti della fisica e delle altre
scienze teoretiche della N., ma non già le leggi, che è compito della fisica
rintrac- ciare nella N. stessa (/bid.; cfr. Crit. del Giud., Intr., I. Dopo di
Kant l’espressione filosofia della natura è rimasta a designare una disciplina
che ha per oggetto la N. ma non è la scienza. Così la filosofia della N. fu
intesa da Schelling che a questa disci- plina dedicò la maggior parte della sua
attività. Schelling riteneva che la scienza fondata sull’in- dagine
sperimentale non è mai veramente scienza. La natura infatti è a priori nel
senso che le sue singole manifestazioni sono determinate in anticipo dalla sua
totalità, cioè dall'idea di una N. in generale (Werke, I, III, pag. 279).
Sostanzialmente, il compito della filosofia della N. è quello di mostrare come
la N. si risolva nello spirito (System des transzendenta- len Idealismus, $ 1).
Tale compito è rimasto proprio di essa in tutte le manifestazioni che ebbe nel
corso del sec. xx: manifestazioni che, in buona parte, si ispirarono a Hegel.
Hegel considerò la filosofia della N. come una delle tre grandi partizioni
della filosofia che risulterebbe costituita, oltre che da essa, dalla logica e
dalla filosofia dello spirito. La logica sarebbe il sistema delle pure
determinazioni del pensiero. La filosofia della N. e la filosofia dello spirito
sarebbero entrambe una logica appli- cata; e in particolare la filosofia della
N. avrebbe il compito « di portare le vere forme del concetto, immanenti nelle
cose naturali, alla coscienza » (System der Phil., ed. Glockner, I, pag.
87-88). La filosofia della N. così intesa non è che la mani- polazione
arbitraria di concetti scientifici, avulsi dai loro contesti, al fine di
ridurli a determinazioni razionali o pseudorazionali. E tale essa è rimasta
anche quando si è voluta sottrarre all'impostazione idealistica ed è stata
trattata da un punto di vista realistico, come ha fatto Nicolai Hartmann. La
Filosofia della natura (1950) di quest’ultimo, conserva infatti la pretesa di
scorgere o riconoscere il valore « metafisico» o «ontologico» dei risultati
della scienza. Compito della filosofia della N. dovrebbe essere l’analisi
categoriale dei concetti scientifici. « Ciò che propriamente sono l'estensione,
la durata, la forza, la massa, non può dirlo il pensiero mate- matico, afferma
Hartmann. A questo punto s'inse- risce l’analisi categoriale: i portatori o
substrati della quantità sono ciò con cui si connettono i problemi metafisici
di fondo della filosofia della N. » (Philosophie der Natur, pag. 22). NATURA,
STATO DI Si può dire che l'ultimo e più ristretto concetto di filosofia della
N. sia quello presentato dai componenti del Circolo di Vienna, agli albori
dell’empirismo logico. M. Schlick considerava la filosofia della N. come
l’analisi del significato delle proposizioni proprie delle scienze naturali. Da
questo punto di vista, egli diceva, «la filosofia della natura non è scienza
essa stessa, ma un'atti- vità diretta alla considerazione del significato delle
leggi di N.» (Philosophy of Nature; trad. ingl., 1949, pag. 3). In questo
concetto c'è ancora qualche traccia della filosofia come « visione del mondo »
o sintesi dei risultati più generali delle scienze parti- colari. La
metodologia contemporanea ha invece sempre più sottolineato l'illegittimità di
astrarre le proposizioni della scienza dei loro contesti e di trovare in esse
significati che vadano al di là di quanto i contesti stessi autorizzano. Da
questa limitazione metodologica, il compito di una filosofia della N. viene
tagliato alla base. E tutto ciò che (oltre la pretesa di elaborare una
metafisica della N. o una metafisica fondata sulle scienze naturali) essa
legit- timamente comprendeva, cioè i problemi concer- nenti il linguaggio
scientifico in generale e i lin- guaggi delle singole scienze, i rapporti tra
le scienze, Io studio comparativo dei loro me- todi, ecc., trova posto oggi nel
seno della meto- dologia delle scienze. NATURALE (gr. quowxéc; lat. Naturalis;
in- glese Natural; franc. Naturel; ted. Natbrlich). Gli usi di questo aggettivo
corrispondono agli usi fon- damentali del termine narura. 1. Corrispondentemente
al primo significato, N. è ciò che è prodotto dal principio del movimento
oppure ciò che si produce da sé o spontanea- mente. In questo senso si è
parlato di « diritto N.» che è il diritto che consiste nel conformarsi all’or-
dine spontaneo della natura: o di «religione N.» che è la religione rivelata
all’uomo dalla natura o attraverso la natura cioè attraverso la ragione o il
cuore dell’uomo. 2. Corrispondentemente al secondo significato di natura, si
dice N. ciò che rientra nell'ordine ne- cessario della natura, in quanto si
distingue dal- l’ordine soprannaturale, voluto o stabilito diretta- mente da
Dio. Nell’ambito di entrambi questi significati N. si contrappone anche ad
artificiale, in quanto è ciò che è prodotto dalla causalità della natura, fuori
dell’arbitrio umano. 3. Corrispondentemente al terzo significato di natura si
parla, ad es., di «cose N.» per dire « cose esterne» e di «causalità N.» per
dire « causalità esterna ». 4. Le scienze N. si dicono oggi tali soprattutto in
corrispondenza al significato 4 di natura. 39 609 NATURALISMO (ingl.
Naturalism; franc. Na- turalisme; ted. Naturalismus). Il termine ha tre
significati diversi. Indica cioè: 1° La dottrina che ritiene che i poteri
naturali della ragione sono più efficaci di quelli che la filosofia produce o
promuove nell’uomo. In questo senso Kant diceva: «Il naturalista della ragion
pura assume per principio che per mezzo della ragione comune senza scienza (che
egli chiama ‘sana ragione ’) si può, rispetto alle questioni più alte che costituiscono
il compito della metafisica, conchiudere di più che per mezzo della specula-
zione. Afferma quindi che si può determinare con maggior sicurezza la grandezza
e la distanza della luna ad occhio anzichè per mezzo della matematica » (Crit.
R. Pura, Dottrina del metodo, cap. IV). 2° La dottrina che nulla esiste fuori
della na- tura, e che Dio stesso è solo il principio di mo- vimento delle cose
naturali. In questo senso, che è il più diffuso nella terminologia
contemporanea, si parla del « N. del Rinascimento o del « N. antico » o del «N.
materialistico +, ecc. 3° La negazione di ogni distinzione tra natura e
soprannatura e la tesi che l’uomo può e deve essere compreso, in tutte le sue
manifestazioni, anche in quelle ritenute più alte (diritto, morale, religione,
ecc.) solo nel rapporto con le cose e gli esseri del mondo naturale e sulla
base degli stessi concetti utilizzati dalle scienze per la spie- gazione di
essi. In questo senso il naturalismo è inteso da molti filosofi americani
(Santayana, Woodbridge, Cohen) e dallo stesso Dewey (Expe- rience and Nature,
cap. Ill, e passim). NATURA, SCIENZE DELLA. V. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE.
NATURA, STATO DI (ingl. State of Nature; franc. État de nature; ted.
Naturzustand). La condi- zione dell’uomo, anteriormente alla costituzione della
società civile, secondo la dottrina del contrat- tualismo (v.). Già in Platone,
nel III Libro delle Leggi, c'è la nozione della condizione in cui gli uomini
vennero a trovarsi dopo che immani cata- strofi ebbero distrutte le città: «
Questa, dice Platone, è la condizione degli uomini dopo che è avvenuta la
catastrofe: una sconfinata paurosa solitudine, la terra immensa e abbandonata,
periti quasi tutti gli animali e i bovini e solo qualche gruppo di capre è
rimasto ai pastori, come misero resto, per ricominciare la vita» (Leggi, III,
677e). Questa non è la descrizione di una condizione idilliaca: come non fu
idilliaca la condizione che Hobbes ritenne propria dello stato di N.: quella
della guerra di tutti contro tutti: « Intanto che gli uomini vivono senza un
potere comune cui siano soggetti, diceva Hobbes, si trovano nella condizione
che chiamiamo 610 di guerra e tale guerra è di ogni uomo contro l’altro uomo »
(Leviath., I, 13). Ciò accade perchè gli uomini, essendo per N. uguali, hanno
anche gli stessi desideri; e desiderando le stesse cose cercano di soverchiarsi
a vicenda (/bid.). La fondazione dello stato, cioè di un potere sovrano, è il
solo mezzo per uscire dalla condizione di guerra propria dello stato di natura.
Dall'altro lato, già Seneca, nell’antichità, esal- tava lo stato di N. come una
condizione per- fetta del genere umano. Nella novantesima Lettera a Lucilio,
Seneca descrive l’età dell’oro in cui gli uomini erano innocenti e felici e
vivevano semplice- mente, senza cercar il superfluo. Inoltre non avevano
bisogno di governo e di leggi perchè obbedivano volentieri ai più saggi. Ma ad
un certo punto, il progresso stesso delle arti portò l’avidità e la corru-
zione contro le quali si rese necessaria l’istituzione dello stato. —
L’esaltazione dello stato di N. divenne un tema ricorrente nella filosofia del
‘700 e trovò la sua massima espressione nell’opera di Rousseau. Locke aveva già
considerato, in polemica con Hobbes, lo stato di N. come uno stato di
perfezione. Esso, aveva detto, è «uno stato di perfetta libertà di regolare le
proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si
crede meglio, entro i limiti della legge di N., senza chiedere permesso o
dipendere dalla volontà di nessun’altro » (Second Treatise On Governement, II,
4). Ma è stato sopratutto Rousseau ad esaltare la perfezione dello stato di N.
sul fondamento che in quella condizione l'uomo obbedisce soltanto all’istinto,
che è infal- libile (De l’inégalité parmi les hommes, I). «Tutto è perfetto
quello che esce dalle mani del Creatore, tutto traligna nelle mani dell'uomo »:
così Rousseau cominciava il suo Emilio. In Rousseau stesso, d'altronde, questa
esaltazione dello stato di N. contrasta col valore riconosciuto allo stato civile
fondato sul contratto sociale; ed in realtà la nozione dello stato di N.
costituisce per Rousseau il criterio o la norma con cui giudicare la società
presente e delineare un ideale di progresso. Dopo Rousseau, già Kant intendeva
per stato di N.« quello in cui non c’è alcuna giustizia distributiva » (Mer.
der Sitten, I, $ 41). Ed Hegel mostrava l’equivoco per cui era stato inventato
lo stato di N. come una condi- zione di fatto nella quale valesse il diritto
naturale, equivoco dovuto al fatto che si interpretava l’espres- sione «diritto
naturale» nel senso di diritto esistente in N. piuttosto che diritto
determinato dalla N. della cosa (Enc., $ 502). Da Hegel in poi, la nozione di
stato di N. ha cessato di interessare i filosofi. È rimasta tuttavia una nozione
cui volen- tieri fa appello l’uomo comune o che viene utiliz- zata dalle
dottrine politiche utopistiche: le quali spesso proiettano lo stato di N. come
una perfezione NATURISMO dell’avvenire, e così fanno pure, talora, le immagina-
zioni romanzesche della fantascienza. NATURISMO (ingl. Naturism; franc. Natu-
risme; ted. Naturismus). 1. La dottrina, o la cre- denza, che la natura sia la
guida infallibile per la salute fisica e mentale dell’uomo e che pertanto a
tale guida l’uomo debba « ritornare », nei suoi com- portamenti e costumi,
allontanandosi dalle crea- zioni artificiali della società. Questa dottrina è
alla base di molte pratiche e credenze popolari del mondo contemporaneo, dopo
essere stata (nel *700) dottrina filosofica (v. NATURA, STATO DI). 2. Meno
propriamente: culto religioso della na- tura. NAUSEA (ingl. Nausea; franc.
Nausée; te- desco Ekel). L'esperienza emotiva della gratuità dell’esistenza
cioè della perfetta equivalenza delle possibilità esistenziali. La nozione è
stata intro- dotta nella filosofia da Sartre e da lui illustrata soprattutto
nel romanzo intitolato La nausea. NAZIONALISMO (ingl. Nazionalism; fran- cese
Nationalisme; ted. Nationalismus). Il concetto di nazione cominciò a formarsi a
partire da quello di popolo, che aveva dominato nella filosofia po- litica del
sec. xvi, quando si accentuò, in questo concetto, l’importanza dei fattori
naturali e tradi- zionali a scapito di quelli volontari. Il popolo (v.) è
costituito essenzialmente dalla volontà comune, che è la base del patto
originario; la nazione è costituita essenzialmente da legami indipendenti dalla
volontà dei singoli: la razza, la religione, la lingua e tutti gli altri
elementi che possono essere compresi sotto il nome di «tradizione». A diffe-
renza del « popolo», che non c’è se non per la deliberata volontà dei suoi
membri e come effetto di questa volontà, la nazione non ha niente a che fare
con la volontà degli individui: è un destino che incombe sugli individui, e al
quale questi non possono sottrarsi senza tradimento. In questi ter- mini la
nazione cominciò ad essere concepita chia- ramente soltanto ai primi dell’800;
e la nascita del concetto coincide con la nascita di quella fede nei geni
nazionali e nei destini di una singola nazione che si chiama nazionalismo. Il
concetto di popolo rimaneva legato agli ideali cosmopolitici del ’700. Ma già
in Rousseau si trova la condanna di questi ideali: l’attaccamento di Rousseau
al concetto dello stato-città, quale si era realizzato nella Grecia antica, lo
portava a con- dannare l’universalismo settecentesco. Nello stesso tempo,
questo attaccamento, anacronistico come era, lo conduceva a esaltare il valore
dello stato nazionale. « Sono le istituzioni nazionali, egli diceva, che
formano il genio, il carattere, i gusti e i co- stumi di un popolo, che lo
fanno esser lui e non altro, che gli ispirano quell’ardente amor di patria
NECESSARIO 611 fondato su abitudini impossibili a sradicarsi, che lo fanno
morire di noia presso altri popoli, in mezzo a delizie di cui è privato nel suo
paese» (Considér. sur le gouvernement de Pologne, III). Ma fu soprattutto
nell’epoca della restaurazione post- napoleonica che il concetto della nazione
cominciò ad assumere importanza dominante come uno dei prodotti o il prodotto
fondamentale di quella « tra- dizione » alla quale, in quel periodo si
attribuiva l’origine e la conservazione di tutti i valori fon- damentali
dell’uomo. I Discorsi alla nazione tedesca (1808) di Fichte, che sono il primo
documento del nazionalismo tedesco, vedono nel popolo te- desco «il popolo che
solo ha diritto di chiamarsi il popolo senz’altra designazione, a differenza
dei rami che da lui si staccarono, come indica d’al- tronde di per sè la parola
tedesco » (Reden, VII); e vedevano assicurata dalla stessa provvidenza della
storia l’avvenire di questo popolo superiore. Con la nozione di «spirito di un
popolo» Hegel por- tava a compiuta elaborazione il concetto di na- zione. « Lo
spirito di un popolo, diceva Hegel, è un tutto concreto: dev'essere
riconosciuto nella sua determinatezza... Esso si sviluppa in tutte le azioni e
in tutti gli indirizzi di un popolo e si realizza sino a giungere a godere di
sè e a comprendere se stesso. Le sue manifestazioni sono religione, scienza,
arte, destini, eventi. Tutto questo, e non il modo in cui un popolo è
determinato per na- tura (come potrebbe suggerire la derivazione di natio da
nasci) fornisce al popolo il suo carattere » (Phil. der Geschichte, ed. Lasson,
pag. 42; traduzione ital., I, pag. 49). Nello spirito di un popolo si incarna,
di volta in volta, lo Spirito del mondo, la Ragione universale che presiede ai
destini del mondo e determina la vittoria del popolo che è la migliore
incarnazione di se stessa. In questo concetto dello spirito del popolo come
incarnazione o manifestazione di Dio nel mondo e quindi del carattere fatale e
provvidenziale della vita storica della nazione, sono già compresi tutti gli
elementi del N. europeo del sec. xix e di qualsiasi nazio- nalismo. In Italia,
Mazzini cercò di conciliare gli ideali universalistici dell’illuminismo col N.;
e vide nella « missione » propria di una nazione il modo in cui essa può
servire il fine generale dell'umanità. Era questa una sintesi piuttosto
incoerente, ma che evitava quella esaltazione della forza che così spesso
doveva poi trovarsi nel N. europeo. Gian Domenico Romagnosi fu il primo a
fornire una teoria giuridica dello stato nazionale in questo senso (Della
costituzione di una monarchia nazio- nale rappresentativa, 1815): teoria che P.
S. Man- cini, assumeva più tardi a fondamento del diritto internazionale (Della
nazione come fondamento del diritto delle genti, 1851). In Francia l’affer-
mazione del N. si lega soprattutto all'opera dello storico Michelet che dava
col libro Le Peuple (1843) uno dei principali documenti del N. profe- tizzante.
In Germania, un altro storico, Treitschke, intraprendeva l’illustrazione e la
difesa del N. te- desco che rimase collegato, alla sua origine, con la politica
di forza di Bismarck e poi di Gu- glielmo II. In Russia infine Dostojewski si fece profeta del N.
russo (cfr. Hans KoHN, Prophets and Peoples, 1946; trad. ital., 1949; The Idea
of Natio- nalism, New York, 1944). Sia
la prima sia la seconda guerra mondiale sono state combattute sotto l’in- segna
del nazionalismo. La seconda è stata com- battuta sotto l’insegna di un N. che
aveva perso tutti i contatti con l’universalismo settecentesco e riconosceva
nella forza l’unico segno decisivo ac- cordato dalla Provvidenza storica alla
nazione da lei favorita. Quest’idea, che il fascismo italiano e il
nazional-socialismo germanico avevano fatta propria, non era un'idea nuova: era
la vecchia idea hegeliana e romantica del privilegio che lo Spirito del mondo
accorda alla nazione in cui di preferenza si incarna, giacchè l’unico segno di
questo privilegio è appunto la forza vittoriosa che tale nazione può esercitare
sulle altre. Questo N. profetico non abita più oggi i popoli europei che, dalla
lezione delle due guerre sono stati ricondotti agli ideali universalistici
dell’illuminismo: tende tuttavia ad affermarsi in altre regioni del globo
terrestre, alle quali si può solo augurare di far tesoro dell’esperienza
culturale e storica della vecchia Europa. NECESSARIO (gr. avayuatoc; lat.
Necessarius; ingl. Necessary; franc. Nécessaire; ted. Notwendig). Ciò che non
può non essere; o che non può essere. Questa è la definizione nominale
tradizionale che costituisce anche una delle nozioni più unifor- memente e
saldamente stabilite nella tradizione filosofica. In tale definizione «ciò che
non può essere» è l’impossibile che è il contrario opposto del N. ed è quindi
anch’esso N. come il nero, che è il colore opposto al bianco, è anch'esso
colore. Il contraddittorio del N., cioè il non-N. è invece l’altra modalità
fondamentale, cioè il possibile (v.). Le discussioni logiche contemporanee sul
N., quando non equivalgono alla negazione, espressa o implicita di questa
nozione, non sono altro di regola, che la riespressione di questa definizione
in termini di convenzionalismo moderno. Il primo a dare un’esauriente analisi
di « N.» è stato Aristotele. Egli ha distinto: a) il N. come condizione o
concausa, per cui si dice ad es. che il cibo è N. alla vita o la medicina alla
salute o l'andare in un certo posto a riscuotere una certa somma; b) il N. come
forza o costrizione per cui si dice che 612 è N. ciò che impedisce od ostacola
l’azione di un istinto o una scelta; c) il N. come ciò che non può essere
altrimenti, che è il senso fondamentale del concetto. A questo senso infatti si
possono, secondo Aristotele, ridurre gli altri. « Ciò a cui siamo costretti si
dice che è N. quando una forza qualsiasi ci costringe a fare o a subire
qualcosa che è contro l'istinto, sicchè la necessità consiste in questo caso
nel non poter fare o subire altrimenti. Lo stesso vale per le condizioni della
vita e del bene: giacchè quando il bene, la vita o l’essere non possono esserci
senza alcune condizioni queste son dette necessarie e si dice che la causa è la
necessità stessa » (Met., V, 5, 1014b 35). Nel senso fondamentale, le
dimostrazioni sono necessarie perchè non possono concludere altrimenti; e non
possono concludere altrimenti perchè le premesse non possono essere diverse da
quelle che sono (/bid., 1015b 7). Il significato a) di N. è quello che
Aristotele designa altrove come necessità ipotetica: è la necessità che si
trova nelle cose naturali e precisamente nella loro materia in quanto
costituisce la condizione di esse (Fis., II, 9, 200a 30; De Somno, 455b 26; De
part. an., 639b 24, 642a 9). Già Platone aveva ammesso questa specie di necessità,
ritenen- dola come uno dei costituenti del mondo (insieme con l'intelligenza) e
identificandola con la materia (Tim., 47 d, sgg.). Aristotele distingue infine
ciò che è N. in virtù di una causa esterna e ciò che è a se stesso la causa
della propria necessità. Le cose semplici sono necessarie in questo secondo
senso e perciò lo sono in modo primario ed eminente (2bid., 1015 b 10). Ma il
concetto della necessità è sempre quello. Queste notazioni sono rimaste
pressochè immutate per tutta la storia della filosofia. Gli Stoici defi- nirono
la necessità tenendo presente gli enunciati verbali più che le condizioni di
fatto; e dissero pertanto N. «ciò che è vero e non può rivelarsi falso »
(Droga. L., VII, 1, 75): dove il « non potersi rivelare falso » significa, per
ciò che è vero, il non poter essere altro. Nè mutano il concetto del N. le
distinzioni stabilite da San Tommaso in confor- mità della divisione
aristotelica delle quattro cause. San Tommaso enumera infatti: @) la necessità
materiale (o ex principio intrinseco) nel senso in cui si dice che «ogni cosa
composta da contrari è N. che si corrompa +; 5) la necessità formale, che è
quella naturale e assoluta, secondo la quale si dice che « è N. che un
triangolo abbia i tre angoli uguali a due retti »; c) la necessità finale o
utilità secondo la quale si dice che il cibo è N. alla vita o un cavallo al
viaggio; d) la necessità efficiente, o necessità di coazione, secondo la quale
si è costretti da una causa efficiente in modo tale che non si può agire altri-
menti. In tutti i casi, il N. rimane per San Tommaso NECESSARIO « ciò che non
può non essere » (S. 7h., I, q. 82, a. l;j De Ver., q.22, a. 5). È
immediatamente evidente che questa distinzione riproduce quella aristotelica.
La necessità materiale e quella finale sono la neces- sità ipotetica di
Aristotele; la necessità di coazione ha in Aristotele lo stesso nome e la
necessità « natu- rale e assoluta » è, per San Tommaso come per Aristotele, il
significato fondamentale della necessità. Queste distinzioni, talora indicate
con altri nomi, sono rimaste le stesse per lungo tempo, nella storia della
filosofia. Gli Scolastici le ripetono senza mu- tarle, come ripetono, anche
quando ci credono poco, il significato fondamentale di N. come ciò che non può
essere altrimenti (cfr., ad. es., Gio- VANNI DI SALISBURY, Metalogicus, II,
13). Colui al quale si deve la prevalenza del concetto di necessità in
metafisica e in teologia, sia nella scolastica araba sia nella scolastica
cristiana, Avicenna, era partito dalla distinzione aristotelica (Mer., V, 5,
1015 b 10, già cit.) tra ciò che è N. per sè e ciò che è N. per altro (Mer.,
II, 1, 2): una distinzione che è alla base della dottrina di Spinoza (Er., I,
33, scol. 1) ed è stata da allora in poi ripetuta innumerevoli volte. Le prime
novità concettuali, in questa storia uniforme, sono la definizione della
necessità logica e l’introduzione del concetto di necessità morale da parte di
Leibniz. Leibniz distinse: a) la necessità geometrica, che è quella
appartenente alle verità eterne «il cui opposto implica contraddizione +; 5) la
necessità fisica, che costituisce « l’ordine della natura e consiste nelle
regole del movimento e in qualche altra legge generale che è piaciuto a Dio
dare alle cose creandole +; c) la necessità morale che è «la scelta del saggio,
in quanto è degna della sua saggezza + cioè la scelta del « meglio » (Tliéod.,
Disc., $ 2). La necessità fisica è fondata sulla neces- sità morale (è stato
Dio a scegliere le leggi della natura che costituiscono la necessità fisica e
la sua scelta è stata dettata dal fatto che erano le migliori possibili); ed
entrambe le necessità, la fisica e la morale, sono dette da Leibniz ipotetiche;
esse, egli afferma, non hanno niente a che fare con la necessità assoluta, che
è l'impossibilità del contrario (Nouv. Ess., II, 21, 13). Leibniz si avvale di
questa distinzione per difendere la libertà di Dio e quella dell’uomo e nello
stesso tempo per salvare l’infal- ‘ libilità della previsione divina: «La
verità, che dice ch’io domani scriverò, non è affatto necessaria. Ma supponiamo
che Dio la preveda, è N. che essa si verifichi: cioè è necessaria la
conseguenza, che essa si realizzi, dal momento che è stata prevista, essendo
Dio infallibile: è ciò che si chiama una necessità ipotetica » (Théod., I, $
37; cfr. Discours de Mét., 13). La differenza tra questa dottrina di Leibniz e
quella tradizionale consiste in ciò che NECESSARIO quest’ultima riconosceva
come una specie di neces- sità, riconducibile al significato fondamentale del
termine, quella che Leibniz considera come libertà e scelta: la necessità
ipotetica. Leibniz ha, in altri termini, ristretto il significato della
necessità a quello che Aristotele e la tradizione aristotelica consideravano
come la necessità «primaria» o «assoluta » o «naturale» e che Leibniz chiama
«geometrica » o « metafisica ». La definizione leib- niziana di questa
necessità come « ciò il cui opposto è impossibile » 0 « ciò il cui opposto è
contraddit- torio» serve appunto a limitare l’estensione di essa soltanto alle
verità matematiche e a un ristretto numero di verità metafisiche. Questo è il
risultato importante e duraturo della introduzione del con- cetto di necessità
morale da parte di Leibniz. Quanto a questo concetto, dal momento che esclude
la necessità ed è la stessa definizione della deter- minazione libera, ciò che
gli si può obbiettare è l’improprietà del nome: esso non è per nulla «
necessità ». Tuttavia proprio come tipo o specie di necessità, esso entrò nella
filosofia del ’700, insieme con la distinzione delle forme del necessario
proposta da Leibniz. Wolff rielaborava infatti questa distin- zione e a sua
volta distingueva: a) l’assolutamente necessario, che è « ciò il cui opposto è
impossibile o implica contraddizione » (On., $ 279); 5) l’ipo- teticamente N.
che è «ciò il cui opposto implica contraddizione o è impossibile soltanto in
un'ipotesi data o sotto una determinata condizione» (Onf., $ 302); c) il
moralmente N., che è « ciò il cui opposto è moralmente impossibile » (Phil.
practica, I, $ 115). La differenza tra l’assolutamente N. e l’ipotetica- mente
N. consiste in questo: il primo esclude la contingenza e il secondo no (/bid.,
$ 317-18). A differenza di Leibniz, Wolff tuttavia non riduce la necessità
ipotetica alla necessità morale, cioè alla libertà, ma la identifica con quella
retta dal principio di ragion sufficiente cioè con la causalità (Ibid., $ 320
sgg.). Wolff stesso afferma che questa sua dottrina della necessità è identica
con quella tradizionale e in particolare con quella di San Tom- maso (/bid., $
327), cioè con la definizione del N. come ciò che non può essere altrimenti; ed
essa certamente lo è, salvo che per il riconoscimento della necessità morale.
Questa dottrina viene sem- plicemente riprodotta da Kant, che anch’egli
distingue «la necessità materiale
nell’esistenza » che consiste nella connessione causale, dalla necessità
«formale e logica nella connessione dei concetti » (Crit. R. Pura, Anal., II,
cap. II, sez. 3, Postulati del pensiero empirico); e distingue ancora da queste
due specie di necessità, la «necessità morale», come costrizione o obbligo, che
è il dovere (Crir. R. Prat., I, Libro I, cap. III; trad. ital., pag. 96). 613
La necessità materiale è la necessità reale o ipotetica. Dice Kant: « Tutto ciò
che accade è ipoteticamente necessario; ecco un principio che subordina il
mutamento nel mondo ad una legge cioè a una regola dell’esistenza necessaria
senza la quale la natura non vi sarebbe» (Crit. R. Pura; l. c.). E in realtà la
connessione causale rimane per Kant «ipotetica » perchè Kant la considera
aperta dai due lati e non ritiene legittimo considerarla chiusa a formare una
totalità o serie assoluta. Ovvia- mente, se ciò avvenisse, la necessità
ipotetica diverrebbe necessità assoluta o geometrica. A sua volta Schopenhauer
riteneva che la necessità non avesse altro senso tranne che la « inevitabilità
del- l’effetto quando la causa è stata posta » e riteneva perfino
contraddittorio parlare di un essere « asso- lutamente necessario » cioè
necessario senza con- dizioni (Uber die vierfache Wurzel des Satzes vom
zureichenden Grunde, $ 49). Ma con l’idealismo ro- mantico, proprio la
necessità assoluta divenne la protagonista della filosofia. Fichte affermava: «
Qual- siasi cosa realmente esiste, esiste per assoluta ne- cessità; ed esiste
necessariamente nella precisa forma in cui esiste. È impossibile che non esista
0 che esista altrimenti da come è » (Grundzilge des gegen- wdrtigen Zeitalters,
9). Assoluto voleva pure essere il significato della necessità che Hegel
difiniva come «unità di possibilità e realtà»: definizione che esprime la
presenza della totalità delle condizioni in ogni momento del reale e quindi
della piena e assoluta necessità del reale stesso. « Quando si hanno tutte le
condizioni, dice Hegel, la cosa deve diventare reale » (Enc., $ 147). «Il N. è
mediato per mezzo di un circolo di circostanze: è così, perchè le circo- stanze
sono così ed insieme è così immediato, è così perchè è » (/bid., $ 149). In tal
modo la ne- cessità diventa l’anima della realtà, la dialestica (v.) propria
della Ragione reale o della Realtà razionale. Questa estensione all’infinito
della necessità non innova, come è ovvio, le caratteristiche del con- cetto,
che rimane quello definito da Aristotele; come non innova tali caratteristiche
l’uso che del concetto fa il filosofo contemporaneo che più ha insistito sulla
necessità del reale, nei suoi vari gradi e forme: Nicolai Hartmann (cfr.
special- mente Mbglichkeit und Wirklichkeit, 1938): (v. Pos- SIBILE). Possiamo
ora dare uno sguardo alla sorte che è toccata, nella filosofia contemporanea,
alle tre forme del N. che sono comunemente ammesse da Wolff in poi, dando atto
che nessuna innovazione è stata portata al concetto stesso del N.: 1° il
moralmente N., cioè l’obbligatorio o il doveroso, per quanto talvolta si
continui a chia- marlo tale, non può essere incluso nelle forme del necessario;
614 2° l’ipoteticamente N., identificandosi con il causale (v.) o il
condizionale (v.), condivide la sorte di questi concetti; 3° l’assolutamente
N., il N. « geometrico » o «logico » è quello al quale si fa più frequente
riferi- mento nel dominio del sapere filosofico e scientifico. « C'è soltanto
una necessità logica, dice Wittgenstein e così c’è soltanto una impossibilità
logica » (Tract. Logico-Philosophicus, 6.375). Quasi tutti i logici
contemporanei sottoscrivono o implicitamente ammettono, questa tesi di Witt-
genstein. Non c’è accordo tra essi, tuttavia, sulla definizione della necessità
logica; Le principali dottrine in proposito sono: a) la dottrina dell’anali-
ticità; b) la dottrina della regola; c) la dottrina dell’immunità; d) la
dottrina della qualità. a) La prima dottrina è l’erede della definizione
leibniziana della necessità logica come « impossibilità del contrario ». Peirce
diceva che il /ogicamente o essenzialmente N. è ciò che una persona che non
conosce i fatti ma è perfettamente a giorno delle regole del ragionamento e
delle parole implicite nel ragionamento stesso, sa che è vero. Una tale persona
ad es. non sa se c'è o no un animale detto basilisco 0 se vi sono cose come
serpenti, galline e uova; però sa che ogni basilisco è nato da un uovo di
gallina covato da un serpente. « Questo è essen- zialmente N. perchè è ciò che
la parola basilisco significa » (Coll. Pap., 4.67). Lewis a sua volta ha detto
che «un’asserzione è logicamente necessaria se, e solo se, il contraddittorio
di essa è incompatibile con se stesso » (Analysis of Knowledge and Valuation,
1946, pag. 89) che è nient'altro che una riformula- zione della definizione di
Leibniz. Strawson nello stesso senso ha detto « un'asserzione è necessaria
quando è la contraddittoria di un’asserzione incon- sistente » (Intr. to
Logical Theory, 1952, pag. 22). Carnap, osservando che il concetto di necessità
logica è comunemente inteso nel senso che si applica a una proposizione p «se e
solo se la verità di p è fondata su ragioni puramente logiche e non di-
pendente dalla contingenza dei fatti; o in altre parole se l’assunzione di
non-p condurrebbe a una contraddizione logica, indipendentemente dai fatti » ha
identificato la necessità logica con la verità logica; e ha definito la verità
logica, sulle orme di Leibniz, come quella che è valida in tutti i possibili
mondi, o, nella sua terminologia, è valida in qualsiasi descrizione di stato di
un sistema. La sua definizione della descrizione di stato rende chiaro questo
con- cetto: « Una classe di enunciati in .S,, che contiene per ogni enunciato
atomico o questo enunciato o la sua negazione ma non entrambe le cose, e nessun
altro enunciato, è chiamato una descrizione di stato in S,; perchè esso
ovviamente dà la completa descrizione di un possibile stato dell’universo degli
NECESSARIO individui rispetto a tutte le proprietà e relazioni espresse dai
predicati del sistema. Così le descrizioni di stato rappresentano i mondi
possibili di Leibniz o i possibili stati di cose di Wittgenstein » (Meaning and
Necessity, $ 2, $ 39). Questa è l’espressione più rigorosa che la tesi della
riduzione della necessità ad analiticità abbia mai ricevuto. Essa tuttavia non
è andata esente da critiche (cfr., ad es., QUINE, From a Logical Point of View,
II; A. Pap, Semantics and Necessary Truth, pag. 150 sgg.). b) La seconda
interpretazione della necessità logica è quella che riduce gli enunciati a cui
tale necessità si applica a semplici regole: o regole di trasformazione o, più
semplicemente, regole lingui- stiche. La dottrina che le «verità necessarie »
della matematica, per es. la famosa proposizione di cui Kant parlava «7 + 5=
12», siano nient’altro che regole di trasformazione cioè regole che permet-
tono l’inferenza da una formula all’altra e consen- tano pertanto la
sostituibilità reciproca delle for- mule, fu già esposta dal Circolo di Vienna
e specialmente da Schlick e ritorna frequentemente nella letteratura
contemporanea (cfr., ad es., K. BRITTON, in Proceedings of the Aristotelian So-
clety, 21°, 1947). Come pure ritorna in essa la dottrina che le proposizioni
analitiche (o tauto- logie) che costituiscono le « verità necessarie » della
logica non sono altro che regole linguistiche o più precisamente regole
semantiche. Difatti l’enunciato «tutti gli scapoli sono non sposati » può
essere in- terpretata come una regola per l’uso della parola « scapolo +, e una
regola ricavata a sua volta dal- l’uso. L’obiezione addotta talvolta contro
queste dottrine che esse toglierebbero alla verità N. il rango di «
proposizioni +, perchè una proposizione è sempre o vera o falsa mentre una
regola non lo è, ma è piuttosto utile, conveniente, corretta, ecc. (cfr., ad
es., Pap, Op. cit., pag. 179 sgg.) non è molto concludente perchè dimostra
soltanto l’in- compatibilità tra questa interpretazione della ve- rità N. e il
concetto tradizionale di proposizione. c) La terza interpretazione della
necessità lo- gica è quella data da Quine, secondo la quale essa sarebbe
l’immunità accordata a certe propo- sizioni nella matematica e nella logica in
quanto, per il carattere centrale che occupano nel sistema, la loro revisione
disturberebbe enormemente il si- stema stesso, che invece tendiamo, per quanto
è possibile, a conservare nei tratti fondamentali. Da questo punto di vista N.
significherebbe non «ciò che non può essere altrimenti » ma piuttosto « ciò di
cui non si vuol fare a meno», non perchè sia impossibile farne a meno, ma
perchè è preferibile. Questa interpretazione è fondata sul rigetto della
distinzione tra verità analitiche (o di ragione) e verità sintetiche (o di
fatto) sulla quale si fondano NECESSITARISMO invece le interpretazioni di cui
in a) (QuINE, Methods of Logic, pag. XIII; From a Logical Point of View, II e VIII. Questa interpretazione equivale ovviamente alla
eliminazione del concetto stesso di necessità. d) La quarta interpretazione è
quella che la considera come una proprietà intrinseca delle pro- posizioni,
considerate come oggetti, nel senso di Carnap: e precisamente una proprietà che
le pro- posizioni posseggono antecedentemente alla formu- lazione delle
convenzioni linguistiche. Da questo punto di vista «spiegare la necessità dei
princìpi tradizionali dell’inferenza deduttiva in termini di convenzioni
linguistiche significa porre il carro da- vanti ai buoi». Questa è la tesi di
A. Pap (Semantics and Necessary Truth, spec. cap. 7; cfr. anche « Ne- cessary
Propositions and Linguistics Rules», in Ar- chivio di Filosofia, 1955, pag.
63-105). In questa dottrina la necessità logica non si distingue da una
qualitas occulta. Di queste quattro interpretazioni la sola che non equivale
alla negazione della necessità stessa è la prima, che identifica la necessità
con l’analiticità o tautologicità. Si tratta di un’interpretazione che è
collegata strettamente con il concetto che Witt- genstein espose della
tautologia: « Tra i possibili gruppi di condizioni di verità si dànno due casi
estremi. In uno, la proposizione è vera per tutte le possibilità di verità
delle proposizioni elementari; e noi diciamo in questo caso che le condizioni
di verità sono tautologiche. Nell’altro caso la propo- sizione è falsa per
tutte le possibilità di verità: le condizioni di verità sono contraddittorie »
(Tractatus, 4.46). Per conseguenza «la tautologia non ha con- dizione di verità
perchè è incondizionatamente vera; e la contraddizione a nessuna condizione è
vera » (Ibid., 4.461). Questo equivale a dire che un’affer- mazione
incondizionatamente vera cioè una tauto- logia o una proposizione N. o comunque
la si voglia chiamare, è quella che esaurisce il rango delle possibilità.
Questo è pure il significato della dottrina di Carnap della verità logica come
« de- scrizione di stato» cioè come verità valida per tutti i mondi possibili o
per tutti i possibili stati di cose. Da questo punto di vista c’è necessità
dove è possibile enumerare tutte le possibilità; e necessità equivale,
praticamente, a onnipossibilità. Questa d’altronde non è dottrina recente.
Ockham, nel sec. xIv riteneva N. soltanto le proposizioni condizionali o
equivalenti o quelle intorno al pos- sibile come, ad es., «Se c’è l’uomo,
l’uomo è animale ragionevole» o «Ogni uomo può essere animale ragionevole »
(Quodl., V, q. 15). Poichè solo convenzioni linguistiche d’altra natura pos-
sono limitare opportunamente il rango di possibilità cui una proposizione fa
riferimento, è abbastanza 615 chiaro che questo concetto di necessità è intera-
mente riducibile a convenzione. NECESSITARISMO (ingl. Necessitarianism; franc.
Nécessitarisme). Questo termine, assai poco usato in italiano ma che ha in
inglese una lunga tradizione, è molto utile per indicare l’insieme delle
dottrine che, in un modo qualsiasi dànno un posto eminente al concetto del
necessario o si avvalgono sistematicamente di esso. Possono essere enumerate
almeno tre dottrine fondamentali di questo genere: 18 La dottrina che ammette
il destino cioè l’ordine finalistico o provvidenziale del mondo; cioè un ordine
che determina necessariamente ogni cosa e ad ogni cosa garantisce la riuscita
migliore. Questa dottrina può chiamarsi provvidenzialismo o fatalismo; ma
quest’ultimo nome è adoperato solo da coloro che la combattono o almeno che ne
combattono alcuni aspetti (v. DESTINO; FATO; ProvviIDENZA). Il significato di necessario
cui tale dottrina fa riferimento è quello a) di Aristotele e c) di S. Tommaso.
2* La dottrina che l’ordine del mondo con- siste nella connessione causale
universale; dottrina che fa riferimento al necessario nel significato a) di
Aristotele, d) di S. Tommaso, 5) di Leibniz, di Wolff e di Kant. Questa
dottrina è il determinismo rigoroso o classico, che meglio si dovrebbe chia-
mare causalismo (v. CAUSALITÀ; DETERMINISMO). 3» La dottrina che la necessità
costituisce il significato primario e fondamentale dell’essere; e che si avvale
di esso come criterio per la valuta- zione e l’analisi di tutte le cose
esistenti. Questo significato di N. è certamente il più importante e
fondamentale, quello al quale il termine dovrebbe di preferenza essere
riferito. Il necessario è, per tale dottrina, la categoria fondamentale;
l’orizzonte generale che abbraccia tutti gli strumenti di inda- gine e di
spiegazione di cui è possibile servirsi. Molto spesso tale dottrina non ammette
la necessità nel senso delle dottrine 1* o 2: Aristotele e S. Tommaso, ad es.,
che possono essere conside- rati come esempi molto importanti di questa dot-
trina, pur ammettendo la necessità del destino non ammettono la necessità
causale assoluta; tuttavia sono necessitaristi nel senso che per essi il
significato fondamentale dell’essere è la necessità e che tale significato è
presente nella costruzione di tutti i concetti fondamentali della loro
filosofia. Nello stesso senso è necessitaristica la dottrina di Hegel e sono
necessitaristiche tutte le dottrine che si ispirano all’idealismo romantico. Ma
l’attrezzatura concettuale del N. è diffusa molto al di là di questa o quella
dottrina: concetti comé quelli di causa e di sostanza, con tutte le loro
derivazioni, che sono mumerosissime, dominano ancora vaste zone del discorso
comune, scientifico e filosofico; e intro- 616 ducono il loro senso
necessitaristico nelle analisi della scienza e della filosofia. NEGATIVO (gr.
aroparéc; lat. Negativus; ingl. Negative; franc. Négatif; ted. Negativ). Ciò che
effettua o implica una negazione, cioè una esclusione di possibilità. Un’entità
N., per es., una proposizione, non implica che sussista l’entità po- sitiva
corrispondente alla quale poi venga ag- giunta la negazione, ma è semplicemente
l’esclu- sione di una possibilità; e, il più delle volte, di una possibilità
formulata soltanto allo scopo di escluderla. I molteplici usi del termine si
lasciano ricondurre a questo significato fondamentale. « Risultato N. + di un
esperimento significa l’esclusione di una certa possibilità di interpretazione
o di spiegazione. «Effetto N.» di una certa operazione significa l'esclusione
di ciò che ci si aspettava come pos- sibile dall’operazione stessa. «
Atteggiamento N.» nei confronti di una dottrina o di una cosa qual- siasi è
l’atteggiamento che esclude la possibilità che la dottrina sia vera o che la
cosa abbia un valore qualsiasi; ecc. NEGAZIONE (gr. &répaor; lat. Negatio;
in- glese Negation; franc. Négation; ted. Verneinung, Negation). Termine col
quale si può designare tanto l’atto del negare, quanto il contenuto ne- gato,
ossia la proposizione negativa, detta in greco &népao (lat. negario:
Boezio) e definita come «enunciato che divide qualcosa da qualcosa » (De
Interpr., 17 a 26), in quanto, secondo la medesima dottrina aristotelica, essa
separa o allontana due concetti. Sostanzialmente la tradizione logica suc-
cessiva ha conservato questa dottrina e quindi questo significato del termine
N.: soltanto i se- guaci della teoria del giudizio come assenso (Ro- smini, Fr.
Brentano, Husserl) considerano la N. come atto di diniego (rifiuto, ripudio,
Verneinung) di una rappresentazione o idea. Nella Logica sim- bolica
contemporanea la N. è rappresentata da un simbolo speciale (€ — +) che premesso
al simbolo di una proposizione « p + trasforma questa o nell'affer- mazione che
«p» è falsa (Russell) o in una nuova proposizione (molecolare), funzione di
verità di « p », e precisamente (nella Logica a due valori) nella proposizione
che è falsa quando «p + è vera e vera quando « p + è falsa (Wittgenstein,
Carnap). G.P. NEOCRITICISMO (ingl. Neo-Criticism; fran- cese Néocriticisme;
ted. Neukantianismus). Il mo- vimento del « ritorno a Kant » iniziatosi in
Germania verso la metà del secolo scorso e che ha dato ori- gine ad alcune tra
le più importanti manifestazioni della filosofia contemporanea. I tratti comuni
di tutte le correnti del N. sono i seguenti: 1° la negazione della metafisica e
la riduzione della filo- sofia a riflessione sulla scienza, cioè a teoria della
NEGATIVO conoscenza; 2° la distinzione tra l’aspetto psicolo- gico e l’aspetto
logico-oggettivo della conoscenza, distinzione in virtù della quale la validità
di una conoscenza è completamente indipendente dal modo in cui essa viene
psicologicamente acquisita o con- servata; 3° il tentativo di risalire dalle
strutture della scienza, sia di quella della natura sia quella dello spirito,
alle strutture del soggetto che la renderebbero possibile. In Germania,
costituirono la corrente neo- criticista: 1° la Scuola di Marburgo (Marburger
Schule) alla quale hanno appartenuto F. A. Lange, H. Cohen, P. Natorp, E.
Cassirer, e alla quale si riconnette, in parte, anche Nicolai Hartmann; 2° la
Scuola del Baden (Badische Schule), che fu fondata da W. Windelband e H.
Rickert; 3° lo storicismo tedesco con G. Simmel, G. Dilthey, E. Troeltsch, ecc.
Quest’ultimo indirizzo formulò il problema della storia analogamente al modo in
cui le altre scuole kantiane formulavano il problema della scienza na- turale
(v. SToRICISMO). Fuori della Germania, si connettono all’indirizzo neocritico
C. Renouvier e L. Brunschvicg, in Francia; e S. H. Hodgson e R. Adamson, in
Inghilterra; Banfi in Italia. NEOHEGELISMO (ingl. Neo-Hegelianism; franc.
Néo-Hégélianisme; ted. Neuhegelianismus). Il ritorno all’idealismo romantico
che si è verificato in Inghilterra, in Italia e in America negli ultimi decenni
del secolo scorso e nei primi del nostro secolo. Il N., come l’idealismo
romantico di cui è una diretta filiazione, ha come sua tesi fonda- mentale
l’identità del finito e dell’infinito cioè la riduzione dell’uomo e del mondo
dell’esperienza umana all’Assoluto. H necidealismo anglo-ameri- cano e il
neocidealismo italiano si distinguono tra loro per il modo in cui effettuano
questa riduzione. L’idealismo anglo-americano l’effettua per via ne- gativa,
mostrando che il finito, per la sua intrinseca irrazionalità, non è reale o è
reale solo nella mi- sura in cui rivela e manifesta l’infinito. L’idealismo
italiano la effettua per via positiva, mostrando nella struttura stessa del finito,
nella sua intrinseca e necessaria razionalità, la presenza e la realtà del-
l'infinito. Questa era stata anche la via tenuta da Hegel e da tutto
l’idealismo romantico. Alla corrente inglese appartengono G. H. Stirling, T. H.
Green, B. Bosanquet, J. E. McTaggart; e specialmente F. H. Bradley, che è il
maggiore rappresentante di essa. In America la maggiore figura del N. è stata
J. Royce. Dell'idealismo italiano i maggiori fappresentanti sono stati G.
Gentile e B. Croce. Su tutti, v. IDEALISMO. NEOIDEALISMO. V. NEOHEGELISMO.
NEOKANTISMO. V. NEOCRITICISMO. NEOPITAGORISMO (ingl. Neo-Pyrhago- reanism;
franc. Néo-pythagorisme; ted. Neupythago- NEOREALISMO reismus). La reviviscenza
della filosofia pitagorica che si manifestò nel I secolo a. C. sia con la com-
parsa di scritti pitagorici di falsa attribuzione (Derti Aurei, Simboli,
Lettere, attribuiti a Pitagora), e di altri scritti attribuiti al lucano Ocello
e ad Ermete Trismegisto sia con una fioritura di filosofi che dichiaravano di
ispirarsi alle dottrine del pitago- rismo antico. Fra essi: Nigidio Figulo,
Apollonio di Tiana, Nicomaco di Gerasa e soprattutto Numenio di Apamea (1 sec.
d. C.). Le dottrine di questi scrit- tori non hanno nulla di originale ma
presentano tratti che divennero propri del neoplatonismo (v.). NEOPLATONISMO
(ingl. Neo-Platonism; franc. Néo-platonisme; ted. Neuplatonismus). La scuola
filosofica fondata in Alessandria da Am- monio Sacca nel 1 secolo d. C. e che
ha come suoi maggiori rappresentanti Plotino, Giamblico e Proclo. Il N. è una
scolastica: è cioè l’utilizzazione della filosofia platonica (filtrata
attraverso il neo- pitagorismo, il platonismo medio e Filone) per la difesa di
verità religiose cioè di verità che si rite- nevano rivelate all’uomo ab
antiquo e da lui ri- scopribili nell'intimità della coscienza. I capisaldi del
N. sono i seguenti: 1° il carattere rivelativo della verità, che perciò è di
natura religiosa e si manifesta nelle istituzioni religiose esistenti e nella
riflessione dell’uomo su se stesso; 2° il carattere assoluto della trascendenza
di- vina, per il quale Dio, considerato come il Bene, è posto al di là di ogni
determinazione conoscibile e ritenuto ineffabile; 3° la teoria dell’emanazione
cioè della deriva- zione necessaria da Dio di tutte le cose esistenti, che
diventano sempre meno perfette a misura che si allontanano da Lui; e la
conseguente distinzione tra il mondo intelligibile (Dio, Intelletto e Anima del
mondo) e il mondo sensibile (o materiale) che è un’immagine o parvenza
dell’altro; 4° il ritorno del mondo a Dio attraverso l’uomo e la sua
progressiva interiorizzazione, sino al punto dell’estasi cioè dell’unione con
Dio. Nel N. si sogliono distinguere: la Scuola Siriaca fondata da Giamblico; la
Scuola di Pergamo alla quale appartenne fra gli altri l’imperatore Giuliano
detto l’Apostata; e la Scuola di Atene il cui maggiore rappresentante fu
Proclo. Ma le dottrine fonda- mentali del N. hanno avuto, e continuano ad
avere, un’influenza profonda su molti indirizzi del pen- siero filosofico. Il
«platonismo » del Rinascimento è in realtà un N. che ripete, con alcune
variazioni, le tesi su esposte. Le variazioni che caratterizzano il N. ri-
nascimentale (quello di Cusano, Pico e Ficino) sono relative alla maggiore
importanza attribuita all’uomo e alla sua funzione nel mondo, conformemente a
617 quello che è lo spirito generale del Rinasci- mento (v.). Una forma di
razionalismo religioso è invece il N. inglese che fiorì nella scuola di
Cambridge nel sec. xv (Cudworth, Moore, Whichcote, Smith, Culverwel); che da un
lato si oppone al materia- lismo di Hobbes e dall’altro sostiene che le idee
fondamentali della religione sono state stampate direttamente da Dio nella
ragione e nell’intelletto dell’uomo e perciò precedono la conoscenza empi- rica
delle cose naturali. Ma anche nel N. inglese ritornano molti temi del N.
rinascimentale, special- mente di Ficino. NEOPOSITIVISMO (ingl. Neo-Positivism;
franc. Néo-positivisme; ted. Neupositivismus). 1. Lo stesso che empirismo
logico (v.). 2. Così talora è stato chiamato il bergsonismo (Le Roy, Un
positivisme nouveau, 1901). NEOREALISMO (ingl. New Realism; fran- cese
Néo-realisme; ted. Neurealismus). Con questo termine si designano le correnti
del pensiero con- temporaneo che assumono come loro insegna la negazione
dell’idealismo gnoseologico (v.) cioè la negazione della riduzione dell’oggetto
della cono- scenza a un modo d’essere del soggetto. L’idealismo gnoseologico è
stato il clima dominante della filo- sofia dell’800: giacchè esso era
partecipato non solo dall'idealismo romantico ma anche dallo spi- ritualismo,
dal neocriticismo e in generale da tutte le filosofie coscienzialistiche.
Eccezioni a questa tendenza generale furono dapprima la filosofia
dell’immanenza di G. Schuppe e l’opera di Osvaldo Kiilpe (Einleitung in die Philosophie,
1895). Ma una nuova storia cominciò per il realismo soltanto a partire dal
saggio di G. E. Moore, «La confuta- zione dell’idealismo » pubblicato nel Mind
del 1903. In seguito difendevano il realismo in Inghilterra B. Russell e S.
Alexander; mentre in America un volume collettivo del 1912 intitolato appunto
Il nuovo realismo affermava le tesi di un realismo aggiornato, tesi che sotto
altra forma venivano riproposte alcuni anni dopo nei Saggi di realismo critico
(1920) pubblicati da un altro gruppo di filosofi americani. Nel primo gruppo la
figura più nota fu quella di W. P. Montague; nel secondo gruppo quella di G.
Santayana. Più tardi il nuovo realismo ha trovato sostenitori in A. N.
Whitehead e in N. Hartmann. Il nuovo realismo presenta nel suo interno tanti
indirizzi dottrinali diversi quanti sono i filosofi che lo professano; ma si
fonda tuttavia su una tesi fondamentale comune che costituisce la sua novità e
il suo punto di distacco dal realismo tradizionale nonchè la sua linea di
difesa contro l’idealismo. Questa tesi è la seguente: il rapporto conoscitivo
(cioè il rapporto nel quale l’oggetto della cono- 618 scenza entra col
soggetto, cioè con la mente che lo apprende) non modifica la natura
dell’oggetto stesso. Questa tesi si ispira alla nozione matematica della
«relazione esterna» cioè della relazione che non modifica i termini relativi.
Essa, come è ovvio, elimina del tutto la dipendenza esistenziale o qua-
litativa dell'oggetto della conoscenza dal soggetto e rende privo di senso
l’idealismo. Lontanissimi come sono tra loro, sotto tutti gli altri rispetti,
Moore, Montague, Santayana, Alexander, Hart- mann, condividono questa tesi.
NEOTOMISMO (ingl. Neo-Thomism; francese Néo-thomisme; ted. Neuthomismus). Con
questo termine o con quello assai meno appropriato di « neoscolastica »
s'intende quel movimento di ri- torno alla dottrina di S. Tommaso, nel seno
della cultura cattolica, che fu iniziato dall’enciclica Ae- terni Patris di
Leone XIII (4 agosto 1879). Questo movimento consiste nella difesa polemica
delle tesi filosofiche tomistiche contro i diversi indirizzi della filosofia
contemporanea e, indirettamente, nella rielaborazione e nel rammodernamento di
tali tesi. Una delle prime figure del N. fu quella del cardinale belga
Desiderato Mercier (morto nel 1925); mentre tra le figure più note del mondo
contemporaneo ci sono quelle di E. Gilson e di J. Maritain. Abitualmente il
tomismo accetta la problematica della filosofia contemporanea ma cerca di
ricon- durre tale problematica alla sistematica tomistica. Uno degli effetti
più importanti della fioritura neotomista è la rinnovata importanza che hanno
assunto, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, gli studi di
filosofia medievale cioè della scolastica classica. NEOVITALISMO. V. ViraLISMO.
NESSO (lat. Nexus; ingl. Bond; franc. Con- nexion; ted. Zusammenhang). La
connessione delle cose tra di loro o nell’ordine causale o nell’ordine finale:
Kant chiama il primo nexus effectivus, il secondo nexus finalis (Crit. del
Giud., $ 87). White- head ha chiamato con questo termine (nexus) le connessioni
reali tra le cose, da lui conside- rate come elementi ultimi della realtà
insieme alle cose stesse e alle percezioni (Process and Reality, 1929).
NESTORIANISMO (ingl. Nestorianism; fran- cese Nestorianisme; ted.
Nestorianismus). La dot- trina di Nestorio, patriarca di Costantinopoli (428-
431) secondo la quale, essendoci in Cristo due nature, ci sono anche due
persone, di cui l’una abita nell’altra come in un tempio. Nestorio negava pure
che Maria fosse madre di Dio e diceva favola pagana l’idea di un Dio ravvolto
in fasce e crocifisso. Questa interpretazione del- l'incarnazione era stata già
sostenuta da Diodoro di Tarso (morto verso il 394) e dal suo discepolo
NEOTOMISMO Teodoro di Mopsuestia (morto verso il 428). Essa fu condannata dal
concilio di Efeso del 431 ma continuò per lungo tempo a sopravvivere, e tut-
tora sopravvive presso gruppi della Turchia asiatica e della Persia.
NEUTRALISMO (ingl. Neutralism). Termine adoperato da Peirce come sinonimo di
monismo (Chance, Love and Logic, II, 1; trad. ital., pa- gina 121) (v.
MonISMO). NEUTRALIZZAZIONE (ted. Neutralisie- rung). Con questo termine Husserl
ha indicato la sospensione della credenza per la quale «quello che è esistente
o possibile o verosimile o discutibile, come pure il non-esistente, in
qualsiasi negazione o affermazione, sono presenti alla coscienza ma non nella
maniera del reale bensì come ‘ mero pen- sato * o ‘mero pensiero * » (Ideen, I,
$ 109) (vedi EPOCHÉ). NEUTRO, MONISMO (ingl. Neutral Mo- nism). Con questa
espressione viene talvolta in- dicata in America la tesi del neorealismo se-
condo la quale le entità che entrano a comporre lo spirito e la materia non
sono nè mentali nè materiali, ma acquistano tali qualifiche in virtù delle relazioni
in cui entrano. In realtà questo punto di vista è stato per la prima volta
sostenuto dall’empirio-criticismo (v.) di Avenarius e da Mach. NEWTONISMO
(ingl. Newronianism; fran- cese Newtonianisme; ted. Newtonianismus). Con questo
termine è stato indicato soprattutto la dot- trina di Newton della gravitazione
universale. Cioè la generalizzazione delle leggi della gravitazione a tutto
l’universo e la formulazione di queste leggi mediante l’unica formula: i corpi
si attraggono proporzionalmente al prodotto delle masse e in ragione inversa
del quadrato delle distanze. Questa legge fu enunciata da Newton per la prima
volta nel Propositiones de motu del 1684, e poi nei Principi matematici di
filosofia naturale del 1687. NICHILISMO (ingl. Nihilism; franc. Nihi- lisme;
ted. Nihilismus). Termine usato più spesso con intento polemico, per indicare
dottrine che si rifiutano di riconoscere realtà o valori la cui am- missione si
ritiene importante. Così Hamilton usò il termine per qualificare la dottrina di
Hume che nega la realtà sostanziale (Lecsures on Metaphysics, I, pag. 293-94);
e in questo caso la parola non vuol dire più che fenomenismo. In altri casi
essa viene adoperata per indicare gli atteggiamenti di coloro che negano
determinati valori morali o politici. Soltanto Nietzsche fece un uso non
polemico del termine, servendosi di esso per qualificare la sua opposizione
radicale ai valori morali tradizionali e alle tradizionali credenze
metafisiche. «Il N., egli disse, non è soltanto un insieme di considera- zioni
sul tema: ‘Tutto è vano’; non è solo la NOLONTÀ credenza che tutto merita di
morire, ma consiste nel mettere la mano in pasta, nel distruggere... È lo stato
degli spiriti forti e delle volontà forti cui non è possibile attenersi a un
giudizio negativo: la negazione attiva risponde meglio alla loro natura
profonda + (Wille zur Macht, ed. Kròner, XV, $ 24). NIENTE. V. NULLA. NIRVANA.
L’estinzione delle passioni e del desiderio di vivere, quindi della catena
delle nascite, nella dottrina buddistica. « Quest’isola incompara- bile in cui
ogni cosa sparisce ed ogni attaccamento cessa, io la chiamo N., distruzione
della vecchiaia e della morte» (Surtanipdta, V, 11). Nella filosofia
occidentale Schopenhauer ha fatto propria questa nozione, vedendo in essa la negazione
della volontà di vivere, la cui esigenza scaturisce dalla conoscenza della
natura dolorosa e tragica della vita (Die Welt, I, $ 71; II, cap. 41). NODALE,
LINEA (ted. Knotenlinie). Così Hegel chiamò il passaggio dalla quantità alla
qua- lità avvenuto per mutamento della quantità stessa (per es., quando il
mutamento della quantità di calore nell’acqua produce il passaggio dell’acqua
stessa dallo stato liquido al solido o all’aeriforme (Wissenschaft der Logik,
I, sez. III, cap. II, B; trad. ital., I, pa- gina 444 sgg.). Questo concetto ha
avuto più fortuna fuori dello hegelismo che nell’hegelismo. Kierkegaard ne
trasse il suo concetto del salto (v.). Engels fece del passaggio dalla quantità
alla qualità una delle leggi fondamentali della dialettica (Dialektik der
Natur; trad. ital., pag. 57) (v. DIALETTICA; SALTO). NOEMA (ted. Noema). Nella
terminologia di Husserl, l’aspetto oggettivo dell’esperienza vissuta: cioè
l’oggetto, considerato dalla riflessione nei suoi vari modi d’essere daro (ad
es., il percepito, il ricordato, l’immaginato). Il N. è distinto dall’og- getto
stesso, che è la cosa: per es., l’oggetto della percezione dell’albero è
l’albero, ma il N. di questa percezione è il complesso dei predicati e dei modi
d’essere dati all’esperienza, per es., l'albero verde, illuminato, non
illuminato, percepito, ricordato, ecc. (Ideen, I, $ 88). L'aggettivo
corrispondente è Noe- matico. NOESI (ted. Noesis). Nella terminologia di
Husserl, l’aspetto soggettivo dell’esperienza vis- suta, costituito da tutti gli
atti di comprensione che mirano ad afferrare l’oggetto, come il perce- pire, il
ricordare, l’immaginare, ecc. (/deen, I, $ 92). L'aggettivo corrispondente è
Noetico. NOETICA (ingl. Noetic; franc. Noétique; te- desco Noétik). Così
Hamilton chiamò la parte della logica che studia «le leggi fondamentali del
pensiero » cioè i quattro princìpi di Identità, Con- traddizione, Terzo escluso
e Ragion sufficiente (Lectures on Logic, V, I, pag. 72). Quest’uso è stato
seguito da pochi altri autori. 619 NOIA (ingl. Boredom; franc. Ennui; ted.
Lang- weile). Moralisti e filosofi hanno talora insistito sul carattere cosmico
o radicale di questo sentimento. « Senza il divertimento, diceva Pascal, noi
saremmo nella N. e la N. ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne.
Ma il divertimento ci diletta e così ci fa arrivare inavvertitamente alla
morte» (Pensées, 171). Schopenhauer osservava che « non appena miseria e dolore
concedono all’uomo una tregua, la N. è subito tanto vicina che egli per
necessità ha bisogno di un passatempo »; e vedeva perciò la vita continuamente
oscillare tra il dolore e la N. (Die Welt, I, $ 57). Più profonda- mente e
anticipando l’esistenzialismo, Leopardi vedeva nella N. l’esperienza della
nullità di tutto ciò che è: «Or che cos'è la N.?» si chiedeva. « Niun male nè
dolore particolare (anzi l’idea e la natura della N. esclude la presenza di
qualsiasi particolar male o dolore) ma la semplice vita pie- namente sentita,
provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo »
(Zibaldone, VI, pag. 421). Heidegger ha ripetuto queste nota- zioni, scorgendo
nella N. il sentimento che rivela la totalità delle cose esistenti, nella loro
indiffe- renza. «La vera N., egli ha detto, non è quella che ci viene da un
libro o da uno spettacolo o da un divertimento che ci annoiano, ma quella che
ci invade quando ‘ci si annoia’: la N. profonda che, come nebbia silenziosa, si
raccoglie negli abissi del nostro esserci, accomuna uomini e cose, noi stessi
con tutto ciò che è intorno a noi, in una singolare indifferenza. È questa la
N. che rivela l’esistente nella sua totalità » (Was ist Metaphysik? 58 ediz.,
1949, pag. 28). La N. in questo senso è molto vicina alla nausea (v.) di cui
parla Sartre e che è anch’essa l’esperienza dell’indifferenza delle cose nella
loro totalità. Il precedente di essa può forse essere scorto nella malinconia
(Sckhwermut) che secondo Kierkegaard è lo sbocco inevitabile della vita
estetica. « Se si domanda a un malinconico quale ragione abbia per essere così
e che cosa gli pesi, risponderà che non lo sa, che non lo può spiegare. In
questo consiste l’infinità della malin- conia » (Entweder-Oder, in Werke, II,
pag. 171). In questo senso la malinconia è l’accidia medievale (Ibid., II, 168)
ed è considerata da Kierkegaard come «l’isterismo dello spirito» nonchè come il
peccato fondamentale in quanto «è peccato non volere profondamente e
sentitamente» (/bid., pa- gina 171). NOLONTA (lat. Noluntas; ingl. Nolition;
fran- cese Nolonté; ted. Nolitio). Il non volere o rifuggire. Il termine è
rarissimo, in tutte le lingue. Secondo S. Tommaso, «il desiderio del bene si
chiama volontà in quanto è il nome dell’atto di volontà; ma la fuga dal male si
dice piuttosto nolontà. 620 Sicchè come la volontà è del bene, così la N. è del
male» (S. 7h., II, 1, q. 8, a. 1). Nello stesso senso il termine ricorre in
Wolff (Phil. practica, I, $ 38). È chiaro che in questo senso la N. è vo- lontà
positiva, come la cosiddetta volontà. Altri autori invece l’hanno intesa nel
senso di volontà inibita o assenza di volontà (RENOUVIER e PRAT, Monadologie,
pag. 231). Questo secondo senso è decisamente improprio. NOME (gr. évoua; lat.
Nomen; ingl. Name; franc. Nom; ted. Name). La parola o il simbolo che denota un
oggetto qualsiasi. I problemi che il N. fa sorgere come parola o simbolo, per
es. quello della sua origine o della sua validità, si trovano discussi nella
voce linguaggio (v.). Qui occorre soltanto richiamare le determinazioni
specifiche che i logici hanno dato al concetto di N. Quando Platone definisce il
N. come «lo strumento adatto a insegnare e a farci discernere l’essenza, al
modo in cui la spola è adatta a tessere la tela » (Crat., 388 b), la sua
definizione si adatta a qualsiasi termine o espressione linguistica. Aristotele
invece ha dato la prima analisi specifica del nome. « Il N., egli ha detto, è
un suono di voce significativo per convenzione, che prescinde dal tempo e le
cui parti non sono significative se prese separatamente » (De Int., 2, 16a 19).
In quanto « prescinde dal tempo », il N. si distingue dal verbo che ha sempre
una determinazione temporale. In quanto non ha parti di per sè significative,
il nome si distingue dal discorso. E poichè Aristotele osserva che l’espres-
sione infinita « non uomo» non è un N., i logici posteriori aggiunsero alla
definizione aristotelica del N. la caratterizzazione « finita »; nonchè quella
di « retta », per escludere i casi obliqui del N. che sono di interesse per il
grammatico e non per il logico (Pietro Ispano, Summul. Log., 1.04). Lo stesso
Aristotele avvertiva (De /nt., 2, 16a 23) che il N. non sempre è semplice; e in
questo senso la definizione di esso veniva così modificata da Jungius nel sec.
xvi: « Per N. si intende un simbolo o segno, istituito per una cosa determinata
e per la nozione che rappresenta la cosa, sia che si tratti di un N.
grammaticalmente unico, sia che si tratti di un N. composto da più vocaboli
(Log. Hambur- gensis, 1638, IV, 2, 10). Nella logica contemporanea, la funzione
del N. è stata analizzata soprattutto a proposito di quella che Carnap ha
chiamata «l’antinomia della relazione- N. ». Questa antinomia era stata scorta
da Frege (* Uber Sinn und Bedeutung +, 1892, in Aritmetica e logica, ed.
Geymonat, pag. 215-52) ma fu formulata come antinomia da Russell (s On Denoting
», 1905, ora in Logic and Knowledge, pag. 41-56). L’antino- mia risulta dal
fatto che due nomi sinonimi (aventi cioè lo stesso significato) debbono poter
essere NOME sostituiti l’uno all’altro senza che muti il significato e il
valore di verità del contesto. Ora « Sir Walter Scott» e «l’autore di Waverley»
sono nomi sino- nimi perciò sostituibili. Tuttavia se nella frase « Giorgio IV
domandò una volta se Scott era l’au- tore di Waverley» si sostituisce ad
«autore di Waverley » l’altro N. sinonimo «Scott» la frase risulta falsa perchè
diventa: « Giorgio IV domandò una volta se Scott era Scott ». Questa antinomia
ha avuto nella logica contem- poranea due soluzioni principali: la prima della
quale consiste essenzialmente nel ridurre la denota- tazione a una descrizione
in termini direttamente o indirettamente riducibili a esperienze elementari.
Questa soluzione è stata proposta da Russell (che la espose nel saggio citato e
poi nel primo vol. dei Prin- cipia Mathematica, 1910). Secondo Russell, la
frase « Giorgio IV, ecc. » può significare: a) « Giorgio IV desiderava sapere
se un uomo e solo un uomo scrisse Waverley e se Scott fu quell'uomo +; oppure
può significare 5): « Un uomo e solo un uomo scrisse Waverley e Giorgio IV
desiderava sapere se Scott fu quell'uomo». In questo secondo caso « l’autore di
Waverley ricorre, dice Russell, in modo primario (primary occurrence) perchè
suppone che Giorgio IV ha una qualche diretta conoscenza di Scott. Nella prima
invece la frase ricorre in modo secondario nel senso che non suppone una
diretta conoscenza di Scott («On Denoting»?, Op. cif., pag. 72). Questa teoria
oltre a presupporre la differenza tra conoscenza diretta e conoscenza
indiretta, equivale a ridurre i nomi propri a nomi comuni e i nomi comuni a
nomi propri, cioè deno- tanti elementi ricavati dall’esperienza diretta. Teorie
simili a queste sono state date da Quine (Methods of Logic, 1950, $ 33; From a
Logical Point of View, 1953, cap. 1) e da altri. La seconda soluzione
dell’antinomia della rela- zione-N. è quella proposta dallo stesso Frege. Essa
consiste nel distinguere il significato (Bedeutunp, Meaning) come denotazione,
dal senso (Sinn, Sense). La denotazione è il riferimento del N. all’oggetto: «
Sir Walter Scott » e « l’autore di Waver/ey » hanno la stessa denotazione perchè
si riferiscono allo stesso oggetto. Il senso è invece, come diceva Frege, «
qualcosa che viene subito afferrato da chi conosca sufficientemente la lingua
(o in genere il complesso di segni) cui il N. proprio appartiene » (« Uber Sinn
und Bedeutung », $ 1; ed. ital. cit., pag. 219); sicchè due nomi possono avere
diversi sensi, pur riferendosi allo stesso oggetto. Questo è proprio il caso
delle due espressioni citate; e poichè è possibile comprendere il senso di un
N. senza cono- scere la sua denotazione, le domande del tipo di quella
attribuita a Giorgio IV significano una ri- chiesta di informazione concernente
l'identità delle NON CAUSA PRO CAUSA loro denotazioni. Questa soluzione è stata
ripetuta con varianti da Carnap (Meaning and Necessity, $ 31-32) e da Church
(/ntr. to Mathematical Logic, 1958, $ 01). E sembra una soluzione preferibile
perchè non esige particolari presupposti sulla natura del linguaggio. NOMINALE,
DEFINIZIONE. V. Derini- ZIONE. NOMINALISMO (lat. Nominalismus;
franceseNominalisme; ted. Nominalismus). La dottrina dei filosofi nominales o
nominalisti che costituirono una delle grandi correnti della Scolastica. I
termini nominalista (nominalis) o terminista (ferminista) furono usati solo al
principio del sec. xv (v. TER- MINIsMO). Ma già Ottone di Frisinga nella sua
cro- naca Sulle gesta di Federico (I, 47) affermava che Roscellino » fu il
primo nei nostri tempi a proporre in logica la dottrina delle parole
(sententiam vocum) ». AI principio del sec. x11 il N. veniva difeso da Abe- lardo
(v. UNIVERSALI); ma il suo trionfo nella Scolastica fu dovuto all’opera di
Guglielmo di Ochkam (1280-1349) che non per nulla fu detto Princeps Nominalium.
Così Ockham esprimeva la sua convinzione in materia: « Nessuna cosa fuori
dell’anima nè di per sè nè per qualcosa che le venga aggiunta, di reale o di
razionale, e comunque si consideri e si intenda, è universale: giacchè tanta è
l'impossibilità che una cosa fuori dell’anima sia in qualsiasi modo universale
(a meno che ciò non avvenga per convenzione come quando si considera universale
la parola ‘uomo’ che è singolare) quanta è l’impossibilità che l’uomo, per
qualsiasi considerazione o secondo qualsiasi essere, sia l’asino » (/n Sent.,
I, d. II, q.7 S-T). Dal punto di vista positivo, il N. ammette che l’universale
o concetto è un segno dotato della capacità di essere predicato di più cose. In
questo senso il concetto era già stato definito da Abelardo (v. UNIVERSALI,
DISPUTA DEGLI). Nel delineare una breve storia del N., a proposito di Nizolio,
Leibniz diceva che «sono nominalisti coloro che credono che, oltre le sostanze
singolari, non ci sono che i puri nomi e quindi eliminano la realtà delle cose
astratte e universali », e Leibniz faceva cominciare il N. così inteso da
Roscellino e includeva tra i nominalisti, oltre lo stesso Nizolio, anche
Tommaso Hobbes (De stilo philosophico Nizolii, 1670, Op., ed. Erdmann, pag.
69). Queste notazioni e inclusioni leibniziane sono state accettate dagli
storici della filosofia. In epoca più vicina a noi, il termine è stato ado-
perato per designare l’interpretazione convenziona- listica della fisica: per
es. Poincaré lo adoperava nei confronti di Le Roy(La science et l’hypothèse,
pag. 3). Qualche volta i logici moderni usano il termine per indicare la
dottrina che il linguaggio delle scienze 621 contiene solo variabili
individuali, i cui valori sono oggetti concreti e non già classi, proprietà e
simili (Quine, From a Logical Point of View, VI, 4 sgg.; CARNAP, Meaning and
Necessity, $ 10). NOMINALIZZAZIONE (ted. Nominalisie- rung). Husserl ha inteso
per «legge di N.» quella secondo la quale «ad ogni proposizione, ed a ogni
forma parziale distinguibile nella proposizione, corrisponde un elemento
nominale» (/deen, I, $ 119): il che significa, per es., che alla proposizione «
S è P» può corrispondere l’elemento unico nominale «l'essere P di S», nella
quale «esser P» può signi- ficare la simiglianza, la pluralità, ecc. NOMOLOGIA
(ingl. Nomology; franc. Nomo- logie; ted. Nomologie). Termine raramente usato
nella filosofia dell’800 per indicare la scienza della legislazione. Husserl ha
chiamato « N. aritmetica » la matematica universale (Logische Untersuchungen,
I, $ 64). NOMOTETICO (ted. Nomothetisch). Kant chiama N., cioè dante leggi, il
giudizio riflettente (v.) in quanto fornisce massime per l’unificazione delle
leggi naturali; ed esclude che sia nomotetico il giudizio trascendentale « che
contiene le condizioni per la sussunzione sotto categorie + e non fa che
«indicare le condizioni dell’intuizione sensibile sotto le quali può esser data
realtà (applicazione) ad un concetto dato » (Crit. del Giud., $ 69). Windel-
band ha chiamato nomotetiche le scienze naturali in contrapposto alle scienze
dello spirito o scienze storiche dette idiografiche (Préludien, 5* ediz., II,
pag. 145) (v. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE). NON (ted. Nicht). Secondo
Heidegger, il N. esprime la limitazione fondamentale dell’esistenza giacchè «
l’Esserci, essendo come poter essere, è sempre o nell’una o nell’altra
possibilità, ma N. è mai l’una e l’altra perchè, nel progetto esistentivo, ha
sempre rinunciato ad una » (Sein und Zeit, $ 58). Il N. esprime così
l’esclusione delle possibilità che è sempre implicita nella scelta di quelle
che l’Esserci (cioè l’uomo) fa entrare nel suo progetto. In questo senso Heidegger
parla del N. come della colpa fondamentale dell’esistenza: « L'idea formale
esisten- ziale del colpevole va quindi definita così: esser fondamento di un
essere che è determinato da un N., cioè esser fondamento di una nullità»
(/bid.). NON CAUSA PRO CAUSA (gr. cò ui altiov © atriov). Uno dei sofismi
enunciati da Aristotele (£/ .Sof., 5, 167b 21) che consiste nell’assumere come
causa (cioè come premessa) ciò che non lo è, donde segue una conseguenza
impossibile e l’apparente confutazione dell’avver- sario. È una fallacia che si
verifica specialmente nella riduzione all’assurdo. L'esempio fatto da
Aristotele è il seguente. Si voglia ridurre all’assurdo l’affermazione che
l’anima e la vita sono la stessa 622 NON-ENS cosa. Si procede così: la morte e
la vita sono con- trarie; la generazione e la corruzione sono contrari; ma la
morte è corruzione, quindi la vita è genera- zione. Ma ciò è impossibile,
perchè ciò che vive non genera ma è generato; quindi l’anima e la vita non sono
la stessa cosa. La fallacia qui consiste nell’eliminare la premessa: « Anima e
vita sono la stessa cosa» e sostituirla con l’altra « Morte e vita sono cose
contrarie». (Cfr. Pretro IsPANO, Summ. Log., 7.56-57; ARNAULD, Log., III, 19,
3; JuNGIUS, Log., VI, 12, 11; ecc.). NON-ENS LOGICUM. Così W. Hamilton chiamava
l’atto del pensiero negativo cioè il non pensare a niente di preciso, che
equivale a non pensare (Lectures on Logic, I, 2* ed., 1867, p. 76). NON IO
(ingl. Non Ego; franc. Non moi; tedesco Nicht Ich). Con questo termine Fichte
indicava il mondo della natura e in generale il mondo og- gettivo, in quanto è
posto dall’Io ma opposto al- l’Io stesso. « Non v’è nulla di posto
originariamente, tranne l'Io; e questo soltanto è posto assolutamente. Perciò
un’opposizione assoluta non può aversi se non ponendo qualcosa di opposto
all’Io. Ma ciò che è opposto all’Io è = Non-Io » (Wissenschafts- lehre, 1794, $
2, 9). NOOGONIA (ted. Noogonie). Come « sistema di N.» Kant ha designato la
dottrina di Locke, in quanto descrive la genesi dei concetti a partire
dall’esperienza (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi. Nota alle anfibolie dei
concetti della riflessione). NOOLOGIA (lat. Noologia; franc. Noologie; ted.
Noologie). Termine inventato da Calov nei suoi Scripta philosophica (1650) per
indicare una delle due scienze ausiliarie della metafisica [l’altra è la
gnostologia (v.)] e precisamente quella che ha per oggetto le funzioni
conoscitive. Il termine è stato ripreso nel secolo successivo da Crusius e
altri, nello stesso senso o in sensi analoghi. Kant chiamò noologisti coloro
che, come Platone, riten- gono che le conoscenze pure derivano dalla ragione,
in contrapposizione agli empiristi che le ritengono derivate dall’esperienza
(Crit. R. Pura, Dottr. Trasc. del Metodo, cap. IV). Ampère propose di chiamare
noologiche tutte le scienze dello spirito (Essai sur la philosophie des
sciences, 1834). Nes- suno di questi usi ha avuto fortuna. NOOSFERA (franc.
Noosphère). Termine ado- perato da Le Roy per indicare il dominio dell’evo-
luzione propriamente umana, perciò contrapposto al dominio dell’evoluzione
biologica (biosfera) e tale che si compie solo con l’aiuto di mezzi spiri-
tuali: l'industria, la società, il linguaggio, l’intelli- genza, ecc. (L’exigence idéaliste et le fait
de l’évo- lution, 1927, pag. 195-96). NORMA (lat. Norma; ingl. Norm; franc. Norme; ted. Norm). Una
regola o criterio di giudizio. LOGICUM La N. può essere anche costituita da un
caso con- creto, un modello o un esempio; ma il caso concreto, il modello o
l’esempio valgono come N. solo se possono essere utilizzati come criteri di
giudizio degli altri casi, o delle cose cui l’esempio o il modello fanno
riferimento. La N. si distingue dalla massima (v.) perchè non è, come la
massima (nel significato 2) solo una regola di condotta, ma può essere regola o
criterio di qualsiasi operazione o attività. E si distingue dalla /egge (v.)
perchè può mancare del carattere costrittivo della legge stessa; per es., una
N. del costume diventa legge quando viene resa coattiva da una pubblica
sanzione. La N. è concetto recente, nato nell’ambito del neocriticismo tedesco.
È un concetto che si è formato attraverso la distinzione e la contrapposizione
tra il dominio empirico del farto (cioè della necessità naturale) e il dominio
razionale del dover essere (cioè della necessità ideale). La N. non deriva la
sua validità dal fatto che venga o non venga seguita o applicata; ma solo dal
dover essere che esprime. I filosofi della scuola del Baden (Windelband e
Rickert) hanno insistito su questo carattere della norma. Ha detto Windelband:
« Il sole della neces- sità naturale splende ugualmente sul giusto e sull’in-
giusto. Ma la necessità che avvertiamo nella validità delle determinazioni
logiche, etiche ed estetiche, è una necessità ideale, che non è quella del
Mussen e del non-poter-essere-altrimenti, ma quella del Sollen ed del
poter-essere-altrimenti » (Préludien, 43 ediz., 1911, II, pag. 69 sgg.). In
questo senso ha inteso la N. anche Kelsen che ha posto il concetto di essa alla
base della sua teoria del diritto. « La N., egli ha detto, è l’espressione
dell’idea che qualcosa debba accadere, e specialmente che un individuo debba
comportarsi in una data maniera. Nulla è detto dalla N. sull’effettivo
comportamento dell’individuo in questione » (Genera! Theory of Law and State,
1945, I, C, a, S; trad. ital., pag. 36). In
questo senso si è parlato e si parla di una «trascen- denza» della N. nei
confronti delle situazioni che essa regola: con tale trascendenza si è
insistito (talora op- portunamente) sull’indipendenza del valore della N. dalla
sua effettiva applicazione. Per es. non c'è dubbio che le norme dirette allo
scopo di ottenere un buon prodotto agricolo o industriale, quali sono
determinate da apposite discipline scientifiche e tecnologiche, rimangono
valide indipendentemente dal fatto che esse siano ignorate o trascurate nella
maggior parte dei casi. Questa indipendenza tuttavia non significa che le norme
abbiano un'origine misteriosa o inaccessibile o siano depositate in qualche
regione dell’essere che abbia solo un riferimento indiretto e lontano con i
campi del- l’esperienza umana che esse mirano a regolare. Le norme esprimono,
abitualmente, la disciplina NOUMENO più opportuna di determinate attività, in
vista di dare a tali attività la maggiore efficienza e preci- sione possibile.
Se quindi esse non sono sempre generalizzazioni di quel che già è in atto o che
già si fa, perchè possono anche ispirarsi ad un ordina- mento del tutto
diverso, non sono neppure estranee ai campi dell’attività umana che mirano a
regolare. In questo senso Dewey diceva: «La differenza che si suole registrare
tra i modi in cui gli uomini pensano e quelli in cui devono pensare è del tutto
simile a quella che corre fra la buona e la cattiva coltivazione o la buona e
la cattiva pratica medica. Gli uomini pensano come non devono quando seguono
metodi d’indagine che l’esperienza delle indagini passate mostra non adatti a
raggiungere il fine prefissato» (Logic, cap. VI; trad. ital., pag. 156). Da
questo punto di vista una N. è sem- plicemente una formula tecnica per lo
svolgimento efficace di un’attività determinata. Si possono pertanto
distinguere due concetti di N.: 1° la N. come criterio infallibile per il rico-
noscimento o la realizzazione di valori assoluti. Questo è il concetto che è
stato elaborato dalla filosofia dei valori (v.) e che viene tuttora accettato
dalle dottrine assolutistiche; 2° la N. come proce- dura che garantisce lo
svolgimento efficace di un’attività determinata. NORMALE (ingl. Normal; franc.
Normal; te- desco Normal). 1. Ciò che è conforme alla norma. 2. Ciò che è
conforme a un’abitudine o a una consuetudine o a una media approssimativa o ma-
tematica o all’equilibrio fisico o psichico. In questo senso si dice, ad es.,
«condurre una vita N.» per dire una vita conforme alle consuetudini di un certo
gruppo sociale; o « ha un peso N.» o «una altezza N.» per dire che ha il peso o
l’altezza corrispondenti alla media di quelli degli individui della stessa età,
razza, ecc.; o «una mente N.» o «un’organismo N.» per indicare la buona salute
mentale o fisica. Questo uso del termine non è del tutto improprio: perchè,
sebbene le norme cui esso fa riferimento siano ottenute da generalizzazioni
empiriche, esse sono tuttavia adoperate come criterio di giudizio e
stabiliscono quindi una « normalità ». NORMATIVO (ingl. Normative; franc. Nor-
matif; ted. Normativ). L'aggettivo ha due sensi principali, che corrispondono
ai due sensi che sono attribuiti alla parola norma e cioè: 1° è N. ciò che
prescrive la regola infallibile per raggiungere la verità, la bellezza, il
bene, ecc., cioè un bene assoluto; 2° è N. una formula tecnica che garan- tisce
lo svolgimento efficace di una certa attività. Nella seconda metà dell’800 sono
state dette N. nel senso 1° le scienze filosofiche speciali cioè la logica,
l’etica e l’estetica, alle quali si attribuì il compito di prescrivere le norme
cui il pensiero, la 623 volontà e il sentimento avrebbero dovuto adeguarsi per
raggiungere la verità, il bene e la bellezza (Win- delband, Rickert, Wundt,
Simmel, Husserl, ecc.). La qualifica di N. è stata in questo senso respinta
dalle discipline anzidette (v. le voci relative). Non si può tuttavia negare
che esistano discipline N. nel senso 2°, cioè nel senso di formulare, ipoteti-
camente, tecniche atte a garantire lo svolgimento efficace di determinate
attività. NOTA (lat. Nota; ingl. Note; franc. Note; ted. Merkmal). Segno o
caratteristica di un og- getto. Sul principio: «la N. di una N. è una N. della
cosa stessa» che Kant volle sostituire al dictum de omni et nullo come fondamento
del sillogismo v. SiLLOGISMO. NOTAZIONE (ingl. Noration; franc. Notation; ted.
Noration). Si chiamano con questo termine i simboli primitivi della logica. La
più comune clas- sificazione di tali simboli è quella che li divide in quattro
classi e cioè costanti, variabili, connettivi e operatori. Questi due ultimi
sono talora detti rispettivamente operatori e astrattori (v. le singole voci:
CONNETTIVO; COSTANTE; OPERATORE). NOTAZIONE (gr. Etvpororia; lat. Noratio;
ingl. Notation; franc. Notationj ted. Notation). In logica, l'argomento (/ocus)
derivato dall’etimologia del nome; come quando Platone fa derivare la voce séma
(corpo) da séma (tomba) come argo- mento che il corpo è la tomba dell’anima
(Crar., 400 c). Questo tipo di argomento è chiarito da Cicerone (7op., 8, 35)
ed è ripreso dai Logici del ’600 (JunGIUS, Log., V, 25). NOUMENO (gr.
voovpevov; ingl. Noumenon; franc. Nouméne; ted. Noumenon). Questo termine è
stato introdotto da Kant per indicare l’oggetto della conoscenza intellettuale
pura, che è poi la cosa in sè (v.). Nella dissertazione del 1770 Kant dice:
«L'oggetto della sensibilità è il sensibile; ciò che non contiene nulla che non
possa essere conosciuto dall’intelligenza è l’intelligibile. Il primo dalle
scuole degli antichi era detto fenomeno, il secondo N.» (De mundi sensibilis,
ecc., $ 3). In realtà la parola N. è talora usata dai filosofi greci, ma non in
con- trapposto con fenomeno, bensì talora in contrap- posto con sensibile come
in Platone: « Se intellezione e opinione vera sono due cose diverse, allora ci
saranno senza dubbio enti che, quantunque non siano sensibili per noi, sono
soltanto pensati» (Tim., 51 d); e talora in contrapposto con l’oggetto
direttamente afferrabile, come negli Stoici: « La comprensione si produce,
secondo gli Stoici, 0 con la sensazione e allora è comprensione di cose bianche
o nere o ruvide o lisce o col ragionamento e allora è comprensione di nessi
dimostrativi come quando si dimostra che gli dèi esistono e che eser- citano la
provvidenza. Delle cose pensate invece 624 alcune sono pensate secondo
l’occasione, altre se- condo la somiglianza, altre secondo la composi- zione e
altre secondo contrarietà» (Dioa. L., VII, 52). Più frequente è negli antichi
(soprattutto in Platone, in Aristotele e nei Neoplatonici) l’uso del termine
intelligibile (vontéc) che però viene contrapposto non a fenomeno, ma a
sensibile (cfr., ad es., ARISTOTELE, Et. Nic., X, 4, 1174 b 34). NOZIONE (gr.
tota, rpéinyic; lat. Notio; ingl. Nozion; franc. Notion; ted. Notion). Due si-
gnificati fondamentali: uno generalissimo, per cui N. è qualsiasi atto
d’operazione conoscitiva; l’altro specifico, per cui è una speciale classe di
atti od operazioni conoscitive. Cicerone, che introdusse il termine, lo fa
corri- spondere sia ad tyvorx che ha significato genera- lissimo, sia a
rp6Anyis che è l’anticipazione, cioè una specie particolare e privilegiata di
conoscenze (Top., 7, 31). Nel Medioevo Giovanni di Salisbury, adoperò il
termine nel senso generale, riferendolo appunto al greco toa (Meral., II, 20);
ed in senso generalissimo lo adoperava anche Jungius, che intendeva per N. «la
prima operazione del nostro intelletto cioè quella con la quale espri- miamo
una cosa con un’immagine » (Log. Hambur- gensis, 1638, Prol., 3). Locke invece
intendeva restringere il termine a quelle idee complesse « che sembra abbiano
origine e costante esistenza più nel pensiero degli uomini che nella realtà
delle cose » (Saggio, II, 22, 2); mentre Leibniz osservava che « molti
applicano la parola N. a ogni sorta di idee o di concezioni, sia a quelle
originali, sia a quelle derivate » (Nouv. Ess., II, 22, 2). Berkeley a sua
volta restringeva il termine a indicare la conoscenza che lo spirito ha di se
stesso e della relazione tra le idee: conoscenza che non è a sua volta un’idea
(Princ. of Human Knowledge, I, $ 27, 89, 140, ecc.; cfr. la nota al $ 27 della
edizione dei Principles, in Works, ed. T. E. Jessop, II, pag. 53). Anche Kant
dava del termine un signi- ficato ristretto, intendendo per esso «il concetto
puro in quanto ha la sua origine unicamente nel- l’intelletto » e riservando il
termine « rappresenta- zione » per il significato generale di N. (Cris. R.
Pura, Dial. trasc., I, sez. 1). Viceversa Wolff aveva affermato: «La
rappresentazione delle cose nella mente è la N., da altri detta idea» (Lop., $
34). Tutti i significati specifici proposti per il termine non hanno avuto
fortuna; gli è rimasto ora quasi esclusivamente il significato generico di
operazione o atto o elemento conoscitivo in generale. NOZIONI COMUNI (gr.
xorval Evora; latino Notiones communes). Sono le anticipazioni (v.) degli
Stoici, alle quali spesso si è fatto riferimento nella storia della filosofia:
cfr., ad es., SPINOZA, Etàh., II, 38, Cor.; LEIBNIZ, Nouv. Ess., Avant-propos;
ecc. NOZIONE NULLA (gr. undéy, tò ud 8v; lat. Nihil; ingl. No- thing,
Nothingness; franc. Néant; ted. Nichts). Due concezioni del N. si sono
intercalate nella storia della filosofia: 1° il N. come non-essere; 2° il N.
come alterità o negazione. Queste due concezioni hanno i loro capistipite
rispettivamente in Parmenide e Platone. Parmenide affermò che «il N. non è»
(Fr., 6, 2) e che «non si può nè conoscere nè esprimere » (/bid., 4); Platone,
decidendosi a una specie di « parricidio » verso Parmenide (Sof., 242 d),
ammise l’essere del non-essere e definì il N. come alterità. « Risulta, egli
scrisse, che c’è un essere del non-essere, così per il movimento come per tutti
i generi, giacchè in tutti i generi l'alterità, che rende ciascuno di essi
altro da sè, fa un non-essere dell’essere di ciascuno: sicchè correttamente
diremo che tutte le cose non sono ed insieme sono e par- tecipano dell’essere »
(/bid., 256 d). Sicchè mentre per Parmenide il N. è assoluto non-essere quindi
non è pensabile nè esprimibile in alcun modo, per Platone il N. è l’alterità
dell’essere cioè la nega- zione di un essere determinato (per es., del movi-
mento) e l’indefinito riferimento a un altro genere dell’essere (a ciò che non
è movimento). 1° Alla tesi di Parmenide, portava un appoggio Gorgia affermando
che «il N. non è perchè se esistesse sarebbe insieme non-essere ed essere: non-
essere in quanto pensato come tale, essere in quanto sarebbe non-essere » (Fr.,
3, 26). Il N. definito da queste proposizioni è il N. assoluto: quella « certa
idea negativa del niente cioè di ciò che è infinita- mente lontano da ogni
sorta di perfezione » di cui parlava Cartesio, opponendola a Dio che include
tutte le perfezioni (Méd., IV); o quel «concetto vuoto senza oggetto » che è la
negazione del « più alto concetto da cui si suol prendere le mosse in una
filosofia trascendentale » cioè dell’oggetto, di cui parlava Kant (Crif. R.
Pura, Anal. dei Princ.; Nota alla Anfibolia dei concetti della riflessione).
Del N. così inteso è stato fatto un uso preva- lentemente teologico e metafisico:
da un lato è servito a definire Dio, quando si è voluto insistere sulla sua
eterogeneità dal mondo o a definire la materia quando si è voluto insistere
sulla sua ete- rogeneità dalle cose; dall'altro, è servito a intro- durre
nell'essere una condizione o un elemento che ne spiegasse certi caratteri. Il
primo uso ricorre frequentemente nella teo- logia negativa. Già Scoto Eriugena
aveva identifi- cato Dio col N. perchè Dio è Superessentia (cioè al di sopra
della sostanza) e perchè il niente è, dall'altro lato, «la negazione e
l’assenza di ogni essenza o sostanza, anzi di tutte le cose che sono state
create in natura » (De divis. nat., III, 19-21). Questa dottrina viene
frequentemente ripetuta nel Medioevo: come N. o «N. del N.» o « quintes- NULLA
senza del N.» viene indicato Dio nel Zoher, uno dei libri della Kabala (cfr.
SfRouYA, La Kabbale, Paris, 1957, pag. 322). Un « N. superessente » Dio è detto
da Maestro Eckhart (Op., ed. Pfeiffer, pag. 139); e «un N. eterno» da Bòhme
(My- sterium Magnum, I, 2). In tutte queste espressioni il N. esprime la
negazione totale delle forme d’es- sere conosciute, ritenute inadeguate alla
natura di Dio. AI secondo uso del concetto di N. hanno fatto ricorso i
Neo-platonici per accentuare la differenza tra la materia e le cose cioè tra il
carattere informe dell’una e le determinazioni delle altre. Così per Plotino la
materia è il non-essere perchè è priva di corporeità, di anima, di
intelligenza, di vita, di forma, di ragione, di limite, di potenza: cioè di
tutti i caratteri che l’essere possiede. « Bisogna dire, dice Plotino, che essa
è non-essere ma non nel senso del movimento che non è la quiete o
reciprocamente, bensì è veramente il non-essere, un’immagine o fantasma della
massa corporea e una aspirazione all’esistenza » (Enn., II, 6, 7. Nello stesso
senso la materia è caratterizzata da S. Agostino: « Se si potesse dire che il
N. è e non è qualcosa, direi che questa è la materia » (Conf., XII, 6, 2). Il
terzo uso è proprio della filosofia moderna ed è diretta a risolvere l’essere
nel divenire o la pos- sibilità in impossibilità. AI primo scopo è diretta la
concezione del N. sostenuta da Hegel. Egli cor- rettamente osserva che il
vecchio detto Ex nihilo nihil fit non esprime altro che la negazione del
divenire, e contro questa negazione afferma l’in- dissolubilità e la
convertibilità reciproca dell’essere e del nulla. « Dell’essere e del N., egli
scrisse, è il caso di dire che in nessun luogo, nè in cielo nè in terra, c'è
qualcosa che non contenga in sè tanto l’essere quanto il nulla. Senza dubbio,
in quanto si parla di un certo qualcosa e di qual- cosa di reale, quelle
determinazioni non si trovano più nella loro completa verità, in cui stanno
come essere e come N., ma vi si trovano in una determinazione ulteriore e intese,
per es., come positivo e negativo... Ma il positivo e il negativo contengono il
primo l’essere, il secondo il N. come loro base astratta. Così perfino in Dio
la qualità, cioè l’attività, la creazione, la potenza, ecc., contiene
essenzialmente la determinazione del nega- tivo; coteste qualità consistono
nella produzione di un altro » (Wissenschaft der Logik, I, sez. I, cap. I, C,
nota I; cfr. Enc., $ 87). La caratteristica di una dottrina siffatta è il
teorema che il N. è il fonda- mento della negazione, non già la negazione del
nulla. Questo teorema è espresso da Hegel nel passo citato dicendo che il
positivo e il negativo contengono come loro base astratta il nulla. Nella 49) —
ABBagNnavO, Dizionario di filosofia. 625 filosofia contemporanea lo stesso teorema
è espli- citamente messo innanzi da Heidegger. «È il N., egli dice, che è
l'origine della negazione, non viceversa » (Was ist Metaphysik?, 1949, 5*
ediz., pag. 33). Da questo punto di vista, il N. è «la ne- gazione radicale
della totalità dell’esistente » (/bid., 1949, 5* ediz., pag. 27), cioè è N.
assoluto. Ma in- sieme costituisce il fondamento dell’essere e preci- samente
dell’essere dell’uomo, in quanto questo essere è instabile (hinf@llie).
L’instabilità dell’es- sere dell’uomo è vissuta nella situazione emotiva
dell’angoscia. « L’esistente non è affatto distrutto dall’angoscia in modo che
rimanga, così, il nulla. Come potrebbe accadere diversamente, dato che
l’angoscia si trova nella più completa impotenza di fronte all’esistente nella
sua totalità? In realtà il N. si rivela proprio con e nell’esistente in quanto
questo ci sfugge e si dilegua nella sua totalità » (Ibid., 1949, 5* ediz., pag.
31). Questo significa che il N. è vissuto dall'uomo in quanto l’essere del-
l’uomo (l'esistenza) non è e non può essere rurto l’essere: l’essere dell’uomo
consiste nel non essere l’essere nella sua totalità, cioè nel N. dell’essere.
Perciò Heidegger dice che il N. è lo stesso annul- lamento (« È proprio il N.
stesso che annulla»; Ibid., 5* ediz., 1949, pag. 31) e che esso è «la con-
dizione che rende possibile, nel nostro esserci, la rivelazione dell’esistente
come tale » (Ibid., 53 ediz., 1949, pag. 32). Il problema e la ricerca dell’es-
sere nascono dal fatto che l’uomo non è tutto l’essere, cioè che il suo essere
è il N. della totalità dell’essere. Sartre sostituisce alla nozione di esi-
stenza quella di coscienza ma continua a intendere per essa l’essere dell’uomo
che è il N. dell’essere: finisce così col ripetere i concetti di Heidegger. «
Il N. non è, egli dice, il N. è srato; il N. non si an- nienta, il N. è sfaro
annientato. Resta dunque che deve esistere un essere — che non potrebbe essere
l’in sè — che ha per proprietà di annullare il N., di reggerlo col suo essere,
di sostenerlo perpetua- mente con la sua stessa esistenza: un essere per il
quale il N. viene alle cose» (L’étre er le néant, pag. 58). Quest’essere è la
coscienza che, essendo costituita da possibilità, è sempre aperta verso il
nulla. « Una possibilità resta sempre aperta che esso si riveli come un nulla.
Ma dal fatto stesso che si prospetti che un esistente possa sempre risolversi
come N., ogni questione suppone che si realizzi un arretramento nientificatore,
in rapporto al dato, e diviene una semplice presentazione, oscillante tra
l'essere e il N.» (/bid., pag. 59). In questo modo l’uomo ha la possibilità di
circoscrivere « un N. che lo isoli » cioè di mettersi fuori dell’essere, per
met- terlo in questione e sottrarsi alla sua totalità. È chiaro ciò che queste
speculazioni sul N. intendono suggerire: l’essere proprio dell'uomo, in quanto
626 costituito da possibilità, che come tali possono non realizzarsi, e che in
ogni caso escludono l’essere completo o totale, e manifestandosi quindi in modo
eminente nel dubbio, nel problema, nella progetta- zione, ecc., è il N. del
rutto dell’essere. Si tratta cioè di speculazioni che vogliono definire il
finito (la limitazione propria dell’esistenza umana) ser- vendosi di due
infiniti: il tutto e il nulla. 2° La seconda concezione fondamentale del N., il
cui capostipite è Platone, considera il N. come alterità o negazione. Per
questa concezione non c’è un « N. assoluto » cioè un N. che sia, nella
terminologia kantiana, la negazione di ogni og- getto. In questa terminologia
il N. è soltanto pri- vazione di qualche cosa: come l’ombra o il freddo (nihil
privativum) o un ente immaginario (ens imaginarium) o l’oggetto di un concetto
che contraddice se stesso (nihil negativum) (Crit. R. Pura, Anal. dei Princìpi,
Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). Da questo punto di vista
il N. è un oggetto (nel senso più gene- rale della parola); e c’è una nozione
del N., a differenza di ciò che pensava Wolff quando definiva il N. come «ciò a
cui non corrisponde alcuna no- zione » (Ont., $ 57). In questo senso aveva
ragione il vecchio Fredegiso di Tours (sec. 1x) ad affermare che il N. è
qualcosa; giacchè, come egli diceva, «se qualcuno dirà che gli sembra che non
sia N., questa stessa negazione lo spingerà a riconoscere che il N. è qualcosa
dal momento che dire: ‘ Mi sembra che il N. sia N.” è equivalente a dire ‘ Mi
sembra sia qualcosa ’» (De Nihilo et Tenebris, in P. L., 105, col. 751). Ciò
significa che, dal momento che si parla del N., sia pure per dire che è N., il
N. è un qualcosa di cui si parla, cioè un oggetto in gene- rale. Considerazioni
di questo genere possono sem- brare puramente dialettiche, ma conservano il
loro valore anche nella logica contemporanea (cfr. GEYMONAT, Saggi di filosofia
neorazionalistica, Torino, 1953, pag. 101 sgg.). Questo concetto del N. non ha
tuttavia avuto molta fortuna tra i filosofi, e se ne intende anche la ragione:
non si presta a un uso teologico o metafisico. La migliore illu- strazione di
esso nella filosofia contemporanea è quella data da Bergson: « L’idea di
abolizione o di N. parziale si forma nel corso della sostituzione di una cosa
ad un’altra dal momento che tale sostituzione è pensata da uno spirito che
preferirebbe mantenere l’antica cosa al posto della nuova o che almeno
concepisce questa preferenza come possibile. Essa implica dal lato soggettivo
una preferenza, dal lato oggettivo una sostituzione, e non è altro che una
combinazione o piuttosto una interferenza tra il sentimento di preferenza e
questa idea di sostituzione» (Év. créatr., 88 ediz., 1911, pag. 305-06). Ciò
vuol dire che si dice che « non c’è NULLIBISTI N.» quando non c’è la cosa che
ci aspettavamo di trovarci o che poteva esserci, e che l’idea del N. assoluto è
una « pseudo idea », altrettanto assurda di quella di un circolo quadrato
(/bid., pag. 307). Si può insistere un po’ meno sull’aspetto soggettivo di
questo concetto del N. e di più sull’aspetto oggettivo; si può dire, ad es.,
che il N. esprime la negazione o l’assenza di una possibilità determinata o di
un gruppo di possibilità, senza ricorrere alla no- zione di preferenza o di
sostituzione; ma l’analisi di Bergson rimane sostanzialmente corretta sia nella
sua tesi positiva sia in quella negativa. Essa è d'altronde conforme al
concetto che della negazione hanno i logici contemporanei; per es. a quello che
Carnap espose in una critica rimasta famosa al concetto del N. di Heidegger,
concetto in cui egli vide riassunte tutte le magagne della metafisica. Carnap
affermò allora che la sola nozione di N. logicamente corretta è la negazione di
una possibilità determinata; che dire « Non c’è N. fuori » significa «Non c’è
qualcosa che sia fuori» «— (Fx) x è fuori» (* Ùberwindung der Metaphysik», in
Erkenntnis, II, 1931, pag. 229 sgg.). Poichè la negazione che qualcosa sia
fuori implica che qualcosa poteva esser fuori, la negazione è, in questo senso,
l’esclu- sione di una possibilità determinata. NULLIBISTI (ingl. Nullibists;
ted. Nullibisten). Così Henri Moore chiamò coloro che credono che l’anima non
occupi spazio e non abbia perciò una sede determinata nel corpo (Enchiridion
Metaphysicum, 1671, I, 27, 1). NUMERO (gr. &piduéc; lat. Numerus; inglese
Number; franc. Nombre; ted. Zahl). Nella storia di questo concetto si possono
distinguere quattro fasi concettuali diverse che hanno dato luogo a quattro diverse
definizioni di esso, e precisamente: 1° la fase realistica; 2° la fase
soggettivistica; 3° la fase oggettivistica; 4° la fase convenzionalistica. 1°
La fase realistica è caratterizzata dalla tesi che il N. è un elemento
costitutivo della realtà; della realtà in quanto accessibile, non ai sensi, ma
alla ragione. Fu questa la tesi propria dei Pita- gorici, i quali credevano,
secondo la testimonianza di Aristotele, che « le cose sono esse stesse numeri
», cioè « composte di numeri come di loro elementi + (Mer., XIV, 3, 1090a 21).
A questa credenza è connessa la definizione del N. come « un sistema di unità »
che fu propria dei Pitagorici (STOBEO, Ecl., I, 18): una definizione sulla
quale si modellò quella stessa di Euclide (« moltitudine di unità +, Z7., VII,
2) e che è rimasta per molto tempo a fondamento delle matematiche. A sua volta
Platone riteneva che il N. si trovasse dovunque ci fosse un ordine, cioè un
limite dell’illimitato. Tra la molteplicità illi- mitata (per es. dei suoni
vocali) e l’unità assoluta, il N. si inserisce come un limite (per es. la
distin- NUMERO zione ed enumerazione delle lettere dell’alfabeto): perciò si
trova sempre dove c’è ordine ed intelli- genza (Fil., 18a sgg.). Dall’altro
lato, il numero in questo senso non è legato a qualcosa di visibile o di
tangibile: è perciò diverso dal numero di cui si avvale l’uomo nei suoi compiti
pratici (Rep., 525 d). Con questa tesi (che non è quella dei pla- tonici
pitagoreggianti che consideravano le idee come numeri; cfr. ARIST., Met., XIV,
3) è sostan- zialmente d’accordo lo stesso Aristotele. «Le entità matematiche,
egli dice, non sono sostanze più dei corpi; precedono logicamente, ma non
nell’esistenza, le cose sensibili e non possono esistere
separatamente. Ma dal momento che non
possono neppure risiedere nelle cose sensibili, o non debbono essere affatto o
devono essere in qualche modo speciale, che non è l’esistenza assoluta» (Mer.,
XIII, 3, 1077b 12). Questo modo d'’esistenza speciale proprio delle entità
matematiche è definito dalle stesse proposizioni matematiche: « È stretta-
mente vero, dice Aristotele, che ci sono entità matematiche e che sono tali
quali le matematiche dicono che esse sono » (/bid., XIII, 3, 1077 b 31).
Aristotele intende dire, che le entità matematiche hanno un’esistenza analoga
alle entità della fisica, per es. al movimento: sono astratte dalle cause
sensibili ma non sono separabili da esse. Da questo punto di vista, il numero è
« una pluralità misurata o una pluralità di misura»; e l’unità non è un N. ma
misura del N. (Mer., XIV, 1, 1088a 5): una definizione la quale ripete quella
platonica, e anticipa quella euclidea già ricordata. 2° La seconda fase
concettuale della nozione di N. si può far cominciare con Cartesio. «Il N. che
consideriamo in generale, egli disse, senza riflettere su alcuna cosa creata,
non esiste fuori del nostro pensiero come non esistono tutte le altre idee
generali che gli Scolastici comprendono sotto il nome di universali » (Princ.
Phil., I, 58). Il N. è in altri termini, un’idea, un atto o una manifestazione
del pensiero. La definizione che ne risulta è quella di operazione: il N. è
un’opera- zione di astrazione eseguita sulle cose sensibili. Questo concetto
del numero si trova ripetuto molte volte nella filosofia moderna. Hobbes pose
il N. tra le cose « non esistenti » che sono soltanto «idee od immagini» (De
Corp., VII, $ 1). Locke vede nel N. un’idea complessa e precisamente un «modo
semplice ottenuto mediante la ripetizione dell’unità » (Saggio, II, 16 2); e
nello stesso senso Leibniz dice che il N. è un’idea adeguata o compiuta cioè «
un’idea così distinta che tutti i suoi ingredienti sono distinti» (Nouv. Ess.,
II, 31, 1). Berkeley afferma che il numero «è interamente la creatura dello spirito
» (Princ. of Human Knowledge, I, 12). Newton afferma che per N. bisogna
intendere 627 «non tanto la moltitudine delle unità quanto il rapporto tra la
quantità astratta di una qualità ed una quantità dello stesso genere che si
assume come unità» (Arithmetica Universalis, cap. 2). Una definizione analoga a
questa è data da Wolff secondo la quale «il N. in genere ha con l'unità la
stessa relazione che una retta qualsiasi può avere con una retta data » (Ont.,
$ 406). Questa definizione, come quella di Newton, fa del N. l’operazione con
cui si stabilisce un rapporto di misura. Kant non faceva che esprimere lo
stesso concetto generale affermando che il N. è uno scherma (v.) e precisamente
che esso è «la rappresentazione che comprende la successiva addizione di uno a
uno (omogenei) » (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi, cap. l). La novità del
concetto kantiano è che il N. non è un’operazione empirica cioè effettuata sul
materiale sensibile ma un’operazione puramente intellettuale che opera sul
molteplice dato dall’in- tuizione pura (del tempo) il quale è assoluta- mente
omogeneo. Questo fa del N. qualcosa di indipendente dall’esperienza e dotato di
un genere di validità che non è quella empirica; ma il N. è pur sempre
un’operazione del soggetto. Mentre questa concezione kantiana veniva
ripresentata numerose volte nella filosofia dell’800, Stuart Mill ritornava al
concetto del N. come operazione empirica di astrazione. « Tutti i numeri, egli
diceva, devono essere numeri di qualcosa: non ci sono numeri in astratto ». Pertanto
i numeri sono prodotti da una «induzione reale, da una inferenza reale da fatti
a fatti» e tale induzione è nascosta soltanto dalla sua natura comprensiva e
dalla conseguente generalità del linguaggio cui mette capo (Logic, II, 6, 2).
Le posizioni di Kant e di Stuart Mill rimangono in qualche modo tipiche per
questa fase soggettiva del concetto di N.: il N. è una pura operazione
intellettuale per Kant; è una genera- lizzazione empirica per Stuart Mill; in
ogni caso appartiene alla sfera della soggettività. All’ambito di questa
concezione del N. appartengono le dottrine di Cantor e Dedekind. Per Cantor il
N. è fondato sulla facoltà del pensiero di aggruppare gli oggetti e di astrarre
dalla loro natura e dal loro ordine, dando così luogo al N. cardinale, o
soltanto dalla loro natura, dando così luogo al N. ordinale. Dedekind a sua
volta fondò il concetto di N. sulla operazione di appaiare o accoppiare le cose
insieme. Per quanto matematicamente feconde, queste nozioni mantengono il
concetto di N. nell’ambito della soggettività. 3° La terza fase concettuale
della nozione di N. cioè quella secondo la quale il N. è oggettivo ma non reale
fu iniziata dallo scritto di Frege sui Fondamenti dell’aritmetica (1884). Frege
riconosceva al N. il carattere concettuale ma col carattere con- 628 cettuale
gli riconosceva anche l’oggettività. Ciò in primo luogo esclude che il N. sia
un’operazione o una realtà psicologica, un’idea nel significato settecentesco
del termine: «Il N. non costituisce un oggetto della psicologia né può
considerarsi come un risultato di processi psichici, più che non possa
considerarsi tale il Mare del Nord », egli dice. «Io faccio una netta
distinzione fra ciò che è ogget- tivo e ciò che è palpabile, reale e occupa uno
spazio. Per es. l’asse terrestre e il baricentro del sistema solare sono
oggettivi eppure non direi che sono reali come lo è la terra » (Die Grundlagen
der Arith- metik, $ 26; trad. ital., pag. 70-71). La matematica aveva già
stabilito l’insufficienza della definizione di N. come collezione di unità:
questa definizione infatti porterebbe ad escludere che 0 ed 1 siano numeri (e
Aristotele riconosceva la cosa per ciò che riguarda l’1; Mer., XIV, 1, 1088 a
5). Frege assume come base della definizione di numero l'estensione (v.) del
concetto e assume di dire che «il concetto F è ugualmente numeroso del concetto
G ogni qualvolta esiste la possibilità di porre in corrispondenza biunivoca gli
oggetti che cadono sotto G e quelli che cadono sotto F». Posto ciò, dà del
numero la definizione seguente: «Il N. naturale che spetta al concetto F non è
altro che l’estensione del concetto ‘egualmente numeroso ’ ad F+» (/bid., $ 68;
pag. 134). Questa definizione di Frege è stata riespressa da Russell in termini
di classi anzichè di concetti. Dice Russell: « Quando si ha una relazione di
termine a termine fra tutti i ter- mini di una collezione e tutti i termini di
un’altrdiciamo che le due collezioni sono simili. Noi pos- siamo allora vedere
che due collezioni simili hanno lo stesso N. di termini e definire il N. di una
colle- zione data come la classe di tutte le collezioni simili ad essa. Ne
risulta la seguente definizione formale: ‘il N. dei termini di una classe data
si definisce come la classe di tutte le classi simili alla classe data *» (Our
Knowledge of the External World, 3* ediz., 1926, cap. 7; trad. franc., pag.
163). La definizione di Russell, che fu posta alla base sia dei Principles of
Mathematics (1905) sia dei Principia Mathematica che egli pubblicò nel 1910 in
collabo- razione con Whitehead (le due opere fondamentali della logica
matematica contemporanea), ha avuto vasta accoglienza nella filosofia e nella
matema- tica contemporanea. Essa tuttavia è apparsa talora troppo ristretta per
le possibilità di sviluppo della matematica odierna: la quale non intende
rimanere legata a un concetto di numero che risulti comunque precostituito per
essa. 4° La quarta fase è quella che si è venuta realizzando in stretta
connessione con l’assiomatica moderna e si può connettere con i nomi di Peano,
NUMINOSO Hilbert, Zermelo, Dingler. Per essa, il N. è un segno, definito da un
adatto sistema di assiomi. Dice, ad es., Dingler: « Noi ci costruiamo una serie
di segni (segni grafici) sempre riproducibili che deve possedere le seguenti
proprietà: a) la serie ha un primo termine; 5) la serie possiede una regola di
costruzione enunciabile in modo finito tale che: a) è sempre determinato
univocamente quale termine della serie viene immediatamente a destra di un
termine già segnato; 8) ogni termine della serie è diverso da tutti i termini
che lo precedono a sinistra + (Die Methode der Physik, 1937, cap. II, 3, $ 2;
trad, ital., pag. 137-38). Questo punto di vista può essere riassunto nel modo
seguente: a) non esiste un unico oggetto o entità detta « N.» di cui siano specificazioni
i numeri definiti nei vari sistemi numerici; 5) la validità dei vari sistemi
numerici dipende soltanto dalla consistenza intrinseca di ciascun si- stema,
quale risulta definita dagli assiomi fonda- mentali; c) il concetto di N.,
quale risulta nell’ambito di un sistema numerico, non è legato a una inter-
pretazione determinata ma è suscettibile di inter- pretazioni indefinitivamente
variabili. Il N. in altri termini non è privo affatto di interpretazione (come
un segno che non significhi niente) e non è legato ad un'unica interpretazione
privilegiata; ma è caratterizzato dalla possibilità di interpretazioni diverse.
Questa nozione del N. è quella abitualmente presupposta dai più recenti
sviluppi della matema- tica (v.). NUMINOSO (ingl. Numinous; ted. Numinose).
Così Rudolf Otto chiamò la coscienza di un myste- rium tremendum cioè di
qualcosa di misterioso e terribile che ispira timore e venerazione: coscienza
che sarebbe la base dell’esperienza religiosa dell’u- manità (Das Heilige,
1917; trad. ital., // sacro, Bologna, 1926). NYAYA. Uno dei grandi sistemi
filosofici dell’India antica, caratterizzato dalla importanza in esso assunta
dalla dottrina della conoscenza e dei suoi oggetti. Il N. enumera quattro mezzi
di conoscenza: percezione, inferenza, analogia e testi- monianza; definisce la
conoscenza vera come quella che non è soggetta a contraddizioni o a dubbi e che
riproduce l’oggetto come esso è; e si ferma a deter- minare l'elenco degli
oggetti conoscibili e dei loro tratti caratteristici. Tra questi include sia il
mondo fisico con i suoi elementi, sia l’uomo nel suo corpo e le sue attività
spirituali, sia lo spazio o il tempo, Dio e in generale le condizioni di
esistenza delle cose fisiche o spirituali (cfr. G. Tucci, Storia della
filosofia indiana, 1957, pag. 112 sgg.). O O. Questa lettera nella Logica
formale « aristo- telica » viene usata come simbolo della proposizione
particolare negativa (v. A). G. P. OBBEDIENZA (lat. Oboedientia; ingl. Obe-
dience; franc. Obéissance; ted. Gehorsamkeit). È, secondo Spinoza, il
significato specifico della fede. Questa infatti consiste « nell’avere, intorno
a Dio, quei sentimenti tolti i quali, viene anche meno lO. a Dio e che sono
invece necessariamente posti quando è posta l’O.» (7ract. rheologico-politicus,
cap. 14). Questa riduzione della fede all’O. è una espressione dell’indirizzo
di dottrina che riduce la fede ad atto pratico (v. FEDE). OBBIETTIVO (ingl.
Objective; franc. Objectif; ted. Obiektive). 1. Lo stesso che oggetto, quando
la parola si adopera nel senso di fine o scopo (v. OGGETTO). 2. Nel senso
specifico proposto da Meinong, è l’oggetto del giudizio, in quanto distinto
dall’og- getto della rappresentazione. Per es., se si dice: « È vero che vi
sono gli antipodi », l'O. è costituito da «che vi sono gli antipodi ». L’O. non
è di ne- cessità esistente. Se A non è, il non-essere di A è un O. allo stesso
titolo dell’essere di A (Uber Annahmen, 1902, pag. 142 sgg.). OBBIETTO. V.
OgaetTO. OBBIEZIONE (ingl. Objection; franc. Objec- tion; ted. Einwurf). Un
argomento la cui conclu- sione contraddice una certa tesi. Leibniz osservava
già che la verità non può soffrire ad opera di « O. in- vincibili ». « Bisogna,
egli diceva, cedere sempre alle dimostrazioni sia che si propongano per
affermare, sia che si avanzino in forma di obbiezioni. Ed è ingiusto e inutile
voler indebolire le prove degli avversari col pretesto che sono solo O.:
giacchè l’avversario ha lo stesso diritto e può invertire i nomi, onorando i
suoi argomenti con il nome di prove e abbassando i nostri con quello
spregiativo di O.» (Théod., Discours, $ 25). OBBLIGAZIONE (lat. Obligatio;
ingl. Obli- gation; francese Obligation; ted. Verpflichtung). x. Il carattere
costrittivo che ad un rapporto interper- sonale è conferito da una legge
giuridica o da una norma morale. Questo carattere è diverso dalla ne- cessità
(v.) per la quale è impossibile che la cosa sia o accada altrimenti: 1’O. non
impedisce che, in linea di fatto, il rapporto che essa regola si atteggi altri-
menti; ma implica, in questo caso, l'intervento di una sanzione. Talvolta il
carattere obbligatorio del rapporto si esprime con la nozione di necessità mo-
rale o ideale (v. NECESSITÀ) senza che con ciò si in- tenda ridurlo alla
necessità vera e propria. Soltanto Bergson ha sostanzialmente cercato di
ridurre l’O. alla necessità di fatto, intendendo per O. le abitu- dini sociali
e per O. in generale «l’abitudine di contrarre abitudini » (Deux Sources, cap.
I). 2. Nella logica terministica medievale, l'impegno per cui l'interlocutore
ammette nella discussione qualcosa che precedentemente non ammetteva. Questa è
la definizione data da Ockham (Summa Log., III, 38). Ockham ammette sei specie
di ob- bligazioni: l'istituzione, la petizione, la posizione, la deposizione,
la dubitazione e il sit verum. L’istituzione (institutio) consiste nel dare a
un vocabolo un nuovo significato per la durata della disputa e non oltre (Summa
Log., III, III, 38) La petizione (petitio) consiste nell’obbligare l’inter-
locutore a questo o quell’atto che concerne la sua ‘ funzione, per es. a
concedere una proposizione (Ibid., III, III, 39). La deposizione (depositio) è
l'obbligazione a sostenere una proposizione come falsa (Ibid., III, III, 42).
La dubitazione (dubitatio) 630 è l’obbligazione di sostenere qualcosa come dubbia
(Ibid., III, III, 43). Per la posizione e il sit verum vedi le rispettive voci.
OBIETTAZIONE (ted. Objektation). Secondo Nicolai Hartmann, il termine significa
« divenire oggetto per un soggetto» e definisce la natura della conoscenza.
L’O. è il contrario della obietti- vazione: questa è la trasformazione di
qualcosa di soggettivo in forma oggettiva mentre l’obietta- zione esprime il
processo per cui un oggetto indi- pendente dal soggetto diventa oggetto di
conoscenza (Systematische Philosophie, 1931, $ 11). OBVERSIONE (ingl.
Obversion; franc. Ob- version; ted. Obversion). Questo termine di origine
recente (e dovuto probabilmente a JEVONS, Ele- mentary Lessons in Logic, pag.
85) designa la trasformazione di una proposizione in una propo- sizione equipollente
mediante la doppia negazione: per es., la trasformazione della proposizione «
tutti gli uomini sono mortali» in « nessun uomo è non mortale ». OCCAMISMO
(ingl. Ockhamism; franc. Occa- misme; ted. Ockamismus). Con questo termine è
stato chiamato sin dal sec. xv l’indirizzo fatto pre- valere da Ockham
nell’ultimo periodo della scola- stica medievale, indirizzo caratterizzato dai
capi- saldi seguenti: 1° l’empirismo, cioè il privilegio accordato
all’esperienza (o « conoscenza intuitiva +) per la prova e il controllo della
verità; 2° il nomi- nalismo, cioè la negazione della realtà degli univer- sali
e la loro riduzione a segni naturali; 3° il zer- minismo, cioè la logica della
supposizione (v.) per la quale i concetti sono termini che stanno in luogo delle
cose reali; 4° lo scetticismo teologico per il quale si ritiene impossibile
dimostrare o ra- zionalizzare le verità della fede e si attribuisce alle stesse
prove dell’esistenza di Dio un valore solo probabile. Per quest’ultimo punto,
Lutero si chiamò e fu chiamato occamista. Gli altri punti furono difesi e
illustrati nella scolastica della se- conda metà del sec. xrv e dei primi
decenni del Sec. XV. OCCASIONALISMO (ingl. Occasionalism; franc.
Occasionalisme; ted. Occasionalismus). La dottrina che la causa di tutte le
cose è soltanto Dio e che le cosiddette cause (seconde o finite) sono soltanto
occasioni di cui Dio si avvale per mandare ad effetto i suoi decreti. Questa
dottrina fu per la prima volta difesa dalla sètta filosofica araba dei
Motakallimun (cfr. MAIMONIDE, Guide des égarés, I, 73); e fu poi ripresa
nell’età car- tesiana, da quel gruppo di pensatori che vollero utilizzare la
dottrina di Cartesio per una difesa delle credenze religiose tradizionali, cioè
da Luigi De La Forge, Geraldo di Cordemoy, Giovanni Clauberg e Arnoldo
Geulincx, tutti vissuti nel OBIETTAZIONE sec. xvi. Geulincx fu il migliore
espositore della dottrina, che mira sostanzialmente a negare al- l’uomo ogni
effettivo potere nel mondo e ad at- tribuirlo a Dio. Contro l’O. si schierarono
invece Spinoza e Leibniz; mentre in sua difesa scriveva Nicolò Malebranche,
traendone la conseguenza che la conoscenza umana, non potendo essere prodotta
dalle cose (che non sono cause), è una visione delle cose in Dio (Recherche de
la vérité, 1674-75). OCCASIONE (ingl. Occasion; franc. Occasion; ted.
Gelegenheit). La situazione che provoca o fa- cilita l’intervento di un’azione
libera. Cause occa- sionali: le cause considerate come occasioni per l'azione
diretta di Dio (v. OCCASIONALISMO). Kierkegaard ha messo in luce il valore
dell’O. come «categoria del finito » e che può essere « sia pretesto sia causa
». In questo senso l’O. è « l’ul- tima categoria, la vera categoria di
transizione dalla sfera dell’idea a quella della realtà » (Aut Aut, «I primi amori»;
trad. franc., Prior e Guignot, pag. 186 sgg.). OCCULTE, QUALITÀ. V. OccuLTo.
OCCULTISMO (ingl. Occultism; franc. Oc- cultisme; ted. Okkultismus). La
credenza in feno- meni che si ritengono prodotti da forze occulte o nella
validità delle scienze occulte. Per O. si può perciò anche intendere l’insieme
di tali scienze cioè la magia, l’astrologia, la metapsichica, la teosofia, ecc.
(v. le singole voci). OCCULTO (ingl. Occul; franc. Occulte; te- desco Okkult).
Ciò che si nasconde alla vista e perciò può essere scoperto solo da chi ha una
seconda vista, nel senso di essere iniziato a una forma superiore di sapere.
Scienza occulta in questo senso è, in primo luogo, la magia: Cornelio Agrippa
nel De occulta philosophia (1510) includeva nella magia tutte le scienze
possibili. Ma scienze O. si chiamano oggi anche la teosofia, la parapsico-
logia, ecc., sia perchè hanno a che fare con feno- meni che si ritengono
manifestazioni di forze O. sia perchè si ritiene che lo studio di tali fenomeni
debba essere riservato a coloro che sono stati ini- ziati a un ordine superiore
di conoscenze esoteriche. Qualità O. si cominciarono a chiamare, a partire dal
sec. XVII, le cause formali e finali dell’aristotelismo e della scolastica,
intendendosi sottolineare con questa espressione che appellarsi a tali cause
equivaleva ad appellarsi a fattori più sconosciuti dei fenomeni stessi, quindi
incapaci di spiegarli. « Gli aristotelici, diceva Newton, dettero il nome di
qualità O. non alle qualità manifeste ma a quelle qualità che sup- ponevano
esser nei corpi come cause sconosciute di effetti manifesti » (Opricks, 1704,
III, 1, q. 31). OFELIMITÀ (ingl. Ophelimity; franc. Ophé- limité; ted.
Ophelimitàt). Termine creato da Vil- fredo Pareto (Cours d’économie politique,
Lausanne, OGGETTIVO 1896, $ 5-6), per designare la qualità fondamentale degli
oggetti economici cioè il valore d’uso, che non sempre coincide con l’utilità;
ad es., uno stupefacente ha O. ma non utilità. OGGETTITÀ (franc. Objectité;
ted. Objektitàr). Termine di cui Schopenhauer si servi per defi- nire il corpo
e le cose naturali; che sarebbero «l’O. della volontà» nel senso di essere «la
volontà oggettivata ossia divenuta rappresentazione » (Die Welt, I, $ 18, 25,
ecc.). OGGETTI, TEORIA DEGLI (ted. Gegen- standstheorie). Così A. Meinong
chiamò la scienza che considera gli oggetti in quanto oggetti cioè prescindendo
dalle loro specificazioni (realtà o ir- realtà, ecc.). Questa scienza non è la
metafisica nel senso tradizionale perchè questa considera la totalità degli O.
esistenti, che sono solo una piccola parte degli oggetti possibili (cfr. Uber
Annahmen, 1902; Gegenstandstheorie, 1904; Zur Grundlegung der allgemeinen
Werththeorie, 1923) (v. OBBIETTIVO; OGGETTO). OGGETTIVISMO (ingl. Objectivism;
francese Objectivisme; ted. Objektivismus). Qualsiasi dot- trina la quale
ammetta che esistano oggetti (signi- ficati, concetti, verità, valori, norme,
ecc.) validi indipendentemente dal soggetto cioè indipendente- mente dalle
credenze e dalle opinioni dei vari soggetti. OGGETTIVITÀ (ingl. Objectivity;
francese Objectivité; ted. Objektivitàt). 1. In senso ogget- tivo: carattere di
ciò che è oggetto. In questo senso Husserl parlava di una «O. primaria» che
apparterrebbe alle cose e le privilegerebbe di fronte ad altri oggetti come
proprietà, relazioni, stati di fatto, insiemi, ecc. (Zdeen, I, $ 10) (v.
OGGETTO). 2. In senso soggettivo: carattere della consi- derazione che cerca di
vedere l’oggetto così com'è prescindendo dalle preferenze o dagli interessi di
chi lo considera e soltanto in base a procedure intersoggettive di accertamento
e di controllo. In questo significato, l’O. è l'ideale della ricerca scien-
tifica: ideale cui essa si avvicina nella misura in cui dispone di procedure
adeguate. OGGETTIVO (ingl. Objective; franc. Objectif; ted. Objektiv). Ciò che
esiste come oggetto o ha un oggetto o appartiene ad un oggetto. Questo
aggettivo ha, a prima vista, assai più significati del corrispondente
sostantivo; giacchè oltre ai si- gnificati che sono connessi a quest’ultimo, è
stato usato a significare: ciò che è valido per tutti; ciò che è esterno
rispetto alla coscienza o al pensiero; ciò che è indipendente dal soggetto; ciò
che è con- forme a certi metodi o regole; ecc. A tali signi- ficati ha dato
prevalentemente luogo la determina- zione kantiana dell’oggetto di conoscenza
come oggetto reale o empiricamente dato. Si possono 631 enumerare tre
significati fondamentali del termine: 1° ciò che esiste come oggetto; 2° ciò
che ha un oggetto; 3° ciò che è valido per tutti. I due ultimi sono strettamente
connessi tra loro e con gli altri significati elencati. 1° Il primo significato
è quello corrispondente al significato fondamentale di oggetto: O. è ciò che
esiste come termine o limite di un'operazione attiva o passiva. A tale
definizione risponde in primo luogo l’uso che del termine fu fatto nel-
l’ultima età della Scolastica da Duns Scoto in poi. Per esso infatti fu inteso
ciò che esiste come og- getto dell’intelletto, in quanto è pensato o imma-
ginato, senza che ciò implichi che esista anche fuori dell’intelletto stesso o
nella realtà. In questo senso adoperavano il termine Duns Scoto (De An., 17,
14), Antonio Andrea (Super artem veterem, 1517, f. 87r.), Francesco Majrone (In
Sent., I, d. 47, q. 4) e Durando di S. Pourgain (In Sent., I, d. 19, q. S, 7).
Dice Walter Burleigh: « Sebbene l’universale non abbia esistenza fuori
dell’anima, come i moderni dicono, non c’è dubbio tuttavia che, secondo il
parere di tutti, l’universale ha esi- stenza O. nell’intelletto giacchè
l’intelletto può in- tendere il leone in universale senza intendere questo
leone » (Super artem veterem, 1485, f. S9r.) « Esistere oggettivamente »
significa, in questo caso, esistere sotto forma di rappresentazione o di idea
cioè come oggetto del pensiero o della percezione: un significato che ricorre
identicamente in Car- tesio (Médir., III, 11), in Spinoza (Er., I, 30; II, 8
cor.; ecc.) e in Berkeley (Siris, $ 292). In tutti questi casi, l’O. non
designa nè ciò che è reale nè ciò che è irreale, ma semplicemente ciò che è oggetto
dell’intelletto e che può, ad una seconda considerazione, rivelarsi sia reale
che irreale. 2° Corrispondentemente alla limitazione che l’oggetto di
conoscenza ha ricevuto da Kant come oggetto «reale», c’è il secondo significato
di O. come di ciò che ha per oggetto una realtà empiri- camente data. In questo
senso Kant afferma che la conoscenza è «oggettiva» o « oggettivamente valida ».
Già nelle sue distinzioni terminologiche Kant include questo significato: « Una
percezione che si riferisca unicamente al soggetto, come mo- dificazione del
suo stato, è sensazione; una per- cezione O. è conoscenza. Questa è o
un’intuizione o un concetto. Quella si riferisce immediatamente all’oggetto ed
è singolare; questo gli si riferisce mediatamente, per mezzo di una nota, che
può essere comune a più cose» (Cri. R. Pura, Dialet- tica, libro I, sez. I. Da
questo punto di vista, «validità O.» e «realtà» coincidono. Dice infatti Kant:
«Le nostre considerazioni insegnano la realtà, cioè la validità O., dello
spazio rispetto a tutto ciò che può venirci innanzi nel mondo esterno 632 come
oggetto» (/bid., $ 3); e analogamente dice del tempo: « Le nostre
considerazioni dimostrano la realtà empirica del tempo cioè la sua validità O.
rispetto a tutti gli oggetti che possono essere le- gati ai nostri sensi »
(/bid., $ 6). In tal senso, O. è ciò che è empiricamente reale; e
l’empiricamente reale è, per Kant, il prodotto di una sintesi che, per essere
effettuata nella coscienza comune o ge- nerica, vale per tutti i soggetti
pensanti e non per uno solo di essi (Pro/eg., $ 22). Kant dice: «I giu- dizi
sono © soggettivi, quando le rappresentazioni vengono riferite solo ad una
coscienza in un sog- getto ed in esso unificate; o sono O. quando sono
collegate in una coscienza genericamente cioè ne- cessariamente +» (/bid., $
22). Queste considerazioni servono di passaggio alla definizione di O. che Kant
dette nel dominio pratico e sentimentale: chiamando O. le leggi pratiche «che
possono es- sere riconosciute valide per la volontà di ogni essere razionale »
(Crir. R. Prat., $ 1); e « prin- cipio O. + l'accordo universale nel giudizio
di gusto (Crit. del Giud., $ 22). 3° Queste considerazioni kantiane
stabiliscono il trapasso al terzo significato fondamentale di O., cioè «valido
per tutti». Questo significato assai diffuso nelle scuole criticiste e
idealiste contempo- ranee, fu ben espresso da Poincaré: « Una realtà
completamente indipendente dallo spirito che la concepisce, la vede o la sente,
è una impossibilità. Un mondo esterno in questo senso, se anche esi- stesse, ci
sarebbe inaccessibile. Ma ciò che chia- miamo realtà O. è, in ultima analisi,
ciò che è comune a più esseri pensanti e potrebbe essere comune a tutti» (La
valeur de la science, 1905, pag. 9). Poincaré riferiva questa considerazione
alle matematiche; ma quasi contemporaneamente lo stesso concetto di oggettività
veniva fatto valere nella metodologia delle scienze sociali da Max Weber: il
quale osservava che «la verità scientifica è quella che è valida per tutti
coloro che cercano la verità » e che anche nelle scienze sociali ci sono
risultati che non sono soggettivi nel senso di essere validi per una sola
persona e non per le altre (« L’og- gettività nelle scienze sociali e nella
politica sociale », 1904, in 7he Methodology of the Social Sciences, 1949, pag.
84). Questo tipo di oggettività si chiama oggi intersoggettività; e la
condizione fondamentale di essa è riconosciuta nel possesso e nell’uso di
speciali tecniche procedurali che, in un dato campo, garantiscano la messa a
prova e il controllo dei risultati di un'indagine. « Valido per tutti» signi-
fica perciò anche « intersoggettivamente valido » o « conforme a un metodo
qualificato +». E allo stesso concetto di O. si connettono i significati di «
indi- pendente dal soggetto» e di «esterno alla co- scienza +. Ciò che è O. nel
senso d'esser valido OGGETTIVO, IDEALISMO per tutti è difatti indipendente da
questo o quel soggetto, cioè dalle sue particolari preferenze o valutazioni; e
dall’altro lato il solo mezzo che un soggetto particolare ha per disciplinare o
tenere a freno le sue preferenze e valutazioni è quello di far ricorso a
qualificati procedimenti di metodo. Infine l’equivalenza tra O. ed esterno è la
trascri- zione di questi stessi concetti sul piano di quel linguaggio coscienzialistico
nel quale le parole «esterno» ed «interno» trovano una qualche giusti-
ficazione del loro uso (v. ESTERIORITÀ; REALTÀ). OGGETTIVO, IDEALISMO (ted.
Objektiver Idealismus). Uno dei tre tipi fondamentali di filosofia cioè di
intuizione del mondo, secondo Dilthey, e precisamente quella che è fondata sul
sentimento e dominata dalla categoria del valore. In questo tipo di filosofia
Dilthey comprendeva Eraclito, gli Stoici, Spinoza, Leibniz, Shaftsbury, Goethe,
Schel- ling, Schleiermacher, Hegel, e riteneva proprio di essa il panteismo
(Das Wesen der Philosophie, 1907, III, 2; trad. ital., in Critica della Ragione
storica, pag. 469) (v. IDEALISMO DELLA LIBERTÀ; NATURALISMO). OGGETTO (lat. Obiectum; ingl.
Object; fran- cese Objet; ted. Objekt, Gegenstand). Il termine di una qualsiasi operazione, attiva o
passiva, pratica, conoscitiva o linguistica. Il significato della pa- rola è
generalissimo e corrisponde al significato di cosa (v.). O. è il fine a cui si
tende, la cosa che si desidera, la qualità o la realtà percepita, l’immagine
fantasticata, il significato espresso o il concetto pen- sato. La persona è
oggetto di amore o di odio, di stima, di considerazione o di studio; e in
questo senso l’io stesso è o può essere oggetto. Ogni attività o passività ha come
suo termine o limite un’O., qualificato in corrispondenza del carattere
specifico dell'attività o della passività. Accanto a questo significato
generalissimo e fondamentale, per il quale il termine è insostituibile, si
riscontra talora, nel linguaggio filosofico e nel linguaggio comune, un
significato più ristretto o specifico, per il quale l’O. è tale solo se
provvisto di una particolare vali- dità: ad es. se è «reale» o «esterno» o «
indipen- dente», ecc. (v. OGGETTIVO). Questo secondo significato tuttavia non
elimina ma presuppone il primo. La parola è stata introdotta nella filosofia
dagli Scolastici del sec. xm. Essa è chiaramente definita da San Tommaso il
quale dice che «l’O. di una potenza o di un abito è propriamente ciò sotto la
cui ragione (ratio) è compreso tutto ciò che si rife- risce alla potenza o
all’abito in questione. Per es.: l’uomo e la pietra si riferiscono alla vista
in quanto sono colorati: ciò che è colorato è dunque l’O. proprio della vista»
(S. 7%., I, q.1, a. 7). Questa nozione di O. veniva sostanzialmente ripresa da
OGGETTO Duns Scoto che definiva l’O. di un sapere come la materia (subjectum)
del sapere stesso in quanto appresa o conosciuta. Una materia conoscibile
diventa, secondo Duns, O. conosciuto mediante un abito intellettuale che sia
relativo a questo oggetto (Op. Ox., Prol., q. 3, a. 2, n. 4). Jungius non
faceva che esprimere nel modo più semplice la stessa no- zione quando
affermava: « Si dice O. ciò intorno cui vertono le facoltà, gli abiti e i loro
atti» (Logica, 1638, I, 9, 37). Wolff a sua volta diceva: «O. è l’ente che
termina l’azione dell’agente o nel quale terminano le azioni dell’agente:
sicchè è quasi un limite dell’azione » (Ont., $ 949). Questo significato è
rimasto fondamentale nel- l'uso che del termine è stato fatto nella filosofia
moderna e contemporanea. La questione del carat- tere reale o ideale dell’O. in
generale o di una classe specifica di O. (ad es. degli O. fisici o cose), non
ha influito su di esso. Così l’O. della conoscenza può essere considerato
un’idea (come voleva Berkeley) o una rappresentazione (come voleva
Schopenhauer) o una cosa materiale (come voleva la Scuola scozzese del senso
comune) o un fenomeno (come voleva Kant), ma esso è sempre, come O., il termine
o limite dell'operazione conoscitiva. Tuttavia proprio Kant inizia l’uso
ristretto del termine per il quale l’O., o più esattamente l’O. di conoscenza
è, di preferenza, l’O. « reale» o «empirico ». Dice Kant infatti: « C'è gran
differenza tra l'essere qualcosa data alla mia ragione come O. assolutamente o
solo come O. nell’idea. Nel primo caso, i miei con- cetti passano a determinare
l’O.; nel secondo non c'è realmente che solo uno schema al quale non viene
attribuito direttamente alcun O., neppure ipoteticamente, ma che serve soltanto
a rappresen- tare altri O., nella loro unità sistematica, per mezzo della
relazione loro all’idea. Così io dico: il concetto di una intelligenza suprema
è una semplice idea, cioè la sua realtà oggettiva non deve consistere in ciò
che esso si riferisca direttamente ad un O. (poichè il suo valore oggettivo non
può essere giu- stificato in questo modo) ma è solo uno schema, ordinato
secondo le condizioni della massima razio- nalità del concetto di una cosa in
generale » (Crif. R. Pura, Dialettica, Appendice). Queste considera- zioni di
Kant tornano a dire che l’idea della ragion pura, propriamente parlando, non ha
O. perchè l'O. è soltanto quello empirico (la cosa naturale) e l’idea si
riferisce solo indirettamente a un gruppo di tali oggetti. Tuttavia questo significato
specifico dell'O. non elimina, neppure per Kant, il significato generale e
fondamentale. Kant infatti non solo considera il concetto di O. come il
concetto « più alto » in filosofia (v. Ia chiusa di questo articolo), ma anche
parla di una « distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e
noumeni» e considera 633 lo stesso noumeno come « l’O. di un’intuizione non
sensibile» ammessa in linea ipotetica, in quanto potrebbe essere propria di un
intelletto divino (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. III). D'altronde per
Kant, oltre che l’O. di conoscenza, c’è «l’O. della ragion pratica» che è «la
rappresentazione di un O. come di un effetto possibile mediante la libertà »
(Crif. R. Prat., I, Libro I, cap. 2): il che vuol dire che l’O. è in questo
caso il termine o il risultato di un’azione libera. Ciò che in ogni caso
costituisce l’O. è la sua funzione di limite o termine di un’attività o di
un’operazione qualsiasi. Tale nozione non viene meno neppure nelle più radicali
forme dell’idealismo: per lo stesso Fichte l'O. è infatti il limite
dell’attività dell’Io. «L’Io pone se stesso come limitato dal non io +, egli
dice (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4, A); e il non io non è che 1’O. (/bid., $
4, E, III; trad. ital., pag. 143). Analogamente, ogni altra determinazione che
i filosofi possono dare della natura dell’O. assume come punto di partenza la
definizione generale di esso. Ad es. l’O. può essere considerato come un dato
(come fanno abitualmente gli empiristi) o come un problema (come hanno fatto i
neocriticisti, per es. NatoRP, Platos Ideenlehre, pag. 367); ma può essere
l’una o l’altra cosa solo se viene considerato come il termine o il limite
dell’attività conoscitiva. Nella filosofia contemporanea, il ricorso della
nozione di intenzionalità (v.) ha permesso di rico- noscere chiaramente il
carattere generale della nozione di oggetto. Brentano che per primo ha
reintrodotto quella nozione, dice che « ogni fenomeno psichico include in sè
qualcosa come O., sebbene non sempre allo stesso modo. Nella rappresenta- zione
c’è qualcosa di rappresentato, nel giudizio qualcosa di riconosciuto o negato,
nell'amore qual- cosa di amato, nell’odio qualcosa di odiato, ecc. +
(Psychologie vom empirischen Standpunkt, 1874, I, pag. 115). E Husserl ha
ancora generalizzato il concetto, distinguendo l’O. dall’ « O. afferrato ». «
Si deve notare, egli ha detto, che l’O. intenzionale di una coscienza (preso
come pieno correlato di questa) non è affatto uguale all’O. afferrato (erfass-
tes). Noi siamo soliti di assumere senz’altro l’essere afferrato nel concetto
di O. (di O. intenzionale) in quanto, pensando ad esso o parlandone, ne
facciamo un O. nel senso dell'afferrato. ...Certo non possiamo rivolgerci ad
una cosa fisica se non afferrandola; e lo stesso si dica di tutte le
oggettività schiettamente rappresentabili... Invece nell’atto del valutare, in
quello del gioire, dell’amare, dell'agire, noi siamo rivolti rispettivamente al
valore, all’O. felicitante, all’O. amato, all’azione, senza afferrare nulla di
tutto questo » (Zdeen, I, $ 37). Parallelamente ed analogamente, Meinong
difendeva il significato 634 generalissimo della nozione di O. (Gegenstand)
dividendola nelle due classi degli O. della rappre- sentazione od obbietti
(Objekre) e degli O. del giudizio od obbiettivi (Objektive) (Uber Annahmen,
1902, pag. 142 sgg.). Quasi contemporaneamente, nel dominio della logica
matematica, Frege difen- deva una nozione sostanzialmente identica dell’O.,
identificando l’O. con il significato. « Il significato di una parola, egli diceva,
è l’O. che noi indichiamo con essa» (Uber Sinn und Bedeutung, 1892, $ 3; trad.
ital., pag. 222): e intendeva dire che l’O. è il termine o il limite
dell’operazione linguistica, cioè dell’uso del segno. A sua volta Wittgenstein
diceva «Il nome variabile ‘x’ è il segno proprio dello pseudo concetto oggetto.
Ogni qualvolta il termine O. (‘ cosa ’, ‘ entità ’, ecc.) è usato corretta»
mente, viene espresso nel simbolismo logico dal nome variabile» (7ract.
/ogico-philos., 4.1272). Non molto lontano da questa è la nozione di O. esposta
da Dewey per il quale O. è il risultato di un’opera- zione di indagine. «Il
nome O., egli dice, sarà riservato alla materia trattata nella misura in cui
essa è stata prodotta e ordinata in forma sistematica per mezzo dell’indagine;
proletticamente, oggetti sono gli obbiettivi dell’indagine. L’ambiguità che si
potrebbe riscontrare nell’uso del termine in questo senso (poichè di regola la
parola si applica alle cose osservate e pensate) è soltanto apparente, giacchè
le cose esistono come O. per noi solo in quanto siano state preliminarmente
determinate quali risul- tati di indagine » (Logic, cap. 6; trad. ital., pag.
175). È facile vedere che la differenza tra queste defini- zioni di O. è
soltanto la differenza fra le attività o le operazioni che si considerano: l’O.
è il termine del significato, se si considera il linguaggio e in generale l’uso
dei segni; è il termine di un’operazione di inda- gine se si considera la
ricerca scientifica; e così via; ma in ogni caso è (come già ritenevano gli
Scolastici) il termine o il limite di un’operazione determinata. La parola O. è
perciò il termine più generale di cui disponga il linguaggio filosofico. Kant
aveva ragione a questo proposito affermando che se «il più alto concetto da cui
si suol prendere le mosse in una filosofia trascendentale è la divisione di
possibile e impossibile», poichè ogni divisione presuppone un concetto da
dividere, « dev'essere addotto un concetto ancora più alto e questo è il
concetto di un O. in gezerale, assunto in modo problematico e senza decidere se
esso sia qualcosa o niente» (Crir. R. Pura, Anal. dei Princ., Nota alle
anfibolie dei concetti della riflessione). È ovvio che il concetto di O. non
coincide interamente con nessuna delle sue specificazioni possibili. Le cose, i
corpi fisici, le entità logiche e matematiche, i valori, gli stati psichici,
ecc., sono tutti O., specificati o specificabili per via di particolari modi
d’essere OGNI o di particolari procedure di accertamento; ma nessuna di queste
classi di O. possiede un’oggettività privilegiata e nessuna si presta ad
esprimere, nel suo àmbito, la caratteristica dell'O. in generale. OGNI (gr. nic; lat. Omnis;
in. Any; fr. Chaque; ted. Jeder).
Nella logica contemporanea, O.» è un operatore di campo, di cui il simbolo più
usato è ‘(x) *», per es. in formule come ‘(x)-f(x) ”, che si legge « per ogni
x, f(x) è vero». Esso corri- sponde ad un prodotto logico (o congiunzione
logica) operato nel campo di validità della (x), cioè alla congiunzione ‘f(a) e
f(b) e f(c) e... *. Ove f(x) sia un predicato, questa equivale alla formula
consueta ‘ O. x è f” o anche ‘tutti gli x sono f della logica tradizionale.
Aristotele aveva usato «O.» nella proposizione universale afferma- tiva: «Ogni
A è B» e quest’uso fu seguito dalla logica medievale. In questo uso la funzione
di « O. » non si distingue da quella di «tutti». Tuttavia la logica
terministica medievale distinse due significati di « tutti »: il significato
collettivo per cui, ad es., sì dice « Tutti gli Apostoli sono 12» dal quale non
segue che « Questi Apostoli sono 12»; e il signifi- cato distributivo per cui,
ad es., si dice « Tutti gli uomini desiderano naturalmente conoscere +, dal
quale segue «O. uomo desidera naturalmente co- noscere ». In quest’ultimo caso
«O.» indica una disposizione della cosa che può fungere da soggetto o da
predicato (Pietro Hispano, Summ. Log., 12.04-06). Nella logica moderna la
distinzione tra O. e tutto è stata fatta valere da Frege (Grundgesetz der
Arithmetik, 1893, I, $ 17) e da Russell. Quest’ul- timo ritiene che tale
distinzione consiste nel fatto che un’asserzione contenente una variabile x,
per es. ‘x = x”, può essere fatta valere o per lutti gli esempi o per uno
qualsiasi degli esempi senza decidere a quale esempio si faccia riferimento. In
questo secondo caso si fa uso dell’operatore ogni. Così nelle dimostrazioni di
Euclide si assume, per ragionare, un triangolo qualsiasi ABC senza determinare
che specie di triangolo sia. In tal caso, il triangolo ABC vale come una
variabile reale: esso è qualsiasi triangolo, per quanto rimanga lo stesso
attraverso la dimostrazione. L’operatore tutti invece fa leva su variabili
apparenti che sono quelle le quali, comunque determinate, non mutano il valore
della funzione. Russell ritiene che la distin- zione tra rutti e O. sia
necessaria al ragionamento deduttivo (Marhematical Logic as Based on the Theory
of Types, 1908, in Logic and Knowledge, pag. 64 sgg.; cfr. Principles of
Mathematics, $ 60-61; Principia Mathematica). OLIGARCHIA. V. Governo, FORME DI.
OLISMO (ingl. Holism; franc. Totalisme; te- desco Holismus). 1. Una variante
della dottrina ONIROLOGIA dell’evoluzione emergente (v.) che consiste nel
capovolgimento dell’ipotesi meccanistica e nel rite- nere che non già i
fenomeni biologici siano dipen- denti da quelli fisico-chimici, ma questi
ultimi dai primi. Questa ipotesi non è che una forma appena mascherata di
vitalismo. Cfr., J. C.
SMuTs, Holism and Evolution, 1927; J. S. HALDANE, The Philoso- vhical Basis of
Biology, 1931; DRIEscH, Zur Kritik es Holismus, 1936. 2. K. Popper ha chiamato O. la tendenza degli
storicisti a sostenere che l’organismo sociale, come quello biologico, è
qualcosa in più della semplice somma complessiva dei suoi membri ed è anche
qualcosa in più della semplice somma com- plessiva delle relazioni esistenti
tra i membri (The Poverty of Historicism, 1944, $ 7). OLOMERIANI (ingl.
Holomerians; ted. Holo- merianer). Così Henry More chiamò coloro che credono
che l’anima risieda nella totalità del corpo piuttosto che in una parte di esso
(Enchiridion Metaphysicum, I, 27, 1). OMEOMERIE (gr. suotoptperar; ingl. Homeo-
meries; franc. Homéomériesj ted. Homoiomerien). Con questa espressione che
significa « parti simili » Aristotele chiamò i semi di Anassagora cioè le parti
(che non sono elementi perchè sempre a loro volta divisibili) che secondo
Anassagora com- pongono un corpo e che sono in prevalenza simili al corpo
stesso. Così, per quanto in ogni corpo vi siano particelle o semi di tutti gli
altri corpi, in ogni corpo tuttavia è prevalente una certa specie di particelle
che è quella che dà nome al corpo stesso (ARIST., De Caelo, III, 3, 302 b 3;
Met., I, 3, 984a 14; cfr. Diog. L., II, 8; Lu- crEzIO, De rer. nat., I, 830;
Sesto EMPIR., Adv. Math., X, 25). OMINISMO (ted. Hominismus). Termine creato da
Windelband per indicare il relativismo e cioè la dottrina che l’uomo è la
misura di tutte le cose (v. RELATIVISMO). OMOGENEITÀ (ingl. Homogeneity; fran-
cese Homogénéité; ted. Homogeneitàt). La relazione tra cose che appartengono
allo stesso genere (per es., bianco e nero); o hanno la stessa composizione
(per es., le parti di un oggetto composto dallo stesso materiale); o che hanno
tra loro parti simili cioè che si corrispondono termine a termine (per es., due
orologi costruiti allo stesso modo). Spencer usò il termine nel senso di
indifferenziazione e definì l’evoluzione come il passaggio dall’omogeneo
all’eterogeneo, cioè da ciò che è indifferenziato a ciò che è differenziato in
parti tra loro diverse (First Principles, $ 145). Kant chiamò «principio della
O.» la regola della ragione di cercare unificazioni concettuali sempre più
estese cioè generi sempre più alti; 635 regola che farebbe da contrapposto
simmetrico a quella della specificazione (v.) e con questa conflui- rebbe nella
legge dell’affinità (v.) (Crit. R. Pura, Appendice alla dialettica
trascendentale). Hamilton ripetette sostanzialmente queste nozioni kantiane.
Egli chiamò «legge di O.» l’enunciato che « Due concetti per quanto differenti
tra loro possono sempre essere subordinati a un concetto più alto; o che, in
altri termini, le cose più dissimili devono, in certi rispetti, essere simili».
Accanto a questa, Hamilton enunciò pure «la legge di eterogeneità » secondo la
quale «Ogni concetto contiene sotto di sè altri concetti; e perciò, quando
venga divisa, si discende sempre ad altri concetti, mai agli indi- vidui; o
che, in altri termini le cose più omogenee o simili devono in certi rispetti
essere eterogenee o dissimili ». Queste due leggi governano, secondo Hamilton,
tutta la classificazione delle cose in generi e specie (HAMILTON, Lectures on
Logic, $ 40; vol. I, 22 ediz., 1865, pag. 209-10). OMOIUSIA-OMUSIA (gr.
suorcvola, suovola). Si disse che l’intera disputa teologica che mise capo al
Concilio di Nicea (325) vertesse intorno a un iota: cioè alla differenza tra
l’omoiusia, la dottrina di Ario che ammetteva solo una somi- glianza tra la
sostanza di Dio-Padre e quella del Logos e l’omusia cioè la dottrina di
Atanasio che ammetteva l’identità della sostanza di Dio-Padre con quella del
Logos. La decisione del Concilio in favore dell’omusia stabilì il principale
caposaldo dogmatico della teologia cristiana. OMOLOGIA (gr. suoroyla; ingl.
Homology; franc. Homologie; ted. Homologie). 1. Per gli Stoici questo era il
termine tecnico per indicare l'accordo con la natura quale regola fondamentale
della con- dotta (STOBEO, Ecl., II, 76, 3): termine che Cice- rone tradusse con
convenientia (De Fin., III, 6, 21). 2. L’O. è oggi un concetto scientifico
variamente de- finito nelle varie discipline. In geometria si dicono omologhi
gli elementi di due figure simili che si corrispondono. In biologia si dicono
omologhi gli organi che si corrispondono per la loro situazione nei confronti
dell’intero organismo, pur non avendo la stessa funzione (com'è invece degli
organi ana- loghi) (v. ANALOGIA). OMONIMIA (ingl. Homonymy; franc. Homo- nymie;
ted. Homonymie). In Aristotele designa l’am- biguità di un termine, cioè il
fatto che il termine stesso venga usato a denotare cose diverse. L’O, della
frase si chiama anfibolia (v.) (v. EquIvoco; UNIVOCO). G. P. OMOTEISMO (ingl.
Homotheism; ted. Homo- theismus). Lo stesso che antropomorfismo (v.). Ter- mine
creato da Ernesto Haeckel. ONIROLOGIA. L'’interpretazione dei sogni (v. SOGNO).
636 ONNIPOTENZA, ONNISCIENZA. Vedi TEODICRA. ONORE (gr. «ia; ingl. Honor;
franc. Honneur; ted. Ehre). Ogni manifestazione di considerazione e di stima
tributata ad un uomo da altri uomini, come pure l’autorità o il prestigio o la
carica di cui venga riconosciuto investito. Gli antichi con- siderarono l’O.
come uno dei beni fondamentali della vita sociale; e Aristotele riconobbe che
c’è una virtù nei confronti dell'O., come c'è una virtù (la liberalità) nei
confronti del denaro. Tale virtù è la magnanimità (v.), il cui eccesso è l'ambizione
e il cui difetto è la piccolezza d’animo (Et. Nic., II, 7, 1107b 20). Questa
accentuazione dell’im- portanza dell’O. ritenuto come «il premio della virtù e
del ben fare» (/bid., VIII, 14, 1163b 3) deriva all’etica greca, dalla quale è
passata nel costume e nel diritto della tradizione occidentale, dalla sua
impostazione aristocratica. La « rispetta- bilità » è, nel mondo moderno,
l’analogo di questo antico concetto. È abbastanza ovvio tuttavia che «il ben
fare + (svepyeota) del quale, oltre che della virtù, l'O. dovrebbe essere il
premio, secondo Ari- stotele, include una buona dose di conformismo ai
pregiudizi dominanti nel gruppo o nella classe sociale che conferisce l’O. e
l’analogo moderno dell’O., la rispettabilità, non include una dose minore di conformismo.
Non fa perciò meraviglia che l’O. abbia spesso suggerito e continui a sug-
gerire azioni immorali o malvagie o veri e propri delitti, sia nella vita
privata, sia nei rapporti tra i popoli, nei quali 1’O. ha spesso avuto una
parte predominante nel suscitare o mantenere vivi i con- flitti. ONTICO (ingl.
Ontic; franc. Ontique; tedesco Ontisch). Esistente: distinto da ontologico che
si riferisce all’essere categoriale cioè all’essenza o alla natura
dell’esistente. Ad es., la proprietà empirica di un oggetto è una proprietà O.,
la possibilità o la necessità è una proprietà ontologica. La distin- zione è
stata sottolineata da Heidegger: «‘ Onto- logico’ nel senso che alla parola è
dato dalla volga- rizzazione filosofica (e qui si fa avanti la radicale
confusione) significa ciò che invece dovrebbe venir detto O. cioè un
atteggiamento verso l'ente tale da lasciarlo essere in se stesso, in ciò che è
e com'è. Ma con tutto ciò non è ancora stato posto il pro- blema dell’essere,
nè tanto meno raggiunto ciò che deve costituire il fondamento per la
possibilità di una ‘ontologia ’» (Vom Wesen des Grundes, I, n. 14; trad. ital.,
pag. 23). ONTOGENESI. V. BrogENETICA, LEGGE. ONTOLOGIA. V. METAFISICA.
ONTOLOGICA, PROVA. V. Dio, Prove DI. ONTOLOGISMO (ingl. Ontologism; francese
Ontologisme; ted. Ontologismus). La dottrina se- ONNIPOTENZA, ONNISCIENZA condo
la quale «il lavoro filosofico non comincia nell’uomo ma în Dio, non sale dallo
spirito all'Ente, ma discende dall’Ente allo spirito» (GIOBERTI, Intr. allo
studio della fil, 1840, II, pag. 175). L’O. si oppone allo psicologismo che
segue il cam- mino opposto e si ritiene proprio della filosofia moderna a
cominciare da Cartesio. La tesi fonda- mentale dell'O. è che l’uomo possiede
una visione o intuizione immediata o diretta dell’ente: o del- l’ente
genericamente inteso come nozione generale dell’essere, come ritiene Rosmini; o
dell’ente in- teso come lo stesso Ente supremo cioè Dio, come ritiene Gioberti.
Questa tesi fondamentale deriva agli ontologisti dall’agostinismo scolastico
che aveva sempre insistito sulla diretta illuminazione dell’in- telletto umano
da parte di Dio; e, più immediata- mente, dagli Occasionalisti e da Malebranche
che avevano ridotto ogni specie di conoscenza alla vi- sione in Dio (v.
AGOSTINISMO; OCCASIONALISMO). L’O. rientra tuttavia nel quadro di quel ritorno
romantico alla tradizione che, nella prima metà dell’800, domina la filosofia
europea e fa leva sui due concetti strettamente connessi di rivelazione e di
tradizione: difatti l'intuizione dell’ente è intesa come la rivelazione che
l’ente fa di se stesso al- l’uomo. L’O. di Rosmini limita questa rivelazione
alla nozione generale dell’essere o «essere possibile », inteso come forma
fondamentale e originaria della mente umana e come condizione di ogni
conoscenza, che sarebbe sintesi tra l’idea dell'essere e un dato sensibile
(Nuovo saggio sull’origine delle idee, 1830, $ 492, 537). L’atto della
conoscenza così intesa è la percezione intellettiva (v.). Gioberti invece ri-
tenne che Dio si rivela all'uomo (all’intuito) nella sua stessa attività
creatrice; e vide l’intuito stesso espresso pienamente nella formula «l’Ente
crea l’esistente » che pone in relazione tre realtà: la Causa prima, le
sostanze create e l’azione crea- tiva (Intr. allo studio della fil., 1840, II,
pag. 183). Sia Rosmini che Gioberti sono in polemica con la filosofia moderna
che accusano di soggettivismo, di psicologismo e di nullismo; ma in realtà,
come si è detto, la loro dottrina è di stampo schiettamente romantico e trova riscontro
nella filosofia del se- condo Schelling, in quella di Schleiermacher e di altri
epigoni romantici. Una continuazione del- l’O. nella filosofia contemporanea si
può conside- rare la filosofia di P. Carabellese, che ha cercato di conciliare
Rosmini con Kant. Carabellese con- sidera la coscienza, che è il punto di
partenza e l’unico fondamento della filosofia, come la consa- pevolezza che il
soggetto ha dell’essere; ma, a differenza di Rosmini e di Gioberti, considera
l’essere come assolutamente immanente alla co- scienza stessa. Tuttavia anche
Carabellese chiama OPINIONE tale essere Dio; e considera Dio come il fonda-
mento dell’oggettività di tutte le cose particolari che la coscienza può
attingere (Critica del concreto, 1921; 7 problema teologico come filosofia,
1931). ONTOTEOLOGIA. V. TroLogia, 2°. OPERATORE (ingl. Operator; franc. Opé-
rateur; ted. Operator). In logica: un simbolo impro- prio [o sincategorematico
(v.)], che può essere usato, insieme con una o più variabili e con una o più
costanti o forme, per produrre una nuova costante o forma. Questa è la
definizione data da A. Church (Intr. to Mathematical Logic, 1956, $ 06): ed è
la definizione più generica che permette di comprendere nell’ambito del
termine, oltre i quantificatori, anche: l’operatore di astrazione © astrattore
(che viene indicato con una variabile preceduta dalla lettera 2) e al quale
secondo taluni logici si riducono tutti gli altri; e l’O. di descri- zione o
descrittore « (1) che, se è la variabile dell'O. come in (? x), si legge: «l’x
tale che ». Gli O. quan- tificatori o quantificatori sono: il quantificatore
uni- versale, per cui si usa la notazione «(x)» messa prima dell’operando e che
si legge « per tutti gli x è vero che»; il quantificatore esistenziale, per il
quale si usa abitualmente la notazione (3) che, se x è la variabile del
quantificatore, come in (HA x), si legge «esiste un x tale che». L’applicazione
di uno o più quantificatori a un operando si chiama quantificazione. Le
notazioni citate sono quelle adoperate più comunemente nella logica contem-
poranea, ma non sono le sole. Per maggiori rag- guagli, confronta la citata
Insroduction di Church. OPERAZIONE (lat. Operatio; ingl. Operation; franc.
Opération; ted. Operation). 1. Attività in generale. Questo è il significato
che il termine ebbe nel Medioevo, quando fu usato come traduzione del greco
èvépyera che vale attualità o attività. Questo è il senso in cui adoperò la
parola S. Tom- maso (ad es., S. 7à., II, 1, q. 3, a. 2), e per il quale vale il
principio che «il modo di operare di cia- scuna cosa segue il suo modo
d’essere» (/bid., I, q. 89, a. 1). 2. Funzione nel significato 1: cioè
l’attività ca- ratterizzata da un certo fine e propria di un essere
determinato. In tal senso si dice, ad es., che «l’O. della fisica è quella di
calcolare risultati che possono essere confrontati con l’esperimento » o che
«l’O. della scienza è di dimostrare », ecc. 3. Funzione nel significato 2:
relazione o corre- lazione. In questo senso si parla di O. matematiche o
logiche. 4. Tecnica manuale cioè procedimento manipo- lativo da effettuarsi
secondo regole determinate; per es., O. di misura, O. di produzione, ecc.
OPERAZIONISMO (ingl. Operationism; fran- cese Opérationisme; ted.
Operationismus). La dot- 637 trina secondo la quale il significato di un
concetto scientifico consiste unicamente in un determinato insieme di
operazioni. Ha proposto per primo questa dottrina P. W. Bridgman che così l’ha
il- lustrata, con un esempio rimasto classico: « Noi conosciamo ciò che
intendiamo per lunghezza se possiamo dire qual è la lunghezza di qualsiasi og-
getto e il fisico non richiede niente di più. Per trovare la lunghezza di un
oggetto dobbiamo ese- guire certe operazioni fisiche. Il concetto di lun-
ghezza è perciò fissato quando le operazioni con le quali la lunghezza è
misurata sono fissate: cioè il concetto di lunghezza implica niente di meno e
niente di più che l’insieme delle operazioni con le quali la lunghezza è
determinata. In generale con un concetto noi non intendiamo niente di più che insieme
di operazioni; i/ concetto è sinonimo con il corrispondente insieme di
operazioni. Se il concetto è fisico, come la lunghezza, le operazioni sono
operazioni fisiche reali, per es., quelle con cui la lunghezza è misurata; se
il concetto è mentale, come, per es., la continuità matematica, le opera- zioni
sono operazioni mentali cioè quelle mediante le quali determiniamo se un dato
aggregato di grandezze è continuo» (The Logic of Modern Physics, 1927, pag. 5).
Come si vede le opera- zioni cui Bridgman faceva riferimento sono quelle di cui
al significato 4 e 1; ma la sua dottrina è stata estesa in riferimento a
qualsiasi specie di operazione ed è stata soprattutto utilizzata, fuori della
fisica, dagli psicologi (cfr. S. S. STEVENS, « Psychology and the Science of
Science », in Read- ings in Philosophy of Science, ed. P.P., Wiener, 1953, pag.
158-84). In base a quest’estensione della dot- trina dell'O. e conseguentemente
del concetto di ope- razione, i soli caratteri riconoscibili al tipo di opera-
zione che può valere come significato dei concetti scientifici sono quelli
della pubblicità e ripetibilità: il primo esclude il carattere privato di certe
attività puramente mentali, il secondo prescrive l’inter- soggettività delle
operazioni stesse. Si dubita tut- tavia oggi che il criterio operazionistico
possa valere per tutti i concetti scientifici (cfr., ad es., G. BERGMANN,
Philosophy of Science, 1957, pa- gina 56 sgg.). OPINIONE (gr. 36ta; lat.
Opinio; ingl. Opi- nion; franc. Opinion; ted. Meinung). Il termine ha due
significati: nel primo, più comune e ristretto, designa ogni conoscenza (o
credenza) che non includa alcuna garanzia della propria validità; nel secondo
designa genericamente qualsiasi asserzione o dichiarazione, conoscenza o
credenza, sia che includa sia che non includa una garanzia della propria
validità. Questo secondo significato viene più spesso usato che definito
esplicitamente. Nel primo significato, l’O. si contrappone alla scienza (v.).
638 Il primo significato si trova già in Parmenide che contrappone «le opinioni
dei mortali» alla verità (Fr., 1, 29-30). Ma entrambi i significati si trovano
già in Platone. Questi da un lato considera l’O. come qualcosa di mezzo tra la
conoscenza e l’igno- ranza (Rep., 478 c), e come comprendente la sfera della
conoscenza sensibile (congettura e credenza) (Ibid., VI, 510 a); e da questo
punto di vista af- ferma che neppure l’O. vera sta ferma nell’anima « finchè
non venga legata con un ragionamento c usale » e così diventi scienza (Men., 98
a; cfr. Fil., 59 a). Dall’altro considera come O. il discorso che l’anima fa
con se stessa e in cui consiste il pen- siero (Teet., 190 a-c): nel qual senso
la scienza stessa non è che una specie di opinione. I due significati si
ritrovano egualmente in Aristotele, che da un lato afferma, con Platone, che le
O., a dif- ferenza della dimostrazione e della definizione, sono soggette a
mutare c perciò non costituiscono scienza (Met., VII, 15, 1039b 31); dall’altro
dichiara: «Per principi intendo le O. comuni sulle quali tutti gli uomini
fondano le loro dimostrazioni: per es., che un’asserzione dev'essere
affermativa o negativa, che niente può simultaneamente essere e non essere,
ecc.» (/bid., III, 2, 996 b 27). Nella tradizione posteriore, il significato
generico si è perduto ed è rimasto l’altro. Gli Stoici defini- rono l’O. «un
assenso debole e fallace» (SESTO EMP., Adv. math., VII, 151; cfr. Cicer.,
Tusc., IV, 7, 15); e nello stesso senso Epicuro chiamò l’O. « un’assun- zione a
cui può capitare di essere sia vera che falsa » (Dio. L., X, 33). In altre
parole, S. Tommaso esprimeva la stessa cosa dicendo: «L’O. è l’atto
dell’intelletto che si porta su una parte della contrad- dizione con la paura
dell’altra » (S. 7à., I, q. 79, a. 9). Wolff chiamava O. «la proposizione
insuffi- cientemente provata? (Log., $ 602); e Spinoza identificava l’O. con la
conoscenza del primo genere, che è la più bassa ed incerta e procede da segni
(Et., IT, 40, Scol. IM. Kant parimenti dice: « L’O. è una credenza
insufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente, accompagnata dalla
consa- pevolezza ». La consapevolezza consiste nel fatto che « non si può
presumere di opinare senza almeno sapere qualcosa per mezzo del quale il
giudizio problematico abbia una certa connessione con la verità »: altrimenti,
«tutto è soltanto un giuoco dell’immaginazione senza la minima relazione con la
verità » (Cri. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. 2, sez. 3). Kant affermava pure
(/oc. cit.) che « nei giudizi derivanti dalla ragion pura non è affatto
permesso opinare»; e che pertanto non si può opinare nè nel dominio della
matematica nè nel dominio morale. Ma Hegel negava che ci fossero opinioni anche
nel dominio della filosofia. « Un’O. egli diceva, è una rappresentazione
soggettiva, un OPPOSIZIONE pensiero casuale, un’immaginazione che io mi formo
in questa o quella maniera e che altri può avere in modo diverso: l’O. è un
pensiero mio, non già un pensiero in sè universale, che sia in sè e per sè. Ma
la filosofia non contiene opinioni, giacchè non ci sono opinioni filosofiche »
(Geschichte der Philosophie, in Werke, ed. Glockner, XVII, pag. 40; trad.
ital., vol. I, pag. 21). Questo punto di vista è stato ed è condiviso da tutte
le filosofie assolu- tistiche ed è in realtà il punto di vista della metafisica
tradizionale. Quello espresso da Kant, circa l’im- possibilità delle opinioni
in campo scientifico, è stato invece condiviso dalla scienza positivistica
dell’800. Ma il fallibilismo che prevale oggi sia nella scienza che nella
filosofia rende assai meno sdegnosi e sprezzanti verso l’opinione. Da un lato
non si ritiene che l’O. sia così privata o incomunicabile come Hegel affermava.
Un’O. scientifica o filosofica può essere condivisa da molti proprio come O.
cioè senza l’illusorio o surrettizio suo camuffamento in verità purchè
rappresenti, a una certa fase della ricerca, l’ipotesi più ragionevole o la
teoria meglio appoggiata dai fatti. Dice Dewey: « Nella soluzione di problemi
che pretendono ad una esattezza minore della trattazione dei casi giuridici, i
giudizi sono chiamati O. per distinguerli dai giudizi o asserzioni veramente
giustificati. Ma se l’O. professata è fondata, è essa stessa prodotto di
indagine e in quanto tale è un giudizio » (Logic, 1939, VII; trad. ital., pag.
179). Dall'altro lato, le stesse ipotesi o teorie meglio stabilite presentano
una certa latitudine di interpretazioni possibili che lascia vasto campo a una
diversità di opinioni. Infine la ripugnanza, condivisa (e con buone ragioni) da
scienziati e filosofi a considerare come assoluta o necessaria la verità
scientifica o filosofica, dimi- nuisce il divario tra la verità stessa e l’O. o
tra l’O. e la scienza. Il concetto di O. non è oggi mutato da quello che gli
antichi definivano: un impegno debole e soggetto a revisione, l’assenza di ogni
garanzia di validità, costituiscono, anche oggi, le caratteristiche che si
riconoscono proprie dell’opi- nione. Il campo dell’O. si è tuttavia esteso
assai di più di quanto gli antichi non ritenessero e di quanto non ritenevano
nè ritengano i filosofi assolutisti; e soprattutto si è indebolita la nettezza
dei confini tra scienza e O.: giacchè non c’è posto o regione della scienza in
cui non si intersechino fra loro O. e verità. OPPOSIZIONE (gr. 4 dvrixetueva;
lat. Oppo- sitio; ingl. Opposition; franc. Opposition; ted. Gegen- satz,
Opposition). La relazione di esclusione fra ter- mini o oggetti in generale.
Aristotele distinse quattro forme di opposizione: 1° l’O. correlativa come, ad
es., quella che intercede tra il doppio e la metà; 2° 1°O. contraria come quella
che intercede tra il bene e ORDINE il male, il bianco e il nero, ecc.; 3° l’O.
tra pos- sesso e privazione come quella che intercede tra la vista e la cecità;
4° l’O. contraddittoria che è la contraddizione (Car. 10, 11 b 15 sgg.) (v. su
cia- scuna di queste forme le singole voci: CONTRAD- DIZIONE; (CONTRARIETÀ;
‘CORRELAZIONE; POSSESSO; ed inoltre QUADRATO DEGLI OPPOSTI). ORA (gr. 7è vv;
lat. Nunc; ingl. Now; fran- cese Instant; ted. Jetzr). Con questo termine s’in-
tende nel linguaggio della tradizione filosofica, l’istante come limite o
condizione del tempo, quindi diverso dall'attimo (v.) che è una specie di
incontro tra l'eternità e il tempo. Secondo Aristotele, l'O. è il presente
istantaneo, senza durata, che funge da limite mobile tra il passato e il futuro
(Fis., IV, 11, 219 a 25). La nozione ritorna frequentemente nelle speculazioni
medievali sul tempo. Talvolta l’O. fu concepita come una res fluens che subito
si corrompe e manca ed è soppiantata da un’altra (cfr. PIETRO AUREOLO, In
Sent., II, d. 2, q.1, a. 3). Questa concezione fu combattuta da Ockham che
identificò l’istante con la posizione del mobile il cui movimento si assume
come misura del tempo (Summulae in libros physicorum, IV, 8). Nella filo- sofia
contemporanea, il termine è stato adoperato da Husserl per indicare l’orizzonte
temporale del- l’esperienza vissuta. Poichè nessuna esperienza può cessare
senza la coscienza di cessare o di essere cessata, questa coscienza è un nuovo
istante pre- sente od ora. « Ciò significa che ogni O. di un’espe- rienza ha un
orizzonte di esperienze che hanno anch’esse la forma originaria dell’O. e come
tali costituiscono l’orizzonte originario dell’io puro, il suo complessivo
originario O. di coscienza » (Ideen, I, $ 82). ORDINE (gr. t4Ec; lat. Ordo;
ingl. Order; franc. Ordre; ted. Ordnung). Una qualsiasi relazione tra due o più
oggetti che possa essere espressa con una regola. Questa nozione, che è la più
generale, fu espressa da Leibniz per la prima volta in un passo del Discorso di
metafisica (1686): « Ciò che passa per straordinario lo è solo rispetto a
qualche O. particolare stabilito tra le creature perchè, quanto all’O.
universale, tutto è perfettamente armonico. Ciò è talmente vero che non solo
non accade nulla nel mondo che sia assolutamente fuori regola, ma non si
saprebbe nemmeno immaginare qualcosa che sia tale. Supponiamo infatti che
qualcuno segni una quantità di punti sulla carta in un modo qualsiasi: io dico
che è possibile trovare una linea geometrica la cui nozione sia costante e
uniforme secondo una certa regola, e tale che passi per tutti questi punti
proprio nell’O. con cui la mano li ha tracciati. E se qualcuno traccia una
linea continua, ora retta ora curva ora d'altra natura, è possibile trovare una
nozione o regola o equazione comune 639 a tutti i punti di questa linea in
virtù della quale i mutamenti stessi della linea risultano spiegati. Per es.
non vi è alcun viso il cui contorno non faccia parte di una linea geometrica e
non possa essere tracciato d’un sol tratto a mezzo di un certo movi- mento
regolato. Ma quando una regola è molto complessa ciò che le appartiene passa
per irregolare. Così si può dire che in qualunque modo Dio avesse creato il
mondo, il mondo sarebbe stato sempre regolare e fornito di un O. generale »
(Discours de mét., $ 6). L’O. in questo senso consiste semplice- mente nella
possibilità di esprimere con una regola, cioè in modo generale e costante, una
relazione qualsiasi intercedente tra due o più oggetti qualsiasi. La nozione di
O. in questo senso non si distingue pertanto da quella di relazione costante.
Ma questo è però solo il significato generalissimo della nozione stessa.
Nell'ambito di esso si possono distinguere tre nozioni specifiche: 1° L’O.
seriale; 2° L’O. totale; 3° Il grado o livello. 1° L’O. seriale è quello
proprio della relazione di prima e dopo. Aristotele osservò che questa rela-
zione ricorre là dove vi è un principio perchè in tal caso le cose possono
essere più o meno vicino al principio. Un prima o un dopo può essere deter-
minato rispetto allo spazio e al tempo o al movi- mento o alla potenza o alla
disposizione. Anche nella conoscenza qualcosa vien prima dell’altra o per de-
finizione o nel senso in cui la sensazione vien prima del concetto. In generale
di due cose vien prima quella che può stare senza l’altra: tale, è secondo
Aristotele, l’espressione più generale di questa forma d’ordine (Mer., V, 11,
1018 b 9). Aristotele sembra così privilegiare come O. seriale 1’O. causale che
è per l’appunto quello nel quale la causa può stare senza l’effetto, ma
l’effetto non può stare senza la causa onde viene dopo di essa: un’inter-
pretazione che ritorna frequentemente nella tradi- zione filosofica.
Sant'Agostino diceva, per es.: «O dimostrate che qualche cosa può avvenire
senza causa o credete con me che nulla avviene se non per un certo O. di
cause», identificando così la nozione stessa di O. con quella di causalità (De
Ord., I, 4, 11). E Spinoza faceva coincidere l’O. delle cose con la loro
connessione causale; e consi- derava come sinonimi le due espressioni «1’O. di
tutta la natura» e «il nesso delle cause» (Er., II, 7, Scol.). Kant non solo
effettuava la stessa identificazione ma addirittura considerava l’O. causale
come condizione dell’O. temporale. « Una cosa, egli diceva, può acquistare il
suo posto deter- minato nel tempo solo a condizione che si presup- ponga, nello
stato precedente, un’altra cosa a cui essa debba seguire sempre, cioè secondo
una regola; donde risulta in primo luogo che non posso capo- volgere la serie e
fare che il conseguente sia ante- 640 riore al precedente; e in secondo luogo
che, quando lo stato precedente è posto, un determinato avveni- mento deve
immancabilmente e necessariamente seguire » (Crir. R. Pura, Anal. dei Princ.,
cap. II, sez. 3, Analogie dell’esperienza). Analogamente, per Bergson, l’O.
naturale è quello «fisico» o « geometrico» o «automatico », fuori del quale non
c’è che l’O. « vitale » o « voluto » cioè l'O. dei fini (Év. créatr., 83 ediz.,
1911, pag. 251-52). Tuttavia questo privilegio accordato all’O. causale non
sempre oscura il concetto formale dell’ordine seriale. S. Tommaso riprendeva la
definizione di Aristotele: «Si parla sempre di O., egli diceva, nei confronti
di qualche principio. E poichè si parla di principio in molti modi; cioè
secondo il luogo, come quando si parla del punto; secondo l’intelletto, come
quando si parla del principio della dimostrazione; e secondo le cause singole;
così anche si parla dell’O.» (S. 7A., I, q. 42, a. 3). In questo passo l’O.
causale è soltanto una esempli- ficazione dell’O. generale. Allo stesso modo
Wolff definiva 1'’O. come «l’ovvia similitudine per la quale le cose si
collocano l’una rispetto all'altra o si seguono l’un l’altra »: dove l’ovvia
similitudine è la costanza della relazione (Ont., $ 472). Lo stesso Kant esprimeva
chiaramente il concetto di O. seriale quando identificava l’O. con la
regolarità, come fece a proposito del concetto formale di natura (Crit. R.
Pura, $ 26). C. I. Lewis, osserva che 1°O. aritmetico, che viene imposto agli
oggetti naturali, consente «ad una infinita molteplicità di essere sottoposta
ad una finita semplicità di regole » (Mind and the World-Order, 1929; ediz.
1956, pag. 363). I matematici e i logici, da Cantor in poi, considerano come O.
una relazione delimitata da certe regole. Per es., se si assume la relazione
precede, bastano le regole seguenti a ottenere un O. semplice: 1° nes- sun
termine precede se stesso; 2° se 4 precede 6 e b precede c, allora a precede c;
3° se a e è sono due termini differenti qualsiasi, o 4 precede 6 o b precede a.
Si può infine avere quello che Cantor chiamò un «insieme ben ordinato »
ammettendo una quarta regola: in ogni classe non vuota di termini c'è un primo
termine cioè un termine che precede tutti gli altri della classe (cfr. A.
CHURCH, Intr. to Mathematical Logic, $ 55). 2° La seconda specie di O. è quella
che consiste nella disposizione reciproca delle parti di un tutto: come notava
Aristotele, questa specie di O. può concernere il luogo, la potenza o la forma
(Mer., V, 19, 1022 b 1). Questo è IO. che gli Stoici defi- nivano, secondo la
testimonianza di Cicerone (Tusc., I, 40, 142) come «la disposizione degli
oggetti nei loro luoghi adatti ed appropriati »; una definizione la quale, come
è ovvio, presuppone che sia predisposto, per ogni oggetto, il luogo adatto
ORESSI ed appropriato in vista del fine che è proprio dell’og- getto; ed è
perciò fondata sul concetto di fine. Se l’O. seriale è, essenzialmente, un O.
causale, l’O. totale è, essenzialmente, un O. finale. È questo 1’O. che
Aristotele aveva paragonato a quello di un esercito o di una casa e di cui
aveva detto: «Tutte le cose sono ordinate insieme intorno ad un'unica cosa:
come in una casa in cui gli uomini liberi hanno regolato tutta o la maggior
parte della loro attività mentre gli schiavi contribuiscono poco al bene
comune» (Mer., 12, 10, 1075a 18). È l’O. che S. Tommaso chiamava «O. dei fini»
o « degli agenti » (S. 7%., I, II, q.109 a. ©, che Kant ha chiamato O. morale o
regno dei fini (v.) e Bergson «O. vitale» (Év. créatr., 8° ediz., 1911, pag.
251). Ovviamente, quando quest’O. viene attribuito al mondo, si considera il
mondo stesso, o almeno il suo O., come il prodotto di un agente libero. 3°
Infine il terzo concetto di O. è quello di grado o livello. Già S. Tommaso
faceva la distin- zione tra l’O. come gerarchia e l’O. come singolo grado della
gerarchia stessa: « Nel primo senso, egli diceva, l’ordine comprende sotto di
sè diversi gradi; nel secondo è un grado solo, sicchè si parla di più ordini di
un’unica gerarchia » (S. 7h., I, q. 108, a. 2). In questo secondo senso l'O. è
sempli- cemente il grado, il piano o il livello, di un O. totale. ORESSI. V.
APPETIZIONE. ORFISMO (lat. Orphismus; ingl. Orphism; franc. Orphisme; ted.
Orphismus). Una setta filoso- fico-religiosa assai diffusa nella Grecia a
partire dal sec. VI a. C. e che si riteneva fondata da Orfeo. La credenza
fondamentale della setta era che la vita terrena fosse una semplice
preparazione per una vita più alta, che poteva essere meritata per mezzo di
cerimonie e di riti purificatori, che costi- tuivano l’armamentario segreto
della setta. Questa credenza passò in diverse scuole filosofiche della Grecia
antica (Pitagorici, Empedocle, Platone); ma l’importanza attribuita da alcuni
filologi e filosofi, nei primi decenni di questo secolo, all’O. nella
determinazione dei caratteri della filosofia greca non viene riconosciuta da
alcuno. Cfr. O. KERN,
Orphicorum Fragmenta, Berlino, 1923; I. M. Lin- FORTH, The Arts of Orpheus,
1941. ORGANICISMO (ingl. Organicism; franc. Or-
ganicisme; ted. Organizismus). Ogni dottrina che interpreti il mondo, la natura
o la società per ana- logia con l'organismo. L’O. è pertanto assai antico e
diffuso giacchè sotto di essi ricadono sia le an- tiche speculazioni fisiche
del mondo come « grande animale» sia le speculazioni politiche dello Stato
concepito per analogia con l’uomo. Ma in realtà il termine (che è recente e
deriva dalla biologia) viene abitualmente riferito soltanto a dottrine re-
centi; in particolare, a quella di Whitehead il quale ORGANISMO ha chiamato il
suo proprio punto di vista con questo termine o con quello di «filosofia
dell’or- ganismo ». La dottrina di Whitehead fa proprio il concetto classico di
organismo, come totalità le cui parti non precedono il tutto, e considera l’in-
tero universo come un organismo in questo senso (Process and Reality, 1929).
Essa è un O. anche perchè attribuisce la sensibilità a tutto il mondo reale
(/bid., pag. 249). Fuori della filosofia, il termine è stato talora adoperato
per designare le teorie sociologiche che interpretano la società umana come un
organismo: ad es., la dottrina di Spencer (Principles of Sociology, 1876).
ORGANICO (ingl. Organic; franc. Organique; ted. Organisch). Che è un organismo
o appartiene all'organismo. Oltre i significati relativi a questo termine,
l’aggettivo è stato ed è talora adoperato per indicare quella subordinazione
delle parti al tutto che si ritiene propria dell’organismo. Così Saint-Simon e
Comte adoperarono l’aggettivo O. per indicare le epoche in cui tutte le
manifestazioni della vita sono subordinate ad un unico principio, come avvenne,
ad es., nel Medioevo nei confronti del principio teologico (v. CRISI).
ORGANISMO (gr. èpravixdv obpa; lat. Corpus Organicum; ingl. Organism; franc.
Organisme; te- desco Organismus). Il corpo vivente in ciò che specificamente lo
distingue da quello non vivente. Il concetto di O. fu per la prima volta
formulato da Aristotele nel modo seguente: «Se la scure deve spaccare il legno,
deve di necessità essere dura; e se dev'essere dura, dev’essere di necessità di
bronzo o di ferro. Ora esattamente allo stesso modo, il corpo, che è uno
strumento come la scure — giacchè sia le sue singole parti sia esso stesso
nella sua totalità hanno ciascuno un loro fine — deve di necessità essere fatto
così e così, se deve compiere la sua funzione » (De Part. An., I, 1, 642a 10).
In questa nozione il tratto fonda- mentale è che l’intera struttura dell’O. è
subordi- nata alla sua funzione cioè al suo fine di sopravvivere come O.; e da
questo tratto deriva l’altro, della subordinazione delle parti al tutto. Perciò
Aristo- tele dice, a proposito della composizione degli ani- mali, che una casa
non esiste in vista dei mattoni e delle pietre, ma mattoni e pietre esistono in
vista della casa (/bid., II, 1, 646a 27); e che «la scienza della natura si
occupa della composizione e della totalità della sostanza e non delle parti che
non possono esistere separatamente dalla so- stanza stessa » (/bid., I, 5, 645
a 33). La subordi- nazione delle parti al tutto che, esso solo, è la so- stanza,
è rimasta la caratteristica fondamentale dell'organismo. Ma questa
caratteristica è ovvia- mente determinata dalla struttura finalistica del-
l'organismo. Proprio perchè questo nella sua to- 41 641 talità dev’essere
adatto al suo fine e subordinato ad esso, le parti dell'O. devono essere
subordinate alla totalità dell’O. stesso. Il concetto di fine è rimasto
pertanto da Aristotele in poi a fondamento della nozione di O. e rimase tale
anche quando, con Cartesio, l’O. cominciò ad essere considerato come una
macchina. «Coloro che sanno, diceva Cartesio, quanti automi o macchine moventi
l’in- gegnosità umana può costruire senza adoperare che pochi pezzi
relativamente alla grande moltitu- dine di ossa, muscoli, nervi, arterie, vene,
ecc., che sono nel corpo di ciascuno di noi, considerano questo corpo come una
macchina che, essendo uscita dalle mani di Dio, è incomparabilmente meglio
ordinata e ha in sè movimenti più am- mirevoli di quelle che possono essere
inventate dagli uomini » (Disc., V). Un orologio o una mac- china infatti non è
senza scopo; ed equiparando l’O. a una macchina, Cartesio non intendeva ne-
gare la sua finalità ma semplicemente presentare la tesi che la struttura
finalistica dell’O. dipende, non già da una forza esterna all’O. stesso cioè
dall’anima, ma dalla varietà e dalla coordinazione delle parti, cioè dalla
stessa organizzazione. Del resto anche Leibniz, che insistè fortemente sull’or-
dinamento finalistico dell’universo, considerò l’O. come una macchina. «Ogni
corpo organico, egli disse, è una specie di macchina divina o di automa
naturale che sorpassa infinitamente tutti gli automi artificiali » (Mon., $
64). Solo da Kant la finalità di un automa o di una macchina fu per la prima
volta distinta da quella dell’organismo. «In un orologio, osserva, Kant, una
parte è lo strumento che serve al movimento delle altre ma non è la causa
efficiente della produzione delle altre: una parte esiste bensì in vista delle
altre, ma non per mezzo di esse. Perciò la causa produttrice dell’oro- logio e
della sua forma... sta fuori di esso, in un essere che può agire secondo le
idee di un tutto possibile mediante la sua causalità ». Nell’O. in- vece, «ogni
parte è concepita come esistente solo per mezzo delle altre e per le altre e il
tutto, vale a dire come uno strumento (organo) +: come « uno strumento che
produce le altre parti ed è recipro- camente prodotto da esse +. In altri
termini le parti di un O. sono nello stesso tempo causa ed effetto l’una
rispetto all’altra e tutte rispetto alla totalità dell’organismo. In tal senso
l’O. non possiede la semplice forza motrice, come la macchina, ma ha anche «
una forza formatrice tale che si comunica alle materie che non l’hanno e che
perciò può or- ganizzare; una forza formatrice che si propaga e che non può
essere spiegata con la sola facoltà del movimento » (Crit. del Giud., $ 65).
Queste notazioni kantiane, chiarendo assai bene il finalismo intrinseco
dell’O., rendono in qualche 642 modo inutile il finalismo complessivo della
natura o lo fanno passare in seconda linea. L’organizza- zione finalistica
dell’O. infatti può essere compresa o ammessa indipendentemente dal finalismo
uni- versale della natura. Tuttavia, le speculazioni della filosofia romantica
sull’organismo, pur prendendo lo spunto dai concetti kantiani, tendono appunto
a risolvere la finalità intrinseca dell'O. nella finalità universale; o meglio
ad estendere la prima all’in- tero universo. Dice, ad es., Schelling: « Nel
pro- dotto naturale è ancora congiunto quello che, nell’operare libero, si è separato
in servizio del fenomeno. Ogni pianta è interamente quello che dev'essere; il
libero è in essa necessario e il neces- sario libero... Solo la natura organica
dà la com- pleta immagine della libertà e della necessità riunite nel mondo
esterno » (System des transzendentalen Idealismus, V; trad. ital., pag. 289).
Ancora più arbitrariamente, Hegel considera come primo O. la terra perchè è «
un sistema universale di corpi individuali » (Enc., $ 338); ed afferma che,
nono- stante la vitalità naturale si rompa nella moltepli- cità degli animali
viventi, questi « nell’idea sono una sola vita, un unico sistema organico di
vita » (Ibid., $ 337). Qui l’O. non è considerato nei suoi tratti specifici ma
semplicemente dissolto nel fina- lismo cosmico. E a questo stesso risultato
giunge la dottrina di Bergson che vede nell’O. il risultato di uno slancio
vitale (o corrente di coscienza) che penetra e assoggetta la materia bruta.
Quello che dal punto di vista della scienza è una « macchina », dal punto di
vista della filosofia è l’equilibrio rag- giunto dallo slancio vitale nel suo
sforzo formatore. « Per noi, egli dice, l’insieme di una macchina or- ganizzata
rappresenta bensì l'insieme del lavoro organizzativo (benchè anche questo non
sia vero che approssimativamente) ma le parti della mac- china non
corrispondono alle parti del lavoro giacchè la materialità della macchina non
rappre- senta più un insieme di mezzi adoperati ma un insieme di ostacoli
aggirati: è una negazione più che una realtà positiva» (Év. créatr., 8* ediz.,
1911, pag. 102). La realtà positiva è soltanto lo slancio vitale, cioè la
coscienza. La disputa metafisica tra finalismo e meccanismo o tra materialismo
e vitalismo non influisce sul con- cetto di organismo. Quella che dopo Kant si
è convenuto di chiamare « finalità interna» dell’O. non è stata messa in dubbio
neppure (come si è visto) da coloro che concepivano l’O. come mac- china.
Dall’altro lato la risoluzione della finalità intrinseca dell’O. nel finalismo
cosmico, che è cara a tutte le forme del vitalismo e in generale a tutte le
interpretazioni metafisiche dell’O., non aiuta per nulla a chiarire il concetto
di O. perchè non fa che dare, con l'appello a una tesi generica, una solu-
ORGANISMO zione apparente al problema di intendere le forme specifiche di
azione della finalità organica. I biologi contemporanei tendono pertanto a
mettersi fuori dell’antitesi fra meccanismo e finalismo. Goldstein ritiene
inutile l’appello all’enselechia come quello al finalismo cosmico; ma ritiene
indispensabile in- sistere sull’azione dell'O. come totalità. Questo con- duce
ad ammettere il finalismo interno dell'O. stesso: « L’ipotesi di un compito
determinato, egli dice, è superflua per la comprensione dell’O., ma l’ipotesi
di uno scopo determinato (la realizzazione dell’essenza dell'O.) è assai
feconda per la nostra comprensione dell’O. » (Der Aufbau des Organismus, 1934,
pag. 264). Più recentemente Simpson ha detto: « Noi sappiamo che il fuoco non è
un elemento O principio separato ma è un processo e un’orga- nizzazione della
materia in cui la condotta della materia è diversa da quella che è nel
non-fuoco. Allo stesso modo, la veduta materialistica non è abbandonata quando
la vita viene considerata come un processo e un’organizzazione in cui la
condotta della materia è diversa da quella che si riscontra negli stati non
viventi » (The Meaning of Evolution, 1952, pag. 125). Dall'altro lato la
capacità del- l’O. di sfruttare le possibilità o opportunità che la sua
struttura o le sue proprie variazioni o l’am-biente stesso gli offrono, quello
che Simpson chiama l’opportunismo della vita, non è altro che la stessa «
finalità intrinseca » di cui parlano gli altri biologi. Questa era stata anche
riconosciuta da uno dei fondatori del Circolo di Vienna, Moritz Schlick. «Un
gruppo di processi o di organi, egli aveva detto, è chiamato finalistico
rispetto a un effetto definito, se quest’effetto è l’effetto normale nella
cooperazione dei processi o degli organi. L’accento qui va sulla cooperazione;
in un caso specifico, questi processi, dipendenti dalle circostanze, pos- sono
accadere in vari modi ma sono dipendenti l’uno dall’altro e legati insieme in
modo che pro- ducono sempre approssimativamente la stessa sorta di effetti » («
Naturphilosophie », in Die Philosophie in ihren Einzelgebieten, Berlin, 1925;
trad. ingl., in Readings in the Philosophy of Science, 1953, pag. 529). Questo
concetto di finalismo non ha certamente nulla a che fare con la tesi del
finalismo universale: si tratta di un finalismo limitato, spe- cifico, che
procede per tentativi e riesce solo in certi casi: non dell’infallibile piano
universale in cui tutti gli esseri trovano una loro salvaguardia. Esso è stato
talvolta chiamato releonomia (v.). Da questo punto di vista l’O. può essere
considerato una macchina, dotata tuttavia di unità funzionale, coerente ed
integrale e, per di più, che si costruisce da sè, sul fondamento di un piano o
progetto che si mantiene relativamente invariante da una gene- razione
all’altra (cfr., ad es., J MonoD, Le hasard ORIZZONTE et la nécessité, 1970,
cap. III). V. CIBERNETICA; SISTEMA; STRUTTURA. ORGANO (gr. 8pyavov; lat.
Organum; inglese Organ; franc. Organe; ted. Organ). Nel senso spe- cifico della
biologia, dalla quale il termine è pas- sato alla filosofia, l’O. fu definito
da Aristotele in base alla funzione da esso compiuta e per ana- logia con lo
strumento inorganico: « Ogni stru- mento, egli disse, ed ogni parte del corpo
ha un suo fine cioè una sua azione specifica... Come la sega è fatta per segare
ma non il segare per la sega, sicchè il segare è la sua funzione specifica così
il corpo è fatto per l’anima e le parti del corpo hanno per natura ciascuna la
propria funzione» (De Part. An., 1, 5, 645b 12). Questo concetto è rimasto
costante, nella biologia, nella filosofia e in tutti gli altri campi in cui
viene adoperato. ORGANON (gr. 3pyavov; lat. Organum). Con questo titolo fu
indicato, dai commentatori greci, l'insieme delle opere logiche di Aristotele
cioè: il libro delle Categorie; il libro dell’Interpretazione; i due libri
degli Analitici primi; i due libri degli Analitici posteriori; gli otto libri
dei Topici e il libro degli Elenchi sofistici. Due altre volte il nome di O.
compare come titolo di libro: cioè col Novum Organum (1620) di Francesco Bacone
che esplici- tamente contrappose la sua logica alla logica ari- stotelica; e
col Neues O. (1764) di J. H. Lambert, il filosofo illuminista tedesco con il
quale Kant intrattenne un’importante corrispondenza. L’uso di tale titolo
tuttavia non ha un rapporto preciso con il compito attribuito alla /ogica (v).
ORIENTAMENTO (ingl. Orientation; fran- cese Orientation; ted. Orientierung).
Questo termine fu introdotto in filosofia da Kant che intese per esso il
problema del modo in cui la ragione deve condursi fuori dei limiti, assai
ristretti, del sapere empirico cioè della conoscenza effettiva: « Orien- tarsi
nel pensiero in generale, disse Kant, signi- fica: data l’insufficienza dei
princìpi oggettivi della ragione, determinarsi nel dominio del verosimile,
secondo un principio soggettivo della ragione stessa » (Was Heisst: sich im
Denken Orientieren?, 1786, A, 310). Kant escludeva che l’uomo potesse orien-
tarsi in base alla fede o ad un supposto sapere intuitivo. Il termine è stato
ripreso da Jaspers che ha intitolato «O. filosofico nel mondo » il primo volume
della sua Philosophie (1932). LO. nel mondo, si ha secondo Jaspers quando
l’uomo considera se stesso come un elemento o cosa del mondo, fra innumerevoli
elementi o cose, e cerca di trovare così la sua via. L’O. però mette capo
soltanto alla rottura del mondo in una molteplicità di prospet- tive cosmiche
(Phil., I, pag. 69 sgg.). Fuori di questi significati specifici, il termine
viene ampia- mente adoperato, con significato assai poco pre- 643 ciso, nel
linguaggio comune e filosofico contem- raneo. ORIGINE (lat. Origo; ingl.
Origin; franc. Ori- gine; ted. Ursprung). Il termine ha due significati che
vengono spesso confusi: 1° cominciamento o atto o fase iniziale; 2° fondamento
o principio. Il «ritorno alle O.» che fu il tratto caratteristico del
Rinascimento (v.) è una nozione fondata sullo scambio dei due significati. E
sullo stesso scambio si fondò l’importanza dei cosiddetti problemi di origine,
quali furono dibattuti nel sec. xvm e nel sec. x1x: l’O. delle idee, della vita,
del linguaggio, delle specie viventi, ecc.; giacchè nei problemi così posti
l’O. non significava solo la nascita nel tempo ma altresì il principio o il
fondamento dell'oggetto di cui si cercava l’origine. Lo stesso significato
equivoco aveva la parola nel vecchio problema dell’O. del male: Se Dio c’è,
donde viene il male? E se non c’è, donde viene il bene? (cfr. S. Aco- stino,
Conf., VII, 5). «Giudizio di O.» chiamò H. Cohen il giudizio nel quale qualcosa
è dato, non come materiale grezzo, ma come ciò che il pensiero stesso può
trovare: come il segno x della matematica che significa, non
l’indeterminatezza, ma la determinabilità (Logik, 1902, pag. 83). ORIZZONTE (gr. repityov; lat.
Horizon; in- glese Horizon; franc. Horizon; ted. Horizont). Il li- mite che circoscrive le possibilità di una
ricerca, di un pensiero o di un’attività qualsiasi: un limite che si può
spostare ma si ripresenta dopo ogni sposta- mento. Il termine fu introdotto in
filosofia da Anassi- mandro (sec. vi a. C.) che considerò il Principio
(l’infinito o apeiron) come ciò che « abbraccia tutte le cose e le dirige »
(ARIST., Fis., III, 4, 203 b 11). Nel senso moderno il concetto fu chiarito da
Kant che intese per orizzonte il limite o la mi- sura dell’estensione della
conoscenza e distinse un orizzonte /ogico che concerne i poteri conoscitivi in
rapporto all’interesse dell’intelletto; un orizzonte estetico che concerne il
gusto in rapporto all’in- teresse del sentimento e un orizzonte pratico che
concerne l’utile in rapporto all’interesse della vo- lontà. In generale «
l’orizzonte concerne il giudizio e la determinazione di ciò che l’uomo può
sapere, riesce a sapere © deve sapere»; e può essere ogger- tivo, nel qual caso
è storico oppure razionale; o soggettivo nel qual caso è universale o assoluto
oppure particolare o privato (Logik, Einleitung, $ VI, A). La nozione è stata
ripresa nella filosofia contem- poranea e in primo luogo da Husserl, che ha
inteso per O. il limite temporale (inteso come presente o ora) in cui cade ogni
esperienza vissuta (/deen, I, $ 82); poi da Jaspers attraverso il quale è
passata nel corrente uso filosofico. Dice Jaspers: « Noi sempre viviamo e
pensiamo in un O. circoscritto. 644 Per il fatto stesso che si tratta di un O.,
abbiamo il presentimento di un O. più vasto che comprenda a sua volta l’O.
raggiunto: sorge così il problema di un O. che abbracci ogni altro O. (O.
conglobante, das Umgreifende). L’O. conglobante è un O. nel quale si offre a
noi ogni tipo determinato di realtà e di verità ma è anche ciò in cui ogni
singolo O. è compreso come in quell’O. che tutto congloba e che non è neppure
più pensabile come O. » (Vernunft und Existenz, 1935, pag. 29). Mentre il
concetto di O. conglobante, che è quello di O. di tutti gli orizzonti
possibili, rimane proprio della filosofia di Jaspers, quello di O. può essere
utilmente adoperato da qualsiasi indirizzo filosofico per indicare i limiti di
validità di una ricerca determinata, o il tipo di validità cui aspirano gli
strumenti di cui si serve (cfr. C. D. Burns, The Horizon of Experience, 1934;
ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, pa- gina 95 segg.). ORMICA, TEORIA
(ingl. Hormic Theory). Così è comunemente chiamata nella letteratura an-
glosassone la teoria secondo la quale le emozioni dipendono da certi istinti
fondamentali (spuì = = istinto), che sarebbero alla base di tutta l’attività
psichica. La teoria è stata sostenuta da G. F. Stout, J. Dewey, S. Alexander,
T. P. Nunn (che per primo ha adoperato l’espressione) e principalmente da W.
McDougall. Su di essa vedi J. C. FLUGEL, Studies in Feeling and Desire, London,
1955 (v. EMOZIONE). ORTOGENESI (ingl. Ortlogenesis). La dot- trina che
l’evoluzione della vita segua una linea retta o tenda a seguirla. Le
interpretazioni date dai biologi a questo concetto sono disparate; sostanzialmente
l’O. è la tesi difesa da coloro che ammettono il finalismo della vita. Talora,
ma più raramente, il punto di vista opposto all’O. si chiama poligenesi: il
riconoscimento di linee di evoluzione diverse e disparate nei fenomeni della
vita (con- fronta G. G. Simpson, The Meaning of Evolution, 1952, pag. 132).
OSSERVAZIONE (ingl. Observation; francese Observation; ted. Beobachtung).
L'accertamento o la constatazione di un fatto, sia che si tratti di un
accertamento spontaneo od occasionale sia che si. tratti di un accertamento
metodico o progettato. L’O. è stata talora ristretta al primo significato, nel
qual caso ad essa si contrappone l’esperienza o l'esperimento come accertamento
deliberato o metodico (cfr. C. BERNARD, /ntroduction è l’étude de la médecine
expérimentale, 1865, I, cap. 1). E talora è stata ristretta al secondo
significato, nel qual caso ad essa si contrappone l’esperienza in- genua o
primitiva o comune o occasionale (in tal senso il termine è adoperato
solitamente nel lin- guaggio scientifico contemporaneo). Stando ciò, si possono
comprendere sotto il termine entrambi ORMICA, TEORIA i significati e
distinguere: 1° lO. naturale, che è quella nella quale le condizioni dell’O.
non sono progettate o progettabili; e 2° l’O. sperimentale (o esperimento) che
è l’O. progettata, caratterizzata dal controllo delle variabili. In questo
secondo tipo di O., si può agire sulla variabile indipendente e si può studiare
il corrispondente comportamento della variabile dipendente cioè della funzione
collegata. Ogni O., sia naturale che sperimentale, presenta la divisione tra
sistema osservante e sistema osservato. La validità di questa divisione è stata
messa a prova (e riconfermata) dalla fisica dei quanta, a proposito delle
relazioni di indetermi- nazione (v.) cioè dell’azione che il sistema osser-
vante esercita su quello osservato. Bohr e Heisen- berg hanno mostrato che,
mentre il limite tra sistema osservante e sistema osservato non è rigido, nel
senso che sono possibili descrizioni diverse di uno stesso fenomeno nelle quali
quel limite è diver- samente situato (cfr. BoHR, « Wirkumsquantum und
Naturbeschreibung », in Nasurwissenschaften, 1929 [26], pag. 484-85), esso non
può venir meno senza che venga meno il carattere fisico del sistema. Si può infatti
evitare di calcolare l’azione disturba- trice del sistema osservante
includendo, nel calcolo, lo stesso sistema osservante. Ma poichè anche così
l’indeterminazione rimane a proposito dell'O. di quest’ultimo, bisognerebbe
includere nel sistema osservato anche i nostri occhi. In questo caso, nota
Heisenberg, «si potrebbe trattare quantitati- vamente la catena di cause ed
effetti solo quando si considerasse come parte del sistema osservato l’intero
universo; ma allora la fisica sparirebbe e rimarrebbe soltanto uno schema
matematico. La suddivisione del mondo in sistema osservante e sistema osservato
impedisce così la netta formula- zione della legge causale» (Die physikalischen
Prinzipien der Quantentheorie, 1930, IV, $ 1). Come nota lo stesso Heisenberg,
per « sistema osservante + non si deve intendere necessariamente l’osservatore
umano giacchè per esso si può intendere anche una lastra fotografica o un
apparato qualsiasi. Perciò la divisione, tra sistema osservante e sistema
osser- vato, che la fisica ritiene indispensabile per dare significato fisico
(cioè non puramente matematico) ai suoi enunciati, non equivale alla
distinzione filosofica tradizionale tra oggetto e soggetto: alla quale
d'altronde contrasta anche l’asserita mobilità del limite di demarcazione fra i
due sistemi. OSTACOLO (ingl. Obstacle, Hindrance; francese Obstacle; ted.
Hinderniss). Il limite di una attività. Così definì l’O. Fichte: « Che
significa un’attività determinata e come diviene essa tale? semplice- mente per
il fatto che ad essa viene contrapposto un O.» (Sittenlehre, 1798, Intr., $ VI;
Werke, IV, pag. 7). Cfr. R. Le SENNE, Obstacle et Valeur, 1934. OTTIMISMO OSTENSIVO (gr. Sewmtwés; lat. Ostensivus;
ingl. Ostensive; franc. Ostensif; ted. Ostensiv). Si qualificano così le prove
dirette cioè che provano positivamente la verità di una tesi, per distinguerle
dalle prove indirette che tendono a provare una tesi negativamente, con la
dimostrazione della fal- sità del suo contrario. Le prove indirette sono dette
apagogiche (v. ABDUZIONE; RIDUZIONE). La distinzione è in Aristotele (An. Pr.,
I, 23, 40b 27) ed è riprodotta da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 8, 2). Secondo Kant,
l’uso delle prove apagogiche do- vrebbe essere proscritto in filosofia, mentre
è le- gittimo nelle scienze sperimentali (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del
metodo, cap. 1, sez. 4). OTTIMISMO (ingl. Optimism; franc. Opti- misme; ted.
Optimismus). Questo termine si cominciò a diffondere nella cultura europea
durante le discus- sioni filosofiche sull’ordine e sulla bontà del mondo cui
dette luogo il terremoto di Lisbona del 1755. In un Poema sul disastro di
Lisbona (1755) Voltaire aveva combattuto la massima « tutto è bene » consi-
derandola come un insulto ai dolori della vita; e al- cuni anni dopo nel
romanzo Candido o l°O. (1759), aveva fatto una satira feroce di questa massima
e del- l’intero atteggiamento su di essa imperniato. L’O. trovava però altri
difensori, tra i quali Kant che, nello stesso anno 1759 pubblicava un breve
scritto intitolato « Saggi di talune considerazioni sull’O. » (Versuch einiger
Betrachtungen iîber den Optimismus) (in seguito da lui ripudiato) nel quale
difendeva la bontà del mondo in base alla tesi leibniziana che «quando Dio fa
una scelta, sceglie sempre la cosa migliore ». Come Voltaire diceva, l’O. non è
altra cosa che la teoria del finalismo universale. Così nel suo romanzo fa
parlare il Dottor Pangloss maestro di « metafisico-teologo-cosmolonigologia »:
« È dimostrato che le cose non possono essere altri- 645 menti: giacchè essendo
tutto fatto per un fine, tutto è necessariamente volto al fine migliore. Notate
bene che il naso è stato fatto per portare le lenti; e così noi abbiamo le
lenti, ecc. ». Leibniz aveva detto che « Dio ha scelto il mondo che è più
perfetto cioè quello che è nello stesso tempo il più semplice in ipotesi e il
più ricco in fenomeni » (Disc. de mét., $ 6); e che «se nel mondo non ci fosse
il minimo male, non si tratterebbe più del mondo: il quale tutto considerato e
sommato è stato trovato il migliore dal creatore che l’ha scelto » (7héod., I,
9). Questo può essere espresso con la frase con cui Candide costantemente
conclude le sue sfortunate peripezie: « Noi vi- viamo nel migliore dei mondi
possibili: frase che è rimasta come l’espressione popolare dell’ot- timismo.
L’O. è sempre proprio di tutte le dottrine che ammettono il finalismo
universale e specialmente: 1° delle dottrine spiritualistiche a sfondo
teologico, come sono la metafisica aristotelica e quella scola- stica, il
leibnizianesimo e le forme moderne e contemporanee del coscienzialismo
spiritualistico; 2° delle dottrine idealistiche (nel senso romantico del
termine) che condividono il principio della coincidenza tra realtà e
razionalità (principio che significa ciò che Voltaire esprimeva dicendo che «le
cose non possono essere altrimenti +), delle quali è tipica la dottrina di
Hegel. L’opposto dell’O., non è il pessimismo che, nella formulazione data ad
esso da Schopenhauer, pur predicando che «la vita è dolore + ritiene il mondo
nella sua totalità finalisticamente organizzato in vista dell’ordine migliore
(Die Welt, I, $ 28); ma la negazione del finalismo con il riconoscimento del
carattere imperfetto, accidentale e problematico degli ordini riscontrabili
nell’universo. p P, p. Nella logica contemporanea con P viene indicato un
determinato calcolo delle proposizioni e con p (e le lettere che seguono in
ordine alfabetico q, ”, ecc.) una singola proposizione. PACE (ingl. Peace;
franc. Paix; ted. Friede). La più famosa definizione della P. è quella data da
Cicerone nelle Filippiche: « Pax est tranquilla libertas » (Phil, 2, 44, 113):
una definizione che è stata molte volte ripetuta. Più in generale la P. è stata
definita da Hobbes come la cessazione dello stato di guerra cioè come la
cessazione del con- flitto universale fra gli uomini. Pertanto « Cercare di
conseguire la P.+ è, secondo Hobbes, la prima legge di natura (Leviath., I,
14). Come Hobbes, Kant riteneva che lo stato di P. fra uomini non è affatto uno
stato di natura e che pertanto esso dev'essere istituito perchè «la mancanza di
osti- lità non significa ancora sicurezza e se questa non è garantita da un
vicino ad un altro (il che può solo aver luogo in uno stato legale) questo può
trattare come nemico quello a cui tale garanzia abbia richiesto invano» (Zum
ewigen Frieden, 1796, $ 2). Un concetto metafisico è invece la P. per
Whitehead, che la intende come « l’armonia delle armonie che placa la
turbolenza distruttiva e completa la civiltà» (Adventures of Ideas, XX, 8 2).
PAIDEIA. V. CULTURA. PALINGENESI (gr. raQiryevecla; ingl. Pa- lingenesis;
franc. Palingénésie; ted. Palingenesie). Secondo gli Stoici, la rinascita del
mondo dopo la fine di un ciclo di vita (NEMES., De nat. hom., 38; cfr.
MARC’AURELIO, Ricordî, XI, 1: «la periodica rinascita del mondo»). La parola è stata
usata spesso in questo senso o in senso analogo (per es., da C. BONNET,
Palingénésie philosophique, 1769, e da GiosERTI, Protologia, 1857) e talora
anche in sensi ristretti o particolari: per designare la rinascita dell'anima
o, in senso retorico, per indicare un qualsiasi rinnovamento radicale (v.
APOCATASTASI). PAMPNEUMATISMO (ted. Panpneuma- tismus). Termine adoperato da
Eduard von Hart- mann, nello stesso senso di pampsichismo (cfr. Phi-
losophischen Fragmente, pag. 68). PAMPSICHISMO (ingl. Panpsychism; fran- cese
Panpsychisme; ted. Panpsychismus). Il termine, che viene spesso confuso con
ilozoismo (v.), designa in realtà una teoria simmetrica e opposta all’ilo-
zoismo. Questo consiste nell’attribuire alla materia (o alle sue parti) poteri
o attività psichiche ed è perciò materialismo; il P. consiste nel ridurre la
materia stessa ad anima, cioè a proprietà o attri- buti psichici ed è
spiritualismo. Con ciò la materia non viene negata (come fa l’immaterialismo
[v.]); ma i suoi attributi fondamentali, per es., l’esten- sione, il movimento,
ecc., vengono ridotti all’azione di forze o attributi spirituali. In questo
senso la nascita del P. si può ricono- scere nei Platonici inglesi del ’600
(Scuola di Cam- bridge). Cudworth partendo dal principio che « nessun effetto
può sorpassare la forza della pro- pria causa» negava che la vita e l’essere, e
tanto meno la ragione e l’intelletto, potessero derivare da una materia senza
vita. E concludeva che «lo spirito è l’essere primogenito, il signore naturale
di tutto ciò che è» (The True Intellectual System of the Universe, I, 1, 4). Ma
poichè le cose non possono essere prodotte dal meccanismo della ma- teria, e
poichè Dio non produce immediatamente e miracolosamente tutte le cose, bisogna
ammettere una natura plastica che sia uno strumento inferiore e subordinato di
quella parte della provvidenza che consiste nel movimento regolare e ordinato
della materia (/bid., I, 1, 3). A sua volta More elaborava il concetto della
monade fisica cioè di una particella così piccola da non poter essere PARADOSSO
ulteriormente divisa. La monade fisica non ha grandezza fisica propriamente
detta, ma è tuttavia estesa e l’estensione è una qualità spirituale, in-
corporea, un attributo di Dio (Enchiridion Meta- physicum, I, 9, 3; I, 8, 15).
In questo modo Cud- worth e More riducevano la materia e il meccanismo, nei
loro attributi fondamentali — estensione e movimento — a una manifestazione di
elementi o forze spirituali. Proprio a questi autori si è probabilmente ispi-
rato Leibniz, che ha dato al P. la sua forma clas- sica. Secondo Leibniz, la
materia stessa è costituita da monadi nel senso di essere un aggregato di
sostanze spirituali, come un gregge di pecore o come un mucchio di vermi. Gli
elementi della materia perciò non hanno niente di corporeo: sono atomi di
sostanza o punti metafisici, come si po- trebbero chiamare le monadi (Op., ed.
Gerhardt, IV, pag. 483). Il P. di Leibniz fu riprodotto da Lotze nel Microcosmo
(I; trad. ital., pag. 50) che identificò gli atomi di cui parla la teoria
mecca- nistica della scienza con centri di forza spirituale, cioè con monadi
nel senso leibniziano. Il P. è la caratteristica metafisica dello spiritualismo
con- temporaneo (v. SPIRITUALISMO): di quello francese (Ravaisson, Lachelier,
Hamelin) come di quello inglese (Ward) e italiano (Martinetti, Varisco).
PANANIMISMO. Lo stesso che animismo (v.). PANCALISMO (ingl. Pancalism; franc.
Pan- calisme). Termine adoperato da J. M. Baldwin per indicare la sua propria
dottrina secondo la quale la bellezza, come oggetto della attività estetica,
realizza la conciliazione tra l’attività conoscitiva e l’attività pratica,
unificando il mondo dell’espe- rienza (cfr. Genetic Theory of Reality, being
the Outcome of Genetic Logic, as Issuing in the Aesthetic Theory of Reality
called Pancalism, 1915). PANCOSMISMO (ingl. Pancosmism; francese
Pancosmisme).Lo stesso che materialismo. Il termine fu usato da Grote per
designare la dottrina dei presocratici ilozoisti (Plaro and the Other Compa-
nions of Socrates, 1, 1, 18). Il termine non ha avuto fortuna. PANENTEISMO
(ingl. Panentheism; francese Panenthéisme; ted. Panentheismus). Termine creato
da Christian Krause (1781-1832) per designare una sintesi tra teismo e
panteismo che consisterebbe nell’ammettere che tutto ciò che è, è in Dio ed
esiste come rivelazione o realizzazione di Dio (Vorlesungen iiber das System
der Philosophie, 1828, pag. 254 sgg.). In realtà questo punto di vista è
proprio quello del panteismo classico e pertanto non si vede l’utilità del
termine, che difatti non ha avuto fortuna (v. Dio). PANLOGISMO (ingl.
Panlogism; franc. Pan- logisme; ted. Panlogismus). Termine che fu adope- 647
rato da J. E. Erdmann per designare la dottrina di Hegel (Geschichte der
neueren Philosophie, 1853, III, 2, pag. 853) e che viene tuttora adoperato
(seppure non troppo frequentemente) per designare la stessa dottrina o dottrine
analoghe, che am- mettano, cioè, l’identità del razionale e del reale.
PANSATANISMO (ted. Pansatanismus). Ter- mine adoperato polemicamente da O.
Liebmann per designare la dottrina di Schopenhauer, in contrapposto
caricaturale con panteismo (Zur Ana- Iysis der Wirklichkeiît, 2> ediz.,
1880, pag. 230). PANSOFIA (lat. Pansophia). Termine adope- rato da G. A.
Comenius per designare il principio «insegnare tutto a tutti» (Pansophiae
Prodromus, 1639; Schola Pansophiae, 1670). Kant chiama P. l’insieme della
polistoria che è il sapere storico e della polimatia che è il sapere razionale
(Logik, Intr., $ vi). PANSPERMIA (ted. Panspermie). La dot- trina sostenuta da
S. Arrhenius che la vita sulla terra proviene da semi organici diffusi in tutto
l’universo (Werden der Welten, 1907). PANTEISMO (ingl. Pantheism; franc. Pan-
théisme; ted. Pantheismus). Il termine panteista fu usato per la prima volta da
J. Toland (Socianinism Truly Stated, 1705) e quello di P. dal suo avver- sario
Fay (1709). È la dottrina che considera Dio come la matura del mondo, cioè che
identifica la causalità divina con la causalità naturale. Una forma di P.
umanistico è la cosiddetta « teologia senza Dio ». V. Dio; Dio, MORTE DI.
PANTELISMO (ted. Panthelismus). Lo stesso che volontarismo (v.). Il termine fu
usato da E. von Hartmann (Philosophischen Fragmente, pa- gina 68). PARABOLA
(gr. rapaBorn; lat. Parabola; in- glese Parable; franc. Parabole; ted.
Parabel). Argo- mento che consiste nell’addurre un paragone o un parallelo:
come quando Socrate afferma che non si devono scegliere a sorte i governanti
come non si scelgono a sorte gli atleti per una gara. Così illustra Aristotele
la nozione (Rer., II, 19, 1393 b 4). Un senso analogo la parola ha negli
Evangeli (cfr. Marc., XII, 1). PARADIGMA (gr. rapdderyua; ingl. Paradigm;
franc. Paradigme; ted. Paradigma). Modello o esempio. Platone adoperò la parola
nel primo senso (cfr. Tim., 29b, 48 e; ecc.) in quanto con- sidera come P. il
mondo degli esseri eterni, di cui è immagine il mondo sensibile. Aristotele
nella logica usa il termine nel secondo significato (An. Pr., II, 24, 68 b 38);
sul quale v. ESEMPIO. PARADOSSO (gr. rapàdotoc Xoyvos; ingl. Pa- radox; franc.
Paradoxe; ted. Paradox). Ciò che è contrario alla «opinione dei più», cioè al
si- stema di credenze comuni cui si fa riferimento; 648 oppure contrario a
principi che si ritengono ben stabiliti o a proposizioni scientifiche. La
riduzione di un discorso a un'opinione paradossale è con- siderata da
Aristotele negli Elenchi sofistici (cap. 12) come il secondo dei fini che si
propone la Sofistica (la prima essendo la confutazione, cioè il provar falsa
l’asserzione dell’avversario). Bernardo Bol- zano intitolò Paradossi
dell’infinito (1851) il libro in cui presentò per primo il concetto
dell’infinito non più come limite di una serie ma come un tipo speciale di
grandezza, dotato di proprie caratte- ristiche: concetto che doveva venire
definitivamente stabilito nella matematica ad opera di Cantor e Dedekind (v.
INFINITO). E, sul suo esempio, sono stati chiamati talvolta P. le
contraddizioni che na- scono dall’uso del procedimento riflessivo, e che più
comunemente si chiamano antinomie (v.). Nel senso religioso, si è chiamato P.
l’afferma- zione dei diritti della fede e della verità del suo contenuto in
contrasto con le esigenze della ragione. P. è, per es., la trascendenza
assoluta e l’ineffabi- lità di Dio affermata dalla teologia negariva (v.); P. è
il «credo quia absurdum» (v.) di Tertulliano; P. è l’intera fede secondo
Kierkegaard, perchè tutte le categorie del pensiero religioso sono im-
pensabili e la fede crede nonostante tutto e assume tutti i rischi (cfr. Die
Krankheit zum Tode, 1849). Kierkegaard vide nel P. il rapporto stesso tra
l’uomo e Dio: « Il P. non è una concessione ma una care- goria: una
determinazione ontologica che esprime il rapporto tra uno spirito esistente e
conoscente, e la verità eterna » (Diario, VIII, A 11). PARALLELISMO PSICOFISICO (ingl.
Psy- chophysical Parallelism; franc. Parallélisme Psycho- physique; ted. Psycho-physischer Parallelismus). La espressione fu
coniata da Teodoro Fechner (Zend- avesta, II, pag. 141), per designare la
dottrina che gli eventi psichici e quelli fisici costituiscono due serie
parallele di eventi, che non agiscono gli uni sugli altri ma sono causalmente
determinati soltanto dagli eventi omogenei: gli eventi mentali dagli eventi
mentali e gli eventi fisici dagli eventi fisici. Questa dottrina era suggerita
dall’esigenza (o dal desiderio) di non sottoporre gli eventi mentali alla
causalità degli eventi fisici e dall’impossibilità di considerare quest’ultimi
dipendenti dai primi. Essa è servita per parecchi decenni come ipotesi di la-
voro della psicologia sperimentale nel suo primo organizzarsi a scienza
autonoma o relativamente autonoma (v. PsicoLogia). Fu pertanto ammessa e
seguita da coloro che contribuirono ai primi passi di questa scienza e in
particolare da Wundt. Questi intese come « principio del P. psicofisico » il
prin- cipio che « tutti i contenuti empirici che apparten- gono
contemporaneamente alla sfera di considera- zione mediata o scientifica e a
quella immediata o PARALLELISMO PSICOFISICO psicologica stanno in relazione
reciproca, in quanto ogni evento elementare del campo psichico esprime un
corrispondente evento nel campo fisico » (System der Philosophie, 2% ediz.,
1897, pag. 602). Questa dottrina veniva da un lato contrapposta al mo- nismo
(v.) che tende a ridurre gli eventi mentali agli eventi fisici o almeno a
sottoporre gli eventi mentali alla causalità degli eventi fisici; e dall’altro,
allo spiritualismo (v.) che consiste nel tentativo simmetrico e opposto. Essa
perciò è stata bene accettata come ipotesi di lavoro di una ricerca che non voleva
ancorare la sua validità ad una deter- minata metafisica. Nel periodo in cui la
dottrina del P. ha costituito il presupposto della psicologia sperimentale ed è
stato il tema di numerosissime discussioni tra psico- logi e tra filosofi, si è
cercato di connetterla con qualche illustre precedente storico; e il più ovvio
di tali precedenti era senza dubbio la metafisica di Spinoza. Spinoza difatti
aveva detto che « un modo dell’estensione e l’idea di questo modo sono una sola
e medesima cosa espressa in due ma- niere » (Er., II, VII, Schol.); ed aveva
negato l’in- terferenza della causalità dell’estensione e della causalità del
pensiero, affermando che la causa di un pensiero è sempre un pensiero che la
causa di un corpo è sempre un corpo (/bid., III, 2), mentre l’ordine e la
concatenazione delle cose sono sempre le stesse (/bid., III, 2, Schol.). Queste
affermazioni potevano essere interpretate come espressione della dottrina del
P.: per quanto l’intento di Spinoza non fosse quello di garantire l’indipendenza
cau- sale reciproca dei fatti fisici e dei fatti mentali, quanto quello di
garantire la loro comune subor- dinazione alla diretta causalità di Dio. La
dottrina di Spinoza non è veramente un P. ma un monismo panteistico.
D'altronde, la dottrina del P. deve i suoi successi, non alla sua validità
metafisica ma, all’opposto, alla limitazione dell'impegno metafisico che essa
implicava, potendo essere accettata come ipotesi di lavoro indipendentemente
dalla credenza monistica o da quella spiritualistica e non esclu- dendo nè
l’una nè l’altra. Quando la psicologia ha abbandonato la dottrina in esame,
questa è caduta da sè e ha cessato di essere un tema vivo di discussione (v.
PSICOLOGIA). PARALOGISMO (gr. rapadoyionée; inglese Paralogism; franc.
Paralogisme; ted. Paralogismus). Da Aristotele (Soph. E/., passim) in poi
questo ter- mine viene usato per indicare un sillogismo o co- munque un
argomento falso in forma (v. anche FaLLacia). In Kant « P. della Ragion pura »
designa la falsa argomentazione della psicologia razionale, la quale si illude
di poter dedurre dal semplice « io penso » determinazioni materiali ma @ priori
del concetto (idea) di «anima». G. P. PARTE PARAPSICOLOGIA. V. METAPSICHICA.
PARENETICA (gr. rapawverixà réxym; latino Praeceptiva; ingl. Parenetic; franc.
Parénétique). Secondo gli Stoici, quella parte della morale che consiste nel
fornire precetti pratici per la condotta della vita nelle varie circostanze: lo
stesso che precettistica (cfr. SenECA, Ep., 95). Parenetico: esortatorio.
PARENTESI (ingl. Parentheses; franc. Paren- thèses; ted. Parenthese). In logica
e in matematica, le P. sono un segno di associazione. Cosl nell’espres- sione
[n — (x — y)] le P. interne servono esclusiva- mente a mostrare l’associazione
delle parti x — y dell’espressione. Nella terminologia della fenome- nologia
contemporanea « mettere in P.» significa effettuare la sospensione o epoché
fenomenologica (v. EPOCHE). PARIMPARI (gr. dprionépirtov; ingl. Even-0dd; franc. Pair-impair; ted.
Gerade-ungerad). Così i Pitagorici antichi definirono
l’unità, come principio del numero e delle cose, in quanto essa sarebbe
limitata come l'impari e illimitata come il pari (ARIST., Mer., I, 5, 986 a
15). PAROLA (lat.
Verbum; ingl. Word; franc. Pa- role; ted. Wort). 1. Secondo la distinzione fatta prevalere da Saussure
tra P., lingua (v.) e linguag- gio (v.), la P. sarebbe la manifestazione
linguistica dell’individuo. A differenza della lingua, che è una funzione
sociale, registrata passivamente dall’indi- viduo, la P. è «l’atto individuale
di volontà e di intelligenza nel quale conviene distinguere: 1° le combinazioni
nelle quali il soggetto parlante utilizza il codice della lingua per esprimere
il suo pensiero personale; 2° il meccanismo psicologico che gli permette di
esteriorizzare queste combinazioni » (Cours de Linguistique Générale, 1916,
pag. 31). 2. Il termine P. ha un’ambiguità, che i logici hanno messo in chiaro.
La P. può essere infatti da un lato un singolo evento, che è nuovo ogni volta
che si ripete; e in tale senso diciamo, per es., che un libro è composto di
cinquantamila parole. Dall'altro il termine può significare la P.-significato,
che è la stessa per quante volte si ripeta e in tal senso possiamo dire, dello
stesso libro, che esso è composto di cinquemila parole. Nel primo senso, ad
es., la P. è, se si ripete dieci volte in una pagina, è dieci parole; nel
secondo senso, è una sola parola. Peirce propose di chiamare la parola nel
primo significato token (segno o gettone) e nel secondo significato type (tipo)
(Coll. Pap., 4.537) (v. Tipo). Altri parlano allo stesso proposito e
corrispondente- mente di segno e simbolo (cfr., M. BLACK, Language and
Philosophy, VI, 2; trad. ital., pag. 181 sgg.). PARONIMO (gr. napfwpoc; lat.
Denomina- tivus). Così Aristotele chiamò gli oggetti che trag- gono la loro
designazione da un certo nome, modifi- 649 candone il caso: come grammatico che
deriva da grammatica e coraggioso da coraggio (Car., 1, la 11). I P. hanno tra
di loro in comune l’essenza espressa dalla definizione (cfr. Boezio, In Car., I,
P.L. 64, col. 167; Pietro Ispano, Summ. Log., 3.01; JunGIUS, Logica
Hamburgensis, I, 2, 16). In questo sono simili ai sinonimi o univoci.
Aristotele considera i P. come una certa specie di oggetti de- signabili,
accanto agli omonimi o equivoci e ai sinonimi o univoci (v. Equrvoco; UNIVOCO).
PARSIMONIA, LEGGE DELLA. V. Eco- NOMIA. PARSISMO (ingl. Parsism; franc.
Parsisme; ted. Parsismus). La religione dualistica degli antichi Persiani [v.
MALE 1 5); Zoroastrismo]. PARTE (gr. uépoc; lat. Pars; ingl. Part; fran- cese Part;
ted. Teil). Aristotele distinse tre
significati principali del termine: 1° ciò cui mette capo la divisione di una
quantità e in questo senso due è P. di tre, a meno che non si restringa il
significato di parte all’unità di misura, nel qual caso solo uno (e non due) è
P. di tre; 2° ciò a cui mette capo la divisione di un genere che non sia una
quantità e in tal senso sono parti le specie di un genere; 3° ciò a cui mette
capo l’analisi di una proposizione che vale da definizione; e in questo senso
il genere è P. della specie (perchè è la specie che viene definita) (Met., V,
25, 1023 b 12). San Tommaso a sua volta chiamò parti quanzitative, quelle nel
significato 1° di Aristotele; parti essenziali quella nei significati 2° e 3°
(S. 7h., I, q.76, a.8; III, q.90, a. 2). E aggiunse ad esse: la P. subbiettiva
«alla quale è presente, simultaneamente ed egualmente, l’intera virtù del tutto
come l’intera virtù dell’animale in quanto tale si conserva in qualsiasi specie
animale +; e la P. potenziale « alla quale è presente il tutto se- condo
l’intera sua essenza, come l’intera essenza del- l’anima è presente a ognuna
delle sue potenze » (S. 7h., III, q. 90, a. 3). Ma è abbastanza ovvio che
queste due ultime specie di P. sono state escogitate a scopi teologici. Altre
distinzioni sono state in- trodotte per altri scopi come quella tra la P.
prossima e la P. remota, a seconda che tra la P. e il tutto cada o non cada
un’altra P. (cfr. JuNGIUS, Log., 1, 9, 11-12); e quella tra la P. aliquota e la
P. aliquanta, a seconda che la ripetizione della parte arrivi esattamente ad
adeguare il tutto o risulti, a un certo punto, minore o maggiore di esso (con-
fronta WOoLFF, Onf., $ 360). La maggior parte di queste distinzioni sono oggi
cadute in disuso e lo stesso concetto di P., col venir meno del vecchio
assioma, «la P. è minore del tutto » (v. INFINITO), ha cessato di essere
definito a partire dal tutto e viene abitualmente definito mediante un certo
tipo di relazione. Così Peirce dice: « Una P. di una collezione, detta il furto
650 di essa, è una collezione tale che ogni cosa che sia u della P. è « del
tutto, ma qualcosa che è « del tutto non è « della P. » (Co//. Pap., 4.173).
PARTECIPAZIONE (gr. pé8eE; lat. Parte cipatio; ingl. Participation; franc.
Participation; ted. Teilnahme, Partizipation). 1. Uno dei due con- cetti di cui
Platone si avvalse per definire il rap- porto tra le cose sensibili e le idee;
l’altro è quello di presenza o parusia (rapovela). «Nient'altro rende bella una
cosa, egli disse, se non la presenza o la P. del bello in sè, quali che siano
la via o il modo nei quali presenza o P. abbiano luogo » (Fed., 100 d). Più
tardi Platone intese la P. come imitazione: «A me pare che le idee stiano come
esemplari nella natura; e che gli altri oggetti somiglino ad esse e ne siano
copie; e che questa P. delle cose alle idee non consiste in altro che
nell’essere imma- gini di esse » (Parm., 132 d). Platone stesso non ha dato
molte altre determinazioni su questo importante concetto della sua filosofia.
Ad esso tuttavia fece ricorso la metafisica medievale quando si trattò di
distinguere « l’essere per essenza » che appartiene solamente a Dio dall’ «
essere per P. » che appartiene alle creature: distinzione che garantiva la
subordi- nazione dell’essere delle cose all’essere di Dio. «Come ciò che ha
fuoco e non è fuoco, è infocato (ignitum), per P., dice San Tommaso, così ciò
che ha l’essere e non è l’essere è ente per P.» (S. 7h., I, q. 3, a. 4). Ma
l’uso esteso che è stato fatto di questo concetto nella metafisica tradizionale
non ha molto contribuito a chiarirlo; e il concetto è rimasto indefinito ed
oscuro come era già per Platone. 2. L. Lévy-Bruhl ha fatto un uso esteso del
concetto di partecipazione per illustrare la menta- lità dei primitivi.
Nell’ambito di questa mentalità, la partecipazione sarebbe anteriore alla
distinzione tra le cose che si partecipano. « La partecipazione non si
stabilisce tra un morto e un cadavere più o meno nettamente rappresentati (nel
quale caso avrebbe la natura di una relazione e dovrebbe es- sere possibile
chiarirla mediante l’intelletto); essa non viene dopo le rappresentazioni, non
le pre- suppone, ma è anteriore ad esse o almeno simul- tanea. Ciò che è dato
per primo è la partecipa- zione» (Les carnets, I; trad. ital., pag. 36-37). PARTICOLARE (gr. xatà pépoc;
lat. Parti- cularis; ingl. Particular; franc. Particulier). Che è una parte o appartiene ad una
parte. La proposi- zione P. fu definita da Aristotele nel modo seguente: «
Chiamo P. la proposizione che esprime l’inerenza a qualche cosa o la non
inerenza a qualche cosa o la non inerenza a ogni cosa» (An. Pr., I, 1, 24a 13).
Il contrario della proposizione P. è quella universale (v.). La logica
medievale indicò con la lettera / la proposizione P. affermativa e con lettera
PARTECIPAZIONE O la proposizione P. negativa. Una proposizione P. della forma
«alcuni F sono G» si può leggere in vari modi: « qualche F è G3, «qualche cosa
è insieme F e G », « qualche cosa che è un F è un G?», «c’è un FG», «ci sono
FG», «FG esiste», ecc. (cfr. W. v. O.
QuInE, Methods of Logic, $ 12). PARTIZIONE (gr. pepiou6s; lat. Parzitio; ingl. Partition; franc. Partition; ted.
Partition). Gli Stoici intesero con questo termine « l’ordina- mento di un
genere nei suoi luoghi» (Diog. L., VII, 1, 62) cioè l’enumerazione delle parti
che compongono il tutto, come quando si enumerano le membra del corpo umano; e
la distinsero pertanto dalla divisione che è l’enumerazione delle specie
appartenenti a un genere (CicER., Top., 5-7, 28, 30) (v. DIVISIONE). PARUSIA.
V. PARTECIPAZIONE. PASSATO. V. Tempo. PASSIONE (ingl. Passion; franc. Passion;
ted. Leidenschaft). Questo termine può significare: 1° lo stesso che affezione,
cioè modificazione pas- siva nel senso più generale del greco rà$oc e del
latino passio (per questo significato v. AFFEZIONE); 2° lo stesso che emozione
(v.), nel qual significato esso è stato adoperato quasi universalmente sino al
sec. xvi, quando si è venuto determinando il significato specifico che oggi
possiede cioè; 3° l’azione di controllo e di direzione esercitata da
un’emozione determinata sull’intera personalità di un individuo umano. In
questo senso, che è il solo proprio e specifico, la parola viene oggi
comunemente adoperata. Così l’espressione francese, divenuta internazionale,
«amour-passion » indica una forma di emozione amorosa che domina la personalità
ed è travolgente rispetto ad ostacoli morali e sociali (cfr. pure « Crime de
passion» o « Delitto passionale +). Nelle frasi «P. del gioco» o « P. delle
donne» o « P. del denaro », il significato di un indirizzo dominante e globale
impresso all’intera personalità è altret- tanto chiaro, com’è chiaro nelle
espressioni « P. politica », «P. religiosa», ecc. Il concetto nasce con le
analisi dei moralisti del °600 e °700 che hanno messo in luce la tendenza delle
emozioni a pene- trare la personalità e a dominarla. Pascal diceva «Quando si
conosce la P. dominante di qualcuno si è sicuri di piacergli » (Pensées, 106).
Nella quale espressione l’aggettivo « dominante » esprime bene il carattere
della passione. Le Maximes di La Roche- foucauld insistono con un certo cinismo
su questo carattere dominante delle passioni (« Se resistiamo alle nostre
passioni, è più per la loro debolezza che per la nostra forza», 122), e
Vauvenargue nel Discours sur la liberté (1737) diceva: « Per resistere alla P.
bisognerebbe almeno voler resistere. Ma farà la P. nascere il desiderio di
combattere la P., PASSIONE 651 nell’assenza della ragione vinta e dispersa?». E
ag- giungeva: « Le passioni hanno appreso agli uomini la ragione» (Réflexions
et maximes, 154). Nello stesso spirito Helvètius dichiarava: «Le passioni sono
nel campo morale ciò che il movimento è nel campo fisico » (De l’esprit, III,
4); e Condillac defi- niva la P.: « Un desiderio che non permette di averne
altri o che, almeno, è il più dominante » (7raité des sensations, I, 3, $ 3).
Kant ci ha dato a questo pro- posito le determinazioni più precise. La P. è
l’incli- nazione che impedisce alla ragione di paragonarla con le altre
inclinazioni e così di effettuare una scelta fra esse (Antr., $ 80). Perciò la
P. esclude il dominio di sè cioè impedisce o rende impossibile che la vo- lontà
si determini in base a princìpi (Crir. del Giud., $ 29). Kant insiste, con
notazioni felici, sulla capa- cità della P. di dominare l’intera condotta
dell’uomo, di impadronirsi della sua personalità. A differenza dell’emozione
che è precipitosa e irriflessiva, la P. prende tempo ed è riflessiva, per
raggiungere il suo scopo, sebbene possa essere violenta. L’emo- zione è come un
fiotto che rompe la diga; la P. è come una corrente che si scava sempre più
profondo il suo letto. L'emozione è come un’ebrezza che si smaltisce, sebbene
ne segua il mal di capo; la P. invece è come una malattia per intossicazione o
per deformazione, che ha bisogno di un medico interno o esterno dell’anima, il
quale, tuttavia, non sa per lo più prescrivere una cura radicale, ma, quasi
sempre, solo palliativi (Antr., $ 74). Per il pericolo che la passione
rappresenta per la scelta razionale e la libertà morale dell’uomo, Kant rigetta
ogni esaltazione delle passioni. Egli cita la frase: « Nulla di grande nel
mondo è stato mai compiuto senza violente passioni », per commen- tarla così: «
Questo si può ammettere di parecchie inclinazioni, di quelle cioè delle quali
la natura vi- vente (anche quella dell’uomo) non può far a meno, come di un bisogno
naturale e fisico. Ma che esse possano, anzi debbano, diventar passioni, questo
la Provvidenza non ha voluto. Spiegarle da questo punto di vista può esser
concesso a un poeta, per es., al Pope, il quale scrisse: « Se la ragione è una
bussola, le passioni sono i venti »; ma il filosofo non può ammettere questo
principio neppure per valutare le passioni come un artificio provvisorio della
Provvidenza la quale le avrebbe poste nella natura umana prima che gli uomini
fossero arrivati ad un grado conveniente di civiltà » (Antr., $ 80). Il
Romanticismo accetta e fa suo il concetto della P. che i moralisti francesi e
Kant avevano elaborato; concetto secondo il quale essa non è un’emozione o uno
stato affettivo particolare, ma piuttosto il dominio totale e profondo che uno
stato affettivo esercita su tutta la personalità (o «soggettività +)
dell’individuo. Dall’altro lato però il Romanticismo capovolge la valutazione
negativa della P. che aveva data Kant. Ed è significativo che colui il quale ha
espresso con più rigore il punto di vista romantico su questo punto, cioè
Hegel, non ha fatto che capovolgere le valutazioni kan- tiane. Hegel definisce
la P. come «la totalità dello spirito pratico in quanto si pone in una singola
delle molte determinazioni limitate che sono tra loro in contrasto (Enc., $
473)». Ed aggiunge: «La P. contiene nella sua determinazione che essa è
confinata ad una particolarità della determinazione del volere, nella quale
l’intera soggettività dell’in- dividuo s’immerge, quale che sia poi il contenuto
di questa determinazione. Ma per questo carattere formale la P. non è nè buona
nè cattiva: la sua forma esprime solo che un soggetto ha posto in un unico
contenuto tutto l'interesse vivente del suo spirito, dell’ingegno, del
carattere, del godi- mento. Niente di grande è stato compiuto, nè può esser
compiuto, senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso
ipocrita, quella che inveisce contro la forma della P. in quanto tale » (Enc.,
$ 474). Qui, mentre s’insiste sul carattere totale della P., che limita ad un
unico contenuto o determinazione « l’intera soggettività dell'individuo » e
cioè «l’interesse vivente del suo spirito, ecc.» si riprende la frase criticata
da Kant e si dichiara espressione di una moralità morta o ipocrita la condanna
kantiana. E il curioso è che Kant aveva in anticipo criticato un altro tratto
caratteristico della filosofia di Hegel: la giustificazione delle passioni come
strumenti della provvidenza cosmica, come «astuzie » della Ragione infinita per
realiz- zare i suoi scopi: tesi che è fra le più caratteristiche della
filosofia della storia di Hegel (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, pag.
63 sgg.). Da un diverso punto di vista l’esaltazione della P. fu fatta anche da
Nietzsche che vedeva un sintomo di debolezza nella « paura dei sensi, dei
desideri e delle passioni, quando essa arriva a sconsigliarli +; e vedeva nella
P. dominante «la forma suprema della salute » perchè in essa «la coordinazione
dei sistemi interni e il loro lavoro al servizio di uno stesso fine sono meglio
realizzati: il che è pressapoco la definizione della salute» (Wille zur Macht,
ed. Kroner, $ 778). Un punto di vista equidistante tra la condanna e
l’esaltazione della P. sembra prevalere nella cultura contemporanea. Così, ad
es., si esprime Dewey: « La fase emozionale, appassionata dell’a- zione non può
nè deve essere eliminata a vantaggio di una esangue ragione. Più passioni, non
meno, è la risposta... La razionalità non è la forza da evocare contro impulsi
ed abiti, ma piuttosto il raggiungimento di una armonia operante fra diversi
desideri » (Human Nature and Conduct, pag. 195-96). 652 PASSIVO (gr. ra8ntx6c;
lat. Passivus; inglese Passive; franc. Passif; ted. Passiv). Che subisce
un'azione, che è affetto da qualche cosa. È l’ag- gettivo corrispondente ad
affezione (v.) e contrario ad attivo (V.). PASTORALE, FILOSOFIA (lat.
Pastoralis philosophia). Così chiamò Bacone quella filosofia «che contempla il
mondo placidamente e quasi per ozio »: rimprovero che egli rivolge anche alla
filosofia di Telesio (Phil. Works, III, $ 45). PATETICO (ingl. Parhetic; franc.
Parhétique; ted. Pathetisch). F. Schiller designò con questo termine una delle
specie del sublime (v.) pratico e precisamente quello che deriva da un oggetto
in se stesso minaccioso per la natura fisica dell’uomo, quindi doloroso. Il
sublime pratico contemplativo invece è quello nel quale non è l’oggetto ma la
contemplazione di esso a istituire la sua temibilità e quindi la sublimità (Vom
Erhabenen, zur weiteren Ausfuhrung einiger Kantischen Ideen, 1793; Uber das
Pathetische, 1793). PATOLOGICO (ingl. Parhological; franc. Pa- thologique; ted.
Pathologisch). Ciò che è una malattia o la manifestazione di una malattia. Il
solo uso specificamente filosofico di questo termine è quello che Kant ne fece
designando con esso tutto ciò che concerne o costituisce «la facoltà di
desiderare inferiore» cioè il complesso delle inclinazioni naturali umane. Dal
punto di vista kantiano, non P. è soltanto la cosiddetta «facoltà di desiderare
superiore » cioè la ragion pratica in quanto indi- pendente da tutte le
inclinazioni sensibili (Cri. R. Prat., $ 3, scol. I). G. Bentham chiamò
patologia la considerazione e la classificazione dei moventi sensibili della
condotta, indicando con quel termine «la teoria della sensibilità passiva »;
mentre chia- mava dinamica « l’uso possibile, da parte del mora- lista e del
legislatore di quegli stessi moventi per determinare la condotta umana in vista
della mas- sima felicità possibile » (Springs of Action, 1817). PATRISTICA (ingl.
Patristic; franc. Patri- stique; ted. Patristik). Si indica con questo nome la
filosofia cristiana dei primi secoli. Essa consiste nell’elaborazione
dottrinale delle credenze reli- giose del cristianesimo e nella loro difesa
contro gli attacchi dei pagani e contro le eresie. La P. è caratterizzata dalla
mancanza della distinzione tra religione e filosofia. La religione cristiana
appare ai Padri della Chiesa, come l’espressione compiuta e definitiva della
verità che la filosofia greca aveva solo imperfettamente e parzialmente
raggiunta. Difatti la Ragione (/ogos) che si è fatta carne nel Cristo e che si
è nella parola di Lui rivelata piena- mente agli uomini, è quella stessa a cui
i filosofi pagani si sono ispirati e che hanno cercato di tradurre nelle loro
speculazioni. PASSIVO La P. si suole comunemente dividere in tre periodi. Il
primo che va sino al 200 circa è dedicato alla difesa del Cristianesimo contro
i suoi avversari pagani e gnostici (Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo,
Ireneo, Tertulliano, Minucio Felice, Ci- priano, Lattanzio). Il secondo periodo
che va dal 200 a circa il 450 è caratterizzato dalla formulazione dottrinale
delle credenze cristiane. È il periodo dei primi grandi sistemi di filosofia
cristiana (Clemente Alessandrino, Origene, Basilio, Gregorio Di Na- zianzio,
Gregorio di Nissa, Sant'Agostino). Il ferzo periodo che va dalla metà del v
secolo sino alla fine dell’vm secolo è caratterizzato dalla rielabora- zione e
sistemazione delle dottrine già formulate e dalla mancanza di formulazioni
originali (Nemesio, Pseudo Dionigi, Massimo Confessore, Giovanni Damasceno,
Marciano Capella, Boezio, Isidoro di Siviglia, Breda il Venerabile). L'eredità
della P. fu raccolta, agli inizi della rinascita carolingia, dalla Scolastica
(v.). PAURA. V. EMOZIONE. PAZZIA (gr. uopla; lat. Srultitia; ingl. Madness;
franc. Folie; ted. Wahn). 1. Quella che Platone chia- mava la P. buona, cioè la
P. che non è malattia o perdizione, è stata intesa in due modi diversi e cioè:
1° come inspirazione o dono divino; 2° come amore della vita e tendenza a
viverla nella sua semplicità. 1° Il primo significato è quello che le attribuì
Platone nel Fedro, affermando che «i maggiori beni ci sono elargiti per mezzo
d’una P. che è un dono divino » (Fedr., 244 a). Questa P. si manifesta in
quattro forme: a) la P. profetica, che è a fonda- mento della mantica cioè
dell’arte per cui si predice il futuro; 5) la P. purificatoria che consente di
allon- tanare i mali per mezzo di purificazioni e di inizia- zioni nel presente
e nell’avvenire; c) la P. poetica che è ispirata dalle muse (Ibid., 244a, 245
a); e finalmente, la forma più alta cioè d) la P. amorosa alla quale l’uomo è
invogliato dal ricordo della bellezza ideale risvegliato in lui dalla bellezza
delle cose del mondo (/bid., 249 e). Ovviamente le prime tre forme di P. sono
forme di ispirazione divina, riconducibili all’entusiasmo (v.). L'amore invece,
è P. in un senso diverso cioè come aspirazione all’essere autentico,
risvegliata da quella mani- festazione « più amabile e più evidente» di esso
che è la bellezza. Ora questo è già il secondo signi- ficato di pazzia. 2° Nel
secondo significato, la P. è infatti amore della vita nella sua semplicità,
contrapposta alla saggezza artificiosa ed arcigna e alla scienza di chi sa
tutto tranne che vivere ed amare. L’Elogio della pazzia (Stultiae laus, 1509)
di Erasmo da Rotterdam è la più famosa difesa di questo secondo significato del
termine. Ecco come Erasmo delinea il ritratto del saggio stoico: « Egli è sordo
alla voce dei sensi, PECCATO ORIGINALE non sente alcuna emozione, l’amore e la
pietà non fanno alcuna impressione sul suo cuore duro come diamante, nulla gli
sfugge, mai non dubita, la sua vista è da lince, tutto pesa con la massima
esattezza, non perdona nulla; trova in se stesso la sua felicità, si crede il
solo ricco della terra, il solo savio, il solo re, il solo libero: in una
parola si crede il tutto; e il più bello è che è il solo a credersi tale ».
Ora, si domanda Erasmo, chi non preferirebbe a questo saggio « un uomo qualsiasi,
tolto alla folla degli uomini pazzi, il quale, per quanto pazzo, sapesse
comandare o obbedire ai pazzi e farsi amare da tutti; e che fosse compiacente
con la moglie, buono con i figli, allegro nei banchetti, socievole con tutti
quelli con i quali convive, e infine che non si credesse straniero a tutto ciò
che appartiene all'umanità?» (E/, 30). La P. di cui parla Erasmo è la
semplicità della vita, che si contenta di nutrire illusioni e speranze; o, nel
campo della religione è la fede e la carità contrap- poste alle cerimonie
esterne, ai riti meccanizzati e all’ipocrisia dei bacchettoni (Ibid, 54).
Questa forma di P. non ha, ovviamente, nulla a che fare con un’ispirazione
divina, ma è umana e laica e non per nulla l’elogio di essa è uno dei documenti
più significativi del Rinascimento. 2. Lo stesso che psicosi (v.). PECCATO
(lat. Peccatum; ingl. Sin; fran- cese Péché; ted. SuUnde). La trasgressione
intenzio- nale di un comando divino. Il termine ha una con- notazione
prevalentemente religiosa: P. non è la trasgressione di una norma morale o
giuridica ma la trasgressione di una norma che si ritiene imposta o stabilita
dalla divinità. Il riconoscimento del carattere divino di una norma e
l'intenzione di violarla, sono i due elementi di questo concetto: elementi
senza i quali il concetto stesso si con- fonde con quelli di colpa, delitto,
errore, reato, ecc., che esprimono la trasgressione di una norma morale o
giuridica. Il concetto del P. è stato in questi termini elabo- rato dalla
teologia cristiana. Sant'Agostino definiva il P. come «ciò che è detto o fatto
o desiderato contro la legge eterna +, intendendo per legge eterna la volontà
divina che è diretta a conservare l’ordine del mondo e a far sì che l’uomo
desideri di più il bene maggiore e meno il bene minore (Contra Faustum, XXII,
27). E San Tommaso non faceva che accettare questa definizione annotando che la
legge eterna per l’uomo è duplice: « L’una è vicina ed omogenea, cioè la stessa
ragione umana, l’altra è la regola prima, cioè la legge eterna che è quasi la
ragione di Dio» (S. Th., II, 1, q.71, a. 6). San Tommaso insiste da un lato
sulla volontarietà, cioè intenzionalità, del P.: volontarietà per cui si
potrebbe definire il P. mediante la sola volontà 653 se non fosse che anche gli
atti esterni appartengono al P. stesso e devono pertanto essere menzionati
nella definizione di esso (/bid., ad 2°). Dall'altro lato insiste sul punto che
ogni P. è, come tale, un P. contro Dio, per quanto i peccati contro Dio
costituiscano, da un altro punto di vista, una spe- ciale categoria di peccati
(S. Th., II, 1, q. 72, a. 4, ad 1°) Questo concetto del P. si può dire che sia
rimasto immutato attraverso i tempi. Kant lo ripete defi- nendo il P. «la
trasgressione della legge morale in quanto comando divino» (Religion, I, sez.
IV; II, sez. 1, c; trad. ital., Durante, pag. 31, 68); e lo ripete Kierkegaard
affermando che il P. è davanti a Dio e che esso consiste « nel voler
disperatamente essere se stesso o nel non voler disperatamente essere se stesso
» il che significa che consiste nella disperazione di non aver fede (Die
Krankheit zum Tode, II, cap. I; trad. ital, Fabro, pag. 300). Ciò che
Kierkegaard aggiunge è il carattere eccezionale del P. che corrisponde al
carattere eccezionale della fede. Il P. non è di tutti i giorni. « Essere un
peccatore nel senso più rigoroso, egli dice, è ben lungi dall’es- sere un
merito. Ma d’altra parte, come si può tro- vare una coscienza essenziale del P.
(che è d'altronde indispensabile per il Cristianesimo) in una vita tal- mente
immersa nella trivialità, così ridotta allo scim- miottamento piatto degli
altri, che è quasi impossi- bile darle un nome, che è troppo priva di spirito
per poterla chiamare P.? + (/bid., II, B, Aggiunta A; trad. ital., pag. 328).
PECCATO ORIGINALE (lat. Peccatum Ori- ginale; ingl. Original Sin; franc. Péché
originel; ted. Erbsind). Le discussioni filosofico-teologiche intorno al P.
originale hanno avuto di regola per oggetto il modo in cui tale P. si è
trasmesso da Adamo agli altri uomini. San Tommaso enu- merava due ipotesi
principali addotte per la so- luzione di questo problema e cioè: l’ipotesi del
traducianesimo (v.) secondo la quale «l’anima ra- zionale si trasmette con il
seme sicché da un'anima infetta derivano anime infette »; l’ipotesi dell’eredi-
tarietà secondo la quale «la colpa dell'anima del primo parente si trasmette
alla prole, per quanto non si trasmette l’anima stessa, al modo in cui i
difetti del corpo si trasmettono di padre in figlio ». Entrambe queste ipotesi
sembravano a San Tommaso insostenibili ed egli annunciava la sua dicendo che
«tutti gli uomini che nascono da Adamo possono considerarsi come un unico uomo
in quanto hanno la stessa natura, che essi ricevono dal primo parente; al modo
in cui nelle città tutti gli uomini che appar- tengono alla stessa comunità si
ritengono un unico corpo e l’intera comunità quasi un unico uomo » (II,. 1,
q.81, a. 1). Alcuni secoli dopo, nella sua Teodicea (1710) Leibniz enumerava le
stesse ipotesi 654 (Théod., I, $ 86), che sono rimaste quelle tra le quali ha
oscillato il pensiero teologico. D'altronde un’interpretazione filosofica (e
non teologica) del P. originale si ha soltanto con Kant e Kierkegaard. Kant
osservò che non bisogna confondere la questione dell’origine temporale di una
cosa con quella della sua origine razionale: al problema dell’origine temporale
cerca di rispon- dere la dottrina biblica del P. originale; ma al problema
dell’origine razionale del male risponde la dottrina del « male radicale »
secondo la quale la disposizione innata dell’uomo al male deriva dalla natura
delle sue massime. « La proposizione: l’uomo è cattivo, dice Kant, non
significa altro se non che l’uomo è consapevole della legge morale e che
tuttavia ha accolto nella sua massima di allontanarsi occasionalmente da tale
legge. Dire che egli è cattivo per natura significa che ciò vale per tutta la
specie umana; non già nel senso che tale qualità si possa dedurre dal concetto
della specie umana (dal concetto di uomo in generale) giacchè allora sarebbe
necessaria; ma nel senso che l’uomo, così come lo si conosce per esperienza,
non può essere giudicato diversamente o nel senso che si può presupporre la
tendenza al male in ogni uomo, anche nel migliore, come oggettivamente
necessaria » (Religion, I, 3; trad. ital, Durante, pag. 18). Sostanzialmente
identica con questa è l’interpretazione che del P. originale ha dato Kier-
kegaard, scorgendo la condizione e la realtà psico- logica di esso
nell’angoscia. «Il divieto di Dio, egli dice, angoscia Adamo perchè sveglia in
lui la possibilità della libertà. Ciò che nell’innocenza era il nulla
dell'angoscia è ora entrato nell’innocenza stessa ed è qui di nuovo un nulla
cioè /a possibilità angosciante di potere. Cosa sia ciò che egli può, egli non
ne ha idea alcuna; altrimenti si presup- porrebbe, come avviene di solito, quel
che segue, cioè la differenza tra il bene e il male. Non c’è in Adamo che la
possibilità di potere, come forma superiore di ignoranza, come superiore
espressione di angoscia, perchè in un senso più alto, questa possibilità è e
non è, ed Adamo l’ama e la fugge» (Der Begriff Angst, I, $ S; trad. ital,
Fabro, pag. 54). Anche qui, come si vede, non si tratta dell’origine temporale
ma dell’origine razionale del P. originale; e anche qui quest’origine è vista
in una possibilità: nella possibilità indeterminata o « indefinita », come
Kierkegaard la chiama, che è anche la possibilità di agire contro il divieto
divino. Secondo Kierkegaard, come secondo Kant, il P. originale consisterebbe
pertanto nel prospettarsi di una possibilità che, come tale, può implicare
l'infrazione alla norma morale o al divieto divino. PEDAGOGIA (ingl. Pedagogy;
franc. Péda- gogie; ted. Pédagogik). Questo termine che in PEDAGOGIA origine
significò la pratica o la professione dell’edu- catore è passato poi a significare
qualsiasi reoria dell’educazione: intendendosi per reoria non solo
un'elaborazione ordinata e generalizzata delle mo- dalità e delle possibilità
dell’educazione ma anche una riflessione occasionale o un presupposto qualsiasi
della pratica educativa. In questo senso, la pedagogia non aveva nell'antichità
classica la dignità di una scienza autonoma ma era considerata come parte
dell’etica o della politica ed elaborata perciò unicamente rispetto al fine che
l’etica o la politica proponevano all'uomo; mentre dall’altro lato gli
espedienti o i mezzi pedagogici venivano considerati soltanto nei confronti
della prima edu- cazione cioè nei confronti dell’educazione dell’età infantile,
perciò delle più elementari acquisizioni (il leggere, lo scrivere e il far di
conto). La riflessione pedagogica appare così, fino a un certo punto, divisa in
due branche, che procedono ognuna per conto suo: la prima, di natura
schiettamente filo- sofica ed elaborata in vista del fine che l'etica propone
per l’uomo; la seconda, di natura empirica o pratica, elaborata in vista del
primo e più elemen- tare addestramento del bambino alla vita. Si può dire che
questi due tronconi vengono per la prima volta a saldarsi nel sec. xvil per
opera di G. A. Comenio, che ebbe la pretesa di portare nel dominio della P.
quella organizzazione metodolo- gica che Francesco Bacone aveva avuto la
pretesa di portare nel dominio delle altre scienze; ed elaborò pertanto un
completo sistema pedagogico, fondato sul principio della pansofia (v.), che partiva
dalla considerazione del fine educativo per giungere alla considerazione dei
mezzi e degli strumenti didattici. A partire da Comenio, l’esperienza
pedagogica dell’occidente si è andata arricchendo e appro- fondendo con i
tentativi di trovare nuovi metodi dell’educazione. L’opera di Locke, di
Rousseau, di Pestalozzi, di Fròbel, è molto importante sotto questo punto di
vista e anche perchè cercò di accor- dare i metodi di educazione con le nuove
concezioni filosofiche che via via si presentavano. Si può dire così che Locke
rappresenta la P. dell’empirismo, Rousseau la P. dell’illuminismo, Pestalozzi
la P. del criticismo e Fréebel quella del romanticismo. Tuttavia,
l’organizzazione scientifica della P. deve molto a Herbart che per la prima
volta distinse e unì i due tronconi della tradizione pedagogica in un sistema
coerente. Herbart infatti distinse la considerazione dei fini dell’educazione,
che la P. deve attingere dall’erica e la considerazione dei mezzi educativi che
la P. deve attingere invece dalla psicologia; e cercò di elaborare
distintamente e correlativamente queste due parti integranti (Allgemeine
Padagogik, 1806; Umris péidagogischer Vorlesungen, 1835). PENA Da questo punto
in poi la psicologia è diventata la scienza ausiliaria fondamentale della
pedagogia. La sola e non felice eccezione a questa connessione è stata
rappresentata da quella forma dell’idealismo romantico che è prevalsa in Italia
nei primi decenni del nostro secolo. Questa forma di idealismo negava la
diversità delle persone, ritenendole unite nello Spirito universale, e
identificava pertanto lo svi- luppo personale dell’uomo con lo sviluppo univer-
sale dello Spirito. Queste tesi venivano presentate come una risoluzione della
P. nella filosofia. Diceva Gentile: « Quando per spirito non s’intende se non
appunto lo svolgimento, la formazione, l’educazione, insomma dello Spirito, la
filosofia stessa (tutta la filosofia, posto che la realtà sia concepita
assoluta- mente come Spirito) diventa P. e la forma scientifica dei singoli
problemi pedagogici diventa la filosofia » (Sommario di pedagogia, II, 1912,
pag. 15). Contem- poraneamente, tuttavia, si faceva il tentativo sim- metrico e
opposto di ridurre la P. a scienza mecca- nica, sul modello della fisica,
cambiandole il nome in pedologia (v.): sul fondamento che con la padro- nanza
del meccanismo psicologico si può dirigere la formazione mentale degli uomini
al modo con cui si possono dirigere, utilizzando le leggi di natura, le forze
della natura. La P. contemporanea, nella sua forma più matura, si può far
cominciare proprio quando questo duplice e opposto tentativo di riduzione
dell’uomo a spirito assoluto o a meccanismo viene tralasciato e l’uomo comincia
ad essere inteso e considerato come natura senza essere degradato a meccanismo.
La nozione di condizionamento (v. ConDIZIONE) è quella che oggi prevale nella
P. e che ha espulso da essa sia l’indeterminismo idealistico sia il
determinismo meccanistico. Inoltre l’esperienza pedagogica si è oggi arricchita
attraverso la considerazione del fatto educativo nelle società primitive:
considerazione che ha reso possibile da un lato una generalizza- zione del
concetto stesso di educazione (v.) dall’altro confronti e paralleli efficaci
sul terreno dei mezzi educativi. Oltre alla psicologia, l'antropologia e la
sociologia concorrono oggi a fornire alla P. il suo armamentario di mezzi
educativi; laddove il pro- blema dei fini rimane aperto e i fini stessi tendono
a essere presentati, dal punto di vista pedagogico, in forma ipotetica
piuttosto che nella forma asso- luta e dogmatica con cui venivano assunti dalla
P. tradizionale (v. CULTURA; EDUCAZIONE). PEDOLOGIA (ingl. Paidology; franc.
Pédo- logie; ted. Paidologie). La scienza esatta dell’educa- zione, in
opposizione alla pedagogia che sarebbe l’arte empirica dell’educazione. Questo
fu almeno il significato dato al termine da coloro che l’intro- dussero: il
tedesco O. Chrisman (Paidologie, 1894) e il francese E. Blum (cfr. i suoi
articoli in Revue 655 Philosophigue, maggio 1897, novembre 1898). La P. avrebbe
dovuto avere come presupposto la psi- cologia sperimentale e da essa desumere
gli strumenti dell’educazione, relativamente alle varie età del- l’uomo. Questo
concetto non è venuto meno cd è anzi a fondamento di buona parte della
psicologia contemporanea; ma il termine P., dopo una breve voga, è stato
abbandonato. PEDOTECNICA (franc. Pédorechnique). Una «Società di P.» fu fondata
nel 1906 a Bruxelles da Decroly: il termine aveva lo stesso significato di
pedologia. PEIRASTICA (gr. respaotixi réxm). Secondo Aristotele, l’arte di
mettere alla prova una tesi, deducendo le conseguenze di essa. È una parte
della dialettica e si distingue dalla sofistica in quanto si rivolge
all’avversario ignorante mentre la sofistica tende a mettere in iscacco anche
colui che è dotato di scienza (E/. Sof., 8, 169b 25; 171 b 4). PELAGIANISMO
(ingl. Pelagianism; francese Pélagianisme; ted. Pelagianismus). La dottrina del
monaco inglese Pelagio che ai princìpi del sec. v insegnò a Roma e a Cartagine,
in polemica con S. Agostino, la dottrina che il peccato di Adamo non ha
indebolito la capacità umana di fare il bene, ma è solo un esempio cattivo che
rende più difficile e gravoso il compito dell’uomo. S. Ago- stino combattè con
molti scritti questa tesi a par- tire dal 412, sostenendo la tesi opposta: che
con Adamo e in Adamo ha peccato tutta l’umanità e che quindi il genere umano è
una sola « massa dannata », nessun membro della quale può essere sottratto alla
punizione se non dalla misericordia e dalla non dovuta grazia di Dio (cfr. De
Civ. Dei, XIII, 14) (v. GRAZIA). PENA (gr. 8; lat. Poena; ingl. Penalty; fran-
cese Peine; ted. Strafe). Privazione o afflizione prevista da una legge
positiva per chi si renda colpevole di una infrazione di essa. Il concetto
della pena varia a seconda delle giustificazioni che sono state date di essa; e
tali giustificazioni variano a seconda che si tenga presente come scopo della
pena; 1° l’ordine della giustizia; 2° la salvezza del reo; 3° la difesa dei
cittadini. 1° Il più antico concetto della pena è quello che le attribuisce
l'ufficio di ripristinare l'ordine proprio della giustizia. Questo è il compito
che le attribuisce Aristotele: il quale nega che la giustizia consista nella P.
del taglione e ritiene che il fine della P. consista nel ripristinare la
proporzione in cui la giustizia consiste: « Quando uno abbia rice- vuto
percosse e un altro le abbia inferte oppure quando uno abbia ucciso e l’altro
sia morto, il dànno e il diritto non hanno tra loro un rapporto d’uguaglianza;
ma il giudice cerca di rimediare a 656 questa inuguaglianza con la P. che
infligge, ridu- cendo il vantaggio carpito » (Er. Nic., V, 4, 1132 a 5; cfr. 8,
1132 b 21). Questo concetto era stato già esteso dall'uomo al mondo da
Anassimandro di Mileto che aveva affermato: « Tutti gli esseri devono, secondo
l’ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio della loro ingiustizia»
(Fr. I, Diels). La P. serve qui a ripristinare l’ordine cosmico. Questa è anche
la funzione che le si attribuisce da un punto di vista religioso. Plotino dice:
« Noi compiamo la funzione che è propria, per natura, dell'anima finchè non ci
sviamo nel molteplice dell’universo; e se ci sviamo paghiamo la P. sia con il
nostro stesso sviamento sia con la sorte di- sgraziata che ci attende più tardi
» (Emn., II, 3, 8). Le stesse parole si trovano in S. Agostino (De Civ. Dei, V,
22). E S. Tommaso dice: « Poichè il peccato è un atto contrario all’ordine è
ovvio che chiunque pecca agisce contro un certo ordine; e così dallo stesso
ordine consegue che esso sia represso: e questa repressione è la P.» (S. 7h.,
I, II, q. 87, a. 1). Nello stesso spirito Kant affermava, in modo solo
apparentemente paradossale: « Anche quando la società civile si dissolvesse con
il consenso di tutti i suoi membri (se per es., un popolo abi- tante un'isola
si decidesse a separarsi e a disperdersi per tutto il mondo), l’ultimo
assassino che si tro- vasse in prigione dovrebbe prima venir giustiziato,
affinchè ciascuno porti la pena della sua condotta e il sangue versato non
ricada sul popolo che non ha reclamato quella punizione » (Mer. der Sitten, J,
II, sez. 1, E; trad. ital., pag. 144). Dallo stesso punto di vista Hegel
considerava la P. come «la vera conciliazione del diritto con se stesso », come
«rispetto oggettivo e conciliazione della legge che restaura se stessa mediante
l’annullamento del delitto e si realizza quindi come valida » (Fil. del Dir., $
220). Quelle citate sono le voci principali che possono esser raccolte tra i
filosofi in favore della teoria della P. come ripristino dell’ordine di
giustizia. Ma queste voci hanno ispirato e tuttora ispirano numerose dottrine
giuridiche nonchè isti- tuzioni e leggi su di esse fondate. 2° Il concetto
della P. come salvezza o emenda- mento del reo va spesso congiunto con quello
precedente. La più celebre difesa di esso è forse il Gorgia platonico la cui
tesi è che è meglio subire l'ingiustizia anzichè commetterla e che, per chi ha
commesso ingiustizia, la cosa migliore è di subirne la pena. «Se una colpa
viene commessa, dice Platone, bisogna al più presto recarsi colà dove si possa
pagarne la P. cioè presso il giudice come presso il medico, affinchè la
malattia dell’in- giustizia non diventi cronica e non renda l’anima guasta e
inguaribile + (Gorg., 480 a). Difatti, « colui che paga la P. patisce un bene»
nel senso che PENA «se è punito giustamente, diventa migliore» e «si libera dal
male» (/bid., 477 a): sicchè la P. è una purificazione o liberazione che
dev’essere voluta dallo stesso colpevole. Questo ufficio puri- ficatore è
spesso riconosciuto da coloro che vedono nella P. la restituzione della
giustizia. Se Kant affermava che «la P. non può mai esser decretata come un
mezzo per raggiungere un bene sia a pro- fitto del criminale stesso sia a
profitto della società civile, ma deve essergli applicata soltanto perchè ha
commesso un delitto» (Mer. der Sitten, I, II, sez. 1, E; pag. 142) negando così
ogni connessione fra le due concezioni della P., S. Tommaso stesso riconosceva
invece tale connessione. « Le P. della vita presente, egli diceva, sono
medicinali; e così quando una P. non basta a trattenere l’uomo, se ne aggiunge
un’altra, come fanno i medici che adoperano diverse medicine quando una sola
non è efficace » (S. TA., II, 2, q. 39 a. 4, ad 3°). Hegel analogamente
affermava che la P. non è soltanto la conciliazione della legge con se stessa
ma anche la conciliazione del delinquente con la sua legge cioè con la legge «
conosciuta e valida per lui e a sua protezione »: conciliazione nella quale il
delinquente trova « l’appagamento della giustizia e il suo fatto proprio »
(Fil. del Dir., $ 220). 3° La terza concezione della P. è quella che le
attribuisce l’ufficio della difesa sociale. Da questo punto di vista la P. è:
a) un movente o stimolo per la condotta dei cittadini; 5) una condizione fisica
che mette il delinquente nell’impossibilità di nuocere. I filosofi hanno
soprattutto accentuato il primo carattere. Già Aristotele notava che tutti
coloro che non hanno sortito da natura un’indole liberale, e sono i più, si
astengono da atti vergognosi soltanto per la paura delle pene. «I più, dice
egli, obbediscono alla necessità più che alla ragione e alle P. più che
all’onore» (Et. Nic., X, 9, 1180 a 4; cfr. 1179b 11). Ma questo che Aristotele
rite- neva un movente per le anime servili viene assunto, dalla concezione in
esame della P., come il movente unico e fondamentale. Hobbes afferma che «è
inefficace la proibizione che non sia accompagnata dal timore delle P. ed è
quindi inefficace una legge che non contenga entrambe le parti, quella che
vieta di commettere un torto e quella che punisce chi lo commette » (De Cive,
1642, XIV, $ 7). Questo concetto doveva essere fatto proprio dalla filosofia
giuridica dell’illuminismo. Lo riprende Samuele Pufendorf il quale assegna alla
P. il compito principale « di distogliere, con la sua acerbità, gli uomini dai
peccati» (De jure naturae, 1672, VIII, 3, 4), senza escludere tuttavia
l'emendamento del reo (/bid., VIII, 3, 9). Ma fu specialmente Cesare Beccaria
che fece prevalere questo concetto, da lui posto a base dell’opera Dei diritti
e delle pene PENSIERO (1764). Secondo Beccaria, la P. non è che il motivo
sensibile per rafforzare e garantire l’azione delle leggi sicchè « le pene che
oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono
ingiuste di loro natura» (Dei diritti e delle pene, $ 2). Dallo stesso punto di
vista Bentham consi- derava la P. come una delle varie specie di san- zioni
(v.) che hanno la funzione di essere « stimolanti della condotta umana » in
quanto « trasferiscono la condotta e le sue conseguenze nella sfera delle spe-
ranze e dei timori: delle speranze di un’eccedenza di piaceri, dei timori che
prevedono per anticipazione un’eccedenza di dolore (Deontology, 1834, I, 7).
Gli stessi concetti fondamentali sono stati fatti valere dalla cosiddetta
«Scuola positiva italiana » (Lombroso, Ferri, ecc.) che li ha difesi, con una
certa fortuna, nelle dispute filosofico-giuridiche intorno al diritto penale.
Non c'è dubbio che la maggior parte dei giuristi, dei filosofi del diritto
nonchè dei codici e dei diritti positivi vigenti nelle varie nazioni del mondo
si ispirano a una concezione mista o eclettica della P. considerandola, il più
delle volte, sotto tutti e tre gli angoli visuali qui prospettati. Questo sin-
cretismo non dà nessuna difficoltà dal punto di vista teorico, anche se i tre
punti di vista non hanno tra loro lo stesso grado di omogeneità. I primi due si
legano abbastanza bene insieme e si trovano, anche in linea di fatto,
frequentemente uniti mentre il terzo appartiene a un differente ordine di pen-
siero: i primi due si ispirano a un’etica del fine, l’altro a un'etica del
movente (v. ETICA). Ma le difficoltà cominciano sul terreno pratico, quando si
tratta di stabilire la misura della pena. Su questo campo difatti le tre
diverse concezioni manifestano la loro eterogeneità. Dal primo punto di vista,
tutte le infrazioni all’ordine della giustizia sono equivalenti: un furto
insignificante rompe quest'ordine come un delitto perpetrato con frode o
violenza. Dal secondo punto di vista, si è portati a credere che la pena, come
la purga, sia tanto più efficace quanto è più forte. Ed è solo dal terzo punto
di vista, come già notava Hegel, cioè dal punto di vista della dannosità per la
società civile, che le P. si lasciano graduare con una misura op- portuna (cfr.
HeGEL, Fil. del Dir., $ 218). Su questo terreno pertanto la confusione o la
mescolanza dei vari concetti di P. è tutt'altro che innocente ed è il motivo
principale del disordine e delle sperequa- zioni esistenti nei sistemi penali
vigenti. PENSANTE, PENSIERO. V. ATTUALISMO. PENSIERO (gr. vénow, duvora; lat.
Cogitatio; ingl. Thought; franc. Pensée; ted. Denken). Si pos- sono distinguere
i seguenti significati del termine: 1° qualsiasi attività mentale o spirituale;
2° l’atti- vità dell’intelletto, o della ragione in quanto distinta 42 657 da
quella dei sensi e della volontà; 3° l’attività discorsiva; 4° l’attività
intuitiva. 1° Il significato più vasto del termine, per il quale con esso si
intende qualsiasi attività spiri- tuale o l’insieme di tali attività, fu
introdotto da Cartesio. «Con la parola ‘pensare’, egli diceva, intendo tutto
ciò che accade in noi in modo tale che noi lo percepiamo immediatamente da noi
stessi: perciò non solamente intendere, volere, im- maginare, ma anche sentire
è la stessa cosa che pensare » (Princ. Phil., I, 9; cfr. Méd., ID). Questo
significato si trova conservato nei cartesiani (cfr., ad es., MALEBRANCHE,
Recherche de la vérité, I, 3, 2) e accettato da Spinoza che include tra i modi
del P. «l’amore, il desiderio e ogni altra affezione del- l'animo » (Et., II,
assioma III). Locke accennava a questo significato, pur notando che in inglese
pen- siero significa più propriamente « l’operazione dello spirito sulle
proprie idee » (cioè P. discorsivo) e pre- ferendo perciò la parola «
percezione» (Saggio, II, 9, 1). Lo stesso significato veniva accettato da
Leibniz che definiva il P. come «una percezione congiunta con la ragione,
percezione che le bestie, per quanto possiamo vedere, non posseggono? (Op., ed.
Erdmann, pag. 464); e osservava che si poteva prendere il termine P. anche nel
significato più generale di percezione, nel qual caso il P. ap- parterrebbe a
tutte le entelechie (cioè anche agli animali) (Nouv. Ess., II, 21, 72). La
tradizione di questo significato si interrompe con Kant e non viene più ripresa
nella filosofia moderna. 2° Il secondo significato è quello per cui il termine
designa l’attività dell’intelletto in genere, .in quanto è distinta da un lato
dalla sensibilità, dall’altro dall’attività pratica. In questo significato
Platone adopera talvolta la parola vénow, come quando designa con essa l’intera
conoscenza in- tellettiva, che comprende sia il P. discorsivo ($wvota) sia
l'intelletto intuitivo (voce) (Rep., VII, 534); talaltra la parola Suvoa, come
fa quando definisce il P. in generale come il dialogo dell’anima con se stessa.
«Quando l’anima pensa, egli dice, non fa altro che discutere con se stessa per
via di do- mande e risposte, affermazioni e negazioni; e quando, presto o tardi
o d’un subito, si determina e asserisce e non dubita più, diciamo che essa è
giunta ad una opinione» (7eer., 190e, 19la; cfr. Sof., 264 e). Nello stesso
senso generale Ari- stotele adopera la parola Suvowa come quando dice: «
Pensabile significa ciò di cui c'è un P.» (Met., V, 15, 1021 a 31). Questo
significato, che è il più esteso (dopo quello precedente), si è conservato
nella tradizione e viene condiviso da tutti coloro che ammettono la nozione
dell’intelletto come facoltà di pensare in generale: in realtà le due nozioni
coincidono. 658 S. Agostino (De Trin., XIV, 7) e S. Tommaso (S. Th., II, 2, q.
2, a. 1) ammettono questo signi- ficato generico accanto a quello specifico di
P. di- scorsivo (v. oltre). Il P., in questo senso, costituisce l’attività propria
di una certa facoltà dello spirito umano in quanto distinta da altre facoltà e
precisa- mente quella di cui è propria l’attività conoscitiva superiore (non
sensibile). Wolff definiva in questo senso: « Diciamo di pensare quando siamo
consa- pevoli di quel che accade in noi e che rappresenta le cose che sono
fuori di noi» (Psychol. empirica, $ 23). Questo significato costituisce anche
oggi l’uso più comune del termine nel linguaggio ordinario. 3° Il terzo
significato di P. è quello che lo specifica come P. discorsivo. È questo il P.
che Platone chiamava dianoia e considerava come l’or- gano proprio delle
scienze propedeutiche cioè del- l'aritmetica, della geometria, dell'astronomia
e della musica: P. che Platone riteneva avvicinamento e preparazione al pensiero
intuitivo dell’intelletto (Rep., VI, S11 d). S. Agostino negava che il Verbo di
Dio potesse chiamarsi P. in questo senso (De Trin., XV, 16); e lo negava S.
Tommaso, perchè il pensare è in questo senso «una considerazione
dell’intelletto accompagnata dall’indagine, anteriore, perciò, alla perfezione
che l'intelletto attinge nella certezza della visione » (S. 7h., II, 2, q. 2,
a. 1; cfr. I, q. 34, a. 1). Questo è, secondo S. Tommaso, il significato « più
proprio » della parola « P.». E a questo significato è riconducibile l’altro
che egli distingue come terzo significato (il primo essendo quello generico di
cui al n. 2) del P. come «atto della facoltà cogitativa» (virtus cogitativa) o
ragione particolare (ratio particularis); che è il P. che cor- risponde alla
capacità valutativa degli animali e consiste nel riunire e paragonare le
intenzioni par- ticolari, come la ragione intellettiva o P. discorsivo consiste
nel riunire e paragonare le intenzioni universali (Ibid., I, q. 78, a. 4). Vico
non faceva che esprimere gli stessi concetti affermando, nel De antiquissima
Italorum sapientia (1710) che a Dio appartiene l’intendere (intelligere) che è
la co- noscenza perfetta, risultante da tutti gli elementi che costituiscono
l'oggetto e all’uomo solo il pensare (cogitare) che è quasi l’andar
raccogliendo alcuni degli elementi costitutivi dell’oggetto (De anriquis- sima
Italorum sapientia, I, 1). Alla stessa nozione di P. si riferiva l’empirismo
quando affermava, per es., con Hume che tutto ciò che il P. può fare con- siste
« nel potere di comporre, trasportare, aumen- tare o diminuire i materiali
forniti dai sensi e dalla esperienza » (/ng. Conc. Underst., 1I; trad. ital.,
1910, pag. 17). E questo è infine il concetto che del P. ebbe Kant. « Pensare,
egli disse, è collegare rappre- sentazioni in una coscienza +» (Prol/., $ 22).
Il che significa che « pensare è la conoscenza per con- PENSIERO cetti »; che
«i concetti si riferiscono come predicati di giudizi possibili a qualche
rappresentazione di un oggetto ancora indeterminato» e che pertanto, quando
questo oggetto non è dato all’intuizione sensibile, si ha bensì un «P. formale»
ma non una conoscenza vera e propria che consiste nella unità del concetto e
dell’intuizione (Crif. R. Pura, Anal. dei concetti, sez. 1, $ 22). Al P. in
questo senso si riferiva Hamilton considerandolo « l’atto o il prodotto della
facoltà discorsiva o facoltà delle re- lazioni » (Lectures on Logic, V, 10; I,
pag. 73). Dal punto di vista di questa nozione, l’attività del P. è definita in
termini di sintesi, unificazione, confronto, coordinazione, selezione,
trasformazione, ecc., dei dati che sono offerti al P., ma non da lui stesso
prodotti. Pertanto la caratteristica del P. come at- tività discorsiva è in
ultima analisi una caratteri- stica negativa: il P. discorsivo non si
identifica mai con il suo oggetto ma verte intorno a questo og- getto cioè lo
caratterizza o lo esprime. In questo senso Frege chiama P. il contenuto di una
propo- sizione cioè il suo senso (v.) («Uber Sinn und Bedeu- tung», $ 5; trad.
ital., in Aritmetica e logica, pag. 225). In questo stesso senso Wittgenstein
diceva: « Il P. è la proposizione significante » e identificava P. e
linguaggio, sul fondamento che «la totalità delle proposizioni è il linguaggio»
(Tracratus logico- philosophicus, 3.5; 4; 4.001). 4° La caratteristica propria
del concetto del P. come intuizione è la sua identità con l’oggetto. Il P. è in
questo senso l’attività propria dell’intel- letto intuitivo: cioè di
quell’intelletto che è visione diretta dell'intelligibile, secondo Platone
(Rep., VI, 511 c); o che, secondo Aristotele, si identifica con l’intelligibile
stesso nella sua attività (Mer., XII, 2, 1072 b 18 sgg.). Per il P. così inteso
gli antichi usarono costantemente la parola inze/letto (v.) e si è visto come
S. Agostino e S. Tommaso si rifiutassero di estendere ad esso il significato di
« P. ». Ma nell’idealismo romantico, mentre l’in- telletto veniva degradato a
facoltà dell’immobile (v. INTELLETTO), il P. veniva promosso al posto già
tenuto dall’intelletto intuitivo e identificato con esso. Così fece per primo
Fichte identificando il P. stesso con l’Io o Autocoscienza infinita (Wis-
senschaftslehre, 1794, $ 1) e così fecero Schelling e Hegel. Schelling
affermava: « Il mio io contiene un essere che precede ogni pensare e
rappresentare. Esso è in quanto è pensato ed è pensato perchè è... Esso si
produce con il mio P., per via di una cau- salità assoluta» (Vom Ich als
Prinzip der Philosophie, 1795, $ 3). Hegel a sua volta espresse nella forma più
chiara l’identificazione del P. con l’autoco- scienza creatrice cioè come
attività che coincida con la sua propria produzione. Definendo la logica come
«scienza del P.» egli affermava che « essa PERCEZIONE contiene il P. in quanto
è insieme anche la cosa in se stessa o contiene la cosa in se stessa in quanto
è insieme anche il puro P.» (Wissenschaft der Logik, Intr., Concetto generale;
trad. ital, I, pag. 32). E partendo dal concetto discorsivo del P. così Hegel
giunge al concetto intuitivo di esso: « Il P. nel suo aspetto più prossimo
appare anzitutto nel suo ordinario significato soggettivo, come una delle
attività o facoltà spirituali accanto ad altre, alla sensibilità,
all’intuizione, alla fantasia, all’appeti- zione, al volere, ecc. Il prodotto
di questa attività, il carattere o forma del P. è l’universale, l’astratto in
genere. Il P. come attività è perciò l’universale attivo, è propriamente quello
che fa se stesso giacchè il fatto, il prodotto, è appunto l’univer- sale. Il
P., rappresentato come soggetto, è il pen- sante; e la semplice espressione del
soggetto esi- stente come pensante è l’io » (Enc., $ 20). In altri termini il
P. è insieme l’attività produttiva e il suo prodotto (l’universale o concetto):
è perciò l’es- senza o la verità di ogni cosa (Zbid., $ 21). Da Hegel in poi
questa nozione intuitiva del P. è stata talora qualificata dai suoi sostenitori
come il concetto «speculativo » del P. stesso: e assunto come l’unico concetto
adeguato del P. inteso nella sua infinità, nella sua forza creatrice. Ma in
realtà si è sempre trattato dalla vecchia nozione di in- telletto intuitivo,
estesa anche all’uomo, senza più tener conto dei limiti e delle condizioni che
gli antichi ponevano a questa estensione. PENTIMENTO (lat. Paenitentia; ingl.
Re- pentance; franc. Repentir; ted. Reue). L'afflitto ri- conoscimento d’una
propria colpa. Questa è la definizione sulla quale i filosofi si accordano, pur
esprimendola con parole diverse (S. ToMMASsO, S. Th., III, q. 85, a. 1;
CARTESIO, Passions de l’dme, IN, 191; Spinoza, Etica, III; Definizione delle
pas- sioni, 27; HegeL, Werke, ed. Glockner, X, pa- gina 372; ecc.). I filosofi
sono pure d’accordo nell’ammettere il valore morale del pentimento. Spi- noza
per quanto ritenga che il P. « non è una virtù cioè non deriva dalla ragione »
e che pertanto chi si pente è doppiamente misero o impotente (cioè una volta
perchè ha agito male e una seconda volta perchè se ne affligge) riconosce che
colui che è sottoposto al P. si può tuttavia ridurre molto più facilmente degli
altri a vivere secondo ragione (Eth., IV, 54). Montaigne che dedicò al P. uno
dei suoi più notevoli saggi (Essaîs, III, 2) aveva tuttavia notato che il P.
non deve trasformarsi nel desiderio «di essere un altro ». « Il P., egli
scrisse, non tocca propriamente le cose che non sono in nostro potere, come non
le tocca il rimpianto. Io immagino infinite nature più alte e più regolate
della mia; ma con ciò non miglioro le mie facoltà come il mio braccio e il mio
spirito non divengono più vigorosi perchè 659 io ne concepisca un altro che lo
sia » (/bid., ed. Rat, III, pag. 28). In senso analogo si esprime Kierkegaard
che ha visto nel P. il punto culminante della vita etica e nello stesso tempo
il segno del suo interno con- flitto. Il P. è inerente alla scelta che, nella
vita etica, l’uomo fa di se stesso. « Scegliere se stessi è iden- tico al
pentirsi di se stesso... Anche il mistico si pente, ma si pente fuori di sè non
dentro di sè; si pente metafisicamente e non eticamente. Pentirsi esteticamente
è repellente perchè è una sdolcinatura; pentirsi metafisicamente è cosa inutile
e fuori posto poichè non è l’individuo che ha creato il mondo e non occorre che
egli si prenda tanto a cuore }a vanità del mondo stesso » (Entweder -Oder, in
Werke, II, pag. 223; Furcht und Zittern, in Werke, II, pag. 143). Cfr. M. ScHELER, Reue und
Wiedergeburt, in Vom Ewigen im Menschen, 4* ediz., 1954. PER ACCIDENS (gr. xatà cvpfefyx6c). Ciò che è o
accade senza connessione necessaria col soggetto dell’accadimento, come quando
accade che un musico costruisce; difatti tra l’esser musico e l’esser
costruttore non c'è connessione (confronta ARISTOTELE, Mer., V, 7, 1017a 10).
PERATOLOGIA. Termine con cui Ardigò in- dicò la parte generale della filosofia
cioè quella parte che ha per oggetto ciò che è al di là dei sin- goli campi
delle scienze filosofiche speciali cioè della psicologia e della sociologia
(Opere filoso- fiche, II, 1884, passim). PERCETTO (ingl. Percepi). Nel
linguaggio della psicologia contemporanea, il P. è l’esperienza privata di un
oggetto cioè il modo in cui l’oggetto appare a un singolo soggetto. Il nome è
stato co- niato per analogia con « concetto ». PERCEZIONE (gr. dvraiyic; lat.
Perceptio; ingl. Perception; franc. Perception; ted. Wahr- nehmung, Perception). Si possono distinguere di
questo termine tre significati principali: 1° un signi- ficato generalissimo
per il quale designa qualsiasi attività conoscitiva in generale; 2° un
significato più ristretto per il quale designa l’atto o la funzione conoscitiva
cui un oggetto reale è presente; 3° un significato specifico o tecnico per il
quale designa un'operazione determinata dell’uomo nei suoi rap- porti con
l’ambiente. Nel primo significato, la P. non si distingue dal pensiero. Nel
secondo signi- ficato, è la conoscenza empirica cioè immediata, certa ed
esauriente, dell’oggetto reale. Nel terzo significato, è l’interpretazione
degli stimoli. Solo nell’ambito di quest’ultimo significato, si può intendere
quello che la psicologia oggi discute come « problema della percezione ». 1°
Nel suo significato più generale il termine fu adoperato da Telesio, il quale
disse che « la sensa- zione è la P. delle azioni delle cose, degli impulsi 660
dell'aria e delle proprie passioni e mutazioni, soprattutto di queste » (De
rer. nat., VII, 3). Questa dottrina era presentata in opposizione polemica con
la tesi che la sensazione consistesse sempli- cemente nell’azione delle cose o
nella modificazione dello spirito: Telesio insiste che essa invece consiste
nella P. dell’una o dell’altra. La stessa dottrina veniva difesa da Bacone che
esplicitamente si rifaceva alla distinzione di Telesio (De Auem. Scient., IV,
3). E Cartesio a sua volta adoperava la parola per indicare tutti gli atti
conoscitivi, in quanto passivi rispetto all’oggetto, nei confronti degli atti della
volontà che sono attivi (Passions de l’éme, I, 17). Cartesio divise le
percezioni in quelle che si rapportano agli oggetti esterni, quelle che si
rapportano al corpo e quelle che si rapportano all'anima (/bid., I, 23-25). In
questo senso genera- lissimo, la parola fu usata anche da Locke: «La P. è la
prima facoltà dell’anima che si eserciti intorno alle nostre idee; perciò è la
prima idea che noi raggiungiamo per mezzo della riflessione e la più
semplice... Nella pura e semplice P., lo spirito, d’ordinario, è solamente
passivo non potendo a meno di percepire ciò che in atto percepisce» (Saggio,
II, 9, 1). Allo stesso modo, Leibniz intende la P. come ciò che l’anima
dell’uomo e l’anima del- l’animale hanno in comune, cioè come « l’espressione
di molte cose in una» e la distingue dalla apper- cezione o pensiero per il
fatto che quest’ultima è accompagnata dalla riflessione (Nouv. Ess., II, 9, 1;
cfr. Op., ed. Erdmann, pag. 438, 464, ecc.). Non diverso è il senso generale
che Kant attribuì alla parola chiamando P. una « rappresentazione con coscienza
» e distinguendola in sensazione, se essa viene riferita soltanto al soggetto e
conoscenza se è oggettiva (Crit. R. Pura, Dialettica, Libro I, sez. 1). È
abbastanza ovvio che P. in questo senso significa lo stesso che pensiero in
generale; e lo stesso Locke notava questa identità di significato, pur
preferendo per suo conto la parola P., perchè pensiero in inglese indica «
l’operazione dello spirito sulle proprie idee » mentre nella P. lo spirito
ordi- nariamente è passivo (Saggio, II, 9, 1). 2° Il secondo significato del
termine è più ristretto ed esprime l’atto conoscitivo oggettivo, quello che
afferra o manifesta un oggetto reale determinato (fisico o mentale). Questo è
il significato originario del termine, quale fu usato dagli Stoici come
equivalente di comprensione (xattAnpic): «Gli stoici definiscono a questo modo
la sensazione: la sensazione è P. mediante il sensorio oppure comprensione »
(AEzio, P/ac., IV, 8, 1; cfr. EPICURO, Fr. 250; PLoTINO, Enn., VI, 7, 3, 29;
ecc.). Cicerone tradusse con perceptio il termine greco, avendo so- prattutto
di mira il senso di rappresentazione catalet- tica (Acad., II, 6, 17; De
finibus, III, 5, 17); e in PERCEZIONE senso analogo il termine fu usato da S.
Agostino (De Trin., IV, 20) e da S. Tommaso il quale ultimo in- tendeva con
esso « una certa conoscenza sperimen- tale » (S. 7A., I, q. 63, a. 5, ad 2°).
La parola veniva reintrodotta nell’uso filosofico da Telesio e Bacone (come si
è detto) e da essi il suo significato comin- ciava ad essere distinto da quello
di sensazione. Ma soltanto Cartesio ne stabiliva il nuovo e più complesso
significato. Parlando delle percezioni esterne, egli affermava che, per quanto
esse siano prodotte da movimenti provenienti dalle cose esterne, « noi le
riferiamo alle cose che supponiamo esser loro cause in modo tale da credere di
vedere la torcia e di udire la campana, quando invece sentiamo solamente i
movimenti che vengono da esse» (Passions de l’îme, I, 23). Da questo punto in
poi la distinzione tra sensazione e P. diventa un teorema fondamentale della
teoria della per- cezione. Questa distinzione viene espressa da C. Bonnet
(Essai analytique sur les facultés de l’îame, 1759, XIV, 195-96) e dalla scuola
scozzese nel senso comune, specialmente da Reid (/nquiry into the Human Mind,
1764, VI, 20). In virtù di essa la sensazione viene ridotta all’idea semplice
di Locke: ad un’unità elementare prodotta diretta- mente nel soggetto
dall’azione causale dell’oggetto. La P., dall'altro lato, diventa un atto
complesso che include una molteplicità di sensazioni, presenti e passate,
nonchè il loro riferimento all'oggetto, cioè un atto giudicativo. Già Kant
identificando la P. con l’intuizione empirica (Prol., $ 10), che è la
conoscenza oggettiva cioè il risultato dell'attività giudicante esercitata sul
molteplice sensibile, aveva considerato incluso nella P. l’atto giudicativo. La
presenza di un giudizio alla P. diviene un luogo comune nella filosofia del
sec. xrx. Hegel non faceva che portare al limite questa tesi, quando
considerava la P., e la cosa che ne è l’oggetto, come un prodotto
dell’Universale, cioè della Coscienza o del Pensiero. « Per noi o in sè, egli
diceva, l’Universale come principio è l’essenza della P., e di contro a questa
astrazione i due distinti, il percipiente e il percepito, sono l’inessenziale »
(Phdnomen. des Geistes, I, Co- scienza, II; trad. ital., I, pag. 97). Ma al di
fuori di questa tesi estremistica (che è stata tuttavia ripe- tuta sino a
qualche tempo fa dalle scuole idealistiche) la distinzione tra sensazione e P.
e il riconoscimento del carattere attivo o giudicativo della P. ha avuto come
base il riferimento di essa all'oggetto esterno. Così fece Hamilton, che si
ispirava alla dottrina della scuola scozzese (Lectures on Metaphysics, 5®
ediz., 1870, II, pag. 129 sgg.); e così fece Spencer che molto contribuì a
diffondere questo punto di vista (Principles of Psychology, 1855, $ 353). Bol.
zano (Wissenschaftslehre, 1837, I, pag. 161), Bren- tano (Psychologie vom
empirischen Standpunkte, PERCEZIONE 1874, I, 3, $ 1), Helmoltz (Die Tatsachen
in der Wahrnehmung, 1879, pag. 36) sottolineavano l’azione del pensiero o
dell’intelletto nella P.; e Brentano identificava la P. stessa con il giudizio
o la cre- denza (/oc. cit.). In senso non diverso, Husserl distingueva la P.
dagli altri atti intenzionali della coscienza in base al tratto che essa
permette di « af- ferrare» l'oggetto (/deen, I, $ 37). Alla percezione la cosa
stessa è presente nel suo essere, come è presente alla cosa il soggetto che
percepisce (cfr. G. BRAND, Welt, Ich und Zeit, 1955, 3). Solo apparentemente
diversa è la nozione bergsoniana della « P. pura ». Dice Bergson: «La P. non è
che una selezione. Essa non crea nulla: il suo compito è quello di eliminare
dall’insieme delle immagini tutte quelle sulle quali io non avrei alcuna presa
e poi, dalle immagini ritenute stesse, tutto ciò che non interessa i bisogni di
quell'immagine particolare che chiamo corpo + (Matiére et mémoire, pag. 235).
In questo modo la P. delineerebbe, nello sterminato campo delle immagini
conservate della coscienza, l'oggetto determinato da servire ai bisogni
dell’azione e che delimita l’azione possibile del mio corpo. Ma anche cosl il
compito della P. rimane quello di afferrare o delineare un oggetto. Il concetto
di P. cui queste dottrine fanno riferi- mento, è sufficientemente uniforme: la
P. è l’atto con cui la coscienza « afferra » o « pone + un oggetto; e
quest’atto utilizza un certo numero di dati ele- mentari, cioè di sensazioni.
Tale concetto suppone pertanto: 1° la nozione di coscienza come attività
introspettiva o autoriflessiva; 2° la nozione dell’og- getto percepito come
un’entità singola perfettamente isolabile e data; 3° la nozione di unità
elementari sensibili. L'abbandono di questi tre presupposti ca- ratterizza la
nuova fase del problema della P., propria della psicologia e della filosofia
contemporanee. 3° Per il terzo concetto, la P. non è che l’inter- pretazione
degli stimoli, cioè il ritrovamento o la costruzione del significato di essi.
Questa definizione è una formula semplificata e generica per esprimere i tratti
più evidenti che alla P. riconoscono le teorie psicologiche contemporanee. F.
H. Allport ha enumerate (e criticamente analizzate) tredici tali teorie
(Theories of Perception and the Concept of Structure, 1955). Bisogna tuttavia
osservare che esse, proposte, come sono quasi tutte, da psi- cologi ricercatori
che le hanno formulate come generalizzazioni sperimentali, raramente rappresen-
tano alternative che si escludano mutuamente, mentre il più delle volte non
fanno che porre in evidenza o considerare come fondamentali fattori o
condizioni che un certo ordine di ricerche ha messo in luce. Si possono,
tuttavia, distinguere due gruppi di teorie: a) quelle che insistono sull’im-
portanza dei fattori o delle condizioni oggettive; 661 b) quelle che insistono
sull’importanza dei fattori o delle condizioni soggettive. a) Al primo gruppo
di dottrine appartiene in primo luogo la psicologia della forma (Gestalt-
theorie) che è sostanzialmente una teoria della percezione. La psicologia della
forma s’inizia con il lavoro di Max Wertheimer sulla P. del movimento (1912) e
ha come suoi altri rappresentanti principali Wolfgang Kéhler (Gestalt
Psychology, 1929) e Kurt Koffka (Beitràge zur Psychologie der Gestalt, 1919).
L’obbiettivo polemico della psicologia della forma sono i presupposti 2° e 3°
della concezione tradizionale della percezione. Essa ha mostrato, in primo
luogo, che non esistono (salvo che come astrazione artificiale) sensazioni elementari
che entrino a comporre la P. di un oggetto; e in secondo luogo che non esiste
un oggetto di P. come entità isolata o isolabile. Ciò che si percepisce è una
totalità che fa parte di una totalità. La psicologia della forma si è dedicata
a determinare le «leggi» in base alle quali tali totalità sono costituite, cioè
le «leggi di organizzazione ». Esse sono quelle della prossimità, della
somiglianza, della direzione, della buona figura, del destino comune, della
chiu- sura, ecc.: leggi che possono essere vedute in atto anche in esperienze
semplicissime: come, ad es., quelle che rivelano la tendenza a raggruppare
insieme, in un’unica percezione, segni simili o sufficientemente vicini o
costituenti una figura regolare. L'affermazione fondamentale della teoria della
forma è che la P. concerne sempre una totalità, le cui parti, se considerate
separatamente, non presentano i suoi stessi caratteri; che sono quelli della
massima semplicità e chiarezza possibile e della massima possibile simmetria e
regolarità. Tali caratteri hanno convinto talvolta i gestaltisti ad ammettere
la cosiddetta teoria del « tutto determinante »: cioè la teoria che il tutto
tra- scende le sue parti e determina dinamicamente le parti stesse secondo
leggi sue proprie. Il tutto rassomiglia così alla «cosa + di cui parla Husserl,
nei confronti della P. trascendente: in quanto l'essenza della cosa integra in
sè, e nello stesso tempo trascende, la totalità delle sue apparizioni. Questa è
la teoria della P. che è sostanzialmente accettata nella Phénoménologie de la
perception (1945) di M. Merleau-Ponty. Un'importante variante di essa è la
teoria del campo topologico di Lewin secondo la quale l’individuo, ridotto a un
punto privo di di- mensioni, è sottoposto all’azione delle forze che agiscono
nel campo e che egli sente come estranee al suo corpo. In questa condizione
l’individuo è considerato in «locomozione» cioè come moventesi verso una meta
positiva o come allontanantesi da una meta negativa. Lo spazio in cui avviene
questo movimento è il cosiddetto « spazio di vita » 662 cioè la regione nella
quale l’individuo ha esperienza della sua azione: uno spazio che non ha
proprietà metriche o direzioni determinate ed è perciò fopo- logico, nel senso
che può avere ad ogni momento qualsiasi dimensione o forma geometrica, purchè
conservi le proprietà che rendono possibile il movi- mento (LEWIN, Principles
of Topological Psychology, 1936). Varianti di questa teoria possono essere
considerate quella di Hebb che fa corrispondere al campo percettivo un campo fisiologico
cioè un « meccanismo di azione neutrale selettiva » che pren- derebbe posto,
per ogni particolareP., in qualche punto del sistema nervoso centrale (The
Organization of Behavior, New York, 1949); e quella del « campo tonico-sensorio
» secondo la quale «le proprietà percettuali di un oggetto sono una funzione
del modo in cui gli stimoli provenienti dall’oggetto mo- dificano l’esistente
stato tonico-sensorio dell’orga- nismo » (WERNER e WAPNER, « Toward a General
Theory of Perception», in Psychological Review, 1952, pag. 324-38). Tutte le
teorie qui accennate, imperniate come sono sui concetti di «totalità » o di
«campo», privilegiano in qualche modo l’aspetto oggettivo della percezione. b)
Un secondo gruppo di teorie tiene invece d’occhio prevalentemente l’aspetto
soggettivo della P. medesima. Per tali teorie, cade anche il presup- posto 1°
della concezione 2* della P., cioè quello della coscienza. Queste dottrine
infatti non fanno ricorso alla nozione di coscienza e alla considera- zione
introspettiva. Una mole imponente di osser- vazioni sperimentali ha messo in
luce l’importanza, per la P., dello stato di preparazione o predisposi- zione
del soggetto cioè di quello che si chiama solitamente l’apparecchiatura (set)
percettiva. Il fatto fondamentale è che l'essere apparecchiati per un certo
stimolo o per una certa reazione ad uno stimolo, facilita l’atto del percepire
o lo fa compiere con maggiore prontezza, energia o intensità. L’appa-
recchiatura è, in altri termini, un processo selettivo che determina
preferenze, priorità, differenze quali- tative o quantitative in ciò che si
percepisce. L’apparecchiatura non è qualcosa di diverso dallo stesso processo
percettivo nè è un meccanismo innato o prefissato, ma uno schema variabile che
è appreso o costruito, per quanto non sempre volontariamente (cfr. il cap. 9
della citata opera di Allport). Le più recenti teorie della P. tengono
largamente conto di questi fatti. La teoria rransa- zionale, per es.,
considera, in base ad essi, la P. come una transazione cioè come un accadimento
che prende posto tra l’organismo e l’ambiente e non può quindi essere ridotto
nè all’azione dell’og- getto o del soggetto nè all’azione reciproca dei due.
Come transazione, la P. deriva la sua natura dalla situazione totale in cui
prende posto e ha le sue PERCEZIONE radici sia nell'esperienza passata
dell’individuo sia nelle sue aspettazioni per il futuro (DEWEY e BENTLEY,
Xnowing and the Known, 1949; CANTRIL, AMES, HAsTORF, ITTELSON, «Psychology and
Scien- tific Research», in Science, 1949, pag. 461, 491, 517; ITTELSON e
CANTRIL, Perception: a Trans- actional Approach, 1954). Da questo punto di
vista può essere agevolmente posto in luce il ca- rattere attivo e selettivo
della P., il fatto che essa si avvale di indizi, in base ai quali rico-
struisce il significato dell'oggetto e infine l’altro tratto fondamentale, cioè
che essa è costituita da probabilità, non da certezze. Questi tratti sono messi
innanzi dal cosiddetto funzionalismo che è stato chiamato il «New.Look» della
teoria della P.; ed hanno condotto alla teoria della motivazione e alla teoria
delle ipotesi. La prima teoria che è detta anche teoria dello « stato direttivo
» è fondata sul riconoscimento dell’infiuenza che i bisogni corporei, le
aspettazioni dell’individuo (ad es., un castigo o un premio) e la personalità
di lui hanno sull’oggetto percepito e sulla rapidità e intensità della P.
(BRUNER e KRECH, Perceprion and Perso- nality: a Symposium, Durbam, 1950).
Nella seconda teoria confluiscono tutti i dati sperimentali sui quali hanno
fatto leva le teorie del presente gruppo e buona parte dei dati sperimentali
sui quali si fondavano le teorie del primo gruppo. L’idea fondamentale della
teoria dell’ipotesi è che le percezioni (come d’altronde anche il ricordo o il
pensiero) costituiscono ipotesi che l’organismo avanza in determinate
situazioni e che sono confer- mate, abbandonate o modificate a seconda della
situazione stessa. L’apparecchiatura (ser) di cui parlava una delle precedenti
teorie è per l'appunto l’avvio a un'ipotesi di questo genere. L’apparec-
chiatura costituisce infatti l’aspettazione percettuale, che è fondata
sull’esperienza precedente e anticipa quella futura. Abitualmente, nella P., le
apparec- chiature sono state stabilite da lungo tempo, attraverso la precedente
attività percettiva e possono essere pronte ad entrare in azione quando
l’organi- smo entra in una data situazione. Attraverso tali apparecchiature,
l’organismo sceglie, organizza e trasforma le «informazioni» che gli giungono
dall’ambiente. Queste informazioni sono indizi o segnalazioni che servono sia a
«evocare» l’ipotesi sia a confermarla o smentirla. Le principali correla- zioni
funzionali tra le variabili che la teoria comporta sono le seguenti: I) Più
forte è l’ipotesi, maggiore è la probabilità della sua evocazione e minore la
somma di indizi richiesta per confermarla. Da ciò segue che quando l’ipotesi è
debole, è richiesta per la sua conferma una mole estesa di informazioni
appropriate. II) Più forte è l’ipotesi, maggiore è la somma di indizi richiesta
per infirmarla; e più debole PERFEZIONE l’ipotesi, minore è la quantità di
indizi contrari richiesti per infirmarla (cfr. l'art. di L. PostMAN, in Social
Psychology at the Crossroads, a cura di RoHRER e SHERIF, New York, 1951; e
ALLPORT, op. cit., cap. 15). Questa teoria non fa che riassu- mere, nella forma
meno dogmatica, sia i dati speri- mentali raccolti da un imponente numero di
osser- vatori sia i tratti essenziali che alla P. avevano riconosciuto le
dottrine contemporanee della psico- logia a partire dalla Gestalttheorie. Tali
tratti possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° la P. non è la
conoscenza esauriente e totale dell’oggetto che le teorie di cui al numero 2°
vedevano in essa, ma un’interpretazione provvi- soria e incompleta, fatta in
base a indizi o a segna- lazioni. 2° La percezione non implica alcuna ga-
ranzia della sua validità cioè alcuna certezza. Essa si mantiene nella sfera
del probabile. 3° Come ogni conoscenza probabile, la P. deriva la sua validità
dall’esser messa a prova e dal riuscire confermata o rigettata dalla prova. 4°
La P. non è conoscenza perfetta e immodificabile, ma possiede la caratte-
ristica della correggibilità. PERCEZIONE INTELLETTIVA. Così Rosmini chiamò
l’atto fondamentale della cono- scenza, in quanto è una sintesi tra l’idea
dell’es- sere in generale e l’idea empirica derivante dalla sensazione (delle
cose esterne) o dal sentimento (che l’io ha di sè) (Nuovo saggio sull'origine
delle idee, 1830, $ 492, 537, ecc.). PERCEZIONI PICCOLE. V. Inconscio.
PERCEZIONISMO (ingl. Perceptionism; fran- cese Perceptionnisme; ted.
Perceptionismus). La dottrina che ammette la realtà degli oggetti della
percezione. Lo stesso che realismo ingenuo (vedi REALISMO). PERFECTIHABIA. Così
Ermolao Barbaro tradusse in latino il termine greco « entelechia » (cfr.
LERBNIZ, Monad., $ 48). PERFETTO (gr. céews; lat. Perfectus; in- glese Perfect;
franc. Parfait; ted. Vollkommen). Aristotele distingueva tre significati del
termine: 1° ciò che non manca di alcuna sua parte o al di là di cui non può
trovarsi alcuna parte che gli appar- tenga; 2° ciò che possiede, nella sua
specie, un’ec- cellenza che non può essere sorpassata; e così è P. un flautista
o un ladro di cui non ci sia il migliore; 3° ciò che ha raggiunto il suo fine,
posto che si tratti di un fine buono (Mer., V, 16, 1021 b 12 sgg.). Nel primo
senso è P. ciò che è completo cioè non manca di alcuna sua parte integrante.
Nel secondo senso è P. ciò che è eccellente rispetto ad altro della stessa
specie; nel terzo senso è P. ciò che è reale o attuale perchè ha raggiunto il
suo fine. Questi significati sono rimasti propri del termine lungo la storia
della filosofia. È chiaro che mentre 663 il significato 2° è relativo quindi
non metafisico, perchè esprime solo l’eccellenza relativa di una cosa in un
dato ordine di cose, gli altri due sono assoluti e sono rimasti propri della
tradizione metafisica. PERFEZIONE (ingl. Perfection; franc. Per- fection; ted.
Vollkommenheit). Questa parola è stata usata dai filosofi soltanto corrispondentemente
ai significati 1° e 3° del corrispondente aggettivo: non si considera come P.
la P. relativa cioè lo stato di una cosa che eccelle fra quelle della sua
specie. Dice S. Tommaso: « La P. di una cosa è duplice, cioè prima e seconda.
La prima P. è quella per la quale una cosa è perfetta nella sua sostanza e tale
P è la forma del tutto che emerge dall’integrità delle parti. La P. seconda è
quella del fine; ma il fine o è l’operazione, come il fine del citarista è
quello di suonar la cetra; o è la cosa cui si perviene at- traverso
l’operazione, come il fine del costruttore è la casa che costruisce. La prima
P. è causa della seconda P.: la forma è infatti il principio delle operazioni »
(S. 7h., I, q. 73, a. 1). Esattamente lo stesso concetto veniva esposto da
Kant: « La P. indica talvolta un concetto che appartiene alla filosofia
trascendentale, quello della totalità degli elementi diversi che riuniti
insieme costituiscono una cosa; ma esso può intendersi anche come appartenente
alla re/eologia, e allora significa l’ac- cordo delle proprietà di una cosa con
un fine» (Met. der Sitten, Intr., V, A; cfr. Crit. del Giud., $ 15). Queste
determinazioni riducono la P.: 1° alla integrità del tutto; 2° alla
realizzazione del fine. Ma tendono in realtà a privilegiare il primo concetto
che, applicato alla totalità dell’essere, ha portato nella tradizione
filosofica, a identificare P. e realtà. Lo stesso S. Tommaso infatti ha
descritto la P. di Dio e della creatura come consistente nel pos- sesso
dell’essere: « Dio, che è la totalità del suo essere, possiede l’essere secondo
l’intera virtù del- l’essere stesso e non può mancare di alcuna nobiltà che
competa a una cosa qualsiasi. Come ogni nobiltà e P. inerisce a una cosa in
quanto la cosa è, così ogni difetto le inerisce in quanto, in qualche modo, non
è» (Contra Gent., I, 28). Da questo punto di vista una cosa è tanto più
perfetta quanto più ha di essere; e poichè Dio ha tutto l'essere, è totalmente
perfetto. Queste equazioni costituivano luoghi comuni della scolastica medievale.
Lo stesso Duns Scoto le ripete, affermando che la forma nelle creature implica
qualche imperfezione perchè è forma partecipata e parziale, mentre la forma non
ha imperfezione in Dio perchè non è nè par- tecipazione nè parte (Op. Ox., I,
d. 8, q. 4, a. 3, n. 22). Esattamente a questo concetto di P. faceva ricorso
Cartesio affermando che le idee «che rap- presentano sostanze sono senza dubbio
qualcosa di più e contengono in sè più realtà oggettiva cioè 664 partecipano
per rappresentazione a più gradi d’es- sere 0 di P., di quelle che
rappresentano soltanto modi o accidenti » (Med., III). Esplicitamente Spi- noza
identificava realtà e P. (Zr., II, def. 6); e Leibniz dichiarava di intendere
per P. « la grandezza della realtà positiva presa precisamente, mettendo da
parte i limiti o i confini delle cose che la posseg- gono» (Monad., $ 41). Kant
parlava in questo senso di una P. frascendentale che è «l’integrità di ogni
cosa nel suo genere + e di una P. metafisica come « l'integrità di una cosa
semplicemente come cosa in genere», distinguendo da esse la P. come attitudine
o convenienza di una cosa a vari fini (Crit. R. Prat., I, I, cap. I, scol. II).
Il concetto di P. è rimasto fissato, nel corso ulte- riore della filosofia, da
queste determinazioni: come integrità del tutto o rispondenza al fine; e co-
stantemente, nel primo significato, è stato iden- tificato con il concetto di
essere. Fuori delle sue sopravvivenze metafisiche e teologiche, la nozione di
P. viene scarsamente utilizzata nella filosofia contemporanea. Quando viene
utilizzata, il riferi- mento ai significati tradizionali è evidente: così
accade, ad es., in Bergson che identifica la P. con l’assoluto ed entrambi con
la totalità dell’essere (‘ Introduction à la Métaphysique », in La pensée et le
mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 204). PERFEZIONISMO (ingl. Perfectionism; fran-
cese Perfectionnisme; ted. Perfektionismus, Perfekti- bilismus). La parola
viene adoperata (raramente) in due significati: 1° per indicare l’ideale morale
che consiste nel perseguire la propria o altrui perfezione morale, cioè la
capacità di agire in conformità del dovere: capacità che implica anche la
cultura delle facoltà fisiche e mentali dell’uomo. In questo senso è P.
l'ideale morale espresso da Kant nella introduzione al secondo volume della
Metafisica dei costumi; 2° per indicare la credenza nel progresso accompagnata
dall’impegno di contribuire al pro- gresso stesso. In questo senso la parola
viene talora usata nella filosofia anglosassone contemporanea. PERFORMATIVO (ingl.
Performative; fran- cese Performatif). Così John L. Austin ha chia- mato una
classe di enunciati che hanno la forma apparente degli enunciati descrittivi ma
non sono tali e rispondono a due condizioni: 1° Non descri- vono nè riportano
nè constatano nulla e non sono veri o falsi. 2° Il pronunciare l’enunciato è
l’effet- tuazione di un’azione o di una parte di essa e precisamente di
un’azione che non è normalmente descritta come un semplice « dire qualcosa ».
Esempi di P. sono il classico «Si» con cui gli sposi ri- spondono alla domanda
sacramentale nel corso di una cerimonia matrimoniale; o le frasi seguenti: «Io
chiamo questo bastimento ‘ Regina Elisabetta ’ » pronunziata nella cerimonia
del varo di una nave PERFEZIONISMO quando si spezza la bottiglia contro lo
scafo; « Lascio in eredità il mio orologio a mio fratello » o frasi simili che
ricorrono nei testamenti; « Scom- metto con te mille lire che domani pioverà »
(cfr. How to do Things with Words, 1962, pag. 5). Austin ha chiamato
illocuzione (illocution) il P. per distinguerlo dalla locuzione che è
un’espressione fornita di denotazione e connotazione, e dalla perlocuzione, che
è la forma persuasiva di un’espres- zione (/bid., pag. 98 sgg.). PERIEKON. V.
ORIZZONTE. PER IMPOSSIBILE. V. Assurpo. PERIPATETISMO. V. ARISTOTELISMO.
PERIPEZIA (gr. repinttea; ingl. Peripety; franc. Péripétie; ted. Peripetie).
Secondo Aristo- tele, uno degli elementi fondamentali della tragedia e
precisamente dell'intreccio tragico. Consiste in un cambiamento improvviso di
condizioni o di fortuna che deve prodursi in modo verosimile e necessario
(Poer., 11, 1452a 22). PERLOCUZIONE. V. PERFORMATIVO. PER LO PIÙ (gr. tri tè
rod; ingl. Mostly; ted. Zumeist). L'espressione è adoperata da Ari- stotele per
indicare ciò che accade in modo uni- forme e costante ma non sempre e di
necessità; accidentale è ciò che non accade nè sempre nè per lo più (Mer., VI,
2, 1026 b 30). Ciò che è sempre o di ecessità è l'oggetto delle scienze
teoretiche; ciò che è per lo più, è oggetto delle scienze pratico- poietiche;
l’accidentale non può essere oggetto di scienza. Heidegger ha adoperato
l’espressione per indicare l'insieme dei modi d’essere che costitui- scono la
«medietà» (Sein und Zeit, $ 9) (v. ME- DIETÀ). PERMANENZA (ingl. Permanence;
francese Permanence; ted. Beharrlichkeit). Secondo Kant «la P. esprime in
generale il tempo come corre- lato costante di ogni esserci dell'apparenza, di
ogni mutamento e di ogni concomitanza ». La P. è in altri termini il tempo come
durata (Crif. R. Pura, Anal. dei princ., cap. II, sez. 3, Prima analogia) (v.
ANALOGIE DELL'ESPERIENZA). PERPETUITÀ. V. ETERNITÀ. PER SÈ (gr. xad'asré; lat.
Per se; ingl. By itself; franc. Par soi; ted. Fr sich). Ciò che è in virtù
della sua sostanza e non per altro; o che è nella coscienza e per la coscienza.
Questi sono i due significati fondamentali del termine, che risal- gono
rispettivamente ad Aristotele e Hegel. A) Per suo conto, Aristotele (Mer., V,
18, 1022 a 24 sgg.) enumerava cinque significati del termine: 1° si dice che
una cosa è per sè ciò che essa è in virtù della sua essenza necessaria o
sostanza. Ad es., Callia è per sè ciò che egli è sostanzialmente, cioè uomo;
PERSONA 2° si dice che una cosa è per sè ciò che essa è in virtù di una parte
della sua essenza necessaria cioè in virtù di una parte della sua definizione
(giacchè la definizione esprime l’essenza necessaria). In tal senso si dice che
Callia è per sè animale perchè «animale » è parte della definizione di Callia;
3° in terzo luogo si dice che una cosa è per sè ciò che essa è in virtù di una
sua qualità o deter- minazione primaria. In tal senso si dice che l’uomo è per
sè vivo in quanto la vita è una sua determina- zione primaria (essendo parte
dell’anima, che è sostanza dell’uomo); 4° si dice per sè quello ché non ha, o di
cui non si considera, una causa esterna. In questo senso l’uomo è per sè in
quanto è uomo, cioè in quanto la sua causa è la sua stessa sostanza, non in
quanto è animale o bipede, ecc.; 5° si dice che è per sè la cosa che è ciò che
le appartiene in proprio o appartiene a essa soltanto. In tal senso si può dire
che l’anima per sè pensa. Questi cinque significati sono in realtà tutti ri-
conducibili al primo cioè a quello per il quale si dice che è per sè la cosa
che è in virtù della sua sostanza. Difatti il significato 2° si riferisce alle
parti della sostanza, il significato 3° alle qualità o determinazioni che
derivano dalla sostanza, il significato 4° e il significato 5° alla causalità
propria della sostanza. Il significato fondamentale o gene- rico, per cui è per
sè ciò che è in virtù della sua sostanza, è rimasto quello al quale più
frequente- mente si è fatto riferimento nella storia della filo- sofia. Questo
è, ad es., il significato che all’espres- sione attribuiscono sia S. Tommaso
che Duns Scoto. S. Tommaso afferma che « Dio è lo stesso essere per sè
sussistente » (S. 7h., I, q. 44, a. 1), in quanto l’essere appartiene
all'essenza o sostanza di Dio (4bid., I, q. 3, a. 4); e che l’anima non può
corrompersi perchè è «forma per sè sussistente » (Ibid., I, q. 75, a. 6). Duns
Scoto riserva l’essere per sè alla forma totale e perfetta in cui entrano tutte
le parti ma che a sua volta non è parte (Quodi., q. 9, n. 17). Entrambi i
filosofi designano quindi come per sè l’essere sostanziale, sebbene Duns Scoto restringa,
più di S. Tommaso, il significato di questo. B) Il secondo significato
fondamentale del ter- mine è quello che Hegel gli ha attribuito come es- sere
attuale o effettuale [in contrapposto a in sé (v.), essere possibile] e quindi
come essere che si è svi- luppato attraverso la riflessione e la coscienza.
Dice Hegel « Diciamo che qualcosa è per sè in quanto toglie l’esser altro, la
sua relazione e la sua comu- nanza con altro, in quanto cioè ha respinta e ha
fatto astrazione da esso... La coscienza contiene già in sè come tale la
determinazione dell’essere per sè in quanto si rappresenta un oggetto che
sente, in- tuisce, ecc., in quanto cioè ha in sè il contenuto 665 dell’oggetto
stesso... Ma la coscienza di sè è l’esser per sè compiuto e posto giacchè in
essa l’aspetto del riferirsi ad altro, ad un oggetto esterno, è su- perato»
Wissenschaft der Logik, I, I, 3, A; trad. ital., I, pag. 173-74). In questo
senso la coscienza è per sè perchè ha annullato o tolto di mezzo l’altro (l’og-
getto esterno) e l’ha risolto in un suo proprio contenuto interno. Sartre ha,
nella filosofia con- temporanea, ripreso questo concetto chiamando «essere per
sè » o senz'altro « per sè » la coscienza in quanto è l’annullamento o « il
niente » dell’oggetto, cioè dell’in sè (L’étre et le néant, pag. 115 sgg.). Lo
stesso significato è attribuito all’espressione da Merleau-Ponty
(Phénoménologie de la perception, 1945, pag. 423 sgg.). PERSEITÀ (lat.
Perseitas; ingl. Perseity; fran- cese Perséîté). Termine adoperato nella
Scolastica (ma raramente) per indicare lo stato e la condizione di ciò che è
per sé (v.). PERSONA (gr. rpSowrov, èingorao; lat. Per- sona; ingl. Person;
franc. Personne; ted. Person). Nel senso più comune del termine: l’uomo nelle
sue relazioni con il mondo o con se stesso. Nel senso più generale (in quanto
la parola è stata applicata a Dio oltre che all’uomo): un soggetto di
relazioni. Si possono distinguere le seguenti fasi del concetto: 1° compito e
relazione-sostanza; 2° auto-relazione (relazione con se stesso); 3° etero-
relazione (relazione col mondo). 1° Il termine P. significa maschera (nel senso
di personaggio: ingl. Character; franc. Personnage; ted. Rolle) e proprio in
questo senso fu introdotto nel linguaggio filosofico dallo stoicismo popolare
per indicare i compiti rappresentati dall’uomo nella vita. Dice Epitteto:
«Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o
breve o lungo secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu
rappresenti la P. di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il
simile se ti è assegnata la P. di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo
comune. Atteso che a te si spetta solamente di rappresentare bene quella qual
si sia P. che ti è destinata: lo eleggerla si ap- partiene a un altro » (Manuale,
17, trad. Leopardi; cfr. Dissertazioni, I, 29, ecc.). Il concetto di com- pito
in questo senso può essere ridotto a quello di relazione: un compito non è che
un complesso di relazioni che legano l’uomo a una data situa- zione e lo
definiscono nei rispetti di essa. La no- zione di P. si rivelò perciò utile
quando si trattò di esprimere le relazioni che intercedono tra Dio e il Cristo
(considerato come il Logos o Verbo) e tra essi e lo Spirito; ma nel contempo fu
la fonte di fraintendimenti e di eresie. Difatti, da un lato la relazione
sembrava alcunchè di aggiunto, e di accidentalmente aggiunto, alla sostanza
della cosa; 666 tale almeno era il suo concetto nella filosofia tra- dizionale
e in particolare in quella aristotelica (v. RELAZIONE). Dall’altro, il nome
stesso di P., evocando la maschera da teatro, sembrava impli- care il carattere
apparente o non sostanziale della persona. Di qui nacquero le lunghe dispute
trini- tarie che caratterizzano la storia dei primi secoli del Cristianesimo e
che portarono alle decisioni del Concilio di Nicea (325). Per evitare il
riferi- mento della nozione di P. alla maschera, gli scrittori greci
adottarono, invece di prosopon, la parola hypostasis, che nel suo significato
di «supporto » ben rivela le preoccupazioni che ne suggerirono la scelta. Ma
circa il carattere accidentale che la relazione sembra avere per sua natura,
molti padri della Chiesa non trovarono di meglio che negare che la P. fosse
relazione e insistere sulla sua so- stanzialità. Così faceva, ad es., S.
Agostino, affer- mando che P. significa semplicemente « sostanza » e che perciò
il Padre è P. rispetto a sè (ad se) non rispetto al Figlio, ecc. (De Trin.,
VII, 6). Boezio dava su questo fondamento la definizione di P. che rimase
classica in tutto il Medioevo: «P. è la so- stanza individuale di natura
razionale » (De duabus naturis et una persona Christi, 3, P. L., 64, col.
1345). Ma, come S. Tommaso notava (S. 7h., I, q. 29, a. 4, contra), lo stesso
Boezio ammetteva che «ogni nome attinente alle P. significa una rela- zione »;
e d’altronde non c’era altro modo di chia- rire il significato delle persone
divine oltre quello di chiarire le relazioni fra di esse nonchè le loro
relazioni con il mondo e con gli uomini. S. Tom- maso pertanto, in uno dei suoi
testi più notevoli per chiarezza e forza filosofica (a prescindere dal
significato teologico-religioso), cioè nella sua de- lucidazione del dogma
trinitario, ripristina il si- gnificato del concetto di P. come relazione, pure
affermando nello stesso tempo la sostanzialità della relazione in divinis. «
Non c'è in Dio distinzione se non in virtù delle relazioni di origine. Ma la
relazione in Dio non è come un accidente che ine- risca al soggetto, ma è la
stessa essenza divina sicchè è sussistente al modo stesso in cui sussiste
l’essenza divina. Come la deità è Dio così la paternità divina è Dio Padre, che
è P. divina: dunque la P. divina significa la relazione in quanto sussistente;
cioè significa la relazione nella forma della sostanza, che è l’ipostasi sussistente
nella natura divina; sebbene ciò che sussiste nella natura divina non sia altro
che la natura divina » (S. 7h., I, q. 29, a. 4). In tal modo, insieme col
carattere sostanziale o ipostatico della P., veniva energicamente sottoli-
neato il suo significato di relazione. Questo per ciò che riguarda le P.
divine. Per ciò che riguarda la P. in generale, S. Tommaso affermava che, a
differenza dell’individuo che di per sè è indistinto, PERSONA «la P., in una
natura qualsiasi, significa ciò che è distinto in tale natura; come nella
natura umana significa queste carni e queste ossa e quest’anima che sono i
princìpi che individuano l’uomo » (/bid., I, q. 29, a. 4). Anche nel senso
comune la P. perciò è, secondo S. Tommaso, distinzione e relazione. 2° A
partire da Cartesio, mentre s’indebolisce o vien meno il riconoscimento del
carattere sostan- ziale della P., si accentua la sua natura di relazione e
specialmente di autorelazione o relazione del- l’uomo con se stesso. Il
concetto di P. inquesto senso si identifica con quello di Io come coscienza e
viene prevalentemente analizzato a proposito di ciò che si chiama l'identità
personale cioè l’unità e la continuità della vita cosciente dell’io. Locke
afferma che la P. « è un essere intelligente e pensante che possiede ragione e
riflessione e può considerare se stesso, cioè la stessa cosa pensante che egli
è, in diversi tempi e luoghi; il che fa soltanto mediante quella coscienza che
è inseparabile dal pensare ed essenziale ad esso» (Saggio, II, 27, 11). La P. è
qui identificata con l'identità personale cioè con la relazione che l’uomo ha
con se stesso, e quest’ul- tima con la coscienza. Leibniz è d’accordo con Locke
su questo punto; ma insiste anche sull’iden- tità fisica o reale come un’altra
componente della P., oltre l’identità morale o della coscienza (Nouv. Ess., II,
27, 9). Il rapporto consapevole dell’uomo con se stesso diventa da questo punto
in poi la caratteristica fondamentale della persona. Dice Wolff: «La P. è
l’ente che conserva la memoria di sè cioè ricorda di essere quello stesso che
prece- dentemente fu in questo o quello stato + (Psychol. rationalis, $ 741). E
Kant analogamente afferma: « Il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il
proprio io lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli esseri viventi sulla
terra. Per questo egli è una P. e, in forza dell’unità di coscienza persistente
attraverso tutte le alterazioni che possono toccarlo, è una sola e medesima P.»
(Antr., $ 1). Hegel in- tendeva per P. il soggetto autocosciente in quanto
«semplice riferimento a sè nella propria individua- lità » (Fil. del Dir., 8
35). Lotze dice: « L'essenza della P. non si richiama a una passata o presente
opposizione dell’io nei confronti del non io, ma con- siste in un immediato
essere per sè» (Mikrokosmus, I, 1856, pag. 575). E Renouvier: «La coscienza
prende il nome di P. quando è portata a quel grado superiore di distinzione e
di estensione insieme, in cui essa attinge la conoscenza di sè e
dell’universale e il potere di formare concetti ed applicare quelle leggi fondamentali
dello spirito che sono le categorie + (Nouvelle monadologie, 1899, pag. 111).
Poichè la P. è in questo senso semplicemente la relazione dell’uomo con se
stesso, che è la definizione della coscienza, essa si identifica con la
coscienza; e PERSONALISMO tale identificazione è l’unico dato concettuale che
si può rintracciare in quella esaltazione retorica della P. che contrassegna
alcune forme contem- poranee del personalismo (v.). 3° Contro la precedente
interpretazione della P. stanno ovviamente le posizioni filosofiche che si
rifiutano di ridurre l’essere dell’uomo alla coscienza e polemizzano contro la
forma più radicale di questa interpretazione, che è lo hegelismo. In questo
senso l'antropologia della sinistra hegeliana e del mar- xismo, per quanto non
si sia dichiaratamente preoccupata di illustrare il concetto di P., costi-
tuisce l'avvio a un rinnovamento di tale concetto o la messa in luce di un
aspetto sul quale la tradi- zione filosofica era rimasta muta: cioè quello per
il quale la P. umana è costituita o condizionata essen- zialmente dai «
rapporti di produzione e di lavoro » cioè dai rapporti in cui l'uomo entra con
la natura e con gli altri uomini per soddisfare i suoi bisogni (cfr. Marx,
Deutsche Ideologie, I). Dall'altro lato, la dottrina morale kantiana aveva già
dato del concetto di P. una caratterizzazione in termini di etero-relazione,
cioè di relazione con gli altri. Quando Kant diceva che «gli esseri ragionevoli
sono chiamate persone perchè la loro natura li indica già come fini in se
stessi vale a dire come qualcosa che non può essere adoperato unicamente come
mezzo » (Grundlegung zur Metaphysik der Sit- ren, IN), faceva consistere la
natura della P., dal punto di vista morale, nel rapporto inter-soggettivo.
Tuttavia soltanto con la fenomenologia il concetto di P. come etero-relazione
fa il suo ingresso esplicito in filosofia. Già Husserl, considerando l’io come
il « polo di tutta la vita intenzionale attiva e passiva e di tutti gli abiti
che essa crea » (Carr. Med., $ 44) accentuava quella relazione ad altro in cui
l’inten- zionalità consiste. Ma è soprattutto con Scheler che la P. viene
esplicitamente definita corne + rap- porto con il mondo». La P. è secondo
Scheler definita essenzialmente da tale rapporto, come l'io è definito dal
rapporto con il mondo esterno, l'individuo dal rapporto con la società, il
corpo dal rapporto con l’ambiente. Secondo Scheler «il mondo non è che il
correlato oggettivo della P., quindi ad ogni P. individuale corrisponde un
mondo individuale» (Der Formalismus in der Ethik, 1913, pag. 408). Le sfere
oggettive che si possono distinguere nel mondo (oggetti interni, oggetti
esterni, oggetti corporei, ecc.) diventano concrete soltanto come parti di un
mondo che è il correlato di una P. cioè come dominio delle possi- bilità
d'azione della P. stessa. La P. in questo senso non va confusa con l’anima,
l’io o la coscienza: uno schiavo, ad es., è tutte queste cose ma non è P.
perchè non ha la possibilità d’agire sul proprio corpo e un elemento del suo
mondo gli sfugge 667 (Ibid., pag. 499). «La P., dice ancora Scheler, è data
solo là dove è dato un poter fare per mezzo del corpo e precisamente un poter
fare che non si fonda solo sul ricordo delle sensazioni occasionate dai
movimenti esterni e delle esperienze attive, ma precede l’agire effettivo
(/bid., pag. 499). Nono- stante i numerosi e non sempre coerenti andirivieni
metafisici che Scheler ha fatto subìre alla sua dot- trina, il suo concetto
della P. come di un « rapporto con il mondo » è stato fecondo anche perchè è
stato assunto come punto di partenza dall’analisi esisten- ziale di Heidegger
(Sein und Zeit, $ 10): la quale si è precisamente imperniata sul concetto della
P. umana, cioè dell’esserci, come rapporto con il mondo. Questo concetto di P.
che, come si è visto non coincide con quello di io, è stato formulato in ter-
mini analoghi ed è abitualmente adoperato nelle scienze sociali. Le definizione
abitualmente ricor- rente in tali scienze della P. come «l’individuo provvisto
di status sociale» fa riferimento appunto alla rete dei rapporti sociali che
costituiscono lo status della persona. La considerazione della P., come
dell’unità individuale con cui si ha a che fare nel dominio considerato da
quelle scienze, corrisponde alla stessa determinazione concettuale del termine
come di un agente morale, o un soggetto di diritti civili e politici o, in
generale, un membro di un gruppo sociale. L'uomo è P. in quanto, in tali suoi
compiti, è essenzialmente definito dalle sue relazioni con gli altri. PERSONA
CIVILE (lat. Persona Civilis; ingl. Juristic Person; franc. Personne juridique;
ted. Juristische Person). Secondo Hobbes la P. in questo senso è «ciò a cui
sono attribuite parole e azioni umane o proprie o altrui»: se alla P. sono
attribuite azioni proprie, si tratta di una P. naturale, se le sono attribuite
azioni altrui si tratta di P. artificiale (De Homine, 15, $ 1). Questa di
Hobbes è la più generale e nello stesso tempo precisa definizione della P.
civile e giuridica che sia stata data da filosofi. Hegel stesso non fa che
definire la P. in questo senso come generica «capacità giuridica » (Fil. del
dir., $ 36). PERSONALISMO (ingl. Personalism; fran- cese Personnalisme; ted.
Personalismus). Il termine è stato ed è usato a designare tre dottrine diverse
ma connesse, cioè: 1° Una dottrina reologica cioè quella che afferma la
personalità di Dio, come causa creatrice del mondo, in polemica con il
panteismo che identifica Dio e il mondo. Questo è il senso origi- nario in cui
il termine è stato adoperato per le prime volte da Schleiermacher (Reden,
1799), e poi da Goethe, Feuerbach, Teichmiiller, ecc. 2° Una dottrina
metafisica cioè quella se- condo la quale il mondo è costituito da una totalità
668 di spiriti finiti che costituiscono nel loro insieme un ordine ideale nel quale
ognuno di essi conserva la sua autonomia. Questa concezione fu presen- tata per
la prima volta con il nome di P. da G. H. Howison, in polemica con Royce e in
ge- nerale con l’idealismo assoluto (nella discussione pubblicata con il titolo
The Conception of God, 1897). In seguito il termine fu usato per desi- gnare la
stessa concezione fondamentale da Re- nouvier (Le personnalisme, 1903) da W. E.
Hocking e da altri scrittori in America dove fu creata anche una rivista
destinata a difenderla (The Personalist, 1919). Il P. in questo senso non è che
uno spiri- tualismo monadologico di stampo leibniziano- lotziano; e il termine
P. è rimasto infatti in America a indicare la dottrina che in Europa si chiama
spiritualismo (v.). 3° Una dottrina efico-politica cioè quella che insiste sul
valore assoluto della persona e sui suoi legami di solidarietà con le altre
persone, in pole- mica contro il collettivismo da un lato, che tende a vedere
nella persona nient'altro che un’unità numerica, e l’individualismo dall’altro
che tende a indebolire i legami di solidarietà tra le persone. In questo senso
il termine è stato adoperato da Eugenio Diihring nella sua Geschichte der
National- Okonomie del 1899; e ripreso, dopo la seconda guerra mondiale, da E.
Mounier (Le personnalisme, 1950) e, sulla sua scia, da numerosi pensatori
cattolici, sostenitori del P. metafisico. Nell’ora- toria piuttosto confusa,
che è la caratteristica dominante di questo indirizzo, il tratto concettuale
che si riesce a scorgere è il concetto della persona come auto-relazione o
coscienza. PERSONALITÀ (ingl. Personality; franc. Per- sonnalité; ted.
Personlichkeit). 1. La condizione o il modo d’essere della persona. In questo
senso il termine fu già usato da S. Tommaso (S. 7h., I, q. 39, a. 3, ad 4°) ed è
comunemente usato dai filosofi (che spesso lo adoperano come sinonimo di
persona). 2. Nel significato tecnico della psicologia con- temporanea, la P. è
l’organizzazione che la persona imprime alla molteplicità dei rapporti che la
costi- tuiscono. In questo senso Nietzsche parlava di persona e osservava che «
alcuni uomini si compon- gono di più persone e la maggior parte non sono
affatto persone. Dovunque predominano le qualità medie che importano affinchè
un tipo si perpetui, essere una persona sarebbe un lusso... si tratta di
rappresentanti o di strumenti di trasmissione » (Wille zur Macht, ed. 1901, $
394). A questi concetti di Nietzsche sono vicini quelli della psicologia
contemporanea. Dice H. J. Eysenck: «La P. è la più o meno stabile e durevole
organizzazione del carattere, del temperamento, dell’intelletto e del
PERSONALITÀ fisico di una persona: organizzazione che determina il suo
adattamento totale all’ambiente. Il carattere denota il più o meno stabile e
durevole sistema di comportamento conativo (volonta) della persona. Il
temperamento il suo più o meno stabile e durevole sistema di comportamento
affettivo (emozione); l’intelletto il suo più o meno stabile o durevole sistema
di comportamento cognitivo (intelligenza); il fisico il suo più o meno stabile
e durevole sistema di configurazione corporea e di dotazione neuro- endocrina »
(The Structure of Human Personality, 1953, pag. 2). In questa definizione in
cui entrano elementi già accertati da Roback, Allport, McKin- non, l’elemento
dominante è costituito dal concetto di organizzazione, struttura o sistema:
cioè dal- l'elemento che consente la previsione probabile del comportamento di
una persona. Non molto diversa dalla precedente è quindi l’altra definizione,
pura- mente funzionale, data della P. allo scopo di rendere possibili le
ricerche ad essa relative; «P. è ciò che permette la previsione di quello che
una persona farà in una data situazione » (R. B. CATTEL, Per- sonality, 1950,
pag. 2). Dalla P. in questo senso, l'io si distingue come quella parte della P.
stessa che è nota o aperta alla persona e a cui la persona fa riferimento con
quel pronome: parte che può non coincidere, e abitualmente non coincide, con la
totalità della P. (v. Io). PERSPICACIA (gr. dvyylvora; lat. Perspica- citas;
ingl. Perspicacity; franc. Perspicacité; te- desco Scharfsinn). Prontezza di
mente, secondo Platone (Carm., 160 a); giustezza di mira, secondo Aristotele
(Er. Nic., VI, 9, 1142b 6). La prima definizione coglie la rapidità del
processo intellettivo, l’altra la sua buona riuscita; e sembrano defini- zioni
complementari. Kant invece ha definito la P. come «la capacità di notare le più
piccole somi- glianze e dissomiglianze »: capacità che dà luogo a osservazioni
che si chiamano sottigliezze o addi- rittura sofisticherie, quando sono inutili
(Ansr., I, $ 44) (v. SAGACIA). PERSPICUITÀ (lat. Perspicuitas; ingl. Per-
spicuity; franc. Perspicuité; ted. Perspicuitàt). È il termine latino che
traduce il greco tvapyera (cfr. Cicer., Acad., II, 6, 17) (v. EvIDENZA).
PERSUASIONE (gr. rei06; lat. Persuasio; in- glese Persuasion; franc.
Persuasion; ted. Uberreduny). 1. Una credenza la cui certezza poggia su basi
pre- valentemente soggettive, cioè private e incomunica- bili. La distinzione
tra persuasione e insegnamento razionale fu stabilita già da Platone. «Il
pensiero, diceva Platone, si genera in noi per via di insegna- mento,
l’opinione per via di persuasione. Il primo si fonda sempre su un ragionamento
vero, l’altra manca di questa base; l’uno rimane saldo di fronte alla P., l’altra
se ne lascia modificare » (7im., 51, e). PESSIMISMO 669 Kant espose chiaramente
questo stesso concetto: «Se la credenza ha il suo fondamento nella natura
particolare del soggetto, si chiama persuasione. La P. è una semplice apparenza
perchè il fondamento del giudizio, che è unicamente nel soggetto, viene
considerato come oggettivo. Quindi un tal giudizio ha solo una validità privata
e la credenza non si può comunicare + (Crit. R. Pura, Dottrina del me- todo,
cap. II, sez. 3). Da questo punto di vista la pietra di paragone che consente
di distinguere tra P. e convinzione (v.) è «la possibilità di comu- nicare la
credenza e ritrovarla valida per la ragione di ogni uomo» (/bid.); la
convinzione è comuni- cabile, la P. non lo è. La distinzione kantiana è stata
accettata e semplificata da C. Perelmann e L. Olbrechts-Tytecha: « Ci
proponiamo di chiamare persuasiva un’argomentazione che pretende valere
soltanto per un uditorio particolare e di chiamare convincente quella che si
crede ottenga l’adesione di ogni essere razionale » (Traité de l’argumentation,
1958, $ 6). Talvolta, la P. è stata distinta dalla convinzione in quanto si è
ritenuto che essa coin- volga il sentimento oltre che la ragione e che per-
tanto essa sola possa impegnare ciò che Pascal chia- mava «l’automa », cioè i
comportamenti affettivi e abituali dell’uomo. Diceva Pascal: « Noi siamo automi
tanto quanto siamo spirito; di là viene che lo strumento per il quale la P. si
fa non è la sola dimostrazione » (Pensées, 252). D’Alembert ha espresso molto
bene questo punto di vista: «La convinzione tiene più allo spirito, la P. al
cuore; si dice che l’oratore deve non solo convincere cioè provare ciò che
enuncia, ma anche persuadere cioè toccare e commuovere. La convinzione suppone
qualche prova, la P. non sempre... Ci si persuade facilmente di ciò che fa
piacere; si è talvolta dolenti d’esser convinti di ciò che non si voleva
credere » (CEuvres posthumes, 1799, II, pag. 89). Altre volte la P. è stata
considerata come la forma superiore della certezza perchè connessa con la
stessa verità oggettiva. Così ha fatto Heidegger che l’ha intesa come «un modo
della certezza » e precisamente quello fondato sulla testimonianza dello stesso
« ente scoperto » cioè dello stesso vero (Sein und Zeit, $ 52). Analogamente
Jaspers ha posto la P. al di sopra della «conferma pragmatica » e della « evi-
denza costrittiva » come il terzo ed ultimo grado della verità oggettiva
(Vernunft und Existenz, 1935, III, $ 3). Dall’altro lato, si è insistito sul
carattere «emotivo » della P., nel senso che essa farebbe appello a motivi «
non razionali » (C. L. STEVENSON, Ethics and Language, 1944, cap. 6). Ciò che
emerge da queste indicazioni è il carattere privato e in una certa misura
incomunicabile della P. o per meglio dire dei motivi che sono a fondamento
della credenza in cui essa consiste. 2. L'atto o il procedimento del
persuadere, cioè l’indurre alla persuasione. PERSUASIVO (gr. mbavév; lat.
Persuasibile; ingl. Persuasive; franc. Persuasif; ted. Uberzeugend). Il
criterio della verità difeso dagli scettici della Nuova Accademia e in primo
luogo da Carneade. Persuasiva è la rappresentazione che appare vera, che può
anche essere falsa ma è per /o più vera. Diceva Carneade: « Poichè raramente ci
si imbatte nel caso di una rappresentazione vera, non ci si deve rifiutare di
credere alla rappresentazione che per lo più dice il vero: infatti giudizi e
azioni si regolano sul per lo più » (Sesto EMP., Adv. Math., VII, 175). La
rappresentazione persuasiva, secondo i seguaci di Carneade, deve poi essere
anche coerente e ponderata, sebbene questi caratteri non aggiun- gano nulla
alla sua persuasività (/bid., VII, 184). PESSIMISMO (ingl. Pessimism; franc.
Pessi- misme; ted. Pessimismus). In generale, la credenza che lo stato delle
cose, in qualche parte del mondo o nella totalità di esso, è il peggiore
possibile. Il termine cominciò ad essere adoperato in Inghil- terra, ai
principi del sec. x1X, per antitesi con ot- timismo. La tesi del P. potrebbe
perciò essere espressa come il rovesciamento di quella dell’ottimismo, con
l’asserzione che il nostro mondo è il peggiore dei mondi possibili. Ma espresso
in questa forma il P. è un’intera metafisica e si può parlare di P. solo a
proposito della filosofia di Schopenhauer e dei suoi seguaci. Comunemente, però,
si parla di P. anche in un senso più limitato e parziale: cioè quando ricorre
almeno una delle tesi seguenti: 1° Nella vita umana i dolori superano i pia-
ceri e la felicità è irraggiungibile. In questa forma il P. fu difeso dal
cirenaico Egesia, detto «il per- suaditor di morte » (Dioc. L., II, 8, 94). 2°
Nella vita umana i mali superano i beni, sicchè essa è un complesso di vicende
malvagie, ignobili o ripugnanti. In questa forma il P. fu difeso dal Padre
apologista Arnobio ai princìpi del rv secolo: la stessa esistenza dell'uomo
appare ad Arnobio inutile all'economia del mondo, il quale resterebbe immutato
se l’uomo non ci fosse (Adv. nationes, II, 37). 3° Ogni vita è in generale male
o dolore. Questa è la tesi del P. metafisico, quale si trova sostenuta nel
Buddismo antico e da Schopenhauer (Die Welt, I, $ 57 sgg.). 4° Il mondo è nella
sua totalità la manifesta- zione di una forza irrazionale: secondo Schopen-
hauer di una « Volontà di vita » che dilania e tor- menta se stessa (Die Welt,
I, $ 61); secondo E. Hartmann, di un principio inconscio che di- ventando
progressivamente consapevole distrugge le illusioni che reggono il mondo
(Philosophie des Unbewussten, 1869). 670 PETITIO Tutte le forme del P. negano
la possibilità del progresso e in generale di ogni miglioramento nel campo
specifico in cui si fanno valere. Ciò che esse non negano è invece il carattere
finalistico del mondo: che è ammesso e difeso sia da Schopenhauer (Die Welt, I,
$ 28) sia da Hartmann (Op. cit.; trad. franc., II, pag. 65). La cosa è tanto
più strana in quanto l’essenza dell’ortimismo (v.) sta per l’ap- punto nel
finalismo; e il P. pretende di essere l’antitesi dell’ottimismo. PETITIO
PRINCIPII. È la notissima fa/- lacia (v.), già analizzata da Aristotele (Top.,
VIII, 13, 162 b; Soph. El., 5, 167 b; An. pr., II, 16, 64 b), consistente nel
presupporre per la dimostrazione un equivalente o sinonimo di ciò che si vuol
dimostrare (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 7.53). G. P. PIACERE (gr. iSovh;
lat. Voluptas; inglese Pleasure; franc. Plaisir; ted. Lust). P. e dolore
costituiscono le tonalità fondamentali di qualsiasi tipo o forma di «emozione».
La determinazione delle loro caratteristiche dipende dalla funzione che si
attribuisce alle emozioni ed è perciò connessa con la teoria generale delle
emozioni stesse. Qui c’è da osservare che la parola conserva, nella tradizione
filosofica, un significato diverso da felicità anche quando viene collegata con
questa: il P. è difatti l'indice di uno stato o condizione particolare 0
temporanea di soddisfazione, mentre la felicità è uno stato costante e duraturo
di soddisfacimento totale o quasi totale (v. FELICITÀ). La più famosa
definizione del P. fu quella data da Aristotele, che utilizzava d’altronde
concetti platonici (Rep., IX, 583 sgg.; Fil., 53c): «Il P. è l’arto di un abito
che è conforme natura » (Er. Nic., VII, 12, 1153 a 14): nella quale si deve
ricordare che abito significa « disposizione costante ». Questa definizione
serviva ad Aristotele a sganciare il P. dalla sua connessione con la sensibilità:
giacchè un abito può essere sia sensibile che non sensibile. Dal Rinascimento
in poi la funzione biologica del P. fu quella sulla quale si fondarono le
defini- zioni di esso. Telesio lo considera come ciò che favorisce la
conservazione dell’organismo (De rer. nat., IX, 2). Cartesio definì la gioia,
ritenuta una delle sei emozioni fondamentali come « l’emo- zione piacevole
dell'anima nella quale consiste il godimento del bene che le impressioni del
cer- vello le rappresentano come suo» (Passions de l’éme, $ 91). Spinoza
affermava: « Per gioia intendo la passione per la quale la mente sale ad una
per- fezione maggiore » (Er., III, 11): che è una parafrasi della definizione
aristotelica. Mentre ad una defi- nizione biologica ritornava Hobbes, vedendo
nel P. il segno di un movimento giovevole al corpo, tra- smesso dagli organi
senzienti al cuore (De Corp., 25, 12). Nietzsche affermava: «Il P.: sensazione
PRINCIPII di un accrescimento di potenza » (Wille zur Macht, ed. Kròner, $
660). Di fronte a queste teorie che si possono dire positive del P., sta la
teoria nega- tiva di Schopenhauer secondo la quale il P. è semplicemente la
cessazione del dolore, sicchè è conosciuto o sentito solo mediatamente,
attraverso il ricordo della sofferenza o della privazione pas- sata (Die Welt,
I, $ 58). La psicologia moderna ha conservato i tratti tradizionalmente
riconosciuti al piacere. Ha cioè riconfermato la sua funzione biologica ma
nello stesso tempo ha riconfermato, sulla base dell’osser- vazione, il
carattere arrivo che Aristotele ricono- sceva al P. (cfr. J. C. FLugEL, Studies
in Feeling and Desire, 1955, pag. 118 sgg.). Principio di P. (ingl. Pleasure
Principle; tedesco Lustprinzip) ha chiamato Freud uno dei due prin- cìpi
fondamentali che regolano il funzionamento mentale, e precisamente quello che
dirige l’attività psichica alla liberazione dal dolore. L’altro prin- cipio
sarebbe quello di rea/tà, per il quale la ri- cerca del P. non si effettua per
le vie più brevi, ma obbedendo alle condizioni imposte dal mondo esterno
(7riebe und Triebschicksale, 1915). PIANO (ingl. Plane; franc. Plan; ted.
Schicht). Questa nozione viene adoperata in filosofia per designare gradi o
livelli dell’essere caratterizzati da qualità proprie, cioè non riducibili a
quelle di altri gradi o livelli. Il concetto di P. fu in questo senso
introdotto da Boutroux: « Nell’universo, egli di- ceva, si possono distinguere
parecchi mondi, che formano come P. sovrapposti gli uni agli altri. Al di sopra
del mondo della pura necessità, cioè della quantità senza qualità, che è
identico con il nulla, si possono distinguere: il mondo delle cause, il mondo
delle nozioni, il mondo fisico, il mondo vivente e il mondo pensante» (De la
contingence des lois de la nature, 1874, Concl.). Ogni P. è ca- ratterizzato
secondo Boutroux: 1° da una certa dipendenza dal P. inferiore; 2° dalla
irreducibilità delle sue qualità fondamentali e delle sue leggi spe- cifiche
alla qualità o alle leggi del P. inferiore. In questo consisterebbe la
contingenza della realtà. Una concezione analoga è stata ripresa da N. Hart-
mann che ha distinto quattro piani della realtà: l’inorganico, l’organico, lo
psichico e lo spirituale (Der Aufbau der realen Welt, 1940). Anche Hart- mann
ammette che ogni P. della realtà sia regolato da leggi proprie e irreducibili;
ma a differenza di Boutroux accentua la dipendenza dei P. superiori dagli
inferiori. Ad es., le leggi del mondo psichico non sono riducibili a quelli del
mondo organico, ma le presuppongono, aggiungendosi ad esse: rap- presentano perciò
un super-dererminismo che si aggiunge al determinismo delle leggi inferiori.
Perciò la conclusione cui mette capo l’analisi della stra- PLATONISMO 67)
tificazione dell’essere fatta da Hartmann non è la contingenza ma la
super-necessità (v. LIBERTÀ). PICNATOMI (ted. Pyknatomen). Così E. Hae- ckel
chiamò gli atomi, dotati di movimento e di sensibilità, che egli riteneva
elementi costitutivi di ogni forma d'essere, in quanto prodotti dal con-
densarsi (picnosi) della materia primitiva (Weltratsel, 1899; trad. ital.,
1904, pag. 296 sgg.). PIETÀ. V. CoMPAssIoNE. PIETISMO (ingl. Pietism; franc.
Piétisme; te- desco Pietismus). Una reazione contro l’ortodossia protestante
che si determinò nell’Europa setten- trionale e specialmente in Germania nella
seconda metà del xvii secolo. Il capo di questo movimento fu Filippo Spener
(1635-1705) e una delle sue figure più eminenti fu il pedagogista Augusto
Franke (1663-1727). Il P. intendeva ritornare alle tesi ori- ginarie della
Riforma protestante: libera interpreta- zione della Bibbia e negazione della
teologia; culto interiore o morale di Dio e negazione del culto esterno, dei
riti e di ogni organizzazione ecclesiastica; impegno nella vita civile e
negazione del valore delle cosiddette « opere» di natura religiosa. Da quest’ultimo
tratto deriva l’accoglimento, nelle isti- tuzioni educative del P., di molti
insegnamenti di carattere pratico e utilitario (cfr. A. RITSCHL, Geschichte des
Pietismus, 3 voll, 1880-86). PIGRIZIA DELLA RAGIONE. V. RAgION PIGRA.
PIRRONISMO (ingl. Pyrrhonism; franc. Pyr- rhonisme; ted. Pyrrhonismus). La
forma estrema dello scetticismo greco, quale fu difesa da Pirrone di Elide che
visse al tempo di Alessandro Magno (che seguì nella sua spedizione in Oriente)
e morì verso il 270 avanti Cristo. Conosciamo la sua dot- trina dai Si/loi
(versi scherzosi) di Timone di Fliunte e dalle esposizioni di Diogene Laerzio e
di Sesto Empirico. La tesi fondamentale del P. è la necessità di sospendere
l’assenso. Poichè per l’uomo le cose sono inafferrabili, l’unico atteggiamento
legittimo è quello di non giudicarle nè vere nè false, nè belle nè brutte, nè
buone nè cattive, ecc. Il non giudicare significa anche il non preferire o il
non rifuggire: sicchè la sospensione del giudizio è già di per se stessa
afarassia, cioè assenza di turbamento. Dio- gene Laerzio racconta che Pirrone
andava in giro senza guardare e senza scansar nulla, affrontando carri se ne
incontrava, precipizi, cani, ecc. (Dog. L., IX, 62). Un ritorno al P. si ebbe
più tardi, tra la fine dell’ultimo secolo a. C. e la fine del 1 secolo d. C.
per opera di Enesidemo di Cnosso, che insegnò in Alessandria, di Agrippa e del
medico Sesto Em- pirico. Quest'ultimo che svolse la sua attività tra il 180 e
il 210 d. C. ci ha lasciato tre scritti: /po- tiposi Pirroniana, Contro i
dogmatici, Contro i ma- tematici, che costituiscono la summa di tutto lo
scetticismo antico. La tesi pirroniana della sospen- sione dell’assenso è
mantenuta rigorosamente; ma come guida per la condotta della vita sono assunte
l’apparenza sensibile e le norme della vita comune (Ip. Pirr., I, 21) (cfr.
Mario DAL PRA, Lo scetti- cismo greco, 1950). PISTIS SOPHIA. Secondo la
cosmogonia degli Gnostici è l’ultimo degli Eoni (v.) cioè delle emanazioni,
l’eone decaduto, che dà origine alla materia (IePoLITO, Philosophumena, VI, 30
sgg.) (cfr. GNOSTICISMO). PITAGORISMO (ingl. Pythagoreanism; fran- cese
Pytliagorisme; ted. Pythagoreismus). La dot- trina dell’antica scuola
pitagorica, dottrina che poco o nulla deve al fondatore di essa, Pitagora, del
quale ben poco si sa di certo e che probabil- mente non scrisse nulla. Le tesi
caratteristiche del P. furono le seguenti: 1° la dottrina della metempsicosi
(v.) sulla quale erano fondate le credenze mistiche e i riti della setta; 2° la
dottrina che i numeri costituiscono i principi o gli elementi costitutivi delle
cose: dot- trina, che attraverso il platonismo, ha presieduto anche agli inizi
della scienza moderna; 3° la dottrina che i corpi celesti (che i Pitago- rici
portavano a dieci per ragioni di simmetria) girino tutti intorno a un fuoco
centrale (hesria) di cui il sole sarebbe un riflesso. Questa dottrina è il
primo accenno di quello che sarà, nell’età moderna, il sistema copernicano.
Cfr. I Pitagorici, Testimonianze e frammenti, a cura di Maria Timpanaro
Cardini, Firenze, 1958 e la bibliografia ivi contenuta. PIÙ-VITA, PIÙ-CHE-VITA
(ted. Mehr Leben, Mehr-als-Leben). Espressioni coniate da G. Simmel per
indicare rispettivamente il pro- cesso della vita e le forme cui esso dà luogo.
Come «P.-vita », la vita è il processo che supera con- tinuamente i limiti che
pone a se stessa. Come « P.-che-vita » la vita è l'insieme delle forme finite
che emergono dal processo vitale e si contrap- pongono ad esso
(Lebensanschauune, 1918, pa- gine 22-23). PLASTICA, NATURA (ingl. Plastic
Nature; franc. Nature Plastique; ted. Plastische Natur). La forza P. o
formativa, diretta ed emanata da Dio, ma diversa da lui, cui è affidato il
compito di or- dinare la materia. È il concetto della natura ectipa ammesso dai
Platonici di Cambridge (v. EcTIPO). PLATONISMO (ingl. Platonism; franc. Pla-
tonisme; ted. Platonismus). Gli elementi della dot- trina platonica che sono
stati assunti, a partire da Aristotele, come caratteristici di tale dottrina,
possono essere ricapitolati nel modo seguente: 672 1° La dottrina delle idee
secondo la quale oggetto della conoscenza scientifica sono entità o valori che
hanno uno status diverso da quello delle cose naturali e caratterizzato
dall’unità e dalla immutabilità (v. Ipea). In base a questa dottrina la
conoscenza sensibile, che ha per oggetto le cose nella loro molteplicità e
mutevolezza, non ha il minimo valore di verità e può solo ostacolare
l'acquisizione della conoscenza autentica. 2° La dottrina della superiorità
della saggezza sulla sapienza, cioè del fine politico della filosofia: la quale
ha come suo scopo finale la realizzazione della giustizia nei rapporti fra gli
uomini e quindi in ogni singolo uomo (v. SAPIENZA). 3° La dottrina della
dialettica come procedi- mento scientifico per eccellenza cioè come metodo
attraverso il quale la ricerca associata in primo luogo giunge a riconoscere
un’unica idea e in secondo luogo passa a dividere l’unica idea nelle sue
articolazioni specifiche (v. DIALETTICA). Questi sono anche i tre punti sui
quali Aristotele polemizzò con Platone e che, mentre segnano il distacco tra P.
e aristotelismo, sono rimasti at- traverso i secoli a caratterizzare il P.
stesso. Essi, com'è ovvio, non esauriscono la dottrina originale di Platone,
che pertanto non coincide con il «P.». È da notare che le tesi su esposte non
caratte- rizzano il cosiddetto P. del Rinascimento. Ma in realtà questo P. è un
neoplatonismo, che si rifà alle tesi fondamentali del neoplatonismo antico
(v.). PLEROMA (gr. r\mpwue). Secondo lo gnostico Valentino (tr secolo) la
totalità della vita divina in quanto piena o perfetta (IRENEO, Adv. haer., I,
11, 1). PLURALISMO (ingl. Pluralism; franc. Plura- lisme; ted. Pluralismus). x.
A partire da Wolff, questo termine è stato contrapposto ad egoismo (v.) come e
quel modo di pensare per cui non si abbraccia nel proprio io tutto il mondo, ma
ci si considera e comporta soltanto come cittadini del mondo» (KANT, Antr., I,
$ 2). Ma mentre il termine egoismo è rimasto a designare un atteggiamento
morale giacchè per la dottrina metafisica corrispondente è prevalso quello di
solipsismo (v.) il termine P. nell’uso che ne è stato fatto in seguito, ha
assunto un significato metafisico, passando a designare la dottrina che ammette
nel mondo una pluralità di sostanze. Di tale dottrina l’espressione tipica è la
monadologia di Leibniz; e in questo senso il ter- mine è stato ripreso da
alcuni spiritualisti moderni (J. Warp, The Realm of Ends or Pluralism and
Theism, 1912; W. JaMEs, A Pluralistic Universe, 1909). James ha soprattutto insistito
sull’esigenza cui il P. viene incontro: quella di considerare l’universo,
anzichè come una massa compatta in cui tutto è determinato nel bene o nel male
e non PLEROMA c’è posto per la libertà, come una specie di repub- blica
federale in cui gli individui siano bensì soli- dali tra loro ma conservino la
loro autonomia e libertà. L’universo pluralistico è, secondo James, un
pluriverso o multiverso: la sua unità non è l’implicazione universale o
l’integrazione assoluta, ma continuità, contiguità e concatenazione: è una
unità di tipo sinechistico, nel senso dato a questa parola da Peirce (A
Pluralistic Universe, pag. 325). Un universo così fatto si differenzia
dall’universo monadologico di Leibniz proprio per il carattere non assoluto nè
necessitante dell’unità che lo costi- tuisce. Dio stesso, nell'universo
pluralistico, è finito. 2. Nella terminologia contemporanea si indica spesso
con questo nome il riconoscimento della possibilità di soluzioni diverse di uno
stesso pro- blema o di interpretazioni diverse di una stessa realtà o concetto
o di una diversità di fattori o di situazioni o di sviluppi nello stesso campo.
Così si parla di « P. estetico » quando si ammette che un'opera d’arte possa
essere trovata « bella » per motivi diversi, che non hanno nulla a che fare
l’uno con l’altro. E si parla di P. sociologico quando si ammette o si
riconosce l’azione di più gruppi sociali relativamente indipendenti gli uni
dagli altri. PLUSVALORE (ingl. Surplus Value; francese Plus-value; ted.
Mehrwert). Uno dei concetti fonda- mentali dell'economia di Marx. Poichè il
valore si genera dal lavoro e non è altro che lavoro mate- rializzato, se
l’intraprenditore corrispondesse al sa- lariato il totale valore prodotto dal
suo lavoro, non si avrebbe il fenomeno, schiettamente capita- listico, del
denaro che genera denaro. Ma poichè l’intraprenditore corrisponde al salariato,
non il corrispondente del valore da lui prodotto, ma solo il costo della sua
forza-lavoro (vale a dire ciò che basta a produrla, il minimo vitale) si ha il
feno- meno del P., che non è altro, che quella parte di valore prodotto dal
lavoro salariato, di cui il ca- pitalista si appropria (cfr. Kapital, I, sez.
3). PNEUMA (gr. mvedua; lat. Spiritus; inglese Pneuma; franc. Pneuma; ted.
Pneuma). Il termine ha ricevuto un significato tecnico soltanto dagli Stoici
che hanno inteso per esso quello spirito o soffio animatore mediante il quale
Dio agisce sulle cose, ordinandole, vivificandole e dirigendole. « Pare agli
Stoici, dice Diogene Laerzio, che la natura sia un fuoco artefice diretto alla
generazione, cioè uno P. della specie del fuoco e dell’attività formativa (VII,
156; PLuT., De Stoic. repugn., 43, 1054). Virgilio alludeva a questa concezione
con i versi famosi: « Spiritus intus alit Totamque infusa per artus, Mens
agitat molem et toto se corpore miscet » (En., VI, 726): ai quali versi
Giordano Bruno ricorreva per illustrare la sua concezione dell’Intel- letto
artefice o «fabro del mondo» (De /a causa, POESIA 673 principio e uno, II). I
maghi del Rinascimento par- lavano nello stesso senso dello spirito attraverso
il quale l’anima del mondo opera in tutte le parti dell'universo visibile
(AGRIPPA, De Occulta philo- sophia, I, 14). Nel senso stoico, il P. era stato
inteso nel libro della Sapienza (I, 5-7, ecc.). E in senso analogo, S. Paolo
aveva parlato del « corpo pneu- matico » che egli contrapponeva al « corpo
psichico + o animale, come quello che è vivo e vivifica e risor- gerà dopo la
morte (I Cor., XIV, 44 sgg.). P., nella tradizione cristiana, non è altro che
lo Spirito Santo del quale S. Tommaso diceva: « Il nome di spirito nelle cose
corporee sembra significare un certo movimento o impulso giacchè chiamiamo
spirito il respiro ed il vento. Ma è proprio dell’amore di muovere e di
spingere la volontà dell'amante verso l’amato. E poichè la divina persona
procede per via dell'amore col quale Dio è conveniente- mente amato, essa si
chiama Spirito Santo » (S. 7h., I, q.36, a. 1). Infine dalla stessa dottrina
dello spirito vivificante deriva quella degli spiriti « psi- chici » « animali
» 0 « corporei » che furono ammessi dalla medicina antica (v. PNEUMATICI) e da
quella medievale e di cui i filosofi fanno spesso menzione. Menzionarono gli
spiriti animali S. Tommaso (In Sent., IV, 49, 3; cfr. S. Th., I, q. 76, a. 7,
ad 2°); e più tardi Telesio (De rer. nat., V, 5); Bacone (Nov. Org., II, 7; De
Augm. Scient., IV, 2), Hobbes (De Corp., 25, 10) e specialmente Cartesio che ne
riespose per conto proprio la dottrina (Passions de lame, I, 10). Nel senso
comune di aria o respiro, la parola viene invece usata da alcuni filosofi che
considerano l'anima come aria: per es., da Anassimene, per il quale la dottrina
non è che un corollario del prin- cipio che tutto è aria (Fr. 2, Diels); e da
Epicuro (Ad Herod., 63). PNEUMATICA. V. PNEUMATOLOGIA. PNEUMATICI (gr.
rvevuérixor; lat. Spiritales; ingl. Pneumatics; franc. Pneumatiques; ted. Pneu-
matiker). Con questo termine sono stati indicati: 1° i seguaci della scuola
medica di Galeno: il quale, ispirandosi agli Stoici, aveva identificato nello
pneuma (v.) il principio della vita e distingueva lo pneuma psichico che ha
sede nel cervello, il pneuma zotico o animale che ha sede nel cuore e il pneuma
fisico o naturale che ha sede nel fegato, attribuendo a ciascuno di essi
speciali funzioni nell’organismo; 2° alcuni padri della Chiesa e alcuni
gnostici che insistevano sulla distinzione, che si trova nel Nuovo Testamento
(v. PNEUMA) tra corpo psichico o animale e corpo P. e sulla superiorità di
quest’ultimo; 3° alcuni chimici del sec. xvn e xvin (Boyle, Black, Cavendish,
ecc.) che iniziarono le ricerche sui gas e scoprirono un certo numero di
elementi e composti gassosi. 43 — ABDAGNANO, Dizionario di filosofia.
PNEUMATOLOGIA o PNEUMATICA (ingl. Preumatology; franc. Pneumatologie, Pneu- matique;
ted. Pneumatologie, Pneumatik). Leibniz introdusse il termine pneumatica per
indicare «la conoscenza di Dio, delle anime e delle sostanze semplici in
generale» (Nouv. Ess., Avant-propos, Op., ed. Erdmann, pag. 199). Il termine
voleva significare «scienza degli spiriti» e fu ripreso da Wolff per indicare
l’insieme della psicologia e della teologia naturale (Log., 1728, Disc. Prel.,
$ 79). Crusius adottava il termine P. per indicare «la scienza dell’essenza
necessaria di uno spirito e delle distinzioni e qualità che possono essere date
a priori» (Entwurf der notwendigen Vernunft wahrheiten, $ 424). Rosmini
escludeva dalla P. la considerazione di Dio e la restringeva allo studio degli
« spiriti creati » cioè dell'anima umana e degli angeli (Psico/., 1850, $ 27).
D’Alembert restringeva il termine a significare « la prima parte della scienza
dell'uomo + cioè «la conoscenza speculativa del- l’anima umana » che indicava
anche con il nome di metafisica particolare. La conoscenza delle opera- zioni
dell'anima invece costituiva per D’Alembert l'oggetto della logica e della
morale (Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in CEuvres, edizione
Condorcet, 1853, pag. 116). Kant osservava a questo proposito che la psicologia
razionale non potrà mai diventare pneumatologia cioè vera e propria scienza,
allo stesso modo in cui la teologia non può diventare teosofia (Crit. del
Giud., $ 89). Il termine è ora caduto completa- mente in disuso. POESIA (gr.
rolnoc; lat. Poesia; ingl. Poetry; franc. Poésie; ted. Dichtung). Una forma
finale dell'espressione linguistica, di cui il ritmo o la musica sia condizione
essenziale. Si possono distin- guere tre concezioni fondamentali e cioè: 1° la
P. come stimolo o partecipazione emotiva; 2° la P. come verità; 3° la P. come
modo privilegiato di espressione linguistica. 1° La concezione della P. come
stimolo emotivo fu esposta per la prima volta da Platone: « La parte dell'anima
che nelle nostre private disgrazie ci sforziamo di tenere a freno e che ha sete
di lacrime e vorrebbe sospirare e lamentarsi a suo agio. essendo questa la sua
natura, è proprio quella cui i poeti procurano soddisfazione e compiacimento..,
Riguardo all’amore, alla collera e a tutti i movimenti dolorosi o piacevoli
dell'anima, che sono insepara- bili da ogni nostra azione, si può dire che gli
stessi effetti produca l'imitazione poetica: giacchè mentre bisognerebbe
inaridirli essa li innaffia e nutrisce e così rende padrone di noi quelle
facoltà che do- vrebbero invece ubbidire affinchè noi divenissimo più felici e
migliori » (Rep., X, 606 a-d). Platone osserva a questo proposito che il lato
emotivo 674 dell’arte non è minore per il fatto che in essa si tratta di
emozioni altrui perchè « necessariamente le emozioni altrui diventano nostre »
(/bid., 606 b). Non c’è dubbio pertanto che la caratteristica fondamentale
della P. imitativa (nonchè la ragione per la sua condanna) sia per Platone la
partecipa- zione emotiva su cui essa è fondata e il rafforzamento delle
emozioni che a tale partecipazione consegue. Giambattista Vico da un lato
estese la partecipa- zione emotiva, riconosciuta propria della P., all’in- tero
universo; dall’altro tolse ad essa il carattere di condanna che Platone le
aveva attribuito. « Il sublime lavoro della P., egli scrisse, è alle cose
insensate dare senso e passione ed è proprietà dei fanciulli di prender cose
inanimate fra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle,
persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne approva che gli uomini
del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti» (Scienza Nuova, 1744,
Degn. 37). La P. è pertanto secondo Vico legata ai «robusti sensi» e alle «
vigorosissime fantasie » degli uomini primitivi o bestioni; e il suo triplice
scopo è quello di « ritruovare favole sublimi confa- centi all’intento
popolaresco », di «perturbare all’eccesso » e di « insegnare il volgo a
virtuosamente operare» (/bid., II; cfr. Lettera a Gherardo degli Angioli). Da
questo punto di vista P. e filosofia stanno agli antipodi e «la fantasia tanto
è più robusta quanto è più debole il raziocinio » (/bid., Degn. 36). Lo stesso
concetto della P. come stimolo o partecipazione emotiva si trova nella teoria
dell’empatia (v.) che considera l’attività estetica come la proiezione delle
emozioni del soggetto nell’oggetto estetico. L’empatia è, secondo il principale
sostenitore della teoria Teodoro Lipps, un atto originale, essenzialmente
indipendente dall’associazione delle idee e radicato profonda- mente nella
stessa struttura dello spirito umano (Aesthetik I, 1903, pag. 112 sgg.): essa è
così postu- lata come una facoltà a sè alla quale è affidata, con la funzione
di animare la bruta materialità del mondo esterno, quella di rendere il mondo
familiare e piacevole all’uomo. Infine l’ultimo erede di questo concetto della
P. è il neocempirismo contemporaneo. Sulla base della distinzione tra l’uso
simbolico del linguaggio e il suo uso emotivo, nella P. è stata riconosciuta «
la suprema forma del linguaggio emotivo » cioè di quel linguaggio che ha
unicamente lo scopo di stimolare « emozioni e atteg- giamenti » (I. A.
RICHARDS, Principles of Literary Criticism, 1924; 148 ediz., 1955, pag. 273).
La funzione simbolica (o scientifica) del linguaggio consiste nel simbolizzare
il riferimento all’oggetto e nel comunicare tale riferimento all’ascoltatore
cioè nel causare nell’ascoltatore il riferimento allo stesso oggetto. Invece la
funzione emotiva consiste nel- POESIA l’esprimere emozioni, atteggiamenti,
ecc., nell’evocarli nell’ascoltatore: funzioni che possono essere com- prese in
quella della «evocazione » cioè della stimola- zione dell’emozione (C. K.
OGDEN, I. A. RICHARDS, The Meaning of Meaning, 1923, 10 ediz., 1952, pag. 149).
Ovviamente, questo punto di vista non è che la ripetizione quasi letterale del
punto di vista platonico. E non diverso significato ha la defini- zione data da
C. Morris del discorso poetico come « discorso principalmente
valutativo-apprezzativo » cioè diretto a «ricordare e sostenere valutazioni già
raggiunte» o a «esplorare nuove valutazioni + (Signs, Language and Behavior,
1946, V, 7). 2° La concezione della P. come verità ri- monta ad Aristotele.
Aristotele riportò la P. alla tendenza all’imitazione, che ritenne innata in
tutti gli uomini come manifestazione della tendenza al conoscere (Poer., 6,
1448 b 5-14). L’imitazione poetica ha, secondo Aristotele, una validità cono-
scitiva superiore all’imitazione storiografica, perchè la P. non rappresenta le
cose realmente accadute ma «le cose ibili secondo verisimiglianza e necessità »
(/bid., 1451 a 38). Perciò essa «è più filosofica e più elevata della storia
perchè esprime l’universale mentre la storia esprime il particolare. Si ha
l’universale infatti quando a un individuo di una certa indole accade di dire o
di fare certe cose in base alla verisimiglianza e alla necessità, ed è questo a
cui mira la P. che dà nome al per- sonaggio proprio in base a tal criterio. Si
ha invece il particolare quando si dice, ad es., che cosa fece Alcibiade e che
cosa gli capitò » (/bid., 9, 1451 b 1, 10). Queste famose determinazioni
aristoteliche equivalgono a porre la P. nella sfera della verità filosofica:
giacchè questa coglie l’essenza necessaria delle cose e l'essenza, nel dominio
delle vicende umane, è costituita dai rapporti di verisimiglianza e necessità
che sono oggetto della poesia. La P. pertanto non ha un grado di verità
inferiore alla filosofia ma ha la stessa verità della filosofia nel dominio che
le è proprio e che è quello dei fatti umani. Questa concezione della P. ha
dominato la tradizione filosofica, nella quale possono distin- guersi di essa
due interpretazioni fondamentali: A) si può scorgere nella P. una verità per
grado o per natura diversa da quella intellettuale o filosofica; B) si può
scorgere nella P. la verità filosofica assoluta. A) La prima posizione è quella
con cui è nata l'estetica moderna. Baumgarten affermò che l’og- getto estetico,
la bellezza, è «la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale » e che
perciò esso non coincide con l’oggetto dell’intelletto cioè con la conoscenza
distinta (Aesthetica, 1750-58, $ 14). Come perfezione della conoscenza
sensibile, la bellezza è universale, ma di un’universalità diversa da quella
della conoscenza perchè astrae POESIA dall’ordine e dai segni e realizza una
forma di unificazione puramente fenomenica (/bid., $ 18). In particolare la P.
è, secondo Baumgarten, « un discorso sensibile perfetto» tale cioè che i suoi
vari elementi (le rappresentazioni, i loro nessi, le voci o segni che le
esprimono) tendono alla conoscenza delle rappresentazioni sensibili (Medi-
tationes philosophicae de nonnullis ad poema perti- nentibus, 1735, $ 1-9). La
determinazione « sensibile + chiarisce il carattere della P. per il quale essa
ha per oggetto rappresentazioni chiare, sì, ma confuse: mentre le
rappresentazioni chiare e distinte cioè com- plete e adeguate non sono
sensibili e quindi neppure poetiche, sicchè filosofia e P. non si trovano
insieme, richiedendo la prima quella distinzione di concetti che la seconda
respinge al di fuori del suo dominio (Medit., cit., $ 14). Analogamente Vico
affermava: « La sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità,
dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta quale questa
or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovette essere di tali
primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi
e vigorosissime fantasie» (Sc. Nuova, 1744, II, Della sapienza poetica). Ma fu
Hegel che dette a questa tesi la migliore espressione. «La P., egli scrisse, è
più antica del linguaggio prosastico artisticamente formato. Essa è la
rappresentazione originaria del vero, è il sapere nel quale l’universale non è
stato ancora separato dalla sua esistenza vivente nel particolare, nel quale la
legge e il fenomeno, lo scopo e il mezzo non sono ancora stati contrapposti
l’uno all’altro, per poi venir di nuovo connessi con il ragionamento, ma si
compren- dono l’uno nell'altro e attraverso l’altro. Perciò la P. non si limita
ad esprimere attraverso l’immagine un contenuto che è già conosciuto per sè
nella sua universalità, ma all’apposto, conformemente al suo concetto
immediato, essa rimane nell’unità sostanziale nella quale non ancora è stata
fatta una tale separazione o stabilito un tale rapporto + (Vorlesungen iiber
die Aesthetik, ed. Glockner, III, pag. 239). Con ciò la P. (come l’intero
dominio dell’arte) rimane pur sempre, per Hegel, al di qua o al di sotto della
filosofia, nella quale soltanto l’Idea si rivela o si attua nella sua vera
natura, che è universalità o ragione, non immediatezza o immagine; ma appartiene
tuttavia, insieme con la filosofia e con la religione (alla quale anche è
subor- dinata) alla sfera della Verità assoluta. Nell’idea- lismo di
derivazione romantica il concetto di P. è rimasto sostanzialmente quello
espresso da Hegel. Croce, dopo avere insistito sulla priorità dell’arte
rispetto alla conoscenza intellettuale vera e propria, quindi sulla sua
relativa autonomia di fronte alla filosofia (con la quale però non ha mai
negato 675 che l’arte condividesse lo status di conoscenza), ha finito per
insistere sempre più sui caratteri di totalità e di universalità
dell’espressione artistica: caratteri che ravvicinano tale espressione alla
verità filosofica. « L'espressione poetica, egli scrisse, è, diversamente dal
sentimento, una feorési, un conoscere e perciò stesso, laddove il sentimento
aderisce al particolare e per alto e nobile che sia nella sua scaturigine, si
muove necessariamente nella unilateralità della passione, nell’antinomia del
bene e del male e nell’ansia del godere e del soffrire, la P. riannoda il
particolare all’universale, accoglie sorpassandoli del pari dolore e piacere e
di sopra il cozzare delle parti contro le parti, innalza la visione delle parti
nel tutto, sul contrasto l'armonia, sull’angustia del finito la distesa dell’infinito.
Questa impronta di universalità e di totalità è il suo carat- tere » (La
poesia, 1936, pag. 8-9). Con ciò il valore della P. veniva posto proprio nella
sua teoreticità cioè nella sua validità conoscitiva; e la P. veniva ad essere
quello che già Hegel aveva detto che fosse: una verità filosofica che si
manifesta nell’immediatezza dell'immagine anzichè nell’universalità del
concetto. B) Accanto a questa concezione sta l’altra che, pur essendo
strettamente imparentata con essa, vede nella P. non l’approssimazione alla
verità assoluta ma la stessa verità assoluta. Già Schiller si era espresso, a
proposito della poesia in questi termini. Nello scritto Sulla poesia ingenua e
senti- mentale (1795-96) aveva affermato che il poeta o è natura egli stesso
cioè sente naturalmente e quindi imita la natura; o si sente estraniato dalla
natura e ne va in cerca nostalgicamente configurandola come ideale. Nel primo
caso, il poeta è ingenuo come nell’antica Grecia; nel secondo caso è
sentimentale, come nell'età moderna. Ma in entrambi i casi, la P. è l'assoluto.
Difatti la P. ingenua è rappre- sentazione assoluta cioè conclusa, totale e
definitiva; e la P. sentimentale è rappresentazione dell’assoluto cioè di un
ideale compiuto, per quanto lontano, di perfezione (Werke, ed. Karpeles, XII,
pag. 122 sgg.). Schiller fu ben deciso a mantenere su questo punto la
superiorità della P. sulla filosofia: egli non esitava ad affermare
che«l’unicoverouomo è il poeta e nei suoi confronti il miglior filosofo è solo
una caricatura » (Carteggio Goethe-Schiller, 7-1-1795; trad. Santangelo).
Questa tesi rappresenta indubbia- mente un filone importante e ben determinato
della concezione romantica della poesia. Diceva Schelling: «La facoltà poetica
è ciò che nella prima potenza è l’intuizione originaria; e viceversa, la sola
intui- zione produttiva che si ripeta nella più alta potenza è ciò che noi
chiamiamo facoltà poetica » (System des transzendentalen Idealismus, 1800, VI,
$ 3). La facoltà poetica realizza in atto l’unità dell’attività conscia e
dell’attività inconscia, che costituisce 676 la natura dell’Io assoluto. « Ciò
che chiamiamo natura è un poema, chiuso in caratteri misteriosi e mirabili. Ma
se l’enigma si potesse svelare noi vi conosceremmo l'odissea dello Spirito, il
quale, per mirabile illusione, cercando se stesso, sfugge se stesso» (/bid.).
Nella filosofia contemporanea questo punto di vista è stato riespresso da Hei-
degger: « La P. è la nominazione fondatrice del- l'essere e dell’essenza di
tutte le cose; non è un qualsiasi semplice dire ma è quello per il quale si
trova inizialmente rivelato tutto ciò che noi dibattiamo e trattiamo in seguito
nel linguaggio di tutti i giorni. In conseguenza, la P. non riceve mai il
linguaggio come una materia da manipolare e che gli sarebbe presupposta ma al
contrario è la P. che comincia a rendere possibile il linguaggio. La P. è il
linguaggio primitivo di un popolo e l’essenza del linguaggio dev'essere
compresa a partire dall’essenza della P.» (Holderlin und das Wesen der
Dichtung, 1936, $ 5). Come linguaggio originario, la P. è la verità stessa vale
a dire la manifestazione o svelamento dell’Essere (Holzwege, 1950, pag. 252
sgg.). 3° La terza concezione fondamentale è a prima vista meno filosofica
delle altre perchè non consiste nel riconoscere alla P. un compito determi-
nato in una metafisica particolare nè nel connet- terla con una determinata
facoltà o categoria dello spirito o nel riservarle un posto nell’enciclopedia
del sapere umano, ma soltanto nel porre in luce certi tratti che la P. possiede
nelle sue più riu- scite realizzazioni storiche e nel riassumerli in una
definizione generalizzante. Tuttavia questo è il solo procedimento che può dar
luogo a una defi- nizione funzionale della P.: ad una definizione cioè che si
presti ad esprimere e a orientare l’effettivo lavoro dei poeti. A tale
definizione hanno pertanto contribuito i poeti stessi, più che i filosofi, per
quanto anche questi hanno talora saputo cogliere aspetti importanti di essa.
Ovviamente, da questo punto di vista, la P., almeno a prima vista, non è che un
certo modo privilegiato di espressione linguistica: privilegiato in virtù di
una speciale funzione che gli si riconosca. Il privilegio ricono- sciuto al
modo poetico dell’espressione è frequente- mente determinato come «libertà ».
Kant dopo aver detto che « le arti della parola » sono l’eloquenza e la P.,
afferma: «L’eloquenza è l’arte di trat- tare un compito dell’intelletto come se
fosse un libero giuoco dell'immaginazione; la P. è l'arte di dare ad un libero
giuoco dell’imma- ginazione il carattere di un compito dell’intel- letto »
(Crit. del Giud., $ 51). Qui la nozione di « giuoco » serve a sottolineare il
carattere libero del- l’attività poetica nei confronti di qualsiasi scopo
uti-litario; e la nozione di « compito dell’intelletto » sta POESIA a
significare la disciplina che la P. si dà pur nella libertà del suo giuoco. Da
questo punto di vista la funzione dell’espressione poetica è la liberazione del
linguaggio dai suoi usi utilitari e la sua elabora- zione in una disciplina
autonoma. Sugli stessi carat- teri dell'espressione poetica ha insistito Dewey.
Se tra prosa e P. egli dice, non c’è una differenza esattamente definibile, tra
prosaico e poetico c’è un abisso in quanto sono termini estremi limitativi di
tendenze dell’esperienza. Il prosaico realizza il potere delle parole di
esprimere « per mezzo del- l'estensione »; il poetico quello di esprimere per
mezzo dell’intensione. Il prosaico è questione di descrizione e di narrazione e
accumula dettagli; il poetico, inverte il processo, « condensa e abbrevia,
dando così alle parole un’energia di espansione che è quasi esplosiva ». Perciò
nella P. « ogni parola è immaginativa, come fu in verità anche in prosa fino a
quando, per il logorio dell’uso, le parole non furono ridotte ad essere
semplici enumeratori +» e «la forza immaginativa della letteratura è un’inten-
sificazione della funzione idealizzante assolta dalle parole nel linguaggio
ordinario » (Art as Experience, 1934, cap. 10; trad. ital, pag. 284-85).
L'inten- sione di cui parla Dewey non è un'intensità emotiva, ma un’intensità
espressiva, cioè una carica maggiore del significato delle parole non consunte
dall’uso. Ora che alla P. sia affidata questa funzione di conservare e
ripristinare nel linguaggio la sua carica di significato, di ripulirlo e
mantenerlo efficiente, di rinnovarlo e perfezionarlo, è quanto hanno detto, da
un secolo a questa parte, molti poeti che hanno riflettuto sul loro proprio
lavoro. Le tesi fondamentali della concezione della P. elaborata o presupposta
dai poeti moderni possono essere ricapitolate nel modo seguente: 1°
L'indipendenza della P. da ogni scopo interessato o utilitario. Questo
carattere venne espresso con la formula dell’arte per l’arte, alla quale
aderirono nel secolo scorso artisti come Flaubert, Gautier, Baudelaire, Walter
Pater, Oscar Wilde e Allan Poe. L'obbiettivo contro cui questa formula è
diretta è la subordinazione della P. all’emozione o alla verità o al dovere; il
suo signi- ficato positivo è la libertà della P. nel senso in cui era stato
affermato, per es., da Kant. « Comporre semplicemente versi, scrivere un
romanzo, scal- pellare il marmo, son cose che andavan bene una volta, dice
Flaubert, quando non c’era la missione sociale del poeta. Ora ogni opera deve
avere il suo significato morale, il suo ben dosato insegnamento; bisogna che un
sonetto abbia una portata filosofica, che un dramma pesti le dita ai monarchi
e. che un acquarello ingentilisca i costumi. L’avvocatume s'insinua dappertutto
insieme con la smania di discutere, di perorare e arringare» (Leftre dè POESIA
Louise Colet, 18 settembre 1846). E Gautier pro- clamava nell’editoriale
introduttivo del periodico L’artiste (14 dicembre 1856): «Noi crediamo
nell'autonomia dell’arte; per noi l’arte non è un mezzo per un fine; un artista
che persegue un obbiettivo diverso dal bello non è, secondo noi, un artista ».
La formula dell’arte per l’arte è perciò sostanzialmente la difesa della P.
contro ogni tentativo di farne lo strumento di propaganda di uno scopo
qualsiasi. 2° Il riconoscimento della bellezza come unico fine della poesia.
Poichè l’arte non può essere subordinata al bene o al vero o a cose che
pretendano avere tali caratteri, rimane, come suo unico fine, la bellezza; e
precisamente la bellezza formale cioè indipendente dai contenuti che le sono
offerti dall'emozione o dall’intelletto. Dice Flaubert: « Poeta della forma!
Ecce la gran parola ingiuriosa che gli utilitari gettano in faccia ai veri
artisti... Non ci sono bei pensieri senza belle forme e vice- versa... Si
rimprovera chi scrive in buono stile di trascurare l’idea, il fine morale; come
se il compito del medico non fosse di sanare, quello del pittore di dipingere,
quello dell’usignolo di cantare e il fine dell’arte non fosse, anzitutto, il
bello +» (Lettre à Louise Colet, 18 settembre 1846). E Poe affermava: « La P.
come arte della parola è la creazione ritmica della bellezza. Il solo arbitro
di essa è il gusto: con l’intelletto o con la coscienza essa ha solo relazioni
collaterali. Ameno che non sia per caso, non si cura assolutamente nè del
dovere nè della verità » (« The Poetic Principle », Works, ed. Har- rison, XIV,
pag. 275). 3° Il carattere oggettivo della bellezza, per cui essa è al di là
dell’emozione vissuta. Diceva Flaubert: « Meno si sente una cosa € più si è
atti ad esprimerla qual è (qual è sempre, in sè, nella sua universalità.
liberata da tutte le sue contingenze effimere), Bisogna però possedere la
facoltà di farla sentire a se stessi, facoltà che non è altro che il genio »
{Lettre à Louise Colet, 6 luglio 1852). E T. S. Eliot ha ribadito: «La P. non è
un libero movimento dell’emozione ma una fuga dall'emozione; non è
l'espressione della personalità, ma la fuga dalla personalità. Naturalmente
però solo coloro che posseggono personalità ed emozione sanno che cosa
s'intende dire accennando alla necessità della fuga da queste cose...
L'emozione dell’arte è impersonale. E il poeta non può raggiungere questa
impersonalità senza arrendersi interamente all’opera che dev'essere fatta»
(7hie Sacred Wood, 1920; trad. ital., pag. 124-25). Nello stesso senso Unga-
retti ha detto: « Tutta la mia attività poetica, dal 1919, si svolgeva in quel
senso; un senso più obbiettivo... cioè una proiezione e una contempla- zione
dei sentimenti negli oggetti, un tentare di 677 elevare a idee e miti la
propria esperienza biografica » (La terra promessa, Nota di Leone Piccioni). 4°
Il carattere costruttivo della P. e costruito della bellezza. Su esso hanno
insistito Poe, Bau- delaire e Valéry. Il primo ha descritto la costruzione di
una P. come una specie di lavoro artigiano (« The Philosophy of Composition »
in Works, ed. Harrison, XIV, pag. 196). Baudelaire dal suo canto ha insistito
sul concetto dell’arte come com- posizione: «Tutto l’universo visibile, egli ha
detto, non è che un magazzino di immagini e di segni ai quali l'immaginazione
darà un posto e un valore relativo; è una specie di foraggio che l’immagina-
zione deve digerire e trasformare» («Salon de 1859 », (Euvres, ed. Le Dantec,
II, pag. 232). Ma è soprattutto Valéry che ha insistito, ai nostri giorni, sul
carattere dell’arte come costruzione: « Le crea- zioni dell’uomo, egli ha
detto, sono fatte o in vista del proprio corpo — e tale principio egli chiama
utilità — o in vista della propria anima; e questo egli cerca sotto il nome di
bellezza. Ma d’altra parte colui che costruisce o che crea, impegnato com'è con
il resto del mondo e col movimento della natura che tendono perpetuamente a
dissol- vere, corrompere o rovesciare quel che egli fa, deve ravvisare un terzo
principio che tenta di comunicare alle proprie opere e che esprima la
resistenza che dev’essere da queste opposta al proprio destino di periture.
Crea insomma la solidità e la durata. Ecco le grandi caratteristiche di
un’opera completa. L'architettura soltanto le esige e le porta al punto più
alto. Ad essa io guardo come all’arte più completa » (Eupalinos, trad. ital.,
pag. 141-42). Il carattere architettonico dell’arte è così condizionato dalla
resistenza che essa incontra nelle forze naturali e dalla vittoria sopra questa
resistenza. Dall’altro lato un corollario, del carat- tere costruttivo o
architettonico dell’attività poetica è il controllo sull’ispirazione, controllo
sul quale aveva già insistito Baudelaire: « Un nutrimento sostanzioso e
regolare, egli aveva scritto, è la sola cosa necessaria agli scrittori fecondi.
L'ispirazione è decisamente la sorella del lavoro giornaliero. Questi due
contrari non si escludono più che non si escludano i contrari che costituiscono
la natura. L’ispirazione obbedisce, come la fame, come la digestione, come il
sonno» (« Conseils aux jeunes littérateurs +, 6, Euvres, ed. Le Dantec, II,
pag. 388). 5° L’insistenza sul carattere comunicativo della poesia. Diceva
Flaubert: « Il poeta deve simpatiz- zare con tutto e con tutti per comprenderli
e descriverli » (Lettre à M.Ile Leroyer de Chantepie, 12 dicembre 1857). E
Baudelaire: « Preferisco il poeta che si mette in comunicazione permanente con
gli uomini del suo tempo e scambia con essi pensieri e sentimenti tradotti in un
nobile linguaggio 678 sufficientemente corretto. Il poeta, situato su uno dei
punti della circonferenza dell’umanità, rinvia sulla stessa linea, in
vibrazioni più melodiose, il pensiero umano che gli fu trasmesso. Ogni vero
poeta dev’essere un’incarnazione» (« Pierre Du- pont +, CEuvres, ed. Le Dantec,
II, pag. 404). 6° La ricerca della perfezione formale cioè dell’esattezza o
della precisione espressiva. Flau- bert voleva che la P. fosse «precisa quanto
la geometria » (Lettre à Louise Colet, 14 agosto 1853) e affermava: « Più
un’idea è bella e più la frase è armoniosa. La precisione del pensiero fa (anzi
è, essa stessa) la precisione della parola» (Lettre à M.lle Leroyer de
Chantepie, 12 dicembre 1857). Mallarmé ha insistito su quest’aspetto della P.:
«L'arte suprema, egli diceva, consiste nel lasciar vedere, col possesso
impeccabile di tutte le facoltà, che si è in estasi, senza aver mostrato come
ci s’innalzava verso le cime» (Lettre à Henri Cazalis, 27 novembre 1863).
Valéry ha scritto allo stesso proposito: «Ho cercato l’esattezza nei pensieri,
sicchè, palesemente generati dall’osservazione delle cose, si mutino, come per
processo spontaneo, negli atti della mia arte. Ho distribuito le mie
attenzioni; ho rifatto l'ordine dei problemi; comincio dove prima finivo per
andare un poco più in là... Avaro di fan- tasie, concepisco come se inseguissi
» (Eupalinos; trad. ital., pag. 91). E Ungaretti ha detto nello stesso senso:
«Sognavo una P. dove la segretezza dell’a- nimo, non tradita nè falsata negli
impulsi, si conci- liasse a una estrema sapienza di discorso » (Quaranta
sonetti di Shakespeare, Nota intr.). Mallarmé ha esteso la preoccupazione
dell’esattezza allo stesso segno scritto. « L’armatura intellettuale del poema,
egli ha detto, si dissimula e sostiene — ha luogo — nello spazio che isola le
strofe e fra il bianco della carta: significativo silenzio che non è meno bello
a comporsi degli stessi versi » (Lertre non datée à Charles Morice; cfr. Propos
sur la poésie, edi- zione Mondor, pag. 164). 7° Infine, e come ricapitolazione
di tutti gli aspetti precedentemente enumerati della P.: il compito ad essa
attribuito di tenere in efficienza il linguaggio. Questo compito è stato
illustrato con tutta l’energia e la chiarezza desiderabili da Fzra Pound. La
funzione della letteratura egli ha scritto « non è la coercizione o la
persuasione per via emotiva» nè il forzare la gente a una certa opinione. «
Essa riguarda la chiarezza e il vigore di qualsiasi pensiero e opinione.
Riguarda la preser- vazione e la pulizia stessa degli strumenti, la salute
della sostanza stessa del pensiero. Tranne che nei casi rari e limitati di
invenzione nelle arti plastiche o nella matematica, l’individuo non può pensare
e comunicare il suo pensiero, il reggitore e il legi- slatore non possono agire
efficacemente e redigere le POETICA loro leggi, senza le parole, e la solidità
e validità di queste parole sono affidate alla cura dei maledetti e disprezzati
letterati » (Literary Essays; trad. ital., pag. 47). Da questo punto di vista «
mantenere efficiente il linguaggio è altrettanto importante ai fini del
pensiero come in chirurgia tener lontano dalle bende i bacilli del tetano » e
questo compito è proprio della P. che « è semplicemente linguaggio carico di
significato al massimo grado possibile + (Ibid., pag. 49). C’è un triplice modo
in cui la P. esegue questo compito e perciò ci sono tre generi di P.: la
melopea, per cui «le parole sono caricate, al di là del loro significato
comune, di qualche qualità musicale che condiziona la portata e la direzione di
quel significato »; la fanopea, che è «un proiettare le immagini sulla fantasia
visiva +; e la /ogopea, per cui le parole vengono usate non solo nel loro
significato diretto ma anche in vista delle consuetudini d’uso, del contesto,
delle conco- mitanze abituali, delle accezioni note e del giuoco ironico
(/bid., pag. 52). Non c’è dubbio che queste notazioni di Pound costituiscono il
punto culminante dell’estetica contemporanea della poesia. POETICA. V.
ESTETICA. POIETICO (gr. romuxés; ingl. Poietic; fran- cese Poietique; ted.
Poietik). Produttivo o creativo, in quanto distinto da pratico. Secondo
Aristotele l’arte è produttiva mentre l’azione non lo è (£r. Nic., VI, IV,
1140a 4). Plotino chiamava P. le cause efficienti (Enn., VI, 3, 18, 28). V.
ENCICLOPEDIA. POLARITÀ (ingl. Polarity; franc. Polarité; ted. Poldritar). La
connessione necessaria di due princìpi tra loro opposti. In questo senso il
concetto fu adoperato da Schelling nello scritto Sull'amima del mondo (1798).
L’anima del mondo, secondo Schelling, agisce nella natura mediante le due forze
opposte della attrazione e della repulsione, il cui conflitto costituisce il
dualismo e la cui unifica- zione costituisce la P. della natura (Werke, I, II,
pag. 381). Talvolta il concetto di P. è stato genera- lizzato in un vero e
proprio principio. Così ha fatto, nella filosofia contemporanea, Morris R.
Cohen che l’ha inteso come « il principio non del- l’identità ma della
necessaria compresenza e reci- proca subordinazione delle determinazioni opposte
+. Nella fisica, questo principio sarebbe rappresentato dalla legge di azione e
reazione e da quella che là dove c’è forza c’è resistenza. In biologia, sarebbe
espresso dall’aforisma di Huxley che il protoplasma riesce a vivere solo
morendo di continuo. Nell’etica, si esprimerebbe nella dipendenza reciproca tra
sacri- ficio di sè e realizzazione di sè (/nrroduction to Logic, IV, 2; trad.
ital., pag. 125). POLEMICO (ingl. Polemic; franc. Polémique; ted. Polemisch).
Kant ha inteso per « uso P. della ragione » la difesa degli enunciati di essa
contro POLITICA le negazioni dogmatiche. Le negazioni dogmatiche degli
enunciati razionali sono le negazioni scettiche, considerate da Kant come le
posizioni di un dogma- tismo negativo, semplicemente preparatorio rispetto ad
una critica della ragione cioè ad un esame dei limiti e dei confini precisi
della ragione stessa (Crit. R. Pura, Dottrina trascendentale del metodo, cap.
1, sez. 2). POLIADICO (ingl. Polyadic). Nella logica contemporanea sono
qualificati con questo termine gli enunciati (o le relazioni) costituiti da tre
o più termini: per es., l’enunciato «Tizio deve a Caio mille lire» dove
compaiono tre termini, Tizio, Caio e mille lire (cfr., ad es., DEWEY, Logic,
XVI; trad. ital., pag. 413 sgg.). POLIGENESI. V. ORTOGENESI. POLIGONIA.
Gioberti parlò di una «P. del cattolicesimo » cioè del rifrangersi della parola
rivelata nell’individualità dei singoli pur mantenen- dosi una, come uno è il
poligono sebbene abbia infiniti lati (Riforma cattolica, ed. Balsamo-Crivelli,
pag. 147-48). Lo stesso che multilateralità. POLILEMMA (ingl. Polilemma; franc.
Poli- lemme; ted. Polilemma). Termine moderno per indicare un dilemma (v.) a
tre o più alternative (TRroxLER, Logik, II, 1829, pag. 102; B. ERDMANN, Logik,
1892, $ 75). POLIMATIA (gr. roQvpadia). Il saper molte cose. Disse Eraclito:
«Il saper molte cose non insegna ad avere intelligenza; altrimenti l’avrebbe
insegnato ad Esiodo e a Pitagora e tanto più a Senofane e ad Ecateo» (Fr. 40,
Diels). Kant ha chiamato P. il possesso delle conoscenze razionali, mentre
polistoria sarebbe il sapere storico o dei fatti e pansofia l'insieme dei due
(Logik, Intr., $ VI). POLISEMIA (ingl. Polysemy; franc. Poly- sémie; ted.
Polysemie). La diversità dei riferimenti semantici (dei « significati »)
posseduti da una stessa parola (cfr. BréAL, Essai de sémantique, cap. 14; S.
ULLMANN, The Principles of Semantics, 2* ediz., 1957, pag. 63, 114, 174).
POLISILLOGISMO (ingl. Polysyllogism; franc. Polysyllogisme; ted.
Polysyllogismus). Ter- mine settecentesco per indicare un sillogismo mol-
teplice o composto, cioè una catena di sillogismi. Tale catena può essere
ordinata in modo tale che ogni sillogismo sia il fondamento di quello che segue
e la conseguenza di quello che precede. Il sillogismo della serie che contiene
la ragione della premessa di un altro sillogismo è chiamato prosil- logismo;
quello che contiene la conseguenza di un altro sillogismo è chiamato
episillogismo (v.). Ogni catena di ragionamenti è perciò costituita di pro-
sillogismi e di episillogismi (WOLFF, Log., $ 492-94; KANT, Logik, $ 86;
HAMILTON, Leciures on Logic, $ 68; B. ERDMANN, Logik, $ 85). 679 POLITEISMO
(ingl. Polytheism; franc. Po- Iythéisme; ted. Polytheismus). Sulla nozione di
P., v. Dro, 3, «). Il P. è ben lungi dall’essere una cre- denza primitiva e
grossolana, inconciliabile con la riflessione filosofica. Poichè esso è
presente già nella distinzione tra la divinità e Dio, sono in realtà
politeistiche molte filosofie talora assunte come ti- picamente monoteistiche,
per es., quella di Ari- stotele. Il P. è stato talora esplicitamente difeso dai
filosofi moderni. Già Hume osservava nella Storia naturale della relîgione
(1757), che il pas- saggio dal P. al monoteismo non deriva dalla riflessione
filosofica ma dal bisogno umano di adu- lare la divinità per tenersela buona; e
che al mono- teismo si accompagna spesso l’intolleranza e la persecuzione
giacchè il riconoscimento di un unico oggetto di devozione conduce a
considerare as- surdo ed empio il culto di altre divinità (Essays, II, pag. 335
sgg.). Nell’età moderna sulla superio- rità del P. hanno insistito Renouvier
(Psychologie rationelle, 1859, cap. 25) e James (A Pluralistic Universe, 1909);
ma politeistiche sono molte altre dottrine, compresa quella di Bergson. Max
Weber ha considerato il P. come la lotta fra i diversi valori o le diverse
sfere di valori tra cui l’uomo deve pren- dere posizione e che non si conclude
mai con la vittoria di un valore solo. In questo senso il mondo dell’esperienza
non arriva mai al monoteismo ma si ferma al P. (Zwischen zwei Gesetze, 1916, in
Gesammelte Politische Schriften, pag. 60 sgg.). POLITICA (gr. rormxh; lat.
Politica; inglese Politics; franc. Politique; ted. Politik). Sotto questo nome
sono state intese più cose e precisamente: 1° la dottrina del diritto e della
morale; 2° la teoria dello Stato; 3° l’arte o la scienza del governo; 4° lo
studio dei comportamenti intersoggettivi. 1° Il primo concetto è quello esposto
nell’Etica di Aristotele. La ricerca intorno a ciò che dev'essere il bene e il
bene supremo sembra appartenere, dice Aristotele, alla scienza più importante e
più archi- tettonica. «E questa pare che sia la politica. Essa infatti
determina quali scienze sono necessarie nelle città e quali, e fino a che
punto, ciascun cittadino deve apprenderle» (E. Nic., I, 2, 1094a 26). Questo
concetto della P. è rimasto lungamente nella tradizione filosofica. Diceva, ad
es., Hobbes: «La P. e l’etica, cioè la scienza del giusto e del- l’ingiusto,
dell’equo e dell’iniquo, si può dimostrare a priori in quanto i princìpi coi
quali si può giu- dicare che cosa siano il giusto e l’equo o i loro contrari,
cioè le cause della giustizia, cioè le leggi o le convenzioni, li abbiamo fatti
noi stessi» (De Hom., X, $ 5). In questo senso Althusius intitolava il suo
trattato sul diritto naturale Politica metho- dice digesta (1603): e trattati
di P. furono conside- rati tutti gli scritti sul diritto naturale (v. DIRITTO).
680 2° Il secondo significato del termine è quello esposto nella Politica di
Aristotele. «È chiaro, diceva Aristotele, che c'è una scienza cui spetta di
cercare quale sia la migliore costituzione: quale più di ogni altra sia adatta
a soddisfare i nostri ideali, quando non vi fossero impedimenti esterni; e
quale si adatti alle diverse condizioni in cui può essere messa in pratica.
Poichè è quasi impossibile che molti possano attuare la migliore forma di go-
verno, il buon legislatore e il buon uomo politico devono sapere quale sia la
migliore forma di go- verno in senso assoluto e quale sia la migliore forma di
governo entro certe condizioni date + (Pol., IV, 1, 1288 b 21). In questo senso
la P. ha due compiti, secondo Aristotele: 1° quello di de- scrivere la forma di
uno Stato ideale; 2° quello di determinare la forma del migliore Stato
possibile in rapporto a circostanze date. Ed effettivamente la P. come teoria
dello Stato ha seguito o la via utopistica della descrizione dello Stato
perfetto, secondo l’esempio della Repubblica di Platone, o quella più
realistica dei modi e delle vie per mi- gliorare la forma dello Stato, che è
quella che Aristotele stesso seguì in una parte del suo trattato. Le due parti
tuttavia non sono sempre agevol- mente distinguibili e non sempre sono state
di- stinte. Quando a partire da Hegel lo Stato cominciò a essere considerato
come « il Dio reale + (v. STATO) e il carattere della divinità dello Stato fu
accettato dalla scuola storica, la P., come teoria dello Stato, volle avere
carattere descrittivo e normativo in- sieme. Così Treitschke delineava il
compito di essa in questo senso: «Il compito della P. è triplice: deve in primo
luogo investigare, dall’osservazione del mondo reale degli Stati, qual'è il
concetto fon- damentale dello Stato; in secondo luogo indagare storicamente ciò
che nella vita politica i popoli hanno voluto, prodotto e conseguito e il
perchè lo hanno conseguito; e in terzo luogo, ciò facendo, essa giunge a
scoprire alcune leggi storiche e a stabilire gli imperativi morali » (Politik,
1897, Intr.; trad. ital, I, pag. 2-3). Come già nell’opera del Treitschke, la
P. come teoria dello Stato è stata spesso una teoria dello Stato come forza:
tale in- fatti essendo il significato di ogni divinizzazione dello Stato (v.).
3° La P. come arte o scienza di governo è il concetto che Platone espose e
difese nel Politico con il nome di «scienza regia » (Pol., 259a-b) e che
Aristotele assunse come rerzo compito della scienza politica. « Un terzo ramo
della ricerca è quello il quale considera in che modo un governo è sorto e in
che modo, una volta sorto, può essere conservato per il maggior tempo possibile
» (Zbid., IV, 1, 1288 b 27). Fu questo il concetto della P. di cui Machiavelli
accentuò il crudo realismo con POLITICA famose parole: «E molti si sono
immaginati re- pubbliche e principati che non si sono mai visti nè conosciuti
essere in vero. Perchè elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe
vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare,
impara piuttosto la ruina che la preservazione sua; perchè uno uomo, che voglia
fare in tutte le parti professione di buono, con- viene rovini infra tanti che
non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mante- nere,
imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità
» (Princ., XV). In questo senso Wolff definiva la P. come «la scienza di
dirigere le azioni libere nella società civile o nello Stato » (Log., Disc., $
65). E questa è la scienza o l’arte politica cui si fa più frequente rife-
rimento nel discorso comune. Riferendosi appunto a questo concetto Kant diceva:
« Per quanto la massima: L’onestà è la migliore P., implichi una teoria che la
pratica purtroppo smentisce assai spesso, tuttavia la massima parimenti
teoretica l’onestà è migliore di ogni P., è al di sopra di ogni obiezione, è
anzi la condizione indispensabile della P.» (Zum ewigen Frieden, Appendice, I).
E Hegel dall’altro lato diceva: « Si è discusso molto, un tempo, dell’antitesi
tra morale e P. e dell’esi- genza che la seconda sia conforme alla prima. A
questo punto conviene solo notare in generale che il bene di uno Stato ha un
diritto del tutto diverso dal bene del singolo e che la sostanza etica, lo
Stato, ha la sua esistenza, cioè il suo diritto, immediata- mente in
un'esistenza non astratta ma concreta e che soltanto quest’esistenza concreta,
non una delle molte proposizioni generali, ritenute per precetti morali, può
essere principio del suo agire e del suo comportamento. Anzi, la veduta del
torto pre- sunto che la P. deve sempre avere, in questa antitesi presunta, si
fonda ancora sulla superficialità delle concezioni della moralità, della natura
dello Stato e dei suoi rapporti dal punto di vista morale» (Fil. del Dir., $
337). Queste parole di Hegel non sono che la riconferma del principio del
machia- vellismo. Ciò che Hegel chiama l’esistenza dello Stato non è altro che
la realtà effettuale di Ma- chiavelli che la P. dovrebbe sempre avere presente.
Per quanto Hegel dichiarasse superata l’antitesi tra P. e morale, il contrasto
tra le due esigenze è tuttora vivo nella pratica politica e nella coscienza
comune e le forme di equilibrio, da esse raggiunte, sono tuttora provvisorie e
instabili. 4° Infine il quarto significato di P. è quello che essa ha
cominciato ad avere a partire da Comte e si identifica con quello di
sociologia. Comte chiamò Sistema di P. positiva (1851-54) la sua massima
trattazione di sociologia in quanto ri- tenne che i fenomeni politici sono
soggetti, sia POSITIVISMO nella loro coesistenza sia nella loro successione, a
leggi invariabili, il cui uso può permettere di in- fluenzare i fenomeni
stessi. G. Mosca intese per P. proprio la scienza della società umana in questo
senso. Così egli giustificava il termine: « Noi lo studio delle tendenze
suddette [cioè delle « leggi o tendenze psicologiche costanti alle quali ubbidi-
scono i fenomeni sociali :] chiamiamo scienza po- litica. Ed abbiamo scelta
questa denominazione perchè fu la prima usata nella storia dello scibile umano,
perchè ancora non è caduta in disuso ed anche perchè il nome nuovo di
sociologia che, dopo Augusto Comte si è da molti scrittori adot- tato, non ha
ancora una significazione ben deter- minata e precisa e, nell’uso comune,
comprende tutte le scienze sociali» (Elementi di scienza poli- tica, 1922, I,
I, $ II). Ma in questo senso il termine è oggi diventato improprio. POLITICISMO
(franc. Politisme; ted. Poli- tismus). La prevalenza o l’importanza eccessiva
che le esigenze politiche assumono talora, nella vita moderna, rispetto alle
altre esigenze, cioè alle esi- genze scientifiche, artistiche, morali, religiose,
ePOLITOMIA (franc. Polytomie; ted. Poly- tomie). La divisione non dicotomica.
Kant osserva che la P. esige l’intuizione: o l’intuizione a priori come accade
in matematica o l'intuizione empirica come nelle scienze della natura. In altri
termini la P. è sempre empirica mentre la dicotomia, fon- data com'è sul
principio di contraddizione, è a priori (Logik, $ 115). POLIVALENTE, LOGICA. V.
Terzo ESCLUSO, PRINCIPIO DEL. POLIZETESI. V. INTERROGAZIONE MULTIPLA. PONTE DEGLI ASINI (lat. Pons
asinorum; ingl. Asses’ bridge; franc. Pont
aux dines; tedesco Eselsbrilcke). Così fu chiamato, per la sua appa- rente
difficoltà, un diagramma costruito dal logico Pietro Tartareto (la cui attività
letteraria cade fra il 1480 e il 1490), che aveva lo scopo di aiutare lo
studente a trovare il termine medio nelle varie figure del sillogismo. Il
diagramma è riportato da PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 206. Il termine
è stato talora esteso a indicare un punto difficile di qualsiasi insegna- mento
o dottrina. POPOLO (lat. Populus; ingl. People; francese Peuple; ted. Volk).
Una comunità umana carat- terizzata dalla volontà degli individui che la com-
pongono di vivere sotto lo stesso ordinamento giuridico. L’elemento geografico
non è sufficiente a caratterizzare il concetto di P.: come Cicerone diceva, «
P. non è qualsiasi agglomerato di uomini in qualsiasi modo riunito, ma un
agglomerato di gente associata dal consenso allo stesso diritto e da una
comunanza d’interesse » (Rep., I, 25, 39). 681 Al P. si contrappone pertanto la
plebe che è l’in- sieme di quelle persone le quali, pur vivendo in- sieme con
il P., non partecipano allo stesso ordi- namento giuridico. Dall’altro lato il
concetto di P. si distingue da quello di razione (v.) perchè questo contiene un
insieme di elementi necessitanti che si assommano nella nozione di un comune
destino al quale gli individui non possano legittimamente sottrarsi. Dal
concetto di P., il concetto di nazione cominciò a formarsi quando, a partire da
Mon- tesquieu si misero in luce le cause naturali e tradi- zionali (clima,
religione, tradizioni, usi e co- stumi, ecc.) che contribuiscono a formare
quello che Montesquieu chiamò «spirito generale» o « spirito della nazione »
(Esprit des lois, XIX, 4-5). La differenza tra P., nazione e plebe era
abbastanza chiaramente stabilita da Kant (Antr., II, Il carat- tere del
popolo): ma il concetto di P. veniva spesso confuso con quello di nazione nel
nazionalismo ottocentesco (v. NAZIONALISMO; SPIRITO NAZIONALE). PORISTICO
(ingl. Poristic; franc. Poristique; ted. Poristik). Da porisma = corollario. Il
termine designa ciò che è un corollario o concerne un corollario. PORRE (gr.
v.8va; lat. Ponere; ingl. Posit; franc. Poser; ted. Setzen). Questo verbo è
stato usato nel linguaggio filosofico con due differenti significati: 1°
asserire o assumere come ipotesi; 2° P. in essere, produrre. 1° Il primo
significato è quello che già Platone e Aristotele usavano: il primo nel senso
di stabilire un’ipotesi (Teer., 191 c): il secondo in quello di stabilire una
premessa (An. Pr., I, 1, 24b 19) 0 ammettere una tesi (7op., II, 7, 113 a 28).
Corrispon- dentemente, la parola posizione vale genericamente asserzione e Kant
afferma che l’esistenza può es- sere posta, cioè asserita o riconosciuta, non
dedotta (Der einzig mògliche Beweisgrund zu einer Demon- stration des Daseins
Gottes, I, $ 2). Il verbo è comu- nemente usato ancor oggi specialmente nel
senso di assumere in via d’ipotesi o come assioma (v.). 2° Nel senso di P. in
essere o produrre o creare, il verbo fu usato da Fichte: « L'essere, l’essenza
del quale consiste puramente in ciò che esso pone se stesso come esistente è
l’Io, come assoluto sog- getto. In quanto esso si pone, è; ed in quanto è, si
pone; l’Io perciò è assolutamente e necessaria- mente per l’Io» (Wissenschaftslehre,
1794, $ 1). Quest’uso si conserva in tutta la tradizione del- l’idealismo
romantico e in generale per ogni filo- sofia la quale identifichi ragione e
realtà e così l’atto logico del P. con l’atto reale del produrre. POSITIVISMO
(ingl. Positivism; franc. Posi- tivisme; ted. Positivismus). Il termine fu
adoperato la prima volta da Saint-Simon per designare il metodo esatto delle
scienze e l’estensione di esso 682 alla filosofia (De la religion
Saint-Simonienne, 1830, pag. 3). Esso fu adottato da Augusto Comte per la sua
filosofia e per opera di Comte passò a desi- gnare un grande indirizzo
filosofico che, nella seconda metà del sec. xrx, ebbe numerosissime e svariate
manifestazioni in tutti i paesi del mondo occidentale. La caratteristica del P.
è la romanti- cizzazione della scienza: l’esaltazione di essa ad unica guida
della vita singola ed associata dell’uomo, cioè ad unica conoscenza, ad unica
morale, ad unica religione possibile. Come romanticismo della scienza, il P.
accompagna e stimola la nascita e l’affermazione dell’organizzazione
tecnico-industriale della società moderna ed esprime l’esaltazione ottimistica
che ha accompagnato l’origine dell’industrialismo. Si possono distinguere due
forme storiche fondamen- tali del P.: il P. sociale di Saint-Simon, Comte e
Stuart Mill, nato dall’esigenza di costituire la scienza a fondamento di un
nuovo ordine sociale e religioso unitario; e il P. evoluzionistico di Spencer
che estende a tutto l’universo il concetto di progresso e cerca di farlo valere
in tutti i rami della scienza (per il positivismo evoluzionistico, v. EvoLuzio-
Nismo). Le tesi fondamentali del P. sono le seguenti: 1° La scienza è l’unica
conoscenza possibile e il metodo della scienza è l’unico valido: pertanto il
ricorso a cause o princìpi che non sono accessibili al metodo della scienza non
dà origine a cono- scenze; e la metafisica che fa appunto tale ricorso è priva
di qualsiasi valore. 2° Il metodo della scienza è puramente de- scrittivo, nel
senso che descrive i fatti e mostra quei rapporti costanti tra i fatti che sono
espressi dalle leggi e consentono la previsione dei fatti stessi (Comte); o nel
senso che mostra la genesi evolutiva dei fatti più complessi a partire da
quelli più semplici (Spencer). 3° Il metodo della scienza, in quanto è l’unico
valido, va esteso a tutti i campi dell’indagine e dell’attività umana; e
l’intera vita umana, singola e associata, dev’essere guidata da esso. Il P. ha
presieduto alla prima attiva partecipa- zione della scienza moderna
all’organizzazione sociale e costituisce tuttora un concetto della filo- sofia
che rimane una delle alternative fondamentali di tale disciplina: ciò anche
dopo che sono state abbandonate le illusioni totalitarie del P. romantico, cioè
la sua pretesa di assorbire nella scienza ogni manifestazione dell’uomo.
POSITIVISMO GIURIDICO (ingl. Juridical Positivism; franc. Positivisme
juridique). Così Hans Kelsen ha chiamato la sua dottrina formalistica del
diritto e dello stato (Genera/ Theory of Law and State, 1945; cfr. specialmente
l’appendice « La dot- trina del diritto naturale e il P. giuridico +) (v. Di-
RITTO; STATO). POSITIVISMO GIURIDICO POSITIVISMO LOGICO (ingl. Logica! Posi-
tivism; franc. Positivisme logique; ted. Neupositi- vismus). V. EMPIRISMO
LOGICO. POSITIVO (ingl. Positive; franc. Positif; te- desco Positiv). 1. Ciò
che è posto, stabilito o rico- nosciuto come un fatto. Leibniz chiamava «
verità P.» le verità di fatto, in quanto si distinguono dalle verità di ragione
perchè costituiscono « leggi che Dio si è compiaciuto di dare alla natura»
(Théod., Discours, $ 2). Nello stesso senso si parla di religione P., come
religione che di fatto è stabilita e vige come un complesso di istituzioni
storiche, a differenza della religione naturale che può non valere di fatto; e
di diritto P. come diritto vigente in uno stato determinato, in
contrapposizione con il diritto naturale che può non avere validità di fatto.
Le espressioni «fatto P.» e «realtà P.» hanno valore analogo perchè designano
il fatto o la realtà riconosciuta o riconoscibile come tale in virtù di un
metodo obbiettivo. Il significato fonda- mentale del termine è pertanto, in
questa accezione: ciò che vige di fatto o ha realtà effettiva. Comte non faceva
che esprimere questo significato affer- mando: «Considerato nella sua accezione
più antica e più comune, la parola P. designa il reale r opposizione al
chimerico » (Discours sur l’esprit positif, $ 31). Il positivismo chiamò P. il
metodo della scienza in quanto diretto al riconoscimento puro e semplice dei
fatti e dei loro rapporti (v. Post- TIVISMO). In senso non diverso Schelling
chiamò P. la conoscenza che considera l’atto con cui la realtà è posta. Egli
distinse le condizioni nega- tive della conoscenza, che sono quelle senza cui
la conoscenza non è possibile, dalle condizioni P. che sono quelle per cui la
conoscenza diventa effettiva. Le prime sono le forme razionali del- l’essere e
dicono ciò che l’essere può o dev'essere, le seconde esprimono l’esistenza
stessa e consistono sostanzialmente nella volontà di Dio di manifestarsi
(Werke, II, III, pag. 57 sgg.). 2. Lo stesso che affermativo. In questo senso
il termine ricorre in locuzioni come « dichiarazioni P.» o « notizie P.» o
anche per designare dottrine che caratterizzano i loro oggetti con
affermazioni, anzichè con negazioni; per es., «teologia P.» in contrasto con
teologia negativa; «esistenzialismo P.»+; ecc. 3. Lo stesso che positivista,
nel senso in cui da Comte in poi si dice « filosofi positivi ». POSIZIONE (gr.
Otorc; lat. Positio; inglese Posit; franc. Position; ted. Setzung, Position).
1. Assunzione non dimostrata: 1° della pre- messa di un ragionamento; 2°
dell’esistenza di qualcosa. 1° Nel primo senso il termine viene costante- mente
usato da Aristotele (cfr. An. Post., I, 2, POSSIBILE 72a 15)e in tutta la
tradizione logica anche recente, nella quale viene talora esplicitamente
ridefinito (cfr. H. REICHENBACH, The Rise of Scientific Phi- losophy, 1951,
pag. 240). 2° Kant distinse per la prima volta la P. relativa che è il
riconoscimento dell’essere predicativo,
cioè dell’essere espresso dalla copula, che pone in relazione due
determinazioni di una cosa, dalla P. assoluta che è il riconoscimento
dell’esistenza della cosa stessa. «In un esistente, diceva Kant, non è posto
nulla più che nel puro possibile (si tratta infatti dei predicati di essa); ma
attraverso un esistente è posto qualcosa in più che un puro possibile perchè si
tratta della P. assoluta della cosa stessa » (Der einzig méògliche Beweisgrund
zu einer Demonstration des Daseins Gottes, 1763, $ 3). Per Kant la P. è il
riconoscimento (empirico) di una esistenza; nell’idealismo romantico, a partire
da Fichte, la P. fu intesa come creazione. Dice Fichte: « Ciò il cui essere (o
essenza) consiste solamente in questo, che esso pone se stesso come esistente,
è I’Io come assoluto soggetto. In quanto esso si pone, è; ed in quanto è, si
pone » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Il concetto di P. in questo senso non
si distingue da quello di creazione. Torna a distin- guersi da esso l’uso che
invece ne ha fatto Husserl, che ha visto nella P. l'affermazione dell’esistenza
del- l'oggetto intenzionale. Egli ha distinto la P. attuale che si ha quando
l’oggetto intenzionale è presente, dalla P. porenziale che si ha quando non lo
è (Ideen, I, $ 113). Husserl usa anche il termine posizionalità (tedesco
Positionalitàt) per indicare in generale il ca- rattere, comune a tutte le
esperienze vissute, di porre l'oggetto intenzionale (come esistente o come
desi- derato o come voluto, ecc.). Talvolta sono chia- mati P. gli stessi
oggetti fisici in quanto non defini- bili in termini di esperienza ma
riconosciuti esistenti solo come utili intermediari tra l’esperienza e il lin-
guaggio (QuINE, From a Logical Point of View, II, 6). 2. Nella logica
terministica medievale una ob- bligazione (v.) e precisamente quella che
consiste nell’obbligo di sostenere una proposizione come vera (OckHam, Summa
Log., III, III, 40). POSSESSO (ingl. Possession; franc. Possession; ted.
Besirz). 1. Una qualche garanzia della possi- bilità di disposizione e d’uso di
una cosa. Questo è il concetto di Kant: « Ciò che è giuridicamente mio (mem
juris) è ciò con cui io sono così legato che l’uso che un altro potrebbe farne
senza il mio consenso mi danneggerebbe. Il P. è la condizione soggettiva della
possibilità dell’uso in generale» (Met. der Sitten, I, $ 1). La nozione di P.
riguarda pertanto il rapporto tra l’uomo e le cose ed esprime una certa
garanzia (che può avere significati e limiti diversissimi) della possibilità
d’uso che un individuo determinato ha nei confronti di una cosa 683
determinata. Solo impropriamente la nozione di P. viene riferita ai rapporti
tra le persone. 2. Nel significato più generale, il termine de- signa qualsiasi
relazione predicativa e esistenziale; e si dice, per es., «La cosa x possiede
la qualità a » o «L'oggetto x possiede l’esistenza ». In questo senso l’uso del
termine corrisponde a quello che Aristotele ne fece contrapponendolo a
privazione (cfr. Met., X, 4, 1055a 33) (v. PRIVAZIONE). POSSIBILE (gr. cò
Suvaréy; lat. Possibilis; in- glese Possible; franc. Possible; ted. Moglich).
Ciò che può essere o non essere. Questa definizione nominale è abitualmente
presupposta dalle definizioni con- cettuali che sono state date del termine, ma
solo queste ultime consentono la trattazione dei pro- blemi propri della
nozione. Le definizioni concettuali di possibile possono essere: A) definizioni
negative, di natura logica; 8) definizioni positive. A loro volta quest'ultime
possono essere: 1° definizioni della possibilità reale; 2° definizioni della
possibilità oggettiva. Le tre classi di definizioni che così risul- tano
corrispondono quasi perfettamente alle tre specie del P. distinte da Aristotele
nella metafisica: « Il P. significa: 1° ciò che non è di necessità falso; 2°
ciò che è vero; 3° ciò che può essere vero » (Mer., V, 12, 1019b 30). 1° Le
definizioni negative del P. sono di natura
logica e definiscono il P. come ciò che
non è neces- sariamente falso o non include contraddizione. Nel primo senso,
definiva il P. Aristotele nel passo citato. Questo concetto è rimasto nella
tradizione filosofica, sotto la denominazione di «P. /ogico» distinto dal «P.
reale». S. Tommaso lo chiama «P. assoluto» e dice che risulta ex habitudine
terminorum cioè dalla non ripugnanza del predicato col soggetto (S. 7h., I, q.
25, a. 3); Duns Scoto lo chiama P. logico e lo ritiene proprio della « compo-
sizione dell’intelletto » in quanto i termini di essa non includono
contraddizione (Op. Ox., I, d.2, q. 6, a. 2, n. 10). Ockham ritiene che il P.
in questo senso non è altro che il non-impossibile (Summa Log., II, 25). Fu
questo il concetto su cui insistette Leibniz: «Quando vi dico che c’è
un'infinità di mondi P., intendo che non implichino contraddi- zioni, così come
si possono fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono tuttavia
possibili. Per essere P., basta che una cosa sia intelligibile » (Lettera a
Bourguet, 1712, in Op., ed. Gerhardt, III, pag. 558). Leibniz distingueva il P.
in questo senso dal compossibile (v.) che è la possibilità oggettiva. La
nozione di P. in questo senso rimane fissata nella scuola wolffiana (WoLFF,
Ontolog., $ 85; Crusius, Vernunftwahrheîten, $ 56; LAMBERT, Dianoiologie, $
39); e contro di essa, che tuttavia riconosceva valida nei suoi limiti, Kant
affermava la nozione di possibilità oggettiva (Der einzig mogliche 684
Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, 1763, II, 1). I due
teoremi fondamentali propri di questa nozione del P. sono i seguenti: I) la
riduzione del P. al non-impossibile; II l’inferenza del P. dal necessario, nel
senso che ciò che è necessario deve essere possibile. Sono due teoremi stretta-
mente connessi tra loro. Aristotele li espresse per la prima volta nella famosa
trattazione del P. che ricorre nel De interpretatione. Il necessario deve
essere P., ragionò Aristotele, perchè, se non fosse P., sarebbe impossibile: il
che è contraddittorio (De Interpr., 13, 22b 28 sgg.). L’identificazione di P.
con non-impossibile è già chiara in questo ragionamento; ma ad ogni modo è resa
esplicita da Aristotele. Il quale osserva che sia nel caso di possibilità
appartenenti a enti immutabili, sia nel caso di possibilità appartenenti a enti
mutevoli è sempre vera la proposizione « non è impossibile che sia » (De Int.,
13, 23 a 13). La stessa dottrina veniva ripetuta da S. Tommaso con l’esplicita
limitazione al P. logico (Contra Gent., III, 86). E gli stessi teoremi
ricorrono nelle dottrine contemporanee sul possibile. Peirce dice: « È
essenzialmente o logica- mente P. ciò che una persona che non conosce fatti ma
è a giorno del ragionamento e ha familiari le parole che esso comprende, è
incapace di dichia- rare falso » (Coll. Pap., 4, 67). Qui la nozione di falso
ha sostituito quella di contraddittorio ma il P. viene sempre ridotto a ciò che
non è falso. Carnap a sua volta definisce il P. come il « non impossibile »
(Meaning and Necessity, $ 39-3). E tale definizione è quella più frequentemente
seguita nella logica contemporanea. Ovviamente, pertanto, la nozione del P. in
questo senso implica un concetto ben definito della impossibilità, cioè della
contraddi- zione o falsità logica. Ma questo concetto non sembra a disposizione
dei logici, stante il loro disaccordo sulla nozione contraria e complementare a
quella di impossibilità, cioè sulla nozione di necessità (v.). Ovviamente da
questo punto di vista l’opposto del possibile è l’impossibile. 2° La
definizione del P. come possibilità reale è quella che identifica il P. stesso
col potenziale (v.), e che vede nel potenziale ciò che è destinato infalli-
bilmente a realizzarsi. Fu per questa interpretazione che Diodoro Crono, il
famoso filosofo di Megara, af- fermava, con l'argomento vittorioso (v.), che
tutto ciò che è P. si realizza e che ciò che non si realizza non è P. (ARIST.,
Mer., 9, 3, 1046 b 29 sgg.; EPITTETO, Diss., II, 19, 1; CicERONE, De Fato, 6
sgg.). Diodoro Crono derivava da questo principio la tesi della necessità di
tutto ciò che è: nulla di ciò che è stato, è o sarà, ha potuto, può o potrà
essere diverso da come è stato, è o sarà. Ma lo stesso Aristotele, che
combatteva la tesi di Diodoro Crono facendo leva POSSIBILE sugli altri
significati di P., ammetteva talora il teorema fondamentale proprio di questa
concezione della possibilità: « Non può esser vero che qualcosa è P. ma non
sarà; giacchè in tal caso non vi sarebbero impossibilità » (Mer., IX, 4, 1047 b
3). Questa concezione del P. fu fatta propria dalla Scolastica araba a partire
da Avicenna. La divisione di Avi- cenna tra l’essere necessario e l’essere P. è
infatti la divisione tra ciò che deriva il suo essere da se stesso (e questo è
Dio) e ciò che deriva il suo es- sere da altro (e queste sono le cose create).
Ciò che è P., da questo punto di vista, è tale finchè non è nulla; appena
comincia ad essere, questo è segno che sono presenti futte le condizioni o le
cause del suo essere ed esso è diventato necessario: s'intende, necessario per
altro (Met., II, 1-2; ALGAZEL, Mer., I, 8; ecc.). Questo «necessario per altro
» era il contingente (v.). Questa dottrina è stata molte volte ripetuta nella
storia della filosofia. Una delle sue migliori espres- sioni fu data da Hobbes:
«È impossibile l’atto per la cui produzione non ci sarà mai una potenza piena.
Poichè la potenza piena è quella nella quale concorrono tutte le condizioni che
si richiedono per produrre l’atto, se non ci sarà mai la potenza piena,
mancherà sempre qualcuna delle condizioni senza le quali l’atto non può
prodursi: sicchè questo atto non potrà mai prodursi, cioè sarà un atto
impossibile. L'atto che non è impossibile, è possi- bile. Perciò ogni atto P.
deve verificarsi ogni tanto: se non si verificasse mai, mai concorrerebbero
tutte le condizioni che si richiedono alla produzione di esso e sarebbe quindi,
per definizione, un atto im- possibile, il che è contro l'ipotesi» (De Corp.,
10, $ 4). Questa elaborazione del concetto di P. non è che la ripetizione
dell'argomento vittorioso di Dio- doro Crono: argomento che ricorre ogni volta
che si riduce il P. a una pofenzialità cui debbano essere presenti tutte le
condizioni di realizzazione e che perciò è destinata infallibilmente a
realizzarsi. Questo è il concetto che del P. aveva Hegel: il quale distingueva
dalla mera possibilità, che è «la vuota astrazione della riflessione in sè »
cioè una semplice rappresentazione soggettiva, la possibilità reale che si ha
quando si danno tutte le condizioni di una cosa sicchè la cosa deve diventare
reale: possibilità reale che, come è ovvio, non si di- stingue dalla necessità
(Enc., $ 147). La nozione della possibilità reale in questo senso è spesso ado-
perata dai seguaci di Hegel, sia idealisti che marxisti. Spesso questa nozione
è stata adoperata per desi- gnare la predeterminazione degli eventi storici
nelle loro condizioni e quindi per fondare la possi- bilità di una previsione
infallibile dei futuri sviluppi della storia. Così ha usato il concetto G.
Lukàcs (Geschichte und Klassenbewusstsein, 1923; tradu- POSSIBILE zione
francese, 1960, pag. 104 sgg.). Nello stesso significato di potenzialità il
concetto viene assunto in un libro di S. Buchanan nel quale la possi- bilità è
definita come «l’idea regolativa per l’ana- lisi del tutto nelle sue parti » e
le parti sono defi- nite come «le potenzialità del tutto » (Possibility, 1927,
pag. 81 sgg.). Infine, l’ultima illustrazione di questo concetto è la
cosiddetta «legge modale fondamentale» di N. Hartmann, che comprende le sei
tesi seguenti: « 1° ciò che è realmente P. è anche realmente effet- tuale; 2°
ciò che è realmente effettuale è anche realmente necessario; 3° ciò che è
realmente P. è anche realmente necessario e reciprocamente; 4° ciò il cui non
essere è realmente P. è anche real- mente ineffettuale; 5° ciò che è realmente
ineffettuale è anche realmente impossibile; 6° ciò il cui non essere è
realmente possibile è anche realmente impossibile + (Moglichkeit und
Wirklichkeit, 1938, pag. 126). Queste tesi non sono altro che la riduzione
esplicita del concetto di possibilità reale al concetto di necessità: riduzione
contro la quale veramente non si saprebbe trovare alcuna obiezione. Fa parte di
questa nozione del P. la riduzione del concetto di P. o all’ignoranza o ad un
fantasti- care post factum. La prima via fu seguita da Spinoza: « Chiamo P., le
cose singolari, egli disse, in quanto, considerando le cause da cui debbono
essere prodotte, ignoriamo se esse siano determinate a produrle » (Et., IV,
def. 4; Cogit. Met., I, 3). La seconda via è quella tenuta da Bergson: «Il P. è
il miraggio del presente nel passato; e giacchè sappiamo che l’avvenire finirà
per farsi presente e l’effetto del miraggio continua a prodursi, noi diciamo
che nel nostro presente attuale, che sarà il passato di domani, l’immagine del
domani è già contenuta, sebbene non arriviamo ad attin- gerla. Qui sta precisamente l’illusione
+ (« Le pos- sible et le réel», 1930, in La pensée et le mouvant, 38 ediz.,
1934, pag. 128). Secondo questo concetto, l’opposto del P.
è il reale o attuale. 3° Il terzo concetto del P. è quello della pos- sibilità
oggettiva, che risale a Platone. La possi- bilità di agire o di subire
un’azione fu da Platone assunta come la stessa definizione dell’essere in
generale (v. EsseRE) contro i materialisti da un lato e gli idealisti
dall’altro. « Dico che esiste tutto ciò che ha per natura la possibilità di
fare una cosa qualunque o di subire un’azione (e sia pure tutto ciò in misura
piccolissima e per una volta sola e rispetto alla cosa più insignificante). E
pongo perciò questa definizione: gli enti non sono altro che possibilità »
(Sof., 247 e). Aristotele definiva la possibilità in questo senso come «ciò che
può essere vero + (Mer., V, 12, 1019b 32). E S. Tom- maso difendeva questa
possibilità contro il neces- 685 sitarismo arabo: « Il P. o contingente che si
oppone al necessario ha questo nel suo concetto, che non deve realizzarsi
necessariamente quando non è: giacchè esso non segue necessariamente dalla sua
causa +» (Contra Gent., III, 86). Ockham includeva lo stesso concetto tra i
significati del termine P., come « ciò che non è in atto e tuttavia può essere
» o che « non è nè necessario nè impossibile » (Summa Log., II, 25). Il
concetto leibniziano del compossi- bile (v.) non è che un’altra espressione di
questa stessa nozione della possibilità, la quale veniva difesa da Kant fin dal
periodo precritico, quando mostrava, in contrasto con la scuola wolffiana,
l’insufficienza del concetto di possibilità logica. « Che vi sia una
possibilità e che tuttavia non vi sia nulla di reale, è contraddittorio,
osservava Kant; giacchè, se non esiste nulla, neppure è dato nulla che sia
pensabile e ci si contraddice se ancora si vuole che ci sia qualcosa di P. »
(Der einzig mògliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, I,
2, 2). O, in altri termini, « col togliere il materiale e i dati a ogni P.,
viene anche negata ogni possibilità » (/bid., I, 2, 3). Kant sembra qui negare
perfino la legittimità della nozione di P. logico. Altrove, ammette anche
questa possibilità: « Il con- cetto è P. tutte le volte che non si contraddice.
Questo è il carattere logico della possibilità e con ciò il suo oggetto è
distinto dal niki! negativum. Ma esso non può essere un concetto vuoto...
Questo è un ammonimento a non conchiudere senz'altro dalla possibilità (/ogica)
dei concetti alla possibilità (reale) delle cose (Crit. R. Pura, Dialettica,
II, cap. 3, sez. 4, nota [A 597, B 625]). La possibilità oggettiva o reale è
dunque fondata sui dati della esperienza ed è una possibilità che l’esperienza
sola, e non già il semplice concetto, autorizza ad ammettere. Non si tratta
tuttavia di una possibi- lità reale nel senso di cui al 2° cioè di una poten-
zialità destinata infallibilmente a realizzarsi: «Le proposizioni che le cose
possono essere P. senza essere reali e che perciò non si possa concludere dalla
possibilità alla realtà, valgono giustamente per la ragione umana» (Crif. del
Giud., $ 76). Kant chiama reale o trascendentale la possibilità che si fonda
sui dati dell’esperienza ma non la identifica con la necessità: essa significa
solo che al concetto può corrispondere un oggetto (Critica R. Pura, Analitica
dei Princ., cap. III [A 244, B 303)). Se Kant insisteva sulla connessione del
P. og- gettivo con l’esperienza, Kierkegaard insisteva, in polemica con Hegel,
sull’indeterminazione del P. stesso. Rispondendo negativamente alla domanda se
il passato sia più necessario dell’avvenire, Kierke- gaard afferma che il P.
non diventa necessario per il fatto che si realizza, ma rimane P.: «Il passato
686 non è necessario nel momento in cui diviene; non è divenuto necessario
divenendo (che sarebbe una contraddizione); e lo diviene ancora meno attra-
verso l’intendimento della persona ». In questo caso infatti il passato
guadagnerebbe ciò che l’intelletto perderebbe: cioè non sarebbe inteso per
quello che è, ma per un’altra cosa (Philosophische Brocken, IV, Intermezzo, $
4; trad. franc. pag. 162 sgg.). L’in- tera speculazione di Kierkegaard è
fondata su questa nozione della possibilità oggettiva e inde- terminata, mediante
la quale egli illustra le nozioni di angoscia (v.) e di disperazione (v.).
Talvolta tut- tavia lo stesso Kierkegaard fa uso di espressioni che non sono
rigorosamente compatibili con l’in- determinazione oggettiva delle possibilità,
come, ad es., «Ogni cosa è P.» o «tutte le possibilità ». Considerando le
possibilità come infinite si viene ad escludere la loro indeterminazione e
limitazione: difatti ciò che manca a una di esse per realizzarsi
infallibilmente può essere sopperito dalle altre, se sono infinite; e le
possibilità si trasformano allora in potenzialità necessarie. Nella filosofia
contemporanea tuttavia il concetto di possibilità oggettiva viene inteso nel
suo senso empiricamente determinato e finito. Peirce parla di « possibilità
sostanziali » (in opposizione alle possi- bilità logiche) come quelle che sono
fondate su informazioni che concernono i fatti e le loro leggi; e ritiene che
tali possibilità coinciderebbero con la necessità solo nell'ipotesi di
un’informazione onni- sciente (Coll. Pap., 4.67). Dewey intende la possi-
bilità, nell’ambito della matematica e in generale della ricerca scientifica,
come possibilità di operazioni o di trasformazioni (Logic, XV e XX, 3). Witt-
genstein afferma che la possibilità è ciò che viene espresso da una
proposizione sensata; in quanto questa è distinta dalla tautologia, la
proposizione della logica o della matematica, che «non dice nulla », e dalla
contraddizione (Tractatus, 5.525). In altri termini, la proposizione sensata
non è altro, per Wittgenstein, che l’espressione della possibilità di un fatto.
Lukasiewicz e Tarski hanno formulato i principi di una logica del P., diretta a
evitare il determinismo (vedi i testi citati in TERZO ESCLUSO, PrincIPIO DEL).
Reichenbach ha a sua volta distinto, dalla possibilità logica, la possibilità
fisica e la possibilità tecnica: la prima significa qualcosa che non
contraddice alle leggi empiriche e la seconda qualcosa che è dentro il regno
dei metodi pratici conosciuti (« Verifiability Theory of Meaning », in Proceedings
of the American Academy of Arts and Sciences, 1951 [80°], pag. 53). Egli ha
inoltre posto la possibilità fisica a fondamento della probabilità (Theory of
Probability, $ 74). Ma è chiaro che questo punto di vista può essere
generalizzato e che una possibilità oggettiva può essere individuata POSSIBILE
soltanto in un particolare contesto, cioè sulla base delle condizioni o delle
regole che vigono in un campo determinato. Ad es., per ciò che riguarda l’uomo,
la possibilità fisica che egli ha di effettuare un’azione determinata non
coincide necessariamente con le possibilità giuridiche o morali che gli sono
offerte dal sistema sociale in cui vive. Molte possibilità che il suo organismo
fisico gli consente di mandare ad effetto gli sono precluse dalle regole
giuridico-morali. Per ogni possibilità oggettiva, quindi, è indispensabile il
riferimento a un contesto di condizioni e di regole tecniche de- terminate e
non si può parlare di possibilità senza specificare questo contesto se non
dando luogo ad equivoci. Lo stesso vale, del resto, anche nel do- minio delle
scienze: una possibilità logico-matema- tica non sempre è una possibilità
fisica cioè tale che può essere mandata ad effetto in base alle leggi della
fisica, e via dicendo (cfr. J. R. Lucas, The Concept of Probability, 1970, pag.
6 e passim). Nel campo della metodologia storiografica, la nozione di
possibilità oggettiva fu chiarita indi- spensabile da Max Weber (Kritische
Studien auf den Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906; cfr.
specialmente la seconda parte; trad. ingl., in The Methodology of the Social
Sciences, pag. 164sgg.; trad. ital., in Z/ metodo delle scienze
storico-sociali, pag. 207 sgg.); e viene adoperata anche nelle più recenti
trattazioni (ad es., W. Dray, Laws and Explanation in History, 1957, VI, 3;
cfr. STORIA; STORIOGRAFIA). Nel campo delle scienze biologiche la nozione è
stata utilizzata da Goldstein (Der Aufbau des Organismus, 1934; trad. franc.,
1951); e tende ad essere utilizzata nel dominio psichiatrico (cfr., ad es., M.
TORRE, « La categoria del possibile in psicopatologia », in Note e Riviste di
psichiatria, 1957). Inoltre la genetica e la teoria dell'evoluzione fa un uso
continuo di questo concetto designandolo talvolta con altro nome (per es., con
il nome di opportunità; cfr. G. Simpson, The Meaning of Evo- lution, cap. XII,
« The Opportunism of Evolution »). Nella psicologia del comportamento il
concetto è stato usato per definire la stessa nozione di cosa (v.). Nella
sociologia, i concetti che implicitamente o esplicitamente fanno ricorso alla
nozione del P. sono i più numerosi. Lévy-Bruhl ha parlato del «limite del P.»
come costitutivo dell’esperienza razionale, perciò come deficiente o assente
nella mentalità primitiva (Les cernets, 1949; trad. ital., pag. 98 sgg.).
L’intera teoria della probabilità, comunque venga interpretata, assume a suo
fon- damento questa stessa nozione del P. (cfr., ad es., REICHENBACH, Theory of
Probability, $ 74; e Popper, che parla della probabilità come di un « vettore
nello spazio delle possibilità »; v. PROBABILITÀ). Infine è quasi superfluo
ricordare l’importanza che POTENZA la nozione di possibilità oggettiva ha per
la filosofia esistenzialistica che trova in essa il suo principale strumento di
analisi (v. EsISTENZIALISMO). È chiaro che secondo questa terza interpretazione
l'opposto del P. non è l’impossibile ma il non-possibile. POSSIBILITÀ. V.
PossIsiLe. POST HOC ERGO PROPTER HOC. Ce- lebre fallacia (v.), costituente un
caso particolare della fallacia non causa pro causa (cfr. ARISTOTELE, Soph.
El., 5, 167 b), la quale consiste nello stabilire una connessione causale,
quindi necessaria, sulla base di una connessione meramente accidentale o
secondaria. Nel caso del post hoc ergo propter hoc, il sofisma consiste nello
stabilire, per il semplice fatto che B viene dopo A, una connessione di causa
ed effetto tra A e B. G.P. POSTPREDICAMENTII (gr. pera tds xamrvoplas; lat.
Postpredicamenta; ingl. Postpredica- ments; franc. Post-prédicaments; ted.
Postpràdika- mente). Con questo termine cominciarono ad essere chiamati dai
commentatori di Aristotele (per es., da Filopono, vi secolo, In Car., 39a, 33)
quei concetti che Aristotele annunziò dopo le categorie nel libro che a queste
s'intitola e cioè quelli di opposizione (oppositio) di priorità (prius), di si-
multaneità (simul), di movimento (motus) e di avere (habere) (Cat., 10-15). Per
tali concetti vedi le relative voci. POSTULATO (gr. attua; lat. Postularum;
ingl. Postulate; franc. Postulat; ted. Postulat). In generale una proposizione
la quale si ammette, o si chiede che sia ammessa, allo scopo di rendere
possibile una dimostrazione o un procedimento qualsiasi. Il termine è nato
nelle matematiche ed è stato illustrato da Aristotele correlativamente a quello
di assioma (v.). Mentre gli assiomi sono di per sè evidenti e vanno ammessi
necessariamente pur non essendo dimostrabili, il P., pur essendo dimostrabile,
viene assunto e utilizzato senza di- mostrazione. Il P. inoltre è una
proposizione che non è già ammessa o creduta da colui al quale si rivolge
(altrimenti sarebbe inutile chiedergli di am- metterla); ed in questo
differisce dall’iporesi (v.) che è anch’essa una proposizione dimostrabile, non
dimostrata, ma ritenuta vera da colui al quale il discorso si rivolge (An.
Post., 10, 76b 24 sgg.). La distinzione tra assiomi e P. fu fatta propria da
Euclide nei suoi Elementi: mentre gli assiomi esprimono verità evidenti e sono
chiamati da Eu- clide nozioni comuni, i P. esprimono ciò che si richiede di
ammettere e concernono l’esistenza di determinati elementi geometrici. La
distinzione tra P. e assioma è venuta meno nella logica e nella matematica
moderna (v. ASSIOMATICA). Kant chiamò « P. del pensiero empirico » i prin- cipi
a priori corrispondenti alle categorie della mo- 687 dalità, secondo i quali ciò
che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza (intuizioni pure e
categorie) è possibile; ciò che si accorda con le condizioni materiali
dell’esperienza (con le sensa- zioni) è reale; e ciò la cui connessione con la
realtà è determinata secondo le condizioni universali del- l’esperienza è o
esiste necessariamente (Cri?. R. Pura, Analitica dei principi, cap. II, sez.
III, 4). Chiamò poi «P. della ragione pratica» le condizioni che ren- dono
possibile la moralità, cioè la libertà, l’immor- talità e l’esistenza di Dio
(Crit. R. Pratica, Dialet- tica, sez. II). POTENZA (gr. Sévapis; lat. Porentia;
inglese Power; franc. Puissance; ted. Vermògen). 1. In generale il principio, o
la possibilità, di un muta- mento qualsiasi. Questa fu la definizione data da
Aristotele del termine. Aristotele stesso distinse questo significato
fondamentale in vari significati specifici e precisamente: a) la capacità di
effettuare un mutamento in altro o in se stesso, che è la P. attiva; b) la
capacità di subire un mutamento, da altro o da se stesso, che è la P. passiva;
c) la capacità di mutare o essere mutato in meglio piut- tosto che in peggio;
d) la capacità di resistere a qualsiasi mutamento (Mer., V, 12, 1019 a 15; IX,
1, 1046 a 4). Queste distinzioni sono rimaste pressochè immutate nella
tradizione filosofica (v. ATTO). L’in- tera tradizione medievale le ha ripetute
senza va- riazioni e ancora nel sec. xv Wolff le ripeteva in formule
epigrafiche che nulla mutano ai vecchi concetti (Ontologia, 1729, $ 716). Locke
stesso, nella sua analisi famosa della nozione, non ne aveva alterato il
concetto (Saggio, II, 21, 1). Il concetto implica tuttavia un’ambiguità fonda-
mentale perchè può essere inteso: A) come possi- bilità; B) come preformazione
e quindi predeter- minazione o preesistenza dell’attuale. In Aristotele e in
tutti coloro che si rifanno alla metafisica ari- stotelica i due significati
sono entrambi presenti e vengono spesso confusi. Così quando Aristotele difende
il concetto della potenza contro la nega- zione che ne aveva fatto Diodoro
Crono (v. Pos- SIBILITÀ), intende la P. nel senso A); mentre quando afferma «
che non può essere vero dire che qualcosa è possibile ma non sarà» (Mer., IX,
4, 1047 b 3); o quando afferma la superiorità del- l’atto sulla P. in base al
principio che, senza l’atto, la P. non sarebbe (non ci sarebbe l’uovo senza la
gallina), egli intende la P. come preformazione e predeterminazione e la
considera come un modo d'essere diminuito o preparatorio dell'atto (/bid., IX,
8, 1049 b 4). Una confusione analoga si trova nel saggio di Bergson «Il
possibile e il reale» (1930), giacchè in esso Bergson, respingendo il concetto
di possibile come « non impossibile » cioè come « non impedito ad essere » lo
identifica invece 688 con quello di potenziale e considera il potenziale come
«il miraggio del presente nel passato » (La pensée et le mouvant, 3* ediz.,
1934, pag. 128-30). Poichè il concetto di potenziale fa costantemente
riferimento all'attualità o realtà, mentre quello di possibile non ha
necessariamente questo riferi- mento, le nozioni di preformazione, preesistenza
e predeterminazione possono essere considerate stret- tamente connesse con
quella di potenza. 2. Facoltà o potere dell’anima (v. FACOLTÀ). 3. Dominio o
predominio, come nell’espressione «volontà di P.». POTENZIAMENTO, LOGICA DEL.
Un tentativo di logica simbolica consistente nell’elimi- nazione delle leggi di
tautologia e di assorbimento e nell’introduzione dei simboli di potenza e di
coef- ficiente. Questo tipo di logica dovrebbe fondarsi sul principio che ogni
relazione modifica gli enti rela- tivi: principio che è il contrario di quello
solitamente ammesso dalla logica simbolica contemporanea (cfr. P. Mosso,
Principi di logica del P., Torino, 1924; A. PASTORE, La logica del P., Napoli,
1936). POTERI DELLO STATO. V. Srato. PRAGMATICA (ingl. Pragmatics; franc. Prag-
matique; ted. Pragmatik). Una delle parti della semiotica (v.) e precisamente
quella che comprende l'insieme delle ricerche che hanno per oggetto la
relazione dei segni con gli interpreti, cioè la situa- zione in cui il segno
viene usato. Su questo aspetto della semiotica avevano già insistito C. S.
Peirce e Ogden e Richards; ma è stato soprattutto Morris a considerare la P.
come parte integrante della semiotica; e il punto di vista di Morris è
largamente accettato nella logica contemporanea (cfr. C. MORRIS, Foundations of
the Theory of Signs, 1938, cap. V; CARNAP, Foundations of Logic and
Mathematics, 1939, $ 2). Le altre parti della semiotica sono la semantica e la
sintassi (v.). PRAGMATICO (gr. rpaypatiw6c; ingl. Pragma- tic; franc.
Pragmatique; ted. Pragmatisch). L'agget- tivo fu usato per la prima volta da
Polibio che distinse nettamente la storia « P.», che si occupa di fatti, dalla
storia che si occupa di leggende, come fa quella che parla della genealogia
delle famiglie e della fon- dazione delle città (IX, 1, 4). Polibio aggiunge
pure che la storia P. è la più utile a insegnare come l’uomo debba regolarsi
nella vita associata. L'agget- tivo ha poi avuto un uso frequente nella storia
poli- tica specialmente tedesca, a proposito di decisioni costituzionali delle
quali si voleva sottolineare il carattere meritorio e che perciò erano dette
«sanzioni P.+. Kant diceva: «Si chiamano P. le sanzioni che non derivano
propriamente dai diritti degli stati considerati come leggi necessarie ma da
sollecitudine per il benessere generale. Una storia è composta pragmaticamente
quando rende POTENZIAMENTO, LOGICA DEL prudenti cioè quando insegna alla
società di oggi come possa procurarsi il proprio vantaggio meglio o almeno
altrettanto bene della società di ieri» (Grundlegune zur Metaphysik der Sitten,
II, Nota). A sua volta Kant chiama P. gli imperativi ipotetici della prudenza,
che hanno in vista il benessere (Ibid., JI, Nota). Chiama P. la fede che è
fondata su un giudizio soggettivo della situazione, per es., quella di un
medico che non conosce bene la malattia che deve curare (Crit. R. Pura,
Dottrina del metodo, cap. 2, sez. 3). E chiama P. la sua antropologia in quanto
considera non ciò che l’uomo è per natura, ma ciò che l’uomo stesso fa di sè
(Antr., Pref.). Nel linguaggio contemporaneo la parola ha ripreso il suo senso
originario. Quando non si rife- risce a pragmatismo, designa semplicemente ciò
che è azione o appartiene all’azione. PRAGMATISMO (ingl. Pragmatism, Pragma-
ticism; franc. Pragmatisme; ted. Pragmatismus). 11 termine venne introdotto in
filosofia nel 1898 da una relazione di W. James alla California Union nella
quale James si riferiva alla dottrina esposta da Peirce in un saggio del 1878
intitolato « Come render chiare le nostre idee ». Alcuni anni più tardi Peirce
dichiarava di avere inventato il nome P. per la teoria che «una concezione,
cioè il significato razio- nale di una parola o di altra espressione, consiste
esclusivamente nella sua portata concepibile sulla condotta della vita»; e di
aver preferito questo nome a praticismo o praticalismo perchè questi ultimi,
per chi conosce il senso che la filosofia kantiana attribuisce a « pratico +,
fanno riferimento al mondo morale dove non ha luogo l’esperimento, mentre la
dottrina proposta è per l’appunto una dottrina sperimentalistica. Tuttavia
nello stesso arti- colo Peirce dichiarava che, di fronte all'estensione di
significato che il P. aveva ricevuto ad opera di W. James e di F. C. S.
Schiller, preferiva il termine pragmaticismo per indicare la sua propria conce-
zione, strettamente metodologica, del P. (« What Pragmatism Is +, The Monist,
1905; Coll. Pap. 5. 411-37). Lo stesso Peirce veniva in tal modo a distinguere
due versioni fondamentali del P. che possono essere così caratterizzate: 1° un
P. meto- dologico che è sostanzialmente una teoria del signi- ficato; 2° un P.
metafisico che è una teoria della verità e della realtà. 1° Il P. metodologico
non intende definire la verità o la realtà ma soltanto una procedura per
determinare il significato dei termini o meglio delle proposizioni. Diceva
Peirce nell’articolo del 1878 che solitamente si assume come la data di nascita
del P.: « È impossibile avere nella mente un’idea che si riferisca ad altro che
agli effetti sensibili delle cose. La nostra idea di un oggetto è l’idea dei
suoi effetti sensibili... Sicchè la regola per PRAGMATISMO raggiungere l’ultimo
grado di chiarezza nell’ap- prensione delle idee è la seguente: Considerare quali
sono gli effetti, i quali possono concepibil- mente aver portata pratica, che
l’oggetto della nostra concezione pensiamo che abbia. La concezione di questi
effetti è l’intera nostra concezione dell’og- getto » (Chance, Love and Logic,
1, 2,$3; Coll. Pap., 5.401-2). Il principio da cui discende questa regola
metodologica è che « l’intera funzione del pensiero è quella di produrre abiti
di azione » cioè credenze. La regola proposta da Peirce era pertanto suggerita
dall’esigenza di trovare un procedimento sperimen- tale o scientifico per
fissare le credenze; intendendo per procedimento scientifico o sperimentale
quello che non fa ricorso al metodo dell'autorità o al me- todo a priori
(Ibid., I, 1, $ 2, pag. 9 sgg.). Allo stesso tipo di P. si può dire appartenga
quello di Dewey che, per evitare ogni equivoco, preferì il termine
strumentalismo (v.). «L'essenza dello strumenta- lismo pragmatico, egli
scrisse, è quella di concepire sia la conoscenza sia la pratica come mezzi per
rendere sicuri, nell'esistenza sperimentata, i beni, cioè le cose eccellenti di
qualsiasi specie» (7he Quest for Certainty, 1929, pag. 37). Da questo punto di
vista Dewey condivideva lo sperimentali- smo di Peirce perchè riteneva che « la
sperimenta- zione entra nella determinazione di ogni proposi- zione garantita »
(Logic, 1939, pag. 461); e metteva in luce il carattere strumentale od
operativo di tutti i procedimenti del conoscere, considerati come mezzi per
passare da una situazione indeterminata a una situazione determinata cioè nello
stesso tempo distinta e unificata (Logic, cap. VI). Sono pertanto abbastanza
ovvie le parentele strettissime di questo tipo di P. da un lato con la
metodologia scientifica contemporanea e in particolare con l’operazio- nismo
(v.) e dall’altro lato con le impostazioni fon- damentali della logica
simbolica. Su quest’ultimo aspetto, insistettero i pragmatisti italiani
Giovanni Vailati e Mario Calderoni. Il primo osservava a questo proposito che
il fondamentale punto di contatto tra logica e P. «sta nella loro comune
tendenza a riguardare il valore, e il significato stesso, di un’asserzione come
qualche cosa di inti- mamente connesso all'impiego che si può o si desi- dera
farne per la deduzione e la costruzione di determinate conseguenze o gruppi di
conseguenze » (« Pragmatismo e logica matematica » 1906, in // me- todo della
filosofia, pag. 198). Queste parole defi- niscono bene il carattere funzionale
del P. di ispi- razione metodologica. 2° La concezione del P. metafisico è
quella di W. James e di F. C. S. Schiller e le sue tesi fonda- mentali
consistono nel ridurre la verità a utilità e la realtà a spirito. La seconda di
queste tesi, il P. metafisico la condivise con buona parte della filo- 44 689
sofia contemporanea; e James stesso riconobbe e vantò l’accordo sostanziale
della sua filosofia con quella degli spiritualisti francesi e specialmente di
Bergson. La prima tesi è quella caratteristica di questa forma di pragmatismo.
Il suo presupposto è il principio che essa ha in comune col P. meto- dologico:
la strumentalità del conoscere. Ma questo presupposto viene inteso e realizzato
da essa in forma totalmente diversa. In primo luogo, essa cerca di mettere in
luce la dipendenza di tutti gli aspetti della conoscenza (o del pensiero) dalle
esi- genze dell’azione e pertanto dalle emozioni in cui tali esigenze si
concretano. Anche la « razionalità » è, secondo James, una specie di sentimento
(« Il sen- timento della razionalità » in The Will to Believe, 1897). Da questo
punto di vista, le azioni e i desideri umani condizionano la verità: ogni tipo
di verità, anche quella scientifica. Pertanto non è legittimo, da questo punto
di vista, rifiutarsi di credere a dottrine che sono in grado di esercitare
un’azione benefica sulla vita dell'uomo, per il fatto che queste dottrine non
sono appoggiate da prove ra- zionali sufficienti. In casi come questi bisogna
correre, affermava James, il rischio di credere. E F. C. S. Schiller portava
alle estreme conseguenze questa dottrina riesumando il detto di Protagora
«l’uomo è misura di tutte le cose» e affermando la relatività della conoscenza
rispetto all’utilità per- sonale o sociale (Humanism, 1903). Mentre Schiller si
fermava a questo relativismo, James dava il varco, attraverso di esso, al
teismo e alle dottrine spiritua- listiche tradizionali, sul fondamento che esse
sono utili all’azione e benefiche alla vita umana. E per quanto cercasse di
limitare il dogmatismo di queste dottrine, insistendo $ul carattere
pluralistico del- l’universo (v. PLURALISMO) e sul carattere finito della divinità
(v. Dio), il P. fu per lui essenzialmente una via d’accesso alla metafisica
tradizionale. Uno dei motivi che James adduceva per giustificare l’esercizio
della volontà di credere è che la credenza può produrre la propria
giustificazione: così ac- cade talvolta nei rapporti umani quando il credere
che un tale ci sia amico, ci fa comportare amiche- volmente verso di lui e ce
ne procura l'amicizia. Difficilmente si può fare un uso teologico o meta-
fisico di questa proposizione; essa è tuttavia di- ventata un teorema
abbastanza importante della sociologia contemporanea. Per tutto il resto,
mentre il P. metodologico ha trovato la sua continuazione negli studi di logica
e di metodologia e in alcune correnti del neo-empirismo, il P. gnoseologico ha
confluito nelle correnti spiritualistiche (confronta H. W. ScHnemER, A History
of American Phi- losophy, 2* ediz., 1957). A questo P. metafisico si
riconnettono le altre manifestazioni che il P. ha avuto fuori del mondo 690
anglosassone. In primo luogo si riconnette ad esso la filosofia di Hans
Vaihinger esposta nell’opera Filosofia del come se (Philosophie des Als Ob,
1911), nella quale afferma il carattere fittizio di ogni cono- scenza e il
carattere biologico della preferenza ac- cordata a una conoscenza piuttosto che
all’altra. Si riconnette ad esso anche il P. pluralistico di A. Aliotta (La
guerra eterna e il dramma dell’esi- stenza, 1917) che ha le stesse
accentuazioni spiri- tualistiche del P. di James (cfr. dell’ALIOTTA, // sa-
crificio come significato del mondo, 1947). E infine ci si riconnette il
fideismo pragmatistico di Michele De Unamuno quale si trova esposto nel
Commento al Don Chisciotte (1905) e nel Sentimento tragico della vita (1913); e
di Giuseppe Ortega y Gasset (Il tema del nostro tempo, 1923; Intorno a Galileo,
1933; Storia come sistema, 1935, ecc.); che però, soprattutto negli ultimi
scritti, rivela l’influenza dell’esistenzialismo di Heidegger. PRASSIOLOGIA
(ingl. Praxiology; francese Praxéologie). Termine creato da Kotarbifisky per
designare «la teoria generale dell’attività efficace » che dovrebbe comprendere
la totalità dei domini dell’attività utile dei soggetti agenti, dal punto di
vista dell’efficacia delle loro azioni (Praxiology, An Introduction to the
Science of Efficient Action, Oxford, 1965; l’opera polacca originale è del
1955). V. TECTOLOGIA. PRATICO (gr. rpaxtxéc; lat. Practicus; in- glese
Practical; franc. Pratique; ted. Praktisch). In generale, ciò che è azione o
concerne l’azione. Ci sono tre significati diversi: 1° ciò che dirige l’azione;
2° ciò che è traducibile in azione; 3° ciò che è razionale nell’azione. 1° Il
primo significato è*quello filosofico tra- dizionale. Platone già distingueva
la scienza pratica (per es., l'edilizia) che è quella «insita per sua natura
nelle azioni» da quella conoscitiva (come l’aritmetica) che è priva di
riferimento all’azione (Pol., 258 d-e). Aristotele a sua volta diceva che 4
nelle scienze P. l’origine del movimento è in qualche decisione di chi agisce
perchè ‘P.” e ‘ scelto * sono la stessa cosa » (Mer., VI, 1, 1025 b 22). Le
scienze P. erano per Aristotele la politica, l’economia, la retorica e la
scienza militare; e della politica è parte fondamentale l’etica (Ef. Nic., I,
2, 1094 b). Questo significato è rimasto uniforme nella tra- dizione
filosofica. Ad es., il significato in cui S. Tommaso diceva che la teologia è
parzial- mente scienza pratica (S. Th., I, q. 1, a. 4) e quello in cui Duns
Scoto diceva che essa è totalmente scienza P. (Op. Ox., Prol. q. 4, n. 31) è
quello tradizionale: P. è ciò che dirige l’azione. Simil- mente Wolff definiva
la filosofia P. come la scienza che « dirige le azioni libere mediante re- gole
generalissime» (Philos. practica, $ 3), e la PRASSIOLOGIA divideva, come
Aristotele, in Etica, Economia e Politica. Questo significato prevale nell’uso
filo- sofico del termine. 2° Nel secondo significato, che appartiene al
linguaggio comune più che a quello filosofico, P. è ciò che è facilmente o
immediatamente traduci- bile in azione, nel senso, ad es., che può aver suc-
cesso 0 procurare vantaggio. In questo senso un'idea si dice « P.» perchè può
avere realizzazione e può condurre al successo. Uomo P. è l’uomo che ha idee
P., cioè idee facilmente realizzabili o realizza- bili con probabilità di
vantaggio 0 successo. Questo significato non trova abitualmente posto nel lin-
guaggio filosofico. 3° Il terzo significato è il più ristretto e fu ado- perato
da Kant. Questi infatti intende per P.: « Tutto ciò che è possibile per mezzo
della libertà ». Ma la libertà non ha nulla a che fare con l’arbitrio animale;
così «ciò che è indipendente da stimoli sensibili, quindi può esser determinato
da motivi che non sono rappresentati se non dalla ragione, dicesi libero
arbitrio e tutto ciò che vi si connette, o come principio o come conseguenza, è
detto P. » (Crit. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. II, sez. 1). Quest'uso
ristretto del termine, caratteristico di Kant, non ha avuto seguito. PRAXIS.
Con questo termine (che è la tra- scrizione della parola greca che significa
azione) si designa, nella terminologia marzxistica, sia l’in- sieme dei
rapporti di produzione e di lavoro che costituiscono la struttura sociale, sia
l’azione tra- sformatrice che l’azione rivoluzionaria deve eser- citare su tali
rapporti. Marx diceva che bisogna spiegare la formazione delle idee a partire
dalla « prassi materiale » e che di conseguenza le forme e i prodotti della
coscienza possono essere elimi- nati non già mediante «la critica intellettuale
» ma solo mediante «il rovesciamento pratico dei rap- porti sociali esistenti »
(/4eologia tedesca, 2; tradu- zione ital., pag. 34) (v. MATERIALISMO STORICO).
Per «rovesciamento della P.?, Engels intese la reazione dell’uomo alle
condizioni materiali dell’esistenza, la sua capacità di inserirsi nei rapporti
di produzione e di lavoro e di trasformarli attivamente: questa possibilità è
il capovolgimento del rapporto fonda- mentale tra struttura e sovrastruttura
per il quale è solo la prima (cioè la totalità dei rapporti di pro- duzione e
di lavoro) che determina la seconda cioè l'insieme delle attività spirituali
umane (cfr. ENGELS, Antidihring, 1878). PREAMBULA FIDEI. Così S. Tommaso chiamò
l'insieme di quelle verità la cui dimostra- zione è necessaria alla fede
stessa, tra le quali in primo luogo l’esistenza di Dio (In Boet. de Trinit., a.
3) (v. Dro, Prove DI; TOMISMO). PREANIMISMO. V. Animismo. PREFORMAZIONE
PRECISIONE (ingl. Precision; franc. Pré- cision; ted. Pràcisione). Il
procedimento per il quale si considera la singola parte di un tutto, prescin-
dendo dal tutto e dalle altre parti, in modo da riu- scire a determinarla nei
suoi caratteri propri. Così la P. fu definita dalla Logica di Arnauld (I, 5)
che perciò la considerava come una forma particolare dell’astrazione (v.). Il
risultato di questo procedimento è, ovviamente, l’esatta caratterizza- zione
delle parti di un tutto; e pertanto nel linguaggio corrente, « P.» è diventato
sinonimo di esattezza e « preciso » di esatto. Peirce ha parlato, nel senso
proprio, di astrazione precisiva (v. ASTRAZIONE). PREDESTINAZIONE (lat.
Praedestinatio; ingl. Predestination; franc. Prédestination; tedesco
Pradestination). Nella teologia cristiana, è la scelta che Dio fa degli eletti
cioè di coloro che si salve- ranno: scelta che, secondo Sant'Agostino, è stata
fatta prima della creazione del mondo (De Prae- destinatione, 10). Per i
problemi relativi, v. GRAZIA. La P. è sempre P. alla salvezza; ma è stata
talora anche sostenuta (e condannata dalla Chiesa) la P. doppia cioè quella
alla salvezza e alla dannazione. Tale dottrina fu sostenuta, per es., dal
monaco Godescalco di Corbie e fu combattuta da Hinkmar (rx sec.). In età
moderna la sostennero i Calvinisti (v. PRETERIZIONE). PREDETERMINISMO (ingl.
Predeterminism; franc. Prédéterminisme; ted. Pràdeterminismus). Ter- mine
adoperato da Kant per designare il determi- nismo rigoroso cioè quello secondo
il quale « le azioni volontarie, in quanto avvenimenti di fatto, banno le loro
ragioni sufficienti nel tempo anteriore, il quale, insieme con ciò che
contiene, non è più in nostro potere» (Religion, I, cap. IV, Osserva- zione
generale) (v. IDETERMINISMO). PREDICABILI (gr. xemnyopovpeva; lat. Prae-
dicabilia; ingl. Predicables; franc. Prédicables; ted. Pradicabilien). Gli
universali, in quanto adatti per natura ad essere predicati di più cose.
Porfirio per primo enumerò i cinque universali semplici o primitivi cioè il
genere, la specie, la differenza, il proprio e l’accidente (Isag., 1).
Aristotele aveva enumerati come elementi di ogni proposizione o problema
quattro elementi, cioè la definizione, il proprio, il genere e l’accidente
(Top., I, 4, 101 b 24); ma questa enumerazione, includendo la defini- zione
(che è composta del genere e della specie) non prende in considerazione la
semplicità degli elementi. L’enumerazione di Porfirio rimase classica ed entrò
a far parte integrante della logica tradi- zionale. Non ha avuto seguito invece
la proposta kantiana di chiamare P. i concetti dell'intelletto derivati dalle
categorie: come sarebbero, secondo Kant, i concetti di forza, azione, passione,
derivabili dalla 691 categoria della causalità; di presenza e resistenza,
derivabili dalla categoria della reciprocità; del sorgere, del perire, del
mutare, derivabili dalle categorie della modalità, ecc. (Crit. R. Pura, $ 10).
La nozione è sparita dalla logica contemporanea (v. le singole voci).
PREDICAMENTO. V. CATEGORIA. PREDICATIVO (ingl. Predicative; franc. Pré-
dicatif, ted. Pradicativ). 1. Si chiama P. l’uso del verbo essere come copula
di una proposizione cioè nel suo significato non esistenziale (v. ESSERE). 2.
Si chiama P. una definizione che non è impredicativa nel senso che Poincaré ha
dato a questo termine (v. IMPREDICATIVA, IDEFINIZIONE) € pertanto si chiama P.
anche la teoria che esclude per principio le definizioni impredicative o il
calcolo proposizionale fondato su tale esclusione (cfr., ad es., CHURCH, /ntr.
to Mathematical Logic, $ 58) (v. ANTINOMIA). PREDICATO (ingl. Predicate; franc.
Prédicat; ted. Prédikat). Nella Logica aristotelica la proposi- zione consiste
nell’affermare (o negare) qualcosa di qualcosa: essa quindi si scinde in due
termini essenziali, il soggetto, ossia ciò di cui si afferma (o nega) qualcosa,
e il P. (xamyopovpevov), che è appunto quello che viene affermato (o negato)
del soggetto: così in « Socrate è bianco », ‘ Socrate ’ è il soggetto, ‘bianco’
il predicato. Il quale P. può essere essenziale, proprio, oppure semplice-
mente accidentale. Attraverso Boezio questa dottrina è passata nella Logica
medievale (cfr. Pietro Ispano, 1.07: « Subiectum est de quo aliquid dicitur; praedi-
catum est quod de altero dicitur+) e attraverso questa in tutta la Logica
occidentale. Nella Logica contemporanea, essendo entrata in crisi la conce-
zione predicativa della proposizione (ossia quella concezione che fa consistere
quest’ultima, appunto, nell’attribuzione di un P. ad un soggetto), il ter- mine
« P.» ha un uso alquanto oscillante. Russell (Princ. Math. 13, pag. S1 sgg.) dà
il nome di «P.» alle funzioni proposizionali di primo ordine, cioè quelle che
contengono solo variabili individuali (cioè, va- riabili sostituibili solo con
nomi propri, denotanti individui). Hilbert e Ackermann (Grundzilge der
theoretischen Logik), ritornando in qualche modo all’uso classico, intendono
propriamente con «P.» il funtore di una qualsiasi proposizione funzionale con
una o più variabili. Analogamente, ma con maggiore precisione, Carnap (cfr.,
per es., Ein- fiihrung in die symbolische Logik, 1954, pag. 4 sgg.) usa «P.»
per indicare il simbolo di proprietà o relazioni attribuite ad individui. G.P.
PREDIZIONE. V. PREVISIONE. PREESISTENZA. V. METEMPSICOSI. PREFORMAZIONE (ingl.
Preformation; fran- cese Préformation; ted. Praformation)i. Col nome 692 di
teoria della P. (o preformismo) fu designata nel sec. xvi la teoria sulla
formazione degli or- ganismi secondo la quale gli organi di esso sono già
preformati nell’uovo. Già Malpighi nel 1637 aveva avanzato questa teoria,
riconoscendo che gli organi si trovano preformati nell’uovo, non sotto la forma
che avranno nell’embrione o nell'adulto, ma sotto la forma di filamenti o
stamina ciascuno dei quali è la potenza di un organo particolare (La formazione
del pollo nell’uovo, 1637). Questa teoria venne accettata nel *700 da molti
biologi come Haller, Spallanzani, Bonnet che si chiamavano « ovisti », per
distinguersi dagli « ani- maculisti » che verso la fine del'600 avevano ri-
tenuto che lo spermatozoo fosse un piccolo omiciat- tolo provvisto di tutte le
parti del feto umano. La dottrina della P. veniva accettata da Leibniz il quale
riteneva che «Dio ha preformato le cose in modo che i nuovi organismi non sono
che la conseguenza meccanica di un organismo precedente + (Théod., pref.). Kant
riteneva che, una volta am- messo il principio teleologico per la produzione
degli esseri organizzati, restano solo due ipotesi per spiegare la causa della
loro forma finale: o l’occa- sionalismo, secondo il quale Dio interviene
diretta- mente in ogni nuova formazione organica; o il prestabilismo, secondo
il quale un essere organico produce il suo simile. A sua volta il prestabilismo
può essere o teoria della P. se la generazione si considera come semplice
sviluppo di una forma preesistente; o teoria dell’epigenesi se la generazione
si considera come produzione. Kant non nascondeva la sua simpatia per la teoria
dell’epigenesi in quanto gli sembrava che riducesse di molto, rispetto
all’altra, l'azione delle cause soprannaturali e si prestasse ad una prova
empirica (Crir. del Giud., $ 81). La moderna teoria dell’evoluzione ha
eliminato il fondamento stesso del contrasto tra teoria della P. e teoria
dell’epigenesi (v. EPIGENESI; EvOLU- ZIONE). PREFORMAZIONISMO o PREFORMI. SMO.
V. PREFORMAZIONE. PRELOGICO (franc. Prélogique). Aggettivo introdotto da L.
Lévy-Bruhl per caratterizzare la mentalità dei popoli primitivi in quanto
ritenuta indifferente al principio di contraddizione e fondata sulla
partecipazione (v.) (Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures, 1910, pag. 78 sgg.).
In se- guito Lévy-Bruhl ha abbandonato questo concetto. «Non c'è una mentalità primitiva che si distingua
dall’altra per due caratteri che le sono propri (mistico e P.). C'è una
mentalità mistica più ac- centuata e più facilmente osservabile fra i primitivi
che non nelle nostre società, ma che è presente in tutto lo spirito umano »
(Les carnets, 1949, VI; trad. ital., pag. 161). PREFORMAZIONISMO O PREFORMISMO
PREMESSA (gr. npéraow; lat. Praemissa; ingl. Premise; franc. Prémisse; ted.
Pramisse). Ogni proposizione da cui si inferisce un’altra pro- posizione.
PREMOZIONE (lat. Praemotio; ingl. Pre- motion; franc. Prémotion). Termine
adoperato dai teologi del ’600 per indicare la determinazione fisica, da parte
di Dio, della volontà umana: deter- minazione fisica, che non eliminerebbe la
libertà dell’uomo. Malebranche discusse questa nozione nelle sue Réflexions sur
la P. physique (1705). PRENOZIONE (ingl. Prenotion; franc. Pré- notion; ted.
Vorbegriff). Termine introdotto da Durkheim per indicare i concetti
prescientifici fondati su una generalizzazione imperfetta o fretto- losa, che
F. Bacone chiamava anticipazioni o idoli (Régles de la méthode sociologique,
pag. 23) (v. ANTICIPAZIONE). PRENSIONE (ingl. Prehension). Termine col quale
Whitehead in Process and Reality (1929) ha designato la percezione in quanto
con essa il soggetto apprende o afferra una «entità reale» cioè una cosa o un
evento. In realtà il nome stesso di perce- zione ha già questa connotazione (v.
PERCEZIONE). PREOCCUPAZIONE. V. Cura. PREPERCEZIONE (ingl. Preperceprion; fran-
cese Préperception; ted. Praperzeption). Così talora è stata chiamata la funzione
selettiva che l’attenzione intellettuale esercita sulla percezione sensibile
(cfr., ad es., JAMES, Princ. of Psychol., I, pag. 438-45). PRESCIENZA. V.
TEODICEA. PRESCISSIONE (ingl. Prescission). L’astra- zione « precisiva », che
Peirce distingue dall’astrazione ipostatica, come l’operazione di scelta che è
impli- cita nel più semplice fatto di percezione: in quanto, ad es., percepire
un colore significa prescindere dalla forma e in ogni caso isolare questa
deter- minazione « colore » dalle altre con cui il colore si presenta unito
(Coll. Pap., 1.549 n; 2.428; 4.235) (v. ASTRAZIONE). PRESENTAZIONE (ingl.
Presentation; fran- cese Présentation; ted. Prasentation). Conoscenza immediata
o diretta: percezione o intuizione. Il termine è stato introdotto da Spencer
che distin- gueva la conoscenza presentativa che si ha quando «il contenuto di
una proposizione è la relazione fra due termini entrambi i quali sono
direttamente presenti, come quando pungo il mio dito e sono simultaneamente
conscio della pena e del posto in cui essa è » dalla conoscenza rappresentativa
che è il ricordo o l’immaginazione dell’altra (Prince. of Psychology, $ 423).
Il termine fu accettato da molti psicologi dell’ 800, ma è oggi caduto in
disuso. PRESENTAZIONISMO (ingl. Presentatio- nism; franc. Présentationisme).
Così Hamilton PREVISIONE chiamò il suo «realismo naturale» cioè la dot- trina
secondo la quale la percezione è una rela- zione immediata con l’oggetto
esistente (Disser- tations on Reid, pag. 825). PRESENTE. V. ATTIMO; Ora; TEMPO.
PRESENZA (ingl. Presence; franc. Présence; ted. Anwesenheit). Il termine è
adoperato in due significati principali: 1° l’esistenza di un oggetto in un
certo luogo, per cui ad es., si dice « x era pre- sente alla riunione di ieri
sera»; 2° l’esistenza dell'oggetto in un rapporto conoscitivo immediato;
e così si dice che è presente un oggetto
che è visto o che è dato a una qualsiasi forma di intuizione o di conoscenza
immediata. Nell'ambito del primo significato gli Scolastici distinguevano, a
scopo teologico (cioè per descrivere la presenza di Dio o degli angeli nelle
cose o quella del corpo di Cristo nel pane nel sacramento dell’altare) due
forme di P., quella detta circum- scriptiva per la quale una cosa è tutta in
tutto lo spazio che occupa e parte in ciascuna parte dello spazio; e quella
definitiva per la quale una cosa è tutta nella totalità del suo spazio e tutta
anche in ciascuna parte di questa totalità. La prima P. è un modo d'essere
quantitativo; la seconda esclude ogni quantità (cfr., per es., S. ToMMAsO, S.
7h., I, q. 52, a. 2; OCKHAM, Quodi., VII, q. 19). Heidegger ha chiamato P. o
semplice P. (Vor- handenheit) il modo d'essere delle cose, in quanto diverso
dal modo d’essere dell’uomo che è l’esi- stenza (Sein und Zeit, $ 9). Sartre
invece ha parlato della « P. all’essere del Per-sè » cioè della coscienza, nel
senso che tale presenza implicherebbe che «il Per-sè è il testimone di sè in P.
dell’essere come non essente l’essere »: il che significherebbe che la P.
all’essere è « P. del Per-sè in quanto non è» (L’étre et le néant, pag.
166-67). PRESTABILISMO. V. PREFORMAZIONE. PRESUNZIONE (lat. Praesumptio; ingl.
Pre- sumption; franc. Présomption; ted. Prasumtion). I. Un giudizio anticipato
e provvisorio, che si ritiene valido fino a prova in contrario. Per es., « P.
di colpa » è un giudizio di colpevolezza che viene mantenuto finchè non sia
stata addotta una prova in contrario; e significato analogo hanno espressioni
«P. di verità» o «P. pro» o «P. contro» una pro- posizione qualsiasi. 2.
Fiducia eccessiva nelle proprie possibilità; e in questo senso si dice
presuntuoso colui che nutre tale fiducia. PRESUPPOSTO (ingl. Presupposition;
fran- cese Présupposition; ted. Voraussetzung). 1. La premessa non dichiarata
di un ragionamento: cioè la premessa di cui si fa uso nel corso di un ragiona-
mento ma che non è stata preventivamente enun- ciata e nei cui confronti
pertanto non esiste un 693 impegno definito. Il P., a differenza della
premessa, del postulato, dell’ipotesi, ecc., è introdotto surret- tiziamente
nel corso di un ragionamento e limita o dirige il ragionamento stesso in modo
subdolo o nascosto. Esso si può anche definire come una regola surrettizia di
inferenza. Pertanto il principio dell’eliminazione dei P. è fondamentale per
tutti i campi della ricerca nel mondo moderno. L’espres- sione « eliminazione
dei P.» (ted. Voraussetzungslo- sigkeit) pare sia stata coniata soltanto da Fr.
Strauss (Leben Jesu, 1836, pag. IX): ma l'esigenza che tale espressione
racchiude è quella con la quale è nata sia la scienza moderna, che con Galilei
ha cercato di liberarsi dei P. metafisici, sia la filosofia moderna che con
Bacone e Cartesio ha affermato l’esigenza di una ricerca radicale cioè fondata
soltanto su premesse dichiarate. L'eliminazione dei P. è anche diretta a
evitare che nell’ambito di un certo campo di ricerche agiscano credenze che
appartengono a campi diversi e che queste limitino in modo incon- trollabile la
ricerca stessa. Un uso più ristretto e tecnico ha fatto, del principio
dell’eliminazione dei P., Husserl il quale si è avvalso di esso per la delimi-
tazione della sfera fenomenologica (Logische Unter- suchungen, II, Intr., $ 7).
2. Lo stesso che premessa o postulato o ipotesi. Questo secondo significato può
condurre a con- fusioni. PRETERIZIONE (ingl. Preterition; franc. Pré-
térition). Concetto di cui la teologia calvinista si è avvalsa per attenuare la
dottrina della doppia predestinazione: i reprobi sono tali perchè Dio li ha
«trascurati» nella sua scelta (cfr. CALVINO, Institutions de la religion
chrétienne, III, cap. 24). PREVISIONE (gr. rpéyvwer; ingl. Prediction; franc.
Prévision; ted. Voraussage). Uno degli scopi fondamentali della spiegazione
scientifica o questa stessa spiegazione. Nella scienza antica, l’impor- tanza
della P. fu accentuata soltanto nell’ambito della medicina (IPPOCRATE, Prognostikon,
I). Ga- lileo ne esponeva il concetto affermando che «la cognizione di un solo
effetto acquistata per le sue cause ci apre l’intelletto ad intendere ed
assicurarsi d’altri effetti senza bisogno di ricorrere all’espe- rienza »
(Discorsi intorno a due nuove scienze, in Opere, ed. Utet, II, pag. 799). La P.
fu utilizzata da Hume nella sua critica della causalità: « Essendo costretti
dalla consuetudine a trasferire il passato al futuro, in tutte le nostre
inferenze, quando il passato si è manifestato del tutto regolare e uni- forme,
noi aspettiamo l’avvenimento con la mas- sima sicurezza e non lasciamo posto
per qualche supposizione contraria » (Ing. Conc. Underst., VI). Fu messo in
primo piano da Comte con la sua formula «Scienza, donde P.; P., donde azione»
(Cours de phil. pos., 1830, I, pag. 51). E fu espresso 694 da Hertz nella
parole con cui si apre l’Introduzione dei Prinzipien der Mechanik (1894): « Il
più diretto e in un certo senso il più importante problema che la nostra
consapevole conoscenza della natura ci rende capaci di risolvere è
l’anticipazione degli eventi futuri, sicchè poi possiamo ordinare le nostre
faccende presenti in accordo con tali anticipazioni ». Peirce fondava sulla P.
la verità pratica dell’ipotesi scientifica: « Nell’induzione non è il fatto
previsto che in qualche misura necessiti la verità dell’ipotesi o la renda
probabile. Ma è il fatto che esso è stato previsto con successo e che è un
campione scelto a caso di tutte le P. che possono essere basate sul- l'ipotesi e
che costituiscono la verità pratica di essa » (Coll. Pap., 6.527). Nel
neoempirismo contemporaneo, alcuni filosofi tendono a ridurre la P. alla
spiegazione altri a ridurre la spiegazione alla previsione. Nel primo senso si
esprime Carnap secondo il quale «la na- tura di una P. è la stessa, rispetto
alla conferma e all’attestazione, di quella di un enunciato circa un evento
presente non direttamente da noi osser- vato, per es., circa un processo che
ora è in corso nell’interno di una macchina o un evento politico in Cina («
Testability and Meaning », in Readines in the Phil. of Science, 1953, pag. 87).
Nel secondo senso, si esprime Quine il quale dichiara di pen- sare che lo
schema concettuale della scienza è da ultimo uno strumento per prevedere
l’esperienza futura alla luce dell’esperienza passata (From a Logical Point of
View, II, 6). L'identità della logica della P. con quella della spiegazione è
stata asse- rita da Feigl (in Readings, cit., pag. 417-18); mentre Hempel ha
sostenuto la tesi della identità struttu- rale (o della simmetria) di
spiegazione e P. nel senso «che ogni spiegazione adeguata è potenzial- mente
una P. e inversamente ogni P. adeguata è potenzialmente una spiegazione +
(Aspects of Scien- tific Explanation, 1965, pag. 367). Popper, dopo aver
asserito che tutte le scienze teoretiche, anche quelle sociali, sono scienze di
P., ha insistito sulla distinzione tra la P. scientifica e la profezia sto-
rica perchè quest’ultima manca del carattere con- dizionale della prima. « Le
P. ordinarie della scienza, egli ha detto, sono condizionali. Esse asseriscono
che certi mutamenti (per es., della temperatura dell’acqua in un bollitoio)
sarà accompagnato da altri cambiamenti (per es., il bollire dell’acqua)»
(Conjectures and Refutations, 1965, pag. 339). Reichenbach usò il termine
post-vedibilità (post dictability) per indicare la possibilità di determi- nare
«i dati passati in termini di osservazioni date » (Philosophic Foundations of
Quantum Mechanics, 1944, pag. 13). Il termine postvisione o retrovisione
(postdiction or retrodiction) è stato poi adoperato per indicare l’inverso
logico di una P. cioè l’in- PRIMALITÀ ferenza che procede da un evento presente
all’in- dietro, verso una condizione iniziale già conosciuta (Hanson, The
Concept of the Positron, 1963, pag. 193). V. SPIEGAZIONE. PRIMALITÀ (lat.
Primalitas; ted. Primalitàt). Il principio costitutivo dell’essere, secondo
Cam- panella. Ci sono tre P.: il potere (potentia) il sapere (sapientia) e
l’amore (amor) che in Dio sono infinite e nelle cose sono invece limitate dai
loro contrari, l’impotenza, l’insipienza e l’odio, che costituiscono il non
essere (Metaphysica, 1638, VI, Proem.). Il termine vale lo stesso che principio
(v.). PRIMARIE E SECONDARIE, QUALITÀ. V. QUALITÀ. PRIMARIO (lat. Primarius; ingl.
Primary; franc. Primaire; ted. Primàr). 1. Ciò che è primo o più importante in
un campo qualsiasi; o ciò che è primo nel senso che condiziona ciò che vien
dopo, senza essere condizionato da esso. Questo era uno dei sensi, e il senso
fondamentale, che Aristotele attribuiva alla parola «prima» (Mer., V, 11, 1019a
2), ed è quello che più frequentemente è connesso con l’uso del termine. «
Qualità P.+, ad es., sono le qualità di cui i corpi non possono mancare e che
condizionano le « qualità secondarie ». « Scuola P. + è quella che tutti
debbono frequentare e che prepara agli altri tipi di scuola. « Attenzione P.» è
stata detta da alcuni psicologi l’attenzione primitiva o originaria, ecc. Si
dice pura «importanza P.» per dire importanza fondamentale o condizionante. 2.
Lo stesso che primitivo (v.). PRIMATO (ingl. Primacy; franc. Primauté; ted.
Primat). L'importanza primaria o condizionante di una cosa rispetto alle altre.
Dice Kant: « Per P. tra due o più cose legate mediante la ragione, intendo la
superiorità di una di esse in quanto è il primo motivo determinante del legame
con tutte le altre ». Più precisamente « P. della ragion pratica » significa la
prevalenza dell’interesse pratico sull’in- teresse teoretico nel senso che la
ragione ammette, in quanto è pratica, proposizioni che non potrebbe ammettere
nel suo uso teoretico e che non costi- tuiscono una sua estensione conoscitiva:
i postulati della ragion pratica (Crit. R. Pratica, II, cap. 2, sez. 3). La
parola P. è stata usata nel campo politico per indicare la funzione
predominante che un certo elemento (popolo, nazione, classe, gruppo sociale,
ecc.) ha o deve avere nella totalità cui appartiene. Gioberti ha parlato in
questo senso del P. morale e civile degli Italiani (1843). In questa sua
estensione il termine acquista significati anche più vaghi e arbitrari che nel
primo. PRIMITIVISMO (ingl. Primirivism; franc. Pri- mitivisme). 1.
L'atteggiamento o la mentalità dei popoli primitivi specialmente nel suo
aspetto per cui l’individuo si conforma, presso di essi, alle PRINCIPIO
valutazioni dell’ambiente. In questo senso il termine è usato, per es., da
Scheler (Sympathie, cap. III; trad. franc., pag. 362, n. 2). 2. La credenza che
la forma più perfetta della vita umana è quella che essa ebbe nel primo periodo
dell’umanità (mito dell’età dell’oro); o quella che essa riveste nei popoli
primitivi, ritenuti più gio- vani (mito del « buon selvaggio +). Per questo signi- ficato di
P., vedi LovEJsoy e Boas, Primitivism and Related Ideas in Antiquity, 1935;
Boas, Essays on Pri- mitivism and Related Ideas in the Middle Ages, 1948). PRIMITIVO (ingl. Primitive; franc. Primitif; ted.
Primitiv). 1. Lo stesso che originario (v. ORIGINE) nel duplice senso di questo
termine cioè: a) come ciò che appartiene alla fase iniziale di uno sviluppo o
di una storia e in questo senso si dice « la nebu- losa P.», «l’umanità P.», o
anche «le P. popola- zioni italiche »; 5) come ciò che funge da condizione,
principio o premessa e perciò determina altre cose mentre non è determinato da
esse; in questo senso si dice « proposizione P. », « funzione P.» e si chia-
mano «simboli P. » quelli introdotti direttamente, cioè senza l’aiuto di altri
simboli. 2. Ciò che è semplice nel senso che costituisce la forma più
elementare che un certo oggetto può assumere e in questo senso si parla di «
uomini P. » o semplicemente de «i P.». Durkheim si è servito per definire i P.
di questo significato e insieme di quello di cui in a) (Les formes élémentaires
de la vie religieuse, 1937, pag. 1). Ma Lévy-Brubl ha scritto: «Con questo
termine improprio, ma di uso quasi indispensabile, intendiamo semplicemente
designare i membri delle società più semplici che conosciamo » (Les fonctions
mentales dans les so- ciétés inférieures, 1910, pag. 2). Nello stesso senso si
adopera oggi la parola primario (v.). Per ciò che concerne le interpretazioni
del mondo P., esse possono essere raggruppate in due classi: a) la classe di
quelle interpretazioni che conside- rano il mondo P. come prelogico,
preempirico e mistico, quindi completamente diverso, quanto alla sua
costituzione, dal mondo della società civile. È questa l’interpretazione che è
stata specialmente difesa da Lévy-Bruhl (del quale oltre lo scritto citato,
vedi: La mentalité primitive, 1922; L’éme primitive, 1927; L’expérience
mystique et les sym- boles chez les primitifs, 1938); ma che dallo stesso
Lévy-Bruhl è stata corretta nel senso di sfumare o attenuare la differenza tra
la mentalità P. e quella non P., considerandola come differenza di grado più
che di qualità (Les carnets, 1949); b) la classe di quelle interpretazioni le
quali am- mettono che anche le comunità P. sono in possesso di un considerevole
patrimonio di conoscenze fon- date sull’esperienza e sulla ragione e che l’uomo
P. tende a ricorrere alla magìa o al misticismo solo 695 quando le conoscenze
da lui possedute non aiu- tano più. Questa è l’interpretazione specialmente
sostenuta da Bronislaw Malinowski (Magic, Science, and Religion, 1925) e
seguita oggi da quasi tutti i sociologi. PRIMO MOBILE. V. MosiLe, Primo. PRIMO
MOTORE. V. Dro, Prove DI. PRIMORDIALE (ingl. Primordial; franc. Pri- mordial).
Lo stesso che originario (v.). PRINCIPIO (gr. &pyh; lat. Principium;
inglese Principle; franc. Principe; ted. Prinzip, Grundsat2). Il punto di
partenza e il fondamento di un processo qualsiasi. I due significati di « punto
di partenza » e di «fondamento» o «causa» sono strettamente connessi nella
nozione di questo termine, che fu introdotto in filosofia da Anassimandro
(SIMPLICIO, Fis. 2A, 13), cui Platone faceva ricorso frequente- mente nel senso
di causa del movimento (Fedr., 245 c) o di fondamento della dimostrazione
(Teet., 155 d) e di cui Aristotele fu il primo a enumerare esaurientemente i
significati. Tali significati sono i seguenti: 1° punto di partenza di un movimento,
per es., di una linea o di una strada; 2° punto di par- tenza migliore, per
es., quello che rende più facile im- parare una cosa; 3° punto di partenza
effettivo di una produzione, per es., la chiglia di una nave o i fondamenti di
una casa; 4° causa esterna di un pro- cesso o di un movimento, per es., un
insulto che pro- voca una zuffa; 5° ciò che con la sua decisione deter- mina
movimenti o mutamenti, per es., il governo 0 le magistrature di una città; 6°
ciò da cui parte un processo di conoscenza, per es., le premesse di una
dimostrazione. Aristotele aggiunge a questa elen- cazione: « Anche ‘causa’ ha
gli stessi significati: giacchè tutte le cause sono princìpi. Ciò che tutti i
significati hanno in comune è che, in tutti, P. è ciò che è punto di partenza o
dell’essere o del divenire o del conoscere + (Mer., V, 1, 1012 b 32-1013 a 19).
Queste notazioni di Aristotele contengono pres- sochè tutto quel che la
tradizione filosofica posteriore ha detto intorno ai princìpi. Solo un altro
significato occorre forse distinguere: come punto di partenza e causa, il P. è
talora assunto come l’elemento costi- tutivo delle cose o delle conoscenze.
Questo probabil- mente era uno dei sensi în cui la parola era usata dai
presocratici: un senso che Aristotele stesso talvolta adopera (Mer., I, 3, 983
b 11; ITI, 3, 998 b 30, ecc.). In questo senso Lucrezio chiamava P. gli atomi
(De nat. rer., II, 292, 573, ecc.); e gli Stoici distinguevano elementi e P.
solo per il fatto che i P. sono ingenerabili e incorruttibili (Dog. L., VII, 1,
134). Nel sec. xvi, Cristiano Wolff definendo il P. come « ciò che contiene in
sè la ragione di qualche altra cosa» (Onf., $ 866) osservava che questo
significato era conforme alla nozione aristotelica 696 e che da questa nozione
non si erano allontanati gli Scolastici (Onr., $ 879). Baumgarten, al quale
tanto deve la terminologia filosofica moderna, ripe- teva la definizione di
Wolff (Mer., $ 307). Kant da un lato restringeva l’uso del termine al campo
della conoscenza, intendendo per P. «ogni proposizione generale, anche desunta
per induzione dall’espe- rienza, che possa servire da premessa maggiore in un
sillogismo », ma dall'altro introduceva la nozione di «P. assoluto » o «P. in
sè» cioè di conoscenze sintetiche originarie e puramente razionali, cono-
scenze che egli riteneva insussistenti, ma alle quali pensava che la ragione
facesse appello nel suo uso dialettico (Crir. R. Pura, Dialettica, II, A).
Nella filosofia moderna e contemporanea la no- zione di P. tende a perdere la
sua importanza. Essa infatti include la nozione di un punto di par- tenza
privilegiato: e privilegiato non relativamente, cioè rispetto a certi scopi, ma
assolutamente ed in sè. Un punto di partenza di questo genere diffi- cilmente
potrebbe oggi essere ammesso nel dominio delle scienze. Poincaré a giusto
titolo osservava che un P. non è che una legge empirica che si trova comodo
sottrarre al controllo dell’esperienza me- diante opportune convenzioni: un P.
perciò non è nè vero nè falso ma soltanto comodo (La valeur de la science,
1905, pag. 239). Nel dominio matematico e logico, in cui opportunità di questa
natura non si presentano, il termine è caduto in disuso per indicare le
premesse di un discorso ed è stato sosti- tuito da assioma o postulato.
Frequentemente si chiamano P., in questi campi, particolari teoremi di cui si
voglia sottolineare l’importanza per lo sviluppo ulteriore di un sistema
simbolico. Peirce ha chiamato P. guida (Leading Principle) il P. che «
dev’essere supposto vero per sostenere la validità logica di un argomento
qualsiasi » (Coil. Pap., 3.168; cfr. Dewey, Logic, I; trad. ital., pag. 46).
PRINCIPIO ATTIVO (gr. rò rorotv). Così gli Stoici chiamarono la Ragione o la
Causa o Dio, in quanto informa la materia (che è il P. passivo) producendo in
essa i singoli esseri (DioG. L., VII, 134); principio che essi identificarono
col Fuogo inteso come calore o spirito animatore (/bid., VII, 156; CiceR., De
nat. deor., II, 24). PRINCIPIO DI AZIONE MINIMA; DI CAUSALITÀ; DI
CONTRADDIZIONE; DI IDENTITÀ; DEGLI INDISCERNIBILI; DI INDIVIDUAZIONE; DI RAGION
SUFFI- CIENTE; DEL TERZO ESCLUSO; ecc. V. i relativi termini. PRIORITÀ (ingl.
Priority; franc. Priorité; te- desco Prioritàt) 1. Precedenza nel tempo. 2.
Carattere di ciò che è primario (v.). PRIVAZIONE (gr. otépnow; lat. Privatio;
in- glese Privation; franc. Privation; ted. Privation). La PRINCIPIO ATTIVO
mancanza di ciò che, a qualsiasi titolo, potrebbe o dovrebbe essere. Questo è
il senso della definizione che Wolff dette del termine: «Il difetto di una
realtà che poteva essere o a cui l’essere di per sè non ri- pugna» (Onr., $
273). Aristotele aveva incluso tra i significati del termine (tutti riducibili
a quello ora enunciato) anche la mancanza di un attributo che non appartiene
naturalmente alla cosa come quando si dice che una pianta è priva di occhi
(Mer., V, 22, 1022 b 22). Ma questa generalizzazione eccessiva rende il
concetto pressocchè inutile. Wolff stesso di- stingueva le entità privative che
consistono in una mancanza (come cecità, morte, tenebre, ecc.) e i nomi
relativi, dalle entità positive e dai loro nomi (Ont., $ 273-274); una
distinzione che fu riprodotta da Stuart Mill, il quale osservava a questo
proposito: «I nomi cosiddetti privativi connotano due cose: l’as- senza di
certi attributi e la presenza di altri a partire dai quali la presenza dei
primi poteva naturalmente attendersi » (Logic, I, 2, $ 6). Queste distinzioni
si sono conservate nella logica ottocentesca di stampo tradizionale (cfr., per
es., SIGWART, Logik, 1889, I, 822). PROBABILE (ingl. Probable; franc. Probable;
ted. Wahrscheinlich). 1. Un evento o una proposi- zione con un sufficiente
grado comparativo di con- ferma o di credibilità (v. PROBABILITÀ, 1). 2. Una
classe o sequenza di eventi dotata di un certo grado di frequenza relativa (v.
PROBABILITÀ, 2). 3. Ciò che viene ritenuto vero dai più o dai com- petenti.
Questo è il concetto dell’endoxor che Ari- stotele pose a base della dialettica
(v.) e ha poco o nulla a che fare con le due precedenti nozioni. PROBABILISMO
(ingl. Probabilism; francese Probabilisme; ted. Probabilismus). 1. Lo
scetticismo della Nuova Accademia in quanto, pur negando l’esistenza di un
criterio di verità, riconosceva un criterio sufficiente a dirigere la condotta
della vita, in ciò che Arcesilao chiamava il plausibile (Sesto E., Adv. Math.,
VII, 158) e Carneade il probabile (Ibid, VII, 166; Ip. Pirr., I, 33, 226). 2.
La dottrina, cui faceva frequentemente appello la casistica dei Gesuiti del
sec. xv, che basti, per non peccare, nei casi in cui l’applicazione della regola
morale è dubbia, attenersi ad una opinione probabile, intendendosi per opinione
probabile quella sostenuta da qualche teologo. Leibniz osservava a questo
proposito: « Il difetto dei moralisti rilas- sati è stato in buona parte quello
d’aver avuto una nozione troppo limitata e troppo insufficiente del probabile
che essi hanno identificato con l'opina- bile di Aristotele » mentre il
probabile è, secondo Leibniz, un concetto assai più esteso (Nouv. Ess., IV, 2,
14). Il P. ebbe, specialmente nel sec. xvu, innumerevoli varianti tra le quali
si possono ricor- PROBABILITÀ dare: il probabiliorismo, secondo il quale, nei
casi in cui l’applicazione di una regola morale è incerta, bisogna seguire non
una qualsiasi opinione proba- bile ma la più probabile; e il tuziorismo secondo
il quale bisogna attenersi alla opinione che si con- forma alla legge. Si
tratta di dottrine e dispute che non hanno significato fuori della casistica
gesuitica del xvi secolo (cfr. A. SCHMITT, Zur Geschichte des Probabilismus,
1904). 3. L'indirizzo della scienza contemporanea per il quale il carattere di
probabilità viene riconosciuto ad un numero esteso di conoscenze od a tutte (v.
CAUSALITÀ; CONDIZIONE; DETERMINISMO). PROBABILITÀ (gr. 16 etx6c; lat.
Probabdilitas; ingl. Probability; franc. Probabilité; ted. Warh-
scheinlichkeit). Il grado o la misura della pos- sibilità di un evento o di una
classe di eventi. La P. in questo senso suppone sempre un’al- ternativa ed è la
scelta o preferenza accordata ad una delle alternative possibili. Se si dice,
ad es., « probabilmente domani pioverà » si esclude come meno probabile
l’alternativa « domani non pioverà »; se si dice «la P. che una moneta cada di
testa è di una metà +», questa determinazione desume il suo significato dal
confronto con l’altra alternativa possibile, che essa cada di croce. Si può
esprimere questo carattere della P. dicendo che essa è sempre la funzione di
due argomenti. Un altro carattere generale della P. (comunque intesa) è che
essa, dal punto di vista quantitativo, viene espressa con un numero reale i cui
valori vanno da 0 a 1. Il problema cui la nozione di P. dà luogo è quello del
significato cioè del concetto stesso di probabilità. Quanto al calcolo delle
probabilità esso, finchè non venga interpretato, non dà luogo a problemi: i
matematici sono d’accordo su tutto ciò che può venire espresso in simboli
matematici, mentre il disaccordo comincia, anche tra essi, dove si tratta di
interpretare tali simboli. Carnap (The Two Concepis of Probability, 1945, ora
in Readings in the Phi- losophy of Science, 1953, pag. 441 sgg.) e Russell
(Human Knowledge, 1948, V, 2) hanno entrambi insistito sull’esistenza di due
concetti diversi e irreducibili di P., che il primo ha chiamato rispetti-
vamente P. induttiva (o grado di conferma) e P. statistica (o frequenza
relativa), e il secondo grado di credibilità e P. matematica. Altri nomi sono
stati proposti per questi due tipi di probabi- lità. Kneale ha chiamato
accettabilità il primo tipo e caso (chance) il secondo (Probability and
Induction, 1949, pag. 22); Braithwaite ha chiamato il primo ragionevolezza e il
secondo P. (Scientific Expla- nation, 1953, pag. 120). I due concetti si sono
fronteggiati negli ultimi quarant'anni, cercando ognuno di eliminare l’altro; e
si possono vedere tipicamente rappresentati nelle 697 posizioni di Von Mises e
di Jeffreys. Il primo rigetta come soggettivistico il concetto di P. indut-
tiva e ritiene che sia privo di senso l’uso del termine P. al di fuori del suo
concetto statistico (Probability. Statisties and Truth, 1928, ed. 1939, lect.
I, III), Il secondo invece ritiene che la definizione cosid- detta oggettiva
della P. è inutilizzabile e che neppure gli statistici la usano perchè « tutti
usano la nozione di grado di credenza ragionevole, abitual- mente senza neppure
notare che la usano » (Theory of Probability, 1939, pag. 300). Poichè le
osserva- zioni di Carnap e Russell tolgono significato a questa polemica ma
nello stesso tempo confermano l’esistenza di due concetti diversi di P., si
possono assumere tali concetti per costituire un prospetto delle dottrine
relative. E per evitare qualificazioni polemiche (e inesatte) come quelle di «
sogget- tivo» e «oggettivo», ecc., si può semplicemente assumere come tratto
distintivo dei due concetti di P. la funzione che ognuno di essi adempie e
parlare conseguentemente di 1° P. singolare; 2° P. collettiva. 1° Il primo
concetto di P. può essere in- fatti caratterizzato dicendo che esso ha in vista
il grado di possibilità di un evento singolo: pertanto i suoi argomenti sono per
l’appunto eventi o fatti o stati di cose o circostanze ed essa è espressa in
proposizioni del tipo « Domani pro- babilmente pioverà ». L’antecedente storico
remoto di questa nozione è il concetto neo-accademico di rappresentazione
persuasiva (v.): della quale Car- neade enumerava i gradi, determinati o da
prove o da indizi negativi o positivi (v. PERSUASIVO). I fondatori del calcolo
delle P. ebbero in vista appunto questo concetto di probabilità. Giacomo
Bernouilli intitolò il suo trattato, che fu il primo scritto importante in
proposito, Ars conjectandi (1713). Allo stesso concetto si ispirava la grande
opera di Laplace intitolata Théorie analytique des pro- babilités (1812).
Nell’introduzione di quest'opera Laplace affermava che «la P. degli eventi serve
a de- terminare il timore o la speranza delle persone inte- ressate alla loro
esistenza » (Essai philosophique sur les probabilités, I, 4); e tutta la sua
opera non si oc- cupa di statistica ma di metodi per stabilire l’accet-
tabilità delle ipotesi. Da questo punto di vista, la P. era definita come « il
rapporto dei numeri dei casi favorevoli a quello di tutti i casi possibili ». E
il principio fondamentale per valutare le P. era il cosiddetto principio di
indifferenza o di equiproba- bilità, secondo il quale, in mancanza di ogni
altra informazione, si assume che i vari casi sono ugual- mente possibili:
sicchè ad es., quando un dado è gettato, si assume che ognuna delle sue facce
ha uguali P. di apparire, sicchè ciascuna faccia ha la stessa P. di 1/6 (op. cit.,
I, 3). 698 Per quanto questa teoria sia stata sottoposta a critiche accanite,
essa è stata ripresa nel 1921 dal- l'economista inglese John Maynard Keynes nel
suo Trattato sulla P. e più tardi riesposta da F. P. Ramsey (The Foundations of
Mathematics, 1931) e da H. Jef-
freys (Theory of Probability, 1939).
Tutti questi scrittori definiscono la P. come un « grado di cre- denza
razionale» ed ammettono la validità del principio di indifferenza ma, come ha
notato lo stesso Carnap, il carattere soggettivistico di quella definizione è
solo apparente; giacchè ciò che essi hanno cercato di determinare sono i gradi
di con- ferma che possono essere stabiliti in favore di un’ipotesi determinata.
E difatti i gradi di credenza potrebbero essere soltanto stabiliti con metodi
psicologici mentre in realtà i metodi proposti da quegli autori non hanno nulla
di psicologico ma sono logici e si riferiscono alla disponibilità e alla natura
delle prove che possono confermare un’ipo- tesi. Fondandosi su questo concetto
oggettivo della P. singolare, Carnap ha costruito un sistema di logica
quantitativa induttiva, sul fondamento del concetto di conferma assunto nelle
sue tre forme: positiva, comparativa e quantitativa (Logica! Foun- dations of
Probability, 1950). Il concetto positivo di conferma è la relazione tra due
enunciati i (ipotesi) e p (prova) che può essere espressa da enunciati di
questa forma: « i è confermato da p»; « i è appog- giato da p »; « p è una
prova (positiva) per i+; « p è una prova che sostanzia (o corrobora)
l'assunzione di i». Il concetto comparativo (topologico) di conferma è
usualmente espresso in enunciati che hanno la forma «i è più fortemente
confermato (o appoggiato o sostanziato o corroborato, ecc.) da p che i’ da p'».
Infine il concetto quantitativo (o metrico) di conferma cioè il concetto di
grado di conferma può essere, nei vari campi, determinato da procedure analoghe
a quelle con cui si è introdotto il concetto di temperatura per spiegare quelli
di «più caldo» o «meno caldo» o il concetto di quoziente intellettuale per
determinare i gradi com- parativi di intelligenza. Carnap ha anche difeso,
intendendolo tuttavia in forma limitata, il principio di indifferenza,
applicandolo alle distribuzioni sta- tistiche anzichè alle distribuzioni
singole. La teoria di Carnap è stata in proposito largamente discussa e
accettata. Altre determinazioni del concetto di grado di conferma sono state
proposte (cfr., ad es., HELMER e OPPENHEIM, « A Syntactical Definition of
Probability and Degree of Confirmation» in Journal of Symbolic Logic, 1945,
pag. 25-60). Soltanto il concetto di P. singola, cioè di grado di conferma, è
quello a cui si fa comunemente riferimento nelle faccende della vita e che
viene assunto, esplicitamente o implicitamente, come guida dei comportamenti
individuali. C'è da osser- PROBABILITÀ vare che tra gli indizi o prove che
possono essere assunti a conferma di un’ipotesi qualsiasi cioè a fondamento di
un giudizio di P. nulla vieta che rientri la considerazione delle frequenze
statistiche cui il secondo concetto di P. riduce la P. stessa. Ma talvolta la
P. statistica entra nella determinazione della P. singola con segno invertito:
ad es., per un giocatore del lotto la frequenza con cui un certo numero è
uscito negli ultimi tempi è un indice di P. negativa: i numeri « buoni » sono
per lui quelli che, in un periodo di tempo abbastanza lungo, sono stati i meno
frequenti. Per una difesa di questo concetto di P., proprio in rapporto ai
limiti e alle possibilità della conoscenza umana, cfr. J. R. Lucas, The Concept
of P., Oxford, 1970. 2° Il secondo concetto fondamentale della P. è quello
della P. collettiva o statistica, i cui argomenti non sono mai eventi o fatti
individuali ma classi, specie o qualità di eventi e che quindi possono essere
espressi soltanto con funzioni proposizio- nali (v.) e non con proposizioni.
L’antecedente storico più lontano di questa nozione è il concetto aristotelico
del verisimile (v.): « Probabile è ciò che tutti sanno come per lo più accada o
non accada, sia o non sia» (An. Pr., II, 27, 70a 3; Ret., I, II, 1357 a 34). Ma
la formulazione rigorosa del con- cetto è stata effettuata solo recentemente da
Fischer (in Philosophical Transactions of the Royal Society, serie A, 1922),
von Mises (Probability, Statistics and Truth, 1928), Popper (Logik der Forschung,
1934) e Reichenbach (Wakrscheinlichkeitslehre, 1935; Theory of Probability,
1948). Come illustrazione di questa nozione di P. si può scegliere
l’elaborazione che di essa ha dato von Mises con il concetto della
frequenza-limite. Se per n osservazioni l’evento esaminato ha luogo m volte il
quoziente m/n è la frequenza rela- tiva della classe di eventi in questione:
relativa, s'intende, al numero n di osservazioni. Ma se si vuol parlare di
frequenza semplicemente, senza limitare l’estensione delle osservazioni, si può
supporre che la funzione m/n, quando numeratore e denominatore divengono via
via maggiori, tenda a un valore limite; e si può assumere questo valore- limite
come misura della frequenza, cioè come misura della P. nel senso proposto.
Così, per es., se gettando una moneta 1000 volte si ha per la testa una
frequenza di 550; gettandola 2000 volte si ha, sempre per la testa, una
frequenza di 490; gettandola 3000 volte, una frequenza di 505; gettandola 4000
volte una frequenza di 497; gettandola 10.000 volte una frequenza di 5003; e
così via; poichè il valore limite di queste serie è 05, si assumerà questo
valore limite come valore della P. dell’accadimento in questione. Ma tale
accadimento non è mai un accadimento singolo; e pertanto la P. così PROBLEMA
calcolata non servirà a prevedere il risultato della prossima gettata della
moneta e a consentire, per es., a un giocatore di scegliere la sua scommessa.
La P. del genere vale per classi di eventi e non per eventi singoli. Non si
può, ad es., parlare della P. che un individuo qualsiasi ha di morire entro
l’anno anche quando si conosce il limite di frequenza della mortalità nel
gruppo a cui egli appartiene (cfr. anche di von Mises, Kleines Lehrbuch des
Positivismus, $ 14). Reichenbach ha affermato a questo proposito: «L’asserzione
concernente la P. di un caso singolo ha un significato fittizio, costruito
attraverso il trasferimento di significato dal caso generale a quello
particolare. L’adozione dei significati fittizi è giustificabile non per motivi
conoscitivi ma perchè serve agli scopi dell’azione considerare tali asserzioni
come provviste di signi- ficato » (Theory of Probability, pag. 377). L’altra
caratteristica fondamentale della teoria è l’elimina- zione del principio di
indifferenza cioè della P. a priori. La teoria statistica della P. infatti non
può dire nulla circa la P. di una classe di eventi senza prima aver determinate
le frequenze dell’evento stesso e quindi un grado di P. qualsiasi può essere
determinato solo a posteriori, cioè dopo avere effettuato la determinazione
delle frequenze (REI- CHENBACH, 0p. cit., $ 70, pag. 359 sgg.). La teoria
collettiva o statistica della probabilità è stata largamente accettata nella
filosofia contem- poranea (si vedano, oltre gli scritti citati, quello di J. O.
Wispom, Foundations of Inference in Natural Science, 1952, e quello di
BRAITAWAITE, Scientific Explanation, 1953). Un’ulteriore determinazione di
questa dottrina è stata data da Popper, specialmente in vista della sua
utilizzazione nella teoria dei quanti. Come si è detto, la P. statistica non
concerne eventi singoli ma classi o sequenze di eventi. Popper pro- pone di
considerare come decisive le condizioni sotto le quali la sequenza è prodotta
cioè di consi- derare le frequenze stesse come dipendenti dalle condizioni
sperimentali e pertanto come costituenti una qualità disposizionale
dell’ordinamento speri- mentale. Dice Popper: « Ogni ordinamento speri- mentale
è adatto a produrre, se ripetiamo l’esperi- mento più volte, una sequenza con
frequenze che dipendono da questo particolare ordinamento. Queste frequenze
virtuali possono essere dette probabilità. Ma poichè le P. vengono a dipendere
dall’ordinamento sperimentale, esse possono essere considerate proprietà di
questo ordinamento. Esse caratterizzano la disposizione o propensione del-
l'ordinamento sperimentale a dare origine a certe frequenze caratteristiche,
quando l’esperimento è ripetuto più volte » (« The Propensity Interpretation of
the Calculus of Probability, and the Quantum Theory », in Observation and
Interpretation, A_sym- 699 posium of Philosophers and Physicists, ed. by
Kérner, 1957, pag. 67). Il vantaggio di questa interpretazione sarebbe quello
di considerare come fondamentale «la P. del risultato di un singolo esperimento
rispetto alle sue condizioni, piuttosto che la frequenza dei risultati in un
seguito di esperi- menti » (/bid., pag. 68). Popper avvicina questo con- cetto
a quello di campo (v.) e osserva che in questo caso una P. può essere
considerata come « un vet- tore nello spazio delle possibilità » (Ibid.).
Questa in- terpretazione tende ovviamente a diminuire la di- stanza tra i due
concetti fondamentali di probabilità. PROBLEMA (gr. rpéfimua; lat. Problema;
ingl. Problem; franc. Problème; ted. Problem). In generale, ogni situazione che
includa la possibilità di un’alternativa. Il P. non ha necessariamente ca-
rattere soggettivo; non è riducibile al dubbio per quanto anche il dubbio sia,
in un certo senso, un problema. Esso è piuttosto il carattere proprio di una
situazione che non ha significato unico o che in- clude comunque alternative di
qualsiasi specie. Un P. è la dichiarazione di una situazione di questo genere.
La nozione di P. fu elaborata dalla matematica antica nella distinzione da
quella di teorema (v.). Per problema fu intesa una proposizione che da certe
condizioni note muove alla ricerca di qual- cosa di ignoto. Alcuni geometri
(probabilmente quelli della scuola platonica) ritenevano che la loro scienza
fosse costituita essenzialmente da problemi; altri, da teoremi (PRocLo, Comm.
al I di Euclide, 77, 7-81, 22, Friedlein). Aristotele definiva il P. come un
procedimento dialettico che tende alla scelta o al rifiuto oppure alla verità e
alla cono- scenza + (Top., I, 11, 104b): nella quale le parole «scelta + o «
rifiuto » stanno a indicare le alternative che si presentano ai problemi di
ordine pratico mentre «verità» e «conoscenza» designano le alternative
teoretiche. Aristotele esemplifica la sua definizione dicendo che un P. del
primo genere è se il piacere sia un bene o no; e un P. del secondo genere è se
il mondo sia eterno (/bid., 104b 8). Poichè, dove ci sono P., ci sono anche
sillogismi contrari, i P. possono nascere, secondo Aristotele, solo dove manca
un discorso concludente: il P. in altri termini appartiene al dominio della
dia- lettica cioè dei discorsi probabili, non a quello della scienza. Comunque,
il P. conserva per Ari- stotele il carattere di indeterminazione, che gli è
dato dall’alternativa. Nell’uso matematico del termine, questo carattere è
andato tuttavia atte- nuandosi. La logica medievale aveva trascurato l’analisi
e la definizione di questa nozione; e quando essa comincia ad attrarre di nuovo
l’attenzione dei logici, cioè nel sec. xvii, il significato che essi le
attribuiscono è desunto dalle matematiche. Così Jungius dice che «Il P. o la
proposizione proble- 700 matica è una proposizione principale che enuncia che
qualcosa può essere fatto o mostrato o trovato » {Logica Hamburgensis, 1638,
IV, 11, 7). Leibniz no- tava che « per P. i matematici intendono le questioni
che lasciano in bianco una parte della proposizione » (Nouv. Ess., IV, II, 7).
E proprio appellandosi all'uso matematico, Wolff definiva il P. come «una
proposizione pratica dimostrativa » intendendo per « proposizione pratica »
quella «per la quale si afferma che qualcosa può o deve essere fatta » ed
escludendo esplicitamente il significato aristo- telico del termine (Log., $
276, 266). Non molto diversa da questa è la definizione di Kant: «P. sono
proposizioni dimostrabili bisognose di prove o tali che esprimano un’azione il
cui modo d’effettuazione non è immediatamente certo? (Logik, $ 38). Anche nel
pensiero moderno la nozione di P. è stata ed è tra le più trascurate. I
filosofi, pur parlando continuamente di P. e ritenendo come loro compito la
soluzione di un certo numero di essi e specialmente di quelli che essi stessi
defini- scono «massimi», non si sono troppo curati di analizzare la
corrispondente nozione. Il più delle volte il P. è stato considerato come una
condizione o situazione soggettiva e confuso con il dubbio. Lo stesso Mach lo
definiva in questo senso, come «il disaccordo tra i pensieri e i fatti o il
disaccordo dei pensieri tra loro» (Erkenntniss und Irrtum, cap. XV; trad.
franc., pag. 252-53). Solo recente- mente è stato riconosciuto il carattere di
indeter- minazione oggettiva, che definisce il P.: questo è accaduto nella
Logica (1939) di Dewey. Nel P. Dewey ha visto la « proprietà logica primaria ».
Il P. è la situazione che costituisce il punto di par- tenza di qualsiasi
indagine cioè la situazione inde- terminata. «La situazione indeterminata
diventa problematica nello stesso processo di assoggetta- mento all’indagine.
Essa si produce per cause reali, come avviene, per es., nello squilibrio orga-
nico della fame. Non c’è di nulla di intellettuale o di conoscitivo
nell’esistenza di situazioni del genere, salvo che esse sono la condizione
necessaria di operazioni o indagini conoscitive. Il primo risul- tato del
promuovere l’indagine è che la situazione è riconosciuta come problematica
(Logic, cap. VI; trad. ital., pag. 161). L’enunciazione del P. consente
l’anticipazione di una soluzione possibile che è l’idea; e l’idea esige quello
sviluppo dei rapporti inerenti al suo significato che è il ragionamento.
Infine, la soluzione effettiva è la determinazione della situazione iniziale
cioè il raggiungimento di una situazione unificata nelle sue relazioni e
distin- zioni costitutive. Un’analisi analoga a questa nella sua struttura
fondamentale è quella data da G. Boas, che definisce il P. come «la coscienza
di una devia- zione dalla norma» (The Inquiring Mind, 1959, PROBLEMATICA pag.
56). All’analisi di Dewey va tuttavia aggiunta una determinazione fondamentale:
cioè il ricono- scimento del fatto che un P. non viene eliminato o distrutto
dalla sua soluzione. Un «P. risolto » non è un P. che non si presenterà mai più
come tale, ma è un P. che continuerà a presentarsi con pro- babilità di
soluzione. La scoperta di un medicamento che guarisce una malattia è la
soluzione di un P.; con essa il P. non risulta eliminato giacchè la malattia
continuerà a presentarsi; ciò che la soluzione consente è pertanto la
possibilità, entro certi limiti garantita, di risolvere il P. tutte le volte
che si presenta. Proprio in base a questo carattere del P., si parla della
problematicità dei campi in cui il P. si presenta. E in questo senso il P. è
di- verso non solo dal dubbio che, una volta risolto viene eliminato e
soppiantato dalla credenza, ma anche dalla questione che, una volta trovata la
sua risposta, perde il suo significato. PROBLEMATICA (ted. Problematik). Una
raccolta ordinata o sistematica di problemi. PROBLEMATICISMO. Termine diffuso
in Italia da Ugo Spirito per designare la dottrina della « vita come ricerca »:
una vita condannata a cercare la verità senza trovarla e perciò a oscillare fra
dogma- tismo e scetticismo (La vita come ricerca, 1937). PROBLEMATICITÀ.
Carattere di un campo di indagine nel quale la soluzione dei problemi non
elimina i problemi stessi. Ad es., «P. dell'esperienza + è il carattere per il
quale nell'esperienza i problemi cosiddetti risolti non sono che possibilità di
solu- zioni prospettate in anticipo, con qualche garanzia di successo, dei
problemi che via via insorgono. Il termine viene adoperato frequentemente nella
filo- sofia contemporanea senza chiarimenti espliciti. PROBLEMATICO (ingl.
Problematic; fran- cese Problématique; ted. Problematisch). 1. Ciò che è un
problema o concerne un problema. 2. Ciò che non implica contraddizioni ma
neppure garanzia della sua verità, sicchè può essere affermato o negato ad
arbitrio. Questo è il significato che Kant attribuì al termine: «La
proposizione P. è quella che esprime solo una possibilità logica (non
oggettiva) ossia una libera scelta di assumere tale proposizione come valida +
(Crit. R. Pura, $ 9). « Chiamo P. un concetto che non contiene contraddizioni e
che, come limitazione di concetti dati, si connette con altre conoscenze, ma la
cui verità oggettiva non può essere in alcun modo conosciuta » (/bid., Anal.
dei Princ., cap. III). PROCESSIONE (gr. rp6080g; lat. Processio; ingl.
Procession; ted. Procession)i. La derivazione delle cose da Dio, secondo i
Neoplatonici: in quanto tale derivazione dà luogo a realtà di rango inferiore,
che somigliano a quelle da cui provengono. « Ogni P. si compie per via di
simiglianza delle cose seconde PROGETTO rispetto alla prime » dice Proclo (/st.
Theol., 29; cfr. PLoTINO, Enn., IV, 2, 1, 44; V, 2, 2; SCOTO ERIUGENA, De
divis. nat., III, 17, 19, 25). La teologia cristiana ha adoperato la stessa nozione
per determinare il rapporto tra le persone divine. S. Tommaso distin- gueva a
questo proposito una processio ad extra, nella quale l’azione tende verso
qualcosa di esterno e la processio ad intra per la quale l’azione tende a
qualcosa di interno come accade nella P. che va dall’intelletto all'oggetto
dell’intendere, che rimane dentro l’intelletto stesso. In questo secondo senso
è da intendersi, secondo S. Tommaso, la P. delle persone divine da Dio padre
(S. Th., I, q. 27, a. 1). PROCESSO (lat. Processus; inglese Process; franc.
Processus; ted. Process). 1. Procedimento, modo d’operare o d’agire. Per es.,
«il P. di com- posizione e di risoluzione » per indicare il metodo che consiste
nel discendere dalle cause all’effetto o nel risalire dall’effetto alle cause
(cfr., ad es., S. Tommaso, S. Th., III, q. 14, a. 5); «P. all’infinito » per
indicare il risalire da una causa all’altra senza fermarsi (/bid., I, q. 46, a.
2). 2. Divenire o sviluppo, per es., « il P. della storia ». In questo senso il
termine è adoperato da Whitehead per indicare il divenire del mondo (Process
and Reality, 1929). 3. Una qualsiasi concatenazione di eventi, per es., il « P.
della digestione » o « il P. chimico ». PRODOTTO LOGICO. È la figura (a-5) ri-
sultante da una moltiplicazione logica (v.). G.P. PRODUZIONE (gr. roleoc;
lat. Productio; ingl. Production; franc. Production; ted. Production). Porre in essere qualcosa che potrebbe
non essere. Platone definiva arte produttiva «ogni possibilità che diventi
causa di generazione di cose che prima non erano + (Sof., 265 b) e Aristotele
vedeva nella P. il compito proprio dell’arte e la distingueva dall’azione e dal
sapere: «Ogni arte concerne la generazione e cerca gli istrumenti tecnici e
teorici per produrre una cosa che potrebbe essere e non essere e il cui
principio risiede in colui che la pro- duce e non nell’oggetto prodotto »
(Eric. Nic., VI, 4, 1140 a 10). Da questo punto di vista la P. si distingue
dall’azione che è l’operazione che ha in se stessa il suo fine: una differenza sulla
quale insi- stette S. Tommaso (v. Azione). Il platonismo aveva tuttavia
sminuito questa differenza. Plotino aveva affermato che per la natura « essere
ciò che è significa produrre; essa è contemplazione e oggetto di con-
templazione perchè è ragione; e poichè è contempla- zione e oggetto di
contemplazione e di ragione, essa produce. La P. non è che contemplazione»
(Enn., III, 8, 3). Queste considerazioni sono state spesso ripetute da un punto
di vista idealistico: il che non toglie che la migliore definizione del termine
in questione sia rimasta quella aristotelica. 701 PROERESI. V. SCELTA. PROFONDO
(ingl. Profound, Deep; franc. Pro- fond; ted. Tief). Ciò che ha un significato
nascosto e inesprimibile. Ii termine ha acquistato un signifi- cato tecnico nella
filosofia e nella psicologia contem- poranea per indicare ciò che nell’ambito
dei problemi rimane fuori dall’esplicita formulazione dei problemi stessi pur
costituendo una sfera che può in qualche modo essere « sentita » o «intuita » e
perciò inter- pretata o espressa metaforicamente; o ciò che nel- l'ambito di un
campo d'indagine si sottrae alla portata dei procedimenti propri del campo
stesso ma fa sentire la sua presenza nel modo oscuro che si è detto. Già
Husserl polemizzava contro la nozione del P. in filosofia. «La scienza vera e
propria, egli diceva, non conosce, per tanto che si estende la sua dottrina
autentica, alcun senso profondo. Ogni momento di una scienza perfetta è un
tutto di ele- menti di pensiero, ciascuno dei quali è inteso imme- diatamente e
non possiede perciò alcun senso P.» (Phil. als strenge Wissenschaft, 1910, in fine; tradu-
zione ital., pag. 81). La nozione di P.
prevale oggi soprattutto nel dominio di certi indirizzi psicologici e
antropologici come la psicanalisi, l’intuizionismo, l’esistenzialismo; e
nonostante la ricchezza delle analisi cui ha dato luogo comincia oggi a
suscitare una reazione critica salutare. « Le psicologie abis- sali, ha scritto
Y. Belaval, e le filosofie che si ispi- rano ad esse non hanno fatto nascere nuovi
feno- meni: hanno supposto processi e intenzioni nascoste, hanno avanzato nuove
idee sull’uomo, ma a queste ipotesi e idee manca sempre d'esser formulate nella
lingua delle conoscenze progressive in cui ciascuna parola designa univocamente
un fenomeno deter- minato e ciascuna regola di sintassi un’operazione tecnica
precisa» (Les conduites d’échec, 1953, pag. 274). PROGETTO (ingl. Plan; franc.
Projet; tedesco Projekt, Entwurf). In generale, l’anticipazione delle
possibilità: cioè qualsiasi previsione, predizione, predisposizione, piano,
ordinamento, predetermina- zione, ecc., nonchè il modo d'essere o d’agire che è
proprio di chi fa ricorso a possibilità. In questo senso, nella filosofia
esistenzialistica il P. è il modo d’essere costitutivo dell’uomo 0, come dice
Heidegger (che per primo ha introdotta la nozione) la sua « costi- tuzione
ontologico-esistenziale » (Sein und Zeit, $ 31). Heidegger ha insistito pure
sulla tesi che ogni progettazione, in quanto anticipa possibilità che di fatto
son tali, ricade sul fatto stesso e non procede al di là: sicchè la massima
dell’uomo che progetta se stesso è: « Divieni ciò che sei» (/bid.). Altrove
Heidegger ba detto che il P. del mondo in cui propriamente consiste l’esistenza
umana è antici- patamente dominato dallo stato di fatto che esso cerca di
trascendere e perciò finisce per ridursi 702 e appiattirsi a questo stato di
fatto (Vom Wesen des Grundes, 1929, 3; trad. ital., pag. 67 sgg.). Sartre ha
sostanzialmente ripetuto questi concetti di Hei- degger insistendo tuttavia
sulla gratuità perfetta dei «P. di mondo» in cui l’esistenza consiste. Egli ha
chiamato « P. fondamentale » o « iniziale » quello costitutivo dell’esistenza
umana nel mondo e ha considerato tale P. continuamente modifica- bile ad
arbitrio: « L’angoscia, che, quando è svelata, manifesta alla nostra coscienza
la nostra libertà, testimonia la modificabilità perpetua del nostro P.
iniziale» (L’érre et le néant, 1943, pag. 542). Per quanto caratteristica della
filosofia esistenzia- listica, la nozione di P. è entrata a far parte della
terminologia filosofica e scientifica contemporanea. Essa si è dimostrata utile
a esprimere aspetti im- portanti delle situazioni umane, sia di quelle più
generali analizzate dalla filosofia sia di quelle spe- cifiche che
costituiscono l’oggetto delle scienze an- tropologiche: psicologia, sociologia,
ecc. V. STRUT- TURA e MODELLO, PROGRESSO (ingl. Progress; franc. Progrès; ted.
Fortschrift). Il termine designa due cose: 1° una qualsiasi serie di eventi che
si svolga in un senso desiderabile; 2° la credenza che gli eventi nella storia
si svolgano nel senso più desiderabile, realizzando una perfezione crescente.
Nel primo senso, si parla, ad es., del « P. della chimica » o del «P. della
tecnica»; nel secondo senso, si dice semplicemente « il P.». In questo secondo
senso la parola designa non soltanto un bilancio della storia passata ma anche
una profezia per l’avvenire. Il primo senso ristretto del termine non fa na-
scere problemi e si incontra dappertutto. Anche gli antichi lo possedettero; e
specialmente gli Stoici lo adoperarono per indicare l’avanzare dell’uomo sulla
via della saggezza o della filosofia (STOBEO, Ecl., II, 6, 146: il termine è
rpoxor). Il secondo senso del termine fu sconosciuto all’antichità clas- sica e
al Medioevo. La concezione generale che gli antichi ebbero della storia fu
quella della decadenza a partire da una perfezione primitiva (età dell’oro) o
quella di un ciclo di eventi che si ripete identica- mente senza limiti (v.
StorIA). Solitamente la prima enunciazione della nozione di P. si attribuisce a
Francesco Bacone che così la espose in un passo famoso del Novum Organum
(1620): « Per antichità dovrebbe intendersi la vecchiezza del mondo che va
attribuita ai nostri tempi e non a quella giovinezza nel mondo che fu presso
gli antichi. E come da un uomo anziano possiamo aspettarci una conoscenza molto
maggiore delle cose umane e un più maturo giudizio che da un giovane, per via
dell’esperienza e del gran numero di cose da lui vedute, udite e pensate, così
dell’età nostra (se avesse coscienza delle sue forze e volesse sperimentare e
comprendere) PROGRESSO sarebbe giusto aspettarsi assai più gran cose che dai
tempi antichi essendo la nostra per il mondo l’età maggiore, arricchita da
innumerevoli esperi- menti e osservazioni » (Nov. Org., I, 84). Bacone conclude
facendo suo il motto di Aulo Gellio (o meglio che Aulo Gellio attribuiva a un
vecchio poeta): veritas filia temporis (Noct. Att., XI, 11). Alcuni decenni
prima concetti simili a questi erano però stati esposti da Giordano Bruno nella
Cena delle Ceneri (1584). Nel sec. xvn la nozione di pro- gresso fa i suoi
primi passi soprattutto attraverso la disputa sugli antichi e i moderni (v.
ANTICHI); mentre nel sec. xvi, con Voltaire, Turgot e Con- dorcet prevaleva
nella concezione della storia. Ma solo il sec. xx vide l’affermazione totale
del concetto che nei primi decenni diveniva il vessillo del romanti- cismo e
assumeva il carattere della necessità. Il concetto della necessità del piano
progressivo della storia veniva espresso da Fichte nel modo più energico:
«Qualsiasi cosa realmente esista, egli diceva, esiste per assoluta necessità:
ed esiste neces- sariamente nella precisa forma in cui esiste ». Questa
necessità è razionalità pura: « Nulla è come è perchè Dio vuole arbitrariamente
così, ma perchè Dio non può manifestarsi altrimenti che così... Comprendere con
chiara intelligenza l’universale, l’assoluto, l’eterno ed immutabile, in quanto
guida la specie umana, è compito dei filosofi. Fissare di fatto la sfera sempre
cangiante e mutevole dei fenomeni attraverso i quali procede la sicura marcia
della specie umana è compito dello storico, le cui sco- perte sono solo
casualmente ricordate dal filosofo (Grundziige des gegenwdrtigen Zeitalters,
1806, 9). L’identica concezione veniva difesa dal positi- vismo che con Augusto
Comte, esalta il P. come l’idea direttiva della scienza e della sociologia,
considerandolo come «lo sviluppo dell'ordine» ed estendendolo anche alla vita
inorganica e animale (Politique positive, 1851, I, pag. 64 sgg.). On the Origin
of Species (1859) di Darwin, dava una base positiva o scientifica al mito del
P. adducendo prove in favore di un trasformismo biologico interpretato in senso
ottimistico o progressivo. E l'opera di SPENCER, First Principles (1862),
utilizzava la no- zione di P. per una interpretazione metafisica, che intendeva
essere positiva o scientifica, dell’in- tera realtà. Queste sono soltanto le
tappe salienti dell’affer- mazione di un concetto che ha dominato tutte le manifestazioni
della cultura occidentale ottocentesca e che ancora rimane sullo sfondo di
molte concezioni filosofiche e scientifiche. Le implicazioni principali della
nozione sono le seguenti: 1° il corso degli eventi (naturali e storici)
costituisce una serie uni- lineare; 2° ogni termine di questa serie è
necessario nel senso che non può essere diverso da quello PROPOSIZIONE che è;
3° ogni termine della serie realizza un incre- mento di valore sul precedente;
4° ogni regresso è apparente o costituisce la condizione di un P. ulteriore.
Talvolta, come nella filosofia di Hegel, si limitano le condizioni di validità
della proposi- zione 3° perchè si ammette che la storia costituisca un circolo
nel quale le fasi più alte, già realizzate, costituiscano le condizioni di
quelle più basse, sì che queste posseggono la stessa razionalità o perfe- zione
del tutto (cfr. HEGEL, Wissenschaft der Logik, I, I, I, cap. II, nota I, «Il
progresso infinito»; Croce, La storia come pensiero e come azione, 1938, pag.
25). Ma nessuna di quelle quattro tesi può trovare un appoggio nelle regole
della meto- dologia storiografica che consentono di delimitare, oggi, il campo
detto «storia +; e nessuna di esse è compatibile con tali regole. L'idea del P.
cade perciò fuori del dominio della storiografia scienti- fica; e dall’altro
lato la credenza nel P. è stata fortemente indebolita, nella cultura
contemporanea, dall’esperienza delle due Guerre e dal mutamento che esse hanno
prodotto nel dominio della filosofia, smantellando quell’indirizzo romantico
del quale costituiva un caposaldo. Quest’idea può pertanto, allo stato attuale
degli studi, essere considerata va- lida soltanto come una speranza o un
impegno morale per l’avvenire, non come un principio di- rettivo
dell’interpretazione storiografica. Sul periodo aureo della credenza nel P.
cfr. J. B. Bury, The Idea of Progress, 1932 (v. STORIA). PROIEZIONE (ingl.
Projection; franc. Pro- jection; ted. Projektion). Con questo termine veniva
frequentemente indicato, nella psicologia dell’800, il riferimento della
sensazione all’oggetto, riferimento per il quale l’oggetto viene localizzato
nello spazio circostante, per quanto la sensazione si verifichi solo
nell’organodi senso. Alla fortuna del termine contribuì soprattutto Helmbholtz
(Physiologische Optik, 1867, pag. 602). Il termine è ora caduto in disuso
giacchè il problema stesso non sussiste più negli stessi termini, dato il nuovo
concetto di percezione (v.). Tecniche proiettive si chiamano oggi quelle tec-
niche di accertamento psicologico che consistono nel presentare al soggetto un
materiale (special- mente figure) di significato ambiguo che il soggetto può
interpretare secondo le sue tendenze o bisogni o repressioni e la cui
interpretazione può rivelare perciò lo stato del soggetto. Il più conosciuto di
questi artifici proiettivi è quello introdotto nel 1921 dallo svizzero
Rorschach (cfr. H. H. ANDERSON, e G. L. ANDERSON, An Introduction to Projective
Techniques, 1951). Nella psicanalisi il concetto di P. è usato per descri- vere
il processo mediante il quale un soggetto attribuisce a un altro soggetto gli
atteggiamenti o 703 sentimenti di cui si vergogna o che comunque trova
difficile o penoso riconoscere a se stesso (confronta J. R. SMITHIES, «
Analysis of Projection » in British Journal of Philosophy of Science, 1954,
pag. 120). PROLEGOMENI (ingl. Prolegomena; francese Prolégomènes; ted.
Prolegomena). Trattazione preli- minare, introduttiva e semplificata. Il
termine ricorre nel titolo di alcune opere di filosofia come quella di Kant, P.
a ogni futura metafisica che si presenterà come scienza (1783). PROLEPSI. V.
ANTICIPAZIONE. PROPEDEUTICA (gr. rporadela; ingl. Pro- paedeutics; franc.
Propédeutique; ted. Propàdeutik). Insegnamento preparatorio. Così Platone
chiamò l’insegoamento delle scienze speciali (aritmetica, geometria, astronomia
e musica) rispetto alla dialet- tica (Rep., VII, 536 d). E così si chiama anche
oggi la parte introduttiva di una scienza o un corso di studi che faccia da
preparazione ad un altro corso. PROPENSIONE (lat. Propensio; ingl. Pro-
pensity; franc. Propension; ted. Neigung). Tendenza, nel significato più
generale. Hume usava il termine per definire l'abitudine: « Ovunque la
ripetizione di un atto o di un’operazione particolare produce una P. a
rinnovare l’atto o l’operazione senza la costrizione di un ragionamento o di un
processo intellettuale, diciamo che questa P. è effetto dell’abi- tudine »
(Ing. Conc. Underst., V, 1). PROPORZIONE. V. ANALOGIA. PROPOSIZIONALE CALCOLO,
FUN- ZIONE. V. CALCOLO; FUNZIONE PROPOSIZIONALE. PROPOSIZIONE (gr. rpéraow;
lat. Propositio; ingl. Proposition; franc. Proposition; ted. Satz). Un
enunciato dichiarativo o ciò che è dichiarato, espresso o designato da un tale
enunciato. I due usi del termine sono stati nettamente distinti da Carnap
conformemente ad una lunga tradizione (Intr. to Semantics, 1941, $ 37) ma
vengono ancora spesso confusi, per quanto la distinzione sia stata largamente
accettata nella logica contemporanea (cfr. CHURCH, Intr. to Mathematical Logic,
$ 04; W. KnEALE e M. KNEALE, The Development of Logic, p. 49 sg.). I due usi
sono comandati da due concetti diversi della P. e precisamente dai seguenti: 1)
La P. come espressione verbale di un'operazione mentale, detta spesso giudizio.
2) La P. come entità oggettiva o valore di verità di un enunciato. 1. La
dottrina che la P. è l’espressione verbale di un’operazione mentale fu
formulata per la prima volta da Aristotele: il quale ritenne che il complesso
(ovurdoxt) dei termini (nome e verbo) del discorso dichiarativo (16106
&ropavrixèc) corrisponda a un pensiero (vinua) cui inerisce necessariamente
l’es- sere vero o falso e che pertanto « il vero e il falso » vertono sulla
composizione e sulla divisione (oivdears 704 xal Bratprorc) (De Interpr., 1, 16
a 9 sg.). Il discorso dichiarativo è così l’espressione di un pensiero che
procede componendo e dividendo: la composizione dà origine all’affermazione, la
divi- sione alla negazione (/b., 6, 17 a 23). Negli Analitici (cioè nella
teoria del sillogismo) Aristotele chiamò il discorso dichiarativo « prorasis»
(il cui equiva- lente latino è « propositio ») cioè « premessa del ragionamento
», e definì la protasis come « il discorso che afferma o nega qualcosa di
qualcosa» (An. Pr., I, 1, 24 b 16); o come «l'’asserzione di uno dei membri
della contraddizione» (Zb. II, 12, 77 a 37). Da questo punto di vista, la P.
differisce dal problema (v.) soltanto per la forma: giacché mentre il problema
consiste nel chiedersi ad es.: « È l’uomo animale terrestre bipede o non lo
è??, la P. consiste nell’asserzione «L'uomo è animale terrestre bipede» o
nell’asserzione contraddittoria (Top., I, 4 101 b 28). Ma in ogni caso, la
verità o falsità di una P. dipende dal fatto che la composi- zione o divisione
dei termini, nella quale essa con- siste, corrisponda o meno a quella che
l’intelletto trova nelle stesse cose esistenti. « Tu non sei bianco, dice
Aristotele, perché noi crediamo con verità che tu sei bianco ma, perché tu sei
bianco, noi diciamo la verità asserendo questo. Se alcune cose stanno sempre
insieme e non possono essere divise ed altre son sempre divise e non possono
stare insieme e altre cose ancora possono essere o com- poste o divise, l’«
essere » consisterà nell’essere com- binato o nell’essere diviso e il « non
essere » nell’esser diviso o nell’esser più cose» (Mer., IX, 10, 1051 a 34). La
P., nel combinare i suoi termini, esprime l’azione combinante o dissociante
dell’intelletto che segue la combinazione e dissociazione delle cose esistenti.
Questa dottrina è rimasta sostanzialmente im- mutata nella tradizione antica,
fatta eccezione per gli Stoici (e per il filone da essi iniziato) che intro-
dussero la nozione di enunciato (v.). La tradizione medievale e buona parte
della logica moderna l’ha conservata. San Tommaso diceva che la verità e la
falsità sono nell’intelletto in quanto precede componendo e dividendo: «
infatti, aggiungeva, in ogni P. una forma significata dal predicato o si ap-
plica a qualche cosa significata dal soggetto o si allontana da questa cosa »
(S. Th., I, q. 16, a. 2). Nello stesso indirizzo della logica terministica,
Ockham ammetteva una « P. mentale », che iden- tificava con l’atto
dell’intelletto (Liber periermenias, proemium), per quanto facesse dipendere la
verità della P. dalla suppositio (v. oltre, 2). A partire dall’età carteziana,
il termine «P.» è sostituito dal termine «giudizio» perché l’attenzione della
logica filosofica si concentra sempre di più sull’opera- zione intellettuale
che trova espressione nella P. (v. Giupizio, 4). PROPOSIZIONE Ma ad un
atteggiamento mentale riduce la P. anche Russell, che tuttavia la distingue da
enunciato. Egli infatti la considera come « credenza + o « atteg- giamento
proposizionale » ed afferma pertanto che le P. devono essere definite come
eventi psicologici (o fisiologici) di una certa specie: immagini com- plesse,
aspettazioni, ecc. Ciò è reso evidente, secondo Russell, dal fatto che le P.
possono essere false (An Inquiry into Meaning and Truth, cap. XIII, A; ed. Pelican Books,
p. 172; cfr. Human Knowledge, p. 449-50) v. Giupizio, 3. 2. La dottrina che la P. costituisce il designato
dell’enunciato assume forme diverse a seconda della natura che si attribuisce
al designato stesso. Tal- volta il designato è inteso come « P. in sé» o «en-
tità» di qualche tipo, tal’altra come oggetto o situazione oggettiva o stato di
cose o carattere. In ogni caso, questa interpretazione della P. pre- scinde da
ogni riferimento ad atti o ad operazioni mentali. Gli stoici, che introdussero
la nozione di enun- ciato (v.), ritennero che esso esprime una condi- zione o
uno stato di cose. Essi affermavano che «chi dice ‘È giorno’ mostra di ritenere
che è giorno. Ora se è giorno realmente, l’enunciato che sta dinnanzi a noi è
vero, se non è giorno è falso » (Dro. L., VII, 65). Da questo punto di vista,
il fatto che è giorno è il significato o il valore di verità dell’enunciato « È
giorno ». La logica termi- nistica medievale indicò il significato denotativo
dei termini della P. con il concetto della supposizione (v.), secondo la quale
una P. è vera se i termini da cui essa risulta stanno per il medesimo oggetto
esistente (cfr. OckHaM, Summa Logicae, Il, 2). Nelle Laws of Thought (1854)
Boole distingueva le P. primarie che esprimono una relazione tra cose e le P.
secondarie che esprimono una relazione tra P. (Cap. IV, $ 1). Ma già Bolzano
aveva oppo- sto alla P. verbale la P. in sé (Satz un sich), che è quella valida
indipendentemente dal fatto di essere o non essere espressa O pensata e
costituisce l’ele- mento delle matematiche pure (Wissenschaftslehre, 1837, $
19). Riprendendo la polemica di Husserl contro lo psicologismo, Meinong
distingueva in ogni « giudizio » (termine per lui equivalente a P.) l’obiettivo
(Objektiv) che è il contenuto interno del giudizio e l’obietto (Objekt) che è
l’entità esterna al quale il giudizio si riferisce (Uber Annahmen, 1902, p.
52). Questa distinzione equivale, a tutti gli effetti, a quella che Frege aveva
stabilito tra senso e significato (Ueber Sinn und Bedeutung, 1892) (v.
SIGNIFICATO). A proposito della P., Frege aveva detto che mentre il senso
(Sinn) della P. è un « pen- siero +, non inteso però soggettivamente ma come «
contenuto oggettivo che può costituire il possesso comune di molti», il
significato (Bedeutung) della PROPOSIZIONE FUNZIONALE P. stessa è il suo «
valore di verità » cioè «la circo- stanza che essa è vera o falsa ». In tal
modo la P. può essere considerata come un nome proprio e il vero o falso è
l’oggerto della P. stessa. Ma poiché tutte le P. vere avranno lo stesso
significato (il vero) e così tutte le proiezioni false (il falso), ne segue che
una P. non può ridursi né al suo solo significato né al suo solo senso (che
sarebbe un puro pensiero) ma deve risultare dall'insieme dei due (Ueber Sinn
und Bedeutung, $ 5, in Phil. Wri- tings of G. F., ed. Geach and Black, p. 63 sg.). Nelle proposizioni indirette od oblique in cui en-
trano verbi come «dire», «udire», «pensare», « credere », «concludere » e
simili, come ad es. in questa: « Copernico credeva che le traiettorie dei
pianeti fossero circolari», la P. secondaria intro- dotta dal clte vale solo
come il nome di un pensiero e perciò può essere variata senza compromettere il
valore di verità della P. intera (/b., $ 6; in Geach, p. 66 sg.). Su questi
concetti di Frege s’imperniano le discus- sioni della logica contemporanea
intorno alla natura della proposizione. Delle due dimensioni della P. ammesse
da Frege, Wittgenstein ha cercato di eli- minare il senso (Sinn, come «
pensiero » o « conte- nuto oggettivo ») ed ha usato la parola senso (Sinn) per
intendere ciò che Frege intendeva per significato (Bedeutung), usando
quest’ultima parola solo per la denotazione dei nomi e dei segni. La P., egli
dice è una raffigurazione (Bild, picture) della realtà. lo infatti vengo a
conoscere la situazione da essa rappresentata appena comprendo la proposizione.
E comprendo la P. senza che il suo senso mi venga spiegato » (Tractatus,
4.021). Da questo punto di vista, « la forma universale della P. è: le cose
stanno così e così » (/b., 4.5). Perciò comprendere una P. significa
semplicemente sapere «come stanno le cose nel caso che essa sia vera » (/b.,
4.024), e non c'è bisogno pertanto di ricorrere a un pensiero o a un qualsiasi
contenuto oggettivo. Il « senso » di cui parlava Frege è quindi inutile secondo
Witt- genstein perché il senso della P. è lo stesso suo significato; e «la P.
mostra il proprio senso » (/b., 4.022). Dall’altro lato, Wittgenstein afferma
che «la P. ha un senso indipendentemente dai fatti » (4.061) e che «le P. ‘p’ e
“non p’ hanno un senso opposto per quanto in esse si esprime una unica e sola
realtà » (4.0621): il che implicherebbe, nella terminologia di Frege, un senso
indipendente dal significato. Contrariamente a Wittgenstein, alcuni logici con-
temporanei tendono a ridurre il significato al senso e perciò adoperano il
termine « significato » (Mea- ning) a indicare quello che Frege chiamava senso.
Così Ayer ha definito la P. come la «classe di enunciati che hanno lo stesso
significato (signifi- 45 — ABDBAGNANO, Dizionario di filosofia. 705 cance)
intenzionale per ognuno che li capisce» (Language Truth and Logic, [1936],
1948, p. 88). Nello stesso senso Quine ha considerato le P. come «ia
significati degli enunciati» (From a Logical Point of View, VI, 2; p. 109; Word
and Object, 1960, $ 42). Più vicini alla posizione di Frege sono quelle di
Carnap e Church. Carnap ha distinto l’estensione di un enunciato che è il suo
valore di verità, dall’intensione di esso che è la P. che esso esprime. Nel
senso di Carnap tuttavia la P. è un’entità oggettiva come la « proprietà », per
quanto soltanto di natura logica. Si può par- lare, secondo Carnap, di P. anche
a proposito di enunciati falsi perché le P. sono entità com- plesse, composte
da altre entità; e se anche si ammette che i componenti ultimi di una P. devono
essere «esemplificati» (cioè devono essere veri), non è detto che la P. nel suo
complesso debba esserlo (Meaning and Necessity, $ 6; p. 26-30). Church, che ha
accettato la terminologia di Frege, usa il termine « P.» come equivalente del «
senso » di Frege e afferma che è per una decisione in qualche modo arbitraria
che neghiamo il nome di P. ai sensi degli enunciati (dei linguaggi naturali) in
quanto esprimono un senso ma non hanno valore di verità (Zntr. to Mathematical
Logic, $ 04, op. 27). Dall’altro lato Bergmann si è servito del termine di
Brentano e Husserl «intenzione» per reinter- pretare il «significato» di Frege.
L'intenzione è l’oggetto degli atti intenzionali e la P. è il « carat- tere»
corrispondente all’intenzione stessa. « Nel paradigma, egli dice, l’intenzione
è un fatto es- presso da ‘questo è verde *. Chiamo carattere cor- rispondente
“la P. questo è verde’; e uso P. come un nome generale per questa specie di ca-
rattere» (Logic and Reality, 1964, p. 32). Le discussioni in corso tra i logici
sulle P., nonché sulle loro equivalenze o sinonimie e su altri problemi
relativi, rimangono imperniate sulla distinzione tra senso e significato o su
distinzioni corrispondenti. PROPOSIZIONE ATTRIBUTIVA; ATO. MICA; COMPARATIVA;
DICHIARATIVA; DISCRETIVA; SECONDARIA. V. i relativi aggettivi. PROPOSIZIONE
FUNZIONALE (inglese Functional Proposition; franc. Proposition fonctionelle;
ted. Funktionellsatz). Con questo termine si designano le P. molecolari (ossia
P. complesse, composte di P. semplici mediante i semplici connettivi logici
‘non ’,‘0’,‘e’, ‘implica ’) la cui verità (o falsità) sia funzione unicamente
della verità o falsità delle componenti. La questione se esistano P. molecolari
non funzionali è stata largamente discussa nella Logica contemporanea: contro
la tesi estensionale, principalmente sostenuta dal Wittgenstein, secondo 706
cui tutte le P. molecolari sono funzioni-verità delle componenti, Russell e
altri hanno sostenuto la possibilità di P. composte che non fossero funzioni,
come, per es., « A crede p» (dove ‘A * è un nome di persona e ‘p’ una P.). G.
P. PROPRIETÀ (ingl. Property; franc. Propriété; ted. Eigenschaft). 1. La
determinazione o caratteri- stica propria di un oggetto in uno dei sensi del
ter- mine proprio (v.). 2. Qualsiasi qualità, attributo, determinazione che
serva a contrassegnare un oggetto o a distinguerlo dagli altri. PROPRIETÀ
COMMUTATIVA, DISTRI- BUTIVA. V. COMMUTATIVO, DISTRIBUTIVO. PROPRINCIPIA.
Termine adoperato da Cam- panella per indicare i due princìpi che entrano a
costituire le cose finite, cioè l’Essere e il Non-essere (Mer., II, 2, 2) (v.
PRIMALITÀ). PROPRIO (gr. t3uov; lat. Proprium; ingl. Proper; franc. Propre;
ted. Eigene). 1. Una determinazione che appartiene a tuffa una classe di
oggetti ed appar- tiene sempre e solo a questa classe, pur non facendo parte
della definizione di essa. Questo è il senso fondamentale del termine, quale fu
chiarito da Aristotele (Top., I, 5, 102 a 18) e che entrò a far parte della
tradizione logica (cfr. ARNAULD, Log., I, 7; Jungius, Logica Hamburgensis, I,
1, 33). In questo senso il P., pur non facendo parte dell’es- senza sostanziale
di una cosa, è strettamente con- nesso con tale essenza o deriva in qualche
modo da essa. L'esempio addotto da Aristotele è il poter apprendere la
grammatica: questa determinazione è un P. dell’uomo nel senso che chi è capace
di apprendere la grammatica è uomo ed è uomo chi è capace di apprendere la
grammatica: le due determinazioni « uomo +» e «capace di apprendere la
grammatica » sono reciprocabili. In questo senso il P. è una determinazione
privilegiata che sta tra l’essenza e le determinazioni accidentali. 2. Lo
stesso Aristotele tuttavia chiama proprie anche le determinazioni accidentali
quando di- stingue dal P. per sè «che viene stabilito rispetto a tutti gli
oggetti e separa l’oggetto in questione da ogni altro, come nel caso in cui il
P. dell’uomo sia l’essere un animale mortale che può accogliere il sapere » dal
P. rispetto ad altro « che è quello che di- stingue l'oggetto non da ogni altro
oggetto ma solo da qualche oggetto dato » (Top., V, 1, 128b 34). Il «P. per sè»
è il P. nel senso stretto cioè la deter- minazione che appartiene sempre a
tutto un oggetto dato e solo ad esso, mentre il P. « rispetto ad altro » fu
distinto da Porfirio (sulla base delle stesse consi- derazioni aristoteliche)
in tre altre determinazioni e cioè: 1° ciò che appartiene ad una sola specie ma
non a tutti gli individui della specie: in questo senso l’esser filosofi è P.
dell’uomo; 2° ciò che appar- PROPRIETÀ tiene a tutti gli individui di una specie
ma non ad una sola specie; e in questo l’essere bipede è P. dell’uomo; 3° ciò
che appartiene a tutti gli individui di una sola specie ma non sempre; e in
questo senso l’incanutire è P. dell’uomo. Porfirio enumerava come quarto
significato quello più ri- stretto (/sgg., 12, 12 sgg.). I quattro significati
di Porfirio vennero abitualmente riprodotti dalla logica medievale (cfr., ad
es., Pietro IspaNO, Summ. Logi- cales, 2.13); ma a partire dalla Logica di
Arnauld (I, 7), pur facendosi menzione delle quattro distin- zioni di Porfirio,
si preferì limitare il concetto di P. a quello più ristretto. Ed in realtà, nel
suo signi- ficato esteso, il concetto di P. può includere qualsiasi
determinazione, a qualsiasi titolo attribuita ad un oggetto: perciò perde ogni
caratteristica o utilità spe- cifica. Comunque, la nozione è strettamente
legata all'impianto della logica aristotelica e alla stretta connessione di
questa con la teoria della sostanza, sicchè essa è caduta nella logica
contemporanea. PROSILLOGISMO. V. PoLISILLOGISMO. PROSPETTIVA (ingl. Prospect;
franc. Per- spective; ted. Perspektive). Una qualsiasi anticipa- zione
dell’avvenire: progetto, speranza, ideale, illu- sione, utopia, ecc. Il termine
esprime lo stesso concetto di possibilità (v.) ma da un punto di vista più
generico e meno impegnativo, giacchè possono apparire come prospettive cose che
non hanno ab- bastanza consistenza per essere possibilità autentiche. Nella
filosofia contemporanea il termine è stato ado- perato specialmente da Ortega y
Gasset, Blondel, Mannheim, senza tuttavia una chiara formulazione concettuale.
Per prospertivismo (ted. Perspektvismus) Nietzsche intese la condizione per la
quale « ogni centro di forza — e non l’uomo soltanto — co- struisce tutto il
resto dell’universo partendo da se stesso cioè prestando all’universo
dimensioni, forma e modello commisurati alla propria forza » (Werke, ed.
Kriner, XVI, $ 636). Il termine è stato talora usato per designare la filosofia
di Ortega y Gasset. PROSSIMO. (gr. tè v rainolov; lat. Proximus; ingl.
Neighbour; franc. Prochain; ted. Néchste). Nell’interpretazione che il Vangelo
di Luca (X, 29-37) dà della massima biblica « Ama il P. tuo come te stesso »
(Levitico, XIX, 18), P. è l’altro uomo in generale, indipendentemente da ogni
legame di razza, di amicizia o di parentela, in quanto usa a noi misericordia o
noi la usiamo a lui. Il che vuol dire che la misericordia va usata a qualsiasi
uomo in quanto tale, che comunque si incontri con noi e non ristretta a una
cerchia predeterminata di persone. PROTASI. V. PROPOSIZIONE. PROTENSIONE (ingl.
Prorensity; ted. Pro- tention). Durata di coscienza. Termine introdotto PROVA
da Kant il quale osservava: « La felicità è l’appa- gamento di tutte le nostre
propensioni tanto exten- sive nella loro molteplicità, quanto intensive cioè
rispetto al grado e anche protensive rispetto alla durata + (Crift. R. Pura,
Dottr. del Metodo, cap. II, sez. II). Husserl ha chiamato P. «il prericordo
riproduttivo in senso proprio» cioè lo stato di aspettazione che prepara la
riproduzione del ri- cordo (/deen, I, $ 77). PROTOCOLLO (ingl. Protocol; franc.
Protocol; ted. Protokoll). Termine introdotto dal Circolo di Vienna per
indicare la registrazione del dato imme- diato o esperienza diretta
(sensazione, percezione, emozione, pensiero, ecc.). Le « proposizioni proto-
collari» sono quelle che contengono unicamente P. e perciò fanno diretto
riferimento ai dati imme- diati. Le proposizioni protocollari, mentre sono lo
strumento di ogni verificazione empirica, non hanno a loro volta bisogno di
verifica perchè la loro verità è garantita dal P. che contengono e che le fa
corri- spondere immediatamente al dato empirico (con- fronta R. CARNAP, in
Erkenntnis, II, 1931, pag. 437 seguenti). La nozione di P. rimane legata alla
fase del neopositivismo che esigeva, per dichiarare signifi- cante una
proposizione, la verifica diretta della pro- posizione mediante protocolli. Ma
Carnap stesso a partire dallo scritto Testability and Meaning (1936) li- mitava
questa esigenza, affermando che gli enunciati, per essere significativi,
debbono essere confermabili cioè contenere soltanto « predicati-cosa
osservabili ». Questi predicati-cosa non sono più P., cioè dati dell’esperienza
immediata, ma piuttosto nomi di qualità elementari (per es., « rosso +). Per
una critica del concetto di P., nello stesso ambito del positivismo logico,
cfr. K. PoPPER, Logik der Forschung, 1934; trad. ingl., 1958, $ 26 (v.
ESPERIENZA). PROTOFILOSOFIA (ingl. Protophilosophy; franc. Protophilosophie;
ted. Protophilosophie). Ter- mine adoperato soprattutto da sociologi per indi-
care la filosofia dei popoli primitivi cioè quella che si esprime nella forma
del mito (v.). PROTOLOGIA (ingl. Protology; franc. Proto- logie; ted.
Protologie). Termine adoperato da alcuni scrittori italiani del primo ’800
specialmente da Ermenegildo Pini (P., 3 voll., 1803) per indicare quella che
Fichte chiamava dottrina della scienza o scienza delle scienze. Il termine fu
adottato da Vincenzo Gioberti per l’ultima sua opera, pubblicata postuma (P.,
1857). Gioberti definisce la P. come «la scienza dell’ente intelligibile
intuita per via del pensiero immanente» scienza che è la base di ogni altra
scienza ed è anteriore anche all’on- tologia. L’uso di questo termine si è
fermato a Gioberti. PROTON PSEUDOS (gr. mpétov yessoc). La falsità della
premessa maggiore in quanto 707 determina la falsità del sillogismo
(ARISTOTELE, An. Pr., II, 18, 66 a 16). PROTOTESI (ingl. Protothesis; franc.
Proto- thèse; ted. Protothese). Termine adoperato da W. Ostwald per indicare le
ipotesi che sono suscetti- bili di verifica sperimentale allo stato attuale
della scienza e che perciò si distinguono da quelle che non lo sono (Die
Energie und ihre Wandlungen, 1888, $ 68). In realtà, nessuna ipotesi è come
tale diret- tamente verificabile (v. IPOTESI; TEORIA). PROTOTIPO (gr.
rpwrérurog; lat. Prototypus; ingl. Prototype; franc. Prototype; ted. Prototyp).
Modello originario. Lo stesso che archetipo (v.). PROTRETTICO (gr.
rporpertxéc). Esorta- zione alla filosofia (cfr. PLAT., Eutid., 278 c; Crr-
sippo, Stoicorum Fragmenta, III, 189). La parola fu adoperata come titolo di
libro da Aristotele, Epicuro, Cleante ed altri. PROVA (gr. texuipuov; lat.
Probatio; ingl. Proof; franc. Preuve; ted. Beweis). Un procedimento adatto a
stabilire un sapere cioè una conoscenza valida. Costituisce P. ogni
procedimento del genere, qualunque sia la sua natura: il mostrare ad oculos una
cosa o un fatto, l’esibire un documento, il riportare una testimonianza,
l’effettuare un’indu- zione sono P. come sono P. le dimostrazioni della
matematica e della logica. Il termine è pertanto più esteso di dimostrazione
(v.): le dimostrazioni sono P. ma non tutte le P. sono dimostrazioni. Il
concetto fu stabilito nel senso ristretto da Ari- stotele. «Dicono che la P. è
ciò che produce il sapere» egli scrisse; e perciò distinse la prova
dall’indizio o segno, che dà soltanto una conoscenza probabile (An. Pr., II,
27, 70 b 2). E nella Retorica aggiunse: «Quando si pensa che ciò che si è detto
non può essere confutato, si pensa che si è portata una P., in quanto una P. è
sempre dimostrata e perfetta 1; e il sillogismo stesso è una P. necessaria in
questo senso (Rer., I, 2, 1357 b 5). Lo stesso concetto di un procedimento che
stabilisce o scopre una cono- scenza fu espresso dagli Stoici nella definizione
del segno indicativo come di « un enunciato che proce- dendo in sana
connessione scopre ciò che consegue + (Sesto E., Jp. Pirr., II, 104); o del
ragionamento dimostrativo come di quello che, «per mezzo di premesse convenute
scopre, per via di deduzione, una conclusione non manifesta» (/bid., II, 135).
I procedimenti cui si fa allusione in queste defini- zioni sono P. in quanto
sono « discopritivi +, cioè in quanto producono (e giustificano) conoscenze.
Nel sec. xvi Locke riproduceva a suo modo, cioè sul presupposto cartesiano
della superiorità dell’in- tuizione, questo concetto di P.: « Quelle idee
inter- medie che servono a dimostrare la concordanza fra due altre idee sono
chiamate P.; e quando con questo mezzo è chiaramente ed evidentemente 708
percepita la concordanza o discordanza, questa è detta una dimostrazione;
poichè allora la cosa è mostrata all’intelletto e lo spirito è portato a vedere
che essa sta così » (Saggio, IV, 2, 3). Ma la dottrina di Locke segna una
svolta importante nella storia del concetto di P. perchè ammette, per la prima
volta, la possibilità di P. probabili. «La probabilità, diceva Locke, non è che
l’apparenza della concor- danza o discordanza tra due idee mediante l’inter-
vento di P. il cui legame non è costante e immutabile o almeno non è percepito
come tale, ma è o appare tale per lo più ed è sufficiente a indurre lo spirito
a giudicare che la proposizione è vera o falsa, piuttosto che non il contrario
» (/bid., IV, 15, 1). Wolff dal suo canto pur identificando la P. con il
sillogismo distingue da essa la dimostrazione in quanto sarebbe un sillogismo «
che si avvale soltanto di premesse che sono definizioni, esperienze indu-
bitabili e assiomi» (Logica, $ 498). Ma furono soprattutto Hume e Kant che
stabilirono le distin- zioni fondamentali in questo campo. Hume propose di
distinguere tutti gli argomenti in dimostrazioni, P. e probabilità, intendendo
per P. « quegli argomenti tolti dall'esperienza che non soffrono dubbio ed
obiezioni » (Ing. Conc. Underst., VI, nota): nella quale distinzione le
dimostrazioni sarebbero limi- tate al dominio delle pure connessioni di idee.
Kant a sua volta distinse quattro specie di P.: 1° la P. logica rigorosa, che
va dal generale al particolare ed è la dimostrazione vera e propria; 2° il
ragiona- mento per analogia; 3° l’opinione verosimile; 4° l’ipotesi cioè il
ricorso a un principio esplicativo semplicemente possibile (Crir. del Giud., $
90). Egli affermò che le P. dimostrative o apodittiche si trovano soltanto nel
dominio delle matematiche giacchè queste procedono mediante la costruzione dei
concetti: e che i principi di P. empirici non possono dare nessuna P.
apodittica (Crit. R. Pura, Dottrina del Metodo, cap. I, sez. II). Questa era
sostanzialmente un’accettazione del punto di vista di Hume. Dewey ha anch’egli
accettato questo punto di vista, osservando che c’è « da un lato la
dimostrazione razionale, che è questione di rigorosa consequenzialità nel
discorso, dall’altro la dimo- strazione puramente ostensiva» (Logic, cap. XII;
trad. ital., pag. 327). La distinzione tra dimostra- zione o « P. logica» o «
deduttiva » o « necessaria + e la P. in generale ricorre frequentemente (cfr.,
ad es., W. HAMILTON, Lectures on Logic, 1866, II, pag. 38; G. BERGMANN,
Philosophy of Science, 1957, pag. 4). Ma mentre l’analisi dei procedi- menti di
P. usati dalle singole scienze (e quindi della nozione di P. in generale) ha
ricevuto poca attenzione dai filosofi metodologici e non ha fatto progressi, la
nozione di P. logica è stata ripetu- tamente claborata da matematici e logici.
I prin- PROVA cìipi della «teoria della P.» furono stabiliti da D. Hilbert nel
modo seguente: « Una P. è una figura che ci deve stare come tale davanti; essa
consiste di conseguenze derivate secondo lo schema seguente N 3 T T nel quale
ognuna delle premesse cioè le formule Se S-+T o è un assioma, cioè posta
direttamente come tale, o coincide con la formula finale 7 di un ragionamento
precedentemente giunto alla P. cioè consiste nell’assunzione di tale formula
finale. Una formula si dice suscettibile di P. se essa o è un’as- sioma cioè
assunta come un’assioma con un atto di posizione, o è la formula finale di
un’altra P. + (« Die logischen Grundlagen der Mathematik », in Mathematische
Annalen, 1923, pag. 152). In altri termini una P. logica è un procedimento che
con- siste in una manipolazione di formule: manipola- zione che è a sua volta
un insieme di formule. Dice Church, « Una sequenza finita di una o più formule
ben formate è una P. se ciascuna delle formule ben formate della sequenza o è
un assioma o è immediatamente inferita dalle precedenti for- mule della
sequenza per mezzo di una delle regole di inferenza » (Intr. to Mathematical
Logic, 1956, $ 07). Wittgenstein aveva già detto a questo propo- sito: « La P.
in logica è solo un espediente mecca- nico per riconoscere più facilmente la
tautologia quando è complicata» (Tractatus logico-philoso- phicus, 6.1262). La
teoria matematica della P. è sostanzial- mente la riduzione della P. alla P.
della non contradditorietà. Ora un teorema stabilito da K. Gédel nel 1931
afferma che si può sol- tanto provare, con l’aiuto di una parte delle
matematiche, la non contraddizione di una parte più ristretta delle matematiche
stesse; ma non si può provare la non contraddizione dell’insieme delle
matematiche o di una parte più estesa di esse. Si può, ad es., dimostrare la
non contraddizione della teoria dei numeri interi partendo dalla teoria dei
numeri reali, non reciprocamente (cfr. CARNAP, Logical Syntax of Language,
1937, $ 35-36; QUINE, Mathematical Logic, 1940, cap. 7). Il teorema di Gédel
porta, come osserva Quine, alla maturità una nuova branca della teoria
matematica cioè la branca conosciuta come metamatematica o « teoria della P.»,
il cui oggetto è la stessa teoria mate- matica (Me:rhods of Logic, $ 41).
Questo teorema stabilisce tuttavia che una P. della coerenza è sempre relativa
perchè il risultato di essa vale soltanto finchè si ammette la coerenza del
sistema in base al quale essa viene effettuata (cfr. Quine, From a Logical Point
of View, pag. 99 sgg.). Cfr. pure E. NAGEL e J. R. NEWMANN, Gòdel’s Proof.,
1958 (v. MATEMATICA), PSICANALISI PROVVIDENZA (gr. mpévota; lat. Providentia;
ingl. Providence; franc. Providence; ted. Vorsehung). Il governo divino del
mondo: che viene abitual- mente distinto dal destino, in quanto è considerato
come esistente in Dio stesso mentre il destino è questo governo visto
attraverso le cose del mondo (v. Destino). La nozione di provvidenza fa parte
integrante del concetto di Dio come creatore dell’or- dine del mondo o come
quest'ordine stesso (v. Dio). Per i problemi connessi col concetto di P., vedi
MALE; TEODICEA. PROVVIDENZIALISMO (ingl. Providentia- lism). 1. La fiducia
nell’azione della provvidenza. 2. La dottrina che vede nella storia un ordine o
un piano provvidenziale. In quest’ultimo senso il termine è adoperato in
italiano (v. STORIA). PRUDENZA (lat. Prudentia; ingl. Prudence; franc.
Prudence; ted. Klugheit). V. SAGGEZZA. PSEUDOCONCETTO. P. o « finzioni con-
cettuali » 0 « concetti finiti » chiamò Croce le nozioni che comunemente si
dicono concetti, in contrapposto al «concetto puro» o « autentico concetto »
con il quale egli intese la stessa Ragione universale nella sua forma
conoscitiva. I P. servirebbero a conser- vare e a classificare le conoscenze
acquistate (Logica, 1920, cap. II. PSEUDOPROPOSIZIONI (ingl. Pseudosta- tement;
ted. Pseudosdizen). Termine adoperato da Carnap per indicare « espressioni che
sono erronea- mente considerate come proposizioni ma non hanno contenuto
conoscitivo, per quanto possano avere componenti di significato non cognitivo,
per esempio emotivo » (Meaning and Necessity, $ 4). Secondo Carnap, molte
proposizioni della metafisica classica sono P. in questo senso (cfr.
Erkenntnis, II, 1931). PSICANALISI (ingl. Psychoanalysis; francese
Psychanalyse; ted. Psychoanalyse). Sotto il nome di P. vanno: 1° un metodo di
cura per certe malattie mentali; 2° una dottrina psicologica; 3° una dottrina
metafisica; infine, e più spesso, una certa disordinata mescolanza di queste tre
cose. I fondamenti della psicanalisi sono stati dallo stesso fondatore Sig-
mund Freud così riassunti nell’introduzione di una delle sue opere maggiori: 1°
i processi psichici sono in se stessi incoscienti e i processi coscienti sono
soltanto atti isolati, frazioni della vita psichica totale; 2° i processi
psichici incoscienti sono in buona parte dominati da tendenze che possono
essere qualificate «sessuali» nel senso stretto o largo del termine.
Quest’ultimo presupposto è in realtà la caratteristica fondamentale della P.;
la quale è essenzialmente il tentativo di spiegare l’intera vita dell’uomo, e
non solo quella privata o indivi- duale ma anche quella pubblica o sociale, con
il ricorso a una sola forza che è l’istinto sessuale o libido (v.) nel senso
tecnico di questo termine (Ein- 709 fiihrung in die Psychoanalyse, 1917,
Intr.). Dal con- trasto tra gli impulsi sessuali dell'inconscio e le
soprastrutture morali e sociali costituite da proi- bizioni e censure
accumulate e consolidate dall’in- fanzia, nascono i seguenti fenomeni: a) i
sogni, che sarebbero espressioni deformate e simboliche dei desideri repressi
(cfr. Die Traumdeutung, 1900); b) gli arti mancati cioè i lapsus, le sviste,
che sono falsamente attribuite al caso; e perfino gli scherzi e l’umorismo
(cfr. Zur Psychopathologie des All- tagslebens, 1901; Der Witz und seine
Bedeutung zum Unbewussten, 1905); c) le malattie mentali che pertanto possono
essere curate portando il paziente, attraverso la confessione e la
conversazione, a ri- conoscere i conflitti da cui emergono. A questo proposito,
il sintomo di una malattia dev’essere considerato come «il segno e la
sostituzione di una soddisfazione istintuale rimasta latente, il ri- sultato di
un processo di rimozione» (Hemmung, Symptom und Angst, 1926, cap. 2; trad.
ital., pa- gina 29). Uno dei fenomeni caratteristici della cura psicanalitica è
il cosiddetto transfert cioè il tra- sferimento dei sentimenti del malato
(positivi o negativi, cioè di amore o di odio) alla persona del medico
(Einflihrung cit., cap. 27; trad. franc., pa- gina 461 sgg.); d) la
sublimazione cioè il trasferi- mento dell’impulso sessuale ad altri oggetti,
tra- sferimento che darebbe luogo ai fenomeni cosiddetti spirituali: arte,
religione, ecc.; e) i cosiddetti com- plessi cioè sistemi o meccanismi
associativi, rela- tivamente costanti in tutti gli uomini e cui vanno
attribuiti i maggiori turbamenti mentali. La nozione e il termine di complesso
fu introdotta da un se- guace di Freud, C. G. Jung (Wandlungen und Symbole der
Libido, 1912). Ma Freud aveva già, nell’Inter- pretazione dei sogni, adombrato
tutti i fatti fonda- mentali del cosidetto « complesso di Edipo +, che è quello
per cui il bambino include nell’amore per la madre una certa gelosia o
avversione verso il padre. Nel 1923 nello scritto L’Ego e Es (Das Ich und das
Es) Freud dava una teoria psicologica che è stata largamente accettata dalla
psicologia contemporanea. Egli divideva lo spirito in tre parti: l’Ego che è
organizzazione e consapevolezza, perciò è in contatto con la realtà e cerca di
asservirla ai suoi fini; il Super Ego che è ciò che comunemente si chiama
coscienza morale, cioè l’insieme delle proibizioni che sono state instillate
all'uomo nei primi anni di vita e che poi lo accompagnano sempre, anche in
forma inconsapevole; e 1°Es che è costituito dagli impulsi molteplici della
libido, di- retta costantemente verso il piacere. Questa dot- trina su cui lo
stesso Freud è ritornato più tardi (cfr. Hemmung, Symptom und Angst, 1926) si è
rivelata abbastanza utile sia per la descrizione e 710 l'interpretazione delle
malattie mentali sia nella teoria della personalità. Freud e i suoi seguaci
hanno presentato e presen- tano i loro concetti non come ipotesi o strumenti di
spiegazione ma come realtà assolute, di natura metafisica. Ma una vera e
propria metafisica, anzi una mitologia Freud ha formulato in uno dei suoi ul-
timi scritti Das Unbehagen in der Kultur (1930, tradu- zione inglese, col
titolo Civilisation and its Discon- tents, 1943), nel quale ha considerato
tutta la storia dell’umanità come la lotta tra due istinti, l’istinto della
vita o Eros e l’istinto della Morte. « Questa lotta, egli ha scritto, è ciò in
cui ogni vita essenzial- mente consiste e perciò lo sviluppo della civiltà può
essere descritto come la lotta della specie umana per l’esistenza. Ed è questa
battaglia di titani che le nostre nutrici e governanti tentano di comporre con
le loro filastrocche sui cieli » (Civilisation and its Discontents, 1943, pag.
102). Questa dottrina non è che un’espressione, non molto aggiornata, del
dualismo manicheo. L’importanza della P. consiste in primo luogo nell’avere
sottolineato la funzione del fattore ses- suale in tutte le manifestazioni
della vita umana. Per la prima volta, con la P., questo fattore ha cessato di
essere una zona d’ignoranza obbligata per la scienza e per la filosofia e ha
potuto essere studiato nei suoi effettivi modi d’azione. In secondo luogo, la
P. ha fornito un insieme di concetti che, per quanto non molto compatibili tra
loro, si prestano ad essere utilizzati da varie branche della psicologia
contemporanea, soprattutto sc sottratti al dogmatismo con cui alcuni seguaci di
Freud li hanno trattati. Questo secondo aspetto positivo ha però una
controparte negativa: la P. fornisce a molti orecchianti il modo di apprestare
spie- gazioni apparentemente plausibili e molto a buon mercato dei fenomeni
umani più disparati, scam- biando anche, talora, questa spiegazione per una
giustificazione morale 0 metafisica. In terzo luogo, la P. ha avuto il merito
di apprestare uno stru- mento curativo che continua a dimostrarsi efficace,
anche se molte delle illusioni ottimistiche che esso aveva suscitato ai suoi
inizi sono andate perdute. Tra i molti indirizzi interpretativi, che hanno più
o meno modificato le dottrine fondamentali della P., se ne possono ricordare
due, quella di Jung e quella di Adier. Jung ha concepito l’istinto fon-
damentale dell’uomo non già come di natura ses- suale ma come una Energia
originaria e creativa che si identifica con il concetto generico della divi-
nità e costituisce l'inconscio collettivo che è il fondo comune della natura
umana (Psicologia dell’in- conscio, 19425): Alfred Adler invece ha identificato
l’istinto fondamentale dell’uomo con la volontà di potenza di cui parlava
Nietzsche cioè come uno PSICANALISI ESISTENZIALE spirito di aggressione e di
lotta che è in conflitto con l’altro istinto, il sentimento della comunità
umana che lega l’individuo a tutti gli altri. Il gioco di queste due forze
determinerebbe il carattere di ogni singolo uomo e le sue manifestazioni
patolo- giche (La conoscenza dell’uomo, 1927). PSICANALISI ESISTENZIALE (franc.
Psy- chanalyse existentielle). Sartre ha chiamato con questo nome l’analisi
filosofico-esistenziale in quanto cerca di determinare la «scelta originaria »
che è alla base di ogni umano « progetto di vita ». Il prin- cipio di questa
psicanalisi è che « l’uomo è una tota- lità e non una collezione +; e il suo
scopo è quello di « decifrare i comportamenti empirici dell’uomo », Inoltre il
suo punto di partenza è l’esperienza e il suo metodo è quello comparativo
(L’étre er le néant, 1943, pag. 656). La P. esistenziale si differenzia da
quella di Freud che Sartre chiama « empirica » perchè cerca di determinare non
già i « complessi » ma la scelta originaria (/bid., pag. 657). PSICHE (ingl.
Psyche; franc. Psyché; ted. Psy- che). Anima o coscienza (v. questi due
termini). PSICHEDELICO (ingl. Psychedelic). Aggettivo che dovrebbe significare
« manifestante la psiche », coniato recentemente per qualificare le esperienze
prodotte dall’uso dell’acido lisergico (LSD) o di altre droghe, in quanto
assunte o credute come rivelazioni di una realtà più profonda di quella che si
manifesta nell’esperienza comune e che è di natura divina o è la divinità
stessa immanente nel mondo (cfr. W. BRADEN, The Private Sea, London, 1967).
PSICOFISICA. V. PsicoLOGIA, b). PSICOGENESI (ingl. Psychogenesis; francese
Psychogénèse; ted. Psychogenese). Lo sviluppo dei processi mentali, o la
considerazione di tale sviluppo. PSICOGNOSI (ingl. Psychogrosy). Termine
adoperato da Peirce per indicare il complesso delle scienze psichiche (Coll.
Pap., 1.242). PSICOGRARFIA (ingl. Psychography; francese Psychographie; ted.
Psychographie). Descrizione dei processi o dei caratteri psichici di un individuo.
PSICOIDE (ingl. Psychoid; franc. Psychotd; ted. Psycholde). Nome dato dal
biologo vitalista H. Driesch alla forza psichica che presiede alla forma- zione
e allo sviluppo degli organismi (v. VITALISMO). PSICOLOGIA (ingl. Psychology;
franc. Psy- chologie; ted. Psychologie). La disciplina che ha per oggetto
l’anima o la coscienza o gli eventi caratteristici della vita animale ed umana,
comunque tale eventi siano poi caratterizzati al fine di deter- minarne la
natura specifica. Talvolta infatti tali eventi si considerano come puramente
«mentali» cioè come «fatti di coscienza»; talaltra come eventi oggettivi od
oggettivamente osservabili, cioè come movimenti, comportamenti, ecc.; ma in
ogni caso PSICOLOGIA l’esigenza cui queste definizioni rispondono è quella di
delimitare il dominio dell’indagine psicologica alla cerchia ristretta dei
fenomeni caratteristici degli organismi animali e specialmente dell’uomo. Dal
punto di vista dell’impostazione concettuale (che è quello che interessa la
filosofia) si possono distin- guere i sei indirizzi fondamentali seguenti: a)
P. ra- zionale; 5) P. psicofisica; c) P. gestaltistica; d) P. com-
portamentistica; e) P. del profondo; f)P. funzionale. a) La P. razionale o
filosofica è quella fondata da Aristotele che per primo raccolse nel suo libro
De Anima le opinioni che i suoi predecessori ave- vano espresso intorno a
questo soggetto. Questa P. ha per oggetto « la natura, la sostanza, e le deter-
minazioni accidentali dell'anima », intendendosi per anima «il principio degli
esseri viventi» (De An., I, 1, 402 a 6). Il presupposto fondamentale di questa
P. è esplicito in queste notazioni: essa presuppone negli eventi che prende a
studiare un principio unico e semplice, una sostanza necessaria, dalla quale si
lascino dedurre le determinazioni che quegli eventi posseggono costantemente o
per lo più. La P. è in questo senso una scienza deduttiva del- l'anima nella
quale i fenomeni particolari entrano soltanto come conferme occasionali dei
singoli teoremi che la costituiscono. Ben a ragione nel sec. Xvili Wolff dava a
questa P. il titolo di « razio- nale » in quanto per essa si tratta di «
derivare a priori dall’unico concetto dell'anima umana tutte le cose che si
osservano a posteriori competere ad essa» (Log., Disc. prel., $ 112). Ma fu
merito di Wolff aggiungere a tale P. una P. s empirica + definita come «la
scienza che stabilisce attraverso l’esperienza i princìpi con i quali si possa
rendere ragione di ciò che accade nell’anima umana» (/bid., $ 111; Psy-
chologia empirica, 1732, $ 1). La P. razionale in questo senso rimane un
indirizzo proprio delle filosofie che si ispirano alla metafisica tradizionale,
ma ha cessato di avere qualsiasi efficacia sullo sviluppo scientifico della
psicologia. b) La P. psicofisica o più semplicemente la psicofisica ha
costituito il primo indirizzo empirico o sperimentale o scientifico della
psicologia. Wolff aveva già prescritto per essa il procedimento indut- tivo o
sperimentale proprio di tutte le scienze empi- riche; Maine di Biran, ai
princìpi dell’800, le pre- scriveva il suo campo d’azione: la coscienza (Essai
sur les fondements de la psychologie, 1812). Con ciò tuttavia non c’erano
ancora tutte le condizioni per la fase scientifica della psicologia. Ne manca-
vano due, strettamente connesse tra loro; in primo luogo, il riconoscimento
dello stretto rapporto tra gli eventi psichici e gli eventi fisici mediato dal-
l’azione del sistema nervoso; in secondo luogo, l’introduzione di un qualche
procedimento di mi- sura. La realizzazione di queste due condizioni 711
condusse la P. a costituirsi come psicofisica. Ciò avvenne per opera di
Helmholtz, Weber, e Fechner: il primo dei quali riusciva a misurare nel 1850 la
velocità dell’impulso nervoso; mentre il secondo enunciava la cosiddetta «
legge » concernente il rap- porto tra lo stimolo e la sensazione (e secondo la
quale l’aumento dello stimolo necessario per es- sere percepito come tale è
proporzionale all’inten- sità dello stimolo originario); e l'ultimo stabiliva
la «legge psicofisica fondamentale » che consisteva nella formula matematica
esprimente la legge di Weber. Nel 1860 Fechner pubblicava gli Elementi di
psicofisica che definivano la psicofisica come «la scienza esatta delle
relazioni funzionali o re- lazioni di dipendenza fra lo spirito e il corpo».
Questo fu e rimase il programma della P. scien- tifica in questa prima fase
della sua organizzazione: un programma nel quale trovarono posto agevol- mente
i risultati delle analisi dell’empirismo inglese da Locke a Spencer.
Quest'ultimo nei Principi di P. (1855) aveva anch’egli definito come psico-
fisica il compito della P. asserendo che «la P. si distingue dalle scienze
sulle quali poggia [dall’ana- tomia e dalla fisiologia] perchè ciascuna delle
sue proposizioni prende in considerazione sia il feno- meno interno connesso
sia il fenomeno esterno connesso, al quale si riferisce » (Principles of Psy-
chology, 3* ed., 1881, pag. 132). Dall’empirismo inglese, la P. desunse due
tratti fondamentali che l’accompagnarono in questa prima fase della sua
costituzione cioè l’atomismo (v.) e l’associazio- nismo (v.): sicchè le sue
strutture teoretiche fon- damentali possono ricapitolarsi nel modo seguente: 1°
La P. ha per oggetto i « fenomeni interni » o « fatti di coscienza » e il suo
principale strumento di indagine è l’introspezione o riflessione. Per questo
aspetto l’indirizzo in esame della P., fu spesso chia- mato P. soggettiva o
riflessiva o, più raramente, ‘ critica ’. 2° I fatti di coscienza o fenomeni
interni sono studiati dalla P. nella loro connessione funzio- nale con i
fenomeni esterni cioè fisiologici o fisici. Per quest’aspetto che è il più
proprio della fase in questione tale P. fu chiamata psicofisica o anche (da
Wundt) P. fisiologica. A questo aspetto si collega l’ipotesi che ha sorretto in
questa fase il lavoro sperimentale della P.: il parallelismo psicofisico (v.).
3° La tendenza a risolvere il fatto di coscienza in elementi ultimi
(sensazioni, emozioni elementari, riflessi o istinti elementari) e a spiegare i
fenomeni più complessi con la combinazione di tali elementi: (atomismo,
associazionismo). 4° Il carattere scientifico della P. è costituito dal ricorso
ai procedimenti dell’induzione, dell’espe- rimento e del calcolo matematico; il
ricorso a tali 712 procedimenti stabilisce il carattere descrittivo che la P.
rivendica per sè, analogamente a quanto fanno le altre discipline empiriche. c)
La P. della forma o gestaltismo o configurazio- nismo batte in breccia il
caposaldo 3° della P. psico- fisica cioè l’atomismo e l’associazionismo. Essa
consiste nell’assumere come punto di partenza il principio simmetrico e opposto
a quello della P. associativa: non già l’elemento, ma la forma totale è il
fatto fondamentale della coscienza, giacchè questa forma non è mai riducibile
ad una somma o combinazione di elementi. La P. della forma ebbe come suoi
fondatori Wertheimer, Kéhler e Koffka; e pur mantenendo sostanzialmente
immutato il caposaldo 2° della psicofisica cessò di parlare di fatti o fenomeni
di coscienza per considerare forme o configurazioni o campi, colti nella loro
struttura totale. La P. della forma si è occupata soprattutto della percezione,
rispetto alla quale ha accumulato una mole ingente di lavoro speri- mentale (v.
PERCEZIONE, 3, @). d) La P. obiettiva o comportamentismo batte in breccia il caposaldo
1° della P. psicofisica, negando che lo strumento fondamentale della P. sia
l’intro- spezione o riflessione e che i fatti di coscienza o fenomeni interni
siano l’oggetto di questa scienza; e asserendo che costituiscono invece oggetto
della P. le reazioni degli organismi agli stimoli: inten- dendosi per reazioni,
movimenti o fenomeni ogget- tivamente osservabili, che si producono in rapporto
agli eventi dell'ambiente che funzionano da stimoli. Nel 1907 il fisiologo
russo Bechterev pubblicava una P. obiettiva (che fu poi tradotta in inglese e
francese) che sosteneva appunto questa tesi; che più tardi gli studi di Pavlov
sui riflessi condizionati difesero e diffusero (v. AZIONE RIFLESSA). Da quella
data si può pertanto far cominciare il comporta- mentismo; che tuttavia ebbe il
suo nome alcuni anni più tardi, dall’americano J. B. Watson, in un articolo del
1913 e poi in un libro intitolato Compor- tamento, introduzione alla P.
comparativa (Behavior. An Introduction to Comparative Psychology, 1914). In questa
prima fase il comportamentismo assumeva il carattere di un necessitarismo
rigoroso; la reazione dell’animale era considerata come l’effetto causale
necessario dello stimolo, perciò come infallibilmente prevedibile a partire da
esso. L'abbandono di questo necessitarismo e il riconoscimento del carattere
sem- plicemente statistico o probabilistico delle costanti riscontrabili nelle
reazioni di risposta degli organismi agli stimoli costituisce la fase più
moderna del com- portamentismo stesso (v. COMPORTAMENTISMO). e) Le cosiddette
P. abissali o P. del profondo battono in breccia il caposaldo 4° della P.
scientifica classica, considerando la P. come scienza non di descrizione ma di
interpretazione. Per la psicanalisi PSICOLOGIA infatti, che è la maggiore e più
coerente espressione delle P. abissali, l’interpretazione desume il suo punto
di partenza non già da fatti come fa la descri- zione, ma da sintomi e la
nozione di sintomo è difatti uno dei concetti fondamentali della psicanalisi
(v. Inconscio). Nell’interpretazione dei sintomi la psicanalisi segue una sola
regola fondamentale: quella di ridurre il sintomo stesso a simbolo o espres-
sione deformata di un bisogno o di un conflitto di natura vagamente sessuale,
attinente cioè alla libido (v. Lramo; PSICANALISI; SESSUALITÀ). Va- rianti
della psicanalisi sono la cosiddetta P. indi- viduale di Alfred Adler, la quale
insiste soprattutto sul carattere finalistico dei procedimenti psichici (Praxis
und Theorie der Individualpsychologie, 1924); e la P. analitica di C. G. Jung
che in realtà è molto poco analitica (nel senso proprio del termine) perchè non
fa che riconoscere il carattere simbolico a molti sintomi che lo stesso Freud
considerava come aventi un significato diretto (Collected Papers on Analy-
tical Psychology, 1916) (v. Inconscio; PROFONDO). f) La P. funzionale o
funzionalismo è quell’in- dirizzo il quale ritiene che l’oggetto della P. sia
costituito dalle funzioni od operazioni dell’orga- nismo vivente, considerate
come unità minime indi- visibili. Il funzionalismo si fa iniziare da uno
scritto di Dewey del 1896 sul Concerto dell’arco riflesso in P. nel quale si
sosteneva che l’arco riflesso non si può dividere in stimolo e risposta ma
dev'essere considerato come un’unità dalla quale soltanto stimolo e risposta
traggono significato. Per indicare l’unità della funzione lo stesso Dewey
adoperò in seguito la parola transazione (v.): che serviva a sotto- lineare
l’impossibilità di considerare come entità per sè stanti, e indipendenti dalla
relazione in cui entrano, gli elementi di una funzione qualsiasi (cfr. Knowing
and the Known, 1949, in collaborazione con A. F. Bentley). L’indirizzo
funzionalistico abbandona i presupposti 1°, 2° e 3° della P. tradi- zionale.
Abbandona il presupposto 1° perchè l’og- getto che prende a studiare non è un
fatto di coscienza ma una funzione cioè un’operazione con la quale l’organismo
entra in rapporto con l’ambiente. Abbandona il caposaldo 2° perchè il metodo di
cui esso si avvale non è quello introspettivo ma piut- tosto quello oggettivo o
comportamentistico: le fun- zioni devono essere studiate mediante procedimenti
di osservazione oggettiva. Infine il funzionalismo ha in comune con la P. della
forma l’abbandono del caposaldo 3°. Ma il carattere del funzionalismo che
costituisce la sua maggiore novità nei confronti degli altri indirizzi della P.
è il suo probabilismo: che consiste nel negare non solo ai procedimenti
della scienza ma anche a tutte le
funzioni conoscitive umane (compresa la percezione immediata), il carat- tere
della certezza infallibile e nel riconoscere a tutte PSICOLOGISMO queste
funzioni la possibilità di raggiungere solo validità probabile. Per questo
probabilismo, il fun- zionalismo costituisce l’inserzione della P. nel circolo
delle idee fondamentali della scienza contempo- ranea (cfr. BRUNSWIK,
Psychology in Terms of Objects, 1936; CANTRIL, AMES, HASTORF, ITTELSON, «
Psychology and Scientific Research», in Science, vol. 110, 1949; CANTRIL, The ‘
Why° of Man's Experience, 1950; trad. ital, Le motivazioni del- l’esperienza,
1958; v. pure le opere citate nella bibliografia di quest’ultimo libro).
PSICOLOGICO (ingl. Psychological; franc. Psy- chologique; ted. Psychologisch).
1. Ciò che concerne la psicologia; e in questa accezione il termine ha tanti
significati diversi quanti sono i diversi indirizzi concettuali della
psicologia stessa. 2. Ciò che concerne la coscienza dell’individuo cioè gli
atteggiamenti o le valutazioni individuali. In tal senso si dice, per es., che
«si tratta di una questione puramente P.» quando si tratta di una questione cui
non si può trovare una base nei fatti o nell’ambito di un determinato universo
di discorso (per es., scientifico, logico, ecc.). PSICOLOGISMO (ingl.
Psychologism; francese
Psychologisme; ted. Psychologismus). 1.
Termine di origine ottocentesca che designa in primo luogo qualsiasi filosofia
che assuma a suo fondamento i dati della coscienza cioè della riflessione
dell’uomo su se stesso. In questo senso lo P. fu inteso, in pole- mica con
l’idealismo hegeliano, da G. F. Fries (1773-1844) e da F. E. Beneke (1798-1854)
che en- trambi assunsero esplicitamente come metodo e compito della filosofia
l’auto-osservazione o co- scienza. Da questo punto di vista la psicologia, come
descrizione dell’esperienza interna, diventa l’unica filosofia possibile (cfr.
FrIEs, Neue oder an- thropologische Kritik der Vernunft, 1828; BENEKE, Die
Philosophie în ihrem Verhdltnis zur Erfahrung, zur Speculation und zum Leben,
1833). Più generica- mente, e polemicamente, V. Gioberti intendeva per P. il
procedimento filosofico che va dall’uomo a Dio, in quanto contrapposto a quello
che va da Dio al- l'uomo. Quest'ultimo è l’onrologismo (v.). Lo P. è da
Gioberti considerato come la caratteristica di tutta la filosofia moderna da
Cartesio in poi (/ntr. allo studio della filosofia, 1840, II, pagina 175). 2.
Nel suo uso polemico, il termine è costante- mente usato per designare la
confusione tra la genesi psicologica della conoscenza e la sua validità; o la
tendenza a ritenere giustificata la validità di una conoscenza quando si è
invece spiegata soltanto il suo accadimento nella coscienza. In questo senso,
colui che ha chiarito per primo il concetto di P. (per quanto non ne abbia
adoperato il nome) e ha iniziato la polemica contro di esso, è stato Kant il
quale distingueva, a proposito dei concetti a priori, 713 la quaestio facti
della loro « derivazione fisiologica + cioè del loro accadere nella mente o
nella coscienza dell’uomo, dalla quaestio juris che consiste nel chiedersi il
fondamento della loro validità e che esige come risposta la deduzione (v.
DEDUZIONE TRASCENDENTALE) (Crift. R. Pura, $ 12). Questa distinzione che è
sempre presente nell’opera di Kant, significa la scoperta della dimensione
/ogico- oggettiva della conoscenza: una dimensione, la cui irreducibilità alla
coscienza o alle condizioni sog- gettive del conoscere è stata sostenuta da
molte scuole kantiane: dalla scuola del Baden (Windel- band, Rickert) dalla
scuola di Marburgo (Cohen, Natorp) dalla fenomenologia (Husserl) che hanno,
nella filosofia degli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi del nostro,
costantemente combattuto lo psicologismo. Herman Lotze nella Logica del 1874
aveva sistematicamente fatto valere il punto di vista antipsicologistico
distinguendo costante- mente l’atto psichico del pensare, che esiste solo come
un determinato evento temporale, dal con- tenuto del pensiero che ha altro modo
d'essere, quello della validità. G. Frege aveva fatto valere nel dominio della
logica matematica lo stesso punto di vista. « Non si prenda come definizione
mate- matica, egli diceva, la semplice descrizione del modo in cui si forma in
noi una certa immagine nè come dimostrazione di un teorema il resoconto delle
condizioni fisiche o psichiche che devono trovarsi in noi soddisfatte perchè ne
possiamo com- prendere l’enunciato. Non si confonda la verità di una
proposizione con il suo venir pensata! Oc- corre ricordarsi bene di questo: che
una propo- sizione non cessa di essere vera allorchè io non la penso più, come
il sole non cessa di esistere al- lorchè io chiudo gli occhi» (Die Grundlagen
der Arithmetik, 1884, Intr.; trad. ital, in Arifmetica e logica, pag. 23).
Queste considerazioni venivano quasi alla lettera ripetute da Husserl (Logische
Untersuchungen, 1900, I, $ 17 sgg.), il quale ribadiva più tardi che « se
designiamo un numero come una formazione psichica cadiamo in un assurdo,
urtiamo contro il senso intrinseco del discorso aritmetico, che sta prima di
tutte le teorie ed è in ogni momento chiaramente contemplabile nella sua piena
validità + (Ideen, I, 1913, $ 22) e metteva in guardia contro la tendenza a «
psicologizzare l’eidetico » cioè a identi- ficare le essenze con la coscienza
che si ha di volta in volta di esse (/bid., $ 61). L’indirizzo antipsicolo-
gistico in questo senso è oggi alla base di filosofie ap- parentemente
disparate: dell’esistenzialismo, per es., nella forma che ha assunto nell’opera
di Heidegger in quanto è analisi delle situazioni umane nella loro essenza e
non nel loro accadere psichico (cfr. Sein und Zeit, $ T); come dell’empirismo
logico il cui principale rappresentante, R. Carnap, ha costante- 714 mente
polemizzato contro lo P. (cfr. Der /ogische Aufbau der Welt, 1928, $ 151 sgg.;
« Empiricism, Semantics and Ontology +, 1950, in Readines in Phil. of Science,
1953, pag. 514). La polemica contro lo P. è d’altronde frequente nell’empirismo
logico (cfr., per es., A. Pap, Elements of Analytic Philosophy, 1949, pag.
406). PSICOMETRIA (ingl. Psychometry; francese Psychométrie; ted.
Psychometrie). La misura della fre- quenza, dell'intensità o della durata degli
eventi psi- chici. Il termine (psycheometria) nonchè l’esigenza della
applicazione della misura a fatti psichici furono proposti da Wolff (Psychol.
empirica, $ 522, 616). Il ter- mine fu molto adoperato dalla psicofisica che
talvolta si identificò con la psicometria. Ora è caduto in disuso. PSICOPATIA
(ingl. Psychopathy; franc. Psy- chopathie; ted. Psychopathie). Qualsiasi
disordine o malattia mentale; o le forme meno gravi di tali malattie. In
quest'ultimo senso la P. sarebbe diversa dalla psicosi (v.). PSICOSI (ingl.
Psychosis; franc. Psychose; ted. Psychose). Nel significato ora in uso:
malattia mentale grave che implica perdita o disordine di processi mentali. Psiconevrosi
o semplicemente nevrosi: malattia o disturbo mentale meno grave. In generale
s’intende per P. l’indebolimento o la perdita del rapporto verificabile con le
cose o con gli altri, rapporto che è costitutivo della persona- lità (v.) e la
cui alterazione quindi comporta lo squilibrio della personalità stessa. Per
rapporto verificabile si può intendere un rapporto che può essere controllato o
non smentito dai criteri comu- nemente riconosciuti validi o che comunque non
equivalga alla negazione di ogni rapporto possibile. PSICOSOMATICO (inglese
Psychosomatic; franc. Psychosomatique; ted. Psychosomatik). Che concerne
l'influenza degli atteggiamenti mentali (cioè del modo di pensare e di sentire
di una persona) sui processi organici. Si chiama psicosomatica la branca della
medicina che studia tali influenze (con- fronta F. ALEXANDER, Psychosomatic
Medicine, 1949). PSICOTECNICA (ingl. Psychotechnic; fran- cese Psychotechnique;
ted. Psychotechnik). L'appli- cazione della psicologia ai problemi del lavoro e
della produzione: l’ingegneria psicologica. PSICOTERAPIA (ingl. Psychotherapy;
francese Psychothérapie; ted. Psychotherapie). La soluzione dei conflitti sia
individuali sia di gruppo, o la cura di stati mentali patologici mediante
consigli, chiarimenti o suggerimenti verbali, senza ricorso a mezzi mate-
riali. La psicanalisi è la più nota e diffusa forma di psicoterapia. Una forma
più aggiornata è la cosid- detta «P. non direttiva» secondo la quale il
procedi- mento di cura consiste nel cercare di trovare, mediante una
conversazione amichevole con il paziente, l’imma- gine che egli si fa di se
stesso e dei suoi fini nella vita, PSICOMETRIA aiutandolo a liberarsi dai
conflitti (cfr. C. R. RoGERS, Counseling and Psychotherapy, 1937) (v.
PSICANALISI). PSITTACISMO (ingl. Psittacism; franc. Psit- tacisme; ted.
Psittazismus). L’uso delle parole senza il loro riferimento agli oggetti, come
fanno i pappagalli. Diceva Leibniz: « Si ragiona spesso con le parole senza
quasi aver l’oggetto nello spirito... +; e in questo caso «i nostri pensieri e
i nostri ragionamenti, contrari al sentimento, sono una specie di P.» (Nouv.
Ess., II, 21, 35). Sul lin- guaggio oratorio considerato come una specie di P.
cfr. C. K. OGpEN-I. A. RICHARDS, The
Meaning of Meaning, 10* ed., 1952, pag. 218. PUBBLICITÀ (ingl. Publicity; franc. Publicité; ted. Offentlichkeit).
Secondo Kant è il criterio per riconoscere immediatamente la legittimità di una
pretesa giuridica. Kant chiama formula tra- scendentale del diritto pubblico il
seguente principio: «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la
cui massima non è suscettibile di P., sono ingiuste + (Zum ewigen Frieden,
appendice II. PUBBLICO (ingl. Public; franc. Publique; ted. Offentlich).
L’aggettivo è usato in senso filo- sofico (specialmente da scrittori
anglosassoni) per designare quelle conoscenze o quei dati o elementi di
conoscenza che sono disponibili a chiunque in condizioni adatte e non
appartengono alla sfera privata e incontrollabile della coscienza. P. in questo
senso è ciò che Kant chiamava oggettivo (v.): ciò che può essere partecipato
ugualmente da tutti e perciò anche espresso o comunicato con il linguaggio
(cfr. B. RusseLL, Human Knowledge, II, 1; tradu- zione ital., pag. 81).
PUNIZIONE. V. Pena. PUNTO (lat. Punctum; ingl. Point; franc. Point; ted.
Punkt). Leibniz ammise accanto al P. matema- tico e al P. fisico il P.
metafisico che è la sostanza spirituale come elemento costitutivo del mondo.
Egli così distingueva le tre specie di P.: « I P. fisici sono indivisibili solo
in apparenza; i P. matematici sono esatti ma sono solo modi; soltanto i P.
metafisici o di sostanza, costituiti dalle forme o anime, sono nello stesso
tempo esatti e reali; e senza di essi non ci sarebbe nulla di reale perchè
nelle vere unità non ci sarebbe molteplicità 1 (Sy- stème nouveau de la nature,
1695, $ 11). I P. metafisici non sono che le monadi (v.). PURIFICAZIONE. V.
CATARSI. PURISMO (ingl. Purism; franc. ‘Purisme; te- desco Purismus). 1. In
senso morale: «specie di pedanteria relativa all’osservazione del dovere
considerato nel senso più largo + (KANT, Met. der Sitten, Dottrina della virtù,
I, $ 7). a. In senso linguistico: specie di pedanteria relativa alla pretesa di
conservare a una lingua la sua forma classica © originaria. PURPUREA, ILIACE,
AMABIMUS, EDENTULI 3. In senso metafisico: specie di pedanteria relativa alla
troppo rigorosa separazione di una facoltà umana dall'altra. In questo senso la
parola fu usata da G. C. Hamann nel titolo del suo scritto Metacritica del P.
della ragione (1788, postumo) nel quale rimproverava a Kant questa specie di
pedanteria nei rispetti della ragione. PURO (ingl. Pure; franc. Pur; ted.
Rein). x. Ciò che non è mescolato con cose d'altra natura; o, più esattamente,
ciò che è costituito in modo rigo- rosamente conforme alla propria definizione.
Questa seconda definizione spiega l’amplissimo uso che i filosofi fanno di
questo aggettivo; in quanto, definito un oggetto, si trovano spesso a dover
distinguere tra le condizioni in cui l'oggetto appare rigorosamente conforme
alla propria definizione e le condizioni in cui invece si allontana in qualche
misura da essa: nelle prime condizioni, l’oggetto è detto puro. Anassagora
chiamava P. l'intelletto perchè esso « solo fra tutti gli enti è semplice e non
mescolato » (ARIsT., De an., 405a 16). Platone parlava di un piacere « P.» cioè
non mescolato di dolore (Fi/., 51 a, 52 c). Cartesio della matematica «P.»
(Med., VI). Leibniz della « P.+ ragione (Op., ed. Erdmann, pag. 229-230, ecc.).
E così Wolff (Psychol. empirica, $ 495). « Atto P. » è stato detto il primo
motore di Aristotele in quanto è attività per- fetta, priva di potenza; ma
l’espressione non è ari- stotelica (cfr. Met., XIT, 6, 1071 b 22; 8, 1074 a
36). 2. Kant chiamò P. o « assolutamente P.» una conoscenza « nella quale in
generale non si trova mescolata alcuna esperienza o sensazione e che perciò è
possibile completamente a priori» (Crit. R. Pura, Intr., $ vu). In questo senso
la ragion P. «è quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa
assolutamente a priori ». Una scienza della ragion P. è, non una dottrina, ma
una critica, in quanto non può dare un sistema compiuto della ragion P. e può
avere funzione solo negativa « ser- vendo a epurare, non ad allargare, la
nostra ragione e a liberarla dagli errori » (/bid.). In questo senso il 715
contrapposto di P. è empirico. L'aggettivo fu usato nello stesso senso da
Fichte che chiamò P. l’Io assoluto (o la sua attività) in quanto è diverso
dall’io empiricamente condizionato ed in quanto la sua attività prescinde completamente
dall’espe- rienza (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, ID. Quest’uso è rimasto
costante nell’idealismo di ispi- razione romantica. Gentile chiamò arto P. il
pen- siero pensante in quanto indipendente da ogni condizione o contenuto
empirico (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1920). 3. Nel
linguaggio comune si dice P. una scienza o una disciplina trattata
teoreticamente cioè senza riguardo alle sue applicazioni possibili; e P. è
divenuta così il contrario di applicato. Già Hamilton notava l’improprietà di
questo uso (Lectures on Logic, I, 1866, pag. 62). PURPUREA, ILIACE, AMABIMUS,
EDENTULI. Termini mnemonici della logica tradizionale per esprimere
l’equivalenza delle quattro proposizioni modali rappresentate ognuna da una
sillaba nell’ordine seguente: possibile, contingente, impossibile, necessario.
La vocale che si trova in ciascuna sillaba cioè 4 o E 0 7 o U indica se il modo
dev'essere affermato o negato e se la proposizione dev'essere affermata o
negata. A significa l’afferma- zione del modo e l’affermazione della
proposizione; E l’affermazione del modo e la negazione della proposizione; / la
negazione del modo e l’afferma- zione della proposizione; U la negazione del
modo e la negazione della proposizione. In tal modo tutte le quattro
proposizioni indicate dalla medesima parola sono equipollenti, sicchè se l’una
è vera, le altre sono anche vere (ARNAULD, Log., II, 8). Per es., se p è una
proposizione qualsiasi, per la parola Purpurea si ha: Possibile —="U= Non
è possibile che non p. Contingente = U = Non è contingente che non p.
Impossibile = E = È impossibile che non p. Necessario = A = È necessario che p.
Analogamente per le altre parole. Q QUACCHERISMO (ingl. Quakerism; francese
Quakerisme). Il più radicale e liberale fra gli indirizzi religiosi della
Riforma. Il movimento fu iniziato nel 1649 in Inghilterra da George Fox e il
vero nome dei quaccheri fu «Società degli Amici» (Friends Society). Il nome
quaccheri fu coniato dal giudice Bennet perchè durante un lungo interro- gatorio
di George Fox questi gli ingiunse di « tre- mare alle parole del Signore». Tra
le maggiori personalità religiose che aderirono a questo movi- mento fu W.
Penn, che nel periodo delle persecu- zioni emigrò in America e fondò la colonia
di Penn- sylvania; e Robert Barkley che fu il teorico del movimento. Il Q. è
caratterizzato: 1° dalla risoluta avversione a ogni forma di culto esterno, di
rito, di predicazione, ecc.; 2° dal riconoscimento che l’unica guida dell’uomo
è la luce interiore che viene direttamente da Dio; 3° dal carattere attivo e
otti- mistico che tale fede interiore acquista nei quaccheri i quali ritengono
lo stesso peccato originale come una corruzione naturale superabile; 4° dalla
condanna di ogni violenza e quindi dall’avversione alla guerra. Nelle Lertere
sugli inglesi (1734) Voltaire esaltava la ragionevolezza e la validità della
religiosità propria dei quaccheri (Left., I-IV) (cfr. ELFRIDA Vipont, The Story
of Quakerism, 1652-1952, Lon- don, 1954). QUADRATO DEGLI OPPOSTI. Indicando,
secondo l’uso scolastico, con A, E, /, O rispettiva- mente la proposizione
universale affermativa (« ogni uomo corre +), l’universale negativa (« nessun
uomo corre +), la particolare affermativa (« qualche uomo corre +) e infine la
particolare negativa (s qualche uomo non corre +) e disponendole in Q. in
questo modo: A contrarie E 2uI9)|eqns subalterne I subcontrarie (0) se ne
ottengono le relazioni logiche fondamentali. A ed E sono contrarie: possono
essere entrambe false, ma non entrambe vere; A ed O, E ed / sono invece
contradittorie: non possono essere nè en- trambe vere nè entrambe false: / ed O
sono sub- contrarie: possono essere entrambe vere, ma non entrambe false; A ed
/, E ed O subalternate, nel senso che A si subalterna (implica) /, E si
subalterna (implica) O (ma non viceversa). L’origine di questo celebre
artificio didattico, certamente medievale, è oscura. Fu erroneamente attribuita
dal Prantl al platonico bizantino M. Psello, e perciò il Q. vien detto anche
«Q. di Psello »; ma se ne ha la documentazione più antica sinora conosciuta
nelle Introductiones în Logicam di Guglielmo di Shyres- wood (seconda metà del
sec. xim), sebbene in testi anteriori non mancassero esempi di paradigmi e
schemi del genere. G. P. QUALITÀ QUADRIFARMACO (gr. tetpapdppaxov). Con questo
termine (che propriamente significa una medicina composta di quattro elementi)
Filodemo (Herc. Vol., 1005, 4) indicò l’insieme delle quattro massime
fondamentali dell’etica epicurea e cioè: 1° non temere la divinità che non si
occupa del- l’uomo; 2° non temere la morte; 3° tener presente la facilità del
piacere; 4° tener presente la brevità del dolore (cfr. EPICURO, Ep. a Menec.,
123, 124, 133). QUADRIVIO. V. CULTURA, ARTE. QUAESTIO. Il metodo di trattazione
proprio della scolastica medievale a partire dal sec. xu. Il primo esempio del
metodo è il Sic et Non di Abelardo: una raccolta di opinioni (sententiae) di
Padri della Chiesa, disposte per problemi, in modo da far apparire le varie
sentenze come risposte positive o negative del problema proposto (donde il
titolo, che suona sì e no). Nella sua forma matura, la Q. è costituita dalle
parti seguenti: 1° l’enunciato (es.: « Utrum deum esse sit per se notum +); 2°
l'elen- cazioni delle ragioni che stanno in favore della tesi che sarà
rigettata dall’autore (Ad primum sic pro- ceditur. Videtur quod deum esse sit
per se notum); 3° l’elencazione delle ragioni che militano in favore della tesi
opposta (Sed contra; ...); 4° l'enunciazione della soluzione scelta dall’autore
(Conclusio); 5° l’il- lustrazione di tale soluzione; 6° la confutazione delle
tesi addotte per la soluzione respinta, nell’or- dine in cui sono state addotte
(Ad primum ergo dicendum... Ad secundum... +). L'ordine con cui le questioni
venivano trattate era fornito da qualche testo a cui l’intera raccolta serviva
da commentario: da qualche libro della Bibbia, da qualche opera di Boezio o di
Aristotele o, più frequentemente, dalle Sentenze di Pietro Lombardo.
Quaestiones quod- libetales o più semplicemente Quodlibeta erano le raccolte
delle questioni che gli aspiranti alla laurea in teologia dovevano discutere
due volte all’anno (prima di Natale e prima di Pasqua) su temi qual- siasi, de
quolibet. Le quaestiones disputatae erano invece il risultato delle
disputationes ordinariae che i professori di teologia tenevano durante i loro
corsi sui più importanti problemi filosofici e teologici (cfr., su questi
argomenti, MARTIN GRABMANN, Die Geschichte der scholastischen Methode, 1911,
nuova ed., 1956). QUALCHE (ingl. Some; franc. Quelque; te- desco Einige). Nella
Logica contemporanea, « Q. » 0 «alcuni » è un operatore di campo, di cui il
simbolo più usato è «(4x)»., per es., in formule come «(Ax).f(x)», che si legge
«esiste almeno un x tale che f(x) è vero». Esso corrisponde ad una somma o
disgiunzione logica operata nel campo di validità della (x), cioè alla
disgiunzione «f(a) o f(5) o f(c) 0 ...». Ove f(x) sia un predicato, questa
equivale 717 alla formula consueta «qualche x è f» o anche «alcuni x sono f»
della Logica tradizionale. Già negli Ana- litici di Aristotele, rìc (di solito
al dativo rwì nella formula rò A tì té B breépyei, «A inerisce a qual- che B +)
viene usato con questo preciso valore, come segno della proposizione
particolare affermativa. Nel latino medievale, subentrando come forma nor- male
di proposizione la formula «homo currit », il tlc greco, che già in Aristotele
veniva riferito sempre al soggetto logico della proposizione, viene tradotto
con l’aggettivo aliguis e grammaticalmente concordato col soggetto (così
aliguis homo currit, ma aliqui homines currunt, sebbene le due forme, in
Logica, siano perfettamente sinonimiche): donde il nostro 4Q.» e «alcuni».
Tuttavia è nella Logica medievale che ne viene chiaramente riconosciuta la
funzione di operatore, cioè di segno non significante che ha solo il compito di
modificare la denotazione del termine che funge da soggetto. G. P. QUALCOSA
(gr. x; lat. Aliquid; ingl. Something; franc. Quelque chose; ted. Etwas). Un
oggetto indeterminato. Dice Wolff «Q. è ciò a cui risponde una determinata nozione
» (On?., $ 59): il che vuol dire che è ciò cui corrisponde una nozione che non
includa contraddizione. Di quest’ultimo tratto si avvale Baumgarten per
definire il Q. (Met., $ 8). E Kant diceva: «La realtà è Q., la negazione è
niente » (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., Nota alle anfibolie dei concetti
della riflessione). Ed Hegel: 4 L'essere determinato, riflesso in sè in questo
suo carattere, è quel che c’è, il Q. » (Enc., $ 90). Il con- cetto è ora di
pertinenza della logica (cfr. Quan- TIFICATORE). QUALIFICAZIONE. V. QuALITÀ.
QUALITÀ (gr. nom; lat. Qualitas; inglese Quality; franc. Qualité; ted.
Qualitàt). La deter- minazione qualsiasi di un oggetto. In quanto deter-
minazione qualsiasi la Q. si distingue dalla pro- prietà (v.) che (nel suo
significato specifico) indica la Q. che caratterizza o individualizza l’oggetto
stesso ed è perciò propria di esso. La nozione di Q. è estesissima e può
difficilmente essere ridotta ad un concetto unitario. Si può dire piuttosto che
essa comprende una famiglia di concetti che hanno in comune la funzione
puramente formale di poter essere adoperati come risposte alla domanda quale?
Di questa famiglia Aristotele distinse quattro mem- bri; e questa è ancora la
migliore esposizione che si possa dare del concetto di qualità. x. In primo
luogo s’intendono per Q. gli abiti e le disposizioni: che si distinguono tra
loro perchè l’abito è più stabile e duraturo della disposizione. Sono abiti la
temperanza, la scienza e in generale le virtù; sono disposizioni la salute, la
malattia, il caldo, il freddo, ecc. (Car., 8, 8 b 25; cfr. Met., V, 14, 1020a
8-12). Il ricorso ad abiti disposi- 718 zionali si fa talora anche nella
filosofia contempo- ranea (cfr., ad es., C. L. STEVENSON, Ethics and Language,
III, $ 4, 1950, 5* ed., pag. 46 sgg.): ma il precedente aristotelico viene
abitualmente ignorato. 2. Una seconda specie di Q. è quella che con- siste in
una capacità o incapacità naturale; e in questo senso si parla di pugili, di
corridori, di sani, di malati, ecc. (Car., 8, 9 a 14). Questa è la Q. che gli
Scolastici chiamarono Q. attiva (cfr., ad es., S. Tommaso, .S. 7h., III, q. 49,
a. 2). 3. Il terzo genere di Q. è costituito dalle affe- zioni e dalle loro
conseguenze: queste sono le Q. sensibili vere e proprie (colori, suoni, sapori,
ecc.) (Cat., 8, 9a 27; cfr. Met., V, 14, 1020a 8). Gli Scolastici chiamarono
queste specie di Q. qualità passive (cfr. S. ToMmMaso, loc. cit.). 4. La quarta
specie di Q. è costituita dalle forme o determinazioni geometriche, per es.,
dalla figura (quadrato, circolare, ecc.) o dalla forma (rettilinea, curvilinea)
(Car., 8, 10a 10). Poco o nulla è stato aggiunto, nel corso ulteriore della
storia della filosofia a queste notazioni e distinzioni aristoteliche a
proposito della qualità. Se si vuole eliminare da esse ciò che è dovuto alla
loro più stretta connessione con la metafisica aristo- telica, si può ottenere
un’ulteriore semplificazione e ridurre a tre i quattro gruppi precedenti
caratte- rizzandoli nel modo seguente: a) determinazioni disposizionali che compren-
dono disposizioni, abiti, abitudini, capacità, facoltà, virtù, tendenze, o come
altro si vogliano chiamare le determinazioni costituite da possibilità
dell'oggetto; b) determinazioni sensibili cioè le determina- zioni semplici o
complesse che sono fornite da strumenti organici: colori, suoni, sapori, ecc.;
c) determinazioni misurabili cioè le determina- zioni che si prestano ad essere
sottoposte a metodi oggettivi di misura: numero, estensione, figura, movimento,
ecc. Con questa modifica la partizione aristotelica cor- risponde esattamente a
quella di Locke: difatti le Q. A sono quelle che Locke incluse sotto la terza
specie di Q., cioè tra quelle « che tutti sono concordi a considerare soltanto
come mere capacità che i corpi hanno di produrre certi effetti, sebbene si
tratti di Q. altrettanto reali nell’oggetto quanto quelle che, per adattarmi al
modo comune di parlare ho chiamate Q., pur distinguendole dalle altre con il
nome di Q. secondarie » (Saggio, II, 8, 10). Dal- l’altro lato le Q. B e C corrispondono
a quelle che Locke chiamava rispettivamente qualità primarie e secondarie (v.
oltre). Così rettificata, la distinzione tra le varie specie di Q. copre
l’intero campo delle discussioni e dei problemi cui essa ha dato luogo nella
tradizione filosofica. QUALITÀ a) La nozione di determinazione disposizionale è
quella cui fa riferimento non soltanto la nozione di Q. occulta, ma anche
quelle di forza che la sop- piantò agli inizi della scienza moderna. Diceva
Newton: «Gli aristotelici dettero il nome di Q. occulta, non a qualità
manifeste ma a Q. che essi supposero al di là dei corpi, come cause sconosciute
di effetti manifesti: come sarebbero le cause della gravità o dell'attrazione
magnetica ed elettrica o delle fermentazioni, se supponessimo che si trattasse
di forze o azioni derivanti da Q. a noi sconosciute e incapaci di essere
scoperte e rese manifeste. Tali Q. occulte impediscono il progresso della
filosofia naturale, perciò sono state abbandonate in questi ultimi anni»
(Opricks, 1704, III, 1, 31). Nello stesso spirito, Wolff definiva come Q.
occulta quella « che è priva di ragion sufficiente» ed aggiungeva: « Una Q.
occulta è, per es., la gravità se viene concepita come una forza primitiva o
come una forza im- pressa alla materia da Dio, della quale non si possa dare a
priori nessuna ragione naturale. Tale è anche la forza motrice se si assume
come una forza primi- tiva impressa da Dio alla materia al momento della
creazione. Certamente Aristotele e i suoi seguaci, che ammisero le Q. occulte,
usarono questo termine in questo stesso significato » (Cosm., $ 189). La
notazione di Wolff è più chiara di quella di Newton: una forza è una Q. occulta
se di essa non si dà una ragione sufficiente naturale, non lo è se si dà una
tale ragione. Ma da questo appare anche che sia la nozione di Q. occulta sia
quella di forza sono riconducibili alla stessa nozione di Q., cioè alla Q. come
disposizione. Lo stesso significato di Q. è presente nel concetto di
qualificazione. « Qualificarsi per + o « essere quali- ficato per» significa
possedere la capacità o la competenza, cioè la qualità disposizionale, per
effet- tuare un dato compito o raggiungere un dato scopo. Talvolta tuttavia il
termine + qualificato » significa soltanto « limitato » o « caratterizzato da
date condi- zioni +, come avviene nel linguaggio giuridico. b, c) Le Q. nel
senso 2 e quelle nel senso C sono le Q. tradizionalmente distinte come primarie
e secondarie. I termini « primario » e « secondario » rimontano a Boyle; ma la
distinzione è assai antica e rimonta a Democrito (Fr. 5, Diels). Dopo molti
secoli essa fu ripresa da Galilei (cfr. Opere, ed. naz., VI, pag. 347 sgg.), da
Hobbes (De Corp., 25, 3), da Cartesio (Princ. Phil., I, S7; Med., VI) e da
Locke (Saggio, II, 8, 9), che la diffuse nella filosofia europea. La base della
distinzione è la possibilità di quantificazione che le Q. nel senso C hanno
rispetto a quelle nel senso 8: per questa possibilità esse si sottraggono alle
valutazioni indi- viduali e appaiono come indipendenti dal soggetto € pienamente
« oggettive + o « reali». In seguito la QUANTITÀ distinzione fu combattuta (per
es., da Berkeley) soprattutto allo scopo di mostrare che neppure le Q. primarie
sono oggettive ma che tutte sono ugualmente soggettive cioè consistono in
«idee» (Principles of Human Knowledge, I, $ 87). Secondo Husserl il significato
della distinzione sarebbe il seguente: «La cosa sperimentata fornisce il sem-
plice hoc, un vuoto x, che diventa portatore delle determinazioni matematiche e
delle formule ine- renti e che esiste non già nello spazio percettivo ma in uno
spazio oggettivo di cui il primo è solo un indizio, cioè in una varietà
euclidea tridimen- sionale di cui è possibile una rappresentazione solo
simbolica» (/deen, I, $ 40). In questo senso le Q. oggettive delineerebbero la
natura di un og- getto trascendente rispetto alla percezione sensibile e al
quale la percezione sensibile accennerebbe come a un di là. QUALITÀ DELLE
PROPOSIZIONI (la- tino Qualitas propositionum; ingl. Quality of Proposi- tions;
franc. Qualité des propositions; ted. Qualitàt des Urteils). Fu probabilmente
il neoplatonico Appuleo, contemporaneo di Galeno, ad adoperare per primo le
parole Q. e quantità per indicare rispettivamente la distinzione delle
proposizioni in affermative e negative e quella in universale e particolare (De
Int., pag. 266; cfr. PRANTL, Ge- schichte der Logik, I, pag. 581). Kant
aggiunse ai due tradizionali giudizi di Q. il giudizio infinito (v. INFINITO,
GIUDIZIO). QUANTA, FISICA DEI. V. COMPLEMENTA- RITÀ; CONDIZIONE; DETERMINISMO;
FIsicA; INDE- TERMINAZIONE. QUANTIFICATORE. V. OPERATORE. QUANTIFICAZIONE
(ingl. Quantification; franc. Quantification; ted. Quantifikation). In Logica
si designa con « Q. » l’operazione mediante la quale, usando appositi simboli
detti quantificatori, si determina l’ambito o estensione di un termine della
proposizione. Nella Logica di Aristotele, e in tutta la Logica classica
derivatane, si conosceva solo la Q. del soggetto della proposizione: in
Aristotele mediante gli operatori «tutto » e «in parte» (s[il predicato] B
appartiene a furto [il soggetto] A»; « B appartiene in parte ad A +); nella
Logica medie- vale o moderna mediante gli operatori «omnis? e «aliquis» («omnis
A est B»; «aliquis A est B3). La proposizione quantificata con «tutto » era detta
universale; quella quantificata con «in partes (s qualche ») era detta
particolare; quella non quanti- ficata era detta indefinita. Nel sec. xx
l’esigenza di assoggettare la tradizionale sillogistica ad una specie di
calcolo matematico indusse alcuni logici inglesi (Bentham, 1827; Hamilton,
1833) a quantifi- care anche il predicato, interpretando, per es., la
proposizione universale affermativa «tutti gli 719 A sono B» come «tutti gli A
sono alcuni B». In tal modo però la proposizione veniva unilateral- mente
interpretata come una relazione di inclusione o esclusione, parziale o totale,
tra classi. La Logica contemporanea ha ripreso ma integrato quella concezione.
In essa però i quantificatori, che ora sono il quantificatore universale [nella
notazione russelliana, «(x).» = «tutti»] e il quantificatore esistenziale [c.
s., «(Hx).» = «esiste almeno un x tale che... »]), di nuovo si riferiscono
soltanto agli argomenti o variabili di una funzione proposizionale,
trasformando queste in variabili apparenti e le funzioni in vere e proprie
proposizioni (universali o particolari): per es., «x è mortale» è una funzione;
« (x). ‘x è mortale ’ » (= « tutti gli x sono La 1) è una proposizione
universale. QUANTIFICAZIONE DEL PREDICATO (ingl. Quantification of Predicate).
W. Hamilton fece prevalere, in polemica con la logica tradizionale, il
principio della Q. del predicato, asserendo: 1° che il predicato è così
estensivo come il soggetto; 2° che il linguaggio ordinario quantifica ogni
volta che occorra il predicato o direttamente mediante l’uso dei quantificatori
(ad es., « Pietro Giovanni Giacomo, ecc., sono tuffi gli apostoli ») o
indiretta- mente attraverso la limitazione e l’eccezione, come quando si dice «
La virtù è la sola nobiltà » oppure « Sulla terra 3% vi è niente di grande se
non l’uomo » (Lectures on Logic, Il, pag. 257 sgg.). QUANTITÀ (gr. moody; lat.
Quantitas; inglese Quantity; franc. Quantité; ted. Quantitàt). In gene- rale,
la possibilità della misura. È questo il concetto che di essa ebbero Platone e
Aristotele. Platone affermò che la Q. sta tra l’illimitato e l’unità e che solo
essa è l’oggetto del sapere; per es., è esperto di suoni non chi ammette che i
suoni sono infiniti nè chi cerca di ridurli ad un unico suono, ma chi conosce
la Q., cioè il numero di essi (Fil., 17a, 18 b). Aristotele a sua volta definì
la Q. come ciò che è divisibile in parti determinate o determina- bili. Una Q.
numerabile è una pluralità, che è divisi- bile in parti discrete. Una Q.
misurabile è una gran- dezza che è divisibile in parti continue in una o due o
tre dimensioni. Una pluralità finita è un numero, una lunghezza finita una
linea, un’estensione finita un piano e una profondità finita un corpo (Met., V,
13, 1027a 7). Queste notazioni aristoteliche furono ripetute nella scolastica
ed entrarono anche a far parte delle nozioni comunemente accettate ai princìpi
dell’Età Moderna. Che la matematica potesse defi- nirsi, come l’aveva definita
Aristotele, « la scienza della Q. + non parve cosa dubbia finchè gli sviluppi
della matematica stessa non fecero apparire troppo ristretta ed impropria
questa definizione (v. MATE- MATicA). Tenendo appunto l’occhio alle matematiche
720 Wolff, nel sec. xvi, definiva la Q. come «ciò per cui le cose simili,
rimanendo salva la loro somiglianza, possono differire intrinsecamente »
(Cosm., $ 348): una definizione che si potrebbe agevolmente capo- volgere
dicendo che la Q. è ciò per cui le cose dissimili, rimanendo salva la loro
dissimiglianza, possono essere simili. Ma in questa forma che sa- rebbe più
rispondente ai concetti matematici mo- derni, si definirebbe non la Q. ma la
grandezza (v.). Nella matematica infatti il termine Q. è divenuto sinonimo di
quello di grandezza, che è specifico di un certo campo di indagine e che
dipende dalla scelta opportuna dell’unità di misura. Pertanto la Q. come
categoria o concetto generalissimo cade oggi fuori dell'ambito delle scienze e
tutt'al più si può dire che essa costituisca il tratto generalissimo in cui
coincidono gli oggetti disparati delle scienze positive: cioè la loro
possibilità di esser sottoposti a misura. La tendenza generale del pensiero
scientifico a ridurre la qualità a Q. fu interpretata in modo singolare da
Hegel, che parlò di una « linea nodale dei rapporti di misura». Il mutamento
graduale della Q. porterebbe a un certo punto (« punto » o «linea nodale +) a
un mutamento della qualità; e il mutamento graduale di questa nuova qualità
porterebbe ad un altro punto nodale, e così via. Hegel osservava che dal lato
qualitativo, il passaggio a una nuova qualità «è un salto: le due qualità sono
poste completamente estrinseche l’una al- l’altra ». E che perciò la gradualità
del mutamento quantitativo non lascia comprendere il divenire (Wissenschaft der
Logik, I, sez. 3*, cap. 2, B; tradu- zione ital., I, pag. 446-47). Con questo
egli negava che il passaggio dalla Q. alla qualità o viceversa servisse a
qualcosa. Questo tuttavia non impedì a F. Engels di considerare come legge
fondamentale della dialettica «la conversione della Q. in qualità » e di vedere
in Hegel lo scopritore di questa legge (Dialektik der Natur, trad. ital., pag.
57 sgg.) (v. Dia- LETTICA; NODALE, LINFA; SALTO). QUANTITÀ DELLE PROPOSIZIONI.
Fu il neoplatonico Appuleo (v. QUALITÀ DELLE PRO- POSIZIONI) a chiamare per
primo Q. la divisione delle proposizioni in universali e particolari, indi-
viduali e indefinite (ARIST., De Int., 7; An. Pr., I, 1). Kant ridusse a tre le
classi dei giudizi secondo la Q. e precisamente alle proposizioni universali
particolari e individuali (Crit. R. Pura, 89). Hamilton parlò pure della Q. dei
concetti, distinguendo la Q. intensiva, che è l’intensione o comprensione dalla
Q. estensiva che è l’estensione o denotazione (Lectures on Logic, I, pag. 140
sgg.). QUANTOFRENIA (ingl. Quantophrenia; fran- cese Quantophrènie). Così P.
Sorokin ha chiamato la «mania della quantificazione a tutti i costi » nel campo
delle scienze psicologiche e sociali (Fads and QUANTITÀ DELLE PROPOSIZIONI
Foibles in Modern Sociology and Related Sciences, 1956, cap. VII-VIII).
QUATERNIO TERMINORUM. Espres- sione usata a indicare il tipo più comune di
fallacia logica cioè la duplicità di significato di uno dei ter- mini impiegati
nel ragionamento: come nell’esempio tratto da Seneca « Mus (il topo) è una
sillaba; il topo rosicchia il formaggio; dunque la sillaba ro- sicchia il
formaggio » (Ep., 48) (v. EQUIVOCAZIONE). QUIDDITÀ (lat. Quidditas; ingl.
Quiddity; franc. Quiddité; ted. Quidditàt). Termine introdotto dalle traduzioni
latine (dall’arabo) delle opere di Aristotele del sec. x1 come corrispondente
della espressione aristotelica +6 71 fiv elvar (quod quid erat esse). Il
termine significa essenza necessaria (0 sostanziale) o sostanza (v. ESSENZA;
SOSTANZA). QUIETISMO (ingl. Quietism; franc. Quiétisme; ted. Quietismus). La
credenza che lo stato di grazia o di unione con Dio si può ottenere con
l’abban- dono totale della propria volontà alla volontà di Dio, al di fuori di
ogni rito o pratica religiosa. I Q. è proprio di molti indirizzi religiosi, ma
il termine fu coniato a proposito della forma che esso assunse nel seno del
cattolicesimo per opera di Michele Molinos (1627-1696) le cui tesi furono
condannate dal Papa Innocenzo XI nel 1687. QUIETIVO (ingl. Quietive; franc.
Quiétif; ted. Quietiv.. Così Schopenhauer chiamò, per analogia ed antitesi con
motivo, la conoscenza filosofica in quanto porta alla negazione della Volontà
di vivere cioè all’ascetismo: quella nega- zione infatti « subentra dopo che la
compiuta cono- scenza del proprio essere è diventata Q. d'ogni volere» (Die
Welt, I, $ 68). Un Q. in questo senso è anche l’arte come contemplazione disin-
teressata delle idee platoniche (/bid., I, $ 70). QUINQUE VOCES. Sono i cinque
concetti generalissimi, o cinque tipi di predicato universale (perciò dette
anche « predicabili +) della Logica classica: genere, specie, differenza,
proprio e acci- dente. La loro distinzione e relativa problematica ha il suo
nocciolo nei Topici di Aristotele: ma la trattazione formale ed esplicita di
esse come cate- gorie fondamentali di tutta la scienza della Logica si trova
nella Zsagoge di Porfirio. È soprattutto dalla versione e commenti boeziani di
quest'opera che esse passarono nella Logica medievale. G.P. QUINTA ESSENZA
(lat. Quinta essentia; ingl. Quintessence; franc. Quintessence; ted. Quin-
tessenz). 1. L’etere cioè la sostanza che secondo Aristotele, compone i cieli,
in quanto diversa dai quattro elementi che compongono i corpi sublunari (v.
ETERE). 2. L’estratto corporeo di una cosa ottenuto mediante l’analisi
alchimistica della cosa stessa con la separazione dell'elemento dominante dagli
QUOTIDIANITÀ altri elementi che sono mescolati in essa. Secondo Paracelso,
nella Q. essenza sono riposti gli arcani cioè le forze operanti di un minerale,
di una pietra preziosa, di una pianta; e di esse si serve perciò la medicina
per operare le guarigioni (De Mysteriis naturalibus, I, 4). In questo senso si
adopera anche oggi il termine per indicare il principio attivo di una cosa o la
sua parte più pura. QUODLIBETA. V. QuAESTIO. 46 721 QUOTIDIANITÀ (ted.
Alltaglichkeit). Ter- mine introdotto da Heidegger per indicare «il modo
d'essere in cui l’esserci (cioè l’uomo) si man- tiene innanzi tutto e per lo
più». Tale modo d’es- serci è il punto di partenza dell’interpretazione
ontologica: il che vuol dire che tale interpretazione fa riferimento alle
situazioni in cui l’uomo viene più frequentemente a trovarsi nelle comuni
faccende della vita (Sein und Zeit, $ 9) (cfr. MEDIETÀ). R RADICALISMO (ingl.
Radicalism; franc. Ra- dicalisme; ted. Radikalismus). 1. Il positivismo sociale
che si sviluppò in Inghilterra tra la fine del sec. xvi e la prima metà del
sec. xIx e che ebbe tra i suoi rappresentanti filosofici Geremia Bentham
(1748-1832), Giacomo Mill (1773-1836) e Giovanni Stuart Mill (1806-1873).
Questo indirizzo si avvalse del positivismo filosofico, dell’utilitarismo
morale e delle dottrine economiche di Malthus e Ricardo per sostenere riforme «
radicali » nell’ordinamento dello stato e nel sistema di distribuzione delle
ric- chezze (v. LIBERALISMO). 2. Più genericamente, il termine viene oggi usato
a designare qualsiasi tendenza filosofica o politica che proponga un
rinnovamento radicale dei sistemi vigenti cioè un mutamento nei princìpi su cui
poggiano i sistemi delle credenze o delle istituzioni tradizionali. RADICE (gr.
pi&wpa; ingl. Roof; franc. Racine; ted. Wurzel). Termine col quale
frequentemente si è indicato, nel linguaggio filosofico, un principio primo o
un elemento ultimo. Empedocle chiamò R. i quattro elementi (acqua, aria, terra
e fuoco) di cui le cose sono composte (Fr., 6, Diels); e spesso d'allora in poi
i filosofi si sono serviti dello stesso termine per indicare elementi o
princìpi. Scho- penhauer, per es., intitolò una delle sue disserta- zioni La
quadruplice R. del principio di ragion sufficiente (1813). Di qui l’aggettivo
radicale passato a indicare ciò che concerne un principio o costituisce un
principio. « Male radicale» chiamò Kant la tendenza dell’uomo al male che è
inerente alla sua stessa struttura morale (cfr. Religion, cap. I). E radicale
si chiama oggi un’analisi che rimonta ai princìpi, o alle prime origini.
Husserl, per es., insisteva sulla radicalità della filosofia in quanto scienza
dei veri princìpi e delle prime origini, «La scienza di ciò che è radicale,
dev'essere radi- cale anche nel suo metodo e sotto ogni riguardo » (Phil. als
strenge Wissenschaft, 1911; trad. ital., pag. 83). RAGIONAMENTO (gr. 2oyioués;
lat. Ratioci- natio; ingl. Reasoning; franc. Raisonnement; tedesco
Vernunftschluss). Qualsiasi procedimento di infe- renza o di prova; perciò
qualsiasi argomento, conclu- sione, inferenza, induzione, deduzione, analogia,
ecc. Diceva Stuart Mill: « Inferire una proposizione da una o più proposizioni
precedenti; credere o pre- tendere che si creda ad essa come conclusione da
qualcosa d’altro, significa ragionare nel più esteso senso del termine» (Logic,
II, I, 1). Stuart Mill escludeva dall’ambito del R. soltanto «i casi nei quali
la progressione di una verità all’altra è solo apparente perchè il conseguente
è una mera ripeti- zione dell’antecedente » (/bid., II, 1, 3): e identificava
ragionamento e inferenza. Ma questa restrizione è venuta meno nell'uso corrente
del termine, che oggi comprende anche le inferenze tautologiche che si
ritengono proprie della matematica e della logica (cfr. P. F. StraWSON, /ntr.
to Logical Theory, 1952, pag. 12 sgg.). Pertanto la illustrazione dei
significati del termine si può trovare sotto le singole voci che costituiscono
l’estensione del termine in questione e specialmente sotto le seguenti: dedu-
zione, induzione, prova, dimostrazione, inferenza, sillogismo, argomento,
analogia. Tuttavia la classificazione fondamentale dei R. è quella che la
divide in R. deduttivi e R. indut- tivi. Questa distinzione, già stabilita da
Aristotele (An. Pr., II, 23, 68 b 13) viene solitamente conser- vata anche
oggi, talvolta con nomi appena mutati. Peirce, ad es., parlava di R.
esplicativi analitici o RAGIONEdeduttivi da un lato; e dall’altro di R.
amplificativi, sintetici o induttivi (Chance Love and Logic, I, 4, 3; trad.
ital., pag. 67): che sono appunto i nomi che più frequentemente ricorrono per
indicare le due specie fondamentali del ragionamento. RAGIONAMENTO APAGOGICO.
V. Apa- GOGICO. RAGIONAMENTO PER ANALOGIA. V. ANALOGIA. RAGION DI STATO.
Giovanni Botero che introdusse l’espressione come titolo di un suo libro (Della
R. di Stato, 1589) intese per essa « la notizia dei mezzi atti a fondare,
conservare ed ampliare uno Stato » cioè « un dominio fermo sopra i po- poli ».
Ma in realtà l’espressione è passata a indi- care il principio del
machiavellismo volgare; e ciò ad opera dello stesso Botero che, pur
polemizzando contro Machiavelli, faceva suo il principio del fine che
giustifica i mezzi in materia politica (v. MAcHIA- VELLISMO). RAGIONE (gr. 26y06; lat.
Ratio; ingl. Reason; franc. Raison; ted. Vernunft). Il termine ha i seguenti significati fondamentali: 1°
Guida autonoma dell’uomo in tutti i campi nei quali un’indagine o una ricerca è
possibile. In questo senso si dice che la R. è una « facoltà » propria
dell’uomo e che distingue l’uomo dagli altri animali. 2° Fondamento o R.
d’essere. Poichè la R. d’essere di una cosa è la sua essenza necessaria o
sostanza, espressa nella definizione, si assume tal- volta per «R.» la sostanza
stessa o la sua definizione. Questo è un significato frequente nella filosofia
aristotelica o che si ispira a quella aristotelica. Per esso v. i termini
ESSENZA ; FONDAMENTO; FORMA; SOSTANZA. 3° Argomento o prova. In questo senso si
dice « Ha avanzato le sue R. + o « Bisogna sentire le R. dell’avversario ». A
questo significato si riferisce pure l’espressione « Aver R.+: che significa
avere argomenti o prove sufficienti, quindi esser nel vero. Per questo
significato v. ARGOMENTO; PROVA. 4° Rapporto in senso matematico. In questo
senso si parla anche oggi di «R. diretta» o «R. inversa » (in italiano e in
francese) mentre il termine latino ratio è adoperato in questo senso in
inglese. Per questo significato v. RELAZIONE. Nel significato di guida della
condotta umana nel mondo, la R. può essere intesa in due significati
subordinati e cioè: 4) come facoltà generale di guida; 8) come procedimento
specifico di cono- scenza. A) Questo è il senso fondamentale, dal quale la
parola desume quella potenza di significato che ha fatto di essa, da secoli,
l'emblema della ricerca libera. La R. è la forza che libera dai pregiudizi, 723
dal mito, dalle opinioni radicate ma false, dalle appa- renze e consente di
stabilire un criterio universale o comune per la condotta dell’uomo in tutti i
campi. Dall’altro lato, come guida propriamente umana, la R. è la forza che
consente all’uomo di liberarsi dagli appetiti che ha in comune con gli animali,
sottoponendoli a controllo e mantenendoli nella giusta misura. Questa è la
duplice funzione che è stata attribuita alla R. sin dai primordi della
filosofia occidentale. La polemica di Eraclito e Parmenide contro le opinioni
dei più, cioè contro le credenze stabilite, discordi tra loro e fallaci, è
condotta in nome di una R. che sia l’unico criterio di guida per tutti gli
uomini. Dice Eraclito: « Bisogna che si segua ciò che è universale, cioè comune
a tutti; e solo la R. è comune; ma i più vivono come se ciascuno avesse una sua
mente privata» (F7., 2, Diels). E Parmenide: « Allontana il tuo pensiero da
questa via di ricerca e non ti spinga su di essa l’abitudine di lasciarti
guidare da un occhio che non vede, da un orecchio che rimbomba e dalla parola:
giudica invece con la R.» (Fr., 1, 33-37, Diels). Platone e Aristotele
dall’altro lato oppongono la R. sia alla sensibilità in quanto fonte delle comuni
credenze (PLATONE, Fed., 83 a; ARISTOTELE, Mef., I, 1, 980b 26), sia agli
appetiti che l’uomo ha in co- mune con gli animali (PLATONE, Tim., 70 a; ARI-
STOTELE, Er. Nic., I, 13, 1102 b 15). Nell’un caso e nell’altro, la ragione ha
nello stesso tempo una fun- zione negativa e positiva: negativa nei confronti
delle credenze infondate e degli appetiti animali; positiva nel senso di
dirigere le attività umane in modo uni- forme e costante. Ma furono soprattutto
gli Stoici che fecero prevalere la dottrina che la R. è l’unica guida degli
uomini. Essi infatti stabilivano una specie di divisione simmetrica tra gli
animali e gli uomini: agli animali è stato dato come guida l’istinto che li
porta a conservarsi e a cercare ciò che è vantaggioso; agli uomini è stata data
come più perfetta guida la R., sicchè per essi vivere secondo natura significa
vivere secondo R. (Dio. L., VII, 1, 85-86). Questi concetti costituirono uno
dei cardini della cultura classica. Cicerone diceva: « La R., per la quale sola
ci differenziamo dai bruti, per mezzo della quale possiamo congetturare,
argomentare, ribattere, di- scutere, condurre a termine e concludere, è certa-
mente comune a tutti, differente per preparazione, ma eguale quanto a facoltà
di apprendere + (De Legibus, I, 10, 30). E Seneca esaltava la R. per la sua
immutabilità e universalità. «La R., diceva, è immutabile e ferma nel suo
giudizio perchè non è schiava ma signora dei sensi. La R. è uguale alla R. come
il giusto al giusto: dunque anche la virtù è uguale alla virtù perchè la virtù
non è altro che la retta R. » (Ep., 66). Da questo punto di vista anche la
metafisica stoica della R. per cui essa è, come 724 dice lo stesso Seneca
(/bid.), «una parte dello spirito divino infusa nel corpo dell’uomo? non toglie
l’autonomia di essa ma la esalta e conferma. A questi concetti s’ispirava senza
dubbio S. Ago- stino in quell’elogio della ragione che forma gli ultimi
capitoli del De Ordine: «La R., egli dice, è quel moto della mente che può
distinguere e colle- gare tutto ciò che si apprende » (De Ord., II, 11, 30).
Essa è la forza creatrice del mondo umano: ha inventato il linguaggio, la
scrittura, il calcolo, le arti, le scienze, ed è quanto di immortale c’è
nell'uomo (/bid., II, 19, 50). L’entusiasmo di S. Agostino per la ragione si
spiega facilmente: per S. Agostino la vita è ricerca e la R. è il principio che
istituisce e dirige la ricerca e la rende feconda. Il neoplatonismo aveva
tuttavia già subordinato la R. all’intelletto, ritenuto superiore alla R.
perchè dotato di quel carattere intuitivo o immediato che fa di esso la diretta
visione del vero. Secondo Plo- tino la R. emana dall’intelletto « in quanto
questo è presente in tutte le cose che sono » (Enn., III, 2, 2). Essa è in
altri termini la funzione formatrice e plasmatrice dell’intelletto; e per
disporre tutte le cose del mondo (buone e cattive) nel loro ordine proprio,
deve adattarsi alla materia (/bid., III, 2, 11-12). In questo senso la R. è la
tecnica della creazione e del governo del mondo: giacchè fa sì che gli esseri
creati non si distruggano a vicenda ma si accordino e si combinino tra loro nel
modo mi- gliore. «La R., dice Plotino, fa sì che ciascun essere patisca o
agisca, non a caso o disordinatamente, ma secondo necessità » (/bid., II, 3,
16). Questo concetto della superiorità dell’intelletto viene ereditato dalla
scolastica medievale. R. e intelletto vengono iden- tificate nel significato
generale di guida (cfr., ad es., S. ToMMAsO, S. Th., I, q. 29, a. 3, ad 49; q.
79, a. 8). Ma la R. viene poi subordinata all’intelletto per il suo carattere
discorsivo che appare inferiore al carattere intuitivo di esso (v. oltre). Più
tardi, lo stesso Bacone considerava la R. come una parti- colare attività
dell’intelletto (assieme alla memoria e alla fantasia) e precisamente quella il
cui compito consiste nel dividere e comporre le nozioni astratte «secondo la
legge della natura e l'evidenza delle cose stesse » (De Aupm. Scient., II, 1).
Sicchè solo con Cartesio la R. ritorna ad essere la guida fonda- mentale
dell’uomo. Identificando la R. con il buon senso, Cartesio ripristina il
concetto classico della R. e su tale concetto imposta il problema nuovo del
metodo. «La capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, che è
propriamente ciò che si chiama il buon senso o la R., è naturalmente uguale in
tutti gli uomini; perciò la disparità delle nostre opinioni non viene da ciò
che le une sono più ragionevoli delle altre ma solamente da ciò, che RAGIONE
conduciamo i nostri pensieri per diverse vie e non consideriamo le stesse cose.
Non è sufficiente aver lo spirito sano ma la cosa principale è applicarlo bene
» (Discours, I). Queste parole famose hanno reintrodotto nel mondo moderno il
concetto antico (e specialmente stoico) della R. come guida comune del genere
umano. Sicchè Spinoza poteva meravi- gliarsi che si volesse talvolta
«sottomettere la R., massimo dono di Dio e luce veramente divina, alle parole +
e che non si stimasse un delitto « par- lare indegnamente della R. che è la
vera testi- monianza del Verbo di Dio e dichiararla corrotta, cieca ed impura»
(Traci. theologico-politicus, cap. 15). Leibniz a sua volta insisteva sulla
vecchia tesi che la R. appartiene all'uomo e all’uomo soltanto (Nouv. Ess., IV,
17, 2). E Locke riconosceva alla R. una determinazione fondamentale che
costituisce la sola autentica innovazione che il concetto moderno di essa
presenta nei confronti del concetto classico: l’essere cioè essa strumento
della conoscenza pro- babile oltre che della certa. « Come la R., diceva Locke,
percepisce la connessione necessaria e indubitabile che tutte le idee o prove
hanno l’una con l’altra, in ciascun grado di una qualunque dimostrazione che
produca conoscenza, così analo- gamente essa percepisce la connessione
probabile che unisce tra loro le idee o prove in ciascun grado di una
dimostrazione cui giudichi sia dovuto l’assenso + (Saggio, IV, 17, 2). Con
questa determi- nazione, la R. era qualificata per la funzione che
l’illuminismo settecentesco le affidava di valere come principio di critica
radicale della tradizione e di un rinnovamento altrettanto radicale del mondo
umano. Kant cercava di realizzare piena- mente l’ideale illuministico della
ragione. Da un lato identificava la R. con la stessa libertà di critica («
Sulla libertà di critica riposa l’esistenza della R. che non ha autorità
dittatoriale ma la cui sentenza è sempre nient’altro che l’accordo di liberi
cittadini ciascuno dei quali deve poter formulare i suoi dubbi e persino il suo
veto senza impedimenti +); dall’altro intendeva portare la R. stessa davanti al
suo proprio tribunale e istituire quella « critica della R. pura + che « non
s’immischia nelle contro- versie che si riferiscono immediatamente agli oggetti
ma è istituita per determinare e giudicare i diritti della R. in generale»
(Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del metodo, cap. I, sez. II). È in accordo con
il concetto illuministico della R. la definizione di Whitehead: «la funzione
della R. è il promuovere l’arte della vita »: nel senso che la R. avrebbe il
compito di agire sull'ambiente per promuovere forme di vita più soddisfacenti e
perfette (The Function of Reason, 1929, cap. I; trad. ital., Cafaro, pag. 6
sgg.). Mentre quella che a prima vista sembra la massima garanzia offerta
all’efficacia della R. RAGIONE cioè il credere che essa abiti la realtà e la
domini, sicchè non ci sia realtà che non sia razionale nè razionalità che non
sia reale, costituisce piuttosto l'abbandono della funzione direttiva della
ragione. Hegel, che ha affermato nel modo più rigoroso questo punto di vista,
ha anche negato la funzione direttiva della R.: « Ciò che sta tra la R. come
spirito autocosciente e la R. come realtà presente, ciò che differenzia quella
R. da questa e non lascia trovare l’appagamento in questa, è l’impaccio di
qualche astrazione che non si è liberata e non si è fatta concetto. Riconoscere
la R. nel presente, quindi godere di esso, questo riconoscimento razio- nale è
la riconciliazione con la realtà, che la filosofia consente a quelli i quali
hanno avvertito l’interna esigenza di comprendere » (Fi/. del dir., Pref.;
tradu- zione ital., Messineo, pag. 17). Ciò significa che la R. non dirige ma
giunge post factum a comprendere la realtà, cioè a giustificarla. B) Il
riconoscimento della R. come guida costante, uniforme e (talvolta) infallibile
di tutti gli uomini in tutti i campi della loro attività è accompagnato il più
delle volte dalla determinazione di un procedimento specifico nel quale si
riconosce l'operazione propria della ragione. Si possono ridurre ai seguenti
concetti fondamentali le deter- minazioni che sono state date o si dànno della
tec- nica specifica della ragione: a) il discorso; 5) l’auto- coscienza; c)
l’autorivelazione; d) la tautologia. a) Il procedimento discorsivo è la tecnica
che più frequentemente è stata ritenuta propria della ragione. Al procedimento
discorsivo fa appello Platone per segnare la differenza tra l’opinione vera e
la scienza: le opinioni vere possono dirigere l'azione egualmente bene che la
scienza, ma tendono a sfuggire da ogni parte, come le statue di Dedalo, finchè
«non siano legate con un ragionamento causale » (Men., 98 a). Questa legatura o
connessione è la tecnica discorsiva. Tecnica discorsiva è l’intero procedimento
sillogistico di Aristotele, al di fuori della determinazione dei primi princìpi
che sono intuiti dall’intelletto; discorsiva è sia la sillogistica necessitante
sia quella dialettica (An. Posr., I, 33, 89 b 7; Er. Nic., VI, 11, 1143b 1).
Nello stesso senso gli Stoici definivano la R. come « un sistema di premesse e
di conclusioni» (Diog. L., VII, 1, 45). L’ufficio frequentemente attribuito
alla ragione di distinguere, collegare, paragonare, ecc. [cfr. i passi di
Cicerone e S. Agostino riportati in A)] non è che l’espressione dello stesso
procedimento. S. Tom- maso diceva: « Gli womini giungono a conoscere la verità
intelligibile procedendo da una cosa all'altra, perciò si chiamano ragionevoli.
È evidente che il ragionare sta all’intendere nello stesso rapporto in cui il
muovere sta allo star fermi o l’acquisire all’avere: delle quali cose, la prima
è propria di 725 ciò che è imperfetto, la seconda di ciò che è per- fetto » (S.
7A., I, q.79, a. 8). Ai princìpi dell’Età Moderna Cartesio prendeva a modello
lo stesso procedimento per determinare le sue regole del metodo: «Quelle lunghe
catene di ragioni, tutte semplici e facili, di cui i geometri hanno l’abitudine
di servirsi per giungere alle loro più difficili dimo- strazioni m’avevano dato
occasione di immaginare che tutte le cose che possono venire a conoscenza degli
uomini si connettono nello stesso modo » (Discours, II. La Logica di Portoreale
esprimeva diversamente gli stessi concetti (ARNAULD, Lop., III, 1), che anche
Locke poneva a base della sua dottrina della ragione: « Nella R. possiamo
consi- derare questi quattro gradi: il primo e più alto consiste nel trovare e
scoprire la verità; il secondo nel disporle in modo regolare e metodico e
siste- marle in un ordine chiaro e adatto, in modo che siano percepite con
evidenza e facilità la loro forza e le loro connessioni reciproche; il rerzo
consiste nel percepire tali connessioni; il quarto nel trarre una giusta
conclusione » (Saggio, IV, 17, 3). La di- stinzione che Spinoza stabiliva tra
il secondo genere di conoscenza, che egli appunto chiamava R., e il terzo
genere che chiamava scienza intuitiva è la distinzione tradizionale tra il
procedimento discor- sivo e l’intelletto intuitivo (Er., II, 40, schol. 2). E
Leibniz non faceva che trovare l’espressione più semplice per lo stesso
concetto della R. asserendo che la R. è «il concatenamento delle verità + (Op.,
ed. Erdmann, pag. 479, 393). Wolff chiamava «giudizio discorsivo» l’operazione
della R. in quanto consiste nel collegamento delle proposizioni (Log., $
50-51). Il concetto della R. come discorso entra in crisi con Kant. Kant,
mentre riconosce il carattere discor- sivo a tutta l’attività conoscitiva
umana, ritenendo che solo Dio possiede la conoscenza intuitiva (v. Di-
scorsivo) distingue nettamente la R. dall’intelletto, nonostante il loro comune
carattere discorsivo. La R.è la facoltà «che produce da sè i concetti » e
perciò si può chiamare facoltà dei principi. Ma i concetti che la R. produce
non hanno alcuna base nell’espe- rienza perciò sono semplicemente fittizi. « Se
l’in- telletto può essere una facoltà dell’unità dei feno- meni mediante le
regole, la R. è la facoltà dell'unità delle regole dell’intelletto mediante i
princìpi. Essa perciò non si indirizza mai immediatamente all’espe- rienza o a
un oggetto qualsiasi ma all’intelletto, per imprimere alle conoscenze
molteplici di esso un’unità a priori per mezzo di concetti: unità che può dirsi
razionale ed è di tutt’altra specie di quella che può essere prodotta
dall’intelletto » (Crit. R. Pura, Dia- lettica trascendentale, Intr. II, a). La
R. procede, come l'intelletto, discorsivamente; ma considera i procedimenti
discorsivi dell’intelletto come compiuti 726 in idee di totalità e di unità
(l’anima, il mondo, Dio) che sono perfette ma inconfrontabili con l’espe-
rienza, quindi puramente fittizie e fonti solo di ragionamenti dialettici, cioè
sofistici (v. IDEA, ANTI- NOMIE). Il risultato di questa distinzione kantiana è
che il procedimento discorsivo valido è solamente quello dell'intelletto, i cui
concetti sono immedia- tamente derivati dall’esperienza; e che il proce-
dimento discorsivo razionale, con le sue pretese totalitarie, non dà luogo che
a nozioni fittizie. Dopo Kant pertanto diventa difficile mantenere la defi-
nizione della ragione come tecnica discorsiva. Il concetto della R. come
discorso consente la considerazione formale del procedimento razionale: cioè
rende possibile una /ogica, che è difatti la logica tradizionale così come è
stata elaborata dai filosofi a partire da Aristotele sino alla fine del sec.
xx. La logica intesa in questo senso è nello stesso tempo descrittiva e normativa:
descrittiva dei procedimenti propri della R., normativa nel senso che questa
stessa descrizione vale come regola per il retto uso della stessa ragione. In
questo senso la logica tra- dizionale era esattamente definita come «arte di
ragionare ». b) Il concetto della R. come autocoscienza rimonta a Fichte. Esso
è caratterizzato dall’identi- ficazione di R. e realtà e presuppone il concetto
della R. come discorso. Come discorso, la R. è deduzione; e come deduzione ha
un unico prin- cipio che è l'Io. Dall’Io deriva, con necessità infal- libile,
l’intero sistema del sapere che è nello stesso tempo il sistema della realtà. «
Fonte di ogni realtà è l'Io. Solo per e con l’Io è dato il concetto della
realtà. Ma l’Io è perchè si pone e si pone perchè è. Perciò porsi ed essere
sono una sola e medesima cosa » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4, C; trad. ital.,
pag. 92). Le equazioni su cui questa dot- trina si fonda sono le seguenti: R. =
sapere dedut- tivo; sapere deduttivo = realtà; realtà + sapere = au- tocoscienza.
Schelling non faceva che esprimere queste equazioni asserendo: « La natura
attinge il suo più alto fine, che è quello di divenire interamente oggetto a se
stessa, con l’ultima e più alta riflessione che non è altro se non l’uomo o più
generalmente ciò che noi chiamiamo ragione. In tal modo per la prima volta si
ha il completo ritorno della natura a se stessa e appare evidente che la natura
è origi- nariamente identica a ciò che in noi si rivela come principio
intelligente e cosciente (System des trans- zendentalen Idealismus, 1800,
Intr., $ 1; trad. ital., pag. 9). Ed Hegel esprimeva lo stesso concetto nel
modo seguente: «L’autocoscienza, ossia la cer- tezza che le sue determinazioni
sono tanto ogget- tive — determinazioni dell’essenza delle cose — quanto suoi
propri pensieri, è la R.; la quale, in quanto è siffatta identità. è non solo
la sostanza RAGIONE assoluta, ma la verità come sapere» (Enc., $ 439). In altri
termini per Hegel la R. è l’identità dell’auto- coscienza come pensiero con
quelle sue manifesta- zioni o determinazioni che sono le cose o gli eventi; è
l’identità di pensiero e realtà. In forma epigrafica questo concetto veniva
espresso da Hegel nel modo seguente; «la R. è la certezza della coscienza di
essere ogni realtà: così l’idealismo esprime il con- cetto della R.» (Phdnomen.
des Geistes, I, V, l; trad. ital., pag. 209). Ovviamente, da questo punto di
vista, la R. non è discorsiva nel senso di conca- tenare tra loro espressioni
linguistiche ed effettuare la derivazione di una di esse dall’altra mediante
regole determinate o determinabili; ma è piuttosto la derivazione (pretesa) di
tutte le determinazioni del pensiero e della realtà l’una dall’altra in un
unico processo di cui si asserisce la perfetta « neces- sità ». Questo punto di
vista rende impossibile la considerazione formale delle procedure razionali che
è invece collegata con la concezione a della ragione. Come autocoscienza, la R.
non è mai formale: è sempre identica con la realtà: « L’intel- letto, dice
Hegel, determina e tien ferme le deter- minazioni. La R. è negativa e
dialettica perchè risolve in nulla le determinazioni dell’intelletto. Essa è
positiva perchè genera l’universale e in esso comprende il particolare»
(Wissenschaft der Logik, Pref. alla 1* ediz.; trad. ital, pag. 5). « Com-
prende il particolare » significa che comprende le cose o determinazioni reali
che non sono altro, in ultima analisi, che le sue manifestazioni parti- colari.
La negazione della logica formale fa parte integrante di questo punto di vista,
perciò ritorna ogni volta che questo si presenta. Basti qui ricordare soltanto
il rifiuto di Croce della logica formale, fondata sullo stesso presupposto
hegeliano dell’iden- tità di R. e realtà, espresso nella forma dell’identità di
filosofia e storia: « La ricchezza della realtà, dei fatti, dell’esperienza che
parrebbe sottratta al con- cetto puro e quindi alla filosofia a cagione del
dichiarato distacco delle scienze empiriche, le viene invece ridata e
riconosciuta; e non più nella forma diminuita e impropria che è dell’empirismo
sibbene in modo totale o integrale. Il che si effettua mercè il congiungimento,
che è unità, di filosofia e storia » (Logica, 1920, pag. 392). c) Il concetto
della R. come autorivelazione o evidenza è stato stabilito da Husserl. Per
Husserl la R. è lo stesso manifestarsi fenomenologico degli oggetti (che
possono essere cose Oo essenze), sia che tale manifestarsi sia dotato del
carattere neces- sario o apodittico sia esso solo assertorio. Dice Husserl: «
La visione per così dire assertoria di una individualità, ad es., il percepire
una cosa o uno stato di fatto individuale si distingue nel suo carat- tere
razionale dalla visione apodittica della compren- sione di un'essenza o di un
rapporto di essenze» (Ideen, 1, $ 137). Il termine più comprensivo cioè il
concetto che comprende sia la visione assertoria, che è data di fatto ma può
essere diversa, sia la visione apodittica che è necessaria, è la coscienza
razionale che Husserl chiama pure, in generale, evidenza (Ibid., $ 137). Da
questo punto di vista il carattere fondamentale della razionalità è la validità
dell’atto di posizione: se l'oggetto è veramente posto, l’atto è valido e la
posizione ha carattere razionale (/bid., $ 139). Ma ciò che dal punto di vista
dell’atto noetico è la posizione dell’oggetto, dal punto di vista oggettivo è
il manifestarsi evidente dell’og- getto stesso, il suo darsi o il suo rivelarsi
(Ibid., $ 139). E poichè in ogni sfera dell’essere il modo di autorivelarsi
degli oggetti è diverso, ogni tipo di realtà porta con sè «una nuova concreta
dottrina della R.» (/bid., $ 152). Questo concetto della R. come
autorivelazione o autoevidenza è senz’altro accettato da Heidegger: « Proprio
perchè la fun- zione del /ogos è un puro lasciar vedere qualcosa, un lasciar
intuire l’ente, /ogos può significare R.» (Sein und Zeit, $ 7, B). In forma più
mitica lo stesso concetto è presentato da Jaspers: «La R. non è affatto una
vera e propria sorgente originaria ma, poichè è la connessione di tutto, è
simile a una sor- gente originaria nella quale vengono alla luce tutte le
sorgenti» (Vernunft und Existenz, 1935, II, 5; trad. ital, pag. 50). La
direzione verso cui la R. muove è un'infinita chiarezza; e ciò che in essa
cerca di chiarirsi è l’esistenza: « l’esistenza raggiunge la chiarezza solo
attraverso la R.: la R. ha un contenuto solo in virtù dell’esistenza » (/bid.,
II, 6; pag. 53). È ovvio che anche da questo punto di vista una considerazione
formale del procedimento razio- nale è impossibile. La R. non è mai formale
perchè è sempre riempita dal contenuto che in essa si mani- festa evidente o si
chiarisce. d) Il concetto della R. come tautologia trova la sua origine in Hume
che per primo distinse netta- mente le « relazioni di idee » dalle « cose di
fatto ». «Alla prima classe appartengono le scienze quali la geometria,
l’algebra e l’aritmetica e in breve ogni proposizione certa intuitivamente [nel
senso lockiano] o dimostrativamente... Le proposizioni di questa classe si
possono scoprire con una pura operazione del pensiero e non dipendono da cose
che esistono in qualche luogo dell’universo » (/ng. Conc. Underst., IV, 1).
Hume veramente non af- fermò esplicitamente il carattere tautologico o (come si
dice con termine kantiano) analitico delle pro- posizioni che esprimono
semplici rapporti delle idee fra loro; ma in qualche modo lo presuppose
insistendo sul fatto che le proposizioni che esprimono cose di fatto non sono
logicamente derivabili l’una dall’altra. Tuttavia a formare la concezione in
721 esame della R. è intervenuta anche un’altra compo- nente concettuale che
era stata per la prima volta esposta da Hobbes; la riduzione della R. a calcolo
delle proposizioni verbali. «La R., aveva detto Hobbes, non è altro che il
calcolo — cioè l’addi- zione e la sottrazione — delle conseguenze dei nomi
generali usati per contrassegnare e significare i nostri pensieri: per
contrassegnarli quando calco- liamo per noi stessi, per significarli quando
dimo- striamo o approviamo i nostri calcoli per gli altri uomini » (Leviathan,
I, 5). Quest’idea di Hobbes trovò la sua realizzazione soltanto a partire dalla
metà del sec. xx con la fondazione della logica matematica da parte di G. Boole
(Laws of Thought, 1854) che per la prima volta mostrò l’impossibilità di
ridurre il ragionamento matematico alle forme di ragionamento descritte da
Aristotele e cominciò a costruire una logica in stretta connessione con i
procedimenti del calcolo. I successi che questa logica registrò in seguito, ad
opera soprattutto di Frege e Russell (v. Logica), costituiscono un ante- cedente
storico indispensabile del concetto in esame della ragione. Che tale
procedimento avesse carat- tere tautologico apparve chiaro soltanto più tardi,
cioè nell’ambito del Circolo di Vienna, con l’opera di Wittgenstein (1922). Il
fondamento di quest’opera è la riduzione della R. al linguaggio. Wittgenstein
asseriva che « le proposizioni della logica sono tau- tologie» (Tractatus
logico-philosophicus, 6.1); che « le proposizioni della logica non dicono nulla
(sono le proposizioni analitiche) » (/bi4., 6.11) e che «le teorie che fanno
apparire fornita di contenuto una proposizione della logica sono sempre false »
(/bid., 6.111). E aggiungeva: «La caratteristica speciale delle proposizioni
logiche è che dal solo simbolo si può riconoscere che sono vere e questo fatto
rac- chiude in sè tutta la filosofia della logica. Parimenti uno dei fatti più
importanti è che la verità o falsità delle proposizioni non logiche non si può
ricono- scere soltanto dalla proposizione » (Tract., 6.113). In tal modo il
procedimento razionale ritenuto proprio di quelle discipline che Hume diceva
avere per oggetto soltanto relazioni di idee (cioè della logica e della
matematica) è stato ridotto alla tautologia. Wittgenstein dice che le
proposizioni della logica, come quelle della matematica (/bid., 6.21) non
dicono nulla. Ciò non vuol dire tuttavia che esse sono inutili perchè rivelano
l’identità di significato che c’è sotto forme proposizionali diverse e possono
pertanto essere usate per la trasformazione di una proposizione in un’altra che
abbia lo stesso significato ma una forma diversa. Tuttavia, nessuna delle
proposizioni della logica e della matematica fornisce alcuna informazione
intorno al mondo. La riduzione della R. a procedimento tautologico ha quindi i
seguenti risultati: 1° sono razionali, nel senso proprio del termine, solo i
procedimenti formali della logica e della matematica (come parte o tutto della
logica); perciò razionalità e logicità coincidono; 2° razionalità e logicità
non hanno nulla a che fare con la realtà. Pertanto questo con- cetto della R.
costituisce l'inversione simmetrica del concetto 5) che ha invece identificato
razionalità e realtà ed ha opposto entrambe le concezioni alla pura formalità
logica, dichiarata priva di valore (cfr., sulla concezione in esame, R. von
MISES, Kleines Lehrbuch des Positivismus, 1939, $ 10; trad. ital., pag. 164
sgg.; J. R. WeINBERG, An Exa- mination of Logical Positivism, 1950, cap. II;
tradu- zione ital, pag. 86 sgg.). Le quattro alternative tipiche che la teoria
della R. ha finora seguite sono chiaramente insufficienti di fronte al compito
che alla R. si assegna come guida autonoma dell’uomo in tutti i campi. La prima
di esse si è storicamente esaurita e l’abbandono della logica in cui essa si
esprimeva non è che un segno di quest’esaurimento. La 5) e c) rendono
impossibile la determinazione di procedimenti rigorosi; e la 5) mette in
pericolo la stessa funzione direttiva della ragione. La d) rende possibile lo
sviluppo di una disciplina autonoma che è la moderna logica mate- matica ma è
troppo ristretta per esprimere i compiti della R. in tutti i campi. È possibile
bensì, in tutti i campi, servirsi delle tecniche logico-matematiche costruite
sul fondamento della nozione di R. come tautologia; ma non tutti i procedimenti
che possono definirsi razionali possono ridursi a tali tecniche. Un
procedimento razionale è in generale quello che consente all’uomo di dominare
una situazione, di affrontare i mutamenti di essa e di correggere gli errori
eventuali del procedimento stesso. Pertanto la razionalità di un procedimento
si può determinare soltanto nei confronti della situazione specifica che esso
consente di affrontare. E la considerazione della R. rinvia subito (come voleva
Husserl) alla considerazione delle sfere o dei campi specifici, rispetto ai
quali soltanto si può decidere la razio- nalità di un procedimento. Da questo
punto di vista, la teoria della R. può essere oggi fornita, non da una
metafisica della R., ma dalle ricerche metodologiche e critiche che, dall'esame
dei proce- dimenti autonomi, di cui l’uomo dispone nei singoli campi di
ricerca, risalgano alle condizioni generali della loro progettabilità. RAGIONE
SUFFICIENTE.V. FONDAMENTO. RAGIONEVOLE (lat. Rationabilis o Rationalis; ingl.
Reasonable; franc. Raisonnable; ted. Verniinftig). 1. Chi ha la possibilità
d’uso della ragione; e in questo senso si dice che l’uomo è un animale
ragionevole. S. Agostino afferma che i dotti «chiamarono R. (rationabilis) chi
usa o può far uso della ragione, razionale (rationalis) ciò che è fatto o detto
dalla ragione +; e pertanto ritiene che bisogna chiamare razionale, per es., i
discorsi o i bagni e R. colui che li fa (De Ordine, XI, 31). Ma questa
distinzione non regge molto perchè gli antichi chiamarono razionale anche
l’uomo (cfr., ad es., QuinTILIANO, /nsf., V, 10, 56). E d’altronde chia- miamo
oggi R. anche ciò che è conforme a ragione. 2. Ciò che è conforme alla ragione
o alle regole che essa prescrive in un determinato campo d'indagine o in
generale. In questo senso Locke parlava della «ragionevolezza del cristianesimo
». E si parla di una « R. certezza » per designare quella certezza che si può
desumere dalle regole del campo cui si fa riferimento, ma non è assoluta. Dewey
dice: «La ragionevolezza è questione di relazione tra mezzi e risultati... È R.
ricercare e scegliere i mezzi che con ogni probabilità produrranno gli effetti
ai quali si tende » (Logic, I; trad. ital., pag. 41-42). In entrambi i
significati il termine R. (come quello correlativo di ragionevolezza) implica
una connotazione limitativa, la quale in primo luogo esclude l’infallibilità
della ragione; ed in secondo luogo include la considerazione dei limiti e delle
circostanze in cui la ragione stessa si trova ad agire. Pertanto « esser R. »
significa, nella lingua corrente, rendersi conto delle circostanze e delle
limitazioni che esse comportano con la rinuncia ad un atteggia- mento,
teoretico o pratico, di assolutismo. RAGIONI SEMINALI (gr. 26yor oreppa- tixol;
lat. Rariones seminales). Quelle parti della R. divina da cui le cose si
originano. Secondo gli Stoici, come ogni vivente è prodotto da un seme, così
ogni cosa è prodotta da una particella della R. divina, che perciò è un seme
razionale. La nozione sottolinea la predeterminazione di ciò che si genera
(Azzio, Plac., I, 7, 33; cfr. STOBEO, Ecl., I, 17, 3). La nozione fu fatta
propria dai neoplatonici (con- fronta PLOTINO, Enn., II, 3, 16) e da S.
Agostino (De diversis quaestionibus 83, q. 46). RAGION PIGRA (gr. &pydc
Asyoc; lat. Jenava ratio; ted. Faule Vernunft). Il ragionamento o l’ar- gomento
che persuade all’inerzia. Platone già chia- mava pigro l’argomento sofistico
che è inutile cercare perchè non si può cercare nè quello che si sa (dal
momento che si sa) nè quello che non si sa, dal momento che non si sa che cosa
cercare (Men., 86 b). Ma sotto il nome di R. pigra ci è stato specialmente
tramandato un argomento di pro- babile origine megarica, esposto dallo stoico
Cri- sippo (PLUTARCO, Moralia, II, pag. 574 e; cfr. Stoi- corum Fragmenta, II,
pag. 277) che Cicerone ha così riportato: « Se per te è destino di guarire da
questa malattia, guarirai sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai.
Egualmente se per te è destino non guarire da questa malattia, non guarirai,
sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Ora il tuo destino è l’una
o l’altra di queste cose, dunque non serve a niente ricorrere al medico » (De
Fato, 12, 28). Leibniz fece talora riferimento a questo vecchio argomento
megarico o stoico (Théod., I, 55). Più genericamente, Kant chiama R. pigra «ogni
principio il quale porti a considerare come assolutamente compiuta la pro- pria
ricerca sicchè la R. si metta tranquilla come se abbia pienamente terminato il
suo compito » (Crit. R. Pura, Dialettica; Appendice alla Dialet- tica
trascendentale: Dello scopo finale, ecc.). In questo senso più generale,
l’espressione è adoperata frequentemente anche oggi. RAGION PURA. V. Puro.
RAMIFICATA TEORIA DEI TIPI. Vedi ANTINOMIA. RANGO (ingl. Range; franc. Rang;
ted. Rane). Termine talvolta adoperato dai logici per indi- care l'insieme
delle entità i cui nomi possono essere sostituiti alla variabile di una
formula. Il R. di una proposizione è l'insieme degli stati di cose nei cui
rispetti la proposizione è vera. // R. del significato di un predicato P è
l’insieme dei valori di x per i quali «Px» è vero o falso (cfr., specialmente
per quest’uso, A. Pap, Semantics and Necessary Truth, 1958, passim). RAPPORTO.
V. RELAZIONE. RAPPORTO DI COSE. V. STATO DI cose. RAPPRESENTATIVO (ingl.
Representative; franc. Représentatif; ted. Vorstellend). 1. Il senso di questo
aggettivo è più ristretto di quello del corrispondente sostantivo giacchè
contiene costan- temente il riferimento al carattere di « similitudine » o di
«quadro», che rimane escluso da alcuni si- gnificati del sostantivo. Così «idea
R.» è l’idea che si concepisce come immagine o riproduzione del suo oggetto. E
si dice che la conoscenza ha natura R., se si ritiene che essa costituisca
l’immagine o la copia dell'oggetto. 2. Emerson chiamò uomini R. quelli che
Hegel chiamava « individui della storia universale » o altri romantici
chiamavano « eroi »: cioè quelli che sono i simboli e nel contempo gli
strumenti di realizza- zione delle aspirazioni di tutti gli uomini (Repre-
sentative Men, 1850). 3. Nel senso politico: sistema R., è il sistema che si
fonda sul principio della delega, da parte dei cittadini a un gruppo ristretto
di essi, di certi specifici poteri politici. RAPPRESENTAZIONE (lat. Repraesen-
tatio; ingl. Representation; franc. Représentation; ted. Vorstellung). Termine
di origine medievale per indicare l’immagine (v.) o l’idea ([v.] nel senso 2),
o entrambe le cose. L’uso del termine fu suggerito agli Scolastici dal concetto
di conoscenza come di una «similitudine» dell’oggetto. « Rappresentare
qualcosa, diceva S. Tommaso, significa contenere la similitudine della cosa»
(De Verit., q. 7, a. 5). Ma fu soprattutto l’ultima scolastica che mise in voga
il termine, talvolta per indicare il significato delle parole (cfr., ad es.,
GRAZIADIO DI ASCOLI, Perihermenias, 2). Ochkam distingueva tre signi- ficati
fondamentali. « Rappresentare, diceva, ha parecchi sensi. In primo luogo, si
intende con questo termine ciò con cui si conosce qualcosa e in questo senso la
conoscenza è rappresentativa e rappresentare significa esser ciò con cui si
conosce qualcosa. In secondo luogo si intende per rappre- sentare il conoscer
qualcosa, conosciuta la quale si conosce un’altra cosa; e in questo senso
l’imma- gine rappresenta ciò di cui è l’immagine, nell’atto del ricordo. In
terzo modo s’intende per rappre- sentare il causare la conoscenza al modo in
cui l’oggetto causa la conoscenza » (Quodl., IV, q. 3). Nel primo senso la R. è
l’idea nel senso più gene- rale; nel secondo senso, è l’immagine; nel terzo, è
l’oggetto stesso. Questi sono in realtà tutti i possi- bili significati del
termine: il quale fu reso di nuovo significativo dalla nozione cartesiana
dell’idea come «quadro » o «immagine» della cosa (Méd., III); e fu diffuso
soprattutto da Leibniz che considerava ogni monade come una R. dell’universo
(Mon., $ 60). Proprio per suggestione di questa dottrina Wolff introduceva il
termine Vorstellung, per in- dicare la cartesiana idea, nell’uso filosofico
della lingua tedesca (Verninftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des
Menschen, 1719, I, $ 220, 232, ecc... A Wolff si deve la diffusione dell’uso
del termine nelle altre lingue europee. Kant fissava il significato
generalissimo di esso, da lui considerato come il genere di tutti gli atti o
manifestazioni conoscitive indipendentemente dalla sua natura di quadro o di
similitudine (Crit. R. Pura, Dialettica, libro I, sez. I). In tale significato
gene- ralissimo il termine è stato poi costantemente ado- perato nel linguaggio
filosofico. Hamilton difendeva l’uso della parola anche in inglese (Lectures on
Logic, 2* ed., 1866, I, pag. 126). Ma in questo senso i problemi inerenti alla
R. sono quelli inerenti o alla conoscenza in generale (v. ConosceENZA) o alla
realtà che costituisce il termine oggettivo della conoscenza (v. REALTÀ) 0, in
un’altra direzione, quelli relativi al rapporto tra le parole e gli oggetti
significati (per i quali V. SEGNO; SIGNIFICATO). RASOIO DI OCCAM. V. Economia.
RAZIOCINIO. V. RAGIONAMENTO. RAZIONALE (gr. 2oyixéc; lat. Rationalis, Ra-
tionabilis; ingl. Rational; franc. Rationnel; tedesco Verniinftig). 1. Ciò che
costituisce la ragione o concerne la ragione, in uno qualsiasi dei signifi-
cati di questo rermine (v.). 2. Lo stesso che ragionevole: ad es., « animale R.
», «comportamento R. ». 3. Che ha per oggetto la ragione cioè la sua forma o i
suoi procedimenti. In questo senso Se- neca (Ep., 89, 17) e Quintiliano (/rsr.,
XII, 2, 10) chiamarono « filosofia R.+ la logica, come fecero poi anche Wolff
(Philosophia rationalis sive logica, 1728) e altri. RAZIONALISMO (ingl.
Rationalism; francese Rationalisme; ted. Rationalismus). In generale, l’at-
teggiamento di chi si affida ai procedimenti della ragione per la
determinazione di credenze o di tecniche in un dato campo. Il termine fu usato
fin dal sec. xvII per designare tale atteggiamento nel campo religioso: « C'è
una nuova sètta diffusa fra di essi [Presbiteriani e Indipendenti] ed è quella
dei razionalisti: ciò che la loro ragione gli detta, essi lo tengono per buono
nello Stato e nella Chiesa, finchè non trovano di meglio » (CLARENDON, State
Papers, II, pag. xL, alla data del 14-x-1646). In questo senso Baumgarten
diceva: «Il R. è l’errore di chi elimina nella religione tutte le cose che sono
al di sopra della propria ragione» (Ethica philo- sophica, 1765, $ 52). Kant fu
il primo ad assumere il termine come insegna della propria dottrina ed a
estenderlo dal campo religioso agli altri campi d’indagine. Egli chiamò R. la
propria filosofia trascendentale (nello scritto del 1804 sui « Progressi della
metafisica », Werke, V, 3, pag. 101): mentre chiamava noolo- gisti o dogmatici
i filosofi che la storiografia tedesca dell’800 ha chiamato poi razionalisti
cioè da un lato Platone e dall’altro i wolfiani (Crit. R. Pura, Dottr. del
Metodo, cap. IV). Nel campo morale difendeva « il R. del giudizio, il quale
dalla natura sensibile non prende nient’altro che ciò che anche la Ragion pura
per sè può pensare, cioè la confor- mità alla legge » e che perciò si oppone
sia al mi- sticismo sia all’empirismo della Ragion pratica (Crit. R. Pratica,
I, cap. II, Della tipica del giudizio puro pratico). Nel campo estetico
analogamente parlava di un « R. del principio del gusto » (Critica del Giud., $
58). E infine caratterizzava come R. il suo punto di vista in materia
religiosa. « Il razio- nalista, egli diceva, in virtù del suo stesso titolo, si
deve mantenere dentro i limiti della capacità umana. Quindi non prenderà mai il
tono deciso del naturalista e non contesterà nè la possibilità nè la necessità
di una rivelazione... giacchè su questi punti nessun uomo può, mediante la sua
ragione, decidere cosa alcuna» (Religione, IV, sez. I; tra- duzione italiana
Durante, pag. 169). Dall’altro lato, Hegel fu il primo a caratteriz- zare come
R. l’indirizzo che va da Cartesio a Spinoza e Leibniz, contrapponendolo
all’empirismo dell’indirizzo che fa capo a Locke. Per R. egli intese la «
metafisica dell’intelletto » cioè «la ten- denza alla sostanza, per cui si
afferma, contro il dualismo, un'unica unità, un solo pensiero, al modo stesso
in cui gli antichi affermavano l’essere » (Geschichte der Philosophie, ed.
Glockner, III, pa- gina 329 sgg.; trad. ital., III, 2, pag. 68 sgg.). La
contrapposizione tra razionalismo ed empirismo è rimasta poi fissata negli
schemi tradizionali della storia della filosofia, per quanto lo stesso Hegel ne
avvertisse il carattere approssimativo. In quanto al R. religioso, Hegel
affermava che esso è « l’op- posto della filosofia» perchè pone «il vuoto al
posto del cielo» e perchè «la sua forma è un ra- gionare senza libertà non già
un intendere concet- tualmente » (/bid., I, pag. 113; trad. ital., I, pag. 95).
In base a queste notazioni storiche si può dire che il termine in questione può
essere inteso nei se- guenti significati: 1° come R. religioso, designa alcuni
indirizzi protestanti o un punto di vista sulla religione si- mile a quello di
Kant; 2° come R. filosofico, il termine designa pro- priamente la dottrina di
Kant (che lo fece suo); oppure l’indirizzo metafisico della filosofia moderna
da Cartesio a Kant; 3° nel suo significato generico, può essere adoperato a
designare qualsiasi indirizzo filosofico che faccia appello alla ragione. Ma in
questa ac- cezione così vasta il termine può indicare le filosofie più
disparate e manca di ogni capacità indivi- duante. RAZIONALIZZAZIONE (ingl.
Rationaliza- tion; franc. Rationalisation; ted. Rationalisierung). 1. Così è
stato talora chiamato il processo per il quale le scienze della natura
tendevano a costituirsi come discipline teoretiche adottando i procedimenti
della matematica: processo che si supponeva rea- lizzato perfettamente nella
meccanica razionale (cfr. HussERL, /deen, I, $ 9). L’ideale della R. è stato
ora sostituito da quello della assiomatizzazione (v. ASSIOMATICA). 2. Termine
di cui si avvalgono spesso psicologi e sociologi per indicare la tendenza a
cercare ar- gomenti e giustificazioni per credenze che ricavano la loro forza
non già da essi, ma da emozioni, interessi, istinti, pregiudizi, abitudini,
ecc. RAZZISMO (ingl. Racialism; franc. Racisme; ted. Rassismus). La dottrina
che tutte le manife- stazioni storico-sociali dell’uomo e i suoi valori (o
disvalori) dipendano dalla razza e che esista una razza superiore («ariana » o
« nordica +) de- stinata ad essere la guida del genere umano. Il fondatore di
questa dottrina è stato il francese Gobineau nel suo Essai sur l’inégalité des
races humaines (1853-55) che era diretto a difendere l’aristocrazia di fronte
alla democrazia. Verso il principio del ’900 un inglese tedeschizzato, Houston
Stewart Chamberlain diffuse il mito dell’arianesimo in Germania (Die Grundlagen
des XIX Jahrhunderts, 1899) identificando la razza superiore con quella ger-
manica. L’antisemitismo era antico in Germania e perciò la dottrina del
determinismo razziale e della razza superiore trovò qui facile diffusione
risolvendosi nell’appoggio del pregiudizio anti- ebraico e della credenza che
esiste una congiura giudaica per la conquista del dominio del mondo e che
pertanto il capitalismo e il marxismo e in generale quelle manifestazioni
culturali e politiche che indeboliscono l’ordine nazionale sono feno- meni
giudaici. Dopo la prima guerra mondiale il R. apparve ai Tedeschi come un mito
consola- torio, un’evasione dalla depressione della sconfitta; e Hitler ne fece
il caposaldo della sua politica. La dottrina fu elaborata da Alfredo Rosenberg
nel Mito del XX secolo (1930). Rosenberg affer- mava un rigoroso determinismo
razziale. Ogni ma- nifestazione culturale di un popolo dipende dalla sua razza.
La scienza, la morale, la religione, e i valori che esse scoprono e difendono
dipendono dalla razza e sono le espressioni della forza vitale della razza.
Perciò pure la verità è sempre tale soltanto per una razza determinata. La
razza su- periore è quella ariana che dal nord si è diffusa nell’antichità in
Egitto, in India, in Persia, in Grecia e in Roma e ha prodotto le antiche
civiltà: civiltà che decaddero perchè gli ariani si mescola- rono con razze
inferiori. Tutte le scienze, le arti, le istituzioni fondamentali della vita
umana sono state create da questa razza. Di fronte ad essa sta l’anti-razza
parassitica ebraica, che ha creato i veleni della razza: la democrazia, il
marxismo, il capitalismo, l’intellettualismo artistico e anche gli ideali di
amore, di umiltà, di uguaglianza dif- fusi dal cristianesimo, il quale rappresenta
una corruzione romano-giudaica dell’insegnamento del- l’ariano Gesù. L'insieme
di questa dottrina venne esplicitamente dal nazismo presentato come un mito,
creato, diffuso e mantenuto dalla stessa forza vitale della razza. Il che non
vuol dire che non si cercò di razionalizzarla, dando una base scien- tifica al
concetto di razza che ne era il fondamento. Ma in realtà proprio l’uso che il
R. fa della nozione di razza rivela, dal punto di vista scientifico e filo-
sofico, l’inconsistenza della dottrina. Il concetto di razza è oggi
unanimemente con- siderato dagli antropologi come un espediente classificatorio
adatto a fornire lo schema zoologico entro il quale possono essere situati i
vari gruppi del genere umano. La parola perciò deve essere riservata solo per
quei gruppi umani contrasse- gnati da differenti caratteristiche fisiche che
pos- sono essere trasmesse per eredità. Tali caratteri- stiche sono
principalmente: il colore della pelle, la statura, la forma della testa e della
faccia, il colore e la qualità dei capelli, il colore e la forma degli occhi,
la forma del naso e la struttura del corpo. Si distinguono, tradizionalmente (e
conven- zionalmente) tre grandi razze che sono la bianca, la gialla e la nera,
cioè la caucasica, la mongolica e la negroide. Pertanto i gruppi nazionali,
religiosi, geografici, linguistici e culturali non possono es- sere chiamati, a
nessun titolo, « razze »j} non sono una razza nè gli Italiani, nè i Tedeschi,
nè gli In- glesi, non lo furono i Latini o i Greci, ecc. Non esiste alcuna
razza «ariana» o «nordica». Nè esiste alcuna prova che la razza o le differenze
razziali influiscano in un modo qualsiasi sulle ma- nifestazioni culturali o
sulle possibilità di sviluppo della cultura in generale. Non vi è prova neppure
che i gruppi, in cui si può distinguere il genere umano, differiscano nella
loro capacità innata di sviluppo intellettuale ed emozionale. Al contrario, gli
studi storici e sociologici tendono a rafforzare la veduta che le differenze
genetiche sono fattori insignificanti nella determinazione delle differenze
sociali e culturali fra gruppi diversi di uomini. Vasti mutamenti sociali si
sono verificati senza essere in nessun modo connessi con mutamenti del tipo
razziale. Nè vi è prova che le mescolanze di razza producano risultati
svantaggiosi da un punto di vista biologico. È molto probabile che non ci siano
e non ci siano mai state, per quanto si può rimontare nel tempo, razze «pure».
I ri- sultati sociali delle mescolanze di razze, sia buoni che cattivi, possono
essere attribuiti a fattori so- ciali. Una dichiarazione sulla razza fu emessa
nel 1951 a Parigi, presso l’UNESCO da una commis- sione composta da cinque
cultori di genetica e sei antropologi appartenenti a sei nazioni diverse. Essa
consiste nell’esposizione dei capisaldi che si sono or ora ricordati (e sui
quali cfr. RUTH BE- NEDICT, Race, Science and Politics, 1940; e RALPH Linton,
The Science of Man in the World Crisis, 7» ed., 1952). Ma in realtà il R.
dovunque si riscontri e comunque lo si giustifichi appartiene al rango di
quella che Veblen chiamava psichiatria applicata; cioè all'arte di sfruttare
per scopi parti- colari un certo pregiudizio esistente. Si tratta in questo
caso di un pregiudizio estremamente perni- cioso perchè contraddice ed ostacola
la tendenza morale dell’umanità verso l’integrazione universa- listica e perchè
fa dei valori umani, a cominciare dalla verità, fatti arbitrari che esprimono
la forza vitale della razza e così non hanno sostanza propria e possono essere
manipolati arbitrariamente per i fini più violenti od abbietti. REALE (lat.
Realis; ingl. Real; franc. Réel; ted. Real). 1. Che si riferisce alla cosa. Ad
es., «definizione R. + è la definizione della cosa e non del nome di essa. 2.
Ciò che esiste di fatto o attualmente: v. cor- rispondentemente ai vari sensi
del termine REALTÀ. 3. Herbart chiamò Reali gli enti effettivamente esistenti
«la cui natura semplice e propria ci è sconosciuta ma sulle cui condizioni
interne ed esterne possiamo acquistare una somma di cono- scenze che può
aumentare all'infinito ». Tali enti sono tra loro irrelativi sicchè ogni loro
rapporto dev'essere considerato come una veduta acciden- tale (2uféllige
Ansicht) che non qualifica e non modifica la loro natura (Einleitung in die
Philo- sophie, 1813, $ 152 sgg.). REALI, SCIENZE. V. SCIENZE, CLASSIFICA- ZIONE
DELLE. REALISMO (lat. Reglismus; ingl. Realism; franc. Réalisme; ted.
Realismus). Il termine co- minciò ad essere adoperato verso la fine del se-
colo xv per indicare l’indirizzo più antico della Scolastica in contrapposto
all’indirizzo detto « mo- derno » dei nominalisti o terministi. Il primo ad
adoperarlo fu probabilmente Silvestro Mazolino di Prieria nel Compendium
dialecticae del 1496 (cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 292). Il R.
affermava la realtà degli universali (generi e specie) intendendo tuttavia in
modi diversi questa realtà stessa (v. UNIVERSALE). Nel senso più generale e
moderno, il termine fu ripreso da Kant nella prima edizione della Critica della
Ragion Pura, per indicare, da un lato, la dottrina, opposta a quella da lui
difesa, che considera lo spazio e il tempo indipendenti dalla nostra
sensibilità, che è il R. trascendentale; e dall'altro, la dottrina, sua
propria, che ammette la realtà esterna delle cose ed è il R. empirico. «
L’idealista trascendentale, diceva Kant, è un rea- lista empirico e riconosce
alla materia, come fe- nomeno, una realtà che non ha bisogno di essere dedotta
ma è immediatamente percepita » (Critica R. Pura, 13 ed., Dialettica
trascendentale. Critica del quarto paralogismo della psicologia trascenden-
tale). Con Kant il termine entrava nell’uso filo- sofico per designare dottrine
di interesse attuale e non semplicemente storico. Fichte affermava che «la
dottrina della scienza è realistica» perchè « mostra che è assolutamente
impossibile spiegare la coscienza delle nature finite se non si ammette
l’esistenza di una forza indipendente da esse, ad essa opposta, e dalla quale
esse dipendano nella loro esistenza empirica » (Wissenschaftslehre, 1794, $ V,
II; trad. ital., pag. 231). Schelling parlava a sua volta di un idealismo
realistico (Real-/dea- lismus) o di un R. idealistico (/deal-Realismus) (Werke,
I, X, pag. 107) nello stesso senso di Fichte. Da allora in poi il R. è stato
qualificato e definito nei modi più diversi; e quasi sempre le dottrine che
l’hanno assunto come insegna hanno anche qualificato come realiste le dottrine
del passato che erano in accordo con il loro punto di vista. Così, ad es.,
Platone è stato classificato realista perchè ammette la realtà delle idee
(qualsiasi cosa ciò possa significare); ma è stato anche definito idealista in
quanto si tratta, per l’appunto, di idee. Simili notazioni (e le dispute che
fanno sor- gere) non sono altro che perdite di tempo. Meno inutile forse è chiarire
il significato delle più note forme che il R. ha assunto nella filosofia
moderna. In tal caso, oltre a quelle già ricordate, si possono richiamare le
seguenti: a) Il R. empirico di Kant ha assunto vari nomi rimanendo
sostanzialmente lo stesso cioè il ricono- scimento dell’esistenza delle cose
indipendente dal- l’atto del conoscere. W. Hamilton chiamò questo punto di
vista R. naturale o presentazionismo e lo ritenne proprio della Scuola scozzese
da cui deri- vava la sua filosofia (v. PRESENTAZIONISMO). L’arti- colo famoso
di G. E. Moore pubblicato nel Mind del 1903, « La confutazione dell’idealismo
», si ispira a un identico punto di vista: difende l'indipendenza dell'oggetto
conosciuto dall’atto psichico con cui viene conosciuto. Questa indipendenza veniva
rico- nosciuta come la tesi del R. ingenuo (ted. Naiven Realismus) da G. Schuppe (Grundriss der
Erkenntnis- theorie und Logik, 1910, pag. 1-2). O. Kiilpe chia- mava lo stesso punto di vista R.
scientifico (Die Realisierung, II, 1920, pag. 148). Mentre J. Ma- ritain che ha
difeso la stessa forma di R. come meglio rispondente alla tradizione tomistica,
l’ba chiamata R. critico (Distinguer pour unir, 1932, pag. 149). Infine lo
stesso tipo di R. è chiamato materialismo dai filosofi sostenitori del materia-
lismo dialettico: così fa, per es., Lenin (Materia- lismo e empiriocriticismo,
1909; trad. ital., pag. 75). Questa stessa forma di R., senza aggettivi o con
aggettivi vari, ricorre frequentemente nella filosofia contemporanea e si può
riconoscere agevolmente nell’esistenzialismo, nello strumentalismo, nell’em-
pirismo logico e in tutte le correnti filosofiche che assumono come loro punto
di partenza il pensiero scientifico. b) Il R. trasfigurato (Transfigured
Realism) di H. Spencer: « Il R. a cui siamo impegnati è quello che asserisce
semplicemente che l’esistenza ogget- tiva è separata e indipendente
dall'esistenza sog- gettiva. Ma esso non afferma che ognuno dei modi
dell’esistenza oggettiva è in realtà quello che sembra nè che le connessioni
fra i modi sono oggettiva- mente quello che sembrano. Perciò questo R. è
nettamente distinto dal R. crudo; e per segnare la distinzione si può
propriamente chiamarlo R. tra- sfigurato » (Principles of Psychology, $ 472).
c) Il nuovo R., difeso in volume collettivo da un gruppo di pensatori americani
(E. B. HOLT, W. T. MARWIN, W. P. MONTAGUE, R. B. PERRY, W. B. PITKIN, E. G.
SPAULDING, The New Realism, 1912). Questa forma di R. è fondata sul principio
che la relazione conoscitiva non modifica gli enti tra i quali intercorre e che
pertanto il fatto che gli enti conosciuti ci appaiono solo in relazione con noi
non implica che il loro essere si esaurisca in questa relazione. Enti oggettivi
sono, secondo il nuovo R., anche i concetti astratti di cui si avvale la
scienza e l’errore stesso è un fatto oggettivo dovuto a una distorsione
fisiologica. Un punto di vista analogo a questo e come questo ispirato dalle
correnti della fenomenologia e del logicismo è stato difeso da Nicolai Hartmann
in una serie di opere a partire dai Grundziige einer Metaphysik der Erkenntnis
(1921). Sono costitutive del R. di Hart- mann le due tesi seguenti: 1° il
rapporto conoscitivo è estrinseco all'essere, che non risulta modificato o
qualificato da esso; 2° l’essere è costituito non solo da cose ma anche da
oggetti ideali o astratti o da valori. d) Il R. critico difeso in un volume
collettivo da un gruppo di pensatori americani (D. DRAKE, A. O. Lovejoy, J. B.
PRATT, A. K. RogERs, G. SAN- TAYANA, R. W. SeLLARS, C. A. STRONG, Essays in
Critical Realism, 1920) che difendeva fondamen- talmente il punto di vista
sostenuto da Santayana secondo il quale l’oggetto immediato della cono- scenza
è un'essenza (v.), mentre l’esistenza non è mai afferrata immediatamente o
intuita ma sem- plicemente affermata o posta o riconosciuta per esigenze
emozionali e pratiche che Santayana chia- mava con il nome di fede animale
(Scepticism and Animal Faith, 1923). REALTÀ (ingl. Reality; franc. Réalité;
tedesco Realitàt, Wirklichkeit). 1. Nel suo significato proprio e specifico il
termine designa il modo d’essere delle cose in quanto esistano fuori dalla
mente umana © indipendentemente da essa. La parola realitas fu coniata nella
tarda Scolastica e precisamente da Duns Scoto. Questi l’adoperò per definire
l’in- dividualità: che consisterebbe nell’ ultima R. del- l’ente» la quale
determina e contrae la natura comune ad esse hanc rem, alla cosa singola (Op.
Ox., II, d. 3, q. 5, n. 1). Questa realitas fu chiamata da Duns stesso o dagli
scolari di Duns di preferenza haecceitas. Il termine doveva poi passare a
signi- ficare l’esse in re della scolastica nel senso, per es., in cui S.
Anselmo intendeva passare, con la prova ontologica, dall’esse in intellectu
dell’ Ente di cui non si può pensare niente di maggiore» al suo esse in re (Prosl.
2); oppure nel senso in cui gli Scolastici parlavano dell’universale in re cioè
in- corporato nelle cose. L’opposto di R. è perciò idealità che indica il modo
d’essere di ciò che è nella mente e non è o non può essere o non è ancora
incorporato o attuato nelle cose. Il riferi- mento alle cose è evidente anche
in espressioni come « definizione reale » per indicare la definizione della
cosa e non del nome; e «diritti reali» per indicare diritti che concernono le
cose e non le persone. Il problema cui direttamente ha dato luogo la nozione di
R. è quello dell’esistenza delle cose o del « mondo esterno ». Questo problema
è nato con Cartesio cioè col principio cartesiano che og- getto della
conoscenza umana è soltanto l’idea. Da questo punto di vista, diventa immediatamente
dubbia l’esistenza di quella R. cui l’idea sembra accennare ma di cui non è
prova come non è prova un dipinto della R. della cosa rappresentata. Per
giustificare la R. delle cose Cartesio aveva fatto ricorso alla veridicità di
Dio: nella sua perfezione Dio non può ingannarci e non può permettere che ci
siano in noi idee che non rappresentino nulla (Med., IV). Ma all’esistenza di
Dio, Cartesio era pervenuto, oltrecchè attraverso la rielaborazione della prova
ontologica, anche ammettendo il prin- cipio che «ci dev'essere nella causa
efficiente © totale almeno tanta R. quanta ce n’è nell’effetto »: un principio
in base al quale l’idea di Dio, che è l’idea della perfezione massima, deve
avere come causa un essere che ha tanta « R.» quanta è quella che l’idea
rappresenta: cioè Dio stesso (/bid., IM). Lo sviluppo ulteriore del problema
portò alla ne- gazione della realtà. L'empirismo inglese con Ber- keley e Hume
riconduceva la R. delle cose al loro essere percepito e perciò la negava come
un modo d’essere autonomo. Dall'altro lato, il razionalismo risolveva, con
Leibniz, le cose in elementi o atomi (monadi) di natura spirituale e con ciò
negava ugualmente il carattere specifico della loro R. (vedi IMMATERIALISMO).
La R. delle cose veniva in qualche modo riaf- fermata da Kant. Kant conserva al
termine R. (Realitàt) il suo significato specifico di R. delle cose o, come
egli anche dice, cosalità (Sachheit) (Crit. R. Pura, Analitica, II, cap. I): al
quale con- trappone la «idealità» dello spazio e del tempo che sono forme
dell’intuizione e non delle cose (Ibid., $ 3). Ma il problema concerne per lui
l’esi- stenza (Dasein) delle cose stesse. Questo è il pro- blema che egli
esamina nella « Confutazione del- l’idealismo ». La soluzione qui prospettata è
che «la coscienza della mia propria esistenza è insieme coscienza immediata
dell'esistenza di altre cose fuori di me». La prova di questa asserzione è che
la coscienza del tempo, cioè del mutamento, non sarebbe possibile senza la
coscienza di qualcosa di permanente; e questo qualcosa di permanente, non
potendo esser dato dalla stessa coscienza del tempo, può esser dato soltanto
dalla cosa esterna alla coscienza. Valida o no che fosse questa dimo-
strazione, è chiaro che Kant da un lato riteneva valido il primato della
coscienza stabilito da Car- tesio, per il quale appunto la R. delle cose
diventa un problema ed esige una dimostrazione; dall’altro, tendeva a
distruggere questa impostazione, con- nettendo la coscienza della propria
esistenza con la coscienza delle cose (v. Coscienza). Egli tuttavia non si
proponeva neppure il problema del modo d’essere specifico delle cose cioè del
tipo d’esistenza che ad esse è proprio. Eppure questo problema è strettamente
connesso con quello dell’« esistenza » delle cose e solo una qualche risposta
ad esso può dare significato alla soluzione positiva di questo ultimo; giacchè,
se le cose esistono nasce subito la domanda: qual’è il senso della loro
esistenza? Il problema della R. si deve pertanto ritenere composto di questi
due problemi, non separabili l'uno dall’altro: quello dell’esistenza e quello
del modo d’essere specifico delle cose. L’idealismo post-kantiano si soffermò
più sul secondo che sul primo di questi due problemi. Secondo Fichte, la R.
consiste in generale nell'attività dell’Io che « pone l’oggetto limitandosi» e
trasporta nell’og- getto una parte della sua attività. « Fonte di ogni R.
(Realitàt) è l’Io, dice Fichte. Solo per e con l’Io è dato il concetto della
realtà. Ma l’Io è perchè si pone e si pone perchè è. Perciò porsi ed essere
sono una sola e medesima cosa. Ma il concetto del porsi e quello dell’attività
in generale sono, a loro volta, una sola e medesima cosa. Dunque, ogni R. è
attiva ed ogni cosa attiva è R. » (Wissen- schaftslehre, $ 4, C). Questa idea
della R. come attività entrò a costituire il bagaglio del Romanti- cismo e
influenzò il corso ulteriore del problema, « L’attività è la vera e propria R.
+, diceva Novalis (Fragmente, 190). Schopenhauer affermava decisa- mente «che
l’essenza degli oggetti intuibili è la loro azione; che proprio nell’azione
consiste la R. dell’oggetto e la pretesa di un’esistenza dell’oggetto fuori
della rappresentazione del soggetto e anche di un’essenza della cosa reale
diversa dalla sua azione, non ha senso alcuno, anzi è una contraddi- zione »
(Die Welt, I, $ 5). Come si vede, la riduzione della R. ad attività ha, in
origine, un senso ideali- stico. Essa è tuttavia servita ad avviare una nuova
alternativa nella soluzione del problema: quella che vede nella R. stessa non
un semplice oggetto di conoscenza, ma un modo d'essere che si rivela meglio ad
altre forme di esperienza. La nozione di attività che era rimasta cara al
Romanticismo fornisce il primo modello di questa soluzione. Dall’altro lato il
sensismo di Condillac aveva mostrato la derivazione dell'idea di R. dal senso
del tatto; ma il senso era stato in generale inteso da Condillac in modo attivo
e dinamico come guidato e sorretto dal bisogno e dai desideri (Trairé des
sensations, 1754, I, 3, 1; I, 7, 3; II, 5, 5). Più tardi Destut de Tracy aveva
messo in relazione l’idea di R. con l’esperienza della resistenza che le cose
oppongono al movimento (/déologie, 1801, cap. 8). Nella filosofia contemporanea
un’idea analoga è stata ripresa da Dilthey (Contributo alla soluzione del problema
dell'origine della nostra cre- denza nella realtà del mondo esterno, in
Gesammelte Schriften, 1890, V, 1, pag. 90 sgg.). La resistenza definirebbe il
modo d'essere della R., cioè delle cose; e l’esperienza di questa R. sarebbe,
corri. spondentemente, volitiva e pratica, più che cono- scitiva. Scheler ha
accettato questa interpretazione della R. (Die Wissensformen und die
Gesellschaft, pag. 455 sgg.). Una tesi sostanzialmente analoga fu presentata da
Santayana nel libro Scerricismo e fede animale (1923) nel quale egli mostrava
come la credenza nella R. è dovuta a esperienze puramente animali (la fame, la
lotta, ecc.) ed è giustificabile solo sulla base di tali esperienze. Lo stesso
San- tayana aveva presentato questa stessa nozione della R. nei Essays in
Critical Realism (1920), pubblicati da sette filosofi americani (v. REALISMO).
Nella filosofia più recente il problema della R. ha cessato quasi del tutto di
essere il problema del- l’« esistenza » delle cose per diventare, sempre più
esclusivamente, il problema del modo d’essere specifico delle cose stesse. Le
elaborazioni di questo problema seguono l’alternativa aperta dalle dottrine che
riconoscono il carattere non semplice- mente conoscitivo dell’esperienza della
realtà. Hei- degger ha esplicitamente negato il primato della coscienza dal
quale nasceva il problema dell’esi- stenza delle cose. «Il credere nella R. del
‘mondo esterno” con diritto o meno, il dimostrare questa R., sufficientemente o
no, il presupporla, esplici- tamente o no, sono tutti tentativi che presuppon-
gono innanzi tutto il soggetto senza mondo, cioè non consapevole del proprio
mondo, il quale deve perciò incominciare col fondare la sicurezza del suo mondo
» (Sein und Zeit, $ 43, a). Il problema dell’esistenza del mondo esterno o
delle cose si eli- mina quindi da sè quando si sia eliminato il pre- supposto
fallace del « soggetto senza mondo » cioè il presupposto che l’uomo non sia già
sempre, e prima di tutto, un essere nel mondo. Ripristi- nato questo che è il
carattere fondamentale del modo d’essere dell’uomo, che perciò appunto è un «
Esserci » (indicando il ci la sua relazione con il mondo), il problema della R.
diventa il problema del modo in cui le cose del mondo si presentano all'uomo o
sono in rapporto con lui. Secondo Heidegger, questo modo d’essere è la «
semplice presenza +; giacchè l’esistenza è il modo d’essere riservato
all’esserci cioè all'uomo. «Se l’espres- sione R. significa l’essere dell’ente
(res) sempli- cemente presente dentro il mondo (e nient’altro viene infatti con
essa pensato) ne consegue allora per l’analisi di questo modo di essere: l’ente
intra- mondano è concepibile ontologicamente solo se è stato chiarito il
fenomeno della intramondanità. Ma questo si fonda nel fenomeno del mondo, il
quale, da parte sua, in quanto essenziale momento della struttura
dell’essere-nel-mondo, appartiene alla costituzione fondamentale dell’Esserci.
L’es- sere-nel-mondo, di nuovo, è ontologicamente arti- colato nella totalità
dell’essere dell’Esserci, che venne caratterizzata come Cura» (/bid., $ 43, b).
Proprio perchè l’essere dell’Esserci cioè l’esistenza umana è Cura, gli enti
diversi da sè di cui questa esistenza si prende cura cioè le cose (il cui modo
d’essere è la R.) sono caratterizzati dall’utilizza- bilità. «Il modo d’essere
di questo ente è l’uti- lizzabilità; questa non deve però essere vista come una
visuale considerativa... L’utilizzabilità è deter- minazione
ontologico-categoriale dell’ente così come esso è in sè » (/bid., $ 15). In tal
modo Heidegger ha messo in luce il carattere strumentale delle cose: quel
carattere per cui esse possono valere come mezzi per l’uomo. Ma Heidegger
ritiene che questo carattere non appartenga alle cose relativamente al loro
rapporto con l’uomo ma costituisca il loro essere «in sè», la loro essenza. A
prescindere da questa pretesa, l’analisi di Heidegger può essere assunta come
una caratterizzazione del modo d’essere delle cose o della « R.+, intesa nel
suo significato proprio e specifico. Dall’altro lato, questa stessa analisi ha mostrato
il carattere arbi- trario del «problema della R.» qual’era inteso da Cartesio
in poi come problema di una R. «esterna » alla coscienza. Essa ha infatti
mostrato come tale problema sorga dal presupposto di una tesi filosofica
infondata cioè dalla tesi di un « sog- getto senza mondo » o in altre parole di
una esi- stenza dell'uomo che non consista nel rapporto con il mondo. È
significativo notare che quasi contempora- neamente a queste analisi di
Heidegger lo stesso problema della R. esterna veniva dichiarato uno «pseudo
problema» da un punto di vista total- mente diverso, cioè da quello del Circolo
di Vienna. Carnap (Scheinsprobleme in der Philosophie; das Fremdpsychische und
der Realismus-streit, 1928) e Schlick (Positivismus und Realismus, rist. in Gesam-
melte Aufsdtze, 1938) rigettavano sia la tesi della irrealtà del mondo esterno
sia quella della sua R. come pseudo-asserzioni, in quanto nè l’una nè l’altra
si prestano ad una verifica sperimentale. Ma il Circolo di Vienna non
presentava alcuna nuova soluzione del secondo aspetto, assai più legittimo, del
problema della R.: cioè del pro- blema del modo d'essere delle cose. Su questo
punto esso si limitava, e i suoi continuatori tut- tora si limitano, a
riproporre la vecchia tesi di Mach (Analyse der Empfindungen, 1900) che le cose
sono composte di quegli stessi elementi ultimi, le sensazioni, che compongono
l’io e che questi elementi ultimi sono in sè neutrali, cioè nè oggettivi nè
soggettivi. Questa tesi ovviamente non dà conto del carattere specifico della
R. delle cose: non dà conto cioè del perchè un insieme di tali elementi neutri
assuma a volta a volta le caratteristiche di una «cosa» o di un «io». Oltre al
significato fin qui seguito nelle sue varie interpretazioni, la parola R. è
usata comunemente anche negli altri significati seguenti, che devono tuttavia
essere ritenuti secondari perchè designati più opportunamente con altri termini
del dizio- nario filosofico. 2. In contrasto con apparenza, illusione e simili,
R. significa talora l’essere in uno qualsiasi dei suoi significati
esistenziali. Così nell’opera di BRADLEY, Appearance and Reality (1893) il
contrasto annun- ciato nel titolo è il contrasto tra l’apparire e l’es- sere
giacchè esso non viene limitato alla R. nel suo senso specifico cioè al modo
d’essere delle cose. Nello stesso senso ma con accentuazione critica ha inteso
il termine Dewey: « Nella sua più breve formula la R. diventa l’esistenza quale
noi desideriamo che sia, dopo che abbiamo analiz- zato i suoi difetti e deciso
quelli da eliminare; la ‘R.’ è ciò che l’esistenza sarebbe se le nostre
preferenze razionalmente giustificate fossero così completamente stabilite
nella natura da esaurire e definire il suo essere intero, e perciò da rendere
la ricerca e la lotta non necessarie. Ciò che vien tagliato fuori (dal momento
che il turbamento, la lotta il conflitto e l’errore ancora esistono empi-
ricamente, qualcosa è tagliata fuori) essendo escluso per definizione dalla
piena R., è assegnato a un grado o ordine dell’essere che si afferma metafisi-
camente inferiore: un ordine variamente chiamato: apparenza, illusione, spirito
mortale o puramente empirico, in contrapposto a ciò che realmente e veramente è
» (Experience and Nature, cap. II, pag. 54). 3. In contrasto con possibilità,
potenzialità e talora anche con necessità, la parola significa attua- lità o
effettualità o ciò che si è attuato od effet- tuato e possiede l’esistenza di
fatto. Il termine tedesco Wirklichkeit, in distinzione da Realitàt, ha questo
senso specifico, per quanto non sempre i filosofi si attengono strettamente a
questa distin- zione. In questo senso la parola designa una delle categorie
della logica di Hegel: « La R. è l’unità immediata, che si è prodotta,
dell’essenza e del- l’esistenza o dell'interno e dell’esterno» (Enc., $ 142):
con che Hegel intende dire che la R. è l’essenza che si è attuata come
esistenza o l’interno che si è manifestato effettivamente nell’esterno. Sulla
distinzione di Wirklichkeit da Realitat insistette Lotze (Mikrokosmos, III,
pag. 535). N. Hartman ha a sua volta utilizzato la distinzione, scorgendo nella
effettualità (Wirklichkeit) il senso primario dell’essere (Mòoglichkeit und
Wirklichkeit, 1938) (v. ESSERE). REALTÀ PRESUNTIVA (ted. Prasumptive
Wirklichkeit). Così ha chiamato Husserl la R. delle cose nei confronti della «
R. assoluta » cioè neces- saria, della coscienza (/deen, I, $ 46). REAZIONE
(ingl. Reaction; franc. Réaction; ted. Reaktion). 1. Un’azione uguale e di
senso con- trario ad un’azione determinata. In questo senso il termine è usato
nella fisica newtoniana. 2. In psicologia: qualsiasi risposta ad uno sti- molo.
Tempo di reazione: l'intervallo di tempo tra lo stimolo e la risposta. 3. In
politica: il movimento che tende ad annul- lare o neutralizzare gli effetti di
una rivoluzione o di un mutamento qualsiasi; o anche a rendere preventivamente
impossibile ogni mutamento. RECETTIVITÀ (ingl. Receptivity; francese
Reéceptivité; ted. Receprivitàt). La capacità di su- bire un'azione o di
registrare l’effetto dell’azione subita. Kant chiamò R. la capacità di rice-
vere le impressioni e la contrappose al carattere attivo della conoscenza che è
fondato sulla « spon- taneità dei concetti» (Crit. R. Pura, Logica tra-
scendentale, Intr., I). RECETTORE (ingl. Receptor). Termine della psicologia
contemporanea per indicare qualsiasi organo o struttura con cui l’organismo
riceva gli stimoli. Sono R. tanto gli organi di senso (per es., l’occhio,
l’orecchio, ecc.) quanto le strutture ner- vose che ricevono stimoli dalla
pelle, dai muscoli, dalle articolazioni, ecc. I primi sono chiamati
esterocettori, i secondi propriocettori. Talvolta si parla anche di
enterocertori per indicare i R. situati nei visceri. RECIPROCAZIONE (lat.
Reciprocatio; inglese Reciprocation). Nella logica del ’600, un modo di confutazione
che consiste nell’usare contro l’av- versario lo stesso argomento di cui
l’avversario si è avvalso: col che l’argomento stesso si dimostra vizioso (cfr.
JunGIUs, Logica Hamburgensis, 1638, VI, 16, 20). RECIPROCITÀ D'AZIONE (ingl.
Recipro- city; franc. Reciprocité; ted. Wechselwirkung). È il principio della
connessione universale delle cose nel REALTÀ PRESUNTIVA mondo, principio per il
quale esse costituiscono una comunità, un tutto organizzato. L'azione reci-
proca non ha perciò nulla a che fare col principio di azione e reazione
enunciato da Newton. Kant fa dell’azione reciproca un principio puro dell’in-
telletto e vede in esso la terza analogia dell'espe- rienza (v.), la quale si
esprime dicendo « Tutte le sostanze, in quanto possono essere percepite nello
spazio come simultanee, sono tra loro in un’azione reciproca universale ». Come
la succes- sione temporale trova il suo fondamento nella connessione causale,
così la simultaneità temporale trova il suo fondamento nella R. d’azione tra le
sostanze. Kant dice: «Senza comunità ogni per- cezione (dei fenomeni nello
spazio), sarebbe stac- cata dalle altre, e la catena delle rappresentazioni
empiriche, cioè l’esperienza, dovrebbe ricominciare daccapo ad ogni nuovo
oggetto, senza che la pre- cedente potesse minimamente collegarsi o trovarsi
con esso in rapporto temporale» (Crif. R. Pura, Analitica dei princìpi, III,
3). Il senso della con- nessione reciproca è poi così chiarito da Kant (loc.
cit.): «La parola Gemeinschaft [= comunità] ha un doppio significato, cioè può
significare tanto communio, quanto commercium. Qui ce ne serviamo nel secondo
senso, come comunità dinamica, senza la quale, anche quella spaziale (communio
spatii) non potrebbe mai essere conosciuta empiricamente ». Non c’è da
meravigliarsi che la filosofia della natura del Romanticismo abbia fatto tesoro
di questa nozione, di carattere così nettamente metafisico e spiritua- stico.
Schelling afferma (System des transzendentalen Idealismus, pag. 228) che « La
relazione di causalità non è costruibile senza l’azione reciproca +; e Hegel
(Enc., $ 154 sgg.) vede nel passaggio dalla causalità all’azione reciproca il
passaggio dalla necessità allo svelamento della necessità, cioè alla libertà.
Ciò che questo significa è espresso con tutta chia- rezza da Lotze nel suo
Microcosmo (III°, pag. 482): « L’azione reciproca delle sostanze finite nel
mondo si può intendere soltanto se esse sono parti di una Sostanza infinita che
le abbraccia tutte in se stessa ». Questa nozione ricorre frequentemente nelle conce-
zioni spiritualistiche del mondo, e non è che la trascrizione, in termini più
moderni, di quella sim- patia universale (v. Simpatia) che le concezioni
magiche (v. MAGIA) ammettevano tra le cose del mondo. Non fa meraviglia
pertanto che Schope- nhauer affermasse che «l’azione reciproca non esiste »;
giacchè « essa presupporrebbe che l’effetto sia a sua volta la causa della sua
causa e che ciò che segue sia nello stesso tempo ciò che precede » (Uber die
vierfache Wurzel des Satzes vom zurei- chenden Grunde, 1813, $ 20). RECIPROCO
(ingl. Reciprocal; Converse; franc. Réciproque; ted. Reziprok). In logica si
chiama reciproca la proposizione ottenuta me- diante la conversione della
proposizione data, cioè mediante lo scambio del soggetto con il predi- cato. Il
termine latino tradizionale per tale pro- posizione è conversa, che fu
adoperato da Boezio (De syllogismo categorico, P. L., 64, col. 804; cfr.
HAMILTON, Lectures on Logic, II, pag. 259). Per «inversa» si intende invece
comunemente la negativa di una proposizione (v. CONVERSIONE). REDUPLICAZIONE
(gr. iravadiràwa; la- tino Reduplicatio; ingl. Reduplication; franc. Rédu-
plication). Con questo termine che significa predica- zione ripetuta, venivano
indicate in logica alcune parole usate per connettere il predicato al sog-
getto quali come, in quanto, nella qualità di, ecc. Ad es.: «l’uomo come
animale è mortale». Le proposizioni in cui ricorre la R. si chiamano redu-
plicative (ARISTOTELE, An. Pr., I, 38, 49 a 26; Duns Scoro, In An. Pr., I, 35,
in Opere, I, pag. 327 a; Jungius, Logica Hamburgensis, II, 11, 22). REFERENTE.
V. RIFERIMENTO. REGIME (lat. Regimen). In generale, guida o direzione; o in
particolare la guida e la direzione dello Stato, il governo. REGIONE (ted.
Region). 1. Termine adoperato da Husserl per indicare «la superiore e completa
unità di genere alla quale appartiene un concreto » cioè «la totalità ideale di
tutti gli individui pos- sibili di un'essenza concreta » (/deen, I, $ 16). Ad
es., «ogni oggetto empirico concreto si inserisce, con la sua essenza
materiale, in un genere mate- riale superiore, cioè in una R. di oggetti empi-
rici » (/bid., $ 9). Una regione in questo senso è la natura (/bid., $ 10).
Corrispondentemente, Husserl] parla di «ontologia regionale » cioè ontologia
che concerne le strutture di una determinata regione. 2. In senso diverso, e
connesso con la corri- spondente nozione topologica (v. ToPoLoGia), il concetto
è stato adoperato dalla psicologia della forma. K. Lewin intende per R.: 1°
ogni cosa in cui un oggetto dello spazio di vita, per es., una persona, ha il
suo posto o in cui si muove; 2° ogni cosa in cui si possono distinguere diverse
posizioni o parti allo stesso tempo o che è parte di un tutto più vasto. In
base a questa definizione la persona stessa è una R. nello spazio di vita e
anche lo spazio di vita, come un tutto, è una R. (Principles of Topo- logical
Psychology, 1936, pag. 93). REGNO (lat. Regnum; ingl. Realm; francese Royaume;
ted. Reich). Termine introdotto in filo- sofia da Bacone per indicare il dominio
dell’uomo sulla natura (cfr. il titolo della prima parte del Novum Organum: «
Aforismi sull’interpretazione della na- tura e sul R. dell’uomo »). Leibniz
adoperò il ter- mine in un senso diverso, come dominio o campo di validità di
un principio; e parlò di un «R. 47 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofiafisico
della natura » e di un « R. morale della grazia » (Mon., $ 87). Nello stesso
senso Kant, parlò di un R. dei fini (v. Fin), di un R. della libertà (cfr. Re-
ligion, II, sez. ID; di un R. della grazia e di un R. della natura (Crif. R.
Pura, Dottrina trasc. del metodo, cap. II, sez. II). Più recentemente G. Santayana ha
adoperato il termine in signi- ficato analogo (Rea/ms of Being, 4 voll.: The
Realm of Essence, The Realm of Matter, The Realm of Truth, The Realm of Spirit,
1927-40). REGOLA (lat. Regula; ingl. Rule; franc.
Régle; ted. Regel). Si chiama R. qualsiasi proposizione pre- scrittiva. Il
termine è generalissimo e comprende le nozioni più ristrette di norma, massima
e legge. In questo senso definì la regola Wolff come «una pro- posizione che
enunci una determinazione conforme a ragione» (Onrol., $ 475). E Kant
analogamente affermava: « La rappresentazione di una condizione generale cui un
certo molteplice può essere sotto- posto si dice R.; e, quando deve esservi
sotto- posto, legge » (Crit. R. Pura, 1% ed., Deduzione dei concetti puri
dell’intelletto, 4). Questo signifi- cato generalissimo è rimasto a
caratterizzare la R. (v. Legge; Massima; NORMA). REGOLARITÀ (ingl. Regularity;
franc. Régu- ralité; ted. Regelmàssigkeit). In generale, confor- mità alla
regola. Kant vide nella R. la condizione nello stesso tempo del pensiero e
della realtà: « La R. che conduce al concetto di un oggetto è la con- dizione
indispensabile (conditio sine qua non) per percepire l’oggetto in un’unica
rappresentazione e determinare il molteplice nella sua forma» (Crit. del Giud.,
$ 22, nota). Kant considera la stessa na- tura in generale come «R. dei
fenomeni nello spazio e nel tempo » (Crif. R. Pura, $ 26) (v. Na- REGOLATIVO
(ingl. Regulative; franc. Régu- latif; ted. Regulativ). Kant chiamò R. l’uso
delle idee della ragion pura che le fa valere come semplici regole del lavoro
intellettuale, in contrapposto all’uso costi- tutivo di esse per il quale sono
considerate come co- stitutive dell’oggetto stesso dell’attività intellettuale.
«Io affermo che le idee trascendentali non sono mai d’uso costitutivo sicchè
per mezzo di esse possono essere dati i concetti di certi oggetti e che se sono
intese a questo modo sono semplicemente concetti sofistici (dialettici). Esse
hanno invece un uso R. eccellente e indispensabile: quello di indirizzare l’in-
telletto a un certo scopo in vista del quale le linee direttive di tutte le sue
regole convergono come in un punto: il quale sebbene non sia altro che un'idea
(focus imaginarius) cioè un punto da cui in realtà i concetti dell’intelletto
non muovono perchè esso è fuori dei limiti dell'esperienza possibile, serve
nondimeno a conferire a tali concetti la mag- giore unità con la maggiore
estensione possibile » (Crit. R. Pura, Appendice alla dialettica, Dell’uso
regolativo, ecc.) (v. IDEE). REGRESSIONE (ingl. Regression; franc. Ré-
gresslon; ted. Regression). In generale movimento inverso o ritorno. Spesso con
significato peggio- rativo di regresso cioè di un movimento opposto al
progresso. Talvolta è stato chiamato regressivo il metodo analitico e
progressivo quello sintetico (cfr. HamiLtoN, Lectures on Logic, II, pag. 7) (v.
ANALISI). REGULA FIDEI. 1. Con questa espressione si designa in teologia la
regola che determina l’oggetto della fede cioè il contenuto autentico della
rivela- zione. Nella filosofia patristica e scolastica, fu assunto come tale
regola il « Simbolo degli apostoli » (Symbolum Apostolorum) che comprendeva,
oltre che il contenuto della Bibbia, anche l’insieme della tradizione
ecclesiastica (decisioni conciliari e pa- pali, le opinioni degli scrittori
approvati dalla Chiesa, ecc.) (cfr. M. GRABMANN, Die Geschichte der scholastischen Methode, I, pag. 76
sgg.). Questa regola è rimasta valida per il
cristianesimo catto- lico mentre dal cristianesimo protestante è stata
ristretta al contenuto della Bibbia. La differenza tra cattolicesimo e
protestantesimo s’impernia ap- punto sulla differenza della regula fidei (v.
RIFORMA). 2. Con la stessa espressione si designa talora il principio che fa
della fede la regola della verità. Così questo principio viene espresso da S.
Tom- maso: « Poichè la fede si fonda sulla verità infalli- bile e poichè è
impossibile dimostrare il contrario del vero, è evidente che gli argomenti che
si ad- ducono contro la fede non sono dimostrazioni ma argomenti confutabili »
(S. Th., I, q. 1, a. 8). REIFICAZIONE (franc. Réification; ted. Ver-
dinglichung). Termine adoperato da scrittori marxisti per designare il fenomeno,
sul quale Marx stesso aveva insistito per il quale, nell’economia capita-
listica, il lavoro umano diventa semplicemente l’attributo di una cosa:
«L’arcano della forma della merce consiste semplicemente nel fatto che tale
forma rimanda agli uomini, come uno specchio, i caratteri sociali del loro
proprio lavoro trasfor- mati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel
lavoro, in proprietà sociali naturali delle cose pro- dotte e quindi rispecchia
anche il rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo come un rap-
porto sociale di cose, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi.
Mediante questo qui pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose
sensibil- mente sopra sensibili, cioè cose sociali » (Kapiral, I, I, $ 4). Il
termine R. per indicare questo processo è stato usato e diffuso da G. Lukacs
(cfr. Geschichte und Klassenbewusstsein, 1922; traduzione francese, 1960, pag.
110 sgg.). RELATIVISMO (ingl. Relativism; franc. Relati- visme; ted.
Relativismus). La dottrina che afferma la relatività della conoscenza, nel
senso che fu dato a questa espressione nel sec. xIx e cioè: 1° come azione
condizionante del soggetto sui suoi oggetti di conoscenza; 2° come azione
condizionante reci- proca degli oggetti di conoscenza. Questo duplice condizionamento
d’ogni oggetto di conoscenza fu per la prima volta assunto come fondamento del
R. da W. Hamilton: che insisteva da un lato sul fatto che tutti gli oggetti
esistenti pos- sono essere conosciuti solo in rapporto con le facoltà umane e
sotto condizioni determinate da queste facoltà stesse (Lectures on Metaphysics,
I, 1870, 5* ed., pag. 148); dall'altro sulla condizio- nalità che gli oggetti
di conoscenza esercitano l’uno sull’altro (Discussion on Philosophy, 1852, pag.
13). Sul fondamento di questi due punti (che non avevano niente di originale,
perchè possono essere agevol- mente riconosciuti come le tesi più generiche
del- l’empirismo e del criticismo) Hamilton affermava, nello stesso tempo,
l’inconoscibilità dell’Assoluto e l’esistenza di esso, giacchè si può credere
anche in ciò che non si conosce (Lectures, cit., II, pag. 530- 531). Queste
tesi venivano utilizzate per un’apolo- getica religiosa da E. L. Mansel
(Philosophy of the Conditioned, 1866). Ma a diffonderle fu soprattutto il
positivismo che, con Spencer, accettava il punto di vista di Hamilton
ammettendo la relatività della conoscenza umana, l’inconoscibilità
dell’Assoluto, e l’esistenza di esso (First Principles, 1862, $ 23 sgg.). AI di
fuori del positivismo, il R. è stato accet- tato da alcune correnti del
neo-criticismo e del prag- matismo. Nell’ambito del primo C. Renouvier nei
Essais de Critique Générale (1854-64) insisteva sulla relatività del fenomeno,
che non sussiste se non in rapporto ad altri fenomeni e in rapporto al sog-
getto conoscente (Essais, I, pag. 50 sgg.); e G. Simmel affermava che « il R.
si può formulare così, in rife- rimento ai princìpi della conoscenza: i
principi costi- tutivi fondamentali, esprimenti una volta per tutte l’essenza
delle cose, diventano princìpi regolativi, i quali sono soltanto punti di vista
per il progre- dire del conoscere » (Philosophie des Geldes, 1900, pag. 68).
Nell’ambito del pragmatismo, il R. veniva difeso da F. C. S. Schiller; e
diventava, da questo punto di vista, la negazione di ogni verità « asso- luta »
o «razionale» e il riconoscimento che la verità è sempre relativa all'uomo cioè
valida perchè utile a lui: onde Schiller vedeva nel detto di Pro- tagora
«l’uomo è misura di tutte le cose» la più grande scoperta della filosofia
(Studies in Humanism, 1902, pag. x sgg.). L’antica sofistica, lo scetticismo e
(parzialmente) l’empirismo e il criticismo diven- tavano da questo punto di
vista manifestazioni di un R. che andava in cerca dei suoi precedenti e tentava
di crearsi una tradizione. Ma in realtà il R. è stato fenomeno moderno, legato
alla cul- tura del sec. xrx, ed ha costituito una specie di capovolgimento
della filosofia dogmatica di questo secolo, capovolgimento che ha gli stessi
presup- posti di essa. Ciò si vede assai bene nella mani- festazione estrema
(la sola autentica) del R., cioè nella dottrina esposta da O. Spengler nel suo
libro Il tramonto dell'Occidente (1918-22): nel quale si af- ferma la
relatività non solo della conoscenza ma di tutti i valori fondamentali della
vita umana alle epoche della storia, considerate come entità orga- niche ognuna
delle quali cresce, si sviluppa e muore senza rapporto con l’altra. Da questo
punto di vista, la relatività investe non solo la verità reli- giosa e
filosofica ma anche quella morale e scien- tifica «Ogni cultura, diceva
Spengler, ha il suo proprio criterio, la cui validità comincia e finisce con
esso. Non vi è alcuna morale umana univer- sale » (Der Untergeane des
Abendlandes, I, cap. I, pag. 55). In questa forma, che è la sola rigorosamente
coerente, il R. afferma la relatività dei valori solo perchè considera
necessario il rapporto tra i valori stessi e l’epoca storica cui appartengono
negando la possibilità che essi possano relativizzarsi ad altri uomini, epoche
e circostanze, riuscendo così ad ottenere una autonomia parziale che
smentirebbe il relativismo. Lo stesso punto di vista si trova spesso difeso in
quello che oggi si chiama il R. culturale, il cui punto di partenza è il
riconosci- mento della diversità dei costumi e delle norme che vigono
nell’ambito di culture diverse. Questo R. ha radici remote (Erodoto, Protagora,
e i Di- scorsi doppi, un testo di ispirazione sofistica, forse della prima metà
del sec. Iv a. C.); ma è ora ap- poggiato dal riconoscimento, pressochè
universale, della pluralità e della eterogeneità delle culture. Ha difeso
questo R. nella sua forma estrema Herskovits (Cultural Anthropology, 1955); su
di esso vedi il volume collettivo Relativism and the Study of Man, a cura di
ScHOECK e WicciNS, 1961). RELATIVITÀ, TEORIA DELLA (inglese Theory of
Relativity; franc. Théorie de la relativité; ted. Relativitàtstheorie). Con
questo termine s’in- tendono due corpi di dottrina formulati da Ein- stein di
cui il primo nel 1905 col nome di R. spe- ciale e il secondo nel 1913 con il
nome di R. generale. La relatività speciale s’impernia sul rico- noscimento che
la scelta di un sistema di riferi- mento, indispensabile per effettuare misure,
può influenzare i risultati di queste misure; e che non essendoci un sistema di
riferimento privilegiato (o «assoluto 1), come aveva creduto la fisica clas-
sica, è indispensabile da un lato specificare il sistema rispetto al quale la
misura viene eseguita, dall’altro trovare formule di trasformazione che rendano
valide tali misure anche per altri sistemi. La R. generale è sostanzialmente
l’estensione del principio di R. a tutti i sistemi, oltre che a quelli
inerziali per i quali vale la R. speciale; ed è perciò, sostanzialmente una
teoria della gravitazione che riduce la gravitazione stessa a una deformazione
del continuo quadri- mensionale dello spazio-tempo (cfr. A. EINSTEIN, L.
INFELD, The Evolution of Physics, 1938; tradu- zione italiana, 1950; e, per la
bibliografia, il volume dedicato a Einstein nella collezione « Living
Philosophers » di Schilpp, 1949). La teoria della R. ha avuto numerose
interpre- tazioni filosofiche. Una di esse è quella relativi- stica, che l’ha
intesa come una conferma del re- lativismo filosofico (cfr., ad es., A.
ALIOTTA, // relativismo, l’idealismo e la teoria di Einstein, 1948). Un'altra è
quella idealistica o spiritualistica che è stata difesa specialmente da A.
Eddington (The Nature of the Physical World, 1928; The Philosophy of Physical
Science, 1939). Ma in realtà la teoria della R. si presta a interpretazioni filosofiche
meno ancora delle teorie classiche. La R. di cui essa parla non ha niente a che
fare con la R. del relativismo: una misura è bensì relativa ma non all’uomo o
al soggetto conoscente, bensì al sistema di riferimento e può essere espressa
anche in base ad altri sistemi. Nè la teoria della R. è più soggettivistica o
ideali- stica della fisica classica. La più importante lezione che la filosofia
può trarre da essa è una lezione di metodo, e può essere desunta dalle seguenti
parole di Einstein: « Per il fisico, un concetto ha valore soltanto quando è
possibile discernere se esso nel caso concreto conviene o no. Ci occorre perciò
una definizione della contemporaneità la quale fornisca il metodo per
riconoscere mediante espe- rimenti se i due colpi di folgore sono stati contem-
poranei o no. Finchè questa condizione non sia adempiuta, io come fisico (e
anche come non fisico) mi affido a un'illusione se credo di poter annettere un
significato alla espressione di contemporaneità + (Uber die spezielle und die allgemeine
Relativitàts- theorie, 1917, $ 8; trad. ital., pag. 18). Queste parole
esprimono l’esigenza generale che una proposizione qualsiasi, per essere
valida, deve poter essere attestata o provata con metodo adatto (v.
SIGNIFICATO). RELATIVO (lat. Relativus; ingl. Relative; fran- cese Relatif;
ted. Relativ). 1. Ciò che entra in una relazione o funge da termine di una
relazione. In questo senso si dice «il fenomeno x è R. a y come a sua causa ».
2. Un termine che non ha significato, o non ha significato esatto, se non in
riferimento ad un altro termine. In questo senso « maggiore +, « minore », «
doppio », ecc., sono R. perchè si dicono sempre in riferimento a qualche altra
cosa. 3. Ciò che vale soltanto in determinate circo- stanze o condizioni e non
vale fuori di esse. In questo senso si dice che la conoscenza è R. o che sono
R. i valori; e che l’opposto di R. è l’« asso- luto » o 1° incondizionato ». 4.
Ciò che è una relazione o concerne una re- lazione. In questo senso si dice, ad
es., che «la conoscenza è R.» intendendo che essa consiste nello stabilire
relazioni tra dati. Ma l’aggettivo relazionale (v.) è in questo caso più
adatto. 5. Come sostantivo il termine è usato da Schroder (Algebra der Logik,
1895) e da Peirce (Coll. Pap., 3.456-526: «The Logic of Relatives», 1897). In
questo senso il termine è sinonimo di relazione. RELAZIONALE (ingl. Relational;
tedesco Relational). Ciò che è una relazione o concerne una relazione.
L'aggettivo esclude il significato re- lativistico che il termine relativo (v.)
può avere. Esso è pertanto usato di preferenza dai filosofi che, pur insistendo
sull’importanza della relazione, non intendono giungere a conclusioni
relativistiche. N. Hartmann ha distinto a questo proposito re- lazionalità da
relatività: i valori, ad es., sono in relazione con l’uomo e con il suo mondo
senza perdere la loro irrelativa assolutezza (Erhik, 1949, pag. 140). Il
termine relazionismo è stato usato in Italia per indicare una filosofia che
consideri la relazione come il fatto essenziale dell’universo e dell'uomo, ma
senza implicazioni relativistiche (cfr. E. Paci, Dall’esistenzialismo al
relazionismo, 1957, pag. 45 e passim). RELAZIONE (gr. tò npéc ni; lat. Ad
aliquid, Relatio; ingl. Relation; franc. Relation; ted. Re- lation). Il modo
d’essere o di comportarsi degli oggetti tra loro. Questa definizione non è che
un semplice chiarimento verbale del termine, che non può essere altrimenti
definito in generale, cioè fuori delle interpretazioni specifiche che i
filosofi ne hanno dato. Questa è d'altronde la definizione rettificata che
Aristotele dette della R.: come ciò «il cui essere consiste nel comportarsi in
un certo modo verso qualcosa » (Car., 7, 8 a 33); che so- stanzialmente
coincide con quella di Peirce: «La R. è un fatto circa un numero di cose »
(Coll. Pap., 3.416). I due problemi fondamentali ai quali il con- cetto di R.
ha dato origine e dalle cui soluzioni dipendono le determinazioni del concetto
stesso, sono i seguenti: 1° Devono essere considerate in- cluse, nel concetto
di relazione, le determinazioni sostanziali (essenziali e qualitative) o tali
deter- minazioni devono essere escluse dal concetto stesso? 2° Costituiscono le
R. entità reali o sono soltanto entità mentali? I problemi sono, ovviamente,
inter- dipendenti e sul fondamento delle risposte colle- gate che essi hanno
ricevuto nel corso della storia si possono distinguere tre dottrine
fondamentali: A) quella che ammette l’oggettività e la realtà delle R.; 8)
quella che nega la realtà e l’ogget- tività delle R.; C) quella che ammette
l’ogget- tività delle R. ma non la loro realtà. A) Platone ammise certamente
l’oggettività delle R. ma è dubbio se ne ammettesse la realtà. «Io credo che tu
ammetta, egli disse, che di alcuni degli enti si debba dire che sono unicamente
per sè e di altri invece che sono sempre in R. con altri » (Sof., 255 c-d).
Però gli enti in R., come il diverso e l’identico, non sono l'essere (/bid.,
255 c-d): il che potrebbe anche voler dire che non hanno esistenza o realtà,
come tali. La dottrina di Ari- stotele è ugualmente confusa su questo punto.
Aristotele distinse tre specie di R.: 1° le R. quan- titative, come quelle
espresse da doppio, metà, ecc.; 2* le R. potenziali che consistono in una
potenza attiva o passiva, come l’esser causa o causato, il tagliare o l’essere
tagliato, ecc.; 3* le R. che hanno il loro termine in un oggetto reale, come la
mi- sura rispetto al misurabile, il conoscere rispetto al conoscibile, la
sensazione rispetto al sensibile (Met., V, 15, 1020 b 25). Questa distinzione
sembra già implicare l’esistenza di R. reali, quelle della specie 2* e 38; e
infatti Aristotele stesso dice che: «alcune R. si trovano di necessità dentro o
in- torno alle cose cui sono riferite » e che «tale è il caso della
disposizione, del possesso e della sim- metria » (Top., IV, 4, 125 a 33).
Tuttavia buona parte del capitolo delle Caregorie dedicato alle R. dibatte il
problema se fra le R. ci siano sostanze; e la conclusione, sebbene non
categorica, è nega- tiva: certamente non ci sono fra le R. sostanze prime e anche
le sostanze seconde difficilmente si può dire che siano R. (Car., 7, 8 b 15).
Inoltre uno degli argomenti addotti da Aristotele contro la dottrina delle idee
è che essa condurrebbe ad ammettere la realtà delle R.: laddove «la R. è meno
di tutte le cose o natura o sostanza, vien dopo la qualità e la quantità ed è
piuttosto una de- terminazione della quantità, come è stato detto, ma non
materia +» (Mer., XIV, 1, 1088 a 21). In questo caso Aristotele considera
ovviamente soltanto le R. di specie 1*; ma la sua affermazione non è
condizionata da alcuna limitazione. Non fa me- raviglia perciò che ad
Aristotele si siano in se- guito appellati sia coloro che negavano sia coloro
che affermavano la realtà delle relazioni. Plotino riprodu- ceva la dottrina di
Aristotele con le stesse confusioni (Enn., VI, 1, 6). La scolastica cristiana
la stiliz- zava nella distinzione tra R. di ragione, R. poten- ziale e R.
reale, distinzioni che corrispondono esat- tamente allespeciedistinte da
Aristotele. Ma la scolastica cristiana aveva interesse per motivi teo- logici,
dovendo utilizzare il concetto di R. per il chiarimento del dogma della
trinità, ad ammettere la realtà delle R.; e questa era la tesi difesa da S.
Tommaso contro «coloro che affermarono la R. non esser cosa di natura ma solo
di ragione »; tesi che S. Tommaso dichiarò falsa perchè « le stesse cose hanno
l’una rispetto all’altra un ordine o una disposizione naturale » (S. 7%., I, q.
13, a. 7). Su questa base S. Tommaso riesponeva le distinzioni aristoteliche,
difendendo il carattere reale delle R. in cui la scienza e la sensibilità
consistono, in quanto tali R. «sono ordinate a conoscere o a percepire le cose»
(/bid.). Le R. di ragione sono soltanto quelle nelle quali entrambi i termini
sono enti di ragione, cioè quelle che si hanno « quando l'ordine o la
disposizione non ci può essere se non secondo l’apprensione della ragione come
nel caso in cui si dice che una cosa è identica all’altra » (Ibid.). Ma
affermare la realtà delle R. significa privi- legiare un certo tipo di R. cioè
modellare tutte le R. sulle relazioni delle specie 22 e 3* aristoteliche o più
precisamente significa considerare ogni tipo di R. come una potenzialità o
disposizione o una condizione o uno stato dei termini relativi. Su questa
natura della R. insistette, alla fine del se- colo x, Duns Scoto, che avanzò la
dottrina della R. come respectus: un termine che intende tra- durre la parola
greca oytow (usata, per es., da SimpLICIO, Ad Car., 61 B) e significa
disposizione. L'argomento principale addotto da Duns Scoto in favore della sua
teoria era che, se non si ammette un tale respecius non si riesce a comprendere
la composizione degli enti: giacchè se l’unione di a e b non è che gli stessi a
e 5 assoluti, il composto di a e b non differisce in nulla da a e 5 separati,
perciò non è un composto (Op. Ox., II, d. 1, q. 4, n. 5). La dottrina veniva
seguita da tutti gli scrittori sco- tisti, ma combattuta da Ockham e dai
nomina- listi e terministi del sec. x1v (v. oltre). Nel sec. XVII Jungius
ancora faceva appello a tale dottrina, con- siderando la R. come habitudo o
respectus (Logica Hamburgensis, I, 8, 4). In epoca moderna, al pro- blema delle
R. è stata data un’impostazione ana- loga a quella di Duns da F. H. Bradley, il
quale ha mostrato che le R. non possono essere intese se non come attributi del
relativo e quindi come consistenti in una qualità o modificazione dei ter- mini
relativi. Ma in un modo o nell’altro la relazione è incomprensibile perchè non
fa che pre- dicare l’identico del diverso o il diverso dell’iden- tico
(Appearance and Reality, 1902, 2* ediz., pag. 21 seguenti). Questa dottrina
cosiddetta delle « R. in- terne » è stata specialmente combattuta dai logici
matematici. B) La seconda dottrina fondamentale della R. è quella che nega
l’oggettività e la realtà di esse e le considera accidentali o soggettive. Tale
dottrina fu presentata per la prima volta da Avicenna, che riproduceva un punto
di vista difeso dalla setta maomettana dei Motakallimun e si avvaleva di
corrispondenti tesi aristoteliche. Diceva Avicenna: « Se si pone che una R.
esista, subito bisogna dire che essa è un accidente, giacchè non vi è dubbio
che non si può intendere di per sì ma sempre di qualcosa rispetto a qualcosa »
(Mer., III, 10). Af- fermare il carattere accidentale delle R. equivaleva per
Avicenna a negarne la realtà: giacchè, come accidenti, le R. non sono sostanze.
Quando nel sec. xIV questa dottrina fu ripresa da filosofi nomi- nalisti e
terministi, assunse la forma di una ridu- zione della R. a pura sentità di ragione»,
priva di realtà o fondamento fuori dell'anima umana. Tale è la dottrina
sostenuta da Enrico di Gand (Quodl., IX, q. 3; V, q. 6), Herveus Natalis
(Quodi., I, q. 9) e Pietro Aureolo. Quest'ultimo affermava: «La R. non ha
esistenza nelle cose, prescindendo da ogni apprensione intellettivo-sen-
sibile, ma esiste oggettivamente solo nell’anima poichè nelle cose non ci sono
se non fondamenti e termini: l’abitudine e la connessione delle cose deriva
dall'anima conoscitiva » (Z1 Sent., I, d. 30, q. 1). Questo fu pure il punto di
vista difeso da Ockham il quale istituì una critica minuziosa della dottrina
del respectus. Secondo Ockham questa dottrina moltiplicherebbe le entità
all’infinito: «Col movimento del mio dito riempirei tutto l’universo, il cielo
e la terra, di nuovi accidenti: giacchè mutando la posizione del dito rispetto
alle altre parti del cielo vi sarebbero altrettanti nuovi respectus in queste
parti che sono infinite e quindi infiniti nuovi accidenti» (Quod!. VII, q. 8;
In Sent., II, q. 2, Y). Ogni corpo conterrebbe per motivi analoghi infinite
realtà: giacchè ogni corpo può essere considerato doppio rispetto alla sua metà
e questa metà doppia della sua metà e così via (Quodl., VI, q. 10; Summa Log.,
I, 50). Ockham tuttavia non afferma il carattere puramente men- tale delle R.,
come aveva fatto Avicenna (v. oltre). Questa dottrina si riaffacciò nell’ambito
del carte- sianesimo. Fu difesa da Locke che considerò le R. come idee
complesse, consistenti « nel considerare e confrontare un’idea con un’altra»
(Saggio, II, 12, 7); e riconobbe esplicitamente il carattere soggettivo di
esse, pur non escludendo il loro rife- rimento alle cose. « Poichè i modi misti
e le R. non hanno altra realtà da quella che posseggono nello spirito umano, a
rendere reali questa specie di idee altro non si richiede se non che siano così
foggiate che vi sia la possibilità di un'esistenza conforme ad esse » (/bid.,
II, 30, 4). Leibniz a sua volta affermava che la realtà delle R. è mentale o
fenomenica (Nouv. Ess., II, 12, 7) e che pertanto esse «hanno una realtà
dipendente dallo spirito, come le verità, ma non dallo spirito degli uomini,
perchè c’è un'intelligenza suprema che le determina tutte in tutti i tempi »
(/bid., II, 30, 4). In conformità di questo stesso concetto, Wolff definiva la
R. come «ciò che non conviene alla cosa assolutamente ma che s'intende solo
quando essa viene riferita ad altro» (Logica, $ 856); e aggiungeva che la R. «
non aggiunge alcuna realtà all’ente » (/bid., $ 857). La soggettività delle R.
è poi il principio fondamen- tale del kantismo (« Se sopprimessimo il nostro
sog- getto o anche solo la natura soggettiva dei sensi in generale, tutta la
natura, tutte le R. fra gli og- getti nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio
stesso e il tempo sparirebbero» Crit. R. Pura, $ 8); e sullo stesso principio
(il più delle volte assunto implicitamente) è fondata buona parte della filo-
sofia contemporanea. C) La terza concezione fondamentale delle R. è quella che
le considera come non reali ma og- gettive. Ockham che è stato il più deciso
critico della realtà delle R. ne aveva anche affermato, a suo modo, il
carattere oggettivo. « Non è l’intel- letto, egli diceva, che rende Socrate
simile a un altro, più che non sia l’intelletto a renderlo bianco » (In Sent.,
I, d. 30, q. 1 P): il che vuol dire che la relazione, come intenzione o
concetto dell’anima, si riferisce a più cose isolate o è più cose isolate «come
il popolo è più uomini e nessun uomo è popolo » (/bid.). Tuttavia in queste
affermazioni, come in quelle di Locke e di altri che insistevano sul
riferimento oggettivo della R. (come concetto o idea) tale riferimento è inteso
come riferimento alla realtà. La caratteristica della dottrina moderna in pro-
posito è che la oggettività della R. non implica la sua realtà: cioè che il
riconoscimento che la R. sia oggettiva non significa che essa interceda in ogni
caso tra cose o entità reali. Questo senso della R. è strettamente connesso col
significato che l’essere predicativo ha assunto nella logica contemporanea (v.
EsseRE). Da questo punto di vista l’intera mate- matica e l’intera logica sono
state definite « scienze delle R.+ (v. Logica; MATEMATICA). In partico- lare,
per ciò che riguarda la logica, sia il ca/colo proposizionale sia quello delle
classi possono essere considerati come vertenti esclusivamente su R.: dal
momento che R. sono i connettivi: e, o, non, se... allora di cui si occupa il
calcolo proposizionale; e R. sono le entità di cui si occupa l’algebra delle
classi. Tuttavia il calcolo delle R. costituisce anche una branca specifica
della logica contemporanea, branca che è stata fatta avanzare specialmente da
E. Schròder (Algebra der Logik, 1895) e da Peirce {The Logic of Relatives,
1897, Coll. Pap., 3.456-526) In questo senso ristretto, si intendono per R. le
funzioni proposizionali diadiche o poliadiche cioè a due o più variabili, che
sono scritte nella forma f (x, }) 0, più frequentemente, nella forma xRy. Le
caratteristiche più generali della R. in questo senso sono le seguenti: 1° Se R
è tale che intercede non solo tra x e y ma anche tra y e x, la R. si dice
simmetrica. È, ad es., simmetrica la R. fra due fratelli. Nel caso contrario la
R. si dice asimmetrica. Le R. « prima», « dopo », «a sinistra di» sono
asimmetriche. 2° Se R è tale che quando x ha la R. R ayeyhalaR. Ra z, anche x
halaR. Raz, si dice transitiva. Sono transitive le R. « minore », 4 precede »,
«a sinistra»; è intransitiva la R. di paternità. 3° Se R è tale che nessun
termine sta nella R. R con se stesso, la R. si dice aliorelativa. Sono aliorelative
le R. « fratello +, « marito », « padre », ecc. 4° Se R è tale che, dati due
diversi termini del campo, x e y, può intercedere tra x e y o tra yexotraxe
yetra yex, la R. si dice coerente. È coerente la R. «maggiore o minore», non è
coerente la R. «antenato ». 5° Il termine x che ha la R. R ad uno 0 più termini
(y, z...) si chiama dominante; mentre si chiamano dominanti inversi i termini
con cui il termine x ha la R. R cioè i termini y, z, ecc. Nella R. di «
paternità », padre è il dominante, figli sono i dominanti inversi. 6° Il campo
di una R. consiste nell’insieme del dominante e dei dominanti inversi. Nel caso
della R. di paternità, il campo è l’insieme padre-figli. 7° Si dice che una R.
ne implica un’altra, se questa è valida ogni qualvolta che la prima è valida.
Queste nozioni elementari definiscono la natura oggettiva, tuttavia non reale,
delle R. così come sono costantemente adoperate dalla logica e dalla matematica
contemporanee. Si tratta di caratte- ristiche che generalizzano al massimo la
nozione di R., permettendo di includere in essa, e di chia- rire con essa, i
concetti più disparati (cfr. WHI- TEHEAD and RUSSELL, Principia mathematica,
vol. I, 1925). Per un’esposizione sommaria della nozione delle R. in ordine ai
concetti fondamentali della matematica cfr., dello stesso RUSSELL, Introduction
to Mathematical Philosophy, 1918; trad. ital., 1947. Per gli aspetti matematici
cfr. W. v. O. QuInE, Me- thods of Logic, 1952, specialmente $ 40. RELIGIONE
(lat. Religio; ingl. Religion; fran- cese Religion; ted. Religion). La credenza
in una garanzia soprannaturale offerta all'uomo per la propria salvezza; e le
tecniche dirette a ottenere o conservare questa garanzia. La garanzia, cui la
R. fa appello, è soprannaturale nel senso che va al di là dei limiti cui
possono giungere i poteri ri- conosciuti propri dell’uomo; che agisce 0 può
agire anche là dove tali poteri sono riconosciuti impotenti; e che il suo modo
d’azione è misterioso o imperscrutabile. L'origine soprannaturale della
garanzia non implica necessariamente che essa sia offerta da una divinità e che
pertanto il rapporto con la divinità sia necessario alla R.: in realtà esistono
R. atee; e tale fu il buddismo pri- mitivo, ripreso o difeso in questo suo
carattere anche da scuole posteriori (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia
indiana, pag. 71 sgg.; 312 sgg.). Inoltre la determinazione del rapporto
dell’uomo con la divinità, quindi il compito di dimostrare l’esistenza di essa
e di chiarire i suoi caratteri e le sue fun- zioni nei confronti dell’uomo e
del mondo, è stato spesso ritenuto proprio della filosofia più che della R.; e
l’assolvimento di quel compito può anche avere carattere anti-religioso, come è
accaduto nel- l’epicureismo che ha inteso stabilire nello stesso tempo
l’esistenza della divinità e la sua indifferenza al mondo e agli uomini,
regolando su questa base i rapporti di essa con l’uomo (EPICURO, Lettera a
Meneceo, 123-24; FILODEMO, De pietate, pag. 122; fr. 38, Usener). Dall'altro
lato questo stesso rap- porto tra l’uomo e Dio è oggi, da alcuni teologi,
ritenuto proprio della fede anzichè della R. perchè indipendente dalle forme
mitiche che la R. ha as- sunto ed è costitutivo dell’esistenza umana nel mondo
(v. FepE; Dro; Dio, MORTE DI). In ogni caso, la salvezza di cui la R. intende
essere la garanzia, non è necessariamente la sal- vezza da questo o quel male o
dai mali del mondo: può anche essere una salvezza dal mondo consi- derato come
un male nella sua totalità, come in- fatti accade nello stesso buddismo. Nella
definizione proposta, inoltre, occorre sottolineare la differenza tra la
credenza nella garanzia soprannaturale e le tecniche dirette a ottenere o
conservare tale ga- ranzia. Per tecniche s’intendono tutti gli atti o le
pratiche del culto: preghiera, sacrificio, rito, ceri- monia, servizio divino o
servizio sociale. La cre- denza nella garanzia soprannaturale è l’atteggia-
mento religioso fondamentale che può anche essere semplicemente interiore o
privato e costituisce la religiosità individuale; le tecniche dirette a ottenere
e conservare quella garanzia costituiscono invece il lato oggettivo e pubblico
della R., il suo aspetto istituzionale. Una R. naturale è costituita sempli-
cemente da quell’atteggiamento; una R. positiva è costituita essenzialmente da
queste tecniche. Il concetto di R. comprende tuttavia entrambi gli aspetti.
Etimologicamente, la parola significa probabilmente « obbligazione +; ma
Cicerone la fece derivare da relegere: « Quelli che compivano con accortezza
tutti gli atti del culto divino e per così dire li rileggevano attentamente,
furono detti religiosi da relegere, come eleganti da elegere, diligente da
dili- gere e intelligenti da intelligere; infatti in tutte queste parole si
nota il medesimo valore di /egere che c’è in R.» (De nat. deor., JI, 28, 72).
Lattanzio invece (/nsr. Div., IV, 28) e S. Agostino (Retract., I, 13) fanno
derivare la parola da religare; e Lattanzio cita a questo proposito
l’espressione di Lucrezio « scio- gliere l'animo dai nodi della R.» (De nat.
rer., I, 930). È pure da notare che il greco non possiede l’esatto equivalente
della parola latina e moderna. Aarpela significa servizio divino e si riferisce
per- tanto solo al secondo degli elementi della reli- gione. S. Agostino (De
Civ. Dei, X, 1) stabiliva la corrispondenza tra religio e Opnorele; ma anche
questa parola si riferisce esclusivamente alle tecniche della religione. Le
diverse definizioni che sono state date della R. possono essere classificate
sul fondamento dei due fondamentali problemi cui esse rispondono cioè: I. Sul
fondamento del problema dell’origine della R. che è poi in realtà il problema
del tipo di validità propria della R.; II. Sul fondamento del problema della
funzione riconosciuta propria della R. cioè del carattere specifico della
garanzia che essa offre alla salvezza dell’uomo. I. Come accade anche in altri
casi, il problema dell’origine è in realtà il problema del tipo di vali- dità
che s’intende riconoscere alla R. stessa. Si possono distinguere tre soluzioni
di questo pro- blema cioè: 1° la dottrina dell’origine divina della R.; 2° la
dottrina dell’origine politica della R.; 3° la dottrina dell’origine umana
della religione. 1° La dottrina dell’origine divina della R. esprime il
riconoscimento del valore assoluto (0 infinito) della R. stessa. Ovviamente, la
pretesa di un’origine soprannaturale o divina è intrinseca ad ogni R. giacchè
ogni R. pone a suo fondamento una rivelazione originaria che ne garantisca la
verità oppure considera come continuamente con- fermate da testimonianze
soprannaturali le credenze e le istituzioni con cui si identifica: il che vale
lo stesso. Perciò, dal punto di vista della filosofia il riconoscimento
dell’origine divina o del valore assoluto della R., si effettua mediante la
tesi che la R. è rivelazione. Questa tesi è, si può dire, nien- t’altro che
l’espressione filosofica del valore asso- luto che la R. riconosce a se stessa.
Questo punto di vista è stato espresso con tutta chiarezza da Hegel: « Nel
concetto della vera R., egli ha detto, cioè di quella il cui contenuto è lo Spirito
asso- luto, è riposto essenzialmente che essa sia rivelata, cioè rivelata da
Dio» (Enc., $ 564). Ed Hegel ag- giunge che «se a Dio si nega la rivelazione
non resterebbe altro contenuto da attribuirgli che l’in- vidia. Ma se la parola
spirito deve avere un sensoesso significa la rivelazione di sè» (/bid., $ 564).
Non diverso da questo è il concetto che della R. dette Schleiermacher:
«L'universo è un'attività ininter- rotta e ci si rivela in ogni momento. Ogni
forma che esso produce, ogni essere al quale dà, per la pienezza della sua
vita, un'esistenza particolare, ogni avvenimento che esso partorisce dal suo
seno sempre ricco e fecondo, è un’azione che esso eser- cita su di noi; e così
accettare ogni cosa partico- lare come una parte del Tutto, ogni cosa finita
come un’espressione dell’Infinito, in ciò consiste la R. + (Reden iiber die
Religion, 1799, II; traduzione ital., pag. 39). La stessa dottrina si può
esprimere dicendo che la R. è l’esperienza del divino e che essa, come ogni
esperienza, rivela la realtà del suo oggetto. Questo è il concetto che Bergson
dette della R. autentica cioè del misticismo: «Se le so- miglianze esteriori
tra i mistici cristiani possono dipendere da una comunanza di tradizioni e di
insegnamenti, il loro accordo profondo è segno di una identità di intuizione
che si può spiegare più semplicemente con l’esistenza reale dell’essere con cui
si credono in comunicazione» (Deux sources, III; trad. ital., pag. 270-71). 2°
La dottrina dell’origine politica della R. riduce la R. stessa ad uno
stratagemma politico: perciò riduce a zero il valore intrinseco di essa. Questa
dottrina fu per la prima volta sostenuta da Critia, uno dei trenta tiranni di
Atene. Secondo Critia «gli antichi legislatori finsero la divinità come una
specie di ispettore delle azioni umane, sia buone che cattive, affinchè nessuno
recasse ingiuria o tra- dimento al suo prossimo, per paura di una vendetta
degli dèi ». Questo stratagemma fu reso necessario dal fatto che « le leggi
distoglievano bensì gli uomini dal compiere aperte violenze ma che essi le com-
mettevano di nascosto » sicchè « un qualche uomo ingegnoso ed esperto inventò
per gli uomini il timore degli dèi onde ci fosse uno spauracchio per i mal-
vagi anche per quello che di nascosto facessero, di- cessero o pensassero »
(Sesto EMmP., Adv. Math., IX, 54). Concezioni analoghe ricorrono di tanto in
tanto nella storia della filosofia: si possono riconoscere nel libertinismo e
in talune correnti del- l’illuminismo e del marxismo. 3° La dottrina
dell’origine umana della R. è quella che la considera come una formazione
umana, che ha le sue radici nella situazione del- l’uomo nel mondo. Questa
dottrina non è impe- gnata ad attribuire alla R. una validità determinata: è
piuttosto impegnata a comprenderla come un fe- nomeno umano ed a esprimerla in
un concetto abbastanza esteso da comprendere le sue manife- stazioni disparate.
La considerazione della R. da questo punto di vista si è orientata verso due
tipi di spiegazione. Il primo ha considerato la religione come una forma di
appagamento del bisogno feo- retico cioè del bisogno di conoscenza. Il secondo
ha considerato la religione come suggerita all’uomo dalla situazione in cui
egli viene a trovarsi nel mondo e cioè, sostanzialmente, dai suoi bisogni
pratici. Una soluzione del primo tipo fu quella data da Epi- curo che vedeva
l’origine della R. nelle immagini dei sogni e nel bisogno dell’uomo di spiegare
la regola- rità dei movimenti celesti (LUCREZIO, De nat. rer., V, 1167 sgg.).
La R. sarebbe contemplativa più che pratica. Fu Hobbes il primo a riconoscere
la sua origine pratica. Facendo proprio il detto di Stazio -« Primus in orbe
deos fecit timor + (Theb., III, 661), Hobbes riconosceva la causa principale
del sorgere della R. nel timore che deriva all'uomo dalla sua incertezza per il
futuro. «Dal momento che è sicuro che vi sono cause di tutte le cose che sono
state o saranno, è impossibile per l’uomo che cerca con- tinuamente di
garantirsi contro i mali che teme e di procurarsi i beni che desidera, di non
vivere nella perpetua preoccupazione del tempo a ve- nire cosicchè ogni uomo, e
specialmente quello più previdente, vive in uno stato simile a quello di
Prometeo ». Da questo stato di timore nonchè dalla speranza di vedersi
assicurati i beni di cui ha bi- sogno e dal desiderio di raggiungere una cono-
scenza completa del mondo, nasce, secondo Hobbes, la R. (Zeviath., I, 12). Una
dottrina analoga, ma esposta in modo più articolato fu ripresentata da Hume
nella Storia naturale della religione (1757). La R. non sorge dalla
contemplazione ma dall’in- teresse dell’uomo per gli eventi della vita e quindi
dalle speranze e dai timori incessanti che lo agitano. Sospeso fra la vita e la
morte, tra la salute e la malattia, tra l'abbondanza e la privazione, l’uomo
attribuisce a cause segrete e sconosciute i beni di cui gode e i mali da cui è
continuamente minac- ciato (Natural History of Religion, II, in Essays, II,
pag. 316). Voltaire così esponeva lo stesso con- cetto: «È naturale che un
paese, spaventato dal tuono, afflitto dalla perdita delle sue messi, maltrat-
tato dal paese vicino, sentendo tutti i giorni la sua debolezza, sentendo
dappertutto un potere invisibile, abbia infine detto: ‘ C’è qualche essere al
di sopra di noi che ci fa del bene e del male » (Dicrionnaire philosophique,
1764, art. Religion, Il). Questa dottrina ha subìto un’eclissi sino ai primi
decenni del sec. xx. Da un lato infatti il concetto ro- mantico della R. come
rivelazione o sentimento del- l’infinito fu partecipato anche da filosofi che
nega- vano la validità della religione. Feuerbach, ad es., trasformando la
teologia in antropologia, affermava: «La R. è la coscienza dell’infinito:
perciò essa non è e non può essere altro che la coscienza che l’uomo ha, non
della limitazione, ma dell’infinità del suo essere » (Wesen der Christenthum,
1841, $ 1). Max Miiller analogamente vedeva l’essenza della R. nella potenziale
capacità umana di « afferrare l’in- finito » (Vorlesungen iber den Ursprung und
die Entwicklung der Religion, 1880, pag. 28). Per quanto con queste espressioni
si intendesse sotto- lineare l’origine umana della R., si faceva tut- tavia uso
di concetti che erano meglio serviti ad esprimere l’origine divina e il valore
assoluto della R. stessa. Dall’altro lato, anche nel campo dell’in- dagine sociologica,
la quale cominciava a prendere in esame le forme che la R. assume presso i
popoli primitivi, si manifestava la tendenza a considerare la R. sotto l'angolo
visuale della contemplazione, interpretandola come una concezione del mondo (o
filosofia) grossolana bensì ma non priva di una certa coerenza. E. B. Tylor
vedeva l’essenza della R. primitiva nell’animismo (v.) cioè nella credenza in
esseri spirituali assunti come presenti in tutte le cose e come cause di tutti
gli eventi (Primitive Culture, 1871). La R. sarebbe così una metafisica della
natura. Una metafisica della società essa sarebbe invece secondo Durkheim, per
il quale essa « è il mito che la società fa di se stessa » nel senso che «
quella realtà che le mitologie si sono rappre- sentate sotto tante forme
differenti, ma che è la causa obbiettiva universale ed eterna di quelle sen-
sazioni sul generis di cui è fatta l’esperienza reli- giosa, è la società »
(Formes élémentaires de la vie religieuse, 1937, pag. 597). Ciò vuol dire che
la R. primitiva consiste nell’attribuire a una supposta realtà i caratteri
stessi della società primitiva: cioè quei caratteri che la società primitiva
ritiene essen- ziali a se stessa. Queste tesi di Durkheim si fonda- Vano
soprattutto su una interpretazione del rfore- mismo. Il totem è secondo
Durkheim il simbolo della forza che sostiene l’individuo: forza che è la
società stessa; e da questa veramente la mente primitiva attinge tutte Je sue
categorie per l’inter- pretazione del mondo. In tal modo, la R. conserva per
Durkheim un carattere contemplativo: carat- tere che viene ad essa anche
riconosciuto dall’altro grande sociologo francese Lucien Lévy-Bruhl, che
esprime questa tesi identificando con il misticismo non soltanto la R. ma
l’intera vita dei popoli primitivi (L’expérience mystique et les symboles chez
les primitifs, 1938). Per tutti questi indirizzi filosofici e sociologici la R.
è, alla sua origine, un fatto cono- scitivo: è un tentativo di spiegarsi il
mondo o di formarsene un’idea in base a un certo numero di esperienze più
frequentemente ricorrenti nella vita degli uomini. Il ritorno alla concezione
settecentesca della R. cioè alla concezione che vede la radice di essa nella
situazione dell’uomo nel mondo, si effettua soltanto negli indirizzi più
moderni e critici della sociologia. Cominciò W. Robertson Smith a in- 745
sistere sull’importanza che, nella R. primitiva, ha il secondo dei due elementi
della R. cioè le tec- niche. «La R. nei tempi primitivi non fu un si- stema di
credenze con applicazioni pratiche; fu un corpo di pratiche tradizionalmente
fissate alle quali ogni membro della società si conformava naturalmente. Gli
uomini formano regole generali di condotta prima di cominciare ad esprimere in
parole i princìpi generali; le istituzioni politiche sono più vecchie delle
teorie politiche e in ma- niera simile le istituzioni religiose sono più
vecchie delle teorie religiose » (Lectures on the Religion of the Semites,
1907, pag. 16). Più tardi l’opera di G. Frazer (The Golden Bough, 1911-14)
mostrava la stretta connessione tra R. e magia, partendo dalla considerazione
che l’uomo è dominato in primo luogo dalla preoccupazione di controllare gli
eventi naturali allo scopo di piegarli alle esi- genze della vita. La
differenza tra la magia e la R. consiste, secondo Frazer, in questo: che la
prima tende al diretto controllo degli eventi naturali mentre la seconda cerca
le vie di propiziarsi le potenze su- periori che presiedono alla natura. Questa
dot- trina è quella che ha avuto la migliore accoglienza da sociologi e
filosofi. A. Loisy sosteneva un punto di vista assai vicino a quello di Frazer
(Essai hi- storique sur le sacrifice, 1920) e B. Malinowski portava nuove prove
alla stessa tesi. Secondo Ma- linowski la R. e la magia sorgono e funzionano
entrambe in situazioni di tensione emozionale: crisi della vita, riuscite
infelici, morte e iniziazione ai misteri della tribù, amori infelici e odii
insoddi- sfatti. R. e magia concordano anche nell’offrire una via d’uscita da
tali situazioni mediante credenze e pratiche che si riferiscono al dominio del
sopran- naturale. Si distinguono tuttavia tra di loro, in quanto la magia ba
una tecnica limitata e semplice, la R. comprende un insieme di tecniche; la
magia è limitata a una classe di persone che fa di essa la sua professione; la
R. invece è una faccenda di tutti e ogni individuo vi ha parte attiva. E infine
le funzioni dell’una e dell’altra sono diverse: la fun- zione della magia è
quella di sopperire, con stru- menti soprannaturali, alla mancanza o all’imper-
fezione degli strumenti naturali, mentre la funzione della R. è quella di
rafforzare certi speciali atteggia- menti: il coraggio e la fiducia nella lotta
contro le difficoltà (Magic, Science and Religion, 1925). Non molto diversa da
questa, sebbene espressa in termini teologici e mistici, fu la tesi difesa da
Rudolf Otto nel suo libro intitolato // sacro (1917). Dalla paura, secondo
Otto, deriva il sentimento di essere davanti a un potere superiore, che si
cristallizza in ciò che egli chiama il tremendum o la maiestas; dal senso di
disperazione, di impotenza e di insignificanza deriva il sentimento creaturale
descritto nell’Antico testamento, e dalle fantasie compensatrici nasce in- fine
il concetto di ciò che è completamente altro, che si mescola con gli eventi più
familiari senza cessare di apparire nuovo ed estraneo. Gli ingre- dienti
costitutivi del soprannaturale erano così ri- condotti, anche da Otto, alla
situazione dell’uomo nel mondo. La quale rimane il punto di partenza delle più
moderne teorie della religione. Secondo Freud la R. «dà agli uomini
informazioni circa la sorgente e l’origine dell’universo, garantisce ad essi la
protezione e la felicità finale fra le mutevoli vicende della vita e guida i
loro pensieri e le loro azioni per mezzo di precetti che sono appoggiati
dall’intera forza della sua autorità » (A New Series of Introductory Lectures
on Psycho-Analysis, 1933, pag. 220). Su questi fondamenti Freud pensa che la R.
consista nella credenza in un padre sopran- naturale che salvaguarda gli uomini
dai pericoli e li compensa e punisce a seconda dei casi. Il rap- porto fra
l’uomo e la divinità si modellerebbe così sul rapporto tra figlio e padre
(/bid., pag. 222 sgg.). Prescindendo dallo sfondo psicanalitico di questa
concezione, i suoi caratteri non sono diversi da quelli delle altre cui si è
fatto riferimento: la R. è intesa come un correttivo, una difesa o una pro-
testa nei confronti della situazione di incertezza e di pericolo in cui l’uomo
è nel mondo. Tale è anche il concetto che Bergson ha dato della R. statica, al
quale egli ha contrapposto la R. dinamica cioè il misticismo. La R. statica
sarebbe infatti «la reazione difensiva della natura contro il po- tere
disgregatore dell’intelligenza »; nel senso che l’intelligenza fa vedere
chiaramente all’uomo l’in- certezza e pericoli della vita e l’inevitabilità
della morte, mentre la R. sarebbe l’insieme delle rea- zioni difensive contro
le rappresentazioni intellet- tuali della condizione umana nel mondo (Deux
sources, 1932, cap., II; trad. ital, pag. 131 sgg.). Limitatamente alla R.
primitiva, una tesi analoga è stata difesa sulla base di un vasto materiale
docu- mentario da P. Radin nel suo libro sulla R. dei pri- mitivi(Primitive
Religion, its Nature and Origin, 1937). II. Il secondo problema del quale le
definizioni proposte della R. intendono costituire risposte è quello della
funzione specifica della religione. Questo problema può essere inteso in due
sensi. In primo luogo, come problema della garanzia che la R. pretende offrire
alla salvezza dell’uomo e di questo problema si possono addurre tre soluzioni
prin- cipali: 1° la R. come liberazione dal mondo; 2° la R. come verità; 3° la
R. come moralità. In secondo luogo, il problema stesso può essere inteso dal
punto di vista della funzione che la R. esercita nella so- cietà o
nell'economia generale della vita umana (4°). 1° La garanzia che la R. pretende
di of- frire all'uomo può essere innanzitutto quella della liberazione dal
mondo, considerato nella sua tota- lità come un male. Questa è la dottrina propria
del buddismo: « Non c’è da godere di ciò che è nato e diventato, di ciò che si
è formato e costituito, che è instabile, dipendente dalla vecchiezza e dalla
morte, nido di malattie, fragile, sorto per il transito di cibo. Fuggire da
questo stato vuol dire trovare un altro stato tranquillo, al di là del dominio
del pensiero, stabile, non nato, non formatosi, senza dolore, senza passione,
gioia che pon fine ad ogni condizione di miseria e distrugge per sempre ogni
elemento di esistenza » (Ztivuttaka, 43; trad. Pavolini). Questo stato in cui
l’esistenza stessa è distrutta è il nirvana. Ma secondo lo stesso buddismo il
nirvana è anche lo stato di beatitudine di chi già in questa vita ha eliminato
da sè il desiderio e quindi il germe della futura esistenza. Sotto questo
aspetto, dallo stesso buddismo, la salvezza è concepita non solo come
liberazione dal mondo ma anche come liberazione dai mali del mondo. Questi due
aspetti sono in realtà presenti in molte R. tranne che nella R. d'Israele che
ignora il primo: la promessa di una beatitudine che è al di là del mondo o che
si rag- giungerà solo dopo la morte va abitualmente con- giunta con la promessa
di una felicità, di una pace o di un benessere nella stessa esistenza mondana.
Quando la felicità o la pace si può raggiungere in questa esistenza solo
oltrepassando la condizione umana e deificandosi cioè unendosi con Dio o col
principio cosmico, si ha il misticismo (v.). Nel misticismo, Bergson ha visto
la R. dinamica, la continuazione super organica dello slancio vitale, l’impulso
verso la creazione di una società nuova fondata sull’amore universale (Les deux
sources, 1932, cap. III). In realtà il misticismo non è che una determinata
soluzione del problema della salvezza ed è la soluzione propria di una religiosità
pri- vata, contemplativa e solitaria cui ogni attività e i rapporti stessi fra
gli uomini risultano estranei e insignificanti. 2° Che la R. contenga la
garanzia infal- libile della propria verità e di ogni verità che possa essere
collegata con essa, è pretesa implicità in ogni R. come tale. Dal punto di
vista filosofico questa stessa tesi si presenta nella forma dell’iden- tità tra
R. e filosofia e della differenza puramente formale tra esse. Questa fu, per
es., la dottrina sostenuta da Hegel: « La filosofia ha i suoi oggetti in comune
con la R. perchè oggetto di entrambe è la verità, e nel senso altissimo della
parola, in quanto cioè Dio, e Dio solo, è la verità » (Enc., $ 1). La R.
tuttavia si distingue dalla filosofia in quanto esprime la verità non nella
forma del con- cetto ma in quella della rappresentazione e del sen- timento.
«La R., dice Hegel, è il rapporto con l’Assoluto nella forma del sentimento,
della rap- presentazione, della fede; e nel suo centro onni- comprensivo, tutto
è soltanto come qualcosa di accidentale e di evanescente » (Fi/. del Dir., $
270). Il che vuol dire che ciò che la R. intuisce in modo accidentale,
approssimativo e confuso, la filosofia dimostra con necessità (Enc., $ 573). È
chiaro tuttavia che la dottrina dell’identità tra R. e filosofia può anche
essere affermata dal punto di vista della superiorità della R. come forma o ri-
velazione della verità: così fa quella filosofia della fede di Haman, Herder e
Jacobi contro la quale lo stesso Hegel polemizza (v. FEDE, FILOSOFIA DELLA). È
tuttavia evidente che in tal caso non è alla R. che si affida la garanzia della
verità, ma ad un organo, la fede, dalla quale dipendono, quanto alla loro
validità, sia la filosofia sia la R. sia ogni altro sapere. Perciò l’attribuire
alla R., come og- getto specifico, la verità significa il più delle volte, dal
punto di vista filosofico, attribuirle la funzione di manifestare la verità in
una forma, che è bensì infallibile e certa, ma inferiore a quella che la verità
stessa può assumere nella filosofia. Così secondo Gentile, la R. è
«l’esaltazione dell’og- getto sottratto ai vincoli dello spirito, in cui con-
siste l’idealità, la conoscibilità e razionalità del- l'oggetto stesso »
(Teoria gen. dello spirito, 1913, XIV, 7). L'essenza della R. è perciò il misti
cismo che è l’annullamento del soggetto nell’og- getto e per cui l'essere di
Dio è il non essere del soggetto (Discorsi di religione, 1920, pag. 78). La R.
trova la sua verità solo nella filosofia che risolve Dio nell’atto del
pensiero. « Questo Dio come può essere volontà da riconoscere e pregare e
deprecare e a cui subordinarsi, se Dio è dentro all'uomo, al suo io, ed è
propriamente il suo io nel suo attuarsi? » (Sistema di logica, II, 1922, IV, 8,
4). In modo più chiaro e sbrigativo Croce ha detto che la R. è una forma
provvisoria e im- perfetta della filosofia, per cui il filosofo dovrebbe
vedere nell’uomo religioso « il suo
fratello minore, il suo se stesso di un momento prima » (Fil. della pratica,
1909, pag. 314). 3° Che la R. offra una garanzia ai valori morali dell’uomo,
intendendosi per morali i valori che presiedono all’ordine della vita
associata, è credenza assai antica. Era questo il compito fon- damentale che
Platone attribuiva alla R.: «La di- vinità che, secondo la tradizione, regge il
principio e la fine e il corso di tutti gli esseri, procede secondo la sua
natura nel suo andamento circolare; e ad essa tien dietro sempre la giustizia
punitiva per coloro che hanno abbandonato la legge divina» (Leggi, 715 e, 716
a). Nel mondo moderno questo punto di vista è stato assunto e difeso da Kant.
«La R., egli ha detto, considerata dal punto di vista soggettivo, è la
conoscenza di tutti i nostri doveri come co- mandi divini. Quella in cui io
devo prima sapere che qualcosa è un comando divino per riconoscerla poi come
mio dovere, è la R. rivelata (o che esige una rivelazione); quella invece in
cui io devo sa- pere che qualcosa è un dovere prima che la possa ri- conoscere
come un comando divino è la R. naturale + (Religion, IV, sez. I). Kant osserva
che questa de- finizione della R. previene parecchie interpretazioni false del
concetto di essa. In primo luogo, infatti, esclude che la R. richieda una
scienza di Dio e include che per essa basta possedere la semplice idea di Dio.
In secondo luogo quella definizione previene «la falsa idea che la R. sia un
insieme di doveri speciali che si riferiscono immediata- mente a Dio» e perciò
impedisce di ammettere, oltre i doveri umani etico-sociali, «i servizi da
cortigiani con i quali potremmo tentare di com- pensare le nostre mancanze ai
doveri della prima specie » (/bid., IV, sez. I, Nota). In questa inter-
pretazione tuttavia ciò che la R. garantirebbe è l’assolutezza del comando
morale: non garantirebbe invece (perchè rientra nella sfera della libertà
umana) l'effettuazione del comando morale cioè la vera e propria realizzazione
dei valori morali nel mondo. Alla R., tuttavia, si chiede o si attribuisce il
più delle volte proprio questa seconda specie di ga- ranzia: la garanzia cioè
che i valori morali, e in generale quelli che interessano l’uomo e la sua vita
spirituale, non siano unicamente affidati alla buona volontà degli uomini ma
trovino nella prov- videnza divina una loro salvaguardia infallibile che ne
garantisca il trionfo finale. In questo senso H. Héffding ha affermato che la
R. è «la credenza nella conservazione dei valori » (Religionsphilo- sophie,
1902, pag. 13): la fede religiosa sarebbe la convinzione « della saldezza,
certezza e della inin- terrotta connessione della relazione fondamentale dei
valori con la realtà» (/bid., 1902, pag. 105). Questo è proprio quell’ottimismo
provvidenzialistico che molti indirizzi filosofici, idealistici e spiritua-
listici desumono o credono di desumere dalla R. e in nome del quale
istituiscono più o meno inte- ressate apologetiche religiose. 4° Considerando
la funzione della R. non già nei confronti della garanzia soprannaturale che
essa pretende di offrire ma nei confronti dei rap- porti inter-umani, tra i
quali essa si inserisce come sistema di credenze e di istituzioni, si può
agevol- mente mettere in luce l’utilità biologica e sociale della R. stessa. Non
che l’accordo tra i filosofi sia unanime su questo punto. Sostenendo la non
ingerenza della divinità nelle faccende umane gli Epicurei avevano di mira
l'eliminazione del timore degli dèi e consideravano pertanto la R. come fonte
aggiuntiva di preoccupazione e paura e non come aiuto (cfr. EricuRro, Ep. a
Meneceo, 123; Ep. a Erodoto, T7; Mass. Cap., 1). Anche qualche sociologo
contemporaneo non manca di osservare che spesso i riti religiosi e le credenze
con essi associate sono fonti di angoscia sicchè l’effetto psicologico del rito
sembra quello di creare nel- l’uomo un senso di insicurezza e di pericolo (cfr.
A. R. RADCLIFFE-BROWN, Structure and Func- tion in Primitive Society, 1952,
pag. 148-49). Ma anche in questo caso si può riconoscere la funzione sociale
della R. e cioè il rafforzamento ad essa dovuto dei vincoli sociali,
soprattutto nella società primitiva (Ibid., pag. 157 sgg.). A. Loisy diceva: «
Abbandonato alla mercè degli elementi, delle sta- gioni, di ciò che la terra
gli dà e gli rifiuta, delle buone o cattive possibilità della sua caccia o
della sua pesca, delle vicende delle sue lotte con i suoi simili, l’uomo crede
trovare il mezzo per regolariz- zare con simulacri di azione le sue possibilità
più o meno incerte. Ciò che egli fa non serve a niente rispetto allo scopo che
si propone, ma egli acquista fiducia nelle sue imprese, in se stesso, osa e
osando ottiene realmente più o meno ciò che vuole. Fiducia rudimentale e
attraverso un’umile strada; ma è il cominciamento del coraggio morale » (Essai
histo- rique sur le sacrifice, 1920, pag. 533). Questo punto di vista fu più
tardi sviluppato da Malinowski (Magic, Science and Religion, ed. Anchor Books,
1925, pag. 89). Ed è come si è visto più o meno il punto di vista di Bergson. È
un punto di vista che i sociologi hanno riscontrato soprattutto nei confronti
delle società primitive; ma è pur noto (v. PRIMITIVI) che la sociologia
contemporanea tende a eliminare l’abisso tra mentalità primitiva e mentalità
secondaria o civile. AI di là dei limiti in cui le tecniche razionali gli
consentono il con- trollo degli eventi che lo interessano, limiti, nono- stante
tutto, assai ristretti, l’uomo rivendica di fatto la sua libertà di fede e si
affida a credenze libera- trici o consolatrici e a tecniche che gli promettono
una salvezza immancabile. Che egli possa o non possa ottenere da queste
tecniche ciò che promet- tono, la loro funzione è ben chiara: quella di dargli
speranza e coraggio e di consolidarlo nel suo rap- porto con gli altri uomini e
con il mondo. RES DE RE NON PRAEDICATUR. La massima di Abelardo (riferita da
GIOVANNI DI SA- LIsBuRY, Metalogicus, II, 17), secondo la quale l’universale
non può essere nè una cosa nè una voce ma soltanto un’espressione (sermo)
giacchè solo l’espressione può essere predicata di più cose (v. UNIVERSALE). RESIDUI E DERIVAZIONI (ingl.
Residues and Derivations; franc. Résidus et dérivations). Con questi termini Vilfredo Pareto designò i due
fattori delle teorie non scientifiche che corrispondono ai due fattori delle
teorie scientifiche, cioè alle affer- mazioni sperimentali e alle deduzioni
logiche. I residui sono gli istinti, i sentimenti, gli inte- ressi, ecc., che
costituiscono i materiali delle teorie non scientifiche; e le derivazioni sono
le sistemazioni logiche o pseudologiche date a tale materiale (Traf- tato di
sociologia generale, 1916, $ 803, 850, 870, 1397). Cfr. la discussione di
questa dottrina in TALCOTT Parsons, The Structure of Social Action, 2* ediz.,
1949, pag. 196 sgg. RESIDUI, METODO DEI (ingl. Method of Residues; franc. Méthode des résidus;
ted. Rilck- standsmethode). Uno dei quattro
metodi della ri- cerca sperimentale enumerati da Stuart Mill e pre- cisamente
quello espresso dalla regola: « Sottratta da un fenomeno la parte che si è
riconosciuta, per precedenti induzioni, come l’effetto di certi ante- cedenti,
il residuo del fenomeno è l’effetto dei rima- nenti antecedenti » (Logic, III,
8, $ 5) (v. Concomi- TANZA; (CONCORDANZA; DIFFERENZA). RESIDUO FENOMENOLOGICO
(tedesco Phanomenologische Residuum). Così Husserl ha chia- mato l’essere
proprio della coscienza in quanto «non viene toccato nella sua assoluta essenza
dalla neutralizzazione fenomenologica » cioè dall’epoché (Ideen, I, $ 33).
RESPONSABILITÀ (ingl. Responsibility; franc. Responsabilité; ted. Verantwortlichkeit).
La possibilità di prevedere gli effetti del proprio com- portamento e di
correggere il comportamento stesso in base a tale previsione. La R. è cosa
diversa dalla semplice imputabilità (gr. alzia; lat. Imputatio; in- glese
Imputability; franc. Imputabilité; ted. Zure- chenbarkeit) che significa
l’attribuzione di un’azione a un agente come alla sua causa. Alla nozione di
imputabilità faceva riferimento Platone quando, a proposito della scelta che le
anime fanno del proprio destino affermava: « Ciascuno è la causa della propria
scelta, la divinità non ne è imputabile» (Rep., X, 617e; cfr. Timeo, 42 d).
Wolff definiva l'imputazione come « il giudizio con il quale l’agente è
dichiarato causa libera di ciò che consegue dalla sua azione cioè del bene o
del male che da essa derivano sia a lui stesso sia agli altri » (Phi/osophia
practica, I, $ 527). E questa definizione era sempli- cemente ripetuta da Kant:
«L’imputazione (im- putatio) nel significato morale è il giudizio per mezzo del
quale qualcuno è considerato come au- tore (causa libera) di un’azione che è
sottomessa a leggi e si chiama fatto » (Mer. der Sitten, I, Intr., IV).
L’imputabilità così intesa è un concetto com- pletamente diverso da quello di
responsabilità. Il concetto e il termine di R. sono recenti e compaiono per la
prima volta in inglese e in fran- cese nel 1787 (precisamente compaiono in
inglese nel Federalist di Alessandro Hamilton, folio 64; cfr. R. McKron, in
Revue Internationale de Phi- losophie, 1957, n. 1, pag. 8 sgg.). Il primo
signi- ficato del termine fu quello politico, in espres- sioni come «governo
responsabile» o «R. del governo » che esprimevano il carattere per cui il
governo costituzionale agisce sotto il controllo dei cittadini ed in vista di
questo controllo. In filosofia, il termine fu usato nelle dispute sulla
libertà; e tornò utile soprattutto agli empiristi inglesi che vollero mostrare
l’incompatibilità di un giudizio morale con la libertà e con la ne- cessità
assolute (cfr. Hume, Ing. Conc. Underst.,
VIII, 2; STUART MILL, nota alla Analysis of the Phenomena of the Human Mind di
J. Mit, 1869, II, pag. 325). La
nozione di R. è infatti fondata su quella della scelta e la nozione di scelta è
essen- ziale al concetto della libertà limitata (v. LIBERTÀ). È chiaro infatti
che nel caso della necessità, la previsione degli effetti non potrebbe influire
sul- l’azione; e che tale previsione non potrebbe influire sull’azione nel caso
della libertà assoluta, che fa- rebbe il soggetto indifferente alla previsione
stessa. Il concetto di R. si inscrive pertanto in un deter- minato concetto
della libertà; ed anche nel lin- guaggio comune si dice « responsabile » una
per- sona o si apprezza il suo «senso di R.» quando si vuole indicare che la
persona in questione include, nei motivi del suo comportamento, la previsione
degli effetti possibili del comportamento stesso (cfr. il fascicolo citato
della Revue Internationale de Philosophie e specialmente gli articoli di
McKeon, Abbagnano e Weil. Per la distinzione tra imputa- bilità e R., cfr.
SCHELER, Der Formalismus in der Ethik, 1913, pag. 504 sgg.) (V. INTENZIONE).
RESTRIZIONE (lat. Restrictio; ingl. Restric- tion; franc. Restriction; ted.
Restriktion). A partire dalla logica del xm secolo, la limitazione dell’esten-
sione o denotazione di un termine comune in modo che esso si riferisca a un
numero minore di oggetti designati (cfr. Lamberto di Auxerre, in PRANTL,
Geschichte der Logik, III, pag. 31, n. 130). Pietro Hispano distinse quattro
specie di R.: quella fatta col nome, come quando si dice « uomo bianco » per
cui il termine uomo non sta per (non supponit pro) i negri; con il verbo, come
quando si dice « l’uomo corre » e la proposizione si riferisce solo ai
presenti; quella fatta per participio come quando si dice «l’uomo correndo discute
»; e quella fatta per im- plicazione come nel caso «l’uomo, che è bianco, corre
+ (Summ. Log., 11.02). Il processo inverso è l'ampliamento o estensione.
Hamilton ha chiamato R. il rapporto di subalternazione (v.). RETORICA (ingl.
Rhetoric; franc. Rhétorique; ted. Rhetorik). L’arte di persuadere mediante
l’uso di strumenti linguistici. La R. fu la grande inven- zione dei Sofisti e
Gorgia di Leontini (sec. v a. C.) fu uno dei suoi fondatori. Il dialogo di
Platone che s’intitola a lui insiste sul carattere fondamentale della R.
sofistica: la sua indipendenza dalla dispo- nibilità di prove o argomenti che
producano un reale sapere o una convinzione razionale. Scopo della R. è quello
« di poter persuadere con discorsi i giudici nei tribunali, i consiglieri nel
consiglio, i membri dell’assemblea nell’assemblea e in ogni altra riunione
pubblica» (Gorg., 452 e). Il retore pertanto è abile « nel parlare contro tutti
e su ogni argomento, sicchè riesce, alla maggior parte delle persone, più
persuasivo di ogni altro, rispetto a tutto ciò che vuole» (/bid., 457 a). La R.
così intesa apparve a Platone più vicina all’arte culi- naria che alla
medicina: più diretta ad appagare il gusto che a migliorare la persona (/bid.,
465 c). Ad essa Platone contrappose una R. pedagogica o educativa che fosse
«l'arte di guidar l’anima per via di ragionamenti, non solo nei tribunali e
nelle assemblee popolari ma anche nelle conversazioni private » (Fedr., 261 a):
ma la R. così intesa si identifica con la filosofia. Platone pertanto non
riservò alla R. una funzione specifica. Riconobbe invece tale funzione
Aristotele che considerò la R. in stretta connessione con la dialettica e come
la controparte di essa (Rer., I, 1, 1354 a 1). La R. è, secondo Aristotele, «la
facoltà di considerare in ogni caso i mezzi disponibili di persuasione +
(/bid., I, 2, 1355 b 26). Mentre ogni altra arte può istruire o persuadere
soltanto intorno ai suoi propri og- getti, la R. non è limitata da una speciale
sfera di competenza ma considera i mezzi di persuasione che si riferiscono a
tutti gli oggetti possibili (/bid., I, 2, 1355 b 26). La R. pertanto desume
dalla Topica la considerazione degli argomenti probabili (che sono appunto
quelli che hanno la capacità di per- suadere) e fornisce le regole per l’uso strategico
di tali argomenti. Questo concetto della R. stabilito da Aristotele è prevalso
per molti secoli. L’umanesimo sotto- lineò l’importanza della R. cui però
intese rico- noscere, sull’esempio platonico e ciceroniano, un valore
sostanziale (cfr. Testi umanistici sulla R. di M. Nizolio, F. Patrizi, P. Ramo,
a cura di E. GARIN, P. Rossi, C. VasoLI, 1953). Con Pietro Ramo, il compito
della R. ritorna ad essere sostan- zialmente quello aristotelico: «La tecnica
della persuasione che Ramo indaga nei testi ciceroniani, questa capacità di
volgere il linguaggio alle espres- sioni più compiute e tecnicamente elaborate
dev’es- sere però sempre unita all’esercizio della filosofia, alla quale resta
affidata, per mezzo della dialettica, la costruzione essenziale di tutti i
princìpi cono- scitivi. Perciò alla R. intesa nel significato più tecnico e
particolare, il Ramo concederà soltanto 750 le due funzioni propedeutiche della
e/ocutio e della pronunciatio... laddove invece affiderà alla dialettica contro
le pretese di Quintiliano e di Ci- cerone il compito di organizzare la vera
sostanza del discorso logico » (C. VasoLI, Op. cit., pag. 117- 118). Dopo la
fioritura del Rinascimento le sorti della R. decaddero sino alla quasi completa
eclissi che essa subì nel sec. xIx. Il dogmatismo razio- nalistico iniziato da
Cartesio e diventato massiccio nell’800, fu la causa maggiore della decadenza
della retorica. Dove la ragione è tutto e può tutto, un’arte che voglia cercare
gli strumenti della per- suasione è ovviamente fuori luogo. Perciò non fa
meraviglia che con l’abbandono del dogmatismo razionalistico la R. torna oggi
agli onori della ri- balta nel senso classico di arte della persuasione ma con
l’avvertimento moderno della molteplicità delle condizioni a cui l’arte della
persuasione deve guardare. Il Traité de l’argumentation di Perelman e
Olbrechts-Tyteca (1958) s’inizia con le seguenti parole: «La pubblicazione di
un trattato consa- crato all’argomentazione e il suo riattaccarsi a una vecchia
tradizione, quella della R. e della dialettica greca, costituiscono una rottura
con una conce- zione della ragione e del ragionamento, originata da Cartesio,
che ha impresso il suo sigillo sulla filosofia occidentale dei tre ultimi
secoli ». Non c’è alcun dubbio sulla correttezza di questa osserva- zione. Se
la ragione è infallibile e la ricerca umana può essere affidata in ogni campo
alle sue infalli- bili regole, non c’è posto per la R. che è l’arte della
persuasione. Ma se nella sfera del sapere umano la parte dell’incerto, del
probabile, dell’approssi- mativo è assai grande, la persuasione può avere la
sua funzione e l’arte di essa può essere coltivata. RETRODUZIONE (ingl.
Retroduction). Ter- mine introdotto da Peirce per indicare il primo stadio
della ricerca, che procede, come l’induzione, dal conseguente all’antecedente
ma è compiuto in modo spontaneo cioè senza un metodo rigoroso («Reality of
God», in Values in a Universe of Chance, pag. 368 sgg.) (v. ABDUZIONE).
RETROSPEZIONE (ingl. Retrospection; fran- cese Rétrospection). Bergson ha
indicato con questo termine la tendenza a «rigettare nel passato, allo stato di
possibilità o di virtualità, le realtà attuali » (La pensée et le mouvant, 3°
ediz., 1934, pag. 26). RETTITUDINE (gr. èp96mne, xarépwor; lat. Rectitudo;
ingl. Rectitude; franc. Rectitude; ted. Rechtlichkeit). Il criterio o la misura
razionale delle cose, cioè il principio per giudicarle. Platone dice, ad es.,
che «La R. del nome è quella che mostra quale la cosa sia » (Crat., 428 e),
intendendo che questo è il criterio per giudicare della giustezza del nome.
Aristotele usa nello stesso senso l’espres- sione retta ragione (èp8dc Xbyoc) e
identifica la retta ragione con la saggezza (Er. Nic., VI, 13, 1144 b 23). Ma
furono soprattutto gli Stoici a dare un significato tecnico al termine
intendendo per essa «la convenienza o il bene stesso, che consiste nel
raggiungere l’accordo con la natura » (Cicer., De Fin., III, 14, 45). Poichè
l’accordo con la natura è il criterio di ogni valutazione la R. non è che
questo criterio. In un senso analogo, Duns Scoto chiamò rectitudines le
proposizioni teologiche in quanto forniscono la conoscenza del retto com-
portamento dell’uomo di fronte a Dio (Op. Ox., Prol., q. 4, n. 31). Ai nostri
giorni Heidegger ha contrapposto la R. alla verità intesa come rivelazione
dell’essere. Se- condo Heidegger, fu Platone a far prevalere per la prima volta
il concetto della verità come R. cioè come criterio del giudizio umano ed è
stato per- tanto Platone a preparare il terreno per la nascita del
soggettivismo moderno (« Die Zeit des Welt- bildes », 1938, in Holzwege, 1950,
pag. 84). REVERSIBILE (ingl. Reversible; franc. Ré- versible; ted. Umkehrbar).
Si qualificano con questo termine i processi che non hanno un senso definito
(v. IRREVERSIBILE). RICERCA (gr. tnenows; lat. Investigatio, Inqui- sitio;
ingl. Inquiry; franc. Recherche; ted. Unter- suchung). Per quanto il concetto
di R. si connetta spesso strettamente con quello di filosofia (come accade in
Platone, cfr. ad es., Teet., 196 d; Men., 81 e), difficilmente la R. stessa è
stata fatta oggetto di indagine filosofica. Nel mondo moderno Dewey ha
considerato la logica come teoria della ricerca. « Tutte le forme logiche, egli
ha detto, con le loro proprietà caratteristiche, nascono attra- verso il lavoro
di R., e concernono il controllo della R. in vista della attendibilità delle
asserzioni prodotte +». In questo senso «la R. sulla R. è causa cognoscendi
delle forme logiche mentre l’indagine primitiva è causa essendi delle forme
rivelate da quell’indagine » (Logic, 1939, I; trad. ital., pag. 34). La R. è
definita da Dewey come «la trasforma- zione controllata o diretta di una
situazione indeter- minata in altra che sia determinata, nelle distinzioni e
relazioni che la costituiscono, in modo da con- vertire gli elementi della
situazione originaria in una totalità unificata » (Logic, VI; trad. ital., pa-
gina 157). RICETTIVITÀ (ingl. Receptivity; franc. Ré- ceptivité; ted.
Receptivitàt). La possibilità delle af- fezioni (v.) cioè di accogliere o
subire azioni. In questo senso Kant considera la sensibilità come «la R. del
nostro animo a ricevere rappresentazioni cioè a subire affezioni in un modo
qualunque » (Crit. R. Pura, Log. trasc., Intr., I). Lo stesso che passività. È
il contrario di spontaneità (v.) o atti- vità (v.). RIFLESSIONE
RICONCILIAZIONE. V. Sintesi. RICONOSCIMENTO (ingl. Recognition; franc.
Reconnaissance; ted. Anerkennung). 1. In generale, conoscere qualcosa per
quella che è. In questo senso si dice, per es.: «L'ho riconosciuto per un
ladro» Oppure «Riconosco la giustezza di questa osservazione ». 2. Uno degli
aspetti costitutivi della memoria in quanto ad essa gli oggetti sono dati come
già pre- cedentemente conosciuti (v. MEMORIA). RICORDO. V. MEMORIA. RICORRENZA
(ingl. Recurrence; franc. Récur- rence; ted. Recurrenz). 1. Ciò che torna ad
accadere o si ripete a intervalli, regolari o irregolari. In questo senso si
dice ricorrente un evento che si ripete pressapoco allo stesso modo, ad
intervalli di tempo. 2. Si chiama anche con questo termine il ragio- namento
riflessivo o auto-referentesi che dà luogo alle antinomie logiche (v.
ANTINOMIE). 3. In matematica, s'intende per « ragionamento per R. » il
principio dell’induzione matematica (vedi INDUZIONE MATEMATICA). RICORSO. Vico
intese con questo termine il ritorno della storia sui suoi passi che si
verifica quando i rimedi che la Provvidenza dispone contro la corruzione degli
stati vengano meno o non agi- scano efficacemente. Il R. consiste nel
rinselvati- chirsi degli uomini, nel loro ritorno alla durezza della vita
primitiva che li disperde e falcidia, finchè il poco numero degli uomini
rimasti e l'abbondanza delle cose necessarie alla vita rendono possibile la
rinascita di un ordine civile, di nuovo fondato sulla religione e la giustizia
(Scienza Nuova, 1744, Conclusione). RIDUCIBILITÀ, ASSIOMA DI. V. ANTI- NOMIE.
RIDUZIONE (ingl. Reduction; franc. Réduc- tion; ted. Reduktion). 1. La
trasformazione di un enunciato in un altro equipollente più semplice o più
preciso o tale che riveli la verità o la falsità dell’enunciato originario. Si
parla pure di «R. della scienza ai termini dell’esperienza immediata» (Quine,
From a Logical Point of View, II, 5), o di R. delle estensioni alle intensioni
o delle classi a proprietà (CARNAP, Meaning and Necessity,$ 23, 33). 2. La
spiegazione che consiste nel considerare certi ordini di fenomeni come soggetti
alle leggi, meglio stabilite o più precise, di un altro ordine di fenomeni; per
es., quella che consiste nel con- siderare i fenomeni organici come soggetti
alle leggi dei fenomeni fisici e questi ultimi come soggetti alle leggi dei
fenomeni meccanici. Su questo tipo di spiegazione, cfr. E. NAGEL, « The Meaning
of Reduction in the Natural Sciences», 1949, in Science and Civilisation, ed.
R. T. Staufer, 1949, pag. 99-138). 3. Per R. fenomenologica Husserl intese la
stessa epoché fenomenologica cioè la neutralizzazione del- l’atteggiamento
naturale o la messa in parentesi del mondo (/deen, I, $ 56 sgg.). Talvolta, più
parti- colarmente, intese per R. il momento positivo dell’epoché cioè quello
della riflessione interna sul- l’atto, che cerca di cogliere l’atto stesso
nella sua intenzionalità (cfr. specialmente Die XKrisis der europàischen
Wissenschaften, 1954, pag. 247). 4. Per R. ai principi, v. RITORNO, 2.
RIFERIMENTO (ingl. Reference; franc. Ré- férence; ted. Bericht). x. In generale
l’atto di porre un oggetto qualsiasi in una relazione qualsiasi con un altro
oggetto. In questo senso il termine ha un significato assai esteso: uno stesso
oggetto, per es., un comportamento può essere riferito al suo au- tore, ai suoi
effetti, al suo fine, alle sue intenzioni, alle sue condizioni, ecc. Il senso
specifico del R., cioè della relazione che esso stabilisce, è di volta in volta
chiarito o suggerito dal contesto. 2. Più particolarmente, si chiama R. l’atto
che stabilisce il rapporto tra il simbolo e il suo oggetto, cioè l’atto
dell’interpretazione (v.). Sono stati so- prattutto Ogden e Richards a
diffondere in questo senso l’uso del termine. Essi identificarono addi- rittura
il R. con il pensiero ed entrambi con quello che essi chiamarono il significato
conoscitivo (The Meaning of Meaning, 103 ediz., 1952, pag. 9 sgg.). Nell'ambito
di questo significato, gli stessi autori hanno chiamato referendo (referend) il
veicolo o lo strumento di un atto di R. e referente (referent) l’oggetto verso
il quale l’atto di R. è diretto. RIFIUTO, GRAN (ingl. Great Refusal; fran- cese
Grand Refus). Il R. della realtà in favore dell’immaginazione, e delle
possibilità che essa scopre, nell’arte. In tal senso l’espressione fu ado-
perata da André Breton nel primo manifesto dei surrealisti (1924) (Les
manifestes du surréalisme, 1946). L'espressione è stata fatta propria da H.
Mar- cuse per indicare « la protesta contro la repressione superflua, la lotta
per la forma definitiva di libertà: il vivere senza angoscia» (Eros and
Civilization, 1954, cap. VII). V. UTOPIA. RIFLESSA, AZIONE. V. AZIONE RIFLESSA.
RIFLESSIONE (ingl. Reffection; franc. Ré- flexion; ted. Reflexion). In generale
l’atto o il pro- cedimento con il quale l’uomo prende a considerare le sue
stesse operazioni. Questo concetto è stato determinato in tre modi e cioè: 1°
come cono- scenza che l’intelletto ha di sè; 2° come coscienza; 3° come
astrazione. 1° Aristotele, per quanto non usi il termine R., ammette il fatto
ovvio che l'intelletto « può pen- sare se stesso» (De An., III, 429 b 9). Gli
Scola- stici espressero questa possibilità con il termine «R.s. S. Tommaso
dice: « Poichè l’intelletto ri- flette sopra se stesso, esso intende, secondo
questa R., sia il suo intendere sia la specie mediante la quale intende » (S.
Th., I, q. 85, a. 2). Egli attribuisce anche alla R. una funzione specifica
giacchè l’in- telletto che ha per suo oggetto proprio l’universale, non può
intendere il particolare se non riflettendo su se stesso e considerando ciò da
cui astrae l’uni- versale (/bid., I, q. 86, a. 1). La R. tuttavia non è dagli
Scolastici ritenuta fonte autonoma di cono- scenza. Ciò accade per la prima
volta solo con Locke. 2° Con Locke, s°inizia il concetto della R. come
coscienza. Secondo Locke, la seconda delle due fonti principali (la prima
essendo la sensazione) dalle quali l’intelletto trae le sue idee è la R., in-
tesa come «la percezione delle operazioni che l’anima nostra compie dentro di
sè sulle idee che ha ricevuto mediante i sensi: operazioni che, di- ventando
l’oggetto delle R. dell’anima, producono nell’intelligenza un’altra specie di
idee che gli og- getti esterni non le avrebbero potuto fornire e tali sono le
idee di ciò che si chiama percepire, pensare, dubitare, credere, ragionare,
conoscere, volere, ecc. ». (Saggio, II, 1, 4). Locke chiama pure senso interno
la R.: la quale, in questo senso non è altro che la coscienza, col quale nome
fu spesso chiamata dai filosofi inglesi posteriori. La definizione di Vauve-
nargues « La R. è la potenza di ripiegarsi sulle idee, di esaminarle, di
modificarle o di combinarle in diversi modi: essa è gran principio del
ragionamento, del giudizio, ecc. » (Intr. à la connaissance de l’esprit humain,
1746, I, 2) e quella di Leibniz «La R. non è altro che l’attenzione a ciò che è
in noi, mentre i sensi non ci danno affatto ciò che noi portiamo già con noi»
(Nouv. Ess., Avant- propos) danno lo stesso significato: la R. è coscienza. Con
questo termine, appunto, essa veniva definita da Kant. «La R. (reffexio), egli
diceva, non mira agli oggetti stessi per acquistarne direttamente i con- cetti,
ma è quello stato dello spirito in cui comin- ciamo a disporci a scoprire le
condizioni soggettive che ci rendono possibile arrivare ai concetti. Essa è la
coscienza della relazione tra le rappresentazioni date e le varie fonti di
conoscenza » (Crit. R. Pura, Analitica dei Principi. Anfibolia dei concetti
della riflessione). Kant distingueva inoltre la R. /ogica, che è il semplice
confronto delle rappresentazioni fra di loro, dalla R. trascendentale che si
dirige agli oggetti stessi e contiene « la ragione della possibilità del
paragone oggettivo delle rappresentazioni tra loro. La R. trascendentale ha
perciò per oggetto i concetti di identità-diversità, di concordanza- posizione,
di interno-esterno, di materia-forma, che per l’appunto forniscono il
fondamento di ogni possibile confronto tra le rappresentazioni » (/bid.). Il
carattere attivo e creativo della R., che porta alla luce la vera natura di ciò
su cui indaga e perciò in qualche modo produce tale natura, fu uno dei punti
fondamentali della filosofia di Hegel: « Poichè nella R. si ottiene la vera
natura e questo pensiero è mia attività, così quella vera natura è parimenti il
prodotto del mio spirito, cioè del mio spirito come Soggetto pensante, di me
nella mia semplice uni- versalità, come Io che è senz’altro da sè, ossia della
mia libertà » (Enc., $ 23). Una funzione me- tafisica fu attribuita alla R.
anche da Maine de Biran: «Chiamo R., egli disse, la facoltà per la quale lo
spirito appercepisce in un gruppo di sensazioni o in una combinazione di
fenomeni i rapporti comuni di tutti gli elementi con una unità fondamentale,
per es., di più modi o qualità con l’unità di resi- stenza, di più effetti
diversi con una medesima causa, di modificazioni variabili con lo stesso io o
soggetto, ecc.» (Fondements de la psychologie, ed. Naville, II, pag. 225). Nè
molto diverso da questo significato è quello attribuito al termine da Husserl
quando afferma: « Ogni cogifatio può di- ventare oggetto di una cosiddetta
percezione in- terna e successivamente oggetto di una valutazione riflessa, di
approvazione o disapprovazione, ecc.» (Ideen, I, $ 68). In questo senso la R. è
quella che Husserl chiama la percezione immanente, cioè la percezione che
costituisce un’unità immediata con il percepito, ed è la coscienza stessa
(/bid., $ 68). Husserl ha pure distinto la R. naturale, che si ef- fettua nella
vita comune dalla R. fenomenologica o trascendentale che si fa praticando
l’epoché (v.) universale quanto alla esistenza o alla non-esistenza del mondo
(Carr. Med., $ 15). 3° Il terzo concetto della R., è quello che la considera
come astrazione e precisamente astra- zione falsificatrice. Questo concetto
della R. fu proprio dell’idealismo romantico. Cominciò con Fichte, che vide
nella R. l’atto con cui l’io con- sidera se stesso come limitato dall’oggetto:
« L’Io ha in sè la legge di riflettere sopra se stesso come riempiente
l’infinito. Ma esso non può riflettere sopra se stesso, e in generale su nulla,
se ciò su cui riflette non è limitato. Il compimento di questa legge è dunque
condizionato e dipende dall’og- getto » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 8). Come
Schel- ling chiariva, la R. è in questo senso un’astrazione perchè porta a
separare l’oggetto dell'Io dall’Io stesso, mentre in realtà l'oggetto non è
altro che un prodotto dell’Io. « Quella separazione dell’atto dal prodotto si
chiama nell’uso ordinario del lin- guaggio astrazione. Come prima condizione
della R. compare dunque l’astrazione » (System des trans- zendentalen
Idealismus, III, epoca III, I; trad. ital., pag. 179). Hegel a sua volta,
mentre esaltava (come si è visto) la R. come attività che non solo mette in
luce ma produce la natura razionale delle cose che investiga, riteneva
falsificatore l’intelletto ri- flettente. « Per l’intelletto riflettente o
riflessivo è da intendere in generale l'intelletto astraente, e con ciò
separante, che persiste nelle sue separazioni. Volto contro la ragione, codesto
intelletto si com- porta come l’ordinario intelletto umano o senso comune e fa
valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile; che i
pensieri siano soltanto pensieri, nel senso che la percezione sen- sibile dia
loro sostanza e realtà; e che la ragione in quanto resta in sè e per sè non
produca altro che sogni » (Wissenschaft der Logik, Intr.; trad. ital., I, pag.
27). In altri termini la R. è caratterizzata dalla separazione tra concetto e
realtà, separazione che è una falsa astrazione; mentre la ragione è ca-
ratterizzata dalla identità di concetto e realtà. In tal modo, per Hegel, la
filosofia della R. è quella del senso comune, che culmina nella filosofia di
Kant la quale afferma l’inconoscibilità della cosa in sè. Nella filosofia contemporanea
il termine è usato prevalentemente nel significato 2° ed ha perciò come
sinonimi i termini «consapevolezza », « co- scienza », « introspezione », «
senso interno +, « osser- vazione interiore ». RIFLESSIVA, PSICOLOGIA. V.
Psico- LOGIA, B). RIFLESSIVITÀ (ingl. Reflectivity; franc. Ré flexivité; ted.
Reflectivitàt). Il carattere di una re- lazione non aliorelativa: cioè tale che
un termine può averla con se stesso. Per es., la relazione non più grande di è
riflessiva (v. RELAZIONE). RIFLETTENTE E DETERMINANTE (ingl. Reflecting and
Determinant; franc. Réfléchis- sant et déterminant; ted. Reflectierend und Bestim- mend). Giudizio
determinante e giudizio R. sono, secondo Kant, i due modi d’azione della
facoltà
del giudizio (v. GIUDICATIVA, FACOLTÀ).
In genere, secondo Kant, il giudizio è «la facoltà di pensare il particolare
come contenuto nel generale ». Se è dato il generale (la regola, il principio,
la legge) il giudizio che opera la sussunzione del particolare è determinante.
Se invece è dato il particolare e il giudizio vi vede trovare il generale, esso
è sempli- cemente R. (Crit. del Giud., Intr., $ Iv). « Giudizio determinante »
significa giudizio che determina o costituisce l’oggetto: come fa, secondo Kant,
il giudizio intellettuale (considerato nella Critica della Ragion Pura) il
quale per l’appunto forma l’oggetto empirico unificando secondo le categorie il
materiale dell’esperienza. « Giudizio R.» significa giudizio che trova già
costituito l’oggetto e perciò deve limitarsi a riflettere su di esso per
trovare il modo di subordinarlo ad una unità o legge che è però semplicemente
soggettiva: come fa da un lato il giudizio di gusto, che giudica gli oggetti
secondo il criterio del bello, e dall’altro il giudizio te- 48 — ABBAGNANO,
Disionarin di filosofia. leologico che giudica gli oggetti secondo il criterio
de fine. RIFORMA (ingl. Reformation; franc. Réfor- mation; ted. Reformation).
Il rinnovamento della vita religiosa avvenuto nell’Europa del sec. xvi mediante
il ritorno alle origini del Cristianesimo. Preparata dall’umanista Erasmo da
Rotterdam (1466-1536) la R. fu iniziata dall’opera del monaco agostiniano
Martin Lutero (1483-1546) che nel 1517 affiggeva, alle porte della Cattedrale
di Wittenberg, 95 tesi contro la vendita delle indulgenze. Nel suo indirizzo
complessivo la R. protestante appare come una delle vie di realizzazione di
quel ritorno ai principi che fu l’emblema del Rinascimento (v.). Nel dominio
religioso, il ritorno ai principi por- tava a negare il valore della tradizione
e quindi della Chiesa che se ne riteneva la depositaria e l’interprete. Nello
scritto Contro Enrico VIII d'In- ghilterra (1522) Lutero contrapponeva alla
tradi- zione ecclesiastica, e a tutti i riti e le glosse che essa aveva
accumulato nei secoli, il ritorno diretto alla parola di Cristo, cioè al
Vangelo. L’insegna- mento fondamentale del Vangelo è secondo Lutero la
giustificazione per mezzo della fede la quale im- plica due corollari
fondamentali: 1° la negazione del valore delle opere cioè delle tecniche
religiose (riti, sacrifici, cerimonie) e la riduzione dei sacra- menti a quelli
di cui la Bibbia fa menzione cioè battesimo, penitenza ed eucarestia, anch'essi
però sottratti a ogni giurisdizione sacerdotale e consi- derati come
espressione del diretto rapporto del- l’uomo con Dio. Al culto sacerdotale,
Lutero con- trappose l’esercizio dei doveri civili come l’unico «servizio
divino » che abbia valore religioso; 2° la negazione della libertà umana e il
riconoscimento della predestinazione da parte di Dio. La fede è il segno sicuro
di questa predestinazione e quindi l’indizio della salvezza (De Libertate
Christiana, 1520). Su questo punto nacque la polemica tra Erasmo e Lutero: alla
Diatribe de libero arbitrio (1524) di Erasmo, Lutero rispondeva col De servo
arbitrio (1525) nel quale ribadiva il carattere imper- scrutabile della scelta
divina (cfr. PREDESTINAZIONE). Delle altre due principali figure della R.
prote- stante Ulrico Zuinglio (1484-1531) e Giovanni Cal- vino (1509-64), il
primo si spinse al di là di Lutero nella negazione delle forme religiose
tradizionali, attribuendo allo stesso sacramento dell’eucarestia un valore
puramente simbolico e negando l’obbe- dienza passiva all’autorità politica; il
secondo con- siderò il ritorno ai princìpi specialmente come ri- torno alla
religiosità del Vecchio Testamento. Nella sua /stituzione della religione
cristiana (pubblicata in latino nel 1536 e in francese nel 1541: questa
traduzione è il primo testo letterario della prosa francese) Calvino si propose
infatti di mostrarel’unità del Vecchio e del Nuovo Testamento e riprese
specialmente da esso il principio che la buona riuscita nelle faccende della
vita è una prova evidente del favore di Dio, un segno della sua pre- dilezione.
Fu specialmente questo principio a fare dell’etica calvinista l’ispiratrice
della nascente bor- ghesia capitalistica; del suo spirito attivo e aggres-
sivo, sprezzante d’ogni sentimento e teso alla buona riuscita degli affari.
RIGORISMO (ingl. Rigorism; franc. Rigorisme; ted. Rigorismus). Nella
terminologia religiosa del sec. xvili R. si oppose a /assismo e designò il
punto di vista di coloro (specialmente Giansenisti e Padri dell’oratorio) che
maggiormente erano ostili al prin- cipio della morale rilassata (cfr. BAYLE,
Dictionnaire historique et critique, art. « Rigoristes +). Secondo Kant si
chiamano di solito rigoristi coloro che non ammettono « alcuna neutralità
morale (adiaphora) nè negli atti, nè nei caratteri umani» mentre si chiamano
latitudinari gli altri (Religion, I, Osservazione). Lo stesso Kant però (nello
stesso passo) mostra di ac- cogliere per conto suo il principio rigoristico:
sicchè non a torto si è parlato e si parla di «R. morale» a proposito della
dottrina morale kantiana. RILEVANTE (ingl. Relevant; franc. Relevant; ted.
Bedeutend). Si chiama R. un enunciato signifi- cante, specie se è importante
per il significato com- plessivo del contesto in cui ricorre. Si chiamano
talora R. anche gli elementi di fatto importanti per il giudizio di una
situazione determinata. RIMORSO (ingl. Remorse; franc. Remords; ted. Reue) (v.
PENITENZA). RINASCIMENTO (ingl. Renaissance; fran- cese Renaissance; ted.
Renaissance). S’intende con questo termine il movimento letterario, artistico e
fi- losofico che va dalla fine del sec. x1v alla fine del se- colo xvi e che si
diffuse dall’Italia negli altri paesi d'Europa. La parola e il concetto di R.
hanno ori- gine religiosa, come è stato accertato dagli studi di Hildebrand,
Walser e Burdach: rinascita è la seconda nascita, la nascita dell’uomo nuovo o
spi- rituale di cui parlano l’Evangelo di S. Giovanni e le Lettere di S. Paolo.
Concetto e parola si con- servano per tutto il Medio Evo a indicare il ritorno
dell’uomo a Dio, la sua restituzione a quella vita che egli ha perduto con la
caduta di Adamo. A partire dal sec. xv la parola viene invece usata per
indicare un rinnovamento morale intellettuale e politico ottenuto attraverso il
ritorno ai valori di quella civiltà in cui si ritiene che l’uomo abbia trovato
la sua realizzazione migliore, cioè alla ci- viltà greco-romana. Il R. fu
pertanto portato a sottolineare polemicamente la sua propria dif- ferenza di
orientamento dall’età medievale, nel suo tentativo di rapportarsi all’età
classica e di desumere direttamente da essa l'ispirazione delle RIGORISMO
proprie attività. D’altra parte però non mancano gli elementi di continuità tra
il R. e il Medio Evo; e molti dei problemi preferiti da umanisti e filo- sofi
del R., sono gli stessi di quelli dibattuti nel Medio Evo come sono le stesse
le soluzioni. Si spiega quindi perchè l’interpretazione del R. è oscillata fra
i due estremi di una contrapposizione radicale tra Medio Evo e R. o di una loro
intrinseca continuità. La prima posizione fu assunta da Jacopo Burckhardt (Die Kultur
der Renaissance in Italien, 1860) e ripetuta e amplificata da Gentile e dai
suoi scolari. Laseconda concezione si ispira soprattutto all’opera di K.
Burdach (Vom Mittelalter zu Refor- mation, Renaissance, Humanismus, 1926*), ed
è stata portata alla sua forma estrema da G. Toffanin (Storia dell’ Umanesimo,
1933). I caratteri fondamen- tali dell’età del R. possono essere brevemente
rica- pitolati nel modo seguente: 1° L’umanesimo cioè il riconoscimento del va-
lore dell’uomo e la credenza che l’umanità si è realizzata nella sua forma
perfetta nell’antichità classica (v., su questo punto, UMANESIMO). 2° Il
rinnovamento religioso effettuato o con il tentativo di ricollegarsi a una
rivelazione originaria cui si sarebbero ispirati gli stessi filosofi classici,
come fa il platonismo (Cusano, Pico, Ficino); o mediante il tentativo di
rifarsi alle fonti originarie del Cri- stianesimo saltando a piè pari la
tradizione medie- vale, come fa la Riforma protestante (v. RIFORMA). 3° Il
rinnovamento delle concezioni politiche ef- fettuato col riconoscimento
dell’origine umana o naturale delle società e degli stati (Machiavelli) o col
tentativo di ritornare alle forme storiche ori- ginarie o alla natura delle
istituzioni sociali [giusna- turalismo (v.)]. 4° Il naturalismo cioè il risorto
interesse per l’indagine diretta della natura che si manifesta sia
nell’aristotelismo, negli indirizzi magici, sia nella metafisica della natura
(Campanella e Bruno) sia nel primo affermarsi della scienza moderna. Sul R.
cfr. la Bibliografia di H. BARON, « Renais- sance in Italien», in Archiv fiir
Kulturgeschichte, 1927, 1931. Cfr. specialmente E. Cassirer, Indi- viduo e
cosmo nella filosofia del R., e gli scritti di E. Garin (in particolare: Medio
Evo e R., 1954). RIPETIZIONE (ingl. Repetition; franc. Ré- pétition; ted.
Wiederholung). 1. Termine introdotto nella terminologia esistenzialistica da
Kierkegaard che, per chiarirne il significato lo avvicinava alla espressione
aristotelica quod quid erat esse (v. Es- SENZA; Sosranza). Tale espressione che
alla let- tera significa ciò che l’essere era esprime infatti la necessità e
immutabilità dell’essere, il suo ripetersi. Kierkegaard si è servito del
concetto soprattutto per descrivere la natura della vita etica: a diffe- renza
della vita estetica, la quale cerca di evitare la R. e vuole ad ogni istante la
novità (perciò è simbolizzata da Don Giovanni) la vita etica si fonda sulla
continuità, sulla scelta ripetuta che l’individuo fa di se stesso e del proprio
compito, perciò è simboleggiata dal matrimonio (Die Wieder- holung, 1843; cfr.
Diario, IV, A, 156). Heidegger a sua volta ha utilizzato il concetto per
caratterizzare l’esistenza autentica, quale si realizza nell’angoscia.
L’angoscia, in quanto libera l'uomo « dalle possi- bilità nulle e lo fa libero
per quelle autentiche » consiste nel riprendere, per l'avvenire, le possibilità
che sono già state nel passato: il che è appunto la R. (Sein und Zeit, $ 68b).
R. è da questo punto di vista la decisione autentica. « La R. è l’esplicito
tramandamento cioè il ritorno su possibilità del- l’Esserci che è già stato.
L’autentica R. di una possibilità di esistenza già stata, il fatto che l’Es-
serci si scelga i suoi eroi, si fonda esistenzialmente nella decisione
anticipatrice; perchè è in essa che viene primariamente scelta la scelta la
quale rende liberi per la lotta successiva e per la fedeltà a ciò che è da
ripetere » (/bid., $ 74). Ciò vuol dire che la decisione autentica, in cui
consiste la storicità dell’esistenza umana, è una R. o almeno (come Heidegger
dice nello stesso luogo) una replica di possibilità passate. 2. Nella filosofia
della scienza, il concetto di R. viene adoperato per esprimere il fondamento di
ogni proposizione induttiva: la quale sarebbe (se- condo la dottrina di Hume)
l’espressione di una R. di casi (cfr. Hume, Ing. Conc. Underst., V, 1). Da
questo punto di vista, la R. è stata assunta spesso come la giustificazione
delle proposizioni universali. K. Popper ha fatto la critica di questa dottrina
che egli chiama «dottrina del primato della R.» (The Logic of Scientific
Discovery, 1959, pag. 420 segg.) (v. INDUZIONE; TEORIA). RISCHIO (gr. xivòuvoc;
ingl. Risk; francese Risque; ted. Wagniss, Gefahr). In generale, l’aspetto
negativo della possibilità, il poter non essere. La no- zione ricorre
frequentemente nelle filosofie in cui il riconoscimento del possibile come tale
trova posto: come in quella di Platone e degli esistenzialisti con- temporanei.
Aristotele considerava il R. come «l'avvicinarsi di ciò che è terribile »
(Rer., II, 5, 1382 a 33). Platone considerava il R. come inerente
all'accettazione di certe ipotesi o credenze e lo considerava « bello » (Fed.,
114 d). Nell’esistenzia- lismo il R. è considerato inerente alla scelta che
l'io fa di se stesso, e ad ogni decisione esistenziale (cfr. Jaspers, Phil.,
II, pagina 180, 403, ecc.) L’accettazione del R. implicito in questa scelta è
uno dei punti cardini dell’esistenzialismo con- temporaneo: «La pretesa
implicita nella decisione è fondata su di una indeterminazione effettiva cioè
sulla possibilità che le cose si svolgano diver- samente da ciò che io decido;
ma è anche fondata sull’assunzione, da parte di me che decido, di questo R. e
sulla considerazione di tutte le possibili garanzie che posso conseguire +
(ABBAGNANO, /ntro- duzione all’esistenzialismo, 4* ediz., 1957, I, 3).
RISENTIMENTO (ingl. Resentment; fran- cese Ressentiment; ted. Ressentiment).
L’odio im- potente contro ciò che non si può essere o non si può avere. La
nozione è stata per la prima volta introdotta da Nietzsche nella Genealogia
della mo- rale (1887): « La rivolta degli schiavi nella morale contemporanea,
dice Nietzsche, comincia quando il R. stesso diviene creatore e genera valori;
il R. di quegli esseri ai quali la vera reazione, quella del- l’azione, è
negata e che perciò non trovano com- penso che in una vendetta immaginaria »
(Genealogie der Moral, I, $ 10). La morale cristiana è, secondo Nietzsche,
frutto del R. in questo senso: è una manifestazione dell’odio contro i valori
propri della casta superiore aristocratica, inaccessibili agli in- dividui
inferiori. Un’altra manifestazione del R. è, secondo Nietzsche, la rabbia
segreta dei filosofi contro la vita per cui la filosofia è stata finora « la
scuola della calunnia »: la calunnia s'intende del mondo reale o sensibile al
quale i filosofi hanno cercato di sostituire il mondo ideale della meta- fisica
e della morale (Wille zur Mackht, ediz. 1901, $ 259, 287). A sua volta Scheler
ha insistito sulla azione del R. nel campo morale, pur negando che esso possa
applicarsi alla concezione cristiana cui Nietzsche si riferiva. Non l’amore
cristiano, ma l’umanitarismo e l'altruismo moderni sono, se- condo Scheler, un
prodotto del risentimento. Il concetto di uguaglianza fra gli uomini,
l’afferma- zione del soggettivismo dei valori e la subordinazione di tutti i
valori a quelli di utilità sono, secondo Scheler altri tre prodotti del R.
nella vita moderna (Uber Ressentiment, 1912; trad. franc., 1958) (cfr. R. K.
MERTON, Social Theory and Social Structure, 2% ediz., 1957, pag. 155 sgg.).
RISERVA (lat. Reservatio; ingl. Reservation; franc. Restriction; ted.
Reservation). Uno dei punti tipici della casistica cattolica del xvi secolo e
del probabilismo o lassismo: la tesi che una deliberata menzogna non impegna
chi la pronunzia e non è peccato. Nella IX delle sue Lettere provinciali (1656)
B. Pascal faceva una critica famosa di questa tesi. RISPETTO (gr. alc; lat.
Respectus; inglese Respect; franc. Respect; ted. Achtung). Il riconosci» mento
della dignità propria o altrui e il compor- tamento fondato su questo
riconoscimento. Demo- crito per primo ha fatto del R. il principio dell’etica:
« Non devi aver R. per gli altri uomini più che per te stesso nè agir male
quando nessuno lo sappia più che quando tutti lo sappiano; ma devi avere per te
stesso il massimo R. e imporre alla tua anima questa legge: non fare ciò che
non si deve fare » (Fr., 264, Diels). Nel discorso con cui Pro- tagora espone,
nel dialogo omonimo di Platone, l’origine della società umana è detto che
«Zeus, temendo che l’intera nostra stirpe si estinguesse, mandò Ermes a portare
fra gli uomini il R. reci- proco e la giustizia affinchè fossero princìpi ordi-
natori delle città e creassero fra i cittadini vincoli di benevolenza » (Prot.,
322 c). Il R. reciproco e la giustizia, sono, così intesi, i due ingredienti
fonda- mentali dell’« arte politica» cioè della tecnica del vivere insieme.
Aristotele aveva invece incluso il R. fra le emo- zioni, escludendolo dalle
virtù (Ef. Nic., II, 7, 1108 a 32), e lo aveva contrapposto al timore (/bid.,
10, 9, 1179b 11). E alla sfera delle emo- zioni lo riduce anche Kant
considerandolo tuttavia come un sentimento sui generis, anzi come il solo
sentimento morale e non patologico. Il sentimento del R. «è prodotto soltanto
dalla ragione. Esso non serve al giudizio delle azioni, nè a fondare la legge
morale oggettiva ma semplicemente come movente a fare in sè di questa legge la
massima ». Il R. si riferisce sempre alle persone mai alle cose; ed è proprio
di un essere razionale finito perchè suppone l’azione negativa della ragione
sulla sen- sibilità, quindi la sensibilità. Perciò «a un essere supremo oppure
a un essere libero da ogni sensi- bilità, al quale perciò la sensibilità non
può essere un ostacolo per la ragion pratica, non può essere attribuito il R.
alla legge» (Crir. R. Prat., I, I, cap. II). La nozione di R. è stata, anche
fuori della filosofia, fortemente influenzata da queste os- servazioni di Kant.
Per R. comunemente s’intende l'impegno a riconoscere negli altri uomini, o in
se stesso, una dignità che si è in obbligo di salva- guardare. RITMO (ingl.
R&ythm; franc. Rythme; tedesco Rhythmus). L’alternarsi di fenomeni opposti
nello stesso processo. Questo è il significato che il ter- mine ha ricevuto nel
positivismo il quale per la prima volta ne ha fatto un uso specifico, estenden-
done il significato originario di movimento regolar- mente ricorrente. Spencer
ha parlato così di una legge del R. secondo la quale il massimo e il minimo, la
caduta e l’elevazione, si alternano nello sviluppo di tutti i fenomeni: legge
che è uno dei princìpi fondamentali dell’evoluzione (First Principles, II, cap.
10). Su questa stessa legge ha insistito Ardigò (Op., II, pag. 227; V, pag.
232, ecc.). E più re- centemente Whitehead: « Nel modo del R., una serie di
esperienze che formano una determinata successione di contrasti raggiungibili
nell’ambito di un metodo preciso, è regolato in modo che la fine di un ciclo è
lo stadio antecedente adatto per l’inizio di un altro ciclo simile. Il ciclo è
tale che il suo proprio completamento produce le condizioni per la sua semplice
ripetizione » (The Function of Reason, 1929, cap. I; trad. ital., pag. 25; cfr.
The Aims of Education, 1929, cap. II,
III). RITO (ingl. Rite; franc. Rite; ted. Ritus). Una tecnica magica o
religiosa: cioè diretta o ad otte- nere un controllo delle forze naturali che
le tecniche razionali non possono offrire o ad ottenere che sia mantenuta o
conservata per l’uomo una certa ga- ranzia di salvezza nei confronti di queste
forze. Il concetto del R. come «pratica relativa alle cose sacre » è stato
chiarito da Durkheim (Formes élémentaires de la vie religieuse, 1912, passim)
(cfr. T. Parsons, 7he Structure of Social Action, 23 ediz., 1949, pag. 420
sgg.; 673 sgg., ecc.; cfr. RE- LIGIONE). RITORNO (gr. èriorpoph; lat.
Conversio; in- glese Return; franc. Retour; ted. Riickgang). 1. Nel
neoplatonismo antico, il movimento per cui l’anima ripercorre a ritroso il
processo dell’emanazione, ri- congiungendosi, mediante la contemplazione, alla
sua origine: Bene, Causa, Dio, Unità. Diceva Plotino: «La purificazione è
necessaria all’unione: l’anima si unisce al Bene ritornando verso di esso. Ma
dunque la conversione segue alla purificazione? Proprio così, il R. accade dopo
la purificazione. Il R. è dunque la virtù dell’anima? Sì, è la virtù che
risulta e deriva all’anima dal ritorno. E che cosa è il R.? È la contemplazione
e l'impronta che gli oggetti intelligibili producono nell’anima allo stesso
modo in cui la visione è prodotta dagli oggetti visibili » (Enn., I, 2, 4).
Proclo generalizzava il concetto del R. attribuendolo a tutte le mani-
festazioni dell’essere, delle quali ognuna effettue- rebbe il R. a suo modo.
«Ogni essere compie il suo R. o soltanto rispetto alla sostanza o anche
rispetto alla vita o alla conoscenza: giacchè o ha acquistato dalla Causa
soltanto l’essere o ha avuto anche la vita o ha avuto anche la facoltà conosci-
tiva. In quanto solo è, effettua un R. alla Sostanza; in quanto vive, ritorna
alla Vita e in quanto conosce, alla Conoscenza. Difatti allo stesso modo in cui
è proceduto dalla Causa prima, così vi ritorna; e le misure del R. sono
determinate dalle misure della processione (Ist. Teol., 39). 2. Il Rinascimento
ricollegandosi a questa con- cezione generalizzata di Proclo considerò il R. ai
principi come l’unica via per effettuare un rinnova- mento radicale della vita
singola e associata del- l’uomo. Pico della Mirandola univa il vecchio concetto
neoplatonico del R. ai princìpi con quello nuovo di via del rinnovamento (De
Ente et uno, VII, Proem.). Machiavelli considerava la « ridu- zione ai princìpi
» come il solo modo in cui le co- munità umane potessero rinnovarsi e sfuggire
alla decadenza e alla rovina: in quanto, egli diceva, tutti i princìpi hanno in
sè qualche bontà dalla quale le cose possono riprendere la loro vitalità e la
loro forza primitiva (Discorsi, III, 1). E Cam- panella vedeva la via del
rinnovamento religioso nello stesso principio che egli riteneva espresso dal
salmo XXII: Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines
terrae, le cui prime due parole egli poneva come titolo dello scritto con cui
annunciava il rinnovamento religioso (Quod reminiscentur, 1615). D'altronde la
stessa Riforma protestante obbediva all'esigenza di ritornare ai princìpi,
rifacendosi direttamente alla fonte pri- mitiva della religiosità cristiana
cioè alla Bibbia; e dall’altro lato la Controriforma intese ricondurre la
Chiesa alla forza espansionistica che essa posse- deva nel periodo delle sue
origini. Un’altra forma in cui si presentò lo stesso principio è quella del R.
alla natura: la natura essendo considerata il più delle volte come principio o
l’origine degli esseri. In questa forma il R. ai princìpi è un’esi- genza
frequente nel pensiero dei secoli xv e xvi. RITSCHLIANISMO (ingl.
Ritschlianism; fran- cese Ritschlianisme; ted. Ritschlianismus). Una cor- rente
del cristianesimo protestante del xrx secolo che fa capo ad Alberto Ritschl
(1822-89), secondo la quale la religione si fonda esclusivamente sul sentimento
e la rivelazione interiore: rivelazione che si concreta specialmente nei
giudizi di valore, che sono indipendenti dai fatti e sollevano l’uomo a una
sfera superiore a quella della sua limitazione empi- rica. La comunità dei
fedeli, mentre rafforza la rivelazione del sentimento interno, ne attua le esi-
genze; il regno di Dio si realizza per l'appunto in essa (cfr. K. BARTH, Die
protestantische Theo- logie in 19. Jahrhundert, 1947). RIVELAZIONE (ingl.
Revelation; franc. Révé- lation; ted. Offenbarung). La manifestazione della verità
o della realtà suprema agli uomini. La R. è stata intesa in due modi: 1° come
R. storica; 2° come R. naturale. 1° La R. storica è quella che ogni religione
positiva assume a suo fondamento. Essa consiste nella illuminazione di cui sono
stati gratificati uno o più membri della comunità che hanno avuto come compito
quello di incamminare la comunità stessa sulla via della salvezza. La R. in
questo senso è un fatto storico, cui si attribuisce l’ori- gine della
tradizione religiosa. 2° La R. naturale è la manifestazione di Dio nella natura
e nell’uomo. Talvolta questa formaR. viene ammessa insieme alla prima, talaltra
viene negata o subordinata alla prima. Soltanto il concetto di R. naturale ha
valore filosofico, l’altro essendo specificatamente religioso. Tuttavia il
concetto della realtà naturale ed umana come manifestazione di un Principio
soprannaturale o divino è stato attinto dalla filosofia alla stessa religione
ed è proprio delle filosofie che hanno carattere o finalità religiosa.
Nell’antichità, quel concetto fu proprio dei neo- platonici per i quali il
mondo, come prodotto del- l'emanazione divina, rivela, almeno parzialmente ©
imperfettamente, la stessa natura divina che lo produce. Da questo punto di
vista Scoto Eriugena chiamava reofania (v.) il processo che da Dio discende
all’uomo e dall'uomo ritorna a Dio; e chiamava teofania anche tutta l’opera
della crea- zione in quanto manifesta la sostanza divina che in essa e
attraverso di essa diventa visibile (De divis. nat., I, 10; V, 23). Questo concetto
è ritornato frequentemente nella storia della filosofia; ma la sua massima
ricorrenza è stata la filosofia del romanticismo (v.). Diceva Fichte, ad
esempio: «Il sapere è l’esistenza, la manifestazione, la per- fetta immagine
della forza divina » (Grundziige der gegenwdrtigen Zeitalters, 1806, IX).
Questo pensiero domina anche le filosofie di Schelling e Hegel. Bisogna
tuttavia osservare che in esse la R. non è soltanto manifestazione: è anche,
come diceva Fichte, esistenza (cioè realizzazione) di Dio. È questo il tratto
specifico che il concetto di R. assume nel romanticismo e che conserva in forma
più o meno decisa in quelle filosofie della R. che costituiscono il secondo
romanticismo e che hanno come insegna la difesa della tradizione. Le filosofie di
Maine De Biran, di Rosmini, di Gioberti, di Mazzini muovono tutte dal principio
che la coscienza sia la R. di Dio. Maine De Biran non faceva che esprimere a
questo proposito una convinzione assai comune asserendo che la R. non è
soltanto quella esterna della tradizione orale o scritta ma anche quella
interna o della coscienza giacchè l'una e l’altra vengono direttamente da Dio
((Euvres, ed. Naville, III, pag. 96). Senza la tonalità religiosa che essa
aveva nel secolo scorso, il concetto di R. è stato assunto a fondamento della
filosofia di Heidegger. La R. dell’essere non è tuttavia mai perfetta ed
esauriente, secondo Heidegger, perchè l’essere si nasconde nello stesso tempo
che si rivela: « L’es- sere sottrae se stesso mentre si rivela nell’ente. Così l’essere,
illuminando l’ente, nel contempo lo svia e lo avvia verso l’errore » (Holzwege,
pag. 310). La R. dell’essere accade, secondo Heidegger, at- traverso il
linguaggio: il quale per Heidegger non è strumento umano ma l’essere stesso
nella sua R. (Brief tiber den Humanismus, pag. 81). D'altrondla concezione del
linguaggio come R. non è oggi soltanto di Heidegger (v. LinguaGGio): il che è
un’altra prova della persistenza in filosofia del con- cetto teologico di
rivelazione. RIVOLUZIONE (ingl. Revolution; franc. Ré- volution; ted.
Revolution). La violenta e rapida distruzione di un regime politico; oppure il
mu- tamento radicale di una qualsiasi situazione cul- turale. In questo secondo
senso si parla di « R. filosofica » o « artistica » o « letteraria » o «del co-
stume ?, ecc. o anche di « R. copernicana». Ma è chiaro che in questo senso
l’uso della parola è diretto soltanto a sottolineare l’importanza del mu-
tamento intervenuto e non ha un significato pre- ciso. L'unico significato
preciso del termine è quello politico, che esso ha incominciato ad acquistare
nel sec. xvmi. Le vere e proprie R. sono state quella inglese, quella
americana, quella francese e quella russa; ma talvolta si chiamano R. anche le
tra- sformazioni politiche che hanno avuto minore im- portanza nella storia
generale del mondo ma se- gnano date fondamentali nella storia di un paese
determinato. ROMANTICISMO (ingl. Romanticism; fran- cese Romantisme; ted.
Romanticismus). Si indica con questo nome il movimento filosofico letterario e
artistico che si iniziò negli ultimi anni del sec. xvm, ebbe la sua massima
fioritura nei primi decenni del sec. xIx e costituì l’impronta propria di
questo secolo. Il significato corrente del termine « roman- tico » che
significa « sentimentale » deriva da uno degli aspetti più appariscenti del
movimento roman- tico cioè dal riconoscimento del valore da esso attribuito al
sentimento: una categoria spirituale che l’antichità classica aveva ignorato o
disprez- zato, che il ’700 illuministico aveva riconosciuto nella sua forza e
che nel R. acquista un valore predominante. Questo valore predominante è la
principale eredità che il R. riceve dal movimento dello Sturm und Drang (v.),
il quale costituisce il tentativo di superare i limiti che l’illuminismo aveva
riconosciuti propri della ragione umana con l’appello all’esperienza mistica e
alla fede. Ciò che la ragione non può dare, può darlo invece, secondo i
filosofi dello Sturm und Drang, Haman, Herder, Jacobi, la fede intesa pertanto
come fatto di sentimento o di esperienza immediata. Ma, proprio per questo, la
ragione continuava ad essere per i seguaci dello Sturm und Drang (tra i quali
ci furono Goethe e Schiller nella loro giovinezza) ciò che era per
l’Illuminismo: una forza umana finita, capace bensì di trasformare gradualmente
il mondo, ma non assoluta nè onnipotente, e perciò sempre più o meno in
contrasto con il mondo stesso ed in lotta con la realtà che essa è destinata a
trasformare. Dallo Sturm und Drang si passa al R. solo quando questo concetto
della ragione viene abbandonato e per ragione comincia ad intendersi una forza
infinita (cioè onnipotente) che abita il mondo e lo domina e perciò costituisce
la sostanza stessa del mondo. Il principio dell’auto- coscienza (v.) cioè
dell’infinità della coscienza che è tutto e fa tutto nel mondo, è il principio
fonda- mentale del R. e da esso derivano i tratti salienti del movimento.
Fichte identificò per la prima volta la ragione con l’Io infinito o
Autocoscienza assoluta e ne fece la forza dalla quale l’intero mondo è prodotto.
L’infinità in questo senso era un'infinità di coscienza o di potenza, non
un'infinità di esten- sione o di durata; e trovava il suo modello in concetti
della filosofia neoplatonica e specialmente in Plo- tino. Hegel contrapponeva a
questo proposito al falso infinito o cattivo infinito, che è diverso dal finito
cioè dalla realtà o dal mondo e si contrappone a esso e cerca di trasformarlo o
di superarlo, il vero infinito, che si identifica con il finito stesso cioè con
il mondo e si realizza in esso e per esso. Questo infinito è un Principio
spirituale creativo: quello che Fichte chiamò /o, Schelling Assoluto, e Hegel
Idea. Ma l’infinito o meglio l’infinità di coscienza può essere intesa in due
modi. In primo luogo, come attività razionale che si muove da una determi-
nazione all’altra con necessità rigorosa sì che ogni determinazione può essere
dedotta dall’altra asso- lutamente e a priori. È questo il concetto che del-
l’infinità di coscienza ebbero Fichte, Schelling ed Hegel (il secondo tuttavia
solo in una prima fase della sua filosofia). In secondo luogo, l’infinità di
coscienza può essere intesa come un'attività libera, amorfa cioè priva di
determinazioni rigorose e tale che si pone continuamente al di là di ogni sua
determinazione: e in questo senso l’infinità di coscienza è sentimento. ll
sentimento è l’infinito nella forma dell’indefinito e in questa forma rico-
nobbero l’infinità di coscienza Schleiermacher e la cosiddetta scuola romantica
(F. Schlegel, Novalis, Tieck, ecc.). Il R. letterario si iniziava infatti con
l’opera di Federico Schlegel (1772-1829) che pubblicava, dal 1798 al 1800, in
collaborazione con il fratello Au- gusto Guglielmo, il periodico Arhenaeum che
fu il primo organo della scuola romantica. Federico Schlegel esplicitamente
additava in Fichte l’inizia- tore del movimento romantico cioè lo scopritore
del concetto romantico dell’infinito. Ma interpre- tava l’infinito come al di
fuori e al di sopra della razionalità, come infinità di sentimento. Lo stesso
concetto dell’infinito ricorre nel poeta e letterato Ludovico Tieck e in
Novalis: il quale sosteneva un idealismo magico, secondo cui il mondo non è che
una grande opera di poesia. A questa stessa corrente appartiene il teologo
Federico Schleier- ROMANTICISMO macher (1768-1834) che definì la religione come
«il sentimento dell’infinito ». Su questa interpretazione del principio
infinito, si fonda la supremazia che talvolta il R. attribuisce all’arte. Se
infatti l'infinito è sentimento, esso si rivela meglio nell’arte che nella filosofia:
giacchè la filosofia è razionalità e l’arte invece appare airomantici come «
espressione del sentimento +. Schel- ling, che inclinava verso questa
interpretazione ritenne appunto che la migliore manifestazione dell’Assoluto si
avesse nell’arte; che il mondo fosse una specie di poema o di opera d’arte il
cui autore è l'Assoluto; e che l’esperienza artistica fosse per l’uomo il solo
mezzo efficace per avvicinarsi all’Assoluto cioè al modo in cui l'Assoluto ha
dato origine al mondo. Quando il movimento romantico si diffonde al di fuori
della Germania, è proprio quest’aspetto del R. che viene assunto come bandiera.
Il R. di Madame de Staél e di Chateaubriand consiste appunto prevalentemente
nell’esaltazione dei valori del sentimento; e in questa stessa forma il R.
trovò la sua espressione in Italia. Queste due interpretazioni
dell’autocoscienza fu- rono spesso in contrasto; ed Hegel specialmente condusse
la polemica contro il primato del senti- mento. Ma è proprio il loro contrasto
e la loro polemica che costituisce il tratto fondamentale del movimento
romantico nel suo complesso. Tuttavia appartiene soltanto alla scuola romantica
del senti- mento uno dei tratti più appariscenti del R., l’îronia: che è
l’impossibilità, per Ja coscienza infinita, di prender sul serio e considerare
come cosa salda i suoi prodotti (la natura, l’arte, l’io stesso) nei quali non
può vedere altro che le proprie manifesta- zioni provvisorie. Sono invece
caratteri comuni e fondamentali di tutte le manifestazioni del R. l’ottimismo,
il provvi- denzialismo, il tradizionalismo e il titanismo. L’of- timismo è la
convinzione che la realtà è tutto ciò che dev'essere ed è, ad ogni momento,
razionalità e perfezione. È per questo ottimismo che il R. tende a esaltare il
dolore, l’infelicità e il male. L'’infinità dello spirito infatti si manifesta
egual- mente in questi aspetti della realtà ma li supera e li concilia nella
sua perfezione. Hegel ci presenta il mondo romantico nella felicità della sua
perfetta pacificazione razionale. Schopenhauer ce lo presenta nell’infelicità
dei suoi contrasti irrazionali e pur tuttavia soddisfatto di riconoscersi in
questo con- trasto. La volontà irrazionale di Schopenhauer è un principio non
meno ottimistico della ragione assoluta di Hegel. Con l’ottimismo metafisico
del R. si connette il suo provvidenzialismo storico. La storia è un processo
necessario nel quale la ragione infinitamanifesta o realizza se stessa, sicchè
in essa non c’è nulla di irrazionale o d’inutile. Il R. si pone, su questo
punto, nel più radicale contrasto con l’il- luminismo. L’illuminismo
contrappone tradizione e storia: alla forza della tradizione che tende a con-
servare e a perpetuare pregiudizi, ignoranze, violenze e frodi, l’illuminismo
oppone la storia come rico- noscimento di queste cose per quelle che sono e
sforzo razionale di liberazione da esse. Per il R. invece tutto ciò che è
tramandato è manifestazione della Ragione infinita: è verità e perfezione.
Pertanto lo spirito illuministico è critico e rivoluzionario; lo spirito romantico
è esaltativo e conservatore. Il con- cetto della storia come piano
provvidenziale del mondo domina tutta la filosofia dell’800; e la stessa
filosofia del ’900 non arriva a liberarsene se non attraverso amare esperienze
storiche e cul- turali. È in questa concezione della storia che si manifesta
meglio l’affinità tra l’idealismo e posi- tivismo nel senso comune del
romanticismo. Comte ha lo stesso concetto che della storia avevano Fichte e
Schelling e che più tardi ebbero Croce e gli epi- goni novecenteschi del
romanticismo. La storia, come manifestazione di un principio infinito (Io,
Autocoscienza, Ragione, Spirito, Umanità o co- munque si chiami) è razionalità
intera e perfetta e non conosce nè l’imperfezione nè il male. Il colmo di
questo concetto della storia si ha in Hegel (ripetuto da Croce): la storia non
è progresso al- l’infinito, giacchè, se fosse tale, ogni suo momento sarebbe
meno perfetto dell’altro; essa è infinita perfezione di ogni suo momento. La
contrappo- sizione hegeliana del «vero infinito » al «cattivo infinito» non
significa altro. Ovviamente, in un simile concetto della storia, non c’è posto
per l'individuo e le sue libertà, per le quali l’illumi- nismo si era battuto.
C'è posto solo per gli « eroi » o «individui della storia cosmica» che sono gli
strumenti di cui la provvidenza storica si avvale per realizzare astutamente i
suoi fini. Un aspetto importante del provvidenzialismo romantico è il
rradizionalismo: l'esaltazione della tradizione e delle istituzioni in cui essa
si incarna è difatti uno degli aspetti tipici del movimento romantico. A questo
atteggiamento fu dovuta la rivalutazione del Medio Evo che è caratteristica del
romanticismo. Il Medio Evo era apparso all’illu- minismo (come già
all’umanesimo) un’epoca di decadenza e di barbarie: cioè come l’epoca in cui
fossero andati smarriti i valori umani e razionali che l’antichità classica
aveva creati. Per il R. non esistono epoche di decadenza o di barbarie giacchè
tutta la storia è razionalità e perfezione. Nel Me- dio Evo anzi, secondo il
R., si possono e si debbono scorgere le origini del mondo moderno meglio che
nel mondo classico: sicchè il ritorno al Medio Evocostituisce una delle parole
d'ordine dell’atteggia- mento romantico. In virtù dello stesso atteggia- mento
il R. tedesco cominciò ad esaltare le tradi- zioni originarie della nazione
tedesca; e nacque la prima forma del nazionalismo che doveva diffon- dersi e
diventare uno dei tratti salienti della cultura europea nel sec. xx. Il
concetto di nazione è difatti composto di elementi tradizionali: la razza, la
lingua, il costume, la religione: elementi che non possono essere negati o
rinnegati senza tradimento perchè costituiscono ciò che la nazione è stata già
da sempre. Il concetto settecentesco di popolo era invece definito dalla
volontà e degli interessi comuni degli individui. Tradizionalismo e
nazionalismo affondano le loro radici nel comune terreno del provvidenzialismo
romantico. Infine, uno degli aspetti fondamentali del R., e tra i più
appariscenti, è il rifanismo. Infatti il culto e l’esaltazione dell’infinito
hanno, come loro con- troparte negativa, l’insofferenza o l’insoddisfazione del
finito. E in questa insofferenza (o insoddisfazione) si radica l’atteggiamento
di ribellione verso tutto ciò che appare o è un limite o una regola e la sfida
incessante a tutto ciò che, per la sua finitudine, appare impari o inadeguato
nei confronti dell’in- finito. Prometeo è assunto come il simbolo di questo
titanismo, con una interpretazione che è molto distante dallo spirito dell’antico
mito greco. Per questo Prometeo era colui che aveva infranto, per rendere
possibile la sopravvivenza del genere umano, la legge del fato e che
giustamente subiva le conse- guenze di questa infrazione. Per il R., invece, è
il simbolo della sfida e della ribellione al finito: di una sfida e di una
ribellione, cioè, che non traggono la loro ragione da ciò cui s'oppongono ma
solo dal fatto che ciò a cui s’oppongono non è l'infinito. L'atteggiamento del
titanismo non conduce alla critica delle situazioni di fatto e allo sforzo di
tra- sformarle, perchè non ritiene che una situazione di fatto sia o possa
essere superiore o preferibile all’altra; ma si esaurisce in una protesta
univer- sale e generica e non può impegnarsi in alcuna decisione concreta. Il
culto e l’esaltazione dell’infinito, il non con- tentarsi di meno
dell’infinità, costituiscono i tratti salienti dello spirito romantico. Come
già si è detto, lo stesso positivismo rientra in questo spirito. Esso estende
il concetto di progresso a tutta la storia del mondo: questo significa,
infatti, « evoluzione ». Esso fa della storia umana un progresso neces- sario e
infallibile. Infine esso fa della scienza, che è la manifestazione umana da
esso prediletta, l’in- finito stesso della verità e la elegge ad unica guida
degli uomini in tutti i campi. Gli aspetti che il R. rivestì nella politica,
nel- l’arte e nel costume sono strettamente collegati con i caratteri ora
chiariti. Nella politica, il R. è di- fesa ed esaltazione delle istituzioni
umane fonda- mentali, come son quelle nelle quali s’incarna il Principio
infinito: lo stato e la chiesa, con tutto ciò che implicano. Nell'arte, esso
cerca la realiz- zazione dell’infinito in forme grandiose e dram- matiche in
cui i contrasti sono portati all’estremo per poi conciliarsi e pacificarsi in
forma altret- tanto estrema e definitiva. Nel costume, l’amore romantico va in
cerca dell'unità assoluta fra gli amanti, della loro identificazione
nell’infinito; e a questa unità o identificazione sacrifica il senso au-
tentico del rapporto amoroso e la sua possibilità di costituire la base di una
vita comune (v. AMORE). ROSMINIANESIMO. S’intendono con questo termine i tratti
salienti della filosofia di Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e specialmente:
1° il tradizionalismo cioè la preoccupazione di difendere i valori tradizionali
e di giustificare la tradizione come prodotto o manifestazione di Dio; 2° l’on-
tologismo cioè la tesi che lo spirito umano fruisce di una immediata e
certissima, per quanto par- ziale, conoscenza dell’essere e che tale conoscenza
è la base di tutto il sapere (v. OnToLOGIA); 3° lo scolasticismo cioè la
concezione della filosofia come strumento diretto a giustificare le verità
della re- ligione. ROTTURA (ted. Zerrissenheit). Termine intro- dotto dalle
filosofie esistenzialistiche. Per Jaspers, la R. del mondo si ha quando la
ricerca diretta a trovare una totalità assoluta e onnicomprensiva mette capo a
una molteplicità di prospettive, ognuna delle quali è relativa a un certo punto
di vista e nessuna delle quali perciò può valere come un mondo (Phi/., I, pag.
64 sgg.). Secondo Heidegger, la R. del mondo si ha con la scienza e con la tec-
nica che organizzano il distacco dell'uomo dalla natura (Erlduterungen zu
Hòlderlin, pag. 271 sgg.).SABELLIANISMO (ingl. Sabellianism; fran- cese
Sabellianisme; ted. Sabellianismus). La dottrina trinitaria sostenuta da
Sabellio nella prima metà del n secolo d. C.: dottrina che insistendo
sull’unità della Sostanza divina riduceva le Persone divine a tre modi o manifestazioni
dell’unica Sostanza. La dottrina fu chiamata perciò anche modalismo (v.).
SACERDOTALISMO (ingl. Sacerdotalism). Termine adoperato soprattutto da
scrittori anglo- sassoni per designare la tendenza ad accordare, nella
religione, la massima importanza all’aspetto ecclesia- stico e sacramentale a
scapito di quello interiore o spirituale. SACRIFICIO (ingl. Sacrifice; franc.
Sacrifice; ted. Opfer). La distruzione di un bene o la rinuncia ad esso, in
onore della divinità. Il S. è una delle più diffuse tecniche religiose. Il suo
scopo è o la purificazione cioè la liberazione da qualche colpa o peccato: nel
qual caso il S. appare come disinte- ressato e cioè senza un immediato fine
utilitario; 0 la consacrazione che ha sempre un fine più o meno utilitario consistendo
nel persuadere la divinità a concedere la sua garanzia alla cosa o alla persona
che si consacra. Sia la purificazione che la consacra- zione banno il più delle
volte carattere simbolico: nel senso che il dono sacrificato non ha soltanto il
valore economico che la comunità gli attribuisce ma anche una certa relazione
simbolica con lo scopo purificatorio o consacrativo della cerimonia
sacrificale. Questi tratti sono riconoscibili nelle tec- niche sacrificali di
tutte le religioni, quali che sia il loro grado di sviluppo o di raffinamento
intel- lettuale (cfr. S. REINACH, Cultes, mythes et religions, 1905; E.
DURKHEIM, Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912; A. Loisy, Essai
historique sur le sacrifice, 1920; P. RADIN, Primitive Religion, 1937). SACRO (gr. tepéc; lat. Sacer;
ingl. Sacred; fran- cese Sacré; ted. Heilig). L’oggetto religioso in ge- nerale: cioè tutto ciò che
è l’oggetto di una garanzia soprannaturale o che concerne tale garanzia. Poichè
questa garanzia può essere talvolta negativa o proi- bitiva, il S. ha il
duplice carattere di ciò che è santo e di ciò che è sacrilego cioè di ciò che è
S. perchè prescritto o esaltato dalla garanzia divina o di ciò che è S. perchè
proibito o condannato dalla stessa garanzia (cfr. DURKHEIM, Les formes
élémentaires de la vie religieuse, 1912). R. Otto ha chiamato questi due
aspetti rispettivamente quelli del fascinoso e del tremendo (Das Heilige,
1917). Heidegger, interpretando una poesia di Hélderlin che identifica la
natura con il S., ha considerato il S. stesso come la radice del destino degli
uomini e degli dèi. «Il S., egli ha detto, decide inizial- mente intorno agli
uomini e agli dèi, se siano, chi siano, come siano e quando siano » (Er/auter-
ungen zu Holderlin, 1943, pag. 73-74). Heidegger afferma pure che «il S. non è
S. perchè divino, ma il divino è divino perchè è S.» (/bid., pag. 58). SAGACIA
(gr. edovveola; lat. Sagacitas; inglese Sagacity; fran. Sagacité; ted.
Sagazitàt). La perspi- cacia nell’indagine. Aristotele identificò la S. con
l’apprendere (Et. Nic., VI, 10, 1143 a 17). E Kant la definì come «il dono
naturale che consiste nel giu- dicare in precedenza (iudicium praevium) dove si
può trovare la verità e di utilizzare le più piccole circo- stanze per
scoprirla » (Antr., I, $ 56). SAGGEZZA (gr. ppémot; lat. Sapientia, Pru-
dentia; ingl. Wisdom; franc. Sagesse; ted. Weisheit). In generale, la
disciplina razionale delle faccende umane: cioè il comportamento razionale in
ogni campo o la virtù che determina ciò che è bene o male per l’uomo. Il
concetto di S. fa tradizional- mente riferimento alla sfera propria delle
attività umane ed esprime la condotta razionale nell’am- bito di questa sfera,
cioè la possibilità di dirigerla nel modo migliore. La S. non è la conoscenza
di cose alte e sublimi, remote dalla comune umanità, come la sapienza (v.): è
la conoscenza delle fac- cende umane e del miglior modo di condurle. Il primato
accordato alla S. o alla sapienza denuncia l’interpretazione fondamentale che
si dà della filo- sofia: il primato accordato alla sapienza è proprio del
concetto della filosofia come contemplazione pura; il primato accordato alla S.
esprime il con- cetto della filosofia come guida dell’uomo nel mondo (v.
FILOSOFIA, JI). La netta distinzione tra S. e sapienza è stata fatta da
Aristotele. Platone non distingue nep- pure tra i due termini.|Egli chiama
sapienza (vogla) la scienza che presiede all’azione virtuosa (Rep. IV, 443 e;
cfr. 428b) che è lo stesso di saggezza! E della S. dice che «la più alta e di
gran lunga la più bella è quella che si occupa degli ordinamenti politici e
domestici e a cui si dà il nome di prudenza e di giustizia » (Conv., 209 a). Un
sapere fine a se stesso è estraneo all’impostazione della sua filo- sofia.
Questo sapere viene invece esaltato da Ari- stotele come la forma più alta e
divina del sapere stesso (v. SAPIENZA): di fronte ad esso la S. si ab- bassa a
cosa meramente umana, che perciò ha minor pregio. Da questo punto di vista,
essa è definita come «l’abito pratico razionale che con- cerne ciò che è bene o
male per l’uomo » (Er. Nic., VI, 5, 1140 b 4). Ma «l’uomo non è l’essere mi-
gliore del mondo » (Zbid., VI, 7, 1141 a 21). È un essere mutevole; e la S. che
lo concerne è mutevole anch'essa, mentre la sapienza è sempre la stessa (Ibid.,
1141 a 20 sgg.). Aristotele pertanto pone al di sopra di tutto la sapienza il
cui oggetto è ciò che non può mutare nè essere diverso da com'è: il necessario.
Questa distinzione e contrapposizione di Aristo- tele si sono mantenute nei
secoli; e il modo di intendere la sapienza o S. (che in alcune lingue sono
indicate dalla stessa parola) rivela l’orienta- mento generale di una
determinata filosofia verso la contemplazione o verso l’azione. La filosofia
post-aristotelica fece prevalere l’ideale della sag- gezza. Epicuro diceva che
la S. «da cui nascon tutte le virtù è anche più preziosa della filosofia »
(Lett. a Menec., 132). Gli Stoici identificavano con la S. la virtù intera,
dalla quale tutte le altre di- pendono (Diog. L., VII, 125-26). Il
neoplatonismo dall’altro lato, tornava all’esaltazione della sapienza (PLOTINO,
Enn., V, 8, 4). Mentre S. Tommaso ripro- duceva la distinzione aristotelica
chiamando la S. prudentia e considerandola «la consigliera intorno alle cose
che concernono l’intera vita dell’uomo e anche l’ultimo fine della vita umana»
(S. 7à., II, 1, q. 57, a. 4). Il mondo moderno si riattacca di pre- ferenza
all’ideale pratico della S., che ritorna in Cartesio (Princ. Phil., pref.) ed
in Leibniz. Que- st’ultimo unisce nella sua definizione l’aspetto teo- retico e
l'aspetto pratico: «la S. è la perfetta cono- scenza dei princìpi di tutte le
scienze e dell’arte di applicarli» (De /a sagesse, Op.,ed. Erdmann, pag. 673):
ma l’inclusione dell’aspetto pratico significa il rifiuto dell’ideale della
sapienza. Allo stesso ambito appar- tiene la definizione di Kant: «La S.
consiste nel- l’accordo della volontà di un essere col suo scopo finale » (Mer.
der Sitten, II, $ 45). Hegel accentuava il carattere umano e mondano della S.,
parlando di una S. mondana (Weltweisheit) che il Rinascimento avrebbe
contrapposto, come ragione umana, alla ragione divina cioè alla reli- gione
(Geschichte der Philosophie, ed. Glockner, I, pag. 92 sgg.). E Schopenhauer
accentua ancora di più il carattere mondano della S. intendendo per essa
«l’arte di trascorrere la vita nel modo più piacevole e felice possibile »
(Aphorismen zur Lebensweisheit, Pref.). Ai filosofi contemporanei la parola S.,
come ‘sapienza’, sembra troppo solenne perchè essi si soffermino a chiarirne il
concetto. La S. rimane tuttavia legata, per loro come per gli antichi, alla
sfera delle faccende umane e si può dire costituita dalle tecniche vecchie o
nuove di cui l’uomo di- spone per la migliore condotta della sua vita. SAGGIO (gr. copéc; lat. Sapiens;
ingl. Sage; franc. Sage; ted. Weise).
La figura stereotipa del S. fu delineata nella filosofia greca dell'età ales-
sandrina da Epicurei, Stoici e Scettici, ma soprat- tutto dagli Stoici, e
rimase fissata nella tradizione con certe caratteristiche fondamentali. Il
carattere primo e fondamentale che tutt’e tre le scuole attri- buiscono al S. è
la serenità o l’indifferenza alle vicende o ai movimenti umani: serenità che
esse chiamano con i nomi ararassia, aponia, o aparia (v.). Gli altri caratteri
sono i seguenti: 1° L’isolamento, cioè la netta separazione del S. dagli altri
mortali, con i quali non ha nulla in comune. Gli Stoici portavano questa
separazione all'estremo limite ammettendo due specie di uomini, quelli che
praticano la virtù e quelli che non la pra- ticano e ritennero che i primi sono
S. tutti gli altri pazzi (StoBEO, Ecl., II, 7, 11; 65, 12). 2°
L’improgredibilità, per la quale chi non è S. è stolto o pazzo e non può
esserci un S. che sia più S. di un altro. « Chi è immerso nell'acqua, dice
Cicerone esponendo questa dottrina, se non è lontano dalla superficie tanto da
poter quasi affio- rare, non può respirare più che se fosse ancora sul fondo
...: allo stesso modo chi si è avanzato al- quanto verso l’abito della virtù
non è soggetto all’infelicità meno di chi non si sia avanzato af- fatto » (De
Fin., III, 14, 48). 3° L’autarchia. Questo carattere è stato già esaltato da
Aristotele: «Il giusto ha ancora bi- sogno di persone che egli possa trattare
giusta- mente e con le quali essere giusto, similmente anche l’uomo moderato e
il coraggioso e ciascuno degli altri uomini virtuosi: il S. invece può
contemplare da sè solo, tanto più quanto più è S.; forse è meglio se ha
collaboratori, tuttavia egli è del tutto auto- sufficiente » (Er. Nic., X, 7,
1177a 30). Aristotele tuttavia si riferiva all’attività contemplativa, cui li-
mitava l’attività propria del S.; le scuole post-ari- stoteliane estendono il
carattere di auto-sufficienza del S. a tutte le manifestazioni della sua vita,
non limitata necessariamente alla contemplazione. 4° La rinuncia. Fu questo il
carattere del S. sul quale insistettero soprattutto gli Stoici latini,
Epitteto, Seneca e Marco Aurelio. La distinzione stabilita da Epitteto tra le
cose su cui l’uomo ha potere e che sono i suoi stessi stati d’animo e le cose
su cui non ha potere, che sono le cose esterne, fa sì che il S. deve
prescindere dalle cose esterne e riporre il bene e il male solo in quelle che
sono in suo potere (Manuale, 31). Questo im- plica la rinuncia del S. ad
occuparsi delle cose stesse e la sua accettazione della massima « sop- porta e
astieniti» (A. GELLIO, Noct. Att., XVII, 19, 6). 5° La coscienza. Questo tratto
fu aggiunto alla figura del S. dal neoplatonismo che esaltò soprattutto in lui
la facoltà di guardare in sè stesso e di trarre tutto da sè. Dice Plotino: «Il
S. trae da se stesso ciò che egli manifesta agli altri: egli guarda solo a se
stesso: non solo tende a unifi- carsi e a isolarsi dalle cose esterne ma è
rivolto a se stesso e trova dentro di sè tutte le cose + (Enz., III, 8, 6; cfr.
I, 4, 4). Questo movimento per cui il S. guarda se stesso e trova tutto in se
stesso è la coscienza (v.); e da questo punto di vista solo nel S. la coscienza
si realizza e vive. SALTO (lat. Saltus; ingl. Leap; franc. Saut; ted. Sprung).
Termine adoperato da Kierkegaard per indicare il « passaggio qualitativo » cioè
il pas- saggio brusco e senza mediazione da una categoria al- l’altra o da una
forma di vita all’altra (per es., dalla vita etica alla vita religiosa) o in
genere da uno stato all’altro (per es., dall’innocenza al peccato, dal peccato
alla fede, ecc.). Kierkegaard contrap- pose questa nozione di S. alla nozione
hegeliana di mediazione (v.) e la illustrò ravvicinandola: 1° Al- l’entimema
(v.) cioè al sillogismo contratto nel quale si omette una premessa e si passa
direttamente dalla promessa maggiore alla conclusione (« Tutti gli animali sono
mortali, perciò l’uomo è mor- tale +) (Diario, VIA, 33). La parola S. si trova
a questo proposito adoperata da Kant: « Un S. (saltus) nella deduzione o nella
prova è la connes- sione di una premessa con la conclusione, sicchè l’altra
premessa viene tralasciata » (Logik, 1800, $ 91). 2° All’analogia e
all’induzione: la prima delle quali stabilisce un rapporto tra cose
qualitativa- mente diverse, la seconda delle quali passa dal particolare
all’universale (Diario, V A, 74). 3° Alla dottrina hegeliana del passaggio dal
mutamento quantitativo a un mutamento qualitativo. Questa è la fonte autentica
del concetto kierkegaardiano. Diceva Hegel: « L'acqua, con il cambiare tempe-
ratura, non diventa semplicemente più o meno calda, ma passa attraverso gli
stati solido, gas- soso o liquido. Questi diversi stati non nascono a poco a
poco, ma il semplice processo graduale del mutamento di temperatura viene
interrotto da essi e il subentrare di un altro stato è un salto. Ogni nascita e
ogni morte, invece di essere un continuo a poco a poco, è anzi un troncarsi
dell’a poco a poco e un S. dal mutamento quanti- tativo nel mutamento
qualitativo » (Wissenschaft der Logik, I, sez. III, cap. II, B; trad. ital.,
pag. 418- 419). Kierkegaard rimprovera a Hegel di aver confinato questo
concetto nel dominio della logica (Der Begriff Angst, I, $ 2; trad. ital., pag.
35 e nota). Jacobi aveva adoperato l’espressione S. morrale (in italiano) per
caratterizzare il passaggio dalla fede alla conoscenza filosofica (Werke, IV,
pag. xL sgg.); mentre Kant adoperava la stessa espressione per indicare il
passaggio dalla ragione alla fede cieca (Religion, B 158). SALVEZZA (ingl.
Salvation; franc. Salut; te- desco Heil). La liberazione da un male mortale che
minacci il corpo o l’anima dell’uomo. La S. può essere intesa: 1° come
liberazione da questo 0 quel male particolare che incomba sull’uomo nel mondo.
In questo senso il termine è inteso anche fuori della religione; 2° come
liberazione dal mondo, inteso nella sua totalità come un male; pertanto come
interruzione definitiva della catena delle nascite (bud- dismo); o come
liberazione da ogni sofferenza o do- lore o punizione. Ed in questo senso il termine
ha significato specificatamente religioso (v. RELIGIONE). SAMSARA. V. Buppismo.
SANKHYA. Uno dei grandi sistemi di filosofia indiana secondo il quale esistono
due sostanze op- poste ma entrambe eterne e infinite: le anime (pu- rusa) che
sono molteplici semplici e inattive e la na- tura (prakrri) che è unica,
complessa e dinamica. Il sistema non ammette l’esistenza della divinità re-
golatrice del mondo. Ogni cosa nasce dalla natura e ritorna ad essa con un
movimento circolare che continuamente si ripete (cfr. G. Tucci, Storia della
filosofia indiana, 1957, cap. V, e relativa biblio- grafia). 764 SANSIMONISMO
(ingl. Saint-Simonism; fran- cese Saint-Simonisme; ted. Saint-Simonismus). La
dot- trina del Conte Claudio Enrico di Saint-Simon (1760-1825) esposta in
numerosi scritti dei quali i principali sono /ntroduction aux travaux scien-
tifigues du XIX° siècle, 1807; L’industrie, 1816-18; Nouveaux christianisme,
1825, ecc. Saint-Simon è il vero fondatore del positivismosociale cioè di
quella dottrina che vuol porre la scienza, e la filosofia fon- data sulla
scienza, a fondamento di una riorganizza- zione radicale della società umana.
Nella nuova società il potere spirituale sarà affidato agli scien- ziati e il
potere temporale agli industriali. Nel Nuovo cristianesimo Saint-Simon definì
l’avvento della so- cietà tecnocratica come il ritorno al cristianesimo
primitivo. Il S. contribuì a formare la coscienza dell'importanza sociale e
spirituale delle conquiste della scienza e della tecnica e incoraggiò potente-
mente lo sviluppo industriale: ferrovie, banche, in- dustrie, anche l’idea dei
canali di Suez e di Panama furono dovuti a sansimonisti (v. POSITIVISMO).
SANTITÀ (gr. dowbmg; lat. Sanctitas; inglese Holiness; franc. Sainteté; ted.
Heiligkeit). Questo termine ha due significati fondamentali: 1° un significato
oggettivo per cui significa inviolabilità e designa in generale un valore che
va in ogni caso riconosciuto o salvaguardato; 2° un signi- ficato soggettivo
per cui designa il grado ec- cellente e superiore della virtù o della religione
come virtù. Nel primo senso si dice santo ciò che è sancito o garantito da una
legge umana o divina: per es., la santità delle leggi o del giuramento, ecc.
Nel secondo senso si dice santo l’essere che realizza in sè la vita morale o
religiosa nel suo grado più alto. Nel primo senso Platone dice « assegnare
rettamente a tutti ciò che è giusto ed è santo » (Pol., 301 d); nel secondo
senso egli nega che la S. consista nel «far cosa gradita agli dèi» (Eut., 6 e)
e identifica la S. col grado supremo della virtù cioè con la giu- stizia (Rep.,
X, 615b; Leggi, II, 663 b, ecc.). Sempre in questo secondo senso, S. Tommaso
identificava la S. con la religione cioè con la virtù più alta (S. 7A., II, 2,
q. 81, a. 8); e Kant definiva la S. come «la conformità completa della volontà
alla legge mo- rale ». In questo senso, secondo Kant, la S. è « una perfezione
di cui non è capace nessun essere ra- zionale del mondo sensibile in nessun
momento della sua esistenza ». Perciò si può ammettere sol- tanto come il
limite di un progresso all’infinito verso la perfezione morale (Crit. R. Prar.,
I, II, cap. II, $ 4). Dall'altro lato Kant ammette pure la S. nel senso
oggettivo, che definisce come inviolabilità. Così egli dice che «la legge
morale è santa (in- violabile) » (Zbid., $ 5), e che «l’umanità deve essere
santa per noi stessi nella nostra persona +» (/bid., $ 5): nei quali casi
ovviamente la nozione di S. è quella di un valore supremo, che non si può
disconoscere. Queste notazioni kantiane sono state largamente ripetute nella
filosofia moderna. SANZIONE (lat. Sanctio; ingl. Sanction; fran- cese Sanction;
ted. Sanktion). Del termine ci sono due concetti fondamentali che corrispondono
ai due fondamentali indirizzi dell’erica (v.): 1° Per il primo, che corrisponde
all’etica del fine, la S. è la conseguenza piacevole o dolorosa (ricompensa o
pena) che un’azione determinata pro- duce in un determinato ordinamento
(naturale, mo- rale o giuridico). In questo caso, la natura della S. dipende
dalla natura dell’ordinamento cui si fa riferimento ed esistono S. naturali,
morali, giuri- diche a seconda che è l’ordinamento della natura o quello morale
o quello statuale a determinare la sanzione. 2° Per il secondo significato, la
S. è in gene- rale, uno stimolo della condotta. Fu questo il con- cetto della
S. stabilito da Bentham: « Gli stimolanti della condotta, egli disse,
trasferiscono la condotta e le sue conseguenze nella sfera delle speranze e dei
timori: delle speranze che ci offrono un ecce- dente di piaceri, dei timori che
prevedono per anti- cipazione un eccedente di dolore. Questi stimolanti possono
opportunamente ricevere il nome di S.» (Deontology, 1834, I, 7). Questo stesso
concetto di S. fu accettato dagli utilitaristi inglesi (cfr. STUART MILL, Urilitarianism,
cap. III) (v. PENA). SAPERE (ingl. Knowing; franc. Savoir; tedesco Wissen).
Questo verbo sostantivo viene usato in due significati principali: 1° Come
conoscenza in generale e in questo caso designa ogni tecnica ritenuta adatta a
dare informazioni intorno a un oggetto; o un insieme di tali tecniche; o
l’insieme più o meno organiz- zato dei loro risultati. W. James accettò la
distin- zione stabilita da J. Grote (Exploratio philosophica, 1856, pag. 60)
tra conoscere una cosa o una persona o un oggetto qualsiasi, che significa
avere una certa familiarità con questo oggetto; e S. qualcosa in- torno
all’oggetto, il che significa averne una cono- scenza, magari limitata, ma
esatta, di natura intel- lettuale o scientifica (The Meaning of Truth., 1909, pag.
11-12). Ma questa distinzione si diffuse so- prattutto nella forma che a essa
dette Russell in un famoso articolo del 1905. «La distinzione tra esperienza
diretta (acquaintance) e conoscenza circa (Knowledge about) è la distinzione
fra le cose che ci sono immediatamente presenti e quelle che noi raggiungiamo
solo per mezzo di frasi denotanti +» (sOn Denoting», 1905, in Logic and
Knowledge, 1956, pag. 41). Tale distinzione costituì uno dei capisaldi della
dottrina del Circolo di Vienna; e per quanto Carnap ne abbia riconosciute
presto le difficoltà («Testability and Meaning», in Readines in the Philosophy
of Science, 1953, pag. 48 sgg.) essa ha continuato e continua ad essere il
presupposto di molte dottrine, quella di Carnap compresa (v. ESPERIENZA). 2°
Come scienza, cioè come conoscenza in qualche modo garantita nella sua verità
(per questo significato v. SCIENZA). SAPERE AUDE. Il motto di Orazio (£pist.,
XII, 40) fu assunto nel sec. xvi come l’insegna dell’illuminismo (« Osa
conoscere +) e in questo senso fu richiamato da Kant, nel suo scritto
sull’illumi- nismo (Was ist Aufkldrung?, 1784, in Werke, edi- tore Cassirer,
IV, pag. 169), che lo traduceva di- cendo: « Abbi il coraggio di servirti del
tuo proprio intelletto ». Già nel 1736 il motto era stato assunto come emblema
da una « Società degli Aletofili » di Berlino che si ispirava a Wolf (cfr.
sulle vicende del motto: FRANCO VENTURI in Rivista Storica Ita- liana, 1959,
pag. 119 sgg.). SAPIENZA (gr. copia; lat. Sapientia; inglese Wisdom; franc.
Sagesse; ted. Weisheit). La più alta conoscenza delle cose più eccellenti. La
S. è caratte- rizzata: 1° dall’essere il grado di conoscenza più alto, cioè più
certo e più completo; 2° dall’avere per oggetto le cose più alte e sublimi cioè
le cose divine. Questo fu almeno il concetto che si ebbe della S. quando si
cominciò a distinguerla dalla saggezza (v.), il che accadde con Aristotele.
Sino ad Ari- stotele e nello stesso Platone, S. e saggezza signi- ficarono la
stessa cosa e cioè la saggezza: la condotta razionale della vita umana (cfr.
PLATONE, Rep., 428 b; 443 e). Aristotele distinse e contrappose le due cose.
«La S., egli disse, è la più perfetta delle scienze. Il sapiente deve sapere
non solo ciò che deriva dai princìpi ma essere nel vero anche in- torno ai princìpi.
Sicchè la S. può dirsi insieme intelletto e scienza, ed essendo a capo delle
scienze sarà la scienza delle cose più eccellenti » (Er. Nic., VI, 7, 1141 a
16). Intelletto e scienza stanno qui nel senso specifico definito da
Aristotele: l’intel- letto (vods) come conoscenza diretta dei princìpi della
dimostrazione (/bid., VI, 6, 1141 a 7); e la scienza come « abito della
dimostrazione » o facoltà dimostrativa (/bid., VI, 3 1139b 31). La S. è perciò
la conoscenza più certa e perfetta perchè è insieme conoscenza dei princìpi e
delle dimostra- zioni che da essi seguono. Inoltre, come tale, è anche la
scienza delle cose più alte e sublimi. «Vi sono altre cose molto più divine
dell’uomo per natura, come gli astri luminosi di cui si compone il mondo... Perciò
si dice che Anassagora e Talete e siffatti uo- mini sono sapienti e non saggi
giacchè non cono- scono ciò che giova a se stessi ma cose eccezionali,
meravigliose, difficili e divine, ma inutili giacchè essi non indagano intorno
ai beni umani» (/bid., VI, 7, 1041b 1). L’oggetto specifico della S. è pertanto
il necessario, ciò che non può essere altri- menti (/bid., 1041 b 11); mentre
la saggezza ha per oggetto le faccende umane che sono mutevoli e contingenti.
Questa dottrina aristotelica costituisce uno dei punti in cui il distacco
polemico tra Ari- stotele e Platone è più accentuato: Platone avendo di mira
nella sua filosofia la saggezza umana e contrapponendo Aristotele a tale
saggezza la divina sapienza. L’affermazione del primato della S. carat- terizza
le filosofie di tipo contemplativo come l’af- fermazione del primato della
saggezza caratterizza la filosofia del tipo orientativo o pratico (v. FiLo-
sora, Il). Stante il riconosciuto carattere « divino » della S. non fa
meraviglia che nelle filosofie a sfondo re- ligioso dell’età alessandrina e
posteriori la S. sia stata sostanzializzata e intesa come una specie di
intermediaria fra Dio e il mondo: un’equivalente del /ogos (v.). Secondo
Plotino c'è una S. che è sostanza e della quale nessun’altra S. è migliore; ed
essa «crea tutti gli esseri, che tutti emanano da essa ed è essa stessa gli
esseri che nascono insieme con essa e si identificano con essa, sicchè un’unica
cosa sono S. e sostanza » (Enn., V, 8, 4). Questa concezione si trovava già nel
libro biblico della Sapientia, dove è detto di essa: « È un vapore della virtù
divina e una emanazione sincera della luce di Dio onnipotente. È splendore
della luce eterna, è lo specchio immacolato della maestà di Dio e l’immagine
della Sua bontà. Pur essendo una, può tutto; e permanendo in sè innova tutte le
cose e si trasporta di nazione in nazione nelle anime sante, costituendo gli
amici di Dio e i profeti» (Sap., VII, 25-27). Gli Gnostici avevano, dall'altro
lato, personificata la S. e fatto di essa l’ultima emanazione o eone che vuol
uscire dal suo stato di desiderio e raggiungere la conoscenza diretta del Padre
(IRENEO, Adv. Haer., II, 5). Gli Stoici stessi avevano chiamato Dio, come anima
del mondo, « la perfetta sapienza » (Cicer., Acad., I, 29). La filosofia
medievale ritorna, con S. Tommaso, al concetto aristotelico della sapienza. La
S. ha, secondo S. Tommaso, in comune con tutte le scienze la capacità di
dedurre le conclusioni dai princìpi; ma anche qualche cosa in più delle altre
scienze « in quanto giudica di tutte le cose, non solo quanto alle conclusioni
ma anche quanto ai primi princìpi: sicchè è una virtù più perfetta della
scienza» (S. 7h., III, q. 57, a. 2, ad 1°). Nella filosofia mo- derna, il
termine ha conservato il suo significato di conoscenza perfetta sia per la sua
completezza che per la natura del suo oggetto. SAPIENZA POETICA. Così Vico
chiamò nel secondo libro della Scienza Nuova (1744) la cultura primitiva del
genere umano, in quanto fondata sulla sensibilità più che sull’intelligenza: «La
S. poetica che fu la prima S. della gentilità, dovette incominciare da una
metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma
sen- tita ed immaginata quale dovette essere di tai primi uomini, siccome
quelli che erano di niuno razio- cinio e tutti robusti sensi e vigorosissime
fantasie ». Vico parla di una logica poetica, di una morale poetica, di
un’economia poetica, di una politica poe- tica, di una storia poetica, di una
fisica poetica, di una cosmografia poetica, di un’astronomia poetica, di una
cronologia poetica, di una geografia poetica, come parti della S. poetica.
SARCASMO (gr. capxao 6g; ingl. Sarcasm; fran- cese Sarcasme; ted. Sarkasmus).
L'ironia congiunta all’amara presa in giro di colui contro il quale è diretta.
Il concetto è di origine stoica (cfr. STOBEO, Ecl., II, 6, 222). SAVI, SETTE (gr. Zopiotal;
ingl. Seven Sqges; franc. Sept Sages; ted. Sieben Weisen). Così furono chiamati alcuni personaggi dell’antichità
greca che espressero la loro saggezza in sentenze o motti bre- vissimi, onde
ebbero anche il nome di Gnomici. Essi furono variamente enumerati dagli
scrittori antichi. Talete, Biante, Pittaco e Solone sono com- presi in tutte le
liste. Platone, che per primo li enumerò, aggiunse ad essi Cleobulo, Misone e Chi-
lone (Pror., 343 a). A Talete si attribuisce il motto « Conosci te stesso »
(Dioc. L., I, 40). A Biante il motto «I più sono malvagi » (/bid., I, 88): e
l’altro motto « La carica rivela l’uomo + (ARIST., Et. Nic., V, 1, 1029 b 1). A
Pittaco il motto « Sappi cogliere l'opportunità » (Dioc. L., I, 79). A Solone i
motti «Prendi a cuore le cose importanti?, e « Nulla troppo + (/bid., I, 60,
63). A Cleobulo il motto «Ottima è la misura » (/bid., I, 93). A Misone il
motto «Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle
parole» (/bid., I, 108). A Chilone i motti « Bada a te stesso + e « Non desi-
derare l’impossibile » (/bid., I, 70). SCACCO (franc. Échecj tedesco
Scheitern). Secondo Jaspers, è l’esperienza dell’impossibilità dell’esistenza,
nei suoi aspetti particolari o nel suo insieme; e specialmente l’esperienza
dell’im- possibilità di superare le sifuazioni-limite (v.). Il valore positivo
dello S. consiste nel fatto che esso manifesta o rivela (negativamente) la
trascendenza dell'essere; ed è pertanto una cifra (v.) di questa trascendenza
(Philosophie, III, pag. 219 sgg.) (v. EsI- STENZIALISMO). SCANDALO (ingl.
Scandal; franc. Scandale; te- desco Skandal). Kierkegaard ha fatto dello S. una
categoria religiosa, definendola come «il peccato di disperare della remissione
dei peccati +. Che il peccato possa essere perdonato è, per l’intelletto umano,
la cosa più impossibile di tutte: la reli- gione è da questo punto di vista la
« possibilità dello scandalo +» (Die Krankheit zum Tode, Il, B, B; trad. ital.,
Fabro, pag. 347; cfr. Diario, X! A, 133). SCELTA (gr. alpeow, rmpoalpeo; lat.
Electio; ingl. Choice; franc. Choix; ted. Wahl). Il procedi- mento con cui una
possibilità determinata, a pre- ferenza di altre, viene assunta o fatta propria
o decisa o realizzata in modo qualsiasi. Il concetto di S. è strettamente
legato a quello di possibilità (v.), sicchè non solo non c’è S. dove non c’è
possibilità (giacchè la possibilità è per l'appunto ciò che si offre ad una S.)
ma neppure c’è possibilità dove non c’è S. giacchè l’anticipazione, la
progettazione o la semplice previsione delle possibilità sono scelte.
Dall’altro lato il concetto di S. è una delle determinazioni fondamentali del
concetto di /i- bertà (v.). Il concetto di S. è continuamente presente a
Platone che, nel mito di Er, fa dipendere il destino dell’uomo dalla S. che
ciascuno fa del proprio modello di vita: «Non c’era, egli dice, nulla di
necessariamente preordinato per l’anima perchè ciascuna doveva cambiare secondo
la S. che essa faceva » (Rep., X, 618 b). Ma solo Aristotele ci ha dato la
prima esauriente analisi della S. distinguen- dola: 1° dal desiderio che è
comune anche agli esseri irragionevoli, mentre la S. non lo è (Er. Nic., III,
2, 1111 b 3); 2° dalla volontà, perchè si pos- sono volere anche le cose
impossibili, per es., l’im- mortalità, ma non si possono scegliere (/bid., 1111
b 19); 3° dall’opinione, che anch'essa può ri- guardare le cose impossibili,
per es., quelle eterne, che non dipendono da noi (/bid., 1111 b 30). A queste
determinazioni negative, Aristotele aggiunse la determinazione positiva che la
S. «è sempre accompagnata dalla ragione e dal pensiero + (/bid., 1112 a 15);
alla quale si può aggiungere l’altra fondamentale, che si desume dalle
determinazioni negative: la S. concerne solo le cose possibili. Quest’ultima
determinazione, che è quella fon- damentale, veniva esplicitamente sottolineata
da S. Tommaso, che ripeteva sostanzialmente l’analisi aristotelica (S. Th., II,
1, q. 13, a. 5). La nozione di S. è stata sempre ampiamente utilizzata dai
filosofi, specialmente nella discussione del problema della libertà (v.) ma non
è stata fre- quentemente sottoposta ad analisi. A partire da Kierkegaard, la
filosofia dell’esistenza ha sottoli- neato il valore della S., per ciò che
concerne la personalità stessa dell’uomo o la sua esistenza. E ha considerato
la S. soprattutto sotto l’angolo vi- suale della sua stessa possibilità: cioè
come S. della scelta. Dice Kierkegaard: «La S. è decisiva per il contenuto
della personalità: con la S. essa spro- fonda nella cosa scelta e se essa non
sceglie, appas- sisce in consunzione» (Werke, II, pag. 148). Da questo punto di
vista la S. importante non è quella tra il bene e il male ma quella tra
scegliere e non sce- gliere. « Con questa S., scelgo non tra il bene e il male
ma scelgo il bene; ma in quanto scelgo il bene, scelgo con ciò la S. tra il
bene e il male. La S. originaria è sempre presente in ogni S. ul- teriore »
(/bid., II, pag. 196). Questo concetto è stato frequentemente ripetuto
nell’esistenzialismo contemporaneo. Secondo Heidegger, la S. auten- tica è la
S. di ciò che è stato già scelto cioè la S. di quelle possibilità che sono già
proprie dell’uomo. « Ripetizione della S. significa sceglimento di questa
stessa S., decidersi per una possibilità che ba la radice nel proprio se
stesso. Nello scegliere la S., l’Esserci si rende per la prima volta possibile
il suo autentico poter essere» (Sein und Zeit, $ 54). Ma in questo senso la «
S. della S. » è semplicemente l'accettazione o il riconoscimento di ciò che si
è, con la rinuncia ad ogni pretesa di mutamento o di liberazione. E nello
stesso senso Jaspers dice: «Io non posso rifarmi da capo e scegliere tra
l’esser me stesso e il non esser me stesso come se la libertà fosse soltanto uno
strumento. Ma in quanto scelgo io sono, se non sono non scelgo » (Phil., Il,
pag. 182). Ciò vuol dire che ciò che posso scegliere è soltanto il mio me
stesso: quel me stesso che è identico con la situazione, col luogo della realtà
in cui mi trovo (/bid., I, pag. 245). La S. della S. è in realtà la S. di ciò
che già si è e non si può non essere. Questo concetto di S. della S. finisce
per eliminare la S. stessa: la quale, come Aristotele aveva riconosciuto, e
sempre le- gata al possibile. Dall’altro lato, Sartre ha insi- stito sulla
perfetta arbitrarietà della S., ha identi- ficato S. e coscienza e ha pertanto
visto un atto di S. in ogni atto di coscienza (L’étre et le néant, pag. 539
sgg.). Ciò può essere vero, ma in qualche modo è opportuno rintracciare un senso
più spe- cifico di S., un senso per il quale non tutti gli atti siano scelte.
Questo senso può essere appunto quello di S. della S.; ma non come S. di ciò
che è già stato scelto, bensì come S. di ciò che può ancora essere scelto. In
tal senso la 4 S. possibile » è non soltanto la S. che si offre come una possi-
bilità, ma la S. che, una volta effettuata, si ripre- senta ancora possibile.
Inteso in questo senso, il concetto di S. diventa suscettibile di trattamento
oggettivo e diventa capace di orientare l’analisi delle tecniche di scelta. Da
questo punto di vista, è indispensabile determinare in primo luogo il con-
testo delle S. cioè il campo delle possibilità (v.) oggettive in cui la S. deve
operare. Per es., a un uomo che ha subito un torto le S. che gli si of- frono
per vendicarsi del suo avversario ricorrendo alla forza o alla violenza sono
diverse da quelle che gli sono offerte dal sistema giuridico in cui vive.
Inoltre, sempre in riferimento a uncontesto determinato, si può distinguere il
grado delle S. che è il numero delle possibilità offerte da un determinato
contesto, dall’estensione delle S., che è il numero di individui che hanno
accesso a una S. determinata in un dato contesto. Estensione e grado possono
stare fra loro in tutti i rapporti possibili, perchè l’aumento del grado può
influire su quello dell’estensione e reciprocamente. Il cri- terio della
ripetibilità delle S., sul fondamento delle considerazioni precedenti, e
specialmente sulla base delle regole tecniche del contesto, è universalmente
(per quanto implicitamente adoperato) da tutte le discipline: sicchè, per es.,
un assioma matematico o logico continua ad essere ammesso (cioè la sua S. viene
ripetuta) finchè non conduce a una con- traddizione; una tecnica scientifica o
produttiva rimane in uso (cioè è continuamente S.) finchè non da luogo a
inconvenienti o non se ne trova una migliore; e via dicendo. Della nozione di
S. si fa oggi un uso larghissimo in tutte le scienze e specialmente nella
matematica, nella logica, nella psicologia e nella sociologia. Ma, come si è
detto, raramente essa viene sottoposta ad analisi da queste scienze, che ne
presuppongono il significato corrente. Dall'altro lato le analisi istituite dai
filosofi non sempre rendono conto dei caratteri fondamentali della S. stessa.
Bergson, ad es., ha considerato le alternative davanti alle quali ogni S. si
trova situata come false « spazia- lizzazioni » degli stati interiori di
esitazione; e per- tanto ha concepito la S. come distaccantesi «al modo di un
frutto maturo» dagli stati successivi dell’io (Les données immédiates de la
conscience, 1889, pag. 134). Ma è chiaro che se le alternative sono fittizie,
fittizia è la S. stessa la quale vive solo nel possibile, che è costituito da
alternative. Un tratto più autentico della S. umana è stato messo in luce da
Dewey: « La S. non è l'emergere di una preferenza dall’indifferenza: è
l'emergere di una preferenza unificata da un insieme di preferenze competitive
». Pertanto la S. ragionevole è soltanto quella che unifica e armonizza
differenti tendenze che sono in concorrenza fra loro (Human Nature and Conduct,
1929, pag. 193). Dewey ha così fatto cadere fuori della S. il criterio della
ragionevolezza della S., mettendosi su un piano sul quale si pos- sono
suggerire innumerevoli criteri. Egli ha tuttavia il merito di avere
sottolineato l’importanza della S. e la sua onnipresenza. « L'operazione della
S., ha detto, è inevitabile in qualsiasi intrapresa entri la riflessione. In se
stessa, non è falsificatrice. L'’illu- sione giace nel fatto che la sua
presenza è nascosta, camuffata, negata. Un metodo empirico ritrova e mette in
chiaro l'operazione della S., come fa per qualsiasi altro evento» (Experience
and Nature, 1926, pag. 35). SCELTE, ASSIOMA DELLE (ingl. Axiom of Choice; franc.
Axiome de choix; ted. Auswahl- prinzip). Va con questo nome un principio enun-
ciato da Zermelo nel 1904 secondo il quale: data una classe XK i cui membri
sono classi non vuote a, b, c, ... esiste una funzione f che fa corrispondere
ad ogni classe a, d, c, un elemento e uno solo della classe stessa f (a), f
(5), f (c), ... Questo postulato nella forma di un assioma moltiplicativo, fu
rie- sposto da Russell nella forma seguente: data una classe X i cui membri
sono classi non vuote, che non hanno alcun membro in comune, esiste una classe
A, i cui membri sono tutti membri dei membri di X e che ha solo un membro in
comune con ciascun membro di X. I due assiomi sono stati dimostrati equivalenti
dallo stesso Zermelo. Un’assunzione del genere era frequentemente utilizzata
dai matema- tici, ma la sua enunciazione esplicita ad opera di Zermelo suscitò
dubbi e discussioni: dubbi e di- scussioni che vertono sostanzialmente sul
concetto di «esistenza » dei membri di un insieme. Il postu- lato di Zermelo,
se applicato agli insiemi infiniti, significa semplicemente che si può parlare
della esistenza di un membro dell’insieme anche se non è data una regola
precisa che consente di costruire o riconoscere il membro stesso (cfr. K.
GODEL, The Consistency of the Axiom of Choice and of the Generalized Continuum
Hypothesis with the Axioms of Set Theory, 1940; L. GevMonaT, Storia e filosofia
dell'analisi infinitesimale, 1948). SCETTICISMO (gr. oxertiyà dyoyh; inglese
Scepticism; franc. Scepticisme; ted. Skepricizmus). Con questo termine, che
significa ricerca, s'intende la tesi che è impossibile decidere sulla verità o
falsità di una proposizione qualsiasi. Lo S. non ha nulla a che fare col
relativismo o con le dottrine che tutto è vero o che tutto è falso, giacchè
tali dottrine intendono per l’appunto fornire quel cri- terio di decisione che
lo S. nega che ci sia. Sesto Empirico ha definito con molto rigore la natura
dello S. affermando che il principio fondamentale dello S. è questo: « A ogni
ragione si oppone una ragione di egual valore ». Tale principio infatti im-
pedisce di prender partito per un’affermazione qual- siasi o la sua negazione e
perciò consente di mante- nere l’imperturbabilità (/p. Pirr., I, 12). Lo S. fu
difeso nell’antichità da tre scuole filosofiche diverse: 1° dalla scuola di
Pirrone alla quale esplici- tamente si riattaccava Sesto Empirico (1 secolo)
(v. PIRRONISMO); 2° dalla terza Accademia o nuova Accademia, il cui indirizzo
scetticheggiante fu iniziato da Car- neade di Cirene (i secolo a. C.), che, pur
ammet- tendo l’impossibilità di decidere sul vero o sul SCELTE, ASSIOMA DELLE
falso, riteneva legittimo l’uso di criteri di credibilità puramente soggettivi;
3° da un gruppo di pensatori fioriti dall’ul- timo secolo a. C. al I secolo d.
C. di cui i principali furono Enesidemo (1 secolo a. C.), Agrippa e Sesto
Empirico. Questi pensatori ripresero lo S. rigoroso di Pirrone. Enesidemo
enunciava dieci modi per giungere alla sospensione del giudizio ed Agrippa ne
aggiungeva altri cinque (v. TROPI). Sesto Empi- rico, infine, le cui opere ci
sono state conservate, ha fatto valere le sue istanze scettiche sui principali
temi della filosofia antica e ha riaffermato il carat- tere investigativo,
sospensivo e dubitativo dello S. (Ip. Pirr., I, 7. Il vero precedente storico dello
S. antico è la scuola eleomegarica (v. MegaRICI) la quale si com- piacque di
enunciare quegli argomenti insolubili che rappresentano casi tipici
dell’impossibilità di de- cidere sulla falsità o verità di una tesi (v. ANTI-
NOMIE). Nella storia ulteriore della filosofia lo S. non è mai ritornato nella
sua forma classica. Il Medio Evo lo ignora completamente. Nel Rinasci- mento
esso riaffiora nella meditazione di Mon- taigne, come una delle esperienze
fondamentali alle quali Montaigne fa più frequente riferimento. « Noi non
abbiamo comunicazioni con l’essere perchè l’intera natura umana è sempre in
mezzo tra la nascita e la morte e non attinge di sè che una apparenza oscura ed
umbratile, un’incerta e de- bole opinione» (Essais, ed. Plattard, I, pag. 399).
Montaigne ha in vista soprattutto quel carattere dello S. che gli antichi
scettici chiamavano investi- gativo e che per lui è sperimentativo: « Se la mia
anima potesse prender piede io non mi sperimenterei ma mi risolverei; ma essa è
sempre in tirocinio ed in prova » (/bid., III, 2, pag. 29). E lo stesso signi-
ficato fondamentale ha lo S. di P. Charron che nel libro Sulla saggezza fa
derivare da esso una saggezza naturale e razionale che rende serena la vita e
non è in contrasto con la religione. Queste stesse cose erano dette da
Francesco Sanchez nel Quod nihil scitur (1581). Ma queste non sono, come si
vede, forme di autentico scetticismo. Nè un tale S. si ritrova in colui che,
nel °700, si fece esplicito di- fensore della « filosofia accademica o scettica
» cioè in D. Hume. «Il grande avversario del pirronismo o dei princìpi
esagerati dello S. è l’azione, l’atti- vità e le occupazioni della vita comune»
diceva Hume (/ng. Conc. Underst., XII, 2). Hume contrap- poneva pertanto allo
S. esagerato o eccessivo lo S. mitigato che consiste nella «limitazione delle
nostre ricerche a quegli oggetti che meglio si adat- tano alla ristretta
capacità della mente umana » (Ibid., XII, 3). Ma tale S. non si distingue dalla
tendenza critica della filosofia e pertanto non può essere propriamente
chiamato scetticismo. Nella filosofia moderna la funzione dello S. è stata
duplice. In primo luogo è servito spesso, come bersaglio polemico o ipotesi da
ridurre all’assurdo, ai filosofi che si proponevano di fondare una qualsiasi
dot- trina dogmatica. In secondo luogo è servito come insegna di battaglia
contro determinate filosofie. Così A. E. Schulze contrappose lo S. di Hume al
razionalismo di Kant in un’opera che intitolò al nome dello scettico antico
Enesidemo (1792). In modo analogo G. Rensi si appellò allo S. contro
l’idealismo hegeliano italiano nei primi decenni del sec. xx (Lineamenti di
filosofia scettica, 1917). Ma quello di Rensi fu un curioso S., mescolato con
il materialismo (// materialismo critico, 1934) e perfino con il misticismo
(Testamento filoso- fico, 1939). Sullo S. antico, cfr. DAL PRA, Lo S. greco,
1950. Sullo S. rinascimentale, cfr. R. Hoopes, in Hunt- ington Library; R. H.
PoPKIN, in Review of Meta- physics, 1953, e relative bibliografie. SCHEBLIMINI.
Termine che ricorre nel titolo di uno scritto di J. G. Hamann (Golgotha und S.,
1784) diretto contro Mendelssohn. Il termine, probabilmente desunto da uno
scritto di Lutero, significa l’ispirazione divina e l’esaltazione che essa
comunica, donde la sua opposizione simmetrica a «Golgotha» che è il simbolo
dell’umiliazione. (Cfr. i chiarimenti di L. SCHREINER nel vol. II degli I. G.
Hamanns Hauptschriften erklart, 1956; e V. VERRA, Dopo Kant. Il criticismo
nell’età pre- romantica, 1957, pag. 147 sgg.). SCHEMA (gr. oxfua; ingl. Scheme;
fran- cese Schéma; ted. Schema). Nel significato comune di forma o figura, la
parola viene comunemente usata dai filosofi. Un senso specifico fu dato al
termine solamente da Kant che intese per esso l’intermediario tra le categorie
e il dato sensibile, intermediario la cui funzione sarebbe quella di eli-
minare l’eterogeneità dei due elementi della sintesi, essendo generale come la
categoria e temporale come il contenuto dell’esperienza. In questo senso lo S.
o più precisamente lo S. trascendentale è «la rappresentazione di un
procedimento generale per cui l’immaginazione offre ad un concetto la sua
immagine » (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. I). Kant distingue vari tipi
di S. secondo i quattro gruppi delle categorie; e pone tra essi il numero (S.
della quantità) e la cosalità (S. della qualità). In generale gli S. sono
determinazioni del tempo e costituiscono perciò fenomeni o concetti sensibili
di oggetti in accordo con una categoria determinata (/bid., Anal. dei Princ.,
cap. I). In modo analogo lo S. fu inteso da Schelling, che lo distingueva
dall’immagine (rispetto alla quale è più generale) e dal simbolo; Schelling
intendeva per S. «l'intuizione della regola secondo cui l’og- getto può essere
prodotto » e pertanto ne chiariva la nozione con l’esempio dell’artigiano che
deve creare un oggetto di forma determinata in con- formità di un concetto
(System des transzenden- talen Idealismus, 1800, III, cap. II, 3* epoca- trad.
ital., pag. 183). Questo significato kantiano e schellinghiano è l’unico
significato tecnico della parola che talora ancora ricorre (cfr., ad es.,
LEWIS, An Analysis of Knowledge and Valuation, pag. 134). AI di fuori di essa,
il termine significa semplicemente modello o immagine generale o forma (come
av- viene, per es., in BERGSON, Matière et mémoire, pag. 130 sgg.; Énergie
spirituelle, pag. 161; La pensée et le mouvant, pag. 216) o progetto ge-
nerale. SCHEMATISMO (gr. cynuariopée; ingl. Sche- matism; franc. Schématisme;
ted. Schematismus). 1. Configurazione o struttura. Questo è il signifi- cato
comune del termine greco, al quale fece riferimento Bacone parlando dello S.
latente come di uno dei due aspetti fondamentali dei fenomeni naturali (l’altro
è il processo latente o processo alla forma). Per S. latente Bacone intese la
con- figurazione o struttura dei corpi considerati stati- camente (De Augm.
Scient., II, 1), sicchè lo studio dello S. fu da lui paragonato a ciò che è
l’anatomia per i corpi organici (Nov. Org., II, 7). 2. Kant intese per S. «il
modo di comportarsi dell’intelletto con gli schemi» (Crit. R. Pura, Anal. dei
Princ., cap. I). E in senso analogo usava la parola Schelling (System des
transzendentalen Idealismus, III, cap. II, 3* epoca). Sulla dottrina kantiana
dello S., cfr. E. Paci, « Critica dello sche- matismo trascendentale », in
Rivista di Filosofia, 1955, n. 4; 1956, n. 1. SCHIAVITÙ (gr. sovàela; lat.
Servitus; in- glese Slavery; franc. Esclavage; ted. Sklavereì). La
giustificazione della S., presso i filosofi, ha rivestito sempre la stessa forma:
la S. è cosa utile non solo al padrone ma allo schiavo stesso. Questo è il
motivo per cui Aristotele ritiene la S. come una delle divisioni naturali della
società pari a quella tra femmina e maschio. Infatti poichè c’è «chi è
naturalmente disposto al comando » e « chi è naturalmente disposto ad essere
comandato » la loro unione è «ciò per cui entrambi possono so- pravvivere ». La
stessa cosa (cioè la S.) è quindi « vantaggiosa sia per il padrone che per lo
schiavo + (Pol., I, 2, 1252 a). Lo stesso S. Tommaso ripe- teva, citando
Aristotele, questa considerazione: « Che quest'uomo sia servo, a preferenza di
un altro è cosa che da un punto di vista assoluto non ha una ragione naturale
ma solo la ragione di una qualche utilità, in quanto è utile allo schiavo che
egli sia governato da uno più saggio ed è utile a costui che egli si giovi
dello schiavo » (S. Tà., II, 2, q. 57, a. 3, ad 2°). L’illustrazione che della
figura servo-padrone ha dato Hegel nella Fenome- nologia dello spirito
obbedisce allo stesso spirito di giustificazione. Il signore è l’autocoscienza
del servo e il servo è lo strumento che elabora gli oggetti affinchè il signore
ne goda e affinchè, in questa maniera egli stesso partecipi, per mediazione, al
godimento dell’oggetto come il padrone partecipa per mediazione alla produzione
di esso (Phanom. des Geistes, I, IV, A; trad. ital., pag. 168 sgg.). D'altronde
il cristianesimo aveva reso insigni- ficante la S.; e, in un certo senso, anche
la sua condanna. Poichè sia il giudeo che il greco, sia il servo che il libero,
sia il maschio che la femmina « fanno una sola cosa in Gesù Cristo » (Ga/.,
III, 28) non è importante che si sia schiavi o liberi, ma basta essere «liberto
del Signore» (/ Cor., VII, 21-22). Nel mondo antico soltanto gli Stoici con- dannarono
senza riserve la S.: « Solo il sapiente è libero e i malvagi sono schiavi:
giacchè la libertà non è che l’autodeterminazione e la S. è l’assenza
dell’autodeterminazione. C’è poi un’altra S. che consiste nella soggezione o
nella compera e nella soggezione, cui si contrappone la padronanza, che è
malvagia anch'essa » (Diog. L., VII, 121). Accanto alla negazione della S. come
istituzione sociale, gli Stoici fecero prevalere il concetto della S. come
stato o situazione morale. Diceva Seneca: « ‘Sono schiavi *. Sì, ma anche
uomini. ‘ Sono schiavi ”. Sì, ma anche compagni di abitazione. ‘ Sono schiavi
’. Sì, ma anche umili amici. ‘ Sono schiavi ’. Sì, ma anche compagni di
schiavitù, se rifletterai che gli uni e gli altri sono soggetti ai capricci
della fortuna » (Ep., 47): concetti che sono variamente ripetuti nella
letteratura romana, per quanto non trovas- sero alcun riscontro nel diritto
romano codificato, che faceva dello schiavo la «cosa? del padrone. Nel mondo
moderno, è stata la filosofia illumini- stica a rendere assurda e ripugnante la
nozione stessa di S.: la difesa che essa fece della nozione di eguaglianza
significa appunto la condanna della S. in tutte le sue forme e gradi (cfr., ad
es., VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique, 1764, arti- colo « Egalité +).
SCIENTISMO (ingl. Scientism; franc. Scien- tisme; 1. L'atteggiamento proprio di
chi si av- vale dei metodi e dei procedimenti della scienza. Questo è il
significato che il termine ha spe- cialmente in inglese (cfr. però anche LE
DANTEC, Contre la métaphysique, 1912, pag. 51). 2. L’atteggiamento di chi dà
importanza prepon- derante alla scienza nei confronti delle altre attività
umane o ritiene che non ci siano limiti alla validità e all’estensione della
conoscenza scientifica. In questo senso il termine equivale a positivismo ma
con una connotazione peggiorativa. Dice Bergson: SCIENTISMO « Noi abbiamo
soltanto domandato alla scienza di restare scientifica, di non avvolgersi in
una meta- fisica incosciente che si presenta allora agli igno- ranti, o ai
semidotti, sotto la maschera della scienza. Durante più di mezzo secolo questo
S. ha ingombrato la strada della metafisica» (La SCIENZA (gr. ètriomhun; lat.
Scientia; in- glese Science; franc. Science; ted. Wissenschaft). Una conoscenza
che includa, in modo o misura qualsiasi, una garanzia della propria validità.
La limitazione espressa con le parole «in modo o mi- sura qualsiasi » è qui
inclusa per rendere la defini- zione applicabile alla S. moderna che non ha
pretese di assolutezza. Ma il concetto tradizionale della S. è quello per il
quale la S. include una garanzia assoluta di validità ed è perciò, come
conoscenza, il grado massimo della certezza. L’op- posto della S. è l'opinione
(v.), caratterizzata per l'appunto dalla mancanza di garanzia circa la sua
validità. Le differenti concezioni della S. si pos- sono distinguere a seconda
della garanzia di vali- dità che le si riconosce. Questa garanzia può
consistere: 1° nella dimostrazione; 2° nella descri- zione; 3° nella
correggibilità. 1° La dottrina che la S. provvede a garantire la propria
validità dimostrando le sue affermazioni, cioè connettendole in un sistema o in
un organismo unitario nel quale ciascuna di esse sia ne- cessaria e nessuna
possa essere tolta, aggiunta o mutata, è l’ideale classico della scienza.
Platone paragonava l’opinione (v.) alle statue di Dedalo che sono sempre in
atto di fuggire: le opinioni difatti « disertano dall'anima umana sicchè non
hanno gran pregio finchè qualcuno non riesce a legarle con un ragionamento
causale +. Ma « quando siano legate diventano S. e rimangono fisse. Ecco perchè
la S. (conclude Platone) è più valida della retta opinione e differisce da essa
per la sua con- nessione » (Men., 98 a). La dottrina della S. di Aristotele è
molto più ricca e circostanziata, ma obbedisce allo stesso concetto. La S. è «
conoscenza dimostrativa ». Per conoscenza dimostrativa s’in- tende quella per
cui «si conosce la causa di un oggetto cioè si conosce perchè l’oggetto non può
esser diverso da com'è» (An. Pr., I, 2, 71b 9 sgg.). Di conseguenza, l’oggetto
della S. è il necessario (v.); e perciò la S. si distingue dall'opinione e non
coincide con essa: se coincidesse, « si sarebbe con- vinti che un medesimo
oggetto possa comportarsi diversamente da come si comporta e si sarebbe, al
tempo stesso convinti che non possa compor- tarsi diversamente» (An. Posr., I,
33, 89a 38). Perciò Aristotele esclude che ci possa essere S. del non
necessario: della sensazione (/bid., 31, 87 b 27) e dell’accidentale (Mer., VI,
2, 1027 a 20); mentre identifica la conoscenza scientifica con la conoscenza
dell’essenza necessaria o sostanza (/bid., VII, 6, 1031 b 5). La più perfetta
realizzazione di questo ideale della S. furono gli Elementi di Euclide (sec. Im
a. C.). Quest'opera, che ha voluto realiz- zare la matematica come S.
perfettamente deduttiva, senza nessun appello all’esperienza o all’induzione, è
rimasta per molti secoli (e sotto certi aspetti rimane a tutt'oggi) il modello
stesso della scienza. Attraverso gli E/ementi di Euclide la concezione della S.
di Platone e di Aristotele si trasmise più efficacemente che attraverso la
delineazione teorica di Aristotele. Da tale delineazione gli antichi non si
scostarono. Gli Stoici la ripetettero affermando che «la S. è la comprensione
sicura, certa e im- mutabile fondata sulla ragione» (Sesto E., Adv. Math., VII,
151) o che essa «è una compren- sione sicura o un abito immutabile ad
accogliere rappresentazioni, fondato sulla ragione» (Droc. L., VII, 47). S.
Tommaso ripeteva le notazioni aristo- teliche (S. 77., II, 1, q. 57, a. 2) e
Duns Scoto accentuava il carattere dimostrativo e necessario della S.
escludendo da essa ogni conoscenza priva di quei caratteri, quindi l’intero
dominio della fede (Op. Ox., Prol., q. 1, n. 8). Anche l’ultima sco- lastica,
con Ockham, manteneva in piedi l’ideale aristotelico della S. (In Sent., III,
q. 8). Il sorgere della S. moderna non ha messo in crisi questo ideale. Da un
lato il necessitarismo degli aristotelici viene condiviso anche dai loro
avversari; dall’altro persiste la suggestione della matematica come S. perfetta
per la sua organizza- zione dimostrativa; e Galilei stesso poneva le « di-
mostrazioni necessarie » accanto alla « sensata espe- rienza » come fondamento
della S. (Opere, V, pag. 316). L’ideale geometrico della S. domina pure le
filosofie di Cartesio e Spinoza. Cartesio voleva organizzare tutto il sapere
umano sul mo- dello dell’aritmetica e della geometria: le sole S. che egli
riconosceva «prive di falsità e di incer- tezza » perchè fondate interamente
sulla deduzione (Regulae ad directionem ingenii, IL E Spinoza chiamava S.
intuitiva la estensione del metodo geo- metrico all'intero universo, estensione
per il quale «dall’idea adeguata dell’essenza formale di alcuni attributi di
Dio si procede alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose + (Er., II, 40,
scol. 2°). Kant contrassegnava questo vecchio ideale con un nuovo termine,
quello di sistema (v.). « L’unità sistematica, egli diceva, è ciò che prima di
tutto fa di una cono- scenza comune una S. cioè di un semplice aggregato un
sistema +; e aggiungeva che per sistema bisogna intendere « l’unità di
molteplici conoscenze rac- colte sotto un’unica idea » (Crif. R. Pura, Dottrina
del metodo, cap. III; cfr. Meraphysische Anfangs- griinde der
Naturwissenschaft, Vorrede). Questo concetto della S. come sistema, introdotto
da Kant, è diventato un luogo comune della filosofia dell’800 ed è ancora
quello cui fanno oggi ricorso le filosofie di carattere teologico o metafisico.
Ciò è accaduto soprattutto perchè il Romanticismo lo ha fatto suo e lo ha
ripetuto fino alla nausea. Diceva Fichte: « Una S. dev’essere una unità, un
tutto... Le singole proposizioni in generale non sono S., ma diventano S. solo
nel tutto, mercè il loro posto nel tutto, la loro relazione con il tutto »
(Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ I) Schelling ripeteva: « Si
ammette generalmente che alla filosofia convenga una forma sua particolare che
si dice sistematica. Presupporre una tal forma non dedotta tocca ad altre S.
che già presuppongono la S. della S., ma non già a questa che si propone per
oggetto la possibilità di una S. siffatta » (System des transzendentalen
Idealismus, 1800, I, cap. I; trad. ital., pag. 27). E Hegel affermava
perentoria- mente: « La vera forma nella quale la verità esiste può essere
soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si
avvicini alla forma della S. — cioè alla meta, raggiunta la quale essa sia in
grado di abbandonare il nome di amore del sapere per essere vero sapere — ecco
ciò che io mi sono proposto» (Phanom. des Geistes, Prefa- zione, I, 1). Fichte,
Schelling e Hegel ritenevano che il solo sapere sistematico, quindi la sola S.,
fosse la filosofia. Ma il concetto di sistema è ri- masto a caratterizzare la
S. in generale, quindi anche la S. della natura, per molti filosofi dell’800.
H. Cohen vedeva nel sistema la categoria più alta della natura e della S.
(Logik, 1902, pag. 339). Husserl poneva il carattere essenziale della S. nella
« unità sistematica » che in essa trovano le singole conoscenze e i loro
fondamenti (Logische Unter- suchungen, 1900, I, pag. 15); e additava nel
sistema l’ideale stesso della filosofia, se essa vuole organiz- zarsi come «S.
rigorosa» (Philosophie als strenge Wissenschaft, 1910-11; trad. ital., pag. 5).
L'ideale della S. come sistema ha continuato a vivere anche molto tempo dopo
che le S. naturali si sono allon- tanate da esso e hanno cominciato a
polemizzare contro «lo spirito di sistema ». Se si può oggi considerare
tramontato l’ideale classico della S. come sistema compiuto di verità
necessarie o per evidenza o per dimostrazione, non si possono tuttavia
considerare tramontate tutte le caratteristiche di esso. Che la S. sia, o tenda
ad essere, un sistema, un’unità, una totalità organiz- zata, è pretesa che
viene talora condivisa anche dalle altre concezioni della S. stessa. Ciò che
questa pretesa conserva in ogni caso di valido è l’esigenza che le proposizioni
che costituiscono il corpo linguistico di una S. siano tra loro compa- tibili
cioè non contraddittorie. Questa esigenza in- dubbiamente è assai più debole di
quella che vorrebbe che tali proposizioni costituissero una unità o un sistema;
anzi, parlando a rigore, è un’esigenza totalmente diversa giacchè la non con-
traddittorietà non implica in alcun modo l’unità sistematica. Tuttavia, nel
corrente linguaggio scien- tifico o filosofico, spesso l’esigenza sistematica
vicne ridotta a quella della compatibilità. 2° La concezione descrittiva della
S. si è ve- nuta formando a partire da Bacone e per opera di Newton e dei
filosofi illuministi. Il suo fonda- mento è la distinzione baconiana tra
anticipazione e interpretazione della natura: l’interpretazione con- sistendo
nel «condurre gli uomini davanti ai fatti particolari e ai loro ordini » (Nov.
Org., I, 26, 36). Newton stabiliva il concetto descrittivo della S.
contrapponendo il metodo dell’analisi al metodo della sintesi. Quest’ultimo
consiste « nell’assumere che le cause sono state scoperte, nel porle come
princìpi e nello spiegare i fenomeni procedendo da tali principi e considerando
come prova questa spiegazione ». L'analisi consiste invece «nel fare
esperimenti ed osservazioni, nel trarre conclusioni generali da essi per mezzo
dell’induzione e nel non ammettere contro le conclusioni obiezioni che non
siano derivate dagli esperimenti o da altre verità certe» (Opricks, III, 1, q.
31). La filosofia del- l’illuminismo esaltò e diffuse l’ideale scientifico di
Newton. « Questo grande genio, diceva D’Alembert, vide che era tempo di bandire
dalla fisica le con- getture e le ipotesi vaghe o almeno di darle solo per quel
che valgono e di sottoporre questa S. sol- tanto alle esperienze e alla
geometria » (Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in (Euvres, ed. Con-
dorcet, pag. 143). Nello stesso tempo D’Alembert dichiarava ormai inutile, per
la S. e per la filo- sofia, lo spirito di sistema. « Tutte le S., egli diceva,
rinchiuse, per quanto è possibile, nei fatti e nelle conseguenze che si possono
da essi dedurre, non accordano nulla all’opinione, salvo quando vi sono
costrette ». La S. si riduce così all’osservazione dei fatti e alle inferenze o
ai calcoli fondati sui fatti. Il positivismo ottocentesco non faceva che appel-
larsi allo stesso concetto della scienza. Diceva Comte: « Il carattere
fondamentale della filosofia positiva è quello di considerare tutti i fenomeni
come soggetti a leggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui
riduzione al minimo nu- mero possibile sono lo scopo di tutti i nostri sforzi,
mentre consideriamo come assolutamente inaccessibile e priva di senso la
ricerca di quelle che si chiamano cause, sia primarie sia finali» (Cours de
phil. positive, I, $ 4; vol. I, pag. 26-27). Ma il positivismo insistette anche
su quel carattere della S. che già Bacone aveva messo in luce: il carattere
attivo od operativo, per cui essa permette all’uomo di agire sulla natura e
dominarla mediante la previsione dei fatti resa possibile dalle leggi (Ibid.,
II, $ 2; pag. 100). L’ideale descrittivo della S. non implica pertanto che la
S. consista nel rispec- chiamento o nella riproduzione fotografica dei fatti.
Da un lato, il carattere anticipatorio della cono- scenza scientifica per il
quale essa si concreta in previsioni fondate sui rapporti accertati tra i fatti
le toglie il carattere fotografico: non si può infatti fotografare il futuro.
Dall'altro lato, la stessa S. positivistica ha messo in luce il carattere
attivamente orientato della descrizione scientifica. Le considera- zioni di
Claude Bernard a questo proposito sono particolarmente importanti: « La
semplice constata- zione dei fatti, egli dice, non potrà mai giungere a
costituire una scienza. Si possono moltiplicare i fatti e le osservazioni, ma
questo non farà appren- dere nulla. Per istruirsi bisogna necessariamente
ragionare su ciò che si è osservato, paragonare i fatti e giudicarli con altri
fatti che servono di controllo » (Zntr. à l’étude de la médecine expéri-
mentale, 1865, I, 1, $ 4). Da questo punto di vista, una S. di osservazione
sarà una S. che ragiona sui fatti dell’osservazione naturale cioè sui fatti
puramente e semplicemente constatati; mentre una S. sperimentale o di
esperimento ragionerà sui fatti ottenuti nelle condizioni che lo sperimentatore
ha creato e determinato lui stesso (2bid., 1865, I, 1,84). La dottrina della S.
di Mach non potrebbe chia- marsi descrittiva se per descrizione si intendesse
la riproduzione fotografica degli oggetti, ma si può chiamare descrittiva nel
senso ora chiarito. Dice Mach: « Se escludiamo ciò che non ha senso ri-
cercare, vedremo apparire più nettamente ciò che possiamo realmente attingere
mediante le S. par- ticolari: tutte le relazioni e i differenti modi di
relazione degli elementi tra loro » (Erkenntniss und Irrtum, cap. I; trad.
franc., pag. 25). L’innovazione di Mach consiste nel suo concetto degli
elementi: tali elementi essendo per lui comuni sia alle cose che alla coscienza
e diversi nella coscienza e nella cosa solo in quanto appartenenti ad insiemi
diversi (1bid., cap. I; trad. franc., pag. 25; cfr. Die Analyse der
Empfindungen, 9* ediz., 1922, pag. 14). La fun- zione economica che Mach
attribuì alla S. o, più precisamente ai concetti scientifici, non toglie per-
tanto il carattere descrittivo della S., riconoscibile nella tesi che la S. ha
per oggetto i rapporzi fra gli elementi. Appunto perchè la S. considera i
rapporti tra i fatti, essa è una descrizione abbreviativa ed economica dei
fatti stessi (Die Mechanik; trad. ingl., 1902, pag. 481 sgg.). Allo stesso modo
Bergson riconosce il carattere convenzionale ed economico della S. dal fatto
che essa, che ha come suo organo l’intelligenza, si ferma non sulle cose ma sui
rap- porti tra le cose o le situazioni (Év. créarr., 83 ediz., 1911, pag. 161,
356). L’ideale descrittivo della S., ricorre ancora in scrittori recenti. Dewey
afferma: « Nella S., poichè i significati sono deter- minati sulla base della
loro relazione reciproca come significati, le relazioni divengono gli oggetti
dell’indagine e le qualità vengono assai sminuite di importanza, rivestendo una
funzione soltanto in quanto siano d’aiuto nello stabilire relazioni » (Logic,
VI, $ 6; trad. ital., pag. 171). Ora le re- lazioni non sono che un altro nome
per /eggi giacchè la legge non è che l’espressione di una relazione: sicchè lo
stesso concetto della S. si può riscontrare in tutti gli scrittori che
riconoscono nella formulazione della legge il compito della scienza. Diceva H.
Dingler: «Il compito principale della S. consiste nel raggiungere leggi nel
maggior numero possibile » (Die Methode der Physik, 1937, I, $ 9). E più recentemente
R. B. Braithwaite ha affermato: «Il concetto fondamentale della S. è quello
della legge scientifica e lo scopo fondamen- tale di una S. è lo stabilimento
di leggi. Per capire il modo in cui una S. opera e il modo in cui essa fornisce
spiegazioni dei fatti che investiga, è ne- cessario capire la natura delle
leggi scientifiche c il modo di stabilirle » (Scientific Explanation, Cam-
bridge, 1953, pag. 2). 3° Una terza concezione è quella che riconosce come
unica garanzia della validità della S. la sua autocorreggibilità. Si tratta di
una concezione che si è affacciata nelle avanguardie più critiche o meno
dogmatiche della metodologia contemporanea e non ha ancora raggiunto gli
sviluppi assunti dalle due concezioni precedenti; ma che è tuttavia significa-
tiva, sia perchè muove dall’abbandono di ogni pre- tesa alla garanzia assoluta,
sia perchè apre nuove prospettive allo studio analitico degli strumenti di
indagine di cui le S. dispongono. Il presupposto di questa concezione è il
fallibilismo (v.) che Peirce riconosceva proprio di tutta la conoscenza umana
(Coll. Pap., I. 13, 141-52). Ma la tesi in questione è stata per la prima volta
espressa da Morris R. Cohen: « Noi possiamo definire la S. come un sistema
autocorrettivo.. La S. invita al dubbio. Essa può svilupparsi 0 progredire non
solo perchè è frammentaria ma anche perchè nessuna sua pro- posizione è in se
stessa assolutamente certa e così il processo di correzione può operare quando
tro- viamo prove più adeguate. Ma bisogna notare che il dubbio e la correzione
sono sempre in accordo con i canoni del metodo scientifico così che questa
ultima è il suo legame di continuità » (Srudies in Philosophy and Science,
1949, pag. 50). M. Black ha più recentemente adottato un punto di vista
analogo: «I princìpi stessi del metodo scientifico devono a loro volta essere
considerati come provvi- sori e soggetti a ulteriori correzioni, in modo che
una definizione di ‘ metodo scientifico * sarebbe verifica- bile in qualche
esteso senso del termine » (Problems of Analysis, 1954, pag. 23). In termini
apparente- mente paradossali ma equivalenti, K. Popper aveva affermato nella
Logica della ricerca (1935) che l’ar- mamentario della S. è diretto, non alla
verifica, ma alla falsifica delle proposizioni scientifiche. « 11 nostro metodo
di ricerca, egli diceva, non è diretto a difendere le nostre anticipazioni per
provare che abbiamo ragione, ma al contrario è diretto a di- struggerle. Usando
tutte le armi del nostro arma- mentario logico, matematico e tecnico, noi
tentiamo di provare che le nostre anticipazioni sono false, per avanzare, al
loro posto, nuove ingiustificate e ingiustificabili anticipazioni, nuovi
‘frettolosi e pre- maturi pregiudizi’ come Bacone derisoriamente le chiamava »
(The Logic of Scientific Discovery, 23 edi- zione, 1958, $ 85, pag. 279). Con
questo Popper ha voluto segnare l’abbandono dell’ideale classico della S.: « Il
vecchio ideale scientifico dell’episteme, della conoscenza assolutamente certa
e dimostra- bile, si è rivelato un idolo. L’esigenza dell’obbiet- tività
scientifica rende inevitabile che ogni asser- zione scientifica rimanga per
sempre come un tentativo ». L'uomo, non può conoscere ma solo congetturare
(/bid., pag. 278, 280). Affermare che gli strumenti di cui la S. dispone siano
diretti a dimostrar false le asserzioni della S. è un altro modo per esprimere
il concetto dell’autocorreggibi- lità della S.: provar falsa un’asserzione
significa infatti sostituirla con un’altra asserzione, non an- cora provata
falsa, quindi correttiva della prima. La nozione dell’autocorreggibilità
costituisce indub- biamente la garanzia meno dogmatica, che la S. può esigere,
della propria validità. Essa consente un’analisi meno pregiudicata degli
strumenti di ac- certamento e di controllo di cui le singole S. di- spongono
(cfr. Beyond the Edge of Certainty, a cura di R. C. Colodny, 1965). SCIENZA,
DOTTRINA DELLA (inglese Science of Science; franc. Doctrine de la science; ted.
Wissenschaftslehre). Espressione con cui Fichte designò «la S. delle S. in
generale » cioè la S. che espone in modo sistematico il principio fondamen-
tale su cui poggiano tutte le altre scienze. « Ogni possibile S. ha un
principio fondamentale che in essa non può essere dimostrato ma dev'essere già
certo prima di essa. Ora dove dev'essere dimo- strato questo principio
fondamentale? Senza dubbio in quella S. la quale deve fondare tutte le possi-
bili S.» (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 2; trad. ital., pag.
11-12). Fichte identificava la dottrina della S. con la filosofia e vedeva il
suo principio fondamentale nell’Io. L’espressione viene tuttora usata
prevalentemente in riferimento a Fichte. Tuttavia B. Bolzano l’ado- però come
titolo di un’opera per indicare la dottrina che espone le regole per la
divisione del campo del sapere nelle singole S. e per l’apprendimento del
sapere stesso (Wissenschaftslehre, 1837, I, $ 6; cfr. IV, $ 392 sgg.). Ma per
la disciplina che con- sidera le forme o i procedimenti della conoscenza
scientifica sono state più frequentemente adoperate le parole gnoseologia (v.)
e metodologia (v.). SCIENZA NUOVA. Espressione con cui G. B. Vico designò la
sua opera maggiore, pub- blicata per la prima volta nel 1725 e in nuove
edizioni nel 1730 e nel 1744. Il titolo completo Principi di una scienza nuova
intorno alla comune natura delle nazioni dice l’intento dell’opera. Vico si
proponeva di instaurare una S. che avesse per suo compito la ricerca delle
leggi che sono proprie del mondo della storia umana, al modo in cui la S.
naturale ricerca leggi del mondo naturale. Vico vuol essere il Bacone del mondo
della storia e si propone di rintracciare l’ordine di tale mondo e di
esprimerlo in leggi. Le fondamentali caratte- rizzazioni che egli dà della S.
nuova sono le seguenti (cfr. specialmente S. N. del 1744, I, Del metodo): 1° la
S. nuova è una « teologia civile ragionata della provvidenza divina »: cioè la
dimostrazione dell’ordine provvidenziale che si va attuando nella società umana
a misura che l’uomo si solleva dalla sua caduta e dalla sua miseria primitiva.
Vico contrappone questa teologia civile alla teo- logia fisica della
tradizione, la quale dimostra l’azione provvidenziale di Dio nella natura; 2°
la S. nuova è «una storia delle umane idee sulla quale sembra dover procedere
la metafisica della mente umana»: essa è cioè la determinazione dello sviluppo
intellettuale umano dalle rozze ori- gini fino alla «ragione tutta spiegata +.
In questo senso essa è anche una « critica filosofica che mostra l’origine
delle idee umane e la loro successione +; 3° in terzo luogo la S. nuova tende a
descri- vere «una storia ideale eterna, sopra la quale cor- rano in tempo le
storie di tutte le nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e
fini ». Come tale, la S. nuova è anche una S. dei principi della storia
universale e del diritto naturale universale; 4° la S. nuova è inoltre « una
filosofia dell’au- torità » cioè della tradizione, giacchè dalla tradizione
desume le prove di fatto (o filologiche) che accer- tano l’ordine di
successione delle età della storia. Sul concetto della storia di Vico, v.
STORIA. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE (ingl. Classification of Sciences;
franc. Classification des sciences; ted. Klassifikation der Wissenschafte). Mentre un'enciclopedia (v.) è il tentativo di dare il
quadro completo di tutte le discipline scientifiche e di fissare in modo
definitivo i loro rapporti di coordinazione e subordinazione, una
classificazione delle S. ha solo l’intento più modesto di dividere le S. in due
o più gruppi secondo l’affinità dei loro oggetti o dei loro strumenti
d’indagine. È ovvio che anche le enciclopedie delle S. possono essere
considerate come semplici classificazioni; ma molto più efficaci sono state nei
confronti dello stesso la- voro scientifico alcune semplici classificazioni
pre- sentate dai filosofi dell’800. La più famosa di tutte è quella proposta da
Ampère di S. dello spirito o noologiche e S. della natura o cosmologiche (Essai
sur la philosophie des sciences, 1834). Questa classificazione è stata
estesamente accettata e ta- lora riespressa con altri termini, per es., come
distinzione tra S. culturali e S. naturali (Du Bols- ReyMonp, Kulturgeschichte
und Naturwissenschaften, 1878). Alla sua diffusione contribuì soprattutto Dil-
they che nella Introduzione alle scienze dello spirito (1883) insistette sulla
differenza tra le scienze che mirano a conoscere causalmente l’oggetto, che ri-
mane esterno, cioè le S. naturali e quelle che invece mirano a comprendere
l’oggetto (che è l’uomo), e a riviverlo intrinsecamente, cioè le S. dello
spirito. Windelband a sua volta distingueva tra S. nomo- tetiche che cercano di
scoprire la legge e concernono la natura; e S. idiografiche che hanno invece di
mira il singolo nella sua forma storicamente de- terminata e hanno per oggetto
la storia (Geschichte und Naturwissenschaften, 1894, poi nei Praludien). In
modo più riuscito Rickert esprimeva la stessa differenza affermando che le S.
della natura hanno carattere generalizzante mentre le S. dello spirito hanno
carattere individuante (Die Grenzen der na- turwissenschaftlichen
Begriffsbildung, 1896-1902, pa- gina 236 sgg.) (v. STORIOGRAFIA). Da un altro
punto di vista, Comte aveva di- stinto due specie di S. naturali: le S.
astratte o generali che hanno per oggetto la scoperta delle leggi che regolano
le diverse classi dei fenomeni e le S. concrete, particolari, descrittive, che
consi- stono nell’applicazione di queste leggi alla storia effettiva dei
differenti esseri esistenti (Cours de phil. positive, 1830, I, II, $ 4).
Spencer riprendeva questa distinzione e a sua volta divideva tutte le S. in
astratte (logica formale e matematica), astratto- concrete (meccanica, fisica,
chimica) e concrete (astronomia, mineralogia, geologia, biologia, psico- logia,
sociologia) (The Classification of the Sciences, 1864). E Wundt semplificava
questa classificazione riducendola a due gruppi soltanto: quello delle S.
formali (logica e matematica) e quello delle S. reali (le S. della natura e
dello spirito) (System der Philosophie, 1889). Poco diversa da questa è la
classificazione triadica di Ostwald in S. formali, S. fisiche e S. biologiche
(Grundriss der Naturphilo- sophie, 1908). La distinzione tra S. formali e S.
reali è ancora largamente accettata. R. Carnap l’ha riproposta sul fondamento
che le S. formali conter- rebbero solo asserzioni analitiche e le S. reali o
fattuali conterrebbero anche asserzioni sintetiche (in Erkenntniss, 1934, n. 5;
ora in Readiîngs in the Philosophy of Science, 1953, pag. 123 sgg.). Così
interpretata la classificazione lascia, come nota Carnap, intatta l’unità della
S. giacchè «le S. formali non hanno oggetto affatto: sono sistemi di asserzioni
ausiliarie senza oggetto e senza con- tenuto » (/bid., pag. 128). Queste ultime
parole di Carnap si spiegano tenendo presente che alla distinzione tra le varie
S. non si può dare oggi un carattere assoluto 0 rigoroso. Le seguenti parole di
von Mises esprimono bene il punto di vista più diffuso sull’argomento:
«Ogni ripartizione e suddivisione delle
S. ha solo un’importanza pratica e provvisoria, non è siste- maticamente
necessaria e definitiva, cioè dipende dalle situazioni esterne in cui si compie
il lavoro scientifico e dalla fase attuale di sviluppo delle singole
discipline. I progressi più decisivi hanno spesso origine dal chiarimento di
problemi che si trovano al confine di settori sino ad allora trattati
separatamente » (K/eines Lehrbuch des Positivismus, 1939, V, 7). SCOLASTICA
(ingl. Scholasticism; franc. Sco- lastique; ted. Scholastik). x. Propriamente,
la filo- sofia cristiana del Medio Evo. Si chiamò scholasticus nei primi secoli
del Medio Evo l'insegnante di arti liberali ed in seguito il docente di
filosofia o teologia che teneva le sue lezioni prima nella scuola del chiostro,
o della cattedrale, poi nell’Università. S. significa perciò, alla lettera, la
filosofia della scuola. Poichè le forme dell’insegnamento medie- vale erano
due, la /ecrio, che consisteva nel com- mento di un testo e la disputatio, che
consisteva nell’esame di un problema fatto con la discussione degli argomenti
che si possono addurre pro e contra, l’attività letteraria assunse nella S.
prevalentemente la forma di Commentari o di raccolte di questioni (v.
QUESTIONE).Il problema fondamentale della S. è quello di portare l’uomo alla
comprensione della verità rive- lata. La S. è l’esercizio dell’attività
razionale (0, in pratica, l’uso di una qualche determinata filosofia, che è
quella neoplatonica o quella aristotelica) allo scopo di accedere alla verità
religiosa, di dimostrarla o chiarirla nei limiti in cui questo è possibile e di
approntare per essa un armamentario difensivo contro l’incredulità e le eresie.
La S. pertanto non è una filosofia autonoma, come, ad es., la filosofia greca:
il suo dato o il suo limite è l’insegnamento religioso, il dogma. Nel suo
stesso compito essa non si fida delle sole forze della ragione ma fa appello,
per aiuto, alla stessa tradizione reli- giosa o filosofica con l’uso delle
cosiddette aucio- ritates. Auctoritas è la decisione di un concilio, un detto
biblico, la sentenzia di un padre della chiesa o anche di un grande filosofo
pagano, arabo o giudaico. Il ricorso all’autorità è la manifestazione tipica
del carattere comune e super-individuale della ricerca S., nella quale il
singolo vuole conti- muamente sentirsi appoggiato dalla responsabilità
collettiva della tradizione ecclesiastica. La S. medievale si suole distinguere
in tre grandi periodi: 1° l’alta S. che va dal rx secolo alla fine del x secolo,
che è caratterizzata dalla fiducia nell’armonia intrinseca e sostanziale di
fede e ra- gione e nella coincidenza dei loro risultati; 2° il fiorire della S.
che va dal 1200 ai primi anni del 1300, che è l’epoca dei grandi sistemi nel
quale l’accordo tra fede e ragione viene ritenuto solo parziale, senza che
tuttavia si ritenga possibile il loro contrasto; 3° la dissoluzione della S.
che va dai primi decenni del 1300 sino al Rinascimento durante la quale il tema
fondamentale è per l’ap- punto il contrasto tra fede e ragione. Questo concetto
della S. è stato avviato dall'opera fondamentale di M. GRABMAN, Die Geschichte
der scholastischen Methode (1909, rist.
1956). Non sono mancati i tentativi di considerare la S. come una sintesi
dottrinale completa nella quale con- fluissero e si fondessero i contributi
individuali (per es., da parte di De WuLF, Histoire de la philosophie
médiévale, 1900 e successive ed.); ma questi tentativi non hanno base storica e
si riducono a mettere fuori dalla S. un gran numero di autori S. e a stabilire,
tra gli altri, concordanze e unifor- mità fittizie (cfr. AsBagnANO, Storia
della fil., 2% ed., 1958, I, $ 171, e relativa bibliografia). 2. Per estensione
si può chiamare S. ogni filosofia che si assuma il compito di illustrare e difendere
razionalmente una determinata tradi- zione o rivelazione religiosa. In questo
compito di regola una S. si avvale di una filosofia già stabilita e famosa:
sicchè in questo senso la S. è l’utilizza- zione di una filosofia determinata
per la difesa e l’illustrazione di una determinata tradizione reli- giosa (v.
FiLosoria). In questo senso generalizzato le S. sono molte, sia nell’antichità
che nel mondo moderno. Nell’antichità furono S. il neoplatonismo, il
neopitagorismo, ecc. Nel Medio Evo furono S. la filosofia degli arabi e dei
giudei. Nel mondo moderno è una scolastica la filosofia di Malebranche, quella
di Berkeley, della destra hegeliana, di Ro- smini, di molti spiritualisti, ecc.
SCOMMESSA (ingl. Wager; franc. Pari; tede- sco Wette). Viene così chiamato il
famoso argomento di Pascal in favore della fede. Poichè l’esistenza di Dio non
si può dimostrare, Pascal dimostra che è conveniente scommettere sull’esistenza
di Dio. « La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno che
scegliendo l’altro perchè bisogna scegliere necessariamente. Ecco un punto
liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita dando a
croce il senso che Dio esiste. Valutiamo i due casi: Se guadagnate, guada-
gnate tutto; se perdete, non perdete niente. Scom- mettete dunque che egli
esiste, senza esitare» (Pensées, 233). Pascal aggiunge che, una volta decisi a
scom- mettere, sarà facile credere, « facendo tutto come se si credesse,
prendendo l’acqua benedetta, facendo dir messe, ecc. Ciò vi farà credere e vi
abbrutirà (abétira) (Ibid.).» L'argomento fu ripetuto da W. James nella sua
Volontà di credere (1897). James interpreta il passo pascaliano come se dicesse
che è irrazionale correre il rischio di perdere la verità, pur di non incorrere
eventualmente in errore (The Will to Believe, cap. I). L’argomento pascaliano
non è suscettibile di molte interpretazioni e tutte le discussioni intorno ad
esso tendono piuttosto a difenderlo o a confutarlo. È soprattutto riuscita
sconcertante l’espressione ado- perata da Pascal «vi abbrutirà» (vous abérira).
E non è mancato chi ha cercato espungerla dal testo pascaliano, leggendo invece
a/lestira che significhe- rebbe « vi renderà pronto » (GAILLARD, « Une nou-
velle leson d’un mot célèbre de Pascal», in Annales de l'Université de
Grenoble, XXI, 13). Ma in realtà l’espressione pascaliana non intende ridurre
la fede all’abbrutimento, ma si riferisce ad uno dei punti fondamentali della
dottrina di Pascal, per cui la fede deve investire non soltanto lo spirito
dell’uomo ma anche la macchina, l’auroma che è nell'uomo (Pensées, 250) cioè il
complesso delle abitudini che fissano la fede stessa e la sottraggono al
dubbio. L’abétira si riferisce a questo secondo aspetto, senza il quale la fede
stessa è incompleta. SCOPRIMENTO (ted. Entdecktheit). Secondo Heidegger, «la
possibilità dell’essere di ogni ente non conforme all’Esserci » [cioè di ogni
cosa del mondo] di essere rintracciata e determinata « attra- verso un
particolare processo che la scopre mo- vendo dall'ente che per primo s'incontra
nel mondo ». È, secondo Heidegger, uno dei caratteri fondamentali delle cose,
in quanto utilizzabili, quindi della mondità in generale (Sein und Zeit, $ 18).
SCOTISMO (ingl. Scorism; franc. Scotisme; ted. Scotismus). La dottrina di Giovanni
Duns Scoto (1266-1308) e dei suoi seguaci caratterizzata dai seguenti punti: 1°
la dottrina del carattere pratico della scienza teologica, che non conterrebbe
verità tco- retiche ma solo regole per la condotta umana in vista della
salvezza ultramondana; 2° l’affermazione della indimostrabilità di un numero
rilevante di proposizioni filosofiche e teo- logiche. Già Duns Scoto riteneva
impossibile dimostrare, ad es., tutti gli attributi di Dio o l’im- mortalità
dell'anima. Nello scritto a lui attribuito ma di dubbia autenticità intitolato
Theoremara nu- merose altre proposizioni teologiche sono dichiarate
indimostrabili; 3° la dottrina dell’univocità dell’essere, che lo S. sostiene
in polemica con il tomismo, e per la quale la metafisica è la scienza suprema,
avendo per oggetto l’essere in generale, cioè sia quello delle creature sia
quello di Dio; 4° la dottrina dell’individuazione, che fa con- sistere
l’individuazione stessa nell’ultima determi- nazione della forma, della materia
e del loro com- posto cioè nella Aaecceitas (v. INDIVIDUAZIONE). Questa
dottrina fu interpretata dalla scuola di Scoto, in polemica con la dottrina
tomistica che l’individuazione dipende dalla materia signata, nel senso che
l’individuazione dipende dalle forme e precisamente dal sovrapporsi di un
numero inde- finito di forme nello stesso composto; 5° il volontarismo, cioè la
dottrina del primato della volontà, che Duns Scoto condivide con Enrico di Gand
(v. VOLONTARISMO). SCOZZESE, SCUOLA (ingl. Scottish School; franc. École
écossaise; ted. Schortische Schule). Un gruppo di filosofi scozzesi che
comprende Tom- maso Reid (1710-96), Dugald Stewart (1753-1828), Tommaso Brown
(1778-1820), Guglielmo Hamilton (1788-1856) ed Enrico Mansel (1820-71), le cui
dottrine fondamentali sono: 1° l’appello al senso comune per garantire alcune
verità teoretiche e morali che si ritengono fondamentali per l’uomo (v. SENSO
COMUNE); 2° il realismo naturale cioè la teoria che l’oggetto immediato del
conoscere non è l’idea (come da Cartesio a Hume si era ritenuto) ma la stessa
cosa esterna (v. REALISMO). SCRUPOLO (ingl. Scruple; franc. Scrupule; ted.
Skrupel). Esitazione ad agire per una incerta valutazione della situazione cioè
perchè non si sa se l’azione progettata sia corretta o meno. Tale è il
significato della parola in frasi come «Gli è venuto uno S.» oppure « Agire
senza S.». Scrupolosità significa dall’altro lato l’atteggia- mento di chi
suscita a se stesso S. al fine di eseguire meglio un lavoro o di svolgere più
accuratamente un'attività qualsiasi. SECONDARIA, PROPOSIZIONE (ingl. Secondary
Proposition; franc. Proposition secondaire; ted. Sekundàr Satz). Boole indicò
con questa espressione le proposizioni che hanno per oggetto altre
proposizioni, mentre chiamò pri- marie le proposizioni che hanno per oggetto le
relazioni tra cose (Laws of Thought, 1854, cap. XI). SECONDARIE E PRIMARIE,
QUALITÀ. V. QUALITÀ. SECUNDUM QUID ET SIMPLICITER (FALLACIA). Identificata già
da Aristotele (Soph. El., 5, 167 a), è la fallacia (v.) che consiste nel pas-
sare da una premessa in cui un certo termine è preso in senso relativo ad una
conclusione in cui il termine stesso è preso in senso assoluto (« Se il
non-essere è oggetto di opinione, il non-essere è 1). (Cfr. Pietro Ispano,
Sunm. Log., 7.46 sgg.). G.P. SEGNALE (ingl. Signal; franc. Signal; te- desco
Signal). 1. Lo stesso che segno (v.). Morris intende la parola nel senso di
segno naturale (Signs, Language and Behavior, I, 8). 2. Lo stesso che simbolo
(v.). In questo secondo senso la parola è usata quando si parla, per es., di un
«S. di pericolo +: S. qui è un segno conven- zionale cioè un simbolo. SEGNO
(gr. omuetov; lat. Signum; ingl. Sign; franc. Signe; ted. Zeichen). Qualsiasi
oggetto od evento, usato come richiamo di altro oggetto od evento. Questa
definizione che è quella general- mente adoperata o presupposta nella
tradizione filosofica antica e recente, è generalissima e consente di
comprendere sotto la nozione di S. ogni possi- bilità di riferimento: per es.,
quello dell’effetto alla causa o viceversa; della condizione al condi- zionato
o viceversa, dello stimolo di un ricordo al ricordo stesso; della parola al suo
significato; del gesto indicativo (per es., un braccio teso) alla cosa
indicata; dell’indizio o del sintomo di una situazione alla situazione stessa,
ecc. Tutte queste relazioni possono essere comprese nella nozione di segno. In
senso proprio e ristretto, tuttavia, questa nozione dev’essere assunta come la
possibilità del riferimento di un oggetto o evento presente ad un oggetto o
evento non presente o la cui presenza o non presenza è indifferente. In questo
senso più ristretto la possibilità d’uso dei S. o semiosi è la caratteristica
fondamentale del comportamento umano perchè consente l’utilizzazione del
passato (di ciò che « non è più presente ») per la previsione e la
progettazione del futuro (di ciò che «non è ancora presente +). In tal senso si
può dire che l’uomo è per eccellenza un animale simbolico, in questo suo
carattere venendo a radicarsi la possi- bilità di scoperta e d’uso di quelle
recniche, in cui consiste propriamente la sua ragione (v.). La dottrina del S.
quale fu per la prima volta formulata dagli Stoici conserva ancor oggi la sua
validità. Gli Stoici chiamavano S. in generale « ciò che sembra rivelare
qualcosa »; ma in senso proprio chiamavano S. «ciò che è indicativo di una cosa
oscura » cioè non manifesta (Sesto Emp., Adv. Math., VIII, 143; /p. Pirr., I,
99 sgg.). Considera- vano pertanto i S. di due specie fondamentali: S.
rammemorativi che si riferiscono a cose solo occasionalmente oscure, per es.,
il fumo che è S. del fuoco; e S. indicativi che non vengono mai osservati
insieme con la cosa indicata che è oscura per natura; e in questo senso i
movimenti del corpo si dicono S. dell’anima (/bid., VIII, 148-155). Sappiamo
pure che gli Stoici vedevano nella capa- cità dell’uomo di usare i S. la sua
differenza dal- l’animale (/bid., VIII, 276); e consideravano il S. come un
prodotto intellettuale, identificandolo con « una proposizione costituita da
una connessione valida e rivelatrice del conseguente » (/bid., VIII, 245). Gli
Epicurei invece consideravano il S. di natura sensibile e tale da consentire e
fondare l’in- duzione (Ibid, VIII, 215 sgg.; cfr. INDUZIONE). In seguito, sul
modello della dottrina stoica, il S. veniva sempre definito come la relazione
di riferimento fra due termini connessi. S. Tommaso non escludeva che si
potesse chiamar S. la causa sensibile di un effetto occulto (.S. Th., I, 70, a.
2, ad 2°). La logica terministica distinse il riferimento del S. al suo
denotato, che è il rapporto di significa- zione istituito ad arbitrio, dalla
supposizione (v.) che è il rapporto per il quale il termine compreso in una
proposizione sta in luogo di qualcosa (confronta Pretro Ispano, Summ. Log.,
6.03). Ockham defi- niva il S. come « tutto ciò che, una volta appreso, fa
venire a conoscere qualche altra cosa » (Surmna Logicae, I, 1); e distingueva
il S. naturale ch: è il concetto (o intenzione dell'anima) in quanto è prodotto
dalla cosa stessa al modo in cui il fumo è prodotto dal fuoco, dal S.
convenzionale, cioè istituito ad arbitrio che è la parola (/bid., I, 14). La
filosofia inglese del 6-700 si servi ampiamente della nozione di S. ma non lo
definì in modo nuovo. Hobbes diceva: « Un S. è l'antecedente
evidentedelconseguente o, al contrario, il conseguente dell’an- tecedente
quando conseguenze simili sono state osservate prima; e più spesso sono state
osservate, meno incerto è il S. » (Leviarh., I, 3). Berkeley si servì della
nozione di S. per definire la funzione delle idee generali, che sarebbero idee
particolari «assunte a rappresentare o a stare per altre idee particolari della
stessa sorta + (Principles of Human Knowledge, Intr., $ 12). E Wolff dava
nell’ultimo capitolo della sua Ontologia una lucida e stringata dottrina del S.
definendolo come « un ente da cui si inferisce la presenza o l’esistenza
passata o futura di un altro ente » (Onr., $ 952) e distinguendo con-
seguentemente il S. dimostrativo che indica un designato presente, il S.
prognostico il cui designato è futuro e il S. rammemorativo o memoriale il cui
designato è passato (/bid., $ 954). In base a questi concetti, ogni
procedimento conoscitivo può ov- viamente essere considerato un procedimento
se- gnico. Kant invece, da un lato considerò le parole e i S. visibili (algebrici,
numerici, ecc.) come sem- plici espressioni dei concetti cioè come «
caratterisensibili » che designano concetti e servono solo come mezzi
soggettivi di riproduzione; dall'altro considerò i simboli come
rappresentazioni analo- giche, cioè infra-intellettuali, degli oggetti intuiti
(Crit. del Giud., $ 59; Antr., I, $ 38). Pertanto, secondo Kant, «chi sa
esprimersi sempre soltanto in modo simbolico ha pochi concetti intellettuali e
ciò che spesso si ammira nella vivace espressione che i selvaggi (e talvolta
anche i pretesi sapienti di un popolo rozzo) usano nei loro discorsi, non è che
povertà di idee, e quindi anche di parole per esprimerle» (/bid., $ 38). I
kantiani tuttavia non fu- rono così alieni come il loro maestro dal ridurre
tutta la conoscenza all’uso dei segni. H. Helmholtz considerava le sensazioni
come segni prodotti nei nostri organi di senso dall’azione delle forze esterne;
e riponeva la validità di questi S., non n lla loro somiglianza con le cose, ma
nel fatto che essi hanno tra loro un ordine che riproduce quello che c’è tra le
cose (Die Tatsachen in der Wahrnehmung, 1879). Nella stessa linea di pensiero
E. Cassirer ha studiato le forme simboliche della vita umana nonchè il loro
significato concettuale (Die Philosophie der symbolischen Formen, 3 voll.,
1923-29) ed ha chiamato l’uomo animal symbolicum (Essay on Man, 1944, cap. II;
trad. ital., pag. 49). Quando la teoria dei S., per influenza della logica
matematica, viene ripresa nella filosofia contempo- ranea, i suoi tratti
fondamentali non mutano; ma ad essa viene aggiunta un altro ordine di consi-
derazioni, precisamente quelle che cadono sotto la cosiddetta pragmatica (v.):
cioè le considerazioni che concernono il rapporto del S. coi suoi inter- preti.
Si può dire che da questo punto di vista non già il S. ma la semiosi (v.) cioè
l’uso dei S. o il comportamento segnico, sia il proprio oggetto della semiotica
cioè della teoria dei segni. Questo indirizzo è stato inaugurato da C. S.
Peirce. Dopo aver dato la definizione tradizionale del S. (come «qualcosa
conoscendo la quale conosciamo qual- cos’altro »), Peirce aggiunge che « un S.
è un oggetto che è da un lato in relazione con il suo oggetto e dall’altro in
relazione con un interpretante in modo tale da portare l’interpretante in una
relazione con l’oggetto corrispondente alla sua propria relazione all’oggetto
». Il S. è pertanto una relazione triadica tra il S. stesso, il suo oggetto e
l’interpretante (Coll. Pap., 2.243 sgg.; 8.332). Conseguentemente Peirce
classificava i S. sotto tre punti di vista diversi: di per se stessi cioè come
S.; nella loro relazione al- l'oggetto; nella loro relazione all’interpretante.
Con- siderati in se stessi i S. possono essere apparenze o qualisegni; od
oggetti o eventi individuali, cioè sinsegni (nella quale parola la sillaba sin
è la prima sillaba di semel, simul, similar, ecc.); o tipi generali o legisegni
(Ibid., 8.334). Considerati in rapporto all’oggetto rappresentato, un S. può
essere: una icona, per es., una percezione visiva o un’audizione musicale; un
indice come sarebbe un nome proprio o il sintomo di una malattia; o un simbolo
che è un S. convenzionale (/bid., 8.335). Rispetto all’oggetto immediato il S.
può essere S. di una qualità, di un ente o di una legge. Rispetto al suo
interpretante, infine, il S. può essere un rema, un dicente o un argomento,
cioè un termine, una proposizione o un ragionamento (/bid., 8.337). Questa
classificazione di Peirce è stata da lui riespressa con un’altra ter- minologia
che ha avuto più fortuna. Egli ha chia- mato ripo una forma definitamente
significante, che non è una singola cosa o un singolo evento e non esiste da sè
ma determina le cose che esistono; gettone (token) un evento singolo che accade
una volta sola, come questa o quella parola che si trova su una sola linea di
una sola pagina di una sola copia di un libro; e fono (tone) un carattere
indefinitamente significante come un tono di voce (Coll. Pap., 4.537). Queste
tre specie corrispondono rispettivamente a legisegno, sinsegno, qualisegno
della classificazione precedente (v. PAROLA; TIPO). Molta fortuna ha avuto (e
non meritata) la clas- sificazione dei S. che Ogden e Richards dettero in The
Meaning of Meaning (1923). Essi distinsero un uso simbolico e un uso emotivo
dei S.: l’uso sim- bolico è l’asserzione cioè il riferimento del S. a un
oggetto; l’uso emotivo tende invece a esprimere e a produrre sentimenti e
atteggiamenti. « Sotto la funzione simbolica sono incluse sia la simbolizza-
zione del riferimento sia la comunicazione di esso all’ascoltatore, cioè la
produzione nell’ascoltatore di un riferimento simile. Sotto la funzione emotiva
sono incluse sia l’espressione di emozioni, atteg- giamenti, umori, intenzioni,
ecc., del parlante sia la loro comunicazione cioè la loro evocazione nel-
l’ascoltatore » (The Meaning of Meaning, 10* ediz., 1952, pag. 149). Questa
classificazione è stata utiliz- zata (specialmente da C. L. STEVENSON, Ethics
and Language, 1944) per l’analisi del linguaggio della morale e in generale del
linguaggio normativo, ma ha deboli fondamenti, soprattutto per l’impos-
sibilità in cui si trova di fornire un criterio semplice e sufficientemente
sicuro per effettuare nei casi particolari la distinzione proposta. Una più
arti- colata e spregiudicata classificazione dei segni è quella di C. Morris
che distingue gli identificatori che significano la localizzazione nello spazio
e nel tempo; i designatori che significano le caratteristiche dell'ambiente;
gli apprezzatori che significano uno status preferenziale e i prescrittori che
significano la richiesta di risposte specifiche (Signs, Language and Behavior,
1946, II, 2; trad. ital., pag. 97). Da questi S. che complessivamente chiama
/essicali Morris distingue i S. formatori i quali significano che «la
situazione significata in altro modo è una situazione di alternative» (/bid.,
VI, 1). Questi ultimi sono distinti in dererminatori, come « tutti », « alcuni
», « nessuno »; connettori come le virgole, le parentesi, la copula, le
congiunzioni e € 0, ecc., e i manieratori, che sono i S. di interpunzione.
Morris ha fatto prevalere nella filosofia contem- poranea la teoria dei S.
stabilita da Peirce intro- ducendo un'utile terminologia: chiamando veicolo
segnico l’oggetto o evento che serve da S.; designato l’oggetto cui il S. si
riferisce, interpretante l’effetto del S. sull’interprete cioè il senso del S.;
ed infine interprete il soggetto del processo segnico (Foundations of the
Theory of Signs, 1938, II, 2). Morris ha pure insistito, sulle orme di Peirce,
sul carattere comportamentistico del processo segnico; ha cercato anzi di
definire il S. in termini puramente comportamentisti. La definizione cui è
giunto è la seguente: « Se qualcosa A guida il comportamento verso un fine in
un modo simile (ma non necessa- riamente identico) a quello in cui qualche altra
cosa, B, guiderebbe il comportamento verso quel fine nel caso che B fosse
osservata, allora A è un S.» (Ibid., I, 2; trad. ital., pag. 21). L’infiuenza
della teoria dei riflessi condizionati su questa definizione è evidente (v.
AZIONE RIFLESSA). Carnap, e con lui molti altri, hanno accettati i fondamenti
della teoria di Morris, come pure la divisione della semiotica generale nelle
tre parti da lui proposte (cfr. R. CaRNAP, Foundations of Logic and Mathe-
matics, 1939, I, 2; trad. ital., pag. 6-7) (v. SEMIOTICA). SELEZIONE (ingl.
Selection; franc. Sélection; ted. Selektion). Scelta: sia intesa come procedi-
mente deliberato sia intesa come risultato di un procedimento non deliberato.
In questo secondo senso C. Darwin parlò di S. naturale come nel procedimento
attraverso il quale la lotta per la vita assicura la sopravvivenza del più
adatto (Origin of Species, IV, $ 1). SEMANTICA (ingl. Semantics; franc. Séman-
tique; ted. Semantik). Propriamente, la dottrina che considera il rapporto dei
segni con gli oggetti cui si riferiscono, cioè il rapporto di designazione. Il
termine, che fu proposto per tale dottrina da Bréal (Essais de sémantique.
Science des significations, 1897), trova la sua giustificazione etimologica nel
verbo greco anualvew, introdotto da Aristotele per indicare quella specifica
funzione del segno lin- guistico per cui questo «significa», «designa» qualche
cosa. La S. sarebbe quindi quella parte della linguistica (e in particolare
della Logica) che studia, analizza, la funzione significatrice dei segni, i
nessi tra i segni linguistici (parole, frasi, ecc.) e i loro significati.
Sebbene questa ne sia l’accezione più generalmente diffusa, tuttavia nella
filosofia e nella Logica contemporanea il termine viene im- piegato anche in
altre. Per es., A. Korzybski (Science and Sanity) adopera « S. » per indicare
una teoria relativa all'uso del linguaggio, soprattutto nei rapporti delle
nevrosi che secondo questo autore sono provocate da, o sono causa di, certi
abusi linguistici. I logici polacchi in genere (e in parti- colare Chwistek),
che pure hanno contribuito po- tentemente a far nascere questo ultimo ramo
della Logica formale, non essendo soliti distinguere tra proposizione ed
enunciato, tra significato logico e forma linguistica di una proposizione, usano
questo termine per indicare in genere la Logica formale. Ciononostante fu
proprio sotto la spinta degli studi dei logici polacchi che verso il 1956 si
cominciò a delimitare il campo di questa nuova disciplina. Fu per opera di Ch.
W. Morris e R. Carnap che si cominciarono a distinguere in seno alla semiotica
(teoria dei segni in generale, dei segni linguistici in particolare) alcuni
aspetti fondamentali: la pragmatica, che studia il comportamento segnico di
esseri umani che si scambiano segni per deter- minate cause, per certi scopi,
ecc. (e quindi è un ramo della psicologia e/o della sociologia); la S., la
quale, prescindendo dalle circostanze concrete (psicologiche e sociologiche)
del comportamento linguistico, restringe il suo campo all’analisi del rapporto
tra segno e referente (significatum, desi- gnatum, denotatum); e infine la
sintattica, la quale, facendo astrazione anche dai significati, studia i
rapporti intercorrenti tra i segni in se stessi entro un dato sistema
linguistico. S. e sintattica vengono di fatto a costituire due grandi capitoli
in cui si spezza la Logica formale pura. Però di quest’ultima fa parte non
tanto la S. descrittiva, ricerca empi- rica rivolta alla descrizione di un
determinato si- stema semantico (o gruppo di sistemi affini) e quindi
pertinente piuttosto alla Linguistica che alla Lo- gica, quanto invece la S.
pura, la quale costituisce a priori le regole di un sistema sintattico
generale. Questa pertanto, piuttosto che una dottrina dei significati, appare
come una teoria generale della verità e della deduzione nei sistemi sintattici
in- terpretati, e perciò la sua distinzione dalla sintattica diviene molto
sottile e problematica (cfr. MORRIS, Foundations of the Theory of Signs, 1938,
cap. IV; CARNAP,
Foundations of Logic and Mathematics, 1939, I, 2; Meaning and Necessity, 1957,
pag. 233; Introduction to Semantics, 1942; 2 ediz., 1958; Linskvy, editor,
Semantics and the Philosophy of Language, 1952). Quine ha recentemente insistito sulla diversità del
riferimento semantico vero e proprio, che sa- rebbe il significare, dal
riferimento del nominare. Tale diversità risulta, per es., dal fatto che si può
no- minare lo stesso oggetto, come quando si dice «Scott» e «l’autore di
Waverley », mentre i signi- ficati sono diversi. La S. conterrebbe così due
parti: una teoria del significato alla quale apparterrebbe l’analisi dei
concetti di sinonimia, significanza, ana- liticità, implicazione; e una teoria
del riferimento alla quale apparterrebbe l’analisi dei concetti di nomi-
nazione, verità, denotazione, estensione. Ma Quine stesso osserva che finora la
parola S. è stata ado- perata soprattutto per la teoria del riferimento,
sebbene il nome sarebbe più adatto alla teoria del significato (From a Logical
Point of View, 1953, VII, 1; II, 1). V. SIGNIFICATO. SEMASIOLOGIA. Lo stesso
che semantica (v.). SEMI (gr. oréppata; lat. Semina). Così sono stati spesso
chiamati gli elementi ultimi delle cose. Anassagora usò per primo il termine
per designare le particelle che Aristotele chiamò omeomerie (Fr., 4, Diels). Il
termine fu poi adoperato da Epicuro (Fr., 250, Uesener) e da Lucrezio (De nat.
rer., VI, 201 sgg.; VI, 444, ecc.). La stessa metafora è nella nozione stoica
di ragioni seminali (v.). SEMIOSI (ingl. Semiosis). Il processo in cui qualcosa
funziona come segno, che è l’oggetto proprio della semiotica, nel senso di
Morris (Foun- dations of the Theory of Signs, 1938, II, 2). L’espres- sione è
equivalente a quella di comportamento segnico dallo stesso Morris preferita nel
volume Signs, Language and Behavior, 1946, I, 2 (v. SEGNO). SEMIOTICA (gr. tò
muiwrxéy; lat. Semioric; franc. Sémiotique; ted. Semiotik). Il termine ado-
perato dapprima per indicare la scienza dei sin- tomi nella medicina (cfr.
GaLENO, Op., ed. Kiin, XIV, 689) fu proposto da Locke per indicare la dottrina
dei segni, corrispondente alla logica tra- dizionale (Saggio, IV, 21, 4); e in
seguito adope- rato da Lambert come titolo della terza parte del suo Nuovo
organo (1764). Nella filosofia contem- poranea, C. Morris ha fatto prevalere,
il concetto della S. come teoria della semiosi (v.) più che del segno; e la
divisione della S. stessa in tre parti, che corrispondono alle tre dimensioni
della semiosi: la semantica che considera il rapporto dei segni con gli oggetti
cui si riferiscono; la pragmatica che considera la relazione dei segni con gli
interpreti; e la sintattica che considera la relazione formale dei segni tra
loro (Foundations of the Theory of Signs, 1938, II, 3). Accettata da Carnap
(Founda- tions of Logic and Mathematics, 1939, I, 2), questa distinzione si è
largamente diffusa nella filosofia e nella logica contemporanea (v. PRAGMATICA;
SE- MANTICA; SINTASSI). SEMPLICE (gr. arà60g; lat. Simplex; inglese Simple;
franc. Simple; ted. Einfach). Ciò che manca di varietà o di composizione: vale
a dire ciò che esiste in un unico modo o che è privo di parti. Nel primo senso,
come mancanza di varietà, intese il S. Aristotele: « Nel senso pri- mario e
fondamentale è necessario ciò che è S.: giacchè non è possibile che questo sia
in modi diversi o che sia ora in un modo ora in un altro » (Met., V, 5, 1015 b
12). Nel secondo senso ado- però la parola Leibniz che definì la monade una
sostanza S. perchè senza parti (Monadologia, $ 1). TI concetto rimase fissato
in questo senso per opera di Wolff (Onrol., $ 673). Nella logica terministica
medievale era adoperato nello stesso senso il ter- mine incomplexum (= non
composto), come con- trario a complesso (v.): cioè o nel senso di un ter- mine
che è costituito da una sola parola o nel senso del termine di una
proposizione, sia esso costituito da una o più parole (cfr. OckHAM, Expositio
aurea, foglio 40 b). Per semplicità come caratteristica delle ipotesi 0 delle
teorie scientifiche s'intende l’esigenza dell’eco- nmomia (v.) cui esse devono
obbedire (v. TEORIA). Corrispondentemente, per semplificazione s'intende ogni
procedura atta a rendere economica la con- cettualizzazione o la teorizzazione,
cioè ogni pro- cedura che riduca il numero o la complessità dei concetti
adoperati. SENSAZIONE (gr. atomo; lat. Sensus, Sensio; ingl. Sensation; franc.
Sensation; ted. Emp- findung). Il termine ha due significati fondamentali: 1°
un significato generalissimo per cui designa la totalità della conoscenza
sensibile cioè tutti e ognuno i suoi costituenti; 2° un significato speci- fico
per cui designa gli elementi della conoscenza sensibile cioè le parti ultime
indivisibili da cui essa si suppone costituita. Questo secondo significato
ricorre soltanto nella filosofia moderna. 1° Aristotele intende sotto il
termine S.: a) le qualità elementari come il bianco, il nero, il dolce, ecc.
(De An., III, 2, passim); b) la perce- zione dell’oggetto reale, che chiama S.
in arto e che fa coincidere con la realtà stessa dell’oggetto: onde una S.
uditiva in atto è identica col suono in atto (/bid., III, 2, 425b 26); c) la
facoltà di sentire in generale o senso comune (v.), al quale attribuisce la
funzione di percepire i sensibili co- muni e le S. stesse (cioè il sentir di
sentire) (De Somno, 2, 455a 17; De An., III, 2, 426b 11; 415 b 12); d) il senso
particolare o proprio come l’udito, la vista, ecc. (De Somno, 2, 455 a 14; De
An., III, 2, passim); e) l’organo di senso, più frequentemente detto sensorio
(De Part. An., II, 10, 657a 3; IV, 10, 686a 8; De Sensu, 3, 440 a 19). Questa
terminologia si mantiene lunga- mente nella storia del pensiero occidentale
cioè sino a quando, con Cartesio, il concetto di S. comincia ad essere
nettamente distinto da quello di percezione. 2° Nel suo più specifico
significato il concetto di S. fu delimitato da Cartesio che intese per essa il
semplice avvertimento dei « movimenti che ven- gono dalle cose » e la distinse
dalla percezione che è invece il riferimento alla cosa esterna (Passions de
l’îme, I, 23). Da questa distinzione, che si consolidò sempre più dopo
Cartesio, specialmente per opera della Scuola scozzese, la S. veniva ri- dotta
ad essere l’unità elementare della conoscenza sensibile, quel che Locke chiamò
«idea semplice », e considerata come il materiale della conoscenza; mentre la
funzione conoscitiva vera e propria, cioè il riferimento all’oggetto, veniva
assunta dalla percezione (v.). È questo il concetto che fu accettato e diffuso
da Kant: « La S., egli disse, è l’elemento puramente soggettivo della nostra
rappresentazione delle cose che son fuori di noi; ma è propriamente l’elemento
materiale della rappresentazione stessa, il reale, ciò con cui è dato alcunchè
di esistente » (Crit. del Giud., Intr., $ VII; cfr. Crit. R. Pura, $ I;
Dialettica trascendentale, libro I, sez. I: « Una percezione che si riferisca
unicamente al soggetto come modificazione del suo stato, è S. »). Il carat-
tere primordiale o elementare della S. veniva egualmente accentuato da Hegel,
per quanto in forma arbitraria e fantastica: «La S. è la forma dell’agitarsi
ottuso dello spirito nella sua indivi- dualità priva di coscienza e di
intelletto ». In un certo senso è vera, secondo Hegel, l’asserzione che «tutto
è nella S.» nel senso che tutto ha la fonte e l’origine in essa; ma fonte e
origine significano solo la maniera prima e più immediata in cui qualcosa
appare e la S. non si giustifica da sè (Enc., $ 400). Il concetto di S. come
elemento semplice ed ultimo della conoscenza fu dapprima accettato e illustrato
da filosofi, poi posto a fondamento della nascente psicologia dai primi cultori
di questa scienza. Condillac fu il primo a realizzare la por- tata di questo
concetto. Se la S. è l’elemento ultimo della conoscenza, si deve poter
ricostruire, a partire da essa, l’intero mondo della conoscenza o dell’attività
spirituale umana. Questa è la dimo- strazione che egli si accinse a dare nel
7ratfato delle S. (1754), nel quale assumeva a fondamento il principio che «il
giudizio, le riflessioni, le pas- sioni e in una parola tutte le operazioni
dell’anima non sono che la S. stessa che si trasforma varia- mente » (7raité
des sensations, Compendio della prima parte). Pur nella sua polemica contro il
sensismo, Maine de Biran riconosce il carattere semplice ed elementare della S.
(CEuvres, ed. Na- ville, II, pag. 115); come le riconosce tale carattere
Herbart (Allgemeine Metaphysik, 1828, II, pag. 90). Il concetto del carattere
elementare della S. fu posto a base della psicologia da H. Spencer che
affermava che «le S. sono stati di coscienza pri- mariamente indecomponibili »
(Principles of Psy- chology, 1855, $ 211). Il principio veniva consacrato da G.
Fechner nei suoi E/emente der Psychophysik (1860) e da Wundt il quale
esplicitamente definiva le S. come « quegli stati di coscienza che non si trali
e quindi come i componenti semplici di ogni oggetto sia fisico sia psichico
(Analyse der Emp- findungen, 1903, 48 ediz., pag. 14, 17, ecc.). Le esperienze
elementari di cui R. Carnap parlava nella Costruzione logica del mondo sono
ancora le S. (Die logische Aufbau der Welt, 1928, $ 67). Quando la psicologia
della forma (v. PSICOLOGIA) ba eliminato l’atomismo e l’associazionismo della
vecchia psicologia, il concetto di S. è diventato pressochè inutile. Ancora la
psicologia parla di S. per indicare i suoni, colori, ecc. Ma poichè questo
materiale viene dato all’uomo soltanto nel suo ri- ferimento all’oggetto
esterno, cioè nella percezione, la percezione stessa diventa l’oggetto proprio
della psicologia; e il concetto della S. come unità psi- chica elementare
diventa inutile. SENSIBILE (gr. alo@nt6<; lat. Sensibilis; in- glese
Sensible; franc. Sensible; ted. Sensibel). 1. Ciò che può essere percepito dai
sensi. In questa acce- zione « il S. » è l’oggetto proprio della conoscenza S.
come « l’intelligibile » è l'oggetto proprio della co- noscenza intellettiva
(ARIST., De An., II, 6, 418 a 7; KANT, Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap.
III, Nota). Aristotele aveva distinto i S. propri e i S. co- muni (v. SENSO
COMUNE); e il S. accidentale dal S. per sè, in quanto il primo si percepisce
acci- dentalmente, come accade quando si percepisce il bianco percependo una
persona che è bianca (De An., II, 6, 418a 16). 2. Ciò che ha la capacità di
sentire. In questa accezione si chiamano «esseri S.» gli animali o si dice che
«x è particolarmente S. a qualcosa ». In corrispondenza del significato 4° di
senso (v.), si chiama talora S., specialmente in inglese, chi pos- siede buon
senso o in generale è capace di giudicare rettamente. 3. Chi ha la capacità di
partecipare alle emozioni altrui o di simpatizzare (v. SIMPATIA). SENSIBILITÀ
(ingl. Sensibility, Feeling; fran- cese Sensibilité; ted. Sinnlichkeit). 1.
L’intera sfera delle operazioni sensibili dell’uomo, comprensiva sia della
conoscenza sensibile sia degli appetiti, degli istinti e delle emozioni. 2. La
capacità di ricevere sensazioni e di reagire agli stimoli. Per es., «La S.
delle piante». 3. La capacità di giudizio o di valutazione in un campo
determinato. Per es., «S. morale», «S. artistica 1, ecc. 4. La capacità di
partecipare alle emozioni altrui o di simpatizzare. In questo senso si dice
sensibile chi si commuove con gli altri e insensibile chi resta indifferente
alle emozioni altrui (v. SIMPATIA). SENSISMO (ingl. Sensationalism; franc. Sen-
sualisme, Sensationisme; ted. Sensualismus). La dot- trina che riduce tutta la
conoscenza alla sensazione € tutta la realtà all'oggetto della sensazione. Kant
chiamava sensista Epicuro (Crit. R. Pura, Dottrina del Metodo, cap. IV). Il
nome è stato, nella filosofia moderna, riservato a quelle dottrine che ammet-
II, 5, 416b 33) e così è rimasto costantemente definito nella tradizione
filosofica (S. ToMmMaso, S. Th., I, q. 78, a. 3; Duns Sooro, /n Sent., I, d. 3,
q. 8; WOLFF, Psychol. empirica, $ 67; KANT, Antropologia, I, $ 7; ecc.). Il S.
in questa accezione comprende sia la capacità di ricevere le sensazioni sia la
consapevolezza che si ha delle sensazioni stesse e in generale delle proprie
operazioni: capa- cità che nella filosofia moderna è detta più spesso S.
interno o riflessione (cfr. Locke, Saggio, II, 1, 4; KANT, Crit. R. Pura,
Estetica, $ 1); e talora S. intimo (MAINE DE Biran, Journal intime, I, pag.
13-14; (Euvres, ed. Tisserand, pag. 15, ecc.) o coscienza (v.). 2. La
sensazione o il complesso delle sensazioni, come quando si dice «Il S.
testimonia che... a. Oppure: gli appetiti sensibili e in particolare i de-
sideri sessuali. 3. L’organo di S., ciò che più propriamente si chiama il
sensorio o, nella terminologia moderna, il recettore. 4. La capacità di
giudicare in generale. In questo significato la parola viene adoperata nelle
seguenti espressioni: buon S., che Cartesio ritiene sinonimo di ragione e
definisce come «la facoltà di giudicar bene e di distinguere il vero dal falso
» (Disc., I). S. morale, che Shaftesbury (Characteristics of Men, 1711) e
Hutchinson (System of Moral Philosophy, 1755) assunsero come una capacità
istintiva di va- lutazione morale e quindi come guida infallibile dell’uomo. S.
razionale o S. logico, che Romagnosi assunse come l’attività che giudica e
ordina le sensazioni (Che cos'è la mente sana, 1827, $ 10). A questa stessa
accezione del termine si connette l’espressione S. comune sulla quale v. la
voce a parte; nonchè altre espressioni come S. pratico, S. degli affari, S.
artistico, ecc., che designano egualmente la capacità di giudicare o di
orientarsi nei campi particolari indicati dall’aggettivo o dal genitivo. 5. Lo
stesso che Significato (v.). SENSO COMPOSTO E DIVISO, FAL- LACIA DEL. V.
Composizione; DIVISIONE. SENSO COMUNE (gr. xowà aloBnos; latino Sensus communis;
ingl. Common Sense; franc. Sens commun; ted. Gemeinsinn). 1. Aristotele intese con questa
espressione la capacità generale di sentire, alla quale attribuì una duplice
funzione: 1° quella di costituire la coscienza della sensazione cioè il «sentir
di sentire» giacchè tale coscienza non può appartenere ad un organo particolare
di S., per es., alla vista o al tatto (De Somno, 2, 455a 13); 2° quella di
percepire le determinazioni sensibili co- muni a più S., come il movimento, la
quiete, la figura, la grandezza, il numero e l’unità (De An., III, 1, 425 a
14). La nozione fu ammessa anche dagli Stoici che affidavano al S. comune le
stesse funzioni (StoBEO, Ecl., I, 50). Ripresa da Avicenna (De An., III, 30),
passò nella scolastica medievale (cfr.S. ToMm- Maso, S. Th., I, q. 78, a. 4) ed
anche in seguito fu comunemente accettata da tutti gli aristotelici e dagli
scrittori che comunque si ispirarono alla psi- cologia aristotelica. 2.
Nell’uso degli scrittori classici latini, il termine ha il significato di
consuetudine, gusto, modo di vivere o di parlare comune. In questo senso, Cice-
rone avverte che per l’oratore è difetto gravissimo «aborrire dal genere
volgare del discorso e dalla consuetudine del S. comune» (De Or., 1, 3, 12;
cfr. 2, 16, 68); e Seneca afferma che la filosofia intende sviluppare il S.
comune (Ep., 5, 4; cfr. 105, 3). Vico non faceva che esprimere in una formula
la- pidaria la tradizione degli autori latini, quando af- fermava: « Il S.
comune è un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un
or- dine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano »
(Sc. Nuova, 1744, De- gnità 12), e quando affidava al S. comune l’ufficio di
accertare e determinare «l’umano arbitrio, di sua natura incertissimo,...
d’intorno alle umane necessità o utilità » (/bid., Degnità 11). Allo stesso
significato si riconnette l’uso del termine presso la Scuola scozzese. Nella
Ricerca sullo spirito umano secondo i principî del senso comune (1764) T. Reid
adopera l’espressione per designare le credenze tra- dizionali del genere
umano, ciò che tutti gli uomini credono o devono credere. Il S. comune è, per
tutta la Scuola scozzese, il criterio ultimo di giu- dizio e il principio
dirimente di tutti i dubbi filosofici. L’espressione ricorre ora comunemente in
un significato analogo, per quanto privo dell’accentua- zione elogiativa di cui
la privilegiavano i filosofi scozzesi. Dewey, ad es., sottolinea il carattere
pratico del S. comune. «Poichè i problemi e le indagini del S. comune
riguardano le interazioni che si stabiliscono da parte degli esseri viventi con
l’ambiente al fine di realizzare oggetti d’uso e di fruizione, i simboli
impiegati sono quelli che si sono determinati nella cultura corrente di un
gruppo sociale. Essi formano un sistema, ma si tratta di un sistema di
carattere pratico piuttosto che intel- lettuale. Questo sistema è costituito
dalle tradizioni, occupazioni, tecniche, interessi ed istituzioni stabi- lite
del gruppo. Le significazioni che lo compon- gono sono un portato del comune
linguaggio quo- tidiano col quale i membri del gruppo comunicano tra loro»
(Logic, VI, 6; trad. ital., pag. 170). 3. Nella dottrina di Kant il S. comune è
il prin- cipio del gusto cioè della facoltà di giudicare degli oggetti del
sentimento in generale. « Un tal prin- cipio, dice Kant, non potrebbe esser
considerato che come un S. comune, che è essenzialmente diverso
dall’intelligenza comune la quale talvolta si chiama anche S. comune (sensus
communis); perchè questa giudica, non secondo il sentimento, ma secondo con-
cetti sebbene si tratti ordinariamente di concetti oscu- ramente rappresentati
» (Crif. de/ Giud., $ 20). L’in- telligenza comune (Gemeine Verstand) di cui
qui parla Kant è il S. comune degli scrittori latini e della Scuola scozzese
che Kant ritiene inutile in filo- sofia (Prol., A 197); seguito in ciò da Hegel
e da altri (cfr. R. CANTONI, Tragico e senso comune, pag. 35 sg.). SENSORIALE
(ingl. Sensory; franc. Senso- riel; ted. Sensorisch). Che concerne il sensorio,
cioè l’organo di senso. SENSORIO (gr. alo@hpiov; lat. Sensorium). Nella
terminologia aristotelica, un organo di senso (De An., II, 9, 421b 32; De Part.
An., II, 10, 657 a 3; ecc.): ciò che oggi si chiama un recettore. SENSUALISMO
(franc. Sensualisme). 1. L’at- teggiamento che consiste nell’attribuire
importanza eccessiva ai piaceri dei sensi. In tale significato adopera la
parola Berkeley (A/ciphron, II, 16). 2. Lo stesso che sensismo (v.). Quest’uso,
che si presenta solo raramente in taluni scrittori francesi e italiani del
secolo scorso è dovuto alla suggestione del termine tedesco corrispondente a
sensismo, Sensualismus. SENSUALITÀ (lat. Sensualitas; ingl. Sensua- lity;
franc. Sensualité; ted. Sinnlichkeit). La tendenza a indulgere ai piaceri
sensibili. e, cioè all'amore. « Vicende S.+, «crisi S.+, ecc., sono espressioni
che si riferiscono a situazioni in cui è in giuoco l’amore e precisamente
l’amore sessuale. Spesso l’aggettivo S. include anche un riferimento all'amore
nel senso romantico (v.): come accade nel titolo di due romanzi famosi: // viaggio
S. di STERNE e L'educazione S. di Flaubert. In senso specifico adoperò
l’aggettivo F. Schiller per indicare una specie di poesia in contrapposto alla
poesia ingenua (v. INGENUITÀ). SENTIMENTALITÀ o SENTIMENTA- LISMO (ingl.
Sentimentalism; franc. Sentimenta- lisme; ted. Sentimentalitàt). È
l’abbandonarsi alle emozioni proprie o altrui, l’esaltarsi in esse e per esse
senza rapporto con la loro forza effettiva, il loro limite e la loro funzione.
Kant vide nel senti- mentalismo la debolezza di lasciarsi dominare, anche
contro la propria volontà, dalla partecipa- zione allo stato emotivo degli
altri. La contrappose perciò alla padronanza di sè: la quale rende possi- bile
quella finezza di sentimento per cui si giudica dell’emozione degli altri, non
secondo la propria forza, ma secondo la loro debolezza. Di fronte alla
padronanza di sè, è ridicolo e puerile il lasciarsi do- minare dall’emozione
altrui, abbandonandosi senza discrezione a partecipare a tale emozione (Antr.,
I, $ 62). In realtà però si ha sentimentalismo anche quando ci si abbandona
alle proprie emozioni o alla loro manifestazione esterna illudendosi sulla loro
forza e consistenza o amplificandone l’importanza. SENTIMENTO (ingl. Sentiment;
franc. Sen- timent; ted. Geftihl). Il termine può significare: 1° lo stesso che
emozione nel significato più gene- rale o qualche tipo o forma superiore di
emozione. Per questo significato v. EMOZIONE; 2° opinione, nel senso in cui si
dice « ho il S. che qualcosa non va » per significare un’opinione che si ritiene
esatta ma di cui non si saprebbe al momento dare giusti- ficazione. Per questo
significato v. OPINIONE; 3° la fonte delle emozioni cioè il principio, la
facoltà o l’organo che presiede alle emozioni stesse e da cui esse dipendono;
ovvero la categoria nella quale esse rientrano. In questo senso la parola viene
ora adoperata nell’uso corrente, quando, per es., si contrappone il «S.» alla
«ragione» (considerata invece come l'organo o la facoltà delle conoscenze
obiettive) e in frasi come questa: «La politica non si fa col sentimento ».
Quest’uso trova la sua giustificazione in una tradizione filosofica
relativamente recente cioè in quella della filosofia moderna. Difatti la
filosofia antica e medievale non conosce il S. come fonte o principio di
affezioni, affetti o emozioni e pertanto non adopera questa nozione come ca-
tegoria per ordinare e classificare le affezioni del- l'anima. Nè la psicologia
platonica, che distingue un'anima razionale, un’anima concupiscibile e una
anima irascibile (Rep., IV, 12-15); nè la psicologia aristotelica che distingue
un principio vegetativo, un principio sensitivo e un principio intellettivo (De
An., II, 2) riconoscono una fonte e un prin- cipio autonomo delle emozioni, le
quali vengono ripartite tra le varie partizioni o princìpi ammessi, non esclusa
quella razionale o intellettiva. Lo stesso accade nella filosofia medievale che
segue le orme della psicologia aristotelica. In realtà, il riconosci- mento di
una fonte o principio autonomo delle emozioni è connesso col riconoscimento
della sog- gettività umana come alcunchè di irreducibile a un complesso di
elementi oggettivi od oggettivabili o a modificazioni passive prodotte da tali
elementi. Questo riconoscimento caratterizza gl’inizi della fi- losofia moderna
ed è, come si sa, un portato del cartesianesimo. I presupposti di questo
riconoscimento vanno ricercati in quella linea di pensiero che va da Pascal ai
moralisti francesi e inglesi (La Rochefoucauld, Vauvenargue, Shaftesbury e
Hume) sino a Rousseau SENTIMENTO e a Kant e culmina in quest’ultimo: quello
stesso in- dirizzo che ha portato all’elaborazione del concetto moderno di
passione, come emozione dominante, e a quella nozione di gusto (v.) che è
strettamente collegata con quella di sentimento. Il «S.», il «cuore ?, lo
«spirito di finezza » furono le espres- sioni adoperate da Pascal per indicare
il principio o l’organo delle emozioni, in quanto distinto dal principio o
dall’organo dei ragionamenti e irriducibile ad esso. «Quelli che sono avvezzi a
giudicare col S., dice Pascal, non capiscono niente nelle cose di ragionamento
perchè vogliono penetrar subito la questione con un colpo d’occhio e non sono
avvezzi a cercare i princìpi. E gli altri, al con- trario, che sono avvezzi a
ragionare per princìpi, non capiscono niente delle cose di S. perchè ricer-
cano i princìpi e non possono coglierli con un sol colpo d’occhio » (Pensées,
3). Al S. o al cuore è dovuta la stessa certezza che i primi princìpi del ra-
gionamento hanno («I princìpi si sentono, le propo- sizioni si deducono e in
ciascuna di queste due forme vi è certezza, quantunque raggiunta per vie di-
verse »); e al S. e al cuore è affidata la vera reli- giosità cui il
ragionamento può solo avvicinare e di cui solo può dare l’attesa (/bid., 282).
All’elabo- razione e al riconoscimento della categoria del S. hanno poi
contribuito i moralisti inglesi e francesi sopra accennati con la loro
accentuazione della parte dominante delle emozioni nella vita dell’uomo. Infine
bisogna ricordare che il « ritorno alla natura » bandito da Rousseau come lo
strumento adatto a liberare l’uomo dai mali prodotti dagli artifici sociali e a
riportarlo alla bontà originaria, è inteso da lui come ritorno al primitivo S.
naturale. Il S. naturale è un istinto, una tendenza originaria, che porta
l’uomo al bene; e che quando non è alterata, sofisticata o bloccata, lo
mantiene e lo fa progredire nel bene stesso. In queste famose tesi di Rousseau
sta forse la prima nascita della cate- goria del S. come principio a sè della
vita spirituale. Ma il primo che ha teorizzato, filosoficamente, questa
categoria e l’ha inclusa in una nuova tri- partizione dei poteri o delle
facoltà spirituali, è stato probabilmente Kant. Mentre Wolff (e sulle sue orme
i wolffiani) ammetteva soltanto due atti- vità fondamentali dello spirito
umano, il conoscere e il volere, oggetti delle due branche fondamentali della
filosofia, la teoretica e la pratica, Kant ha riconosciuto un terzo potere o
facoltà, quello del sentimento. « Tutti i poteri o le facoltà dell’anima, dice
Kant (Crir. d. giud., Intr., $ III) possono essere ricondotte a tre, che non si
lasciano ulteriormente ridurre a un principio comune: il potere conoscitivo, il
S. del piacere o del dolore e il potere di desi- derare +. Il S. del piacere o
del dolore deve essere inserito tra il potere conoscitivo e il potere di desi-
derare e gli deve essere riconosciuto un proprio principio autonomo, che Kant
chiama facoltà del giudizio (v.). Il S. è così il campo proprio della critica
della facoltà del giudizio, come la facoltà di desiderare è il campo proprio
della critica della ragion pratica. Kant contrassegna il S. come l’aspetto
irriducibilmente soggettivo di ogni rappresentazione. Egli dice (/bid., $ VIN):
«Quello che vi è di soggettivo in una rappresentazione e che non può affatto
diventare un pezzo di conoscenza è il piacere o il dolore che è legato con la
rappresentazione; giacchè attraverso di essi io non conosco nulla dell'oggetto
della rappresentazione sebbene essi possano essere l’effetto di una qualche
conoscenza ». Conformemente a questa rivendicazione dell’auto- nomia del S.
come categoria spirituale, Kant divide la prima parte della sua Antropologia
pragmatica, parte destinata al « modo di conoscere interno ed esterno
dell’uomo» in tre libri rispettivamente dedicati al potere conoscitivo, al S.
del piacere e del dolore e al potere appetitivo. A sua volta, il secondo libro
è diviso in due parti principali, la prima dedicata al «S. del piacevole e del
piacere sensibile nella sensazione di un oggetto »; la seconda dedicata al « S.
del bello, cioè al S. in parte sensibile, in parte intellettuale proprio
dell’intuizione riflessa o del gusto». Questa seconda parte ricapitola in forma
popolare i risultati della Critica del giudizio, la prima contiene una serie di
osservazioni sul S. del piacere e del dolore in connessione con i dati dei
sensi (cfr. pure, Mer. der Sitten, Intr., 1, nota) (v. EMOZIONE). Con ciò il S.
aveva fatto il suo ingresso ufficiale come categoria indipendente nella
considerazione filosofica dell’uomo. Hegel stesso lo accoglie come una
determinazione dello spirito soggettivo e lo definisce come «un’affezione
determinata», ma determinata in modo semplice cioè tale che, anche se il suo
contenuto è solido e vero (e non sempre lo è) esso assume la forma di « particolarità
acci- dentale ». Hegel aggiunge: «Quando un uomo, discutendo di una cosa, non
si appella alla natura e al concetto della cosa o almeno alla ragione,
all’universalità dell’intelletto, ma al suo S., non c'è altro da fare che
lasciarlo stare; perchè egli in tal modo si rifiuta di accettare la comunanza
della ragione e si rinchiude nella sua soggettività isolata, nella sua
particolarità » (Enc., $ 447). Hegel era su questo punto in polemica con
l’indirizzo letterario del Romanticismo. Questo infatti fece della scoperta e
dell’esaltazione del S. la propria bandiera, scorgendo nel S. stesso la forma
più intima e nello stesso tempo più libera della vita spirituale. Per i
Romantici artista può essere solo colui che, come dice Federico Schlegel (/deen,
$ 13), «ha una sua religione, un’intuizione originale 30 dell’infinito ».
Questa intuizione originale dell'in- finito è ciò che i Romantici chiamano
sentimento. Il S., in altri termini, è la manifestazione dell’In- finito, cioè
di Dio stesso, all’intimità della coscienza. I tratti che definiscono il S.
nella concezione ro- mantica sono perciò due: 1° il suo carattere di intimità
estrema, per cui esso costituisce quanto di più soggettivo c’è nel soggetto; 2°
la sua capacità di rivelare il Principio infinito della realtà. Per questo
secondo aspetto il S. viene inteso dai Roman- tici, alternativamente o
contemporaneamente, come l’organo proprio dell’arte, della filosofia e della
religione. Come organo della religione lo considerò Schleiermacher in quanto
ritenne che « il S. soltanto rivela l’Infinito » (Reden, II; trad. ital., pag.
43): una tesi che è stata poi ripresentata e difesa frequen- temente. In tempi
recenti come organo dell’arte il S. è stato considerato da Gentile (Filosofia
del- l’arte, 1931) in quanto l’arte è la « pura, intima, e farà quindi una
parte importante alle donne, che rappresentano per l’appunto l’elemento
affettivo del genere umano (Politique positive, I, pag. 204 sgg.). Questo
accadrà perchè la morale di questa futura società sarà l’altruismo, ma un
altruismo sviluppato al punto di creare inclinazioni o istinti benevoli, che
agiscano, come fa appunto il S., senza più bisogno della riflessione. Le
preoccupazioni reli- giose e morali di Comte lo condussero ad insistere sul
valore del S. e ad esaltare il S. stesso in modo romantico. Ma al di fuori e
contro il Romanticismo, il S. fu accolto come categoria fondamentale della vita
spirituale e cioè come una delle « facoltà » o « poteri + dello spirito. Ed è
curioso che mentre Kant aveva, come si è visto, ammessa la tripartizione di
cono- scenza, S. e volontà, solo in base a un modesto ma valido motivo
metodologico, cioè per la ragione che i tre gruppi di fenomeni non si lasciano
ricon- durre ad un principio comune, subito dopo Kantquesta tripartizione
comincia ad essere dogma- tizzata: a Fries essa già appare come un risultato
immediato dell’osservazione di sè (Anthropologie, T, 1837, $ 4). Herbart, per
quanto negasse la dottrina delle facoltà dell'anima e ritenesse che esse sono
piuttosto «concetti di classe +, secondo i quali si ordinano i fenomeni
osservati, incluse tuttavia tra tali concetti di classe quello di sentimento. E
Be- necke vedeva nel S. le basi della morale e della religione, la quale ultima
si originerebbe appunto dal S. di dipendenza dell’uomo da Dio, S. giusti-
ficato dalla frammentarietà della vita umana e dall’esigenza di un
completamento che può venirle solo da Dio (System der Metaphysik und Religions-
philosophie, 1840). Rosmini considerò il S. come la coscienza di sè che è il
punto di partenza e la base per ogni conoscenza dell’anima (Psicologia, $ 69).
La tripartizione delle facoltà dello spirito in conoscenza, sentimento e
volontà rimase come uno schema pressochè costante nella filosofia del se- colo
xtx. Alla sua diffusione molto contribuì l’opera di Cousin che a quella
tripartizione fece corrispon- dere tre valori assoluti: il Vero, il Bello e il
Bene (Du vrai, du beau et du bien fu il titolo della più nota opera di Cousin,
1853). E se si prescinde dalle critiche di carattere metodologico sull’oppor-
tunità di simili rigidi schemi di ripartizione per la considerazione dei
fenomeni spirituali, quella ripar- tizione è tuttora la più diffusa e si è
incorporata con il modo comune di pensare. Una eccezione è rappresentata da Croce,
che ha ridotto le forme dello spirito alle due ammesse già da Wolff: la
teoretica e la pratica con una critica del S. consi- derato come categoria
spuria ed ambigua. Nel S., Croce ha visto una parola « adoperata a deno- minare
una classe di fatti psichici costituita secondo il metodo naturalistico e
psicologico »: una no- zione che ha esercitato varie volte nell’estetica, nella
storiografia, nella logica e nell’etica una fun- zione negativa e critica,
contrapponendo a inter- pretazioni troppo limitate ed anguste ciò che di «
indeterminato » e «semi-determinato + rimaneva fuori di tali interpretazioni.
La testimonianza a cui egli fa appello per rigettare questa categoria, è quella
dell’osservazione interiore: « Cerchi chi vuole nel suo spirito; e si provi a
indicare un atto solo che sia a differenza dei sopra indicati [cioè degli atti
teoretici e pratici] qualcosa di nuovo e originale e meriti la speciale
denominazione di S. » (Fil. della pratica, I, I, c. 2). Ma questo genere di
testimonianza è oltremodo variabile e fuori di qualsiasi controllo; a Fries,
per es., e a molti altri, la distinzione del S. dalle altre attività spirituali
parve così lampantemente sostenuta dalla testi- monianza interiore come a Croce
è parsa da essa smentita. E in realtà l’uso di tali categorie, come S.,
attività teoretica, attività pratica, può essere discusso e quindi limitato e
regolato, solo in base all’analisi precisa di un gruppo delimitabile di feno-
meni: analisi che Croce non ha neppure tentato. Nella filosofia contemporanea,
tuttavia, tali analisi non mancano e sono tra i contributi meno discu- tibili
che essa ha portato ad una positiva conoscenza dell’uomo nel suo mondo. Uno di
questi contributi e fra i più importanti è quello di Max Scheler; il quale si è
rifatto alle parole di Pascal, « Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce
+, interpre- tandole non nel senso, abbastanza frequente della filosofia
moderna e contemporanea (v. CUORE), che la ragione debba avere una certa
condiscendenza per il S. e cercare di rispondere alle sue esigenze, ma nel
senso che il S. ha sue proprie leggi e suoi propri oggetti e costituisce così
un mondo rispetto a quello della conoscenza razionale. Scheler co- mincia col
distinguere, dai semplici stati emotivi che non hanno carattere intenzionale,
non si rife- riscono cioè immediatamente ad un loro proprio oggetto (v.
EMOZIONE), il S. originario e intenzionale che è invece una particolare
reazione allo stato emotivo e consiste nel modo estremamente vario e mutevole
di atteggiarsi di fronte allo stato emotivo cioè di affrontarlo, tollerarlo,
goderlo, soffrirlo, ecc. Per es., uno stato emotivo è il piacere sensibile
corrispondente al carattere gradevole di un pranzo, di un profumo, di un lieve
contatto. Il S. puro consiste invece nelle reazioni dell’io a tale stato
emotivo: per es., nel goderlo più o meno o nel tollerarlo, ecc. Sicchè mentre
uno stato emotivo rientra nel contenuto fenomenico, un S. puro rientra nelle
funzioni destinate ad apprendere tale contenuto. Da questo punto di vista l'attitudine
a soffrire e a godere non ha nulla a che fare con la sensibilità nei riguardi
del piacere e del dolore. Il grado del piacere o del dolore può essere lo
stesso, eppure la sofferenza o il godimento che hanno di tale piacere o dolore
due individui o lo stesso in- dividuo in momenti diversi può essere completa-
mente diverso. Ora mentre gli stati emotivi si pos- sono riferire solo
indirettamente agli oggetti o fatti che li provocano o di cui sono considerati
i segni, i sentimenti puri si riferiscono immediatamente ad un loro oggetto
specifico, che è il valore. Il S. ha quindi col valore l'identica relazione che
si riscontra fra la rappresentazione e il suo oggetto: la relazione
intenzionale (v. INTENZIONALITÀ). Mentre occorre un atto di riflessione per connet-
tere uno stato emotivo con l’oggetto di cui è segno o che riteniamo l’abbia
provocato, il S. è connesso col suo oggetto specifico, il valore, in modo
immediato, come accade, per es., quando sentiamo la bellezza dei monti nevosi
al tramonto. La connessione intenzionale tra S. e valore non ha quindi nulla a
che fare con un legame causale tra S. ed oggetto ed è anche indipendente con la
causa- lità psichica individuale cioè dalle leggi che regolano la vita psichica
dell’individuo. E difatti quando le esigenze dei valori non sono sodisfatte,
noi sof- friamo, ad es., di non poterci rallegrare di un avvenimento quanto il
suo valore meriterebbe, oppure di non poterci rattristare come, ad es., la
morte di una persona amata lo richiederebbe (Formalismus, pag. 260 sgg.). In
tal modo, secondo Scheler, il S. apre l’accesso ad un mondo di oggetti, che
sono altrettanto reali come le cose o i fatti che sono gli oggetti della
rappresentazione, ma non hanno nulla in comune con essi perchè non sono nè cose
nè fatti, ma valori. Scheler è pertanto d’accordo con Kant nel ritenere che il
S. non sia «un pezzo di conoscenza »; ma non è d’accordo con lui nel ritenere
che esso non abbia alcun oggetto e sia quindi privo di carattere intenzionale.
Sono privi di oggetti e sono quindi puri stati emotivi solo le emozioni
sensibili, mentre i senti- menti vitali e quelli psichici possono sempre rive-
lare un carattere intenzionale (cioè riferirsi ad un oggetto-valore) e quelli
spirituali lo rivelano necessariamente (per la distinzione dei gradi emo-
zionali, v. EMOZIONE). L'analisi di Scheler è molto importante perchè getta
nuova luce sulla vita emozionale dell’uomo. Essa tuttavia è stata fatta
servire, da Scheler stesso, alla fondazione di una vera e propria metafisica
dei valori, nella quale i che sia suscettibile di controllo (v. REALTÀ) e non
c’è ragione d’identificare l’intenzionalità emotiva con l’intenzionalità
conoscitiva; anzi Scheler stesso dà buone ragioni in contrario. Se le cose
stanno così, se cioè l’intenzionalità del S. è differente dall’inten- zionalità
della conoscenza, e sono così diversi i rispettivi oggetti, la critica mossa da
Scheler all’in- dirizzo della psicologia contemporanea di negare « la funzione
conoscitiva » dei S., perde la sua base. La psicologia contemporanea ammette
infatti la funzione dei S. nel comportamento vitale dell’or- ganismo e vede in
essi l’annunzio di situazioni presenti o future, annunzio che permette di af-
frontare tali situazioni al modo in cui un dispo- sitivo d’allarme mette in
opera i mezzi per affron- tare un pericolo. Come Scheler, Heidegger ha
riconosciuto l’importanza fondamentale del S., che egli ritiene radicato nella
sostanza stessa dell’uomo, cioè nella struttura ontologica della sua esistenza.
Heidegger chiama situazione affettiva (Befindlichkeit) la tonalità emotiva
dell’affaccendarsi quotidiano dell’uomo e vede in questa tonalità una
manifesta- zione essenziale dell’essere dell'uomo nel mondo. « L’emotività
propria della situazione affettiva, egli dice (Sein und Zeit, $ 29) costituisce
essenzialmente l’essere aperto del mondo da parte dell’Esserci, cioè dell’uomo
esistente ». Il poter essere colpito dalla minaccia delle cose o degli eventi
del mondo e il reagire a questa minaccia con la paura o con l’intrepidezza, è,
secondo Heidegger, la situazione fondamentale di un ente, che come l’uomo vive
in un ambiente che gli fornisce le cose da utilizzare e che perciò lo può
minacciare con la non utiliz- zabilità, con la resistenza delle cose stesse.
Anche qui, se si prescinde dal linguaggio specifico dell’on- tologia di
Heidegger, l’analisi risulta fondamental- mente concordante con quella della
psicologia contemporanea; e la nozione del S. come capacità di apprendere il
valore che un fatto o una situa- zione presenta per l’essere (animale o uomo)
che la deve affrontare, ne esce riconfermata. Infine bisogna ricordare che il
riconoscimento del S. come « sede primaria della datità dei valori » è stato
effettuato anche da Nicolai Hartmann, che l’ha posto a base della sua etica
(Ethik, 1926). SENTIMENTO FONDAMENTALE. Con questo termine Rosmini ha indicato
la coscienza che l’uomo ha del proprio io e della connessione, costitutiva di
esso, di anima e corpo. « Nell'uomo, quale è naturalmente al primo istante del
viver suo, vi è: 1° un sentimento unico costante-fonda- mentale,
animale-spirituale; 2° una percezione razionale, immanente, del sentimento
animale » (Psicologia, 1850, $ 256). SEPARAZIONE (gr. Bwxpiow; lat. Sepa-
ratio; franc. Séparation; ted. Trennung). La riso- luzione di un composto nelle
sue parti o nei suoi elementi. Il termine fu usato da Anassagora (Fr., 10,
Diels) e da Empedocle (#7., 58, Diels) (cfr. PLAT., Sof., 243b; ArRIsT., Met.,
I, 4, 985 a 25). SEQUENZA (lat. Sequentia; ingl. Sequence; franc. Séquence;
ted. Folge). Un insieme di termini tra i quali intercede una relazione di prima
e dopo (cfr. PelrcE, Coll. Pap., 3. 562 B). SERIE (ingl. Series; franc. Série;
ted. Reihe). 1. Un insieme di termini tra i quali intercorre una qualsiasi
relazione definibile. 2. Una relazione asimmetrica, transitiva e coerente. In
questo senso la S. non è l’insieme dei termini cioè il campo della relazione,
ma la relazione stessa; e, per es., le S.: 1, 2, 3; 1, 3, 2; 2, 3, 1, sono
diverse per quanto abbiano lo stesso campo (cfr. B. RussELL, Introduction to
Mathematical Philosophy, IV; trad. ital., pag. 47) (v. RELAZIONE). SERIETÀ
(ingl. Earnestness; franc. Sérieux; te- desco Ernst). Kierkegaard ha fatto
della S. una specie di categoria morale definendola come « l’ori- ginalità
conquistata dal sentimento, conservata nella responsabilità della libertà e
affermata nel godi- mento della beatitudine». La S. consiste nella ripeti-
zione (v.) ed è la condizione affinchè la ripetizione stessa non diminuisca il
valore degli atti ripetuti (Der Begriff Angst, IV, $ 2, 0). SESSO (ingl. Sex;
franc. Sexe; ted. Sex). 1. I fi- losofi si sono solo raramente occupati del
sesso come di un costituente dell’uomo. Nel Convivio platonico Aristofane
espone, sulle origini del sesso, il mito degli androgini, dai quali per separazione
vo- luta da Zeus a scopi punitivi sarebbero derivati i due sessi complementari
(Conv., 189 e). Ma le spe- culazioni platoniche vertono propriamente, non sul
S., ma sull’amore. E così fanno quelle di altri filosofi, compreso Schopenhauer
che nella sua Metafisica del- l’amore sessuale considera l’amore sessuale come
il semplice espediente di cui «il genio della specie », cioè la Volontà di
vita, si servirebbe per favorire l’opera oscura e problematica della
propagazione della specie. Nel mondo moderno, l’azione della psi- canalisi (v.)
ha richiamato l’attenzione dei filosofi sul S.; e specialmente i fenomenologici
e gli esisten- zialisti si sono occupati dei fenomeni relativi. Una
valorizzazione dell'atto sessuale come forma di espressione della personalità
umana è stata tentata da Max Scheler nel libro sulla Wesen und Formen der
Sympathie (1923; trad. franc., pag. 168 sgg.). E mentre Heidegger ha
considerato come privo di sessualità il Dasein, Sartre ha considerato la
sessualità stessa come una struttura fondamentale dell’esi- stenza. Dice
Sartre: « Benchè il corpo abbia un com- pito importante, bisogna riportarsi
all’essere nel mondo e all’essere per altri: io desidero un essere umano, non
un insetto o un mollusco e lo desidero in quanto esso è, ed io sono, in
situazione nel mondo, e in quanto è un altro per me e io sono un altro per esso
» (L’étre et le néant, 1943, pag. 452-53). Il sesso sarebbe la struttura
fondamentale dell’esi- stenza umana in quanto esistenza nel mondo (cfr. pure
ABBAGNANO, Struttura dell’esistenza, 1939, $ 55) (v. AMORE; PSICANALISI). 2. I
filosofi hanno invece spesso insistito sulla differenza sessuale. Aristotele
ritenne che la donna costituisce una mostruosità naturale, resa tuttavia
inevitabile dalla conservazione della specie (De Gen. An., 7, 775 a 15-17). La
donna differisce dal- l’uomo per il grado minore in cui partecipa dei poteri
della ragione (Po/., 1260 a 11-14): pertanto il suo posto è subordinato a
quello dell’uomo e a le funzioni biologiche entra poco o nulla. SETTA (lat.
Secta; ingl. Sect; franc. Secte; ted. Sekte). 1. Scuola o indirizzo filosofico.
In questo senso la parola è usata dagli scrittori latini (CIcER., Brut., 31,
120; Quint., /st. Or., V, 7, 35, ecc.). 2. Gruppo di persone che difendono con
fana- tismo o intolleranza una credenza qualsiasi. In questo senso si adopera
oggi l'aggettivo sertario. SFERA (gr. cpaipo, opatpoc; lat. Globus; in- glese
Globe; franc. Globe; ted. Sphdre). Secondo gli antichi la figura perfetta, che
comprende in sè tutte le altre figure ed è l’immagine dell’omogeneità e della
perfezione (cfr. PLAT., Tim., 33 b). Parmenide paragonava ad una «S.
perfettamente rotonda » l’essere in quanto è definito da ogni parte, uguale a
se stesso e tale che in nessuna sua parte sia maggiore O minore di se stesso
(Fr., 8, 41, Diels). Ed Empedocle chiamava sfero la fase perfetta dell’essere,
quella nella quale domina l’amicizia: « Ma da ogni parte era uguale e per tutto
infinito, lo sfero rotondo che gode della sua avvolgente solitudine» (F7., 28,
Diels). Nel Rinascimento, Nicolò Cusano ripren- deva queste speculazioni,
insistendo sulla perfe- zione della figura circolare (De docta ignorantia, I,
21) e attribuendo la forma sferica all’anima stessa (De ludo globi, I). SFORZO
(ingl. Effort; franc. Effort; ted. Stre- ben). L'attività diretta a vincere un
ostacolo o una resistenza qualsiasi. La nozione fu introdotta in filosofia da
Fichte che se ne avvalse per mostrare la derivazione della realtà dall’Io: «
L’attività pura dell’io, rientrante in se stessa, è, in relazione ad un oggetto
possibile, uno S.; anzi, uno S. infinito. Questo S. infinito è all’infinito la
possibilità di ogni oggetto: senza S., non c’è oggetto» (Wissenschafts- lehre,
1794, $ 5, II; trad. ital., pag. 213-14). Maine de Biran si avvalse della nozione
e identificò con l’esperienza immediata dello S. sia il principio metafisico di
causalità sia la libertà dell’io. Preso nella sua sorgente, lo S. è libertà
cioè è l’io come libertà; nei confronti della resistenza che gli si oppone, è
necessità (Fondements de la psychologie, in CEuvres, ed. Naville, II, pag.
284). Si può consi- derare questo concetto come una continuazione del più
antico concetto di corato (v.). SI (ted. Man). V. ANONIMIA. SIGNIFICANZA (ingl.
Significance; ted. Be- deutsamkeit). 1. Lo stesso che significato (v.). 2.
Importanza o valore. Da questo punto di vista si chiamano, per es.,
significanti gli eventi di importanza storica. SIGNIFICATO (gr. rexrév; lat. Significatio; ingl.
Meaning; franc. Signification; ted. Bedeutung). Si intende con questo termine la dimensione se-
mantica del procedimento segnico cioè la possibilità di riferimento del segno
al suo oggetto. Gli aspetti (o condizioni) fondamentali del S. sono due: 1° un
nome o un concetto o una essenza (per es., « Ales- sandro Manzoni», «uomo»,
«l’autore dei Pro- messi Sposi »), usato allo scopo di delimitare e orientare
il riferimento; 2° l’oggetto (per es., rispettivamente, Alessandro Manzoni, gli
uomini, Alessandro Manzoni) al quale il nome o il concetto o l’essenza è
riferito. I due aspetti del S. sono inscindibili; il secondo è una funzione del
primo perchè è il nome o concetto che determina a quale oggetto il riferimento
possa o non possa indiriz- zarsi. Ma i due aspetti non si identificano tra loro
giacchè l’oggetto può essere lo stesso, mentre il nome o concetto adoperato per
il riferimento è diverso: come nel caso di « Alessandro Manzoni + e «l’autore
dei Promessi Sposi» che si riferiscono allo stesso oggetto ma sono nomi
diversi. Nè le determinazioni che hanno lo stesso oggetto possono essere
ritenute equivalenti perchè non sono sosti- tuibili l’una all’altra; e, per
es., chiedere « se Ales- sandro Manzoni è l’autore dei Promessi Sposi + non è
lo stesso che chiedere « se Alessandro Manzoni è Alessandro Manzoni». La differenza
tra i due aspetti del S. (o la relazione tra di essi) costituisce la base dei
problemi cui il termine ha dato luogo e delle diverse definizioni che ha
ricevuto. Gli Stoici, che hanno fondato la dottrina del S., riconobbero
entrambi gli aspetti di esso. « Tre sono gli elementi che si collegano, il S.,
ciò che significa e ciò che è. Ciò che significa è la voce, per es., ‘ Dione ’.
Il S. è la cosa indicata dalla voce, che noi cogliamo pensando alla cosa
corrispondente. Ciò che è, è il soggetto esterno, per es., lo stesso Dione»
(Sesto EMP., Adv. Math., VIII, 12). Più particolarmente, il S. è per essi « una
rappresenta- zione razionale cioè una rappresentazione grazie alla quale e
possibile esporre con un discorso ciò che è rappresentato » (/bid., VIII, 70; Dio.
L., VII, 63). In queste notazioni i due aspetti del S. sono chiamati
rispettivamente « voce » o « rappre- sentazione razionale » e « ciò che è » o
«soggetto ». «Ciò che è» o «il soggetto » è il S. come oggetto; la «voce» o la
«rappresentazione razionale » è il S. come nome, concetto o essenza. Gli Stoici
riser- vano particolarmente a quest’ultimo il nome di S.; e in ciò (come
vedremo) sono seguiti da alcuni autori moderni. Nella logica medievale, la
distin- zione tra i due aspetti del S. fu espressa come distinzione tra
significazione e supposizione. Dice Pietro Ispano: « La supposizione e la
significazione differiscono perchè la significazione è fatta mediante
l'imposizione di una voce per significare un og- getto, ma la supposizione è
l’accezione di un termine già significante per qualcosa d'altro, e, per es.,
quando si dice ‘l’uomo corre’, questo termine ‘l’uomo ’ sta per Socrate e per
Platone. La significazione perciò è precedente alla suppo- sizione e le due
cose non sono identiche giacchè il significare è proprio della voce e la
supposizione è propria del termine che è già composto di voce e S.» (Summ.
Log., 6.03). Qui per significatio viene inteso ciò che gli Stoici intendevano
per lecton: il concetto o la rappresentazione che è adoperata per il riferimento
obbiettivo, mentre il riferimento obbiettivo stesso è designato come
suppositio. Ma in più degli Stoici questa dottrina include la separazione dei
due aspetti del S., attri- buendo il primo ai termini isolatamente presi, il
secondo ai complessi cioè alle proposizioni. Una dottrina identica veniva
esposta nel Medio Evo da Ockham (Summa Logicae, I, 63), da Buridano
(Sophismata, 2) e da Alberto di Sassonia (Logica, II, 1); mentre S. Tommaso
accennava a una dottrina diversa solo terminologicamente, per la quale il S. e
la supposizione coincidono nei termini singolari ma non in quelli generali, per
i quali il S. è l’essenza (S. Th., I, q. 39, a.4, in principio). Sulla
distinzione fra i due aspetti del S. si fonda la distinzione che la logica
moderna di stampo tradizionale ha stabilito tra i due elementi del con- cetto:
chiamati talora comprensione ed estensione {v. COMPRENSIONE); talaltra
intensione ed estensione (v. INTENSIONE): talaltra ancora connotazione e
denotazione (v. ConnoTazIoNE). La prima coppia di termini fu introdotta dalla
logica di Portoreale (I, 6); la seconda da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 17, $ 9);
la terza da Stuart Mill (Logic, I, 1,8 59). Quest'ultimo proponeva di
restringere il significato di S. alla connotazione, chiamando denotazione il
riferimento obbiettivo. Egli diceva: « Ogni volta che i nomi dati agli oggetti
apportano qualche informazione cioè ogni volta che essi, propriamente, hanno un
S., il S. risiede non in ciò che essi denotano ma in ciò che essi connotano. I
soli nomi di oggetti che non connotano niente sono i nomi propri; e questi,
strettamente parlando, non hanno signi- ficato » (/bid., I, 2, $ 5). Ciò che
egli intendeva con connotazione appare chiaro dal seguente passo: «La parola
uomo, per es., denota Pietro, Gianna, Giovanni e un numero indefinito di altri
individui, dei quali, presi come una classe, esso è il nome. Ma quella parola
viene applicata ad essi in quanto essi posseggono, e per significare che
posseggono, certi attributi » (/bid.). Gli attributi che costituiscono l’uomo e
cioè ad es., la corporeità, l’animalità, la razionalità, ecc. formano pertanto
la connotazione del nome « uomo »: ciò che nella tradizione filoso- fica si
chiamava «essenza» o, più tardi, «concetto». G. Frege non faceva pertanto che
dare espressione ad una vecchia e nuova tradizione distinguendo senso e
significato. « Pensando a un segno, diceva, (sia esso un nome o un nesso di più
parole o una semplice lettera) dovremo collegare ad esso due cose distinte:
cioè non soltanto l’oggetto designato che si chiamerà S. (Bedeutung) di quel
segno, ma anche il senso (Sinn) del segno, che denota il modo in cui
quell’oggetto ci viene dato ». Frege avvertiva che per senso o nome intendeva «
una qualunque indicazione che compiesse ufficio di un nome pro- prio cioè fosse
un oggetto determinato (prendendo la parola oggetto nel modo più ampio)» (Uber
Sinn und Bedeutung, 1892, $ 1; trad. ital., in Arit- metica e logica, pag.
218-19). La stessa distinzione veniva effettuata da Peirce con una terminologia
diversa: Peirce parlava dell’oggerto del segno e dell’interpretante del segno
stesso, che è il senso di Frege. Diceva Peirce: « Il segno crea qualche cosa
nello spirito dell’interprete e questo qualche cosa, in quanto è stato creato
dal segno è stato anche creato, in modo mediato e relativo, dall’oggetto del
segno, per quanto l’oggetto sia essenzialmente altro dal segno. Questa creatura
del segno è detta l’inter- pretante » (Coll. Pap., 8.179; lo scritto è del
1903). Questa terminologia è stata sostanzialmente accet- tata da Morris, che
ha chiamato designato (desi- gnatum) l’oggetto e interpretante il concetto
(Foun- dations of the Theory of Signs, 1938, $ 2). Vero è che Morris ritiene
inutile il termine stesso di S., sembrandogli esso ricco di confusioni e
pretende farne a meno nella sua trattazione (/bid., $ 12). Ma in realtà ne può
fare a meno soltanto perchè ha introdotto nella sua analisi del segno, sotto
altri nomi, i due componenti del S. che la tradizione ha costantemente
distinto. I logici contemporanei mani- festano la tendenza, già presente in
Stuart Mill, a restringere la parola S. alla sfera della connota- zione. Lewis,
riservando il termine S. per entrambi gli aspetti, distingue la significazione
(signification) del termine (cioè la connotazione) dal suo riferi- mento
obbiettivo che egli distingue in denotazione e comprensione: la prima essendo
la classe di tutte le cose reali alle quali il termine si applica, la seconda
essendo la classe di tutte le cose possibili alle quali si applica (Analysis of
Knowledge and Valuation, 1946, cap. III, pag. 39 sgg.). Dalla stessa significa-
zione, Lewis poi distingue il «S.-senso» (sense meaning) che si distinguerebbe
da essa per essere il modo in cui lo spirito si riferisce alla significazione
stessa (/bid., pag. 133 e nota 3). Ma queste distin- zioni non modificano
sostanzialmente la dicotomia tradizionale del significato di significato. La
stessa dicotomia viene espressa da Quine come quella tra S. (o connotazione o
intensione) e nominazione (naming) che sarebbe l’estensione o denotazione (From
a Logical Point of View, 1953, II, 1); e da Carnap che fonda su di essa la
dicotomia di due operazioni fondamentali possibili rispetto a una data
espressione linguistica: quella di « analizzare l’espressione stessa con lo
scopo di capirla, di affer- rarne il S. e quella che invece consiste in
ricerche concernenti la situazione di fatto alla quale l’espres- sione si
riferisce » (Meaning and Necessity, 1947, $ 45). Ed ha inoltre insistito sul
fatto che il concetto di si- gnificato intensionale, come condizione generale
che un oggetto deve adempiere affinchè un parlante XY predichi quel significato
dell’oggetto stesso, è privo di qualsiasi riferimento psicologico e può essere
ap- plicato anche a un robot (/bid., pag. 246 e n. 5). A sua volta Church ha
adottato la terminologia di Frege chiamando senso la connotazione e signi-
ficato la denotazione; e in più introducendo la parola concetto: « Diremo che
un nome denota o nomina la sua denotazione ed esprime il suo senso. Meno
esplicitamente possiamo parlare di un nome che ha una certa denotazione ed fa
un certo senso. Del senso diciamo che derermina la denotazione o è un corcetto
della denotazione » (/ntroduction to Mathematical Logic, 1956, $ 01). Di fronte
a questa salda e, salvo la varietà della terminologia, uniforme tradizione
stanno i tentativi di modificarla o ridu- cendo l’una all'altra le due
dimensioni del S. (A) o aggiungendo nuove specie di significati (2). A) Il
tentativo di ridurre una delle dimensioni del S. all’altra è stato effettuato
in entrambe le dire- zioni: cioè riportando sia il senso al S. sia il S. al
senso. Il primo tentativo è quello proprio di Rus- sell e Wittgenstein.
L’intera teoria esposta nell’arti- colo di Russell del 1905 («On Denoting» ora
in Logic and Knowledge, 1956, pag. 41 sgg.) nonchè nel I capi- tolo dei
Principia Mathematica di Russell e White- head (1910) e nell’altro libro di
Russell, An /nquiry into Meaning and Truth (1940), è, nelle stesse parole di
Russell, che « non c’è alcun significato, ma solo talvolta una denotazione »
(Logic and Knowledge, pag. 46, nota). E difatti per Russell il S. di un sim-
bolo si riduce unicamente ai componenti del fatto cui il simbolo stesso si
riferisce. «I componenti del fatto che fa una proposizione vera o falsa, a seconda
dei casi, sono i S. dei simboli che noi dobbiamo capire per capire la
proposizione» (Logic and Know- ledge, pag. 196). È proprio da questo punto di
vista che il linguaggio ideale è quello che ha la sola sin- tassi e nessun
vocabolario: giacchè il vocabolario è perchè costituisce una ridu- zione
all’assurdo della eliminazione del senso (Sinn) dal S.: il riferimento
all'oggetto, non essendo guidato o limitato dal concetto, è sempre legittimo e,
dove non appare tale, è solo perchè non è stato effet- tuato.La riduzione
inversa del S. al senso cioè il ten- tativo di ridurre l’intero S. alla
connotazione o concetto è stato effettuato da Husserl. Questi ha negato che
l’oggetto costituisse il S. o coincidesse con esso (Logische Untersuchungen,
II, pag. 46). La sua tesi è che «il S. logico è un'espressione » nel senso che
esso solleva «al regno del /ogos, del concettuale, quindi dell’universale » il
senso (Sinn) percettivo della cosa. In altri termini Husserl sosti- tuisce alla
dicotomia oggetto-concetto la dicotomia senso (percepito)-concetto: nella quale
il concetto è l’essenza della cosa, la sua concettualizzazione o espressione
compiuta (/deen, I, $ 124). Un tentativo di riduzione analogo a questo è stato
quello di Royce il quale, dopo aver distinto il S. esterno di un’idea, che è la
corrispondenza dell'idea con l'oggetto, dal S. interno di essa che è «lo scopo
consapevole incor- porato nell’idea», riduce a quest’ultimo lo stesso S.
esterno, sul fondamento che è « l’idea stessa che sceglie l’oggetto con il quale
vuole essere confron- tata » (The World and the Individual, 1901, II, cap. 1).
B) 1 principali tentativi di presentare nuove specie di S. in aggiunta o in
concorrenza con le due consacrate dalla tradizione sono i seguenti: 1° La
definizione del S. come uso. Questa è la tesi delle Philosophical
Investigations (1953) di Wittgenstein. « Per un’estesa classe di casi — seb-
bene non per tutti — nei quali adoperiamo la pa- rola ‘ S. * essa può essere
definita così: il S. di una parola è il suo uso nel linguaggio. E il S. di un
nome è qualche volta spiegato indicando il suo portatore» (Op. cit., $ 43). Ma
per quanto pre- sentata, dallo stesso Wittgenstein e da altri, in con- correnza
con la definizione semantica di S., la nozione di uso appartiene ad un'altra sfera
di problemi e ad un altro livello di indagine. Il pro- blema cui essa risponde
è difatti quello della for- mazione dei significati nelle lingue naturali.
L’uso non è il S., ma lo determina: nel senso che ad esso è dovuta la
connessione tra un oggetto e una voce (o in generale un veicolo segnico). Le
definizioni di un dizionario sono senza dubbio stabilite dal- l’uso; esse
tuttavia esprimono la connotazione e la denotazione dei termini. Pertanto la
teoria dell'uso non è una teoria del S., ma piuttosto una teoria circa
l’origine e la formazione delle lingue naturali. 2° La proposta di un S.
emotivo accanto al S. « simbolico » o « descrittivo». Questa proposta, fatta da
Ogden e Richards (Meaning of Meaning, 1923, ediz. 1952, pag. 149 e passim) è
stata espressa da C. L. Stevenson nel modo seguente: « Il S. emo- tivo è un S.
nel quale la risposta (dal punto di vista dell’ascoltatore) o lo stimolo (dal
punto di vista del parlatore) è un complesso di emozioni» (Ethics and Language,
1944, pag. 59). Il S. emo- tivo così inteso sarebbe distinto dal significato
sim- bolico che consisterebbe nel suo riferimento all’og- getto; e il
significato stesso potrebbe in generale definirsi come la qualità
disposizionale di un segno a produrre l’una o l’altra di queste reazioni, cioè
o un insieme di emozioni o il riferimento all’og- getto (/bid., pag. 53 sgg.).
Prescindendo dal fatto che l’uso del termine emotivo per indicare norme di
leggi, prescrizioni tecniche o comandi (tutte cose che rientrerebbero nella
categoria dei signifi- cati emotivi) può a buon diritto ritenersi barbarico (v.
EMOZIONE), la dottrina in questione sembra suggerita dal fatto che il
significato denotativo viene ristretto al riferimento a cose reali, sicchè
molti segni semplici o composti sembrano non avere denotazione perchè non si
riferiscono a cose. In realtà il riferimento denotativo si rivolge a og- getti
in generale (v. OGGETTI) ed oggetti sono ugualmente le cose reali come quelle
fantastiche, i piani, i progetti, i desideri e le aspirazioni come le qualità
sensibili o le entità percepite. Pertanto un enunciato che esprime un ordine o
un desiderio o un progetto può avere, nella situazione a cui tali cose si
riferiscono, la sua denotazione cioè il suo oggetto o il suo referente. Nè da
un punto di vista logico, che è quello appunto della teoria del signi- ficato,
tali oggetti sono distinguibili dagli altri. 3° La definizione del significato
come del- l'intenzione di chi parla. Il S. in questo senso sa- rebbe ciò che il
parlante intende dire, a prescindere dal riferimento oggettivo della parola o
dell’enun- ciato adoperato. In questo senso si usa dire « In- tendo dire... »
(in inglese: / mean... dal verbo to mean che ha la stessa radice di meaning =
S.) per chiarire o rettificare una propria dichiarazione. È abbastanza ovvio
che ogni descrizione o chiari- mento dell’intenzione del parlante non può
aversi che mediante la determinazione dell’oggetto cui egli si riferisce o
della sua connotazione: cioè mediante l’uso delle dimensioni proprie del
significato. Tali dimensioni vengono pertanto semplicemente pre- supposte dalla
definizione in esame. Talvolta questa viene proposta come un S. aggiunto a
quello tradizionale (cfr. M. BLACK, Problems of Analysis, 1954, pag. 55-56); ma
è anche chiaro che l’inten- zione del parlante non è un’altra specie di S. ma
piuttosto il modo in cui il parlante adopera le di- mensioni logiche del
significato. A questa stessa confusione tra intenzione e S. si connette l’uso
di questo termine in frasi come queste: « Un universo meccanico non avrebbe S.
», «Se tutto si svolgesse a caso, la storia non avrebbe S.+: nelle quali la
parola S. sta ovvia- mente per intenzione o scopo, quindi per valore. 4° La
proposta di un S. « pittorico » o « im- maginifico » accanto agli altri in
quanto «il lin- guaggio può essere usato con l’intenzione primaria di esprimere
o evocare pitture (o immagini) in un modo che differisce dall’uso dei segni e
formula possibilità empiricamente significanti» (v. C. At- DRICH, « Pictorial
Meaning and Picture Thinking », in Readings in Philosophical Analysis, 1949,
pa- gina 175 sgg.). Ma è chiaro che anche questa pro- posta è suggerita dal
presupposto (estraneo a qual- siasi teoria logica del S.) che l’oggetto del
riferi- mento sia una cosa reale o una situazione di fatto e non possa essere
d’altra natura. In realtà i S. « pittorici » hanno connotazione e denotazione
come tutti gli altri. 5° La definizione del S. come un vertore di campo nel
senso che esso sarebbe una disposizione messa in atto dall’oggetto stagliatosi
sullo sfondo di un campo o contesto appropriato. Più precisa- mente esso
sarebbe l’attivazione o messa in atto di una risposta descrittiva, provocata
dall’oggetto (A. P. UsHENKO, 7he Field Theory of Meaning, 1958, pag. 109). Ma
questa è bensì una teoria circa la formazione dei S. (che può essere discussa
in sede di teoria del linguaggio) ma non innova nulla no S. espressivo le
locuzioni che non hanno S. teoretico e tuttavia manifestano uno stato d'animo
del soggetto che li adopera o servono a produrre stati d’animo analoghi nel
sog- getto che le ascolta. Le interiezioni, le esclamazioni, le espressioni
metaforiche hanno un S. di questo genere. Talvolta, e specialmente da parte dei
seguaci dell’empirismo logico (v.), si assimilano le espres- sioni della
metafisica tradizionale a enunciati di questo genere, al fine di negare ad essi
ogni valore cognitivo. Questo però è un uso polemico, che può essere registrato
solamente come tale (v. ARTE; METAFISICA; POESIA). SILENZIO (lat. Silentium;
ingl. Silence; fran- cese Silence; ted. Schweigen). L'atteggiamento mi- stico
di fronte all’ineffabilità dell’essere supremo (cfr., ad es., BONAVENTURA,
/finerarium mentis in Deum, VII, 5). Secondo Jaspers, l’atteggiamento di fronte
all’essere della Trascendenza (Philosophie, III, pag. 233). Secondo
Wittgenstein, l’atteggia- mento di fronte ai problemi della vita: «Di ciò di
cui non si può parlare si deve tacere » (Tractatus logico-philosophicus, T).
SILLOGISMO (gr. ovMmoywapsc; lat. Syllogi- smus; ingl. Syllogism; franc.
Syllogisme; ted. Syl- logismus). La parola che in origine significa calcolo e
da Platone veniva usata per ragionamento in ge- nerale (cfr. Teer., 186 d) fu
adottata da Aristotele per indicare il tipo perfetto del ragionamento de-
duttivo, definito come «un discorso in cui, poste talune cose, alcune altre ne
seguono di necessità + (An. Pr., I, 1, 24b 18; I, 32, 47a 34). Le carat-
teristiche fondamentali del S. aristotelico sono: 1° il suo carattere mediato;
2° la sua necessità. Il carattere mediato del S. dipende dal fatto che il S. è
la controparte logico-linguistica del concetto metafisico di sostanza. In virtù
di questo, il rap- porto tra due determinazioni di una cosa non si può
stabilire se non sulla base di ciò che la cosa è necessariamente cioè della sua
sostanza; e, per es., se si vuol decidere se l’uomo ha la determinazione di «
mortale » non si può che guardare alla sostanza dell’uomo (a ciò che l’uomo non
può non essere) e ragionare nel modo seguente: « Tutti gli animali sono
mortali, Tutti gli uomini sono animali, Dunque tutti gli uomini sono mortali».
Ciò si- gnifica che l’uomo è mortale perchè animale: l’animalità è la causa o
la ragion d'essere della sua mortalità. In questo senso si dice che la nozione
«animale» fa da rermine medio del S.: il termine medio è ovviamente
indispensabile perchè è quello che rappresenta nel S. la so- stanza, o il
riferimento alla sostanza, che sola rende possibile la conclusione (An. Posr.,
Il, 11, 94a 20). Il S. ha dunque tre termini cioè il soggetto e il predicato
della conclusione e il termine medio. Ma è la funzione del termine medio che
determina le diverse figure del sillogismo (v. SILLOGISTICA). Ari- stotele
distinse oltre le figure, varie specie del sillo- gismo. Il S. è per
definizione deduzione necessaria: perciò la sua forma primaria e privilegiata è
il S. ne- cessario che Aristotele chiama pure dimostrativo o scientifico o S.
dell’universale (An. Pr., I, 24, 25b 29). Da esso si distingue il S.
dialettico, che è fondato su premesse probabili ed è quindi solo probabile (Ibid.,
II, 23, 68b 10; An. Posr., II, 8, 93a 15); esso è detto anche retorico; e di
esso è una specie il S. eristico, fondato su premesse che sembrano probabili ma
non lo sono (7op., I, 1, 100b 23). Dei S. necessari, la prima e migliore specie
è quella dei S. ostensivi (v.), che Aristotele contrappone a quelli che partono
da un’ipotesi (An. Pr., I, 23, 40b 23). Questi ultimi non sono quelli che si
chiameranno in seguito S. ipotetici ma quelli la cui premessa maggiore non è la
conclusione di un altro S. nè è evidente per sè, ma è assunta per via d’ipotesi
(/bid., I, 44, 5S0a 16). Di tali S. è una specie quello che conclude mediante
la riduzione all’assurdo (Ibid, 50a 29). Tra i S. ostensivi i più perfetti sono
i S. universali della prima figura ai quali è possibile ricondurre tutte le
altre forme del S. (/bid., I, 7, 29b 1). Infine dal S. deduttivo si distingue
il S. indurrivo o induzione (Ibid., I, 23, 68b 15). Dall’altro lato, non sono
specie dei S. quelle che Aristotele chiama S. geometrico, medico, politico (Top.,
I, 9, 170 a 32) e il S. pratico (Er. Nic., VI, 12, 1044a 31) che si distinguono
tra loro solo per il contenuto dei princìpi cui fanno appello, non per la forma
logica. Nè, propriamente parlando, sono specie del S. i S. composti come
l’epicherema e il sorite; o contratti come l’enrimema: sui quali tutti vedi le
singole voci. Non è poi af- fatto un S. la divisione, cioè uno dei metodi della
dialettica platonica, che Aristotele chiama «S. de- bole » (An. Pr., I, 31, 46a
33). Gli Stoici, che misero a base della loro logica, non la teoria della
sostanza, ma quella della perce- zione, considerarono come tipo fondamentale
del ragionamento non il S. ma il ragionamento anapo- dittico, che ha soltanto
due termini e ha per pre- messa maggiore una proposizione condizionale (« Se è
giorno c’è luce. Ma è giorno. Dunque c’è luce»; v. ANAPODITTICO). Gli
aristotelici, a partire da Teofrasto, tradussero negli schemi aristotelici i
ragionamenti anapodittici degli Stoici aggiungendo al S. categorico
aristotelico, come due altre specie di S., quello ipotetico e quello
disgiuntivo (con- fronta PRANTL, Geschichte der Logik, I, pag. 375 se- guenti;
i testi fondamentali sono dati da Alessandro, Ad An. Pr., f. 134 a-b). La
dottrina veniva trasmessa alla filosofia occidentale attraverso l’opera di
Boezio che tuttavia si ispirava ad autori posteriori e soprat- tutto a Galeno
(De syllogismo hypothetico, in P. L., 64). La dottrina del S. così completata
veniva trasmessa dalla tradizione senza sostanziali muta- menti, l’attività dei
logici sbizzarrendosi soltanto a trovar nomi per ogni insignificante
modificazione delle strutture tradizionali. Si è già detto che il fondamento
del S. aristotelico i gli animali; ma intendo nello stesso tempo che l’idea
dell’animale è compresa nell’idea dell’uomo. L’animale comprende più individui
dell’uomo, ma l’uomo comprende più idee e più forme; l’uno ha più esempi,
l’altro più gradi di realtà; l’uno ha più estensione, l’altro più intensione.
Perciò si può forse dire con verità che tutta la dottrina sillogistica potrebbe
essere dimostrata mediante quella del contenente e del contenuto, del compren-
dente e del compreso, che è differente da quella del tutto e della parte;
giacchè il tutto eccede sempre la parte, mentre il comprendente e il compreso
sono talvolta eguali, come accade nelle proposizioni reciproche » (Nouv. Ess.,
IV, 17, 8). Ma fu soprat- tutto Hamilton che fece prevalere il punto di vista
estensivo come fondamento del S. assumendone a base quella che egli chiamò «la
legge di identità o non identità proporzionale » per la quale il S. si fonda
sulle tre sole possibili relazioni tra i ter- mini: 1° la relazione di
coinclusione toto-totale cioè di identità o di assoluta convertibilità o reci-
procazione; 2° la relazione di co-esclusione toto- totale cioè di non identità
o di assoluta non conver- tibilità o non reciprocazione; 3° la relazione di
coinclusione incompleta, che implica una relazione di coesclusione incompleta,
che significa l'identità par- ziale o la parziale non identità o una convertibilità
o reciprocazione relativa (Lectures on Logic, ll, 1866, pag. 290 sgg.).
Hamilton stesso si preoccupò di sottolineare i precedenti della sua dottrina,
tra i quali però non incluse il principale, che è Leibniz (/bid., 346-48). La
logica posteriore di ispi- SILLOGISTICA razione aristotelica non seguì, su
questo punto, la dottrina di Hamilton ritornando ad una inter- pretazione
intensiva del fondamento del sillogismo. E in realtà l’eredità della proposta
di Hamilton doveva essere raccolta piuttosto dalla logica mate- matica; la
quale però, a partire dalla sua prima manifestazione cioè dalle Leggi del
Pensiero (1854) di G. Boole fu d’accordo con l’empirismo (v. oltre) nel
togliere al S. il suo primato di forma fondamen- tale e tipica del
ragionamento. Diceva Boole: « Il S., la conversione, ecc. non sono gli ultimi
pro- cessi della logica. Essi sono fondati su, e sono risol- vibili in,
ulteriori e più semplici processi che costi- tuiscono gli elementi reali del
metodo in logica. Nè è vero in linea di fatto che ogni inferenza è riducibile
alle forme particolari del S. e della con- versione + (Laws of Thought, cap. I;
Dover Pub- blications, pag. 10). I processi elementari della logica sono
secondo Boole, identici con «i processi fondamentali dell’aritmetica » (/bid.,
pag. 11): un'affermazione la quale servì di base a tutti gli ulteriori sviluppi
della logica matematica. Ma con ciò il S. era definitivamente spodestato dal
suo trono di tipo fondamentale del ragionamento deduttivo: cosa che non era
riuscita del tutto alla critica empiristica. D’allora in poi, il S. ha cessato
di essere un capitolo autonomo delia logica; e la preoccupazione dei logici a
suo riguardo consiste unicamente nel mostrare come esso possa essere risolto e
espresso nelle formule del calcolo che essi preferiscono: una preoccupazione
che i logici affrontano non senza perplessità (cfr., ad. es., W. v. O. QuInE,
Methods of Logic, 1952, $ 14; A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic,
1956, $ 46.22). Come già si è detto, indipendentemente dalla discussione sui
suoi fondamenti, la validità del S. è stata spesso messa in dubbio dal punto di
vista dell’empirismo. Sesto Empirico vedeva nel S. o la ripetizione inutile di
ciò che già si conosce o un circolo vizioso: nel senso che la premessa maggiore
(« Tutti gli uomini sono mortali +) implicherebbe già la verità della
conclusione (« Socrate è mortale +) (/p. Pirr., I, 163-64; II, 196). Stuart
Mill osservava a questo proposito che il circolo vizioso non c’è, perchè quando
si è giunti alla proposizione gene- rale, l’inferenza è finita e non rimane che
« deci- frare i nostri appunti » (Logic, II, 3, 2). Ma questo significa ridurre
il S. a una semplice decifrazione di note già possedute. Già Bacone aveva
osservato che « il S. forza l'assenso, ma non la realtà» (Nov. Org., I, 13). E
fu questa l’idea che Locke fece pre- valere sulla natura del S.: il quale non
scopre nè le idee nè la connessione tra le idee, che solo la mente può
percepire, ma « dimostra soltanto che se l’idea intermedia concorda con quelle
cui è 795 riferita immediatamente da entrambi i lati, allora quelle due idee
lontane (o estreme) certamente concordano ». Sicchè «la connessione immediata
di ciascuna idea con quelle cui viene applicata da entrambi i lati, connessione
dalla quale dipende la forza del ragionamento, è vista altrettanto bene prima
quanto dopo il S. o altrimenti chi fa il S. non potrebbe mai vederla affatto»
(Saggio, IV, 17, 4). Questa critica famosa di Locke ha iniziato quella
decadenza del S. dalla sua supremazia che doveva concludersi col prevalere
della logica mate- matica nella seconda metà dell’800. SILLOGISTICA (ingl.
Syllogistic; franc. Syl- logistique; ted. Syllogistik). È la dottrina del
sillo- gismo (v.). Sviluppata per la prima volta da Aristo- tele negli
Analytica Priora, doveva divenire in breve volgere di decenni la parte centrale
della Logica, e tale rimanere fino all’avvento della Logica mate- matica
contemporanea. La parte più antica è la teoria del sillogismo deduttivo
categorico esposta, appunto, da Aristotele. Questi fissa i quattro modi validi
della prima figura. (Le figure sono caratteriz- zate dalla posizione del
termine medio, che nella prima fa da soggetto nella premessa maggiore e
predicato nella minore; nella seconda è predicato in entrambe le premesse,
nella terza è in entrambe soggetto: onde la necessità, in queste, di convertire
una delle premesse. I modi si dispongono così: prima quelli che concludono con
una proposizione universale affermativa, poi quelli che concludono con una
universale negativa, poi particolare affer- mativa, infine particolare
negativa). Indi passa all’analisi dei modi possibili della seconda e terza
figura, dimostrandone la riducibilità, principalmente mediante la tecnica della
conversione (v.), a corri- spondenti modi della prima. In seguito Teofrasto
formulerà i modi della quarta figura, ma il ricono- scimento e l'esposizione di
questa come figura indipendente pare siano dovuti a Galeno. Tuttavia in seguito
parecchi logici, come Averroè, Zabarella, e, nell’età moderna, Wolff e Kant, si
pronuncia- rono contro di essa come sostanzialmente inutile; e infatti i modi
di questa figura non sono che modi indiretti della prima, con interscambio
delle due premesse; per di più alcuni di essi, e cioè il primo e il quarto, non
«concludono necessariamente » (condizione essenziale, nella dottrina
aristotelica, perchè ci fosse sillogismo). A queste quattro figure i logici
moderni aggiunsero i cinque modi «deboli», ottenuti dalla prima, seconda (e
quarta) per subal- ternazione (cloè sostituzione della conclusione universale
con una particolare). Questa dottrina, già largamente esplorata dai
commentatori della tarda antichità, peripatetici e neoplatonici, compendiata
poi da Boezio, ricevette ad opera dei logici medievali una rielaborazione 796
sistematica che la rese estremamente formalizzata. Furono infatti i grandi
terministi medievali che ridussero a formule tutti i modi, seguendo questa
complicata tecnica: indicarono con le quattro vocali a, e, i, o i quattro tipi
di proposizione (risp.: univer- sale affermativa {a], universale negativa fe],
parti- colare affermativa fi], particolare negativa [o]; con B, C, D, Fi
quattro modi della prima figura, desi- gnandoli con le parole-formule Barbara,
Celarent, Darii, Ferio, dove le uniche lettere significative sono appunto le
iniziali e le tre vocali (indicanti il tipo di proposizione rispettivamente
della premessa maggiore, della minore e della conclusione). Per i modi delle
tre altre figure, le prime tre vocali hanno il consueto significato; le
iniziali indicano a quale modo della prima figura si riducano; e in più sono
significative alcune lettere minuscole posposte alla vocale e indicative di
operazioni da compiersi sulle proposizioni indicate da quella vocale: s
conversione «simpliciter », p conversione «per accidens +, m metatesi delle
premesse, c « reductio ad impossibile +. Ora, teoricamente, i modi
matematicamente pos- sibili in ogni figura sono 16, che si ottengono com-
binando a due a due in tutti i modi possibili (con ripetizione) le quattro lettere
a, e, i, 0 (infatti nel sillogismo quelle che decidono sono le premesse, e le
premesse sono due): 44, ea, ia, 0a; ae, ee, ie, 0e; ai, ei, ii, oi; ao, eo, io,
00. Ne verrebbero quindi 64 modi; ma di essi sono validi solo i seguenti 19:
logismo ipotetico e disgiuntivo. Il sillogismo ipotetico con- siste in una
premessa (detta maggiore) la quale stabilisce un’implicazione da un enunciato
ad un altro («se A, B +); di una premessa (detta minore) che afferma (modus
ponens) o nega (modus tollens) rispettivamente l’antecedente o il conseguente
del- l’implicazione contenuta nella maggiore; la conclu- SIMBOLIISMO sione
afferma o, rispettivamente, nega il conseguente o l’antecedente: modus ponens:
se A, B modus tollens: se A, B Anon-8 dunque 8 dunque non-4 Analogamente, il
sillogismo disgiuntivo consiste di una premessa (maggiore) in cui sono
affermate (modus tollendo ponens) oppure reciprocamente negate (modus ponendo
tollens) due proposizioni; di una premessa (minore) in cui è negata, 0, rispet-
tivamente, affermata, una delle disgiunte della pre- messa maggiore; la
conclusione consiste nell’affer- mare, o, rispettivamente, negare, l’altra
disgiunta: modus tollendo ponens: A o B AoB non-B non-A dunque 4 dunque 8 modus
ponendo tollens: o A o B po AoB A dunque non-8 dunque non-4 Questi tipi di «
sillogismo », malgrado certe for- zate analogie, rappresentano una struttura
affatto diversa da quella del sillogismo categorico, sì che, se non si tenesse
conto dell’etimologia, a mala pena si potrebbe applicare loro il nome stesso di
sillo- gismo. Infatti essi, per esprimerci nel linguaggio della Logica
contemporanea, appartengono al cal- colo proposizionale semplice e si fondano
su impli- cazioni materiali, mentre i modi del sillogismo categorico
appartengono al calcolo delle funzioni proposizionali e si fondano su
implicazioni formali. Ciononostante nella Logica moderna, soprattutto
nell’Ottocento, è stato fatto il tentativo (peraltro più su basi gnoseologiche
ed epistemologiche che non su basi propriamente logiche) di ridurre il
sillogismo categorico a sillogismo ipotetico, inter- pretando il primo come
inferenza ipotetico-deduttiva: «se tutti gli uomini sono mortali, e se Socrate
è uomo, Socrate è mortale». Ma l’esposizione logica completa di quest’ultima
forma di inferenza mostra come essa in realtà non si riduca a nessuna delle due
forme classiche, andando perdute di queste la rigorosa brevità e la struttura
ternaria. Resterebbe da considerare il sillogismo induttivo. Ma la trattazione
di esso non appartiene alla S. vera e propria (v. INDUZIONE). G. P. SIMBOLISMO
(ingl. Symbolism; franc. Sym- bolisme; ted. Symbolismus). 1. L’uso dei segni
cioè il comportamento segnico o sermiosi (v.). 2. L'uso di un particolare
sistema di segni (per es., «il S. della matematica»). 3. L’uso dei simboli nel
senso 2 del termine cioè di segni convenzionali e secondari (segni di segni,
come accade nell’arte, nella religione, ecc.). In questo senso adopera la
parola Cassirer quando parla della « espressione simbolica come della più
matura forma dello sviluppo linguistico, contras- SIMPATIA segnata dalla
distanza tra il segno e il suo oggetto » (The Philosophy of Symbolic Forms, II,
pag. 237); questa distanza è difatti propria del comportamento segnico. SIMBOLO
(ingl. Symbol; franc. Symbole; te- desco Symbol). 1. Lo stesso che segno. In
questo significato generico il termine viene più spesso ado- perato nel
linguaggio comune. 2. Una particolare specie di segno. Secondo Peirce: « Un
segno che può essere interpretato in conseguenza di un abito o di una disposizione
naturale » (Coll. Pap., 4.531). Secondo Dewey, un segno arbitrario o
convenzionale (Logic, Intr., IV; trad. ital., pag. 93). Secondo Morris un segno
che ne sostituisce un altro nella guida di un compor- tamento (Signs, Language
and Behavior, I, 8). Secondo altri, un segno tipico, in contrapposto al segno
individuale cioè la parola come significato (v. PAROLA) (M. BLACK, Language and
Philosophy, VI, 2; trad. ital., pag. 181). SIMILE (gr. 8poiog; lat. Similis; franc. Sem- blable;
ingl. Alike, Similar; ted. Ahnlich).
Ciò che ha una qualsiasi determinazione in comune con una © più cose.
Aristotele distinse i seguenti significati del termine: 1° sono S. le cose che
hanno la stessa forma per quanto siano sostanzialmente differenti; e in questo
senso sono S. un quadrato più grande e uno più piccolo e due linee rette ine-
guali; 2° sono S. le cose che hanno la stessa forma ma sono soggette a
variazioni quantitative, quando le loro quantità sono uguali; 3° sono S. le
cose che hanno in comune la stessa affezione, per es., il bianco; 4° infine
sono S. le cose le cui affezioni uguali sono in maggior numero delle affezioni
differenti (Mer., X, 3, 1054 b 3). Il primo significato è quello in cui in
geometria si dicono S. le figure (cfr. EUCLIDE, El., VI, def. 1, 3; def. 11,
ecc.). Nella tradizione posteriore, la simiglianza è stata intesa specialmente
rispetto alla qualità comune (PIETRO Ispano, Summ. Log., 3.29) ma talvolta
anche alla forma (S. Tommaso, Contra Gent., I, 29; cfr. S. Th., I, q. 4, a. 3).
Più genericamente Wolff diceva che «sono S. le cose che sono identiche in ciò
in cui dovrebbero distinguersi l’una dall’altra» (Ont., $ 195). Determinazioni
siffatte stringono assai poco e dicono solo che i criteri di simiglianza
possono essere indefinitamente variati; l’importante è che siano, ogni volta,
esplicitamente dichiarati. Solo nella matematica moderna la nozione di
simiglianza è stata diversamente definita mediante la teoria degli insiemi: che
si dicono S. quando esiste tra essi una relazione di termine a termine. Dice,
ad es., Russell: «Si dice che una classe è S. a un’altra quando esiste una
relazione di termine a termine in cui una classe è dominante mentre l’altra è
il dominante inverso» (/ntroduction to 797 Mathematical Philosophy, cap. II;
trad. ital., pag. 27). Questa nozione ha grande importanza per la defi- nizione
matematica dell’infinito (v.). SIMMETRIA (ingl. Symmetry; franc. Symétrie; ted.
Symunetrie). Misurabilità, proporzione 0 armo- nia. Simmetrica si dice una
relazione che intercede tra i due termini nei due sensi: per es. è simmetrica
la relazione «fratello » (v. RELAZIONE). SIMPATIA (gr. ovyré0eu; ingl.
Sympathy; franc. Sympathie; ted. Sympathie). L'azione reci- proca delle cose
tra loro o la loro capacità di influenzarsi a vicenda. Il concetto è antico e
sin dall’antichità trovò applicazione sia nel mondo umano che nel mondo fisico;
ma è soprattutto a proposito del mondo fisico che i filosofi antichi se ne
servirono. Gli Stoici videro nella S. il legame che unisce tra loro le cose e
le tiene o le fa conver- gere nell’ordine del mondo (ARrnIM, Sroicorum
fragmenta, II, pag. 264). Plotino poneva la S. a fondamento della magia: « Da
dove derivano, egli diceva, gli incantesimi? Dalla S. per la quale vi è un
accordo naturale tra le cose simili ed una naturale contrarietà tra le
dissimili e per la quale anche c’è un gran numero di potenze varie che
collaborano all'unità di quei grande animale che è l’universo » (Enn., IV,4,
40). « La S., egli diceva, è come un’unica corda tesa che quando viene toccata
ad un capo trasmette anche all’altro capo il movimento... E se la vibrazione
passa da uno strumento all’altro per S., anche nell’universo c’è un’armonia
unica, che talora è fatta di contrari ma talaltra è fatta anche di parti simili
e congeneri » (/bid., IV, 4, 41). La magia si inserisce nella S. universale, e
con op- portuni accorgimenti se ne avvale per i propri scopi realizzando così
effetti che sembrano straor- dinari e miracolosi. Questo concetto della S., che
presuppone l’animazione di tutte le cose, è il fonda- mento della magia e viene
ammesso ugualmente da tutti i maghi del Rinascimento (cfr. CAMPANELLA, De sensu
rerum, IV, 1; III, 14; AGRIPPA, De oc- culta philosofia, I, 1; I, 37; CARDANO,
De varietate rerum, I, 1-2; G. B. ELMONT, Opuscula philosophica, I, 6; ecc.)
Col declino della magia nel mondo moderno, il significato di S. fu ristretto a
indicare la parteci- pazione emotiva fra gli individui umani. Hume per primo
insistette sull'importanza della S. per ciò che riguarda la formazione di tutte
le emozioni umane: « Nessuna qualità della natura umana è più importante, sia
in se stessa, sia nelle sue conse- guenze, della propensione che abbiamo a
simpa- tizzare con gli altri, a ricevere per comunicazione le loro inclinazioni
e i loro sentimenti per quanto diversi siano dai nostri o anche contrari... A
questo principio dobbiamo attribuire la grande uniformità che possiamo
osservare negli umori e nei modi di 798 pensare dei membri di una stessa
nazione: è molto più probabile che questa rassomiglianza sorga dalla S.
piuttosto che dall’influenza del suolo e del clima che, per quanto rimangano
gli stessi, non riescono a conservare immutato per un intero secolo il ca-
rattere di una nazione » (7reatise of Human Nature, 1738, II, I, 11). È da
notare che Hume riconobbe alla S. il carattere sul quale giustamente ha poi
insistito Scheler, in polemica con autori più mo- derni e cioè sul fatto che
essa non implica alcuna identità di emozione o fusione emotiva fra le per- sone
tra le quali intercorre. Adamo Smith non fece che seguire l’idea direttiva di
Hume ponendo la S. a fondamento della vita morale e intendendo per essa «la
facoltà di partecipare le emozioni degli altri, quali che siano » (Theory of
Moral Sentiments, 1759, I, 1, 3). Alla S., talora chiamata emparia (v.) si è
fatto talora ricorso nel dominio estetico e bio- logico. Bergson ha riportato
alla S. l’istinto e ha visto in essa la possibilità di cogliere direttamente la
natura della vita: « L’istinto è simpatia. Se questa S. potesse estendere il suo
oggetto e riflettere su se stessa, ci darebbe la chiave delle operazioni
vitali, al modo in cui l’intelligenza sviluppata e raddriz- zata, ci introduce
nella materia» (Év. Créarr., 8® ediz., 1911, pag. 191). Dall’altro lato,
Scheler in un'opera famosa sulla S., l’ha distinta da feno- mine è stato anche
applicato alla storia del pensiero reli- gioso che mostra spesso fenomeni di
sovrappo- sizione e fusione di credenze di provenienza diversa. Anche in questo
uso il termine è adoperato polemi- camente cioè per designare sintesi mal
riuscite, perciò non ha significato preciso. Più arbitrario ancora è il
significato in cui viene adoperato da qualche scrittore francese per indicare
una veduta generale e confusa di una situazione (cfr. RENAN, L’avenir de la
science, pag. 301). SINCRONICO. V. Diacronico. SINDOSSICO (ingl. Syndoxicj
franc. Syn- doxique). Termine adoperato da J. M. Baldwin SINONIMIA per indicare
quel complesso di conoscenze comuni che si formano negli individui in quanto
hanno le stesse esperienze ma che non perciò sono neces- sariamente valide
(Thought and Things, 1906, I, pag. 146) (v. SinNoMICO). SINECHISMO (ingl.
Synechism; franc. Syné- chisme). Termine adoperato da Peirce per indicare il
principio di continuità, che egli ritiene operante in tutte le forme della
realtà (cfr. Chance Love and Logic, II, 3; Coll. Pap., 6.169-173). SINECOLOGIA
(ted. Sinechologie). La dottrina della continuità nel tempo e nello spazio che
secondo Herbart è una parte della metafisica, insieme alla metodologia,
all’ontologia e alla idolologia (Kurze Enciclopàdie der Philosophie, 1841, pag.
297 sgg.). SINERGIA (ingl. Synergy; franc. Synergie; ted. Synergie).
Coordinazione di differenti facoltà o forze oppure azione combinata di
differenti fattori. Il termine è corrente nel linguaggio comune e scientifico
ed è adoperato, ad es., sia ad indicare la cooperazione degli organi in un
corpo vivente sia il rafforzarsi a vicenda dell’azione dei medica- menti.
Qualche volta, ma raramente, è stato ado- perato come sinonimo di simpatia o di
coopera- zione intelligente (cfr. Risor, Psychologie des sen- timents, 1896,
pag. 229; FoOUILLÉE, Morale des idées-forces, 1908, pag. 352). SINERGISMO
(ingl. Synergism; francese Sy- nergisme; ted. Synergismus). La dottrina
teologica secondo la quale la salvezza dell’uomo dipende non dalla sola azione
di Dio, ma anche dalla volontà umana che collabora con essa a produrla. Tale
dottrina fu sostenuta da Melantone contro il mo- nergismo di Lutero che
attribuiva la salvezza alla sola azione di Dio (v. GRAZIA). SINGOLARE (ingl.
Singular; franc. Singulier; ted. Einzig, Singulàr). Un termine o una proposi-
zione che denota un unico oggetto; o in altre pa- role « Una forma (o
espressione) che contiene un'unica variabile libera » (CHURCH, Introduction to
Mathematical Logic, 1956, $ 02; cfr. QUINE, Methods of Logic, $ 34). SINGOLO
(ingl. Singular; franc. Singulier; te- desco Einzeln). 1. Lo stesso che
individuo (v.). 2. L’individuo considerato come valore meta- fisico, religioso,
morale e politico supremo. In questo senso il S. è il tema preferito di alcune
filosofie moderne e contemporanee. Kierkegaard affermava polemicamente contro
Hegel il valore esistenziale del S.: « L'esistenza corrisponde alla realtà
singolare, al S. (ciò che già insegnò Aristotele): essa resta fuori dal
concetto e in ogni modo non coincide con esso» (Diario, X?, A, 328). Il S. sta
più in alto dell’universale, a differenza di ciò che Hegel credeva. « In un
genere animale vale sempre il principio: il S. è inferiore al genere. Il genere
799 umano ha la caratteristica, appunto perchè ogni S. è creato a immagine di
Dio, che il S. è più alto del genere » (Ibid, X?, A, 426). Questa esaltazione
del S. si accompagna in Kierkegaard con la svaluta- zione della categoria del
«pubblico » in cui il S. svanisce; ma il pubblico non è la comunità nella quale
invece il simbolo viene riconosciuto come tale (Ibid., X?, A, 390). L'unico
(v.) di Stirner e il superuomo (v.) di Nietzsche sono concezioni ana- loghe a
quella che Kierkegaard indicò come singolo. Nello stesso senso, Jaspers insiste
sul carattere eccezionale del S. (Phil.). SINISTRA HEGELIANA (ingl. Hegelian
Left; franc. Sinistre hégélienne; ted. Hegelsche Linke). Mentre la destra
hegeliana (v.) è la scolastica del- l'hegelismo, la S. hegeliana tende a contrapporre
alla dottrina di Hegel quei tratti o caratteri del- l’uomo che in essa non
avevano trovato un ricono- scimento adeguato. Sul piano religioso questa ten-
denza dà luogo ad una critica radicale dei testi biblici e al tentativo di
ridurre a mito l’intera dot- trina della religione (Davide Federico Strauss,
1808-74). La religione stessa veniva considerata da Ludovico Feuerbach
(1804-72) come «l’auto- coscienza dell’uomo cioè come la proiezione nella
divinità di ciò che l’uomo vuol essere ». Sul piano storico politico, la S.
hegeliana contrappose alla concezione hegeliana della storia come razionalità
assoluta l’interpretazione materialistica della storia stessa che la considera
in funzione dei bisogni umani (K. Marx, 1818-83; F. EnGELS, 1820-95) (v. MATERIALISMO
STORICO). SINNOMICO (ingl. Synzomic; franc. Syn- nomique). Termine adoperato da
G. M. Baldwin per indicare quel complesso di conoscenze comuni che si formano
negli individui, quando sono giu- dicate «adatte o appropriate per tutti i
processi logici come tali» (Thought and Things, 1906, II, pag. 270). Sindossico
invece è ciò che è comune ma senza carattere di normatività (v. SINDOSSICO).
SINOLO (gr. tò abvodov; lat. Compositum). Con questo termine che significa
«tutt'uno » Aristotele indicò il composto di materia e forma, la sostanza
concreta. « La sostanza è la forma immanente dalla quale, e insieme dalla
materia, deriva ciò che si chiama S. o sostanza: per es., la concavità è la
forma dalla quale insieme con il naso (materia) deriva il naso camuso » (Mer.,
VII, 11, 1037 a 30). La traduzione del termine è «composto » o « concreto ».
SINONIMIA (ingl. Synonimy; franc. Syno- nymie; ted. Synonimie). La relazione di
S. è impor- tante per i logici in quanto essi se ne avvalgono per definire la
nozione di analiticità (v.). Il concetto della S. come « identità di
significato tra due forme linguistiche » non è sufficiente; ed i logici aggiun-
gono abitualmente qualche altra condizione, per 800 definire la sinonimia.
Lewis dice: « Due espressioni sono sinonime se e solo se: 1° hanno la stessa
intensione e questa intensione non è nè zero nè universale oppure 2° se la loro
intensione è zero o universale ma esse sono analiticamente confron- tabili »
(Analysis of Knowledge and Valuation, 1946, pag. 86). Per espressioni che hanno
intensione zero o universale, Lewis intende espressioni come «essere»,
«entità», «cosa», «ogni cosa» (/bid., pag. 87). Carnap, a sua volta, ha
osservato: « Se chiediamo un’esatta traduzione di un’asserzione data, per es.,
di un’ipotesi scientifica o di una testi- monianza in corte, da una lingua
all’altra, noi abitualmente richiediamo più che la concordanza nelle intensioni
degli enunciati... Anche se restrin- giamo la nostra attenzione a significati
designativi (conoscitivi), l'equivalenza logica degli enunciati non sarà
sufficiente; sarà richiesto almeno che alcuni dei designatori componenti siano
logicamente equivalenti o in altre parole che le strutture intensio- nali siano
simili » La S. sarebbe perciò espressa da un «isomorfismo intensionale », di
cui Carnap dà le regole (Meaning and Necessity, 1957, $ 14, 15). Le esigenze
avanzate da Lewis e Carnap per la definizione della S. rimangono tuttavia sul
piano della intensionalità delle forme linguistiche. Così fa pure la
definizione di Church (Introduction to Mathematical Logic, $ 01). Quine ha
dimostrato, su questo stesso piano, come sia difficile servirsi della S. per
definire l’analiticità, giacchè « dire che scapolo e uomo non sposato sono
cognitivamente sinonimi significa dire nè più nè meno che l’asser- zione tutti
e solo gli scapoli sono uomini non spo- sati è analitica». La S. si può
pertanto definire, secondo Quine, come la sostituibilità di due termini salva
analyticitate, cioè la possibilità di sostituire l’uno all’altro due termini in
una espressione senza che l’espressione perda il suo carattere analitico (From
a Logical Point of View, 1953, II, 3). SINONIMO (ingl. Synonym; franc.
Synonyme; ted. Synonym). Secondo la definizione aristotelica (Cat., 1a 6; 3b 7)
si dicono S. cose che hanno in comune il nome e la definizione dell’essenza,
come l’uomo e il bue che si dicono (e sono) entrambi animali. Nell’uso moderno
però si sono chiamati S. vocaboli (o enunciati) diversi nella forma del-
l’espressione ma di uguale contenuto semantico. Nella Logica contemporanea si
dicono « S. + enun- ciati aventi forma diversa ma il medesimo senso (designanti
la medesima proposizione): tuttavia non riesce sempre facile distinguere tra
sinonimia (semantica) ed equivalenza (sintattica). G. P. SINOSSI (gr. obvoyic;
ingl. Synopsis; franc. Sy- nopsis; ted. Synopsis). Sguardo d’insieme. Platone
adopera il termine per indicare il primo momento del procedimento dialettico,
quello che consiste nel raccogliere un molteplice in un'unica idea (Rep., 537
c; Fedro, 265 d). Il termine fu anche adoperato da Kant nella prima edizione
della Critica della Ragion Pura nell’espressione «la si- nopsi a priori del
molteplice mediante il senso» (Crit. R. Pura, $ 14, in fine) che sarebbe
l’appren- sione del molteplice sensibile nelle forme dell’in- tuizione (spazio
e tempo), in quanto distinta dalla sintesi dell’immaginazione e da quella
concettuale. SINTASSI (gr.
cvviéeic; lat. Syntaxis; inglese Syntax; franc. Syntaxe; ted. Syntax). 1. Qualsiasi ordinamento, combinazione o
sistemazione di parti. Lo stoico Crisippo definiva « S. del tutto » il destino
che presiede all’ordine del mondo (Stoicorum fragmenta, II, pag. 293). 2. Una
delle dimensioni del procedimento se- gnico (v. SEMIOsI) cioè la combinabilità
dei segni fra loro in base a regole determinabili. In questo senso si può
parlare, ad es., di « S. dei suoni» 0 «dei colori +?, ecc. 3. La scienza che
studia le forme grammaticali o logiche del linguaggio: intendendosi per forme
le loro possibilità di combinazione. Più in parti- colare la S. logica di un
linguaggio è stata definita da Carnap come «la teoria formale delle forme
linguistiche di quel linguaggio, la dichiarazione sistematica delle regole
formali che lo governano insieme con lo sviluppo delle conseguenze che se-
guono da queste regole». Carnap aggiunge che «una teoria, una regola, una
definizione o simili dev’essere chiamata formale quando non fa alcun
riferimento al significato dei simboli (per es., delle parole) o al senso delle
espressioni (per es., degli enunciati) ma unicamente alle specie e all’ordine
dei simboli con i quali le espressioni sono costruite + (Logische Syntax der
Sprache, 1934, $ 1). Carnap ha identificato con la S. l’intera logica o
metodologia delle scienze (/bid., $ 81), in base alla considerazione che « per
determinare se un enunciato è o non è la conseguenza di un altro non è
necessario alcun riferi- mento al significato degli enunciati; e che pertanto
«una logica speciale del significato è superflua; una ‘logica non formale’ è
una contraddizione nei termini. La logica è S.» (2bid., $ 71). Più tardi lo
stesso Carnap ha ammesso la divisione dell’ana- lisi del linguaggio o semiotica
in pragmatica, seman- tica e S. e ha considerato il punto di vista sintattico
come il procedimento che astrae dal fattore seman- tico (Foundations of Logic
and Mathematics,1939, 88). SINTELICO (ingl. Syntelic; franc. Syntélique).
Termine adoperato da G. M. Baldwin per designare gli elementi pratici comuni a
più individui ma non perciò necessariamente validi: elementi che corri- spondono
a ciò che si chiama sindossico nel dominio della conoscenza (Thought and
Things, 1906, III, pag. 79-80). SINTESI a, così la S. toglie i princìpi che
sono a fondamento dell’attività pratica. Il concetto rimase immutato negli
scrittori scolastici posteriori (cfr., ad es., Duns Scoro, Op. Ox., II, d. 39,
q.2, a. 4). La nozione ricorre, ma raramente, in scrittori poste- riori: se ne
avvalse Nicolò da Cusa, assumendola nel significato mistico (De visfone Dei,
ed. Bohnen- stadt, pag. 150 sg.); e nello stesso significato se ne servì
frequentemente B. Gracian: « È il trono della ragione, egli disse, la base
della prudenza perchè in virtù di essa costa poco riuscire. È dono del cielo e
il più desiderato... Consiste in una con- naturale propensione verso tutto ciò
che è più con- forme a ragione accoppiato sempre con quanto v'è di più certo»
(Ordculo manual, 1647, $ 96). SINTESI (gr. oiw0eotc; lat. Synthesis; ingl. Syn-
thesis; franc. Synthèse; ted. Synthese). Questo ter- mine, oltre il significato
comune di unificazione, co- ordinazione o composizione, ha i seguenti
significati specifici: 1° quello di merodo conoscitivo, opposto all’analisi; 2°
quello di attività intellettuale; 3° quelio 51 — ABBAGNANO, Dirionario di
filosofia. 801 di unità dialettica degli opposti; 4° quello di unifi- cazione
dei risultati delle scienze nella filosofia. 1° Nel primo significato cioè come
uno dei metodi fondamentali della conoscenza, in contrap- posto all’analisi, la
sintesi può essere conside- rata come il metodo che va dal semplice al com-
posto cioè dagli elementi alle loro combinazioni negli oggetti di cui si tratta
di spiegare la natura. La contrapposizione dei due metodi fu espressa per la
prima volta da Cartesio (Rép. aux II Objec- tions; v. ANALISI); e Leibniz così
la esprimeva: « Si arriva spesso a belle verità mediante la S., andando dal
semplice al composto; ma quando si tratta di trovare il mezzo di fare ciò che
si propone, la S. ordinariamente non basta... E spetta all’analisi darci il
filo nel labirinto, quando ciò è possibile, perchè ci sono casi in cui la
natura stessa della questione esige che si vada a tentoni e non sempre la
scorciatoia è possibile» (Nouv. Ess., IV, 2, 7). Secondo Kant similmente il
metodo sintetico è quello « progressivo » mentre il metodo analitico è
«regressivo» cioè va da un oggetto alle condizioni che lo rendono possibile
(Pro/., $ 5, nota). Il proce- dimento dalla filosofia è secondo Kant analitico
mentre quello della matematica è sintetico; ma i due termini non hanno qui
alcun riferimento alla classificazione dei giudizi in analitici e sintetici. In
generale, come il procedimento analitico è carat- terizzato dalla presenza di
dati (inerenti all’oggetto o alla situazione da risolvere), che guidano e
control- lano il procedimento stesso, il procedimento sinte- tico si può
caratterizzare con l’assenza di tali dati e con la pretesa, che gli è inerente,
di produrre da sè gli elementi delle sue costruzioni (v. Fio- SOFIA). 2° Nel
secondo significato il termine designa l’unione del soggetto e del predicato
nella pro- posizione; quindi l’atto o l’attività intellettuale che opera tale
unione. In questo senso il termine fu usato da Aristotele, il quale disse che
«là dove c'è il vero ed il falso c’è anche una certa S. di pensieri simile alla
S. che c’è nelle cose» (De An., III, 6, 430 a 27); e che «ciò che opera questa
unità è l’intelletto » (/bid., 430b 5). Ma è stato soprattutto Kant a fare un
uso larghissimo del concetto di S., riducendo ad essa ogni specie di attività
intellettuale. Egli definì la S. in generale come «l’atto di unire diverse
rappresentazioni e comprendere la loro unità in un’unica conoscenza » (Crit. R.
Pura, $ 10). E distinse numerose specie di S. a seconda degli elementi che
entrano in essa. In primo luogo distinse la S. pura nella quale il molteplice è
stato dato non empiricamente ma a priori (come quello dello spazio e del tempo)
dalla S. empirica il cui molteplice è dato empiri- camente. La S. pura è
«l’atto originario della 802 conoscenza, il primo fatto al quale dobbiamo
rivolgere la nostra attenzione se vogliamo renderci conto dell'origine prima
della nostra conoscenza » (Ibid.). La S. pura precede pertanto ogni analisi
giacchè si può analizzare solo ciò che è già dato unito in un atto conoscitivo.
La S. pura, che è possibile a priori, a sua volta può essere distinta in S.
figurata (Synthesis speciosa) e sintesi intel- lettuale (Synthesis
intellectualis): ambedue sono trascendentali perchè costituiscono la
possibilità di ogni conoscenza, ma mentre questa seconda unifica un molteplice
puramente pensato, la S. figurata è una S. del molteplice dell’intuizione
sensibile, o meglio è una S. dell’immaginazione intesa come «facoltà di
determinare a priori la sensibilità » (Ibid, $ 24). Su questa S. trascendentale
del- l'immaginazione è fondato l’io penso o apperce- zione originaria (v.). Ma
poichè ogni conoscenza è sintesi e la conoscenza effettiva, è, secondo Kant
l’esperienza, Kant chiama l’esperienza stessa «la sintesi, secondo concetti,
dell’oggetto dei fenomeni in generale » (Cri. R. Pura, An. dei Princ., cap. II,
sez. II. Nella prima edizione della critica Kant aveva parlato di tre specie di
S.: 1° la S. dell’ap- prensione nell’intuizione; 2° la S. della riproduzione
nell’immaginazione; 3° la S. della ricognizione nel concetto (Crit. R. Pura, 1%
ediz., An. Trasc., Libro I, cap. 2, sez. 2). Ma sia nella prima che nella
seconda edizione Kant riduce alla S. ogni specie o grado di attività
conoscitiva. Questo fu uno degli aspetti più vistosi, e più discussi, della sua
opera. Mentre la nozione di S. cambiava di natura passando nell’idealismo (v.
oltre), essa veniva da altri filosofi ripresa e variamente adattata. Galluppi
invertiva il punto di vista kantiano mettendo l’analisi avanti la sintesi. « La
S. è la facoltà di riunire le percezioni che l’analisi aveva separate.
L'analisi è dunque una condizione essenziale per la S.» (Saggio fil. sulla
critica della conoscenza, 1831, II, $ 146). Egli distingueva inoltre: la S.
ideale oggettiva che con- siste nel riconoscere i rapporti oggettivi che sussi-
stono tra le cose; la S. immaginativa civile che consiste nel riunire in una
rappresentazione com- plessa, che non corrisponde ad alcun oggetto, diverse
rappresentazioni di cui ciascuna ha un 0g- getto; e la S. immaginativa poetica
che è una specie della precedente (/bid., III, $ 147-149). A sua volta Rosmini
chiamava S. primitiva la sua « percezione intellettiva» (Nuovo saggio, $ 46; $
528, ecc.) In generale, il concetto di S. è rimasto in filosofia ad esprimere
l’attività ordinatrice, organizzatrice o sistematrice dell'intelletto. I
neokantiani fecero largo uso di questa nozione. A. Riehl specialmente fece
dell’attività sintetica la funzione fondamentale della coscienza e l’a priori
di tutta la conoscenza (Der philosophische Kriticismus, II, 2, 1887, pag. 68).
SINTESI Altri neokantiani invece, come Cohen, preferirono al concetto di S.
quello di origine (Logik der reinen Erkenntnis, 1902, pag. 36). Wundt
introdusse il concetto nella psicologia e parlò del « principio della S.
creativa», secondo il quale «non solo le parti che entrano a comporre una S.
ap- percettiva, acquistano, accanto al significato che avevano nel loro
isolamento, un significato nuovo dovuto alla loro connessione nella rappre-
sentazione totale; ma anche questa rappresenta- zione è un nuovo contenuto
psichico, che è bensì reso possibile dalle parti componenti ma non con- siste
in esse» (Grundriss der Psychologie, 1896, pag. 394). Dall’altro lato, la
filosofia fenomenolo- gica metteva in luce la funzione della S. nella 4
costituzione delle oggettività di coscienza ». Husserl ritiene che ogni oggetto
di coscienza in generale sia una « unità sintetica » cioè una S. di coscienza
(Ideen, 1, $ 86). Egli distingue le S. continuative, del tipo di quella che
costituisce, ad es., la spazialità, e le S. articolate che sono i modi
particolari in cui atti separati l’uno dall’altro si connettono in un unico
atto sintetico di grado superiore. S. articolate sono, per es., gli atti di
preferenza o le emozioni simpatetiche; e inoltre le S. colleganti, disgiungenti
(cioè miranti a questo o a quello) ed esplicanti, che determinano le forme
della logica e dell’onto- logia formale. 3° La nozione di S. come unità degli
op- posti è nata insieme col relativo concetto della dialettica (v.) ed è stata
per la prima volta esposta da Fichte. Egli dice: « L'atto con il quale nelle
cose paragonate si ricerca la nota per cui esse sono opposte tra loro, si
chiama procedimento an- titetico (detto ordinariamente analitico). ...Il pro-
cedimento sintetico invece consiste nel ricercare negli opposti quella nota per
cui essi sono iden- tici » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 3, D, 3). La legge di
questa identità è che « nessuna antitesi è possi- bile senza una S.; poichè
l’antitesi consiste preci- samente nel ricercare negli uguali la nota opposta
ma gli uguali non sarebbero uguali se non fossero prima posti come uguali
mediante un atto sin- tetico » (/bid., $ 3, D, 3). Schelling parlava a sua
volta di un « processo dalla tesi all’antitesi e quindi alla S. +, che è il
processo per cui l’io pone l’oggetto, si contrappone ad esso ed infine lo
ricomprende in se stesso (System des transzendentalen Idealismus, 1800, III,
cap. I; trad. ital, pag. 58 sgg.). Hegel invece preferì al termine S. i termini
« identità » o « unità », pur lamentando che la parola unità in- dicasse, ancor
più che «identità », una « riflessione soggettiva ». L’unità o l'identità che
chiude una triade dialettica è una connessione oggettiva; la quale secondo
Hegel, meglio si chiamerebbe « in- separabilità » se, da questo nome, non
restasse SISTEMA fuori la natura positiva della S. (Wissenschaft der Logik, I,
libro I, sez. I, cap. I, c, nota 2; trad. ital., pag. 85). Nel linguaggio
filosofico francese e italiano, della S. a priori come della stessa attività
creativa dello spirito: « La S. a priori è delle forme tutte dello Spirito
perchè lo Spirito, considerato in genere, è nient'altro che S. a priori; e
questa si esplica nell'attività estetica e nella pra- tica, non meno che in
quella logica» (Logica, 4* ediz., 1920, pag. 141). Ed ha visto nella S. a
priori l'identità di filosofia e storia, asserendo che essa « portava nel suo
grembo la storicità che il suo scopritore [Kant] ignorava o disconosceva »
(Ibid., pag. 369). 4° Infine per S. è stata intesa l’unificazione dei risultati
ultimi delle scienze particolari nel seno della filosofia prima secondo il
concetto positivi- stico della filosofia (v.). Tale S. fu detta soggettiva da
Comte che riteneva si dovesse fare, tenendo pre- sente i bisogni naturali
dell’uomo (S. soggettiva o Sistema universale delle concezioni proprie dello
stato normale dell’umanità, 1856, I). Spencer chiamò per lo stesso motivo «
Sistema di filosofia sintetica + la sua opera complessiva, il cui primo volume
è costituito dai Primi principi (1862). SINTETICITÀ (ingl. Syntheticity). La
vali- dità delle proposizioni che dipende dai fatti. Questo almeno è il
significato che si attribuisce ora comu- nemente all’aggettivo sintetico quando
viene rife- rito a proposizioni o enunciati. Kant, al quale si deve l’introduzione
dei due termini analitico e sintetico, li usò per distinguere i giudizi
esplicativi e i giudizi estensivi. «I primi nulla aggiungono, per mezzo del
predicato, al concetto del soggetto, ma solo dividono con l’analisi il concetto
nei suoi con- cetti parziali, che erano in esso già pensati sebbene
confusamente; i secondi aggiungono invece al con- cetto del soggetto un
predicato che non era con- tenuto in esso e non era da esso deducibile con 803
l’analisi » (Crif. R. Pura, Intr., $ IV). Ma i giudizi sintetici, secondo Kant,
sono non soltanto quelli che riguardano cose di fatto, ma anche quelli della
matematica e della fisica pura in quanto sono fondati sulla intuizione a priori
dello spazio e del tempo e sulle categorie e perciò detti « giudizi sintetici a
priori». Nella filosofia contemporanea, tuttavia, la S., come carattere delle
espressioni è stata intesa nel senso delle « proposizioni di fatto » di Hume o
delle « verità di fatto » di Leibniz (vedi EsPERIENZA; FATTO): cioè come
proposizioni che si riferiscono a situazioni o stati di cose e che possono
essere vere o false nei confronti di essi. Dice Carnap: « Un enunciato
sintetico è qualche volta vero — cioè quando certi fatti esistono — e qualche
volta falso; quindi esso dice qualche cosa circa quali fatti esistono. Gli
enunciati sinte- tici sono gli autentici enunciati circa la realtà» (Logische
Syntax der Sprache, $ 14). I logici tut- tavia spesso preferiscono definire
negativamente gli enunciati sintetici, come quegli enunciati che non sono nè analitici
nè contraddittori: così fanno, ad es., Lewis (Analysis of Knowledge and
Valuation, 1946, pag. 35) e Reichenbach (Theory of Proba- bility, 1949, pag.
20). Come le proposizioni anali- tiche (v. ANALITICITÀ) sono dette «verità
neces- sarie » perchè la loro negazione è impossibile, così le proposizioni
sintetiche sono spesso dette con- tingenti nel senso che non sono nè necessarie
nè impossibili (cfr. CarnaP, Meaning and Neces- sity, $ 39). SINTETISMO (ted.
Synrhetismus). Così chiamò n questo senso nel periodo classico, fu adoperata da
Sesto Empirico per indicare l’insieme delle premesse e della con- clusione o
l'insieme delle premesse (/p. Pirr., II, 173). E la parola è rimasta nell’uso
filosofico a indicare prevalentemente un discorso organizzato deduttiva- mente
cioè costituente un tutto le cui parti si la- 804 sciano derivare l’una
dall’altra. Leibniz chiamava S. un repertorio di conoscenze che non si limiti
ad elencarle ma ne contenga le ragioni o le prove e descriveva l’ideale
sistematico nel modo seguente: «L’ordine scientifico perfetto è quello in cui
le proposizioni sono situate secondo le loro dimo- strazioni più semplici e in
modo che nascano l’una dall’altra » (Méthode de la certitude, Op., ed. Erd-
mann, pag. 174-75). Wolff a sua volta diceva: « Si dice S. un insieme di verità
connesse tra loro e con i loro princìpi» (Log., $ 889). La nozione di S. si
modellava così su quella del procedimento matematico. Kant la subordinò a una
condizione ulteriore: l’unità del principio che è a fondamento del sistema.
Egli intese infatti per S. «l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto
un’unica idea »; affermò che il S. è un tutto organizzato finalistica- mente e
pertanto è articolato (arficulatio), non am- mucchiato (coacervatio); può
crescere dall’interno (per intussusceptionem) ma non dall’esterno (per
appositionem) ed è perciò simile ad un corpo ani- male cui la crescita non
aggiunge alcun membro ma, senza alterare la proporzione dell’insieme, rende
ogni membro più forte e più adatto al suo scopo (Crit. R. Pura, Dottr. del
metodo, cap. III). Su questa base, Kant parla della « unità sistematica della
conoscenza, alla quale le idee della ragion pura cercano di avvicinarsi»
(/bid., Dialettica, cap. III, sez. I). L'unità del S. cioè la sua deriva-
bilità da un principio unico è la caratteristica che fa la fortuna della
nozione nella letteratura filo- sofica del Romanticismo. Essa costituisce
l’ideale della dottrina della scienza di Fichte: « Se non ci debbono essere
solo uno o parecchi frammenti di un S. o addirittura parecchi S., ma un S.
unico e perfetto dello spirito umano, allora dev’esserci un principio
fondamentale assolutamente primo e su- premo. E se da esso il nostro sapere si
espande di per sè in tante serie dalle quali ancora procedono altre serie e
così via, tutte queste serie tuttavia debbono stringersi in un solo anello, il
quale non è attaccato a nulla, ma per la sua propria forza mantiene se stesso e
l’intero S.» (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 2; trad. ital.,
pa- gina 19). Che il S. sia la forma propria della scienza e che esso supponga
un principio unico ed assoluto diventa un luogo comune nella filosofia
romantica. L’origine di questo luogo comune è l’ideale mate- matico a cui
Leibniz, Wolff e lo stesso Kant si erano ispirati; ma questo ideale viene
rivolto contro la matematica stessa e rivendicato esclusivamente alla
filosofia. «Si ammette generalmente, diceva Schelling, che alla filosofia
convenga una forma sua particolare che si dice sistematica. Presupporre una tal
forma non dedotta, tocca ad altre scienze, che già presuppongono la scienza
della scienza, SISTEMA mantenuta e fatta valere nelle filosofie idealistiche.
Diceva Croce: « Pensare un determinato concetto puro significa pensarlo nella
sua relazione di unità e distinzione con gli altri tutti; sicchè quel che si
pensa non è mai in realtà un concetto singolo, ma il S. dei concetti, il
Concetto » (Logica, 4* ediz., 1920, pag. 172). L’ideale del S., come di un
organismo deduttivo fondato su un unico principio, è rimasto il patri- monio
della filosofia, che l’ha coltivato anche quando, sull’esempio di Kant, ha
dichiarato ir- raggiungibile, per la conoscenza umana, un simile ideale.
Tuttavia il termine è stato ed è adoperato anche senza connessione con questo
significato, per indicare un qualsiasi organismo deduttivo, anche se non abbia
un unico principio a suo fondamento. Questo è il caso dei S. di cui si parla
oggi nelle matematiche e nella logica. Un S. ipotetico-dedut- tivo, un S.
astratto, un S. assiomatico, ecc., non sono S. perchè abbiano un unico
principio: i loro princìpi anzi, cioè gli assiomi, devono essere re-
ciprocamente indipendenti cioè non deducibili l’uno dall’altro (v. ASSIOMA;
ASSIOMATIZZAZIONE). Sono detti S. unicamente per il loro carattere deduttivo; e
nello stesso senso si parla di S. numerico e tal- volta di «S. di assiomi» per
indicare un semplice insieme non contraddittorio di proposizioni pri- mitive
(cfr. M. R. CoHEN-E. NAGEL, « The
Nature of a Logical or Mathematical System », in Readines in the Philosophy of
Science, 1953, pag. 129 sgg.). L'uso
della parola ha in altri termini perduto il suo significato forte o elogiativo
di discorso deduttivo. 2. Una qualsiasi totalità o tutto organizzato. In questo
senso si dice « S. solare », « S. nervoso », ecc., e si parla anche di
«classificazione sistematica» o più semplicemente di S. in luogo di
classificazione, come fece Linneo, volendo insistere sul carattere ordinato e
completo della sua classificazione (Sy- stema naturae, 1735). SITUAZIONE Da
questo punto di vista, si distingue talora il S. come un insieme continuo di
parti che hanno tra loro relazioni varie dalla strurzura (v.) od orga-
nizzazione che i componenti di esso possono assu- mere a un determinato tempo
(W. BUCKLEY, So- ciology and Modern System Theory,1967,pag.5). 3. Una qualsiasi
teoria, scientifica o filosofica, specie quando se ne voglia sottolineare il
carattere scarsamente empirico. Nel °700 si parlava del «S. del mondo» per
indicare le teorie cosmolo- giche (cfr., ad es., D’ALEMBERT, (Euvres, ed. Con-
dorcet, pag. 165 sgg.). Leibniz chiamava S. le sue teorie sul rapporto tra
l’anima e il corpo o tra le varie sostanze (Sysrème nouveau de la nature et de
la communication des substances, 1695). Baum- garten chiamava S. psicologici le
« opinioni che sembrano adatte a spiegare il rapporto tra l’anima e il corpo»
(Mer., $ 761). E gli Illuministi parla- vano nello stesso senso, ma in modo
peggiorativo, del S. e dello spirito sistematico. Diceva Diderot: « Per spirito
sistematico io designo quello che im- bastisce piani e forma sistemi
dell’universo ai quali pretende in seguito adattare i fenomeni, a diritto o a
forza » (CEuvres, XVI, pag. 291). D’Alembert par- inferenza cioè di
trasformazione delle espressioni composte l’una nell’altra; 4° alcune proposizioni
primitive o assiomi. Dal S. logistico si distingue un linguaggio for- malizzato
perchè per quest’ultimo è data anche una certa interpretazione. Per passare dal
S. logistico al linguaggio formalizzato sono pertanto necessarie alcune regole
semantiche che assegnino un signi- ficato alle formule del sistema. La
differenza fra S. logistico e linguaggio formalizzato si può anche esprimere
dicendo che il primo ha soltanto regole sintattiche, il secondo ha anche regole
semantiche (cfr., su questo, A. CHURCH, « The Need for Abstract 805 Entities in
Semantic Analysis», in Proceedings of the American Academy of Arts and
Sciences, 1951, pag. 100 sgg.; Zntroduction to Mathematical Logic, 1956) (v.
CALCOLO; FORMALIZZAZIONE). SISTEMATICA (ingl. Systematics; franc. Sy-
stématique; ted. Systematik). La tecnica, cioè la via o il mezzo, per
realizzare il sistema. La nozione deriva dal principio kantiano che il sistema
è l’ideale regolativo della ricerca filosofica, non la sua realtà. «Tuttavia,
dice Kant, il metodo può sempre essere sistematico. Infatti la nostra ragione
(soggettiva- mente) è per se stessa un sistema; ma nel suo uso puro, per
semplici concetti, è soltanto un sistema di ricerca secondo princìpi,
dell’unità cui l’espe- rienza può fornire soltanto la materia » (Crit. R. Pura,
Dottrina del metodo, cap. I, sez. 1). La no- zione è rimasta soprattutto nel
criticismo tedesco. Natorp parlava di «S. filosofica » nel senso di ri- cerca
diretta a dare al sapere filosofico quella unità in cui consiste il sistema (Philosophische
Systematik, $ 1). SISTEMATICO (ingl. Systematic; franc. Sy- stématique; ted.
Systematisch). 1. Che costituisce un sistema o appartiene a un sistema, in uno
dei sensi qualsiasi della parola sistema. In questo senso si dice «sapere S.» o
«errore sistematico ». 2. Che procede verso il sistema ma non è un sistema: con
riferimento a sistematica. In questo senso N. Hartmann distingueva nella storia
della filosofia il pensiero-sistema rivolto alla costruzione del sistema e il
pensiero-problema che si mantiene in un’indagine aperta (Systemarische
Philosophie, 1931, $ 1). Egli inoltre riteneva che « il tempo delle visioni S.
è ormai del tutto passato e la filosofia S. si è ritrovata sul terreno privo di
pretese ma solida dell’indagine problematica » (Der philosophische Ge- danke
und seine Geschichte, III, 4; cfr. Zur Grundle- gung der Ontologie, 1935, pag.
31). SITUAZIONE (ingl. Situation; franc. Situation; ted. Situation). Il
rapporto dell’uomo col mondo in quanto limita, condiziona e, insieme, fonda e
determina le possibilità umane come tali. Il termine fu introdotto da Jaspers
che così lo illustrava: «La S. esterna, pur così mutevole e così diversa a
seconda degli uomini a cui si rivolge, ha questo tuttavia di tipico: essa è per
tutti a due tagli, incita e ostacola, e inevitabilmente limita, distrugge, è
infida, insicura » (Psychologie der Weltanschauungen, 1925, cap. III, $ 2;
trad. ital., pag. 268). Jaspers parlava pure di sifuazioni-limite che
posseggono in grado eminente i caratteri propri di ogni S. del- l’uomo nel
mondo. Tali sono le S. immutabili, defi- nitive, incomprensibili, nelle quali
l’uomo si trova come di fronte a un muro contro cui urti senza spe- ranza. Tali
sono: l’esistere sempre in una S. deter- minata; il non poter vivere senza lotta
e dolore; 806 il dover prendere su di sè la colpa; l’essere destinato alla
morte (Phil., II, pag. 209). In queste situazioni Jaspers vedeva la cifra (v.),
cioè la rivelazione negativa, della trascendenza. Heidegger ha notato che il
termine ha anche un significato spaziale ma soprattutto designa la
determinazione per la quale l’esistenza, come essere nel mondo, decide sul pro-
prio luogo (Sein und Zeit,$60). L’esistenza anonima si trova davanti a « S.
generali » e si perde nelle op- portunità più prossime. Il richiamo della
coscienza porta l’uomo davanti alla sua situazione propria e alla esigenza di
una decisione autentica (/bid., $ 60). In senso analogo è stato detto: «La
necessità del rapporto fra la finitudine dell’ente e la determina- zione
costitutiva del mondo e dell’altro ente è la S. esistenziale dell’ente... Il
costituirsi dell’ente nella S. che lo individua nella sua finitudine è
l’accadere dell’ente, la sua storicità fondamentale» (ABBA- GNANO, Struttura
dell’esistenza, 1939, $ 70). E Sartre ha detto: « Se il per sè [cioè la
coscienza o l’uomo] non è altro che la sua S., ne segue che l’essere in S.
definisce la realtà umana rendendo conto insieme del suo esserci e del suo
essere al di là. La realtà umana è, in effetti, l’essere che è sempre al di là
del suo esserci. E la S. è la totalità organizzata del- l’esserci, interpretato
e vissuto da e per l’essere al di là di questo stesso essere» (L’érre er le
néant, 1943, pag. 634). In un senso psicologico e precisamente nel senso della
psicologia della forma (v. PsicoLOGIA) si è servito del termine Dewey,
identificando la S. con il campo (Logic, 1939, I, cap. IV; trad. ital., pag.
111 sgg.). Dewey stesso però ha insistito sul carattere oggettivo della S.
(/bid., cap. IV, $ 1; trad. ital., 159 sgg.). SIT VERUM. Una delle obbligazioni
(v.) della logica terministica medievale. Essa consiste nel rispondere ad una
proposizione come se si sapesse che essa è falsa; oppure come se si sapesse che
essa è vera; oppure come se si dubitasse di essa (con- fronta OcKHam, Summa
Log., III, m, 44). SLANCIO VITALE (franc. Élan vital). Se- condo Bergson, è la
coscienza in quanto penetra nella materia e l’organizza realizzando in essa il
mondo organico. Lo S. vitale passa « da una gene- razione di germi alla
generazione successiva di germi per l’intermediario degli organismi sviluppati
che formano il tratto di unione tra i germi stessi. Esso si conserva sulle
linee evolutive tra le quali si divide ed è la causa profonda delle variazioni,
almeno di quelle che si trasmettono regolarmente, si ad- dizionano e creano
nuove specie » (Év. créatr., 85 ediz., 1911, pag. 95). La formazione della
società, prima chiusa poi aperta, la religione fabulatrice e la religione
dinamica sono, secondo Bergson, gli ulteriori prodotti dello stesso S. vitale
cioè della SIT VERUM coscienza (Deux sources) (v. DURATA). SOCIALE (ingl.
Social; franc. Social; ted. So- zial). 1. Che appartiene alla società o ha in
vista le sue strutture o condizioni. In questo senso si dice «azione S. », «
movimento S. », « questione S. », ecc. 2. Che concerne la considerazione o lo
studio della società. In questo senso si dice « fisica S. +, *s economia S. »,
« psicologia S. », ecc. In particolare l’espressione scienze S. designa il
complesso delle discipline sociologiche giuridiche ed economiche e talvolta
anche l’etica e la pedagogia. SOCIALISMO (ingl. Socialism; franc. So- cialisme;
ted. Sozialismus). Il termine che si diffuse in Inghilterra (in opposizione a
individualismo) nei primi decenni dell’800, ha due significati prin- cipali: 1°
Uno più vasto per il quale designa in generale ogni dottrina che difenda o
prospetti una riorganiz- zazione della società su basi collettivistiche. In tal
senso si chiama S. quello di Platone come quello di Marx, quello di Owen e
Proudhon come quello di Lenin e Stalin. A questo significato fa riferimento la
distinzione stabilita da Marx o Engels tra S. utopistico che presenta la
società socialistica come un ideale, senza preoccuparsi delle vie o dei modi
della sua realizzazione e il S. scientifico che, senza preoccuparsi di
presentare un ideale qualsiasi prevede l'avvento inevitabile della società
socia- listica in base alle stesse leggi che governano lo sviluppo della
società capitalistica (cfr., su questa distinzione, specialmente: EnGELS, Antidihring,
1878, l’introduzione e il cap. I della III parte). In questo significato il
termine è molto vago e indica qualsiasi aspirazione, ideale, tendenza o
dottrina che comunque prospetti un mutamento in senso collettivistico della
società attuale. 2° Nel significato più ristretto s'intendono per S. gli
indirizzi collettivistici che si distinguono dal comunismo (v.) e si oppongono
ad esso in quanto: a) escludono la necessità di una dittatura del pro-
letariato; 5) escludono che tale dittatura possa essere esercitata, in nome del
proletariato, da un partito politico qualsiasi; c) escludono la diversità
radicale, che si riscontra nei paesi a regime comu- nista tra il tenore di vita
della élite dirigente e quello della maggioranza dei cittadini; d) escludono la
subordinazione della vita culturale alle esigenze del partito cioè alle volontà
dei suoi dirigenti; e) esi- gono il rispetto delle regole del metodo
democratico. La distinzione delle forme storiche che il S. ha assunto interessa
la politica più che la filosofia e pertanto non può trovar posto in questa
sede. SOCIALITÀ (ingl. Sociality; franc. Socialité; ted. Geselligkeit). Lo
stesso che società nel senso 1°. G. H. Mead ha inteso la S. in un senso più
vasto, SOCIETÀ attribuendola all’intero universo. « Il carattere so- ciale
dell’universo consiste nella situazione nella quale il nuovo evento è insieme
nel vecchio ordine e nell’ordine nuovo di cui il suo avvento è l’araldo. La S.
è la capacità di essere diverse cose ad un tempo» (The Philosophy of the Present,
1932, pag. 49). SOCIETÀ (lat. Societas; ingl. Society; franc. So- ciété; ted.
Gesellschaft). Nel senso generale e fonda- mentale: 1° il campo dei rapporti
intersoggettivi cioè dei rapporti umani di comunicazione, e pertanto anche: 2°
la totalità degli individui tra i quali questi rapporti intercedono; 3° un
gruppo di individui tra i quali tali rapporti intercedono in forma co- munque
condizionata o determinata. 1° Il primo significato è, come si è detto, quello
fondamentale ed è stato introdotto nella cultura occidentale dagli scrittori
latini, e special- mente da Cicerone, che l’hanno desunto dallo stoicismo.
Negli scrittori classici della Grecia l'aspetto statuale e l’aspetto sociale
sono fusi e indistinti nel concetto della polis; il cosmopoli- tismo degli
Stoici consente di dissociarli e di consi- derare pertanto la S. come
indipendente dallo stato cioè dall’organizzazione politica. Appunto espo-
«Ciascuno, per quanto dipende da lui, deve promuovere e mante- nere con i suoi
simili uno stato di socievolezza pacifica, conforme in generale all’indole e
alle finalità del genere umano » e spiegava che per so- cievolezza si dovesse
intendere « quella disposizione dell’uomo verso l’uomo per la quale l’uno si
intende vincolato all’altro dalla benevolenza, dalla pace e dalla carità » (De
jure naturae, 1672, II, 3). Una definizione indiretta della S. si può anche
scorgere nei testi che insistono sulla tendenza naturale dell’uomo alla
socialità, per es. in quelli che ricor- rono frequentemente nelle opere di Kant.
« L'uomo ha una inclinazione ad associarsi perchè nello 807 stato di S. si
sente maggiormente uomo, cioè sente di poter meglio sviluppare le sue
disposizioni natu- rali. Ma egli ha anche una forte tendenza a disso- ciarsi
(isolarsi) perchè ha in sè anche la qualità anti-sociale di voler tutto
rivolgere solo al proprio interesse per cui si aspetta resistenza da ogni parte
e sa che deve da parte sua tendere a resistere contro gli altri» (Idee zu einer
allgemeinen Geschichte in weltbirgerlicher
Absicht, 1784, IV; trad. ital., pag. 127; Mer. der Sitten, II, $ 47;
Crit. del Giud., $ 41). Fichte non faceva che esprimere lo stesso concetto
dicendo: « Chiamo S. la relazione reci- proca degli esseri ragionevoli » (Die
Bestimmung des Gelehrten, 1794, II). Da questo punto di vista la considerazione
della S. può consistere: a) Nella considerazione dei fini che il genere umano
nella sua totalità deve perseguire e dei mezzi che la ragione addita per il
raggiungimento di tali fini. Le dottrine politiche degli autori greci, per es.,
di Platone e di Aristotele e le dottrine giusnatura- listiche sono teorie della
S. in questo senso. b) Nella considerazione delle condizioni che, in linea di
fatto, rendono possibili i rapporti umani. Queste condizioni sono state
variamente definite e la loro definizione può dirsi il primo compito della
sociologia (v.). Max Weber le ha riconosciute nell’azione sociale che accade
secondo ordinamenti deliberati e relativamente costanti (Uber einige Kategorien
der verstehenden Soziologie, 1913, V; trad. ital., in // metodo delle scienze
storico-sociali, pag. 262 sgg.). Durkheim ha assunto come caratte- ristiche
della S. umana le maniere d’agire che sono imposte dall’esterno e si
consolidano nelle isti- tuzioni (Régles de la méthode sociologique, 1895, cap.
I). E l’azione stessa o il comportamento viene talora assunto come l’elemento
oggettivo che defi- nisce il campo dei rapporti umani (cfr. TALCOTT Parsons,
The Structure of Social Action, 1949; 2* ediz., 1957). Questo secondo modo
d’intendere la S., riconosce ad essa esplicitamente o implicita- mente il
carattere di un « campo » e la riduce perciò a un costrutto concettuale
togliendole sia il carat- tere di totalità reale sia quello di ideale
normativo. 2° Il concetto della S. come della totalità degli individui tra i
quali intercedono rapporti inter- soggettivi cioè come «mondo sociale» è
abitual- mente connesso con il concetto della S. come orga- nismo o «
super-organismo ». Già gli antichi avevano assimilato a un organismo la
comunità politica cioè lo Stato. Gli Stoici assimilarono all’organismo la S.
intera cioè la comunità degli esseri razionali (cfr. Marco AURELIO, Ricordi,
VII, 13); e tale assi- milazione continua nell’età moderna. Comte chiama la
società un «organismo collettivo» (Cours de phil. positive, IV, pag. 442 sgg.).
Spencer a sua volta chiama super-organica l’evoluzione che conduce 808 alla S.
e considera la S. stessa come un organismo i cui elementi sono prima le
famiglie poi gli individui singoli. L'organismo sociale si distingue, secondo
Spencer, dall’organismo animale, per il fatto che la coscienza appartiene solo
agli elementi che lo compongono in quanto la S. non ha organi di senso come
l’animale ma vive e sente solo negli individui che la compongono (The Study of
Sociology, 1873). Nello stesso senso si esprimeva Wundt (System der
Philosophie, 28 ediz., 1897, pag. 616 sgg.) L’ipotesi organicistica rimane
sullo sfondo di molte dottrine politiche e sociologiche moderne. Una variante
di questa stessa concezione può essere considerata la dottrina di Hegel che
vede nella «S. civile» una fase imperfetta o preparatoria dello Stato cioè
dell’Idea divina che si realizza in terra: « La sostanza che, in quanto
spirito, si parti- colarizza astrattamente in molte persone (la famiglia è una
sola persona), in famiglie o individui, i quali sono per sè in libertà
indipendente e come esseri particolari, perde il suo carattere etico; giacchè
queste persone in quanto tali non hanno nella loro coscienza e per loro scopo
l’unità assoluta ma la loro propria particolarità e il loro essere per sè:
donde nasce il sistema dell’atomistica ». Questo sistema è appunto la S. civile
come « connessione universale e mediatrice di estremi indipendenti e dei loro
interessi particolari » 0 come « stato esterno + (Enc., $ 523; Fil. del Dir., $
184). In questo senso la S. civile comprende, secondo Hegel, in primo luogo, il
sistema dei bisogni; in secondo luogo, l’amministrazione della giustizia e in
terzo luogo la polizia e la corporazione cioè gli organi che hanno la cura degli
interessi particolari (Fil. del Dir., $ 188). Marx stesso mantenne immutato
questo concetto della S. civile, di cui capovolse il rapporto con lo stato e
che pertanto assunse come principio di spiegazione dello Stato stesso e in
generale di tutto il mondo ideologico: « Sono stato dai miei studi condotto
alla conclusione che sia i rapporti giuridici sia le forme dello stato non
potevano essere compresi nè di per se stessi nè per il cosiddetto sviluppo
generale dello spirito umano, ma che sono radicati nei rapporti materiali
dell’esistenza, il cui complesso è abbracciato da Hegel con il nome di S.
civile: l’anatomia di questa S. civile dev'essere cercata nell’economia
politica » (Zur Kritik der poli- tischen Okonomie, 1859, Pref.; trad. ital.,
Cantimori, pag. 10). Un concetto analogo di S. è apparso a Bergson come
l’ideale stesso della S. « aperta » cioè della S. mistica. « Una S. mistica che
conglobi l’uma- nità intera e che marci, animata da una volontà co- mune, verso
la creazione incessantemente rinnovel- lata di un’umanità più completa, di
certo non si realizzerà nell’avvenire più di quanto nel passato siano esistite
S. umane funzionanti in maniera or- SOCINIANESIMO ganica a simiglianza delle S.
animali. L’aspirazione pura è un limite ideale come l’obbligazione nuda » (Deux
sources, I; trad. ital., pag. 87). 3° Nel terzo significato di un insieme di
indi- vidui caratterizzato da un atteggiamento comune o istituzionalizzato la
parola è usata correntemente nel linguaggio comune e nelle discipline sociologiche.
In questo significato la parola designa indifferente- mente sia un gruppo di
individui sia l'istituzione che caratterizza il gruppo, come accade nelle frasi
«S. commerciale », « S. capitalistica », «S. dell’an- golo della strada», ecc.
Quest’uso è così ovvio che di regola non viene neppure definito. Talvolta viene
definito in relazione a cultura, come fanno Kluckhohn e Kelly: « Una ‘S.’ si
riferisce ad un gruppo di gente che ha imparato a operare insieme; una ‘cultura
* si riferisce ai modi di vita che distin- guono questo gruppo di gente » (R.
LINTON, The Science of Man in the World Crisis, 72 ediz., 1952, pag. 79).
SOCINIANESIMO (ingl. Socinianism; fran- cese Socinianisme; ted. Socinianismus).
La dottrina religiosa di Lelio (1525-62) e Fausto (1539-1604) Socini di Siena
che esercitarono la loro influenza soprattutto in Polonia e che comprende
principal- mente i punti seguenti: 1° la negazione del dogma trinitario; 2° la
negazione del peccato originale e della predestinazione; 3° la negazione del
valore delle opere e della necessità della mediazione ecclesiastica; 4°
l’appello diretto alla Bibbia come unico mezzo di salvezza; 5° il ricorso alla
ragione come unico strumento per l’interpretazione auten- tica della Bibbia.
Oltre che in Polonia il S. si dif- fuse in Olanda e in Inghilterra; ma la sua
influenza è stata grandissima su tutta la cultura liberale moderna (cfr. D.
CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, 1939). SOCIOCRAZIA, SOCIOLATRIA
(ingl. So- ciocracy, Sociolatry; francese Sociocratie, Socio- latrie; ted.
Soziokratie, Soziolatrie). Termini creati da A. Comte per designare
rispettivamente il re- gime politico fondato sulla sociologia, che Comte
concepisce come analogo o corrispondente alla teocrazia medievale fondata sulla
teologia (Poli- tique positive, 1851, I, pag. 403); e il culto della società
che Comte riteneva dovesse prendere il posto delle religioni positive
(Caréchisme positi- viste, VI). SOCIOLOGIA (ingl. Sociology; franc. Socio-
logie; ted. Soziologie). È la scienza della società, intendendosi per società
il campo dei rapporti intersoggettivi. Il termine fu creato da A. Comte nel
1838 per indicare «la scienza di osservazione dei fenomeni sociali » (Cours de
phil. positive, IV, 1838) ed è ora usato per designare ogni tipo o specie di analisi
empirica o di teoria che concerna i SOCIOLOGIA fatti sociali cioè gli effettivi
rapporti intersoggettivi, in contrasto con le «filosofie» o « metafisiche »
delia società, che pretendono di illustrare, indipen- dentemente dai fatti e
una volta per sempre, la natura della società come un tutto. Indubbiamente,
osservazioni utili e decisive, nel campo sociale, sono state sempre fatte nella
storia del pensiero occidentale e hanno trovato posto specialmente nell’etica e
nella politica. Tali osservazioni non costituivano tuttavia una disciplina
autonoma, do- tata di una propria metodologia: hanno comin- ciato a costituirla
solo con Comte. Si possono distinguere due concetti fondamentali della S., che
si sono succeduti nel tempo, cioè: 1° la S. sintetica (o sistematica) avente
come oggetto la totalità dei fenomeni sociali da indagarsi nel suo complesso
cioè nelle sue leggi; 2° la S. analitica avente per oggetto gruppi o aspetti
particolari dei fenomeni sociali e da essi procedente a generaliz- zazioni opportune.
In questa seconda fase la S. si rompe in una molteplicità di indirizzi di
ricerca e fa una certa fatica a ritrovare la sua unità concettuale. 1° Ad opera
di Comte, la S. è nata come sistema cioè come determinazione della natura della
società nel suo complesso, mediante la determina- zione delle leggi di essa. La
S. pretende di organiz- zarsi, in questa fase, a somiglianza della fisica
newtoniana: come scienza che delinea, mediante leggi rigorose, un ordine
necessario, nonchè lo svi- luppo, non meno necessario, di quest'ordine. Comte
pertanto chiamava la S. fisica sociale e vedeva la prima parte di essa nello
studio dell’ordine sociale cioè nella statica e la sua seconda parte nello
studio del progresso sociale, cioè nella dinamica (Cours de phil. positive, IV,
pag. 292). Comte inoltre attribuiva alla S. la stessa funzione riconosciuta da
Bacone in o infatti, mentre vuol realizzare la S. come una scienza positiva che
indaga «la realtà speri- mentale mediante l’applicazione dei metodi che hanno
fatto le loro prove in fisica, chimica, astro- nomia, biologia e nelle altre
scienze +, ripudia, dal- l’altro lato, ogni costruzione sistematica troppo
complessa e non esita a definire come metafisiche e dogmatiche le dottrine
sociologiche di Comte e Spencer (Zraztato, $ 5, 112). Il carattere essenziale
della scienza è, secondo Pareto, il carattere «lo- gico-sperimentale » che
implica due elementi: il ra- gionamento logico e l’osservazione del fatto. Lo
scopo della scienza rimane tuttavia quello di for- mulare leggi necessarie che
delineano nel loro in- sieme quello che Pareto chiama l’equilibrio sociale e
che è da lui paragonato talora a un sistema mec- canico di punti, talaltra a un
organismo vivente (Cours d’économie politique, 1896, $ 619). Ma dal- l’altro
lato egli insiste anche sul semplice carattere di « uniformità sperimentale »
della legge e sul fatto che ogni fenomeno concreto è dovuto all’interse-
cazione di un certo numero di leggi differenti (Trattato, $ 99); il che vuol
dire che ogni spiega- zione scientifica è solo approssimativa e parziale
(Ibid., $ 106). E ancora più lontano dall’ideale si- stematico della S. è il
corpo delle analisi che Pareto dà nel 7rattato; analisi che hanno per oggetto
di preferenza quelle che egli chiama le «azioni non logiche », di cui vede gli
elementi nei residui e nelle derivazioni (v.). 2° Il passaggio dalla S.
sintetica a quella ana- litica può ritenersi segnato dall'opera di E. Durk-
heim che abbandona il presupposto fondamentale della S. sistematica: il
presupposto cioè che la società costituisca un tutto o un sistema organico.
Dice Durkheim: «Ciò che esiste, ciò che solo è dato all’osservazione, sono le
società particolari che nascono, si sviluppano, muoiono indipenden- temente
l’una dall’altra» (Régles de la méthode sociologique, 1895; 11® ediz., 1950,
pag. 20). Pa- rallelamente Durkheim ha insistito sul carattere esterno
dell’oggetto proprio della scienza sociale.«I fatti sociali, egli ha detto,
consistono in modi di agire, pensare e sentire, esterni all’individuo e dotati
di un potere di coercizione per il quale gli si impongono * (/bid., pag. 5).
Considerare i fatti sociali in questo modo significa considerarli come cose
cioè indipendentemente dai pregiudizi sogget- tivi e dalle volontà individuali
(/bid., pag. 11 sgg.). Gli stessi motivi trovarono sistemazione nell’opera
metodologica di Max Weber. Questi ha in primo luogo il merito di aver distinto
la S. dalle altre discipline antropologiche e in particolare da quelle
storiografiche. Egli riconobbe l’oggetto della S. nelle uniformità
dell’atteggiamento umano, in quanto dotate di senso cioè in quanto accessibili
alla com- prensione. Più precisamente, l’atteggiamento è quel- l'azione umana
che: 1° è riferita, secondo l’inten- zione di colui che agisce,
all’atteggiamento degli altri; 2° è determinata nel suo corso anche da questo
riferimento; 3° può essere spiegata da questo rife- rimento (Uber einige
Kategorien der verstehenden Soziologie, 1913; trad. ital, in // metodo delle
scienze storico-sociali). La seconda acqui- sizione importante della S. di Max
Weber è la netta separazione, che egli volle stabilire, tra la ricerca empirica
o logica da un lato e le valuta- zioni pratiche o etiche, politiche o
metafisiche dal- l’altro lato (Der Sinn der Werifreiheit der sozio- logischen und
òkonomischen Wissenschaften, 1917; nella citata raccolta, pag. 311 sgg.). Per
quanto, ovviamente, questa separazione sia più facile ad essere affacciata come
esigenza che realizzata nella ricerca, essa vale tuttora come una regola che
im- pegna l’onestà del ricercatore. In terzo luogo, dal- l’opera di Weber
scaturisce l’esigenza della ricerca empirica particolare, la quale soltanto può
deter- minare le uniformità di atteggiamento che costi- tuiscono l’oggetto
proprio della sociologia. Questi tre punti sono rimasti saldi nell’ulteriore
sviluppo della S. contemporanea. Questa ha accolto con entusiasmo l’invito di
Weber alla ricerca empirica particolare e alla formulazione di tecniche di os-
servazione adeguate. La S. dispone oggi di un complesso imponente di tecniche,
che si possono ordinare in quattro gruppi fondamentali: 1° le tecniche
d’osservazione (osservazione diretta, libera o controllata, osservazione
clinica, osservazione par- tecipante, ecc.); 2° le tecniche dell’intervista,
che vanno dall’intervista libera ai questionari; 3° le tecniche di
sperimentazione e le tecniche sociome- triche: le quali ultime tendono a
descrivere le rela- zioni sociali spontanee (considerate come compo- nenti
elementari di tutti i raggruppamenti) mediante la partecipazione attiva degli
stessi soggetti stu- diati (cfr. Moreno, Who Shall Survive?, 1934); 4° le
recniche statistiche, che la S. condivide con molte discipline sociali (cfr.,
per un quadro di SOCIOLOGIA queste tecniche, il Traité de sociologie, diretto
da G. Gurvitch, 1958, pag. 135 sgg.), Un numero ingente di « ricerche sul campo
+ è stato effettuato con l’uso di queste tecniche nelle direzioni più di-
sparate ed è stato in questo modo accumulato, soprattutto negli ultimi
trent'anni, un materiale di osservazione ingente e complesso. Non in tutti i
paesi tuttavia la ricerca sociologica si è sviluppata nelle stesse direzioni.
In Inghilterra essa si è dedicata soprattutto a illustrare il mondo dei
primitivi, le sue istituzioni e i suoi comporta- menti fondamentali (cfr.
specialmente l’opera di G. FRazER, The Golden Bough, 1911-14, 12 voll., e gli
scritti di B. Malinowski e A. R. Radcliff- Browns). In Francia, oltre a
illustrare la mentalità dei primitivi (cfr. specialmente gli scritti di Lévy-
Bruhl a partire dal Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures,
1910), essa ha conservato il carattere teoretico dedicandosi allo studio di
pro- blemi fondamentali, specialmente ad opera di Gur- vitch (La vocation
actuelle de la sociologie, 1950; Déterminismes sociaux et liberté humaine,
1955). In Italia, dopo aver dato con l’opera di Pareto e di altri minori, un
contributo importante alla S. si- stematica, ha taciuto nel periodo tra le due
guerre per l’influenza negativa della cultura idealistica e solo oggi va
riacquistando forza e capacità, aggior- nandosi rapidamente nei metodi e negli
interessi e procedendo a studiare la società italiana. Ma so- prattutto negli
Stati Uniti la ricerca sociologica ha prodotto una mole imponente di lavoro
nelle più disparate direzioni. Si possono qui soltanto indi- care le direzioni
principali in cui la ricerca socio- logica si è incanalata: a) La S. urbana che
si è sviluppata in Ame- rica soprattutto per l’opera di incoraggiamento di R.
E. Park e che ha dato luogo a opere clas- siche come quelle di R. S. e H. Lynp,
Middletown (1929) e Middletown in Transition (1937) (cfr. pure il classico
studio di PARK, The City, 1925, ora in Human Communities, 1952). b) Lo studio
della stratificazione e della mo- bilità sociale: che si è iniziato in America
all’epoca della crisi (1929) e ha conseguito d'allora in poi risultati
importanti (cfr., per un bilancio, G. GaDpDA Conti, Mobilità e stratificazione
sociale, 1959). c) Lo studio dei gruppi etnici che conta un insieme imponente
di opere tra le quali quella classica di Thomas e Znaniecki, The Polish Peasant
in Europe and America (1918-21). d) Lo studio della famiglia che si è soprat-
tutto fermato sull’analisi della disorganizzazione fa- miliare e del disordine
matrimoniale (cfr., ad es. G. V. Hamilton, La Ricerca sul matrimonio, 1929). e)
L’analisi dell’opinione pubblica e degli strumenti di propaganda che ha ormai
una ricchis- sima letteratura (cfr., ad es., R. K. MERTON, Mass Persuasion,
1947). f) Lo studio del piccolo gruppo che ha dato in America i risultati
migliori (cfr. E. SHi1s, Lo stato attuale della S. americana, in «Quaderni di
S.», 1953, n. 7). 2) La S. industriale, col qual termine s’in- tende lo studio
dei rapporti che si sviluppano nei luoghi di lavoro e l’infiuenza reciproca tra
tali rap- porti e l’organizzazione industriale (cfr., per un bilancio, FRANCO
FERRAROTTI, La S. industriale in America e in Europa, 1959). h) La S. della
religione, che è stata fondata da Max Weber (Die protestantische Ethik und der
Geist des Kapitalismus, 1904; Die protestantische Sekten und der Geist des
Kapitalismus, 1906; ecc.) e consiste nell’analisi delle relazioni reciproche
tra i rapporti sociali e i fatti religiosi; ma che non ha trovato negli ultimi
anni sviluppi im- portanti. 1) La S. della conoscenza che abitualmente si
ritiene fondata da Marx il quale per primo ha insistito sulle relazioni
reciproche tra il sapere e le forme sociali e che è stata coltivata
specialmente da Max Scheler (Die Wissensformen und die Gesell- schaft, 1926) e
da Karl Mannheim (Das Problem einer Soziologie des Wissens, 1926). Come già è
stato detto la mole di lavoro effet- tuato in molte di queste branche della
ricerca so- ciologica è ingente; ma a tale mole non corrisponde l’adeguata
utilizzazione concettuale di essa. « Il di- fetto maggiore della S. americana,
ha detto Shils è l'inverso della sua principale particolare virtù: lsua
indifferenza, finora predominante, verso la for- mazione di una teoria generale
è strettamente connessa con la sua avidità di precisione nell’os- servazione
immediata» (Lo stato attuale della S. americana, in «Quaderni di S.», 1953, n.
8). Questa condizione non è propria soltanto della S. americana ma si
ripresenta in tutti i paesi nei quali la ricerca sociologica raggiunge un certo
grado di sviluppo. Essa fa nascere talora una no- stalgia per la vecchia forma
sistematica della S. anche in coloro che più hanno insistito sull’impor- tanza
delle tecniche oggettive (cfr. PITIRIM SOROKIN, Fads and Foibles in Modern
Sociology and Related Sciences, 1956). Non mancano tuttavia nella let- teratura
sociologica moderna tentativi importanti e ben riusciti di stabilire la teoria
sistematica del- l'oggetto proprio della S. cioè dell’azione sociale (cfr., ad
es., T. PaRSONS, The Structure of Social Action, 1937; 23 ediz., 1949) o di
consolidare il rapporto tra la teoria sociale e la ricerca sociale (cfr., ad
es., R. K. MERTON, Social! Theory and Social Structure, 1949; 2* ediz., 1957) o
anche quelli di realizzare la S. come una « tipologia quan-titativa e
discontinuista », altamente teoretica, qual è quella di G. Gurvitch (Traité de
sociologie, 1959, pag. 155 sgg.). Pertanto, ciò che si può prevedere, dato lo
stato attuale di questa disciplina, è il mol- tiplicarsi e il rafforzarsi dei
tentativi di concettua- lizzazione teoretica del materiale reso disponibile
dalle ricerche particolari, pur senza un ritorno alla forma sistematica che la
S. aveva assunto nella sua prima fase dogmatica. SOCIOLOGISMO (ingl.
Sociologism; francese Sociologisme; ted. Soziologismus). Termine pole- mico per
designare la tendenza a ridurre i fenomeni morali o religiosi a fatti sociali
(cfr. BOUTROUX, Science et religion, pag. 342). SOCIOMETRIA. V. SocioLogia;
TECNICHE DI RICERCA. SOCRATISMO (ingl. Socratism; franc. So- cratisme; ted.
Sokratismus). La dottrina di Socrate, quale è rimasta fissata nella tradizione
antica e che si può riassumere nei seguenti capisaldi: 1° il valore della
ricerca filosofica per cui una vita senza ricerca non è degna d’esser vissuta;
2° la limitazione della ricerca all’uomo e il disinteresse per ogni indagine
della natura; 3° l’identificazione di scienza e virtù nel senso che la virtù si
può insegnare ed apprendere e che non si può fare il bene senza conoscerlo; 4°
l’importanza attribuita all’insegna- mento, con la pretesa di non insegnare
nulla e di limitarsi a favorire il parto intellettuale degli ascoltatori; 5° il
metodo dell’interrogazione e l’ironia (v.). SOFISMA (ingl. Sophism; franc.
Sophisme; ted. Sophisma). 1. Lo stesso che fallacia (v.). 2. Un ragionamento
cavilloso o che porta a conclusioni paradossali o sgradite. In questo senso il
termine ha un uso assai vasto e possono essere chiamati S. anche i paradossi
(v.) e gli argomenti duplici. SOFISTICA (ingl. Sophistics; franc. Sophi-
stique; ted. Sophistik). 1. Aristotele chiamò S. «la sapienza apparente ma non
reale» (E/. Sof., 1, 165a 21); ed il nome è rimasto per indicare in generale
l’abilità di addurre argomenti cavillosi o speciosi. 2. In senso storico, la S.
è l’indirizzo filosofico proprio dei cosiddetti Sofisti cioè di quei maestri di
retorica o di cultura generale che nella Grecia tra il v ed il rv secolo ebbero
una notevole influenza nel clima intellettuale del tempo. La S. non è una
scuola filosofica ma un indirizzo generico che i Sofisti condivisero per le esigenze
della loro stessa professione. Si possono riassumere nel modo se- guente i
capisaldi di questo indirizzo: 1° la concentrazione dell’interesse filosofico
sul- l’uomo e sui suoi problemi, che i Sofisti condivi- sero con Socrate2° la
riduzione della conoscenza all’opinione e del bene all’utilità col conseguente
riconoscimento della relatività del vero e dei valori morali, che muterebbero a
seconda dei luoghi e dei tempi; 3° l’eristica cioè l’abilità di confutare o di
sostenere contemporaneamente tesi contraddittorie; 4° la contrapposizione tra
la natura e la legge e il riconoscimento che la natura non conosce che il
diritto del più forte. a in un modo d’essere rappresentativo (in esse objec-
tivo) che corrisponde a ciò che la cosa esterna è nella sua esistenza
sostanziale » (/rr Senr., I, d.2, q. 8, E; cfr. Duns Scoro, De An., 17, 14).
Questo significato si mantiene per tutto il Medio Evo. 2. Il significato di S.
come appartenente all’io o al soggetto dell’uomo si trova per la prima volta in
alcuni scrittori tedeschi del sec. xvni (sui quali cfr. CassireR,
Erkenntnisproblem, 1908, libro VII). Già Baumgarten parlava della «fede
considerata soggettivamente » di fronte alla «fede considerata oggettivamente »
che è l’insieme delle credenze (Mer., 1739, $ 993). E qualche decennio più
tardi si discuteva se la bellezza o la verità fossero S. od oggettive
intendendosi per oggettiva « una proprietà degli oggetti » e per S. «una
rappresentazione del rapporto delle cose con noi, cioè una relazione con colui
che le pensa» (J. C. Lossius, Physische Ursachen des Wahren, 1775, pag. 65). La
stessa distinzione si trova nel Tetens (Philosophische Versuche, 1776, I, pag.
344, 560, ecc.). Da quest’uso dell’aggettivo, Kant desumeva il nuovo
significato attribuito al sostantivo soggetto. SOGGETTO (gr. sroxeluevov; lat.
Subjectum, Suppositum; ingl. Subject; franc. Sujet; tedesco Subjekt). Il
termine ha avuto due significati fonda- mentali: 1° ciò di cui si parla o a cui
si attribuiscono qualità o determinazioni o a cui qualità o determi- nazioni
sono inerenti; 2° l’io o lo spirito o la co- scienza come principio
determinante del mondo della conoscenza o dell’azione o almeno come capacità
d’iniziativa in tale mondo. Entrambi questi significati rimangono nell’uso
corrente del termine. Il primo nella terminologia grammaticale e nel concetto
di S. come tema o argomento di discorso. Il secondo nel concetto di S. come
capacità auto- noma di rapporti o di iniziative, capacità che viene
contrapposta all’esser semplice «oggetto » o parte passiva di tali rapporti. 1°
Il primo significato è quello della tradizione filosofica antica. Esso ricorre
in Platone (Prot., 349 b) ed è illustrato da Aristotele come uno dei modi della
sostanza. « Il S., dice Aristotele è ciò di cui si può dire ogni cosa ma che a
sua volta non può essere detto di nulla » (Mer., VII, 3, 1028 b 36). In questo
senso il S. può essere inteso: 4) come la materia di cui una cosa è composta,
per es., il bronzo; 5) come la forma della cosa stessa, per es., il disegno di
una statua; c) come l’unione di materia e forma, per es., la statua (/bid.,
1029 a 1). Questedeterminazioni sono strettamente proprie della metafisica
aristotelica. Ma il senso generale del termine è quello che conta: S. è
l’oggetto reale a cui ineriscono o a cui si riferiscono le determina- zioni
predicabili (la qualità, la quantità, ecc.). Questo è pure il concetto che del
S. ebbero gli Stoici: essi lo considerarono come l'oggetto esterno a cui il
significato viene riferito cioè come la denota- zione del significato (Sesto
EMP., Adv. Math., VIII, 12; cfr. SigNIFICATO). Nello stesso senso usarono il
termine gli Epicurei (EPICUR., Epistola, I, pag. 12, 24, Uesener). A questa
tradizione si riconnette l’uso grammaticale del termine che cominciò nel n
secolo d. C.; Apuleio già chiamava subjectiva o subdita la parte del discorso
che gli antichi chia- mavano nome e declarativa la parte che gli antichi
chiamavano verbo (De Dogmate Platonis, III, pag. 30, 30; cfr. Marziano CAPELLA,
De Nuptiis, IV, 393). Questo significato di « S. » rimane immutato attra- verso
una lunga tradizione. Gli scrittori medievali seguono le determinazioni
aristoteliche: chiamano subjectum o suppositum la sostanza in quanto ad essa
ineriscono le qualità o le altre determinazioni (cfr. S. TomMaso, S. Th., I, q.
29, a. 2; Duns Scoro, Op. Ox., II, d.3, q.6, n.8; OcKHAM, In Sent., I, d. 2, q.
8, E). Il significato del termine non cambia quando per S. viene intesa l’anima
come sostanza alla quale ineriscono determinati caratteri o dalla quale emanano
attività determinate. Dice Hobbes: « Il S. della sensazione è lo stesso
senziente, cioè l’animale » (De Corp., 25, 3). Locke chiama il S. in questo
senso substratum o sostegno (Saggio, II, 23, 1-2). E in questo senso si avvale
del termine Hume: «Qui appare Spinoza e mi dice che vi sono solo le
modificazioni e che il S. al quale esse ineriscono è semplice, incomposto e
indivisibile » (Treatise, I, IV, 5, ed. Selby-Bigge, pag. 242). Dall'altro lato
lo stesso significato si mantiene anche nel raziona- lismo tedesco. Leibniz
intende conservare il signi- ficato tradizionale di S. (Nouv. Ess., Il, 23, 2);
e quando parla di disposizioni «che vengono 4a subjecto o dall’anima stessa »
intende disposizioni che vengono dalla sostanza stessa dell'anima (Re- marques
sur le livre de L'origine du Mal, in Op., ed. Erdmann, pag. 645). Wolff a sua
volta definisce il S. come « l’ente in quanto considerato dotato di essenza e
capace di altre cose oltre di essa » (Onr., $ 711). Baumgarten nello stesso
senso dice che S. è l’ente, determinato nella materia da cui è costituito
(Mer., $ 344). Lo stesso Kant fa d’altronde ricorso a questa nozione
tradizionale del soggetto. « Già da tempo, egli dice, è stato osservato che in
tutte le sostanze, il vero e proprio S., ciò che rimane tolti gli accidenti
(come predicati) quindi il vero elemento sostanziale, ci è ignoto» (Prol., $
46).2° Il secondo significato del termine come io o coscienza o capacità
d’iniziativa in generale, si è iniziato solo con Kant che certamente ha tenuto
presente il significato che l’opposizione tra sogget- tivo e oggettivo aveva
assunto in taluni scrittori tedeschi a lui contemporanei (v. SOGGETTIVO). Il S.
è per Kant l’io penso, la coscienza o autoco- scienza che determina e
condiziona ogni attività conoscitiva: «In tutti i giudizi io sono sempre il S.
determinante di quella relazione che costituisce il giudizio ». « Per l’io o
egli o quello (la cosa) che pensa, non ci rappresentiamo altro che un S. tra-
scendentale dei pensieri, = x che non è conosciuto se non mediante i pensieri
che sono suoi predicati e di cui, a parte da questi, non possiamo avere il
minimo concetto » (Crif. R. Pura, Dial. trascenden- tale, II, cap. I). In
queste parole di Kant si può cogliere il passaggio dal vecchio al nuovo
signifi- cato di soggetto. L’io è S. in quanto ad esso ineri- scono i pensieri
come suoi predicati: questo è ancora il significato tradizionale del termine.
Ma l’io è S. in quanto determina l’unione del S. e del predicato nei giudizi
cioè in quanto è attività sin- tetica o giudicante, spontaneità conoscitiva,
perciò coscienza 0 auto-coscienza o appercezione; e questo è il nuovo
significato di soggetto. A questo secondo significato esclusivamente si
appiglia la tradizione post-kantiana. Secondo Fichte, il S. è l'Io, che è «S.
assoluto », non rappresentato nè rappresentabile », che « non ha nulla in
comune con gli esseri della natura» (Wissenschafislehre). La differenza tra la
Sostanza di Spi- noza e l’Io assoluto, consiste secondo Fichte appunto nel
fatto che Spinoza non ha concepito la sostanza come S. (/bid.; trad. ital.,
pag. 78 sgg.). Schelling parla nello stesso senso della identità o unità del S.
e dell’oggetto nell’Autocoscienza assoluta (System des transzendentalen
Idealismus, 1800, I, cap. II; trad. ital., pag. 34). Hegel a sua volta diceva:
« Tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il Vero non solo come Sostanza
ma altrettanto decisamente come Soggetto... La sostanza viva è l’essere il
quale è in verità S. o, ciò che è lo stesso, è l’essere che in verità è
effettuale, ma solo in quanto la sostanza è il movimento dell’autoporsi o in
quanto è la mediazione del divenire altro da sè con se stessa » (Phanom. des
Geistes, Pref. II, 1). Nello stesso senso Hegel afferma che l’Idea assoluta è
unità di S. e oggetto (ZEnc., $ 214). Ed aggiunge: «L'unità del- l’idea è
soggettività, pensiero, infinità, e perciò da distinguere essenzialmente
dall’idea come sostanza; allo stesso modo che questa soggettività soverchiante,
questo pensiero, questa infinità è da distinguere dalla soggettività unilaterale
dal pensiero unila- terale, dall’infinità unilaterale, alla quale essa, col
giudicare e col definire, si abbassa » (Enc., $ 215). 814 La soggettività come
«soggettività infinita» cioè non intellettuale prevale dunque sull’oggettività
in quella « unità di S. e oggetto » che è l’Idea o l’Asso- luto. Ma Hegel vede
anche nel S. come tale la capacità d’iniziativa o il principio dell'attività in
generale. «Il S. è l’attività della soddisfazione degli impulsi, della
razionalità formale; vale a dire, è l’attività che traduce la soggettività del
contenuto, che sotto tal riguardo è scopo, nell’oggettività in cui il S. si
congiunge con se stesso + (Enc., $ 475). Schopenhauer insisteva, come Fichte,
sulla irrap- empre correlativi l’uno all’altro e per questo inseparabili»
riduce la funzione del S. a quella di «farsi immagine, rappresentazione o
conoscenza dell’oggetto + esclu- dendo che esso entri comunque a modificare la
natura di questo (Systematische Philosophie, 1931, $ 10). Infine, anche quando
non si esclude la funzione del S., tale funzione non viene riconosciuta come
incondizionata o creativa ma sottoposta a limiti e condizioni, e in ogni caso
si nega che il S. stesso possa valere come una sostanza o una forza auto- noma.
Dice Husserl: «L’ego si costituisce per se stesso nell’unità di una storia. Se
si può dire che nella costituzione dell’ego sono contenute tutte le costi-
tuzioni di tutti gli oggetti che esistono per lui, immanenti e trascendenti,
reali e ideali, bisogna aggiungere che il sistema delle costituzioni, in virtù
delle quali tali oggetti esistono per l’ego non sono possibili che nel quadro
di leggi genetiche » (Cart. Med., 1931, $ 37). Da questo punto di vista il S. è
una funzione, non una sostanza o una forza creatrice. Heidegger ha detto: «Se
per l’ente che noi stessi siamo e che definiamo esserci si sceglie il termine
di S., possiamo dire: la trascendenza implica l’essenza del S., essa è la
struttura fonda- mentale della soggettività. Non è che il S. esista dapprima
come S. e poi, qualora si rivelino come presenti alcuni oggetti, esso li possa
anche trascen- dere. Esser S. significa invece essere esistente nella
trascendenza e in quanto trascendenza +» (Vom Wesen dell’im- maginazione nel
sonno. Questa è la definizione del S. che fu data già da Platone (Tim., 45 e) e
da SOLILOQUIO Aristotele (De Somniis, 1, 459a 15) ed è anche quella della
psicologia moderna: nella quale, na- turalmente, dà luogo ad una serie di
problemi che esulano completamente dal campo della filosofia (cfr., su di essi,
E. SERvADIO, 7/ S., 1955). Freud e gli psicanalisti hanno dato una
interpretazione funzionalistica del S.: hanno cercato di determinare la
funzione che il S. esercita nella vita dell’uomo. Secondo Freud il S. «è un
mezzo per sopprimere le eccitazioni (psichiche) che vengono a turbare il sonno,
soppressione che si effettua con l’aiuto di soddisfazioni allucinatorie »
(/ntr. d la psychanalyse, 1932, pag. 151). I desideri che nel S. trovano una
realizzazione simbolica sono, il più delle volte, de- sideri proibiti, inibiti
dalla censura e che perciò subiscono attraverso il S. una elaborazione radicale
che è compito dello psicologo interpretare (/bid., pag. 189, 234). Questa
teoria di Freud è stata a lungo discussa e non pare che si adatti a spiegare
tutte le specie di S. o tutti gli aspetti del S.; essa è la sola tuttavia che
si è proposta il problema della funzionalità del S., cioè del compito cui esso
adempie nell'economia della vita psichica. I filosofi si sono talvolta
soffermati sul S. per mostrare l’incertezza della discriminazione tra il S. e
la veglia, avvalendosene come un elemento di dubbio teoretico. Diceva Platone:
« Nulla vieta di credere che i discorsi che ora facciamo siano tenuti in sogno;
e quando in S. crediamo di raccontare un S., la somiglianza delle sensazioni
nel S. e nella veglia è addirittura meravigliosa » (Teert., 158 c). D'altronde
«Il tempo in cui dormiamo è uguale a quello in cui siamo desti e nell’uno e
nell’altro la nostra anima afferma che solo le opinioni che ha in quel momento
presente sono vere; sicchè per un eguale spazio di tempo noi diciamo che sono
vere ora le une ora le altre e le une e le altre so- steniamo con lo stesso
vigore » (/bid., 158 d). Nel sec. XVII e XVIII questo tema fu ripetuto frequen-
temente da poeti e filosofi. Shakespeare diceva: « Noi siamo della stessa
sostanza di cui son fatti i S. e la nostra breve vita è racchiusa in un sonno »
(Tempest, atto IV, scena I). Calderòn de la Barca aveva utilizzato lo stesso
tema ne La vita è un S. (1635): « Sono dunque le glorie così simili ai S. che
quelle vere son tenute per false e quelle finte per certe? C'è così poco dalle
une alle altre che si fa questione di sapere se quel che si vede o si gode sia
un S. o verità?» (atto III, scena X). Cartesio utilizzava lo stesso tema come
elemento di dubbio: 4 Ciò che accade neì sogno non sembra così chiaro e così
distinto come ciò che accade nella veglia. Ma pensandoci sopra mi ricordo
d'essere stato spesso ingannato, quando dormivo, da semplici il- lusioni. E
fermandomi su questo pensiero, vedo chiaramente che non ci sono indici
concludenti nè contrassegni abbastanza certi per poter distinguere nettamente
la veglia dal sogno al punto che ne sono stupito e il mio stupore è tale che è
quasi capace di persuadermi che sto dormendo » (Méd., I; cfr. Princ. Phil., I,
4). La dottrina di Leibniz se- condo la quale la vita della monade, cioè della
sostanza spirituale, è «un S. ben regolato» è un’altra manifestazione dello
stesso tema. Dice Leibniz: « Non è impossibile, metafisicamente par- lando, che
ci sia un S. continuo e duraturo come la vita di un uomo... Ma posto che i
fenomeni siano legati non importa che li si chiamino S. o no poichè
l’esperienza mostra che non ci si inganna nella misura in cui si apprendono i
fenomeni, quando essi sono appresi secondo le verità di ragione » (Nouv. Ess.,
IV, 2, 14). Diceva Voltaire: « Se gli organi da soli producono i S. della notte
perchè non potrebbero produrre da soli le idee del giorno? Se l’anima sola,
tranquilla nel riposo dei sensi e operante da sè è l’unica causa, il soggetto
unico di tutte le idee che abbiamo dormendo, perchè tutte queste idee sono
quasi sempre irregolari, ir- razionali, incoerenti? » (Dictionnaire
philosophique, 1764, art. Songes). Schopenhauer è forse l’ultimo a presentare
questo tema nella sua forma classica: «La vita e i S. sono pagine di uno stesso
libro. La lettura continuata si chiama vita reale. Ma quando l’ora abituale
della lettura (il giorno) viene a finire e giunge il tempo del riposo allora
spesso seguitiamo ancora, fiaccamente senza ordine e con- nessione, a sfogliare
qua e là qualche pagina: spesso è una pagina già letta, spesso un’altra an-
cora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro » (Die Welt, I, $ 5). SOLECISMO
(ingl. Solecism; franc. Solécisme; ted. Solecismus). In Aristotele (Soph. El.,
passim) e poi nella Logica di origine aristotelica designa uno degli scopi
della dialettica sofistica, ossia il tentativo di indurre l’interlocutore ad
accettare un enunciato contenente un'impossibilità grammati- cale, come homines
currit. Il termine è rimasto ad indicare in genere uno sproposito di morfologia
o sintassi grammaticale. G. P. SOLIDARIETÀ (ingl. Solidarity; franc. Soli-
darité; ted. Solidaritàt). Termine di origine giuri- dica che nel linguaggio
corrente comune e filosofico significa: 1° connessione reciproca o interdipen-
denza: per esempio, «S. dei fenomeni»; 2° assi- stenza reciproca fra i membri
di uno stesso gruppo: (per es., S. familiare, S. umana, ecc.). In questo senso
si parla di solidarismo per indicare la dot- trina morale e giuridica che
assume come sua idea fondamentale la S. (cfr. L. BourGEOIS, La soli darité,
1897). SOLILOQUIO (lat. Soliloguium). Il colloquio dell’anima con se stessa.
Soliloquia S. Agostino intitolò uno dei suoi primi scritti nel quale di-
chiarava di voler conoscere soltanto Dio e l’anima e null’altro (So/., I, 2).
S. Anselmo chiamò Mono- logion il suo colloquio interiore intorno all’essenza
di Dio. SOLIPSISMO (ingl. Solipsism; franc. Solip- sisme; ted. Solipsismus). La
tesi che esisto solo io e che tutti gli altri enti (uomini e cose) sono sol-
tanto mie idee. Il termine più antico per indicare questa tesi è egoismo (cfr.
WoLFF, Psychol. ratio- nalis, $ 38; BAUMGARTEN, Met., $ 392; GALLUPPI, Saggio
filosofico sulla critica della conoscenza, IV, 3, 24; ecc.) o egoismo
metafisico (KANT, Antr., I, $ 2) o egoismo teorico (SCHOPENHAUER, Die Welt, I,
$ 19). Kant adoperò il termine S. per indicare la totalità delle inclinazioni,
che, quando sono soddisfatte, producono la felicità (Cri. R. Prat., I, libro I,
cap. III; trad. ital., pag. 85): e questo termine fu adoperato a indicare
l’egoismo metafisico da alcuni scrittori tedeschi della seconda metà del- 1°800
(cfr. SCHUBERT-SOLDERN, Grundlagen zu einer Erkenntnistheorie, 1884, pag. 83
sgg.; W. SCHUPPE, Der Solipsismus, 1898; H. DrIescH, Ordnungslehre, 1912, pag.
23 sgg.; ecc.). Come già notava Wolff, il S. è una specie di idealismo che
riduce ad idee non solo le cose ma anche gli spiriti (Psychol. rat., fra gli
elementi del linguaggio stesso e gli elementi della realtà, e la riduzione di
questi ultimi a fatti di esperienza immediata che perciò sono soltanto miei.
Dove tali fatti mancano, manca il significato (cioè l’og- getto) della parola
ed io non la capisco: perciò Wittgenstein dice che i limiti del mio linguaggio
sono i limiti del mondo. Lo stesso presupposto conduce Carnap a parlare di S.
metodico. Molto giustamente Carnap parla di S. a proposito della scelta degli
elementi fondamentali (Grundelemente): poichè per tali elementi, che sono
quelli in base ai quali si può ricostruire logicamente il mondo, Carnap sceglie
(come Wittgenstein) i fatti immediati di esperienza o come egli dice «la base
psichica propria », il suo procedimento è solipsistico (Der logische Aufbau der
Welt). J. R. Weinberg già osservava come nel positivismo logico il S. lin-
guistico è inevitabile; e che, poichè occorre supe- rarlo per raggiungere
l’oggettività scientifica, «o si devono alterare alcuni postulati del sistema
per eliminare dal positivismo le idee metafisiche o, se questo metodo fallisce,
si dovrà abbandonare l’in- tero sistema del positivismo logico » (An Exami-
nation of Logical Positivism, cap. VII; trad. ital., pag. 235 sgg.). In realtà
il presupposto del positi- vismo da cui nasce il S. è il riflesso nella teoria
del linguaggio della tesi idealistica: gli elementi del linguaggio sono segni
di esperienze immediate, perchè le esperienze immediate sono la sola realtà (v.
ESPERIENZA; LINGUAGGIO). SOLITUDINE (ingl. Solitude; franc. Solitude; ted.
Einsamkeit). L’isolamento dagli altri o la ricerca di una migliore
comunicazione. Nel primo senso la S. è la situazione del sapiente che, nella
sua figura tradizionale, è perfettamente autarchico e perciò isolato nella sua
perfezione (v. SaGGIO). Fuori da questo ideale, l’isolamento è un fatto patolo-
gico: è l'impossibilità della comunicazione connessa a tutte le forme della
pazzia. In senso proprio, tut- tavia, la S. non è isolamento ma piuttosto la
ricerca di forme diverse e superiori di comunicazione: «Essa non prescinde dai
legami offerti dall’am- biente e dalla vita quotidiana se non in vista di altri
legami con uomini del passato e dell’avvenire, con i quali sia possibile una
forma nuova o più feconda di comunicazione. Il suo prescindere da quei legami è
perciò il tentativo di rendersi liberi da essi per rendersi disponibili per
altri rapporti sociali» (ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, XI, $ 8).
SOMATICO (ingl. Somatic; franc. Somatique; ted. Somatisch). Corporeo (v.
CORPO)SOMATOLOGIA (ingl. Somatology; francese Somatologie; ted. Somatologie).
La {parte dell’an- tropologia che considera gli aspetti fisici dell’uomo (v.
ANTROPOLOGIA). SOMMA LOGICA (ingl. Logical Sum; fran- cese Somme logique; ted.
Logische Summe). È la figura (a + 5) risultante da un’addizione /o- gica (v.).
G.P. SOMMO BENE. V. BENE sommo. SONNO E VEGLIA. V. Sogno. SOPRACOSTRUZIONE. V.
Sopra- STRUTTURA. - suna conoscenza è possibile (noumenorum non datur
scientia)» (Fortschrifte der Metaphysik, 1804, [A 55)). Il S. è pertanto il
dominio delle idee della Ragion pura, con tutto ciò che esse implicano per la
vita morale dell’uomo. Hegel a sua volta adoperò il termine in senso analogo,
ma positivo per indicare 52 — ARBAGNANO, Dizionario di flosofia. 817 ciò che
l’apparenza sensibile è nella sua natura razionale: « Il S. è il sensibile e il
percepito posti come in verità essi sono» perciò come 4 l’univer- sale
semplice, l’universale in cui la molteplicità non sussiste, in cui non c’è
niente da conoscere »: in breve l’universale come lo ha inteso Schelling
(Phinom. des Geistes, I, IV, B; trad. ital., pag. 127 e nota). SOPRASTRUTTURA
(ingl. Superstructure; franc. Superstructure; ted. Uberbau). Termine ado-
perato dai Marxisti per designare l’ordinamento politico e giuridico nonchè le
ideologie politiche religiose, filosofiche, ecc., in quanto dipendono dalla
struttura economica di una data fase della società. Dice Marx: «L'insieme dei
rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società ossia
la base reale sulla quale si eleva una S. giuridica e politica e alla quale
corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione
della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e
spirituale della vita» (Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.) (v.
MATERIALISMO STORICO). Il termine è stato anche adoperato da N. Hart- mann per
indicare uno strato o piano dell’essere nel quale si conservino solo alcune
delle categorie del piano inferiore; e si distinguerebbe dalla sopra-
formazione (Uberformung) perchè in questa si conserverebbero fufte le categorie
del piano infe- riore. Ad es., il piano psichico sarebbe, nei con- fronti del
piano organico, una S. perchè in esso è abbandonata la categoria dello spazio
che domina ancora l’essere organico. La differenza tra S. e sopraformazione
taglierebbe così la strada alla concezione meccanica della vita psichica
(Aufbau der realen Welt, 1940). Talora, per la traduzione del termine di
Hartmann si è usato in italiano sopracostruzione (cfr. BARONE, Nicolai Hartmann,
pag. 342). SOPRAVVIVENZA. V. IMMORTALITÀ. SORITE (lat. Acervus; ingl. Sorites;
franc. Sorite; ted. Sorites). 1. L'argomento di Eubulide contro la molteplicità
(v. ACERVO, ARGOMENTO DELL’). a. Un sillogismo composto o polisillogismo (v.)
nel quale la conclusione del sillogismo precedente si assume come la premessa
del sillogismo susse- guente, finchè si giunga nell’ultima a connettere
l’antecedente del primo sillogismo e la conseguenza dell’ultimo (cfr. ARNAULD,
Log., III, I; JunGIUS, Logica Hamburgensis, III, 28; WOLFF, Log., $ 474;
HAMILTON, Lectures on Logic, pag. 366; ecc.). L'espressione soriticus
syllogismus fu usata forse per la prima volta da Mario Vittorino (Iv secolo)
(cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, I, pag. 663). Ma fu diffusa da Lorenzo Valla
(Dialecticae dispu- tationes, III, 12)SOSPIRO (ted. Sehnsucht). Aspirazione che
si @) ciò che è necessariamente quello che è; 5) ciò che esiste ne-
cessariamente. Entrambe queste determinazioni si trovano illustrate nella
metafisica aristotelica, della quale il concetto di S. costituisce il cardine.
La prima determinazione è quella che Aristotele de- signa con l’espressione tè
tl 7v elvar (quod quid erat esse) e che si può tradurre come essenza
necessaria; l’espressione significa infatti alla lettera ciò che l’essere era
dove l’imperfetto «era » indica la continuità o stabilità dell’essere stesso,
il suo essere già da sempre e per sempre. L'essenza ne- cessaria è quella che è
espressa dalla definizione (v.) ed è l’oggetto proprio della conoscenza
scientifica (v. ScIENZA). A questa prima determinazione, si connette la
seconda, per la quale è S. ciò che neces- sariamente esiste. Dice Aristotele: «
Abbiamo scienza delle cose particolari solo quando conosciamo l’es- senza
necessaria di esse ed accade per tutte le cose ciò che accade per il bene: se
ciò che è per essenza bene non è bene, allora neppure ciò che per essenza
esiste non esiste e ciò che per essenza è uno non è uno; e così per tutte le
altre cose» (Mer., VII, 6, 1031 b 6). Aristotele adduce questo argomento contro
la separazione platonica dell’idea dalle cose; ma l’argomento ovviamente
significa che ogni cosa è quella che è in virtù dell’essenza necessaria (che è
la sua causa intrinseca o estrinseca) e che pertanto tutto ciò che nelle cose
c'è di reale e di conoscibile fa parte dell’essenza necessaria e
necessariamente esiste. La S. costituisce così per Aristotele la strut- tura
necessaria dell’essere nella sua concatena- zione causale perchè tutte le
specie di cause sono determinazioni della S. (v. CausaLITÀ). In questo senso
appunto Aristotele afferma che la forma delle cose è eterna e non può essere nè
prodotta nè distrutta (Mer., VII, 8; VIII, 3); la forma è infatti l’essenza
necessaria delle cose composte. Dall'altro lato Aristotele non è troppo preoccupato
di enume- rare tutti i modi d’essere della sostanza. Egli co- mincia con il
dire che comunemente si parla di S. in quattro sensi, se non di più, e cioè
come essenza necessaria, come universale, come specie e come soggetto (Mer.,
VII, 3, 1028 a 32). Ma la S. come universale o come specie è esclusa dalla
critica al platonismo; oppure, il che vale lo stesso, è chia- mata da
Aristotele sostanza seconda nei confronti della S. prima che è quella autentica
(Car., 5, 2a 13). Rimangono perciò solo la S. come essenza necessaria e la S.
come soggetto (v.). In quest’ultimo significato la S. può essere o la forma o
la materia o il loro composto (/bid., 1029 a 2). Nei suoi due significati
legittimi la S. esprime il significato fon- damentale del concetto dell’essere
e pertanto costi- tuisce l'oggetto proprio della metafisica. « Ciò che da tempo
e anche ora e sempre abbiamo cercato, ciò che sempre sarà un problema per noi:
che cosa è l’essere? significa questo: che cosa è la S.?» (Met., VII, 1, 1028 b
2). Dall’altro lato la struttura sostanziale dell’essere è il fondamento del
sapere scientifico. L'essenza necessaria delle cose che non hanno una causa
fuori di sè è intuita direttamente dall’intelletto e costituisce i primi
principi che sono a fondamento della dimostrazione; mentre l’essenza necessaria
delle cose che hanno una causa fuori di sè può essere rivelata, se non
dimostrata, dalla stessa dimostrazione. In ogni caso la necessità della
dimostrazione è la stessa necessità della S. (An. Post., II, 9, 43 b 21; cfr. tutta
la discussione precedente). La storia ulteriore del concetto di S. ripete il
carattere che era già servito ad Aristotele per defi- nirlo, quello della
necessità. Tale carattere viene esplicitamente assunto da Plotino per la
definizione del termine (Enn., VI, 3, 4). Ma su di esso insiste specialmente la
scolastica araba e in particolare Avicenna: « Diciamo che tutto ciò che è ha
una S. (essentia) per la quale è ciò che è e per la quale è la necessità di
esso e il suo essere (Logica, I). E S. Tommaso che, con le equivalenze
linguistiche stabilite nel De ente et essentia aveva chiuso un lungo periodo di
confusioni terminologiche (v. Es- SENZA), riduce la S. (rettamente
interpretando i testi di Aristotele) alla quiddità (l'essenza necessaria) e al
soggetto (S. Th., I, q. 29, a. 2). Cartesio non faceva che esprimere lo stesso
carattere di necessità affermando che «quando concepiamo la S. conce- piamo
solo una cosa che esiste in tal maniera che non ha bisogno per esistere d’altro
che di se stessa » (Princ. Phil., I, 51). Giustamente Spinoza osser- vava che
questa è la stessa definizione della S. infinita (R. Cartesi Principia
Philosophiae, 1663)favore di quella di una semplice coesistenza di fatto delle
determinazioni percepite. Il concetto della S. subisce così, in Locke, una tra-
sformazione analoga a quella che il concetto di causa subirà nelle mani di
Hume: si trasforma da necessità razionale in uniformità fattuale. Da necessità
razionale per la quale le determinaziondi un ente sarebbero tutte razionalmente
connesse l'una con l’altra e derivabili da quella fondamentale costitutiva
dell’essernza dell’ente stesso, la sostanza diventa un insieme di
determinazioni che si trovano insieme in linea di fatto ma di cui non si può
di- mostrare la necessità. Hume esprimeva bene questa nuova idea di S. dicendo
che « le particolari qualità che formano una S. sono comunemente riferite ad un
qualcosa di sconosciuto al quale si suppone che ineriscano o, mettendo da parte
questa finzione, sono considerate strettamente e inseparabilmente connesse da
relazioni di contiguità e causazione ? {Treatise, I, 1, 6; ed. Selby-Bigge,
pag. 16). La con- nessione per contiguità e causazione ha preso il posto della
necessità razionale. Una formulazione ancora più rigorosa dello stesso concetto
è stata data da Mach: «La S. non è che la persistenza del collegamento: una
persistenza che non è mai assoluta o rigorosa (Analyse der Empfindungen, XIV, $
14; trad. ital., pag. 382). Nello stesso senso Dewey ha scritto: «La
condizione, la sola condizione perchè vi possa essere sostanzialità, è che
certe qualificazioni dipendano l’una dall’altra come segni sicuri che,
verificandosi certe interazioni, ne segui- ranno certi risultati » (Logic, cap.
VII; trad. ital., pag. 187). L’idea di S., nel suo significato tradizionale di
necessità, e quella connessa di causa, costituiscono i cardini di qualsiasi
metafisica (v.). Esse sono pertanto accettate di peso da tutte le metafisiche
di stampo tradizionale; mentre gli indirizzi empiri- stici inclinano a vedere
nel concetto di S. il collega- mento che già Hume vi aveva scorto o tendono
addirittura farne a meno opponendo ad essa l’idea di funzione, cioè di
relazione. Già da Mach quest’ul- timo passaggio è stato effettuato in quanto la
« persistenza del collegamento» non è altro che l’uniformità di certe
relazioni. SOSTANZIALE (ingl. Substantial; franc. Sub- stantiel; ted.
Substantiell). 1. Ciò che costituisce una sostanza o appartiene a una sostanza:
cioè che è essenziale o è tale da esistere necessariamente. 2. Ciò che è, in un
senso qualsiasi, importante o decisivo: per es., «un contributo sostanziale +.
SOSTANZIALISMO (ingl. Substantialism) franc. Substantialisme; ted.
Substantialismus). Ter- mine con il quale si è talora designato la dottrina
metafisica della sostanza da parte di coloro che la combattono (Renouvier,
Hamelin, ecc.). SOSTANZIALITÀ (inglese Substantiality; franc. Substantialité;
ted. Substantialitàt). Il modo d’essere della sostanza (nel senso 1). Nella
prima edizione della Critica della Ragion Pura, Kant chiamò « paralogismo della
S.» quello per il quale si attribuisce all’io penso il modo d'essere della
sostanza (Crit. R. Pura, A, 349). Il termine fu poi la ottenuta da A
sostituendo una formula 8 per una particolare variabile in A (cfr. A. CHURCH, /ntroduction
to Mathematical Logic, $ 10; ed inoltre CARNAP, The Logical Syntax of Language,
$ 6; Meaning and Necessity, $ 11; Quine, Methods of Logic, $ 6; ecc.). SOSTRATO
(lat. Substratum; ingl. Substratum; franc. Substrat). Il termine fu introdotto
dalla scolastica del sec. xrv per indicare l’individuo reale (substratum
singulare: Pietro AuREOLO, /n Sent., I, d. 35, q.4, a. 1); e poi ripreso da
Locke per indicare ciò che nella tradizione veniva piuttosto chiamato subjectum
o suppositum cioè il soggetto o la sostanza come soggetto (Saggio, II, 23, 1).
Accettato da Berkeley (Principles of Human Know- ledge, I, $ 7) e da Leibniz
(Nouv. Ess., II, 23, 1) il termine è entrato nell’uso e ha finito per prevalere
sugli altri, non senza pericolo di confusioni (v. Sog- GETTO). SOTERIOLOGIA
(ingl. Soteriology; franc. So- teriologie; ted. Soteriologie). La dottrina
religiosa della salvezza. Sull’affacciarsi dell’indirizzo religioso
soteriologico nel mondo occidentale cfr. l’opera di F. CUMONT, Les religions
orientales dans le pa- ganisme romain, 1906, 2* ediz. 1909. SOTTRAZIONE (ingl.
Subrraction; francese Soustraction; ted. Subtraction)i. La nozione di S. logica
fu introdotta da Boole nel modo seguente: «Se x rappresenta una classe di
oggetti, allora 1 — x rappresenta la classe contraria o supplemen- tare di
oggetti cioè la classe includente tutti gli oggetti che non sono compresi nella
classe x» (Laws of Thought, 1854, cap. III, Prop. III, Dover publ., pag. 48;
cfr. pure PEIRCE, Coll. Pap., 3. 5,9, 18, ecc.). Nella logica posteriore questa
nozione è scomparsa. SOVRANITÀ (ingl. Sovereignty; franc. Sou- veraineté; ted.
Souverdnitàt). Il potere preponde- rante o supremo dello Stato, che fu
riconosciuto per la prima volta come carattere fondamentale dello Stato stesso
da Jean Bodin nei Six livres de la république (1576). La S. consiste, secondo
Bodin, negativamente nell’essere sciolto o dispensato dalle leggi e dagli usi
dello Stato e positivamente nel potere di abolire o creare leggi. Il solo
limite della S. è la legge naturale e divina (Six livres de la répu- blique, 9*
ediz., 1576, I, pag. 131-32). Il termine e il concetto furono accettati da
Hegel: « Queste due determinazioni che gli affari e i poteri particolari dello
Stato non sono autonomi e stabili nè per sè, nè nella volontà particolare degli
individui ma hanno la loro ultima radice nell’unità dello Stato, di qualche
parte di se stesso o la sua sottomissione a un altro sovrano. Violare l’atto
per il quale esso esiste significherebbe annullarsi; e ciò che è niente, non produce
niente » (/bid., I, 7). Il principio della S. è pertanto quello di essere il
potere più alto in un dato territorio: il che non vuol dire che essa debba
essere un potere assoluto o arbitrario. Nella dottrina moderna del diritto, la
S. è riconosciuta propria dell'ordinamento giu- ridico (v. STATO) ed è intesa
come quel carattere per il quale « l'ordinamento giuridico statale è un
ordinamento al di sopra del quale non c’è un ordinamento superiore » (H.
KELSEN, General Theory of Law and State, 1945; trad. ital., pag. 390). Se-
condo Kelsen, se si ammette l’ipotesi della priorità del diritto
internazionale, lo Stato può essere detto sovrano solo in senso relativo; se si
ammette l’ipo- tesi della priorità del diritto statale può esser detto sovrano
nel senso assoluto e originario del termine. La scelta tra le due ipotesi è
arbitraria (/bid., pag. 391). SPAESATO (ted. Unheimlich). Il « sentirsi S.» è,
secondo Heidegger, uno degli aspetti dell’an- goscia (v.). Sentirsi S. vuol
dire «non sentirsi a casa propria» nel mondo e questo è, in sede on-
tologico-esistenziale, il «fenomeno più originario » (Sein und Zeit, $ 40).
SPAZIO (gr. yx&bpa, 16rog; lat. Spatium; inglese Space; franc. Espace; ted.
Raum). La nozione di S. ha dato origine a tre problemi diversi o meglio a tre
ordini di problemi: 1° quello circa la natura dello S.; 2° quello circa la
realtà dello S.; 3° quello circa la struttura metrica dello spazio. Una
risposta a quest’ultimo problema non è che una geometria e le diverse risposte
ad esso costi- tuiscono le differenti geometrie. Per tali risposte, cfr.
GEOMETRIA. 1° Il primo problema concerne il vero e proprio concetto di S. ed è
il problema circa la natura dell’esteriorità in generale cioè di ciò che rende
possibile il rapporto estrinseco tra gli oggetti. Finstein nella prefazione ad
un libro storico sul concetto di S. (Max JAMMER, Concepts of Space, 1954) ha
distinto due fondamentali teorie dello S., cioè: a) lo S. come la qualità
posizionale degli oggetti materiali nel mondo; 5) lo S. come il con- tenente di
tutti gli oggetti materiali. A questi due concetti si può aggiungere l’altro,
che lo stesso Einstein ha fondato; c) quello dello S. come campo. a) La prima
concezione è quella dello S. come luogo (v.) cioè come posizione di un corpo
tra gli altri corpi. Lo S. è definito in questo senso da Aristotele come «il
limite immobile che abbraccia un corpo » (Fis., IV, 4, 212a 20): una
definizione che Aristotele riconosce identica con il concetto platonico che
identificava lo S. con la materia (Tim., 52b, Sla). In virtù di questo
concetto, non c’è S. là dove non c’è un oggetto materiale; perciò il teorema
principale di questa teoria dello S. è l’inesistenza del vuoto (cfr.
ARISTOTELE, Fis., IV, 8, 214 b 11). È questa la teoria che prevale
nell'antichità e viene accettata per tutto il Medio Evo anche dagli avversari
di Aristotele (cfr. OckHAM, Summulae physicorum, IV, 20; Quodi., I, 4). Essa
veniva difesa nel Rinascimento da Campanella (De sensu rerum, I, 12) e
accettata e riesposta da Cartesio nei termini della sua geometria. Tra il luogo
e lo S., Cartesio poneva una differenza solo nominale in quanto «il luogo segna
più espressamente la situazione che la grandezza o la figura e in quanto al
con- trario pensiamo più a queste quando parliamo dello S.». Ma le due cose
sono identiche: « Se diciamo che una cosa è in un tal luogo intendiamo
solamente che è situata in tal modo rispetto ad altre cose; ma se aggiungiamo
che occupa un tale S. o un tal luogo, intendiamo inoltre che essa è di una tale
grandezza e di una tale figura che può riem- pirlo esattamente» (Princ. Phil.,
II, 14). Cartesio conseguentemente negava l’esistenza del vuoto (/bid., II,
16); come la negava Spinoza che condivideva la stessa concezione dello S. (Ez.,
I, 15, scol.). Leibniz a sua volta difendeva questa concezione contro Newton e
i newtoniani. «Se lo S. è una proprietà o un attributo, egli diceva, dev’essere
la proprietà di qualche sostanza. Lo S. vuoto limitato, che i suoi sostenitori
suppongono tra due corpi, di quale sostanza sarebbe la proprietà o l’affe-
zione? » (IV° Lettre à Clarke, 8; Op., ed. Erdmann, pag. 756). Ma la vecchia
concezione trovava in Leibniz una nuova e felice espressione: l’espres- sione
in termini della nozione di ordine, che doveva rimanere classica. « Io ritengo
lo S., diceva Leibniz (polemizzando contro Newton e i newtoniani) come qualcosa
di puramente relativo, allo stesso modo del tempo cioè come un ordinè delle
coesistenze, al modo in cui il tempo è un ordine delle successioni. Giacchè lo
S. contrassegna in termini di possibilità un ordine di cose che esistono nello
stesso tempo, in quanto esistono insieme, senza entrare nei loro modi di
esistere» (///° Lettre à Clarke, 4; Op., ed. Erdmann, pag. 752). La definizione
di Leibniz veniva ripresa da Wolff (Ontol., $ 589), e da Baum- garten (Mer., $
239). Kant stesso nei primi scritti la difende e dichiara di abbandonarla
soltanto nel 1768 nello scritto Su/ primo fondamento della distinzione delle
regioni nello spazio. In questo scritto egli dichiara insufficiente la concezione
dello S. come ordine delle coesistenze: « Le posi- zioni delle parti dello S.
in relazione tra loro, egli dice, presuppongono la regione secondo la quale
esse sono ordinate in tale relazione; e intesa nel modo più astratto la regione
non consiste nella relazione che una cosa ha con un’altra nello S. (il che
propriamente costituisce il concetto di posi- zione) ma nel rapporto del
sistema di queste posi- zioni con lo S. cosmico assoluto ». Tuttavia, la
concezione posizionale dello S. non viene mai completamente abbandonata dal
pensiero filosofico posteriore. Essa sembra presupposta, per quanto può
rilevarsi dal carattere generico e confuso dei concetti adoperati, dalle teorie
idealistiche dello S. (v. oltre). Ed ha trovato una difesa energica e e che questo
S. è infinito (F7., 38-40, Diels). Epicuro ereditò questa concezione (Lettera a
Erodoto; cfr. Dioc. L., X, 67), che veniva difesa da Lu- crezio Caro (De nat.
rer., I, 950 sgg.). La stessa concezione dello S. era condivisa dagli Stoici,
in particolare da Zenone (Diog. L., VII, 140). Obliterata per lungo tempo dalla
concezione ari- stotelica, questa dottrina torna a riaffacciarsi nel
Rinascimento. Telesio afferma che lo S. deve poter essere il ricettacolo di
qualsiasi cosa, in modo tale che sia che le cose gli siano dentro, sia che se
ne allontanino, esso rimanga identico e accolga pron- tamente tutte le cose che
si succedono in esso e sia nello stesso tempo tanto grande quanto lo sono le
cose che vi trovano posto. Lo S. è quindi infinito e incorporeo: l’esistenza
del vuoto è un fatto di esperienza (De rer. nat., I, 25). L'infinità dello S.
veniva nello stesso senso difesa da Giordano Bruno (De l’infinito, universo e
mondi, I). Questa concezione dello S. prevalse nella scienza per opera di
Newton. Diceva Newton: « L’asso- luto S., per sua natura propria, senza
relazione a qualcosa di esterno, rimane sempre simile ed im- mobile. Lo S.
relativo è la dimensione mobile o la misura dello S. assoluto; e i nostri sensi
lo deter- minano mediante la sua posizione rispetto ai corpi ed è spesso
scambiato per lo S. immobile; tale è la dimensione di un sotterraneo, uno S.
aereo ce- leste, determinato dalla sua posizione rispetto alla terra. Lo S.
assoluto e relativo sono identici in figura e grandezza ma non rimangono sempre
nu- mericamente gli stessi. Perchè se la terra, ad es., si muove, uno S. della
nostra aria il quale, relati- vamente, rispetto alla terra, rimane sempre lo
stesso, sarà, ad un dato tempo, parte dello S. assoluto che l’aria attraversa e
ad un altro tempo sarà un’altra parte dello stesso S. » (Philosophiae naturalis
principia mathematica, 1687, I, def. 8, scol.). La polemica di Leibniz contro
questa dottrina non valse a impedirne il successo. Circa un secolo dopo Eulero
diceva: « Supponiamo che tutti i corpi, che si trovano ora nella mia camera,
compresa l’aria, siano annientati dall’onnipotenza divina. Otter- remo allora
uno S. che, pur avendo la stessa lun- ghezza, larghezza e profondità di prima,
non con- tiene più alcun corpo. Ecco dunque, quanto meno, la possibilità di
un’estensione che non è un corpo. Un simile S. senza corpo è chiamato vuoto: un
vuoto è dunque un’estensione senza corpo + (Lettres d une Princesse
d°Allemagne, 69, del 21-x-1760; trad. ital., pag. 228). Si è già visto come la
nozione newtoniana dello S. abbia finito per prevalere (forse per influenza
dello stesso Eulero) nella dot- trina di Kant. Essa prevalse allo stesso modo
in tutta la fisica dell’800 per quanto incontrasse fre- quenti critiche quella
parte di essa che si riferisce allo S. assoluto. Clerk Maxwell affermava che «
tutta la nostra conoscenza, sia del tempo che dello S., è essenzialmente
relativa » (Matter and Motion, Dover publ., pag. 12). Mach parlava della
«mostruo- sità concettuale dello S. assoluto » (Die Mechanik in ihrer
Entwicklung, 1883; 78 ediz., 1921, pag. X). Questa teoria dello S. fu tuttavia
assunta o pre- supposta dalla fisica sino ad Einstein. c) La terza concezione
fondamentale dello S. è quella che Einstein ha fatto prevalere nella fisica
contemporanea. A prima vista, e specialmente con- siderando soltanto la
relatività speciale, la dottrina einsteiniana dello S. costituisce un ritorno
alla teoria classica dello S. come posizione o luogo. Dice Einstein a questo
proposito: « Il nostro S. fi- sico, così come lo concepiamo per il tramite
degli oggetti e del loro moto, possiede tre dimensioni e le posizioni vengono
caratterizzate da tre numeri. L’istante in cui si verifica l'evento è il quarto
nu- mero. Ad ogni evento corrispondono quattro nu- meri determinati ed un
gruppo di quattro numeri corrisponde ad un evento determinato. Pertanto il
mondo degli eventi costituisce un continuo quadri- mensionale »
(ErsTEIN-INFELD, The Evolution of Physics, III; trad. ital., pag. 217). In
questo con- cetto di S., la novità sembra costituita esclusiva- mente
dall’aggiunta della coordinata temporale alle coordinate con cui Cartesio
definiva lo S. stesso. sia la materia (ponderabile o imponderabile) sia lo S.» (M. K. MUNITZ, Space, Time
and Creation, 1957, VII, 1; trad. ital., pa- gina 112-13). Paradossalmente, perciò, la più ag- giornata
concezione dello S. non è che la rinuncia implicita al concetto di S. e
l’avviamento all’uso di altri concetti, meno legati ad astrazioni tradi-
823zionali e più adatti a descrivere i risultati della osservazione. 2° Il
problema della realtà dello S. ha dato luogo a tre differenti soluzioni: a) la
tesi della realtà fisica o teologica dello S.; 5) la tesi della soggettività
dello S.; c) la tesi che lo S. è indifferente al problema della realtà o
irrealtà. a) La tesi della realtà fisica o teologica dello S. è propria della
filosofia antica. Sia che concepis- sero lo S. come luogo o posizione, sia che
lo conce- pissero come recipiente, gli antichi credevano alla realtà dello S. e
lo ritenevano un elemento o una condizione del mondo oppure un attributo di
Dio. Mentre per Platone, per Aristotele e per gli Epicurei lo S. è un
costituente del mondo, per i Neoplato- nici diventa Dio stesso. Questa
concezione è attri- buita da Sesto Empirico ai Peripatetici: « Sembra che per i
Peripatetici, il primo Dio è il luogo di tutte le cose. Infatti, secondo
Aristotele, il primo Dio è il limite dei cieli.. E dal momento che il limite
dei cieli è il luogo di tutte le cose dentro i cieli, Dio sarà il luogo di
tutte le cose» (Adv. Mathem., II, 33). La filosofia giudaica alessandrina fa
sua questa concezione, che ricorre ancora nei libri della Kabala. Nel sec. xvi
fu accettata da Campanella (De sensu rerum, I, 12); da Henry More (Enchiridion
Metaphysicum, 1, 8) e da Spinoza che concepì l’estensione come un attributo di
Dio ed affermò pertanto che « tutto ciò che è, è in Dio » (Et., I, 15). Newton
stesso parlò dello S. come del sensorium cioè dell'organo mediante il quale Dio
muove le cose (Opticks, III, q. 31; Dover publ., pag. 403): un concetto che fu
a lungo criticato da Leibniz nelle sue lettere a Clarke e fu accettato nel sec.
xvIn da parecchi scrittori compreso lo stesso Clarke. Come ultima manifestazione
di questo punto di vista si può considerare la dottrina di S. Alexander,
secondo la quale lo S. e il tempo sono la sostanza stessa dell’universo e di
Dio e stanno tra loro nello stesso rapporto in cui il corpo è con lo spirito.
Da questo punto di vista, lo S. infatti sarebbe il « corpo » dell’intera
realtà, quindi di Dio stesso che è al culmine della realtà (Space Time and
Deity, 1920). b) La tesi della soggettività dello S. fu avan- zata per la prima
volta da Hobbes che definì lo S. come « l’immagine della cosa esistente in
quanto esistente cioè in quanto non si considera di essa altro accidente se non
il suo apparire al di fuori del soggetto immaginante » (De Corp.). L’analisi
che Locke fece dello S. come di un’idea complessa di modo ha anch’essa per
presupposto la riduzione dello S. a un’idea (Saggio, II, 13, 2): riduzione che
è ancora più radicale in Berkeley, per la polemica che egli conduce contro il
concetto newtoniano dello S.: « La considerazione filosoficaè una percezione ma
una «intuizione a priori» o «intuizione pura» cioè la condizione di ogni
possibile intuizione esterna. Così inteso esso corrisponde esattamente allo «S.
assoluto » di Newton: questo era inteso dallo stesso Newton come il sensorio di
Dio; da Kant è inteso come il sensorio del soggetto conoscente, cioè la
condizione assoluta della possibilità degli oggetti esterni. Nella filosofia
moderna e contemporanea la tesi della soggettività dello S. assume la forma del
carattere . apparente o illusorio dello S. stesso. Idealismo e spiritualismo
insistono su questa tesi. Già Hegel affermava che « Lo S. è una mera forma,
cioè un’astrazione, e cioè quella della esteriorità immediata » (Enc., $ 254):
il che tuttavia non gli impediva di cercare una dimostrazione razionale della
necessità delle tre dimensioni dello S. (/b., $ 255). L’idealismo di
ispirazione hegeliana consi- dera lo S. una semplice apparenza (cfr. BRADLEY,
Appearance and Reality, 1893; GENTILE, Teoria generale dello spirito, 1916,
cap. IX). E lo spiritua- SPAZIO VITALE lismo si mette sulla stessa via vedendo,
con Bergson, per una soluzione po- sitiva di questo problema, optando i più di
essi per la geometria euclidea, il carattere provvisorio e parziale di queste
risposte mostra, meglio di ogni altra cosa, l'impossibilità di risolvere la
questione e avvia perciò all'adozione del punto di vista che prescinda da essa.
Si può allora affermare che sol- tanto motivi di opportunità scientifica
suggeriscono l’uso di un particolare schema geometrico per la descrizione di un
determinato campo di fenomeni. Dice M. K. Munitz a questo proposito: « Potrà
es- sere più conveniente e fecondo usare uno schema metrico piuttosto che un
altro, ma non possiamo dire che sono i fatti a spingerci a farlo. Il problema è
questo: l’adozione di un valore particolare per la curvatura, preso in
congiunzione con il resto della teoria, ci permette di fare inferenze corrette
da dati fatti ad altri fatti? Nella misura in cui l’esattezza nell’ambito dei
fatti osservabili inferiti, è maggiore quando sono stabiliti mediante una
teoria con la sua metrica associata piuttosto che con altre teorie, in quella
misura possiamo dire che ‘la metrica dell’universo è così e così ”.
Quest’ultima espressione tuttavia non è che una maniera sbrigativa di accen-
nare alla superiorità relativa di una data teoria o modello dell’universo »
(Space Time and Creation, VII, $ 4; trad. ital., pag. 133). SPAZIO VITALE. V.
Campo. SPECIE (gr. el3oc; lat. Species; ingl. Kind, Species; franc. Espèce;
ted. Art, Species). 1. Un concetto in quanto è parte o elemento di un altro
concetto. In questo senso la parola fu comunemente adoperata da Platone (cfr.
Sof., 235d, Teer., 178 a, ecc.) e da Aristotele (Mer., X, 7, 1057b 7; Car. 2b
7, ecc.). Ed in questo senso la nozione di S. fu illustrata nell’Isggoge di
Porfirio, che ne dà la definizione seguente: « La S. è ciò che è situato sotto
il genere e a cui il genere è attribuito essenzial- SPECULAZIONE mente ».
Porfirio aggiunge: «La S. è l’attributo che si applica essenzialmente a una
pluralità di termini che differiscono specificamente tra loro + osservando però
che quest’ultima definizione si applica solo alla «S. specialissima » che
precede immediatamente l’individuo, per es., al concetto di uomo (/sag., 4, 10
sgg.). Il concetto di S. è rimasto in questo senso immutato in tutta la logica
tradi- zionale, sino a quando, con l’affermarsi della logica matematica, è
stato sostituito dal concetto di classe (v.). Nel dominio della biologia, il
termine ha avuto, per un certo tempo, un significato corrispondente a quello
ora descritto, intendendosi per S. un tipo biologico ben definito da
caratteristiche ereditarie, in quanto subordinato a un altro tipo più esteso
(genere). Ma nella biologia contemporanea i concetti di genere e S. hanno perso
ogni riferimento ai signi- ficati tradizionali e per S. s’intende semplicemente
una classe d’individui i cui accoppiamenti dànno luogo a individui fertili; il
che non accade per ibridi nati da accoppiamenti tra individui apparte- nenti a
S. diverse (C. PINCHER, Evolution, 1950, pag. 21; KaLMus, Variation and
Heredity, 1957, pag. 29). 2. Lo stesso che idea nel senso platonico (v. IDEA).
3. Lo stesso che forma nel senso aristotelico (v. FORMA). 4. In relazione con
il significato 3 e nel linguag- gio della scolastica medievale la S. è
l’intermediaria della conoscenza: cioè l’oggetto proprio della sen- ce della
similitudine, che farebbe da intermediaria tra l’oggetto e la potenza
conoscitiva umana, domina il periodo classico della scolastica: è accettata da
Bonaventura (/n Sent., II, d. 39, a. 1, q.2) e da Duns Scoto (Op. Ox., I, d.3,
q.7, n. 2, 3, 20). Ma essa venne abbandonata dalla scolastica del sec. xIv.
Durando di Pourcain (In Sent., II, d.3, q. 6, n. 10) e Pietro Aureolo (In
Sent., I, d.9, a. 1) negano senz’altro l’esistenza della S. e affermano che
l’oggetto della conoscenza è la cosa stessa. Questa dottrina è ribadita da
Ockham con molta energia e con l’argomento che se la S. fosse l’oggetto
immediato del conoscere la conoscenza non sarebbe conoscenza dell’oggetto ma
della sua immagine, al modo in cui la statuadi Ercole non condurrebbe alla
conoscenza di Ercole nè permetterebbe di giudicare della sua somiglianza con
lui, se non si conoscesse Ercole stesso (/n .Senz., II, q.14, T). Il punto di
vista che ha permesso a questi scolastici di abbandonare la nozione della S. è
quello della in- tenzionalità (v.) del conoscere, per la quale l’atto del
conoscere è un rapporto con l'oggetto in persona. Tuttavia, la dottrina
cartesiana dell'idea come og- getto immediato della conoscenza si può conside-
rare, sotto un certo rispetto, come la ripresa della nozione scolastica della
S. (v. IDEA). SPECIFICAZIONE (ingl. Specification; fran- cese Spécification;
ted. Spezifikation). Kant ha chia- mato «legge trascendentale di S.» la regola
che «impone all’intelletto di cercare sotto ogni specie che ci viene innanzi un
certo numero di sottospecie e per ogni differenza un certo numero di differenze
minori + (Crit. R. Pura, Appendice alla Dialettica trascendentale). Questa
legge ha il suo corrispon- dente simmetrico in quella della omogeneità (v.)
secondo la quale il molteplice va continuamente riportato sotto generi
superiori; ed entrambe queste leggi poi confluiscono in quella della affinità
(v.) di tutti i concetti che permette il passaggio continuo da un concetto
all’altro (/bid.). Il principio della S. fu chiamato da Hamilton « Legge di
eterogeneità + {v. OMOGENEITÀ). Kant parlò pure di una «legge della S. della
natura » secondo la quale la natura « specifica le sue leggi generali secondo
il principio di una finalità relativa alla nostra facoltà di conoscere. Ma
questa legge appartiene alla sfera del giudizio riflettente cioè non è
costitutiva della natura ma semplicemente prescrive una regola per la sua
interpretazione» (Crit. del Giud., Intr., in se stessa, sicchè la felicità è
una specie di S.+ (Er. Nic., X, 8, 1178 b 28). Questa esaltazione della S. che
costituisce uno dei modi fondamentali d’intendere la funzione della filosofia
(v.) fu ereditata soprattutto dal misticismo neoplatonico. Plotino ridusse alla
S. ogni altra attività e affermò che la stessa generazione delle cose naturali
è S.: s’intende, S. di Dio (Enn., III, 8, 5). Dal misticismo medievale la S.
viene identi- ficata con la contemplazione, che è il grado più alto dell’ascesa
mistica prima dell’estasi (cfr. Ric- CARDO DI SAN VITTORE, De Contemplatione,
I, 3); ma S. Tommaso la identifica con la meditazione che è il grado precedente
(S. 7A., II, 2, q. 180, a. 3, ad 2°). In tutti questi usi tuttavia il
significato di contemplazioe il terzo momento della dialettica, cioè il momento
della sintesi nel quale si ha «l’unità delle determinazioni nella loro
opposizione +. Questa unità significa che « la filosofia non ha da fare con
mere astrazioni o con pensieri formali, ma solamente con pensieri concreti »
cioè con pensieri che sono nello stesso tempo realtà vere e proprie (/bid., $
82). Inoltre è proprio della filosofia speculativa la dimo- strazione della
necessità dei suoi oggetti (Enc., $ 9). SPERANZA Sicchè l’aggettivo speculativo
rimane a indicare per Hegel il punto di vista che considera la realtà come
razionalità, la razionalità come reale, ed entrambe come necessità. L’aggettivo
che Kant adoperava a designare ciò che è al di là dell’espe- rienza possibile,
quindi della conoscenza effettiva, viene adoperato da Hegel per designare la
cono- scenza effettiva che, in quanto tale, è al di là dell’esperienza e delle
separazioni che in essa appaiono. I significati di S. e di speculativo sono
rimasti fissati da questa alternativa. S’intende per S. una conoscenza che non
trova fondamento o giusti- ficazione nell’esperienza o nell’osservazione; e
questo è da un lato motivo per dichiarare illusoria o chimerica una tale
conoscenza, dall’altro (ma sempre più raramente) motivo per ritenerla su-
riore. SPERANZA (ingl. Hope; franc. Espérance; ted. Hoffnung). 1. Una delle
emozioni fondamentali (v. EMOZIONE). 2. Una delle virtù teologali (v. VIRTÙ).
SPERIMENTALE (ingl. Experimental; fran- cese Expérimental; ted. Experimentell).
L'aggettivo ha significati analoghi a quelli del corrispondente sostantivo e
cioè designa: 1° ciò che fa uso dell’espe- rimento cioè dell’osservazione
controllata. In tal senso si dice: « scienze S.+, « medicina S.+ (cfr. il
titolo dell’opera famosa di C. BERNARD, /ntroduction à l’étude de la médecine
expérimentale, 1865), ecc.; 2° ciò che fa uso dell’esperienza e in tal caso
l’ag- gettivo è equivalente ad empirico. SPERIMENTALISMO (inglese Experi-
mentalism; franc. Expérimentalisme; ted. Experi- mentalismus). Altro nome del
pragmatismo o dello strumentalismo. In Italia il termine è stato adottato da A.
Aliotta per designare la dottrina seguente: «Il solo fatto concreto,
verificabile di cui possiamo parlare è l’esperienza più o meno cosciente che un
individuo ha del mondo. Non ha senso discutere di elementi di dati, prima o
fuori di questa sintesi + («Il mio S.», 1929, in // nuovo positivismo e lo S.,
1954). SPIEGAZIONE (ingl. Explanation, Explica- tion; franc. Explication; ted.
Erklarung). In gene- rale, ogni procedimento diretto a determinare il perchè di
un oggetto, a rendere un discorso o una situazione chiara e accessibile
all’intendimento o a eliminare da una situazione difficoltà e conflitti. Il
termine già usato da Cicerone in questo senso (De Fin.; De nat. deorum, III,
24, 62; ecc.) fu ripreso da Cusano nel senso di mani- festazione: « Dio è la
complicazione di tutte le cose perchè tutte le cose sono in lui; ed è
l’esplicazione di tutte le cose in quanto egli è in tutte le cose» (De docta
ignor., II, 3). Sotto la metafora dello SPIEGAZIONE « spianare +, « distendere
» o « rendere esplicito », il termine nasconde tuttavia una molteplicità di si-
gnificati che si possono distinguere tra loro a se- conda delle situazioni cui
fanno riferimento. Si ha allora che: 1° nei confronti di un termine, spiegare
signi- fica determinare il significato del termine, cioè interpretarlo (v.
INTERPRETAZIONE); 2° nei confronti di un enunciato analitico, spiegare
significa sostituire all’enunciato in que- stione un enunciato meno vago o più
esatto o, dove è possibile, proprio di un linguaggio formaliz- zato (CARNAP,
Meaning and Necessity, $ 2); 3° nei confronti di una situazione umana di
conflitto, spiegare significa eliminare le cause o i motivi del conflitto
stesso; 4° ilosofica e scientifica (v. CAUSALITÀ); e cioè: a) il concetto della
causalità come deducibilità; b) il concetto della causalità come uniformità.
Poichè entrambi questi due concetti della causalità pretendono di rendere
possibile una previsione infallibile, per schema di S. causale si può intendere
in generale ogni tecnica che consente la previsione infallibile di un oggetto.
Ma poichè la previsione infallibile è possibile solo quando si tratta di
oggetti necessari, cioè tali che non possono non essere o non possono essere
di- versamente da come sono, la S. causale è in ogni caso la dimostrazione
della necessità del suo og- getto. Da questo punto di vista affermare «x è
stato spiegato » significa affermare «x è stato di- mostrato nella sua
necessità » e perciò «x era in- fallibilmente prevedibile ». Su questa base
comune, si possono distinguere: «@) la tecnica esplicativa causale che fa
appello alla deducibilità; 5) la tec- nica esplicativa causale che fa appello
all’uniformità. a) La tecnica esplicativa che fa appello alla deducibilità è
quella della metafisica classica e in primo luogo di Aristotele. Per quanto
Aristotele abbia distinto quattro specie di cause, egli rico- 827 nosce agli
effetti della S., il primato della causa finale come ragion d’essere o sostanza
o forma del- l’oggetto (De Part. An., I, 1, 639 b, 14; 642 a, 17; cfr.
CausALITÀ). La S. finalistica è, da questo punto di vista, la prima e
fondamentale; e coincide con quella che con termini moderni si chiama S. gene-
tica giacchè questa fa appello alla causa efficiete, che in ultima analisi
coincide con la causa finale. In questo senso, la S. causale si identifica con
la dimostrazione (v.) in quanto è dimostrazione della necessità. E Hegel non
faceva che ripetere su questo punto l’insegnamento di Aristotele quando affer-
mava essere compito della filosofia speculativa «la dimostrazione della
necessità» e vedeva in questa sola l’appagamento del bisogno proprio della ra-
gione. Ma questo concetto della S. non è soltanto proprio della metafisica: è
stato frequentemente riferito alla scienza stessa. E. Meyerson mentre
affermava, contro l’analisi positivistica della scienza, che la scienza non
cerca solo la previsione ma la S. dei fenomeni, riduceva la S. stessa
all’identi- ficazione, perchè solo l’identificazione permette la deduzione del fenomeno.
«Noi dobbiamo, egli dice, in virtù della causa o ragione e con l’aiuto di una
pura operazione di ragionamento, poter concludere al fenomeno. È ciò che si
chiama una deduzione. La causa, allora, può definirsi come il punto di partenza
di una deduzione di cui il fenomeno è il punto di arrivo » (De l’explication
dans les sciences, 1927, pag. 66; cfr. Identité et realité, 1908). D'altronde
lo stesso positivismo aveva assegnato la S. al dominio della deduzione. Dice
Stuart Mill: « Si dice che un fatto individuale è spiegato quando si indica la
sua causa cioè la legge o le leggi di causazione di cui la sua produ- zione è
un esempio... E similmente una legge o uniformità di natura si dice spiegata
quando si inon, 1965, pag. 247 sgg.). Questa dottrina della S. è pole-
micamente orientata contro la riduzione della S. a princìpi o elementi
familiari, alla quale invece fanno ricorso i seguaci del secondo tipo di S.
causale (/bid., pag. 257). Questa stessa dottrina è stata estesa da Hempel al
campo della storia (« The Function of General Laws in History +, 1942; ora nel
vol. cit. pag. 231-243): ed Hempel stesso ha insistito sull’esigenza che la S.
causale sia accom- pagnata dalla predizione infallibile del fenomeno spiegato
(/bid., pag. 38). Ma è stato giustamente osservato che la sua intera teoria
della S. può essereadatta alla fisica newtoniana ma è completamente incapace di
dar conto di ciò che si deve intendere per S. nella fisica quantica (N. R.
Hanson, « On the Symmetry between Explanation and Prediction », in The
Philosophical Review, 1959, pag. 349-58). A maggior ragione questo tipo di S.
non può essere ritenuto adeguato nel dominio della storia e in gene- rale delle
scienze che concernono l’uomo (v. oltre). b) Il secondo tipo di S. causale è
quello che ricorre al concetto di causa come uniformità di connessione dei
fenomeni tra loro. È questo il concetto che fu introdotto da Hume e che Comte
pose a base della S. « positiva » dei fenomeni stessi. Comte contrappose al
tentativo metafisico di sco- prire «i modi essenziali di produzione» dei feno-
meni il compito puramente descrittivo della scienza positiva che si limita a
scoprire le /eggi dei feno- meni cioè i loro rapporti costanti (Cours de phil.
po- sitive, 48 ediz., 1887, II, pag. 169, 268, 312, ecc.). Nello stadio
positivo, diceva Comte, «la S. dei fatti, ridotta ai suoi termini reali non è
più che il legame stabilito tra i diversi fenomeni particolari e alcuni fatti
generali di cui il progresso della scienza tende sempre più a diminuire il
numero» (/bid., I, pag. 5). Questo punto di vista ereditava la con-
trapposizione stabilita dagli illuministi, e special- mente da D’Alembert, tra
lo spirito di sistema e la descrizione scientifica della natura. Esso è assai
meno ambizioso dell’altro perchè fa appello non alla deducibilità di un
fenomeno (o della sua descrizione) dalla sua causa (o da un complesso di leggi
generali) ma piuttosto alla uniformità o SPIEGAZIONE costanza del rapporto tra
fenomeni e perciò alla riduzione del fenomeno da spiegare a tali rapporti costanti.
È questo il valore dato, ad es., alla tec- nica esplicativa causale da P. W.
Bridgman: « L’es- senza di una S. causale consiste nel ridurre una situazione
ad elementi a noi talmente familiari che possiamo accettarli come cosa ovvia e
spegnere la nostra curiosità. Ridurre una situazione in ele- menti significa,
dal punto di vista operativo, scoprire correlazioni familiari tra i fenomeni di
cui la situa- zione è composta » (The Logic of Modern Physics, 1927, cap. II;
trad. ital., pag. 50). In senso analogo R. B. Braithwaite ha detto: « Quando si
chiede la causa di un evento particolare, ciò che si richiede è la
specificazione dell’evento precedente o simul- taneo, il quale, in congiunzione
con alcuni fattori causali che hanno natura di condizioni permanenti, è
sufficiente a determinare l’accadimento dell’evento da spiegare in accordo con
una legge causale, in uno dei significati consuetudinari di legge causale +
(Scientific Explanation, 1953, pag. 320). Poichè per leggi causali Braithwaite
intende le generalizza- zioni empiriche le quali asseriscono concomitanze di
successione o di simultaneità (/bid., cap. IX), una S. che sia «conforme a una
legge causale » è una S. che fa riferimento ad un’uniformità empi- ricamente
constatata. Questo punto di vista si trova variamente ripetuto nella filosofia
contemporanea anche se non sempre viene nettamente distinto da quello
precedente. B) Le tecniche esplicative causali, sia quella fondata sulla dati.
Un'ipotesi trascendentale in cui, per la S. delle cose naturali, si adoperasse
una semplice idea della ragione, non sarebbe affatto una S., perchè ciò che non
s’intende abbastanza con princìpi empirici sarebbe spiegato con qualcosa di cui
non s'intende addirittura nulla » (Crit. R. Pura, Dottr. del metodo, cap. I, sez.
3). Ma è soprattutto nel campo della metodologia sto- rica che questo tipo di
S. è stato elaborato, e il primo a introdurlo in modo esplicito è stato Max
Weber. «La considerazione del significato causale di un fatto storico, egli
scriveva, comincerà innanzitutto con la questione seguente: se escludendolo dal
complesso di fattori assunti come condizionanti oppure mutandolo in un
determinato senso, il corso degli avvenimenti avrebbe potuto, in base alle re-
gole generali dell’esperienza, assumere una dire- zione in qualche modo
diversamente configurata, nei punti decisivi per il nostro interesse». Se si
può rispondere di sì a questa domanda, il fatto in questione sarà da
considerare uno dei fattori condizionanti del processo storico; se si risponde
di no, sarà da escludere da tali fattori (Kritische Studien auf dem Gebiet der
kulturwissenschaftlichen Logik, 1906, II; trad. ital., in // metodo delle
scienze storico-sociali, pag. 223). La moderna metodologia della storia è
unanime nell’abbandono degli schemi di S. causale e nell’accettazione di uno
schema condizionale, per quanto esso sia variamente confi- gurato dai singoli
metodologi. Quando K. Popper osserva alla dottrina di Stuart Mill sulla natura
della S. che « Mill e i suoi compagni storicisti non consi- derano che le
tendenze generali dipendono dalle condizioni iniziali e trattano tali tendenze
come se fossero leggi assolute », mentre la spiegazione deve tener conto, per
quanto è possibile delle « condizioni nelle quali esse persistono » (The
Poverty of Histo- ricism, 1944, $ 28) egli cerca di trasformare lo schema
causale in uno schema condizionale. Ma la migliore formulazione dello schema
condizionale, in riferimento all’uso che se ne può fare nelle di- scipline
storiche, può essere forse considerata quella di W. Dray. «L'esigenza della S.,
dice Dray è, in alcuni contesti, sufficientemente soddisfatta se si mostra che
ciò che è accaduto era stato possibile e non c'è bisogno di mostrare inoltre
che esso era necessario. Per quanto, spiegare una cosa, come il professor
Toulmin dice, significa spesso ‘ mostrare che essa poteva essere attesa” [The
Place of Reason in Ethics, 1950, pag. 96], il criterio appropriato per
un’importante dominio di casi è più largo di questo; per spiegare una cosa
basta, talvolta, mo- strare che essa non doveva causare sorpresa » (Laws and
Explanation in History, 1957, pag. 157). Dray contrappone questo schema
esplicativo che egli chiama del come-possibilmente (how-possibly) a quello
causale del perchè-necessariamente (why- necessarily) in quanto i due schemi
sono logica- mente diversi e rispondono a due specie diverse di domande sicchè
«nel caso della spiegazione come-possibilmente esigere un insieme di condizioni
sufficienti, sarebbe mutare la questione» (/bid., pag. 169). Questo punto di
vista che è stato ela- borato nei confronti delle discipline storiche è
tuttavia egualmente adatto ad intendere la natura della S. che ricorre ora
nell’ambito delle scienze 829 naturali e specialmente della più avanzata di
esse che è la fisica quantica. Mancando anche in questa, con la condizione
della prevedibilità infallibile, la connessione causale necessitante, l’unico
schema possibile di S. è quella condizionale che si limita a determinare Ja
possibilità dell’explanandum. In tal senso, si può dire che la S. è la
determinazione della possibilità determinata e controllabile dell’og- getto;
dove determinata significa individuata e ri- conoscibile con un metodo o
procedimento ap- propriato e, talvolta, misurabile secondo uno schema di
probabilità; e controllabile significa ripetibile in condizioni adatte
(ABBAGNANO, Possibilità e li- bertà, 1957, VI, $ 4-5; Problemi di sociologia,
1959, VIII, $ 1-5). È da osservare infine che Jo stesso procedimento della S.
logica, quale è stato descritto da Carnap e Reichenbach cade sotto la categoria
della S. condi- zionale. Secondo Carnap, la S. consiste nel sostituire a un
termine originario chiamato explicandum, che è un concetto vago o familiare, un
nuovo concetto esatto, che Carnap chiama explicatum e Reichenbach explicans.
Posto ciò, una S. consiste, secondo Rei- chenbach, nel determinare il
significato del termine e il significato si riduce a una possibilità o logica o
fisica o tecnica, ma in ogni caso ad una possi- bilità (REICHENBACR, «
Verifiability Theory of Mea- ning », in Proceedings of the American Academy of
Arts and Sciences, 1951, pag. 46 sgg.; CARNAP, Meaning and Necessity, $ 2) (v.
PossiBILE; SIGNIFI- CATO; VERIFICAZIONE). SPINOZISMO (ingl. Spinozism; franc.
Spino zisme; ted. Spinozismus). La dottrina di Benedetto Spinoza (1632-77) nei
punti salienti che la tradi- zione storica le ha riconosciuti e che possono
essere riassunti così: 1° l’unicità della sostanza del mondo e la sua
identificazione con Dio, per la quale Spi- noza indica la sostanza stessa con
l'espressione « Deus sive natura »; 2° l’ateismo o come altri dice (con Hegel)
l’acosmismo (v.) secondo il quale Dio è il principio e l’ordine del mondo; 3°
il necessi- tarismo, secondo il quale tutte le cose derivano con assoluta
necessità dalla sostanza divina; 4° il geometrismo cioè l’affermazione del
carattere geo- metrico della necessità cosmica, sulla quale si mo- della il
metodo geometrico della filosofia; 5° la riduzione della libertà umana al
riconoscimento e all’accettazione della necessità dell'ordine cosmico; 6° la
difesa della libertà filosofica e religiosa del- l’uomo fondata sulla riduzione
della fede religiosa all’obbedienza (v. FEDE). SPIRITI ANIMALI O VITALI. V.
PNEUMA. SPIRITISMO (ingl. Spiritism; franc. Spiritisme; ted. Spiritismus). La
credenza in fenomeni mentali o naturali che non si lasciano spiegare nel modo
ordinario o scientifico e siano da attribuirsi all’azione di spiriti, siano
essi anime di defunti o potenze angeliche o demoniache (v. METAPSICHICA).
SPIRITO (ingl. Mind, Spirit; franc. Esprit; ted. Geist). Si possono distinguere
i seguenti si- gpificati: 1° L’anima razionale o l'intelletto (v.)in generale;
questo è il significato prevalente nella filosofia mo- derna e contemporanea e
nel linguaggio comune. 2° Lo pneuma (v.) o soffio animatore, ammesso dalla
fisica stoica e da essa passato a varie dottrine antiche e moderne. Questo è il
significato originario del termine dal quale tutti gli altri sono derivati.
Ancora questo significato rimane nelle espressioni in cui S. sta per «ciò che
vivifica». Kant usò il termine in questo senso nella sua teoria estetica. «S.,
egli disse, nel significato estetico è il principio vivificante del sentimento.
Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima, la materia di cui si serve, è
ciò che conferisce slancio finalistico alla facoltà del sentimento e la pone in
un giuoco che si ali- menta di sè e fortifica le facoltà stesse da cui ri-
sulta » (Crir. del Giud., $ 49; Antr., $ 71 b). In questo senso la parola S. è
rimasta nell’uso corrente in cui viene talora contrapposto alla «lettera», per
indicare ciò che dà vita o, fuor di metafora, il si- gnificato autentico di
qualcosa. In questo senso venne anche adoperata da Montesquieu nel titolo della
sua opera Lo S. delle leggi. 3° Le sostanze incorporee cioè gli angeli, i
demoni e le anime dei defunti. In questo senso Locke adoperava la parola spirit
(riservando mind a S. nel significato 1°) e diceva: « Eccettuando alcune
pochissime idee che otteniamo mediante la riflessione e tutto ciò che possiamo
mettere insieme da esse circa il Padre di tutti gli S., l’eterno e in-
dipendente autore di essi e nostro e di tutte le cose, persino dell’esistenza
di altri S. non abbiamo in- formazione certa se non per via di rivelazione »
(Saggio, IV, 3, 27). E Kant nei Sogni di un visionario chiariti con sogni della
metafisica intendeva Geist nello stesso senso: « Uno S., si dice, è un essere
che ha la ragione. Non è dunque un dono miracoloso vedere S. giacchè chiunque
vede uomini vede esseri che hanno la ragione. Ma, si prosegue, quest’essere che
nell’uomo ha la ragione è soltanto una parte dell’uomo; e questa parte, che lo
vivi- fica, è uno S.» (7rdume eines Geistersehers, I, 1). Come Locke, Kant è
scettico sull’esistenza dello S. in questo senso e in ogni caso ritiene
impossibile dimostrarla. Anche in questo senso la parola S. è rimasta nell’uso
corrente (v. ANGELI; DEMONE; SPIRITISMO). 4° La materia sottile o impalpabile
che è la forza animatrice delle cose. Questo significato, de- rivato da quello
stoico, si trova frequentemente nei maghi del Rinascimento e soprattutto in
Agrippa SPIRITO (De occulta philosophia, I, 14) e in Paracelso (Meteor., pag.
79 sgg.). 5° Infine, e in rapporto più stretto con il si- gnificato 1° il
termine significa talvolta disposi. zione (v.) o atteggiamento (v.): come nelle
celebri espressioni di Pascal «S. di geometria» e «S. di finezza » e in
espressioni correnti come «S. reli- gioso », « S. sportivo», ecc. Di questi
cinque significati il solo che sia stret- tamente collegato alla problematica
della filosofia moderna è il primo. Fu Cartesio a introdurre e a far valere
questo significato. «Io non sono dunque, precisamente parlando, che una cosa
che pensa, cioè uno S., un intelletto o una ragione, che sono termini il cui
significato mi era prima sconosciuto » (Med., II). E nella risposta alle
seconde obiezioni egli precisa, in forma di definizione, il significato del
termine: «La sostanza nella quale risiede im- mediatamente il pensiero è qui
chiamata spirito. Sebbene questo nome sia equivoco perchè lo si attribuisce
anche talvolta al vento e ai liquori sottilissimi, io non ne conosco affatto di
più propri » (II Rép., def. VI). Sebbene la nozione di sostanza faccia in
quest’espressione cartesiana da interme- diaria tra il nuovo e il vecchio (sostanza
incorporea) significato del termine, l’uso che Cartesio fa di essa stabilisce
piuttosto la sua equivalenza col termine coscienza. Sostanza pensante o
coscienza o intelletto o ragione sono quindi i sinonimi di spirito. Locke, come
si è detto, usava nello stesso senso il termine mind (cfr., ad es., Saggio, II,
1, 5). Leibniz diceva a sua volta: «La conoscenza delle verità necessarie ed
eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci fa avere la ragione e
le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e di Dio. È questo che si
chiama in noi anima ra- gionevole o S.» (Mon., $ 29). Berkeley a sua volta
adottò il termine e ne stabilì le equivalenze: « Questo essere attivo e
percipiente è quello che io chiamo mind, spirit, soul (anima) o my self (io)»
(Princi- ples of Human Knowledge, I, $ 2). Come anima, intelletto o io
intendeva il termine Hume (7reatise, I, 4, 2, ed. Selby-Bigge, pag. 207).
Queste equiva- lenze vengono mantenute costantemente nell’uso posteriore del
termine: sicchè i problemi al quale esso dà origine sono quelli connessi con le
nozioni di anima, coscienza, intelletto, ragione e io. Sotto queste voci si
troverà l’indicazione dei problemi ai quali la nozione S. ha dato origine nelle
sue diverse specificazioni. Basti qui solo ricordare che alcuni usi paradossali
talora fatti dalla filosofia contemporanea del termine in questione si ripor-
tano in realtà al sigSCIENZE, ‘CLASSIFI- CAZIONE DELLE). Ad una diversa
specificazione della nozione di S. ha dato luogo solo Hegel con le sue nozioni
di S. oggettivo e di S. assoluto. Mentre per S. sogget- tivo, Hegel intende lo
S. finito cioè l’anima o l’in- telletto o la ragione (lo S. nel significato
cartesiano del termine) (Enc., $ 386), per S. oggettivo egli intende le
istituzioni fondamentali del mondo umano cioè il diritto, la moralità e
l’eticità e per S. assoluto intende il mondo dell’arte, della religione e della
filosofia. In queste due concezioni, lo S. ha cessato di essere attività
soggettiva per diventare realtà storica, mondo di valori. Mentre lo S.
oggettivo, è il mondo delle istituzioni giuridiche, sociali e storiche e
culmina nell’eticità che comprende le tre tezza, che è la Ragione assoluta,
come fece Croce (Logica, 1920, pag. 26 sgg.). Anche fuori dell’idealismo
tuttavia la nozione dello S. oggettivo, cioè dello S. come mondo di istituzioni
storico-sociali o di valori istituzionaliz- zati o di forme di vita, ha trovato
accoglimento ed illustrazione. La nozione fu infatti accettata da Dilthey che
intese per essa «la connessione strut- turale delle unità viventi, che si
continua nelle comunità » e criticò l’assolutezza e il dogmatismo che la
nozione stessa aveva assunto in Hegel (Ge- sammelte Schriften, VII, pag. 150;
cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1956, pag. 104- 105). In
questo stesso senso limitato la nozione fu 831 accettata da E. Spranger, che
intese come scienza dello S. la disciplina che si occupa delle formazioni
ultrapersonali o collettive della vita storica (Lebens- formen, 1914, pag. 7).
Fu accettata altresì da N. Hartmann che considerò lo S. oggettivo come una
soprastruttura che si solleva al di sopra della coscienza come questa si
solleva al di sopra del mondo organico. Allo S. oggettivo apparterrebbero tutte
le produzioni spirituali cioè le lettere, le arti, la tecnica, le religioni, i
miti, le scienze, le filo- sofie, ecc. Esso è il vero protagonista della
storia, secondo Hartmann (Das Problem des geistigen Seins, 1931, pag. 262). AI
di sopra dello S. og- gettivo Hartmann situa poi lo S. vivente che sarebbe
l’unità dello S. oggettivo e della coscienza personale (Ibid., pag. 259). N.
Hartmann è certo ancora molto vicino all’ispiultante di una molteplicità di
fattori. Dice Montesquieu: « Molte cose guidano gli uomini: il clima, la
religione, le leggi, le massime del governo, le tradizioni, i costumi, le
usanze; donde si forma uno S. generale che ne è il risultato » (Esprit des
lois, 1748, XIX, 4). Altrove Montesquieu chiama lo S. nazionale « anima
universale » (Mélanges iné- dits, pag. 160); ma egli era in ogni caso ben lungi
da fare di questo concetto una realtà a sè. Questo passo fu fatto da Hegel che
concepì lo S. nazionale come il vero soggetto della storia: «Lo S. della storia
è un individuo che è di natura universale ma che è determinato cioè, in generale,
una nazione; e lo S. con cui abbiamo a che fare è lo S. della nazione. Gli S.
delle nazioni si distinguono secondo l’idea che essi si fanno di se stessi,
secondo la su- perficialità o la profondità con cui hanno compreso e
approfondito ciò che è lo S.» (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, pag. 36;
trad. ital., I, pag. 43). Di volta in volta un determinato S. nazionale as-
sume la figura di « S. del mondo » (Welfgeist) cioè di guida e di soggetto
unico della storia. « Il Welt geist è lo S. del mondo, come si esplica nella
co- scienza umana; gli uomini stanno ad esso come 832 le realtà singole stanno
alla totalità che le sostanzia. E questo S. del mondo è conforme allo S.
divino, che è lo S. assoluto. In quanto Dio è onnipresente, è presso ogni uomo,
appare nella coscienza di ognuno; e ciò è lo S. del mondo» (/bid., pag. 37;
trad. ital., pag. 44). La nozione di S. del mondo è stata varie volte ripetuta
e in generale essa si incontra in ogni concezione provvidenzialistica della
storia (v.). SPIRITUALISMO (ingl. Spiritualism, Persona- lism; franc.
Spiritualisme; ted. Spiritualismus). 1. Si intende con questo termine ogni
dottrina che pra- tichi la filosofia come analisi della coscienza (v.) o che in
generale pretenda desumere dalla coscienza i dati della ricerca filosofica o
scientifica. La pa- rola è stata messa in voga nel secolo scorso da V. Cousin
che nella prefazione all’edizione del 1853 della sua opera Du vrai, du beau et
du bien, così scriveva: « La nostra vera dottrina, la nostra vera bandiera è lo
S., questa filosofia solida quanto generosa, che comincia con Socrate e
Platone, che l’Evangelo ha diffuso nel mondo, che Des- cartes ha messo nelle
forme severe del genio mo- derno, che è stata nel xvm secolo una delle glorie e
delle forze della patria, che è perita con la gran- dezza nazionale nel sec.
xvi, e che al principio di questo secolo Royer Collard è venuto a riabili- tare
nell’insegnamento pubblico mentre Chàateau- briand e Madame de Staél la
trasportavano nella letteratura e nell’arte... Questa filosofia insegna la
spiritualità dell'anima, la libertà e la responsabilità delle azioni umane, le
obbligazioni morali, la virtù disinteressata, la dignità della giustizia, la
bellezza della carità; e al di là dei limiti di questo mondo, essa mostra un
Dio, autore e tipo dell’umanità, che, dopo averla creata evidentemente per uno
scopo eccellente, non l’abbandonerà nello sviluppo misterioso del suo destino.
Questa filosofia è l’al- leata naturale di tutte le buone cause. Essa sostiene
il sentimento religioso, seconda l’arte vera, la poesia degna di questo nome,
la grande letteratura; è l’appoggio del diritto; respinge ugualmente la de-
magogia e la tirannide; ecc. ». Questo programma dello S., magistralmente
delineato da Cousin, è rimasto proprio di tutte le forme, numerosissime, che
questo indirizzo filosofico ha assunto nella filosofia moderna e contemporanea.
L’appoggio alle «buone cause » cioè ai valori morali, politici, sociali e
religiosi della tradizione è rimasta la co- stante preoccupazione dello S. che,
sotto questo rispetto, ha l'andamento e la natura di una sco/a- stica (v.). Ed
il mezzo con cui lo S. ha cercato di realizzare il suo programma è stato ancora
quello additato da Cousin: il ricorso alla coscienza, cioè alla riflessione
interiore o introspezione per il re- perimento dei dati indispensabili alla
speculazione. SPIRITUALISMO Il ricorso alla coscienza collega, come lo stesso
Cousin vedeva, lo S. all’idealismo romantico; mentre lo S. non condivide con
tale idealismo l’identificazione, propria di esso, della coscienza finita
(umana) con la Coscienza infinita (divina). Come difensore della teologia
cristiana tradizionale (la principale delle sue « buone cause +), lo S. non
accoglie questa identificazione, che puzza di pan- teismo o ateismo (v.). La
figura principale dello S. del secolo scorso è Maine de Biran (1766-1824); la
figura principale delio S. del nostro secolo è Enrico Bergson (1859- 1941). Lo
S. è particolarmente congeniale con la filosofia francese la quale ha desunto
da Montaigne e Pascal la pratica del filosofare come interroga- zione della
coscienza. Ma esso trova in tutti i paesi manifestazioni numerose per quanto
non troppo diverse l’una dall’altra. Le grandi figure della filo- sofia
risorgimentale italiana: Galluppi, Rosmini, Gioberti e Mazzini, si sono
ispirate alla tradizione spiritualistica. In Germania l’opera di Hermann Lotze
ha ispirato e guidato la ripresa dello S. e il Microcosmo di questo autore
costituisce, si può dire, la summa dello S. ottocentesco, difeso in modo intelligente
contro lo scientismo positivistico. Nel mondo contemporaneo, l’opera di Bergson
ha rin- novato lo S. venendo incontro, per quanto è pos- sibile, alle esigenze
della scienza e riproponendo le sue tesi fondamentali nei confronti di problemi
specifici, come quello della libertà, dell'anima, della vita, della moralità,
della religione, ecc. In tutte le sue forme tuttavia lo S. ha in comune alcune
tesi fondamentali, che discendono dal suo concetto della filosofia come analisi
della coscienza e che possono essere ricapitolate così: 1° la negazione della
realtà del mondo esterno cioè l’idealismo gnoseologico. Questa negazione può
essere più o meno condizionata o indiretta ma in ultima analisi è inevitabile
perchè una realtà esterna alla coscienza sarebbe, per definizione, inaccessi-
bile a questa e contraddirebbe all’impegno meto- dologico dello spiritualismo.
Pertanto, direttamente o indirettamente, questa dottrina riduce ogni realtà a
oggetto immediato di coscienza; 2° la conseguente riduzione della scienza a
conoscenza falsa o imperfetta o preparatoria. Gli spiritualisti più avveduti,
come Lotze e Bergson, hanno appunto ridotto la scienza a conoscenza
preparatoria; 3° il ritrovamento nella coscienza di dati adatti a costruire il
mondo della natura e il mondo della storia nel loro carattere finalistico o
prov- videnziale; 4° il ritrovamento nella coscienza, e quindi nel mondo della
natura e della storia, di dati adatti a risalite a Dio o a un principio divino
in qualche STATO sua specificazione che si accordi con la tradizione teologica
del cristianesimo; 5° la difesa della tradizione e delle istituzicetto classico
della libertà come causa sui: il che risulta anche chiaro dalla definizione di
Wolff, secondo la quale essa è «il principio intrinseco per deter- minarsi ad
agire » (Psychol. empirica, $ 933). Nello stesso significato, Kant parlò
dell’intelletto come della «S. della conoscenza» in quanto esso è «la facoltà
di produrre da sè rappresentazioni » (Critica della R. Pura, Logica
trascendentale, Introd., I). In questo senso S. si oppone a ricettività (v.) o
pas- sività (v.), mentre è sinonimo di artività; che è il termine oggi più
frequentemente adoperato per indi- care un processo o un mutamento che è causa
sui, cioè che non ha la sua causa fuori di sè. Come libertà ha inteso la S.
anche Heidegger che pertanto l’ha identificata con la trascendenza in cui
consiste la libertà finita dell’uomo: « L'essenza del se-stesso (l’ipseità),
cioè l’essenza di quel se stesso che giace già nel fondo di ogni S., consiste
nella trascendenza... Solo perchè la libertà costituisce la trascendenza essa
si può rivelare, nell’esserci che esiste, come modo particolare della causalità
cioè come auto- causalità » (Vom Wesen des Grundes, 1929, III; trad. ital, pag.
65). 53 — ARBAGNANO, Dizionario di filosofia. STADIO (gr. otàsuoy; lat.
Stadium; ingl. Sta- dium; franc. Stade; ted. Stadium). L'ultimo dei quattro
argomenti di Zenone d’Elea contro il mo- vimento. Esso può essere espresso nel
modo se- guente: Due masse uguali, dotate di velocità uguali dovrebbero
percorrere spazi uguali in tempi uguali. Ma se due masse si muovono incontro
dalle estre- mità opposte dello S., ognuna di esse impiega a percorrere la
lunghezza dell’altra la metà del tempo che impiegherebbero se una di esse fosse
ferma: da ciò Zenone traeva la conclusione che la metà del tempo è uguale al
doppio (ARIST., Fis., VI, 9, 239 b 33). L'argomento torna a dire che, se si
ammette la realtà del movimento, si ammette l’equi- valenza di un tempo metà al
tempo doppio. Vedi ACHILLE; DICOTOMIA; FRECCIA. STATALISMO (franc. Érarisme).
In senso proprio la dottrina che considera lo Stato come unica fonte del
diritto. In senso generico, ogni indirizzo politico che attribuisce allo Stato
fun- zioni o poteri preponderanti in un qualsiasi campo dell’attività umana.
STATICA. V. MECCANICISMO, 1, a). STATISTICA (ingl. Statistics; franc. Statis-
tique; ted. Statistik). La raccolta e l’interpretazione dei dati numerici in un
determinato campo; op- pure in generale la scienza che ha per oggetto i metodi
per la raccolta e l’interpretazione dei dati numerici. Nata sul terreno
dell’osservazione dei fatti sociali, la S. si è ora estesa a numerosi campi
d'indagine e in primo luogo al dominio della fisica, dapprima per la
formulazione di teorie speciali (la teoria cinetica dei gas) poi per la
formulazione delle leggi della meccanica quantica. Il concetto di legge S. cioè
della relativa uniformità della fre- quenza di un certo evento, quando l’evento
stesso è considerato su una scala numerica abbastanza estesa, è stato per la
prima volta formulato dal- l’astronomo e matento comincia col determinare quali
sono le parti e le funzioni dello S. per procedere poi a determinare le parti e
le funzioni dell’individuo (/bid., IV, 434 e). Questo è un modo di esprimere la
priorità dello S.: la struttura dello S. è la stessa di quella dell’uomo, ma è
più evidente. Aristotele, a sua volta, affer- mava: « Lo S. esiste per natura
ed è anteriore al- l’individuo, perchè, se l’individuo di per sè non è
autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui sono le
altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non
ha bisogno di nulla in quanto basta a se stesso, non è membro di uno S., ma è
una belva o un Dio» (Pol., I, 2, 1253 a 18). Queste considerazioni aristote-
liche sono state ripetute molte volte nella storia della filosofia (cfr., ad
es., S. TOMMASO, De Regi- mine Principum, I; DANTE, De Monarchia, I, 3); ma nel
mondo moderno hanno assunto nuova forza solo per opera del Romanticismo che
insi- stette sul carattere superiore e divino dello stato. Già Fichte diceva: «
Nella nostra età, più che in ogni altro tempo precedente, ogni cittadino con
tutte le sue forze, è sottomesso alla finalità dello S., è completamente
penetrato da esso ed è divenuto suo strumento » (Grundziige des gegenwdrtigen
Zeit- alters, 1806, X). Ma nel modo più semplice ed estremo questa concezione
fu formulata da Hegel, che identificò lo S. con Dio: « L’ingresso di Dio nel
mondo è lo S.: il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza
come volontà. Nel- rfetta, l’autosufficienza e la supremazia asso- luta possono
essere nel modo migliore ricapitolati proprio nella tesi di Hegel: lo S. è Dio.
Non sempre tuttavia la tesi organicistica è stata formulata in modo così
rigoroso ed estremo: il primato ricono- sciuto allo S. rispetto agli individui
e l’autosuffi- cienza dello S. non sempre hanno persuaso a con- siderare lo S.
come Dio stesso; ma sempre hanno portato a considerarlo come qualcosa di divino,
che giustificasse la soggezione degli individui ri- spetto ad esso. Il fine che
ogni concezione organi- cistica si è sempre proposto è stato bene espresso da
O. Gierke: « Solamente dal valore superiore del tutto in confronto con quello
delle parti può farsi derivare l’obbligo del cittadino di vivere e, se
necessario, di morire per il tutto. Se il popolo fosse solo la somma dei suoi
membri e lo S. solo un’istituzione per il benessere dei cittadini, nati e
nascituri, allora l’individuo potrebbe, è vero, esser costretto a dare la sua
energia e la sua vita per lo S., ma non avrebbe alcun obbligo morale di farlo»
(Das Wesen der menschlichen Verbànden, 1902, pag. 34 sgg.). 2° Per la
concezione atomistica o contrattua- listica lo S. è opera umana: non ha dignità
o ca- ratteri che non gli siano stati conferiti dagli individui che l’hanno
prodotto. Fu questa la concezione dello S. propria degli Stoici che lo
consideravano res populi. Dice Cicerone: «Lo S. (res publica) è cosa del popolo
e il popolo non è qualsiasi agglo- merato di uomini riunito in un modo
qualsiasi, ma i suoi membri o le sue parti, ma è l’unità di un patto o di una
convenzione e vale solo nei limiti di validità del patto o della convenzione.
Talvolta tuttavia sul tronco stesso del contrattua- lismo si innestano le
esigenze proprie dell’organi- cismo: così accade, per es., in Rousseau quando
afferma che «la volontà generale non può errare ». Rousseau infatti distingue
tra la volontà di tutti e la volontà generale: « Quella guarda soltanto al- l’interesse
comune, questa guarda all’interesse pri- vato ed è la somma delle volontà
particolari; ma togliete da queste volontà il più e il meno che si distruggono
tra loro e resta per somma delle dif- ferenze la volontà generale » (Contrat
social, II, 3). Per quanto giustificata come semplice somma al- gebrica delle
volontà particolari, la «volontà gene- rale» di Rousseau, con la sua
infallibilità, assomiglia molto alla razionalità perfetta dello S. organico. 3°
Le precedenti due concezioni dello S. hanno in comune il riconoscimento di
quello che i giu- risti oggi chiamano l’aspetto sociologico dello S., cioè il
riconoscimento della realtà sociale di esso, considerato, in primo luogo, come
una comunità cioè un gruppo sociale residente su un determinato territorio.
Questo riconoscimento è stato assunto a fondamento di quella descrizione dello
S. che giuristi e filosofi del sec. xx hanno formulato (quale che fosse il loro
concetto filosofico di S.) e che si esprime dicendo che lo S. ha tre elementi o
proprietà caratteristiche: la sovranità o il potere preponderante o supremo; il
suo popolo e il suo territorio. Questi tre aspetti o elementi venivano
illustrati e descritti singolarmente e indipendente- mente l’uno dall’altro
nonchè indipendentemente dal concetto filosofico di S. cui si faceva implici-
tamente o esplicitamente riferimento. La migliore espressione a questo punto di
vista fu data da Jellinek (Allgemeine Staatslehre, 1900), ma esso è stato
ripetuto e illustrato innumerevoli volte (cfr., ad es., W. W. WiLoucHBY, The
Fundamental Concepts of Public Law, 1924). L'aspetto socio- logico dello S. è
invece negato da H. Kelsen; e questa negazione è la caratteristica fondamentale
del suo formalismo. Lo S. è per Kelsen semplice- mente l’ordinamento giuridico
nel suo carattere normativo o coercitivo. « Vi è un solo concetto giuridico
dello S., dice Kelsen: lo S. come ordina- mento giuridico (accentrato). Il
concetto sociologico di un modello effettivo di comportamento orientato verso
l’ordinamento giuridico, non è un concetto dello S. ma presuppone il concetto
dello S., che è il concetto giuridico » (Genera! Theory of Law and State, 1945;
trad. ital., pag. 192). In altri termini lo S. «è una società politicamente
organizzata perchè è una comunità costituita da un ordina- mento coercitivo, e
questo ordinamento coercitivo è il diritto» (/bid., pag. 194). Kelsen non nega
naturalmente che esistano fatti, azioni o compor- tamenti più o meno connessi
con l’ordinamento giuridico statale ma afferma che tali fatti, azioni o comportamenti
sono manifestazioni dello S. solo in quanto sono interpretati «secondo un
ordina- mento normativo, la cui validità deve venire pre- supposta » (/bid.,
pag. 193). Questa dottrina si presta a definire in modo semplice ed elegante
gli elementi tradizionalmente riconosciuti propri dello Stato. Il territorio
non è altro che «la sfera terri- toriale di validità dell’ordinamento giuridico
chia- mato S. Il l diritto (v.) lascia aperta la strada alla considerazione
dell’efficacia (e perciò dei limiti) della tecnica coercitiva in ognuna delle
sue fasi o manifestazioni, cioè degli ordinamenti in cui si concreta. Quando
Humboldt parlava dei «limiti dell’azione dello S.» (Die Grenzen der Wirksamkeit
des Staates, 1851) fon- dava tali limiti proprio sulla impossibilità, in cui lo
S. si trova, di raggiungere certi fini col solo mezzo di cui dispone, cioè con
la tecnica coercitiva. Per tale motivo Humboldt poneva al di là dei limiti
dell’azione dello S. la religione, il miglioramento dei costumi e l’educazione
morale: cose che dipen- dono da una disposizione non controllabile con gli
strumenti di cui lo S. dispone. Dall'altro lato lo S., come ordinamento
giuridie state of affairs. L'espressione tedesca fu introdotta da Husserl nelle
Logische Un- tersuchungen, (1901, II, 1, pag. 472 sgg.) e da lui definita come
il correlato oggettivo del giudizio (cfr. Ideen, I, $ 6). La nozione fu
accettata da Witt- genstein, che intendeva per essa «una combinazione di
oggetti (entità, cose)» (Tractatus, 2). È questa espressione che viene a volte
tradotta con « fatto atomico ». Ma per quanto lo S. di cose di cui parla
Wittgenstein sia un elemento indivisibile del mondo, l’espressione « fatto
atomico » non tra- duce alla lettera quella originale. La critica di Bergson
alla concezione che la psicologia dell’800 dava della vita psichica nel suo
insieme, s’impernia sul concetto di S., consi- derato da Bergson come una forma
o un’istantanea immobile presa sul divenire (cfr. specialmente Évol. créatr.,
cap. IV, e l’analisi del « meccanismo cine- matografico del pensiero »). In
realtà la nozione di S. non include per nulla quella di riposo o di im-
mobilità ma piuttosto quella del rapporto di og- getti tra loro nell’insieme di
una situazione. Per Stato di natura v. NATURA, STATO DI. STATUA (ingl. Statue;
franc. Statue; tedesco Statue). L'ipotesi immaginata da Condillac per
dimostrare la derivazione di tutte le attività psi- chiche dalla sensazione. «
Immaginammo, dice Con- dillac, una statua organizzata internamente come noi e
animata da uno spirito privo di ogni specie di idee. Supponemmo pure che
l’esterno tutto di marmo non le permettesse l’uso dei suoi sensi e ci
riservammo la libertà di aprirli, a nostra scelta, alle diverse impressioni di
cui sono ca- paci» (7raité des sensations, 1754, Pref.). STATUS. Condizione o
modo d'essere: spe- cialmente in senso sociologico, come appartenenza a un
determinato strato sociale. STATUTO (ingl. Statute; franc. Statut; tede- sco
Statut). Un insieme di norme che definiscono lo stato, cioè la condizione o il
modo d'essere, di un gruppo sociale. STILE (ingl. Style; franc. Style; ted.
Stil). L'insieme dei caratteri che distinguono dalle altre una determinata
forma espressiva. Alla sua origine, nel *700, la nozione di stile trovò la sua
espressione nel motto francese, /e style c'est l'homme méme e venne considerata
come l’apparizione nella forma espressiva dei caratteri propri del soggetto,
nella sua relazione col materiale adoperato. Hegel ri- tenne troppo ristretta
questa concezione e incluse nello S. anche le determinazioni che derivano alla
forma espressiva dalle condizioni proprie dell’arte di cui si tratta: nel qual
senso si può distinguere, ad es., nella musica lo S. ecclesiastico e lo S.
operistico, e nella pittura lo S. storico e lo S. generico, ecc. (Vorlesungen
iiber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 394-95). In questo senso lo S.
sarebbe, non l’uomo, ma la cosa stessa. In ogni caso, tuttavia, lo S. sarebbe
una certa uni- formità di caratteri, riscontrabile in un determi- nato dominio
del mondo espressivo. «Lo S. ci si rivela come un’unità di forme, di accenti e
di at- teggiamenti dominanti in una complessa varietà formale e di cCosì
Hamilton chiamò la parte della logica che studia le parti elementari o
costituenti dei processi del pen- siero. Egli divise la S. in noetica,
ennoematica, apofantica e dottrina del ragionamento (Lectures on Logic, I, pag.
72). STOICISMO (ingl. Stoicism; franc. Stofcisme; ted. Stoizismus). Una delle
grandi scuole filoso- fiche dell’età ellenistica, cosiddetta dal portico dipinto
(Stod poikile) nel quale fu fondata, intorno al 300 a. C., da Zenone di Cizio.
I principali maestri della scuola furono, oltre Zenone, Cleante di Asso e
Crisippo di Soli. Lo S. condivise con le scuole contemporanee, epicureismo e
scetticismo, l'affer- mazione del primato del problema morale sui pro- blemi
teoretici e il concetto della filosofia come delle cure e delle emozioni della
vita comune. Il suo ideale è pertanto quello della ararassia (v.) o apatia
(v.). I capisaldi dell’insegnamento stoico possono essere ricapitolati nel modo
seguente: 1° la divisione della filosofia in tre parti: la logica, la fisica e
l’etica (v. FILOSOFIA); 2° la concezione della logica come dialettica cioè come
scienza di ragionamenti ipotetici, la cui premessa esprime uno stato di fatto
immediata- mente percepito (v. ANAPODITTICO; DIALETTICA); 3° la teoria dei
segni che doveva costituire il modello della logica terministica medievale e
l’ante- cedente della semiotica moderna (v. SEMIOTICA; SIGNIFICATO); 4° il
concetto di una Ragione divina che il mondo e tutte le cose nel mondo secondo
un ordine necessario e perfetto (v. DestINo; Li- BERTÀ; NECESSITARISMO); 5° la
dottrina che, come l’animale è guidato infallibilmente dall’istinto, così
l’uomo è guidato infallibilmente dalla ragione; e che la ragione gli fornisce
norme infallibili d’azione che costitui- scono il diritto naturale (v. DIRITTO;
ISTINTO); 6° la condanna totale di tutte le emozioni e l’esaltazione
dell’apatia come ideale del saggio (v. APATIA; EMOZIONI); 7° il cosmopolitismo
(v.) cioè la dottrina che l’uomo è cittadino non di un paese ma del mondo; 8°
l’esaltazione della figura del sapiente e il suo isolamento dagli altri, con la
distinzione tra pazzi e savi (v. SAPIENTE; SAPIENZA); La dottrina stoica è
stata, accanto a quella ari- stotelica, la filosofia che ha avuto maggiore in-
fluenza nella storia del pensiero occidentale. Molti dei capisaldi enunciati
costituiscono ancora parti integranti di dottrine moderne e contemporanee.
STORIA (gr. iotopla; lat. Historia; ingl. History; franc. Histoire; ted.
Geschichte). Il termine, che in generale significa indagine, informazione o
reso- conto e che già in greco veniva usato a indicare il resoconto o la
narrazione dei fatti umani, pre- senta oggi un’ambiguità fondamentale: significa,
da un lato, la conoscenza di tali fatti o la scienza che disciplina e dirige
questa conoscenza (historia rerum gestarum); dall’altro i fatti stessi o un in-
sieme o la totalità di essi (res gestae). Questa ambiguità ricorre in tutte le
lingue colte moderne (cfr. H. I. MarROU, De la connaissance historique, 1954,
pag. 38-39). Ma poichè in italiano è prevalso l’uso di indicare con il termine
storiografia la cono- scenza storica in generale o la scienza della S. (non già
l’arte di scrivere S.) si può porre sotto questa voce la trattazione dei
significati storica- mente attribuiti alla S. come conoscenza e com- prendere
sotto il termine S. solo i significati che sono stati dati alla realtà storica
come tale. Tali significati sono i seguenti: 1° la S. come passato; 2° la S.
come tradizione; 3° la S. come mondo storico; 4° la S. come oggetto della
storiografia. 1° Che la S. sia interpretata come passato può essere a buon
diritto ritenuta una tautologia; ma il senso in cui Heidegger ha inteso questa
inter- pretazione (Sein und Zeit, $ 73), non appare pu- ramente tautologico.
Quando si dice « Questa cosa appartiene alla S. » s'intende infatti che
appartiene al passato e ad un passato che ha scarsa efficacia sul presente.
Dall’altro lato, quando si dice « Non ci si può sottrarre alla S.»: s'intende
ancora la S. come passato ma come passato che agisce inevi- tabilmente sul
presente. Così pure dire che « Qual- cosa ha S.» significa affermare che ha un
passato ed è frutto di questo passato. In queste e simili espressioni, il
significato del termine rimane estre- mamente generico: rimanda ad una
dimensione del tempo e alle relazioni che possono stabilirsi tra essa e le
altre dimensioni. 2° In secondo luogo, la S. può essere intesa come tradizione
cioè come tramandarsi e conser- varsi, attraverso il tempo, di credenze e di
tec- niche: sia che tale tramandarsi possa ente reale solo nell’esistenza, il
suo esser un fatto si costi- tuisce soltanto e proprio nel deciso autoproget-
tarsi su un pofer essere che è già stato scelto. Ma allora ciò che è stato
autenticamente un fatto, è la possibilità esistentiva in cui si determinano
effet- tivamente destino, destino comune e mondana- mente storico » (/bid., $
76). Talvolta però la tra- dizione viene intesa come conservazione infallibile
e progressiva di ogni risultato o conquista umana; e in tal caso il concetto di
essa si identifica con quello della S. come piano provvidenziale (vedi
TRADIZIONE). 3° Il terzo significato di S. è quello filosofi- camente più
rilevante; per esso la S. è il mondo storico: la totalità dei modi d’essere e
delle crea- zioni umane nel mondo oppure la totalità della « vita spirituale» o
delle culture. La S. viene in questo senso a contrapporsi a «natura», che è la
totalità di ciò che è indipendente dall'uomo o non può essere considerato come
sua produzione o creazione; ma rimane imparentata con la natura stessa per il
suo carattere di totalità, di mondo. È nell’ambito di questo concetto che si
possono 838 distinguere le interpretazioni « filosofiche » della S. cioè quelle
che costituiscono la cosiddetta « filosofia della S. ». Tra tali
interpretazioni, le principali pos- sono essere considerate le seguenti: a) la
S. come decadenza; 5) la S. come ciclo; c) la S. come regno del caso; d) la S.
come progresso; e) la S. come ordine provvidenziale. a) L’interpretazione della
S. come decadenza è propria dell’antichità che la espresse con la dot- trina
delle erà (v.) del genere umano. La succes- sione delle cinque età descritta da
Esiodo va dal- l’età dell’oro, nella quale gli uomini « vivevano come dei»
all’erd degli uomini, in cui essi sono soggetti a ogni sorta di mali,
attraverso l’età del- l’argento, del bronzo e degli eroi, che segnano la
graduale decadenza dello stato del genere umano (Op., 109-79). Platone ridusse
a tre le età, enumerando soltanto l’età degli dei, degli eroi e degli uomini,
ma conservando il carattere di successiva decadenza che queste età presentano
nelle condizioni materiali e morali degli uomini stessi (Critia, 109 b, sgg.).
Quando questa dottrina delle età viene ripresa nel mondo moderno (per es., da
Vico, da Fichte, ecc.) ha perso il suo significato pessimistico ed è diven-
tato ottimistica: le età sono in un ordine di pro- gresso anzichè di decadenza.
Ma non c’è dubbio che, presso i Greci, questa dottrina costituisca una
interpretazione della S. come decadenza (v. ETÀ). b) La nozione della S. come
ciclo (v.) è le- gata a quella del ciclo del mondo assai diffusa nel-
l’antichità greca. Che la ripetizione del ciclo co- smico includesse la ripetizione
della S. umana nel suo complesso, ci viene testimoniato a proposito degli
Stoici. Secondo costoro, infatti, in ogni nuovo ciclo del mondo, «vi sarà di
nuovo Socrate, di nuovo Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi
amici e concittadini; le stesse cose credute e gli stessi argomenti discussi e
ogni città o villaggio e campagna ritornerà ugualmente » (NE- MESsIO, De Nat.
Hom., 38). Una ripresa moderna di questo concetto della S. si può vedere
nell’opera di Spengler. I cicli storici, le culture, non si ripe- tono, secondo
Spengler, identicamente, come rite- nevano gli Stoici; ma si ripete
identicamente la loro forma: il loro nascere crescere e morire. «Ogni cultura,
ogni suo sorgere, ogni progredire e ogni declinare, ognuno dei suoi gradi e dei
suoi periodi interamente necessari ha una durata deter- minata, sempre uguale,
sempre ricorrente con la forma di un simbolo » (Der Untergang des Abend-
landes, 1932, I, pag. 147) (v. CicLo). c) Il concetto della S. come regno del
caso non è frequente nell’interpretazione filosofica della storia. Sembra
tuttavia che Aristotele non sia stato molto lontano da esso quando contrappose
lo sto- rico al poeta e ritenne proprio di quest’ultimo rappresentare
l’universale, cioè «le cose quali po- trebbero accadere secondo verisimiglianza
e neces- sità » mentre ritenne proprio dello storico rappre- sentare le cose
«realmente accadute», cioè «il particolare » e, per es., «che cosa Achille fece
e che cosa gli capitò» (Poetica, 1X, 1451b 2-10). Non bisogna infatti
dimenticare che solo l’universale è, secondo Aristotele, oggetto di conoscenza
scien- tifica e che il particolare come tale cade fuori della scienza (Met.,
III, 6, 1003 a 15). Più esplicitamente Schopenhauer diceva: « La S. del genere
umano, la folla degli eventi, il mutare dei tempi, i molteplici aspetti della
vita umana in paesi e secoli diversi, tutto questo non è se non la forma
casuale presa dal manifestarsi dell’Idea e non appartiene a questa, nella quale
soltanto è l’adeguata oggettività della volontà, ma solo al fenomeno che cade
nella co- noscenza dell’individuo; ed è tanto estranea, ines- senziale e
indifferente all’Idea quanto sono estranee alle nubi le figure che
rappresentano, al fiume la forma dei suoi gorghi e delle sue spume e al ghiac-
cio le sue figure di alberi e fiori» (Die Welt, I, $ 35). Non si può
considerare invece sotto questa rubrica il concetto della S. che Machiavelli
espresse dicendo che «la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma
che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi»; e paragonando
la fortuna stessa a un fiume che quando si adira travolge tutto ma il cui
impeto non riesce dannoso o riesce meno rovinoso quando l’uomo provvede per
tempo a farvi ripari e argini (Princ., 25). La «fortuna» è, di fatti, per
Machiavelli, l’insieme delle condizioni che limitano, ostacolano o frustrano
l’azione dell’uomo nella S. ma non è la totalità della storia. Agostino Cournot
si servì invece del caso per definire il dominio proprio della S., che egli
contrappose a quello della natura, che è invece il dominio del- l’ordine e
della legge (Essai sur les fondements de la connaissance, 1851). d) Il concetto
della S. come progresso ha come sua caratteristica l’affermazione del carattere
problematico o non inevitabile del progresso stesso; giacchè se il progresso è
necessario la S. è piuttosto un ordine provvidenziale di cui tutti i momenti
sono egualmente perfetti in quanto tutti indispensabili alla perfezione o al
perfezionamento dell’insieme. La S. come progresso problematico è un’idea illu-
ministica; e suppone una misura del progresso stesso cioè una norma o un ideale
cui la S. cerca di avvicinarsi o che essa cerca di realizzare ma che non trova
mai in essa un’adeguazione per- fetta. G. B. Vico ha espresso questo ideale nel
con- cetto di una S. ideale eterna «sopra la quale, egli disse, corrono in
tempo le S. di tutte le nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati,
decadenze e fini » (Sc. Nuova, De’ princìpi). La S. ideale eterna è l’ordine
universale ed eterno che la S. temporale, o anzi le varie S. temporali dei vari
tempi e nazioni, tendono ad adeguare, senza mai riuscirvi perfetta- mente e
anzi talvolta precipitando nella confusione e nella rovina (/bid., Conchiusione
dell’opera). Vico intendeva la storia ideale eterna come la succes- sione
progressiva di tre età (degli dei, degli eroi e degli uomini) e la permanenza
indefinita nell’ul- tima, che è la conclusione del ciclo. Voltaire con- siderò
invece come norma e misura del progresso storico l’illuminismo: la liberazione
della ragione umana dai pregiudizi e il suo porsi come guida della vita singola
e associata dell’uomo (cfr. spe- cialmente il Essai sur les maurs, 1740;
Philosophie de l’histoire, 1765). Kant seguì lo stesso criterio, sug- gerendolo
tuttavia soltanto come un « filo condut- tore » per orientarsi filosoficamente
nella S. dei po- poli. Egli scrisse: « A misura che le limitazioni all’attività
personale saranno tolte, che a tutti sarà riconosciuta la libertà religiosa, si
produrrà per gradi, pur con intervalli di illusioni e fantasie, l’illumi- nismo
come un gran bene che la specie umana può derivare perfino dalle mire ambiziose
di potenza dei suoi dominatori» (/dee zu einer allgemeinen Ge- schichte, 1784,
tesi VIII). Secondo Jaspers, l’unico fine progettabile della S. è l’unità
dell'umanità rag- giungibile non già attraverso la scienza o l’unifor- mità
linguistica o culturale ma soltanto attraverso «l’illimitata comunicazione di
ciò che è diverso storicamente, quale può realizzarsi in un dialogo incessantemente
condotto al livello di una lotta amorevole » (Vom Ursprung und Ziel der
Geschichte, 1949). Altri criteri o norme possono certo essere proposti o stati
proposti come misura del progresso nella S.; ma le caratteristiche di questa
nozione non mutano finchè non si ammetta l’inevitabilità del progresso. e) Con
l’affermazione dell’inevitabilità del progresso, il progresso stesso diventa
inconcepibile (come Hegel vide): giacchè se la S. è necessaria, ogni momento di
essa è tutto ciò che dev'essere e non può essere migliore o peggiore degli
altri. La concezione della necessità della S. è la conce- zione della S. come
piano provvidenziale. La nozione di piano provvidenziale è implicita in ogni
mifle- narismo o chiliasmo (v.): ogni dottrina siffatta in- clude l’idea di uno
sviluppo necessario degli eventi umani, sino al raggiungimento di uno stato
defi- nitivo di perfezione. Questo fu, per es., il concetto che della S. ebbe
Origene: che considerò i mondi succedentisi nel tempo come altrettante scuole
nelle quali si rieducano gli esseri decaduti (De Princ., IH, 6, 3); e vide nel
ciclo complessivo della S. il ritorno a Dio del mondo, che culmina nell’apoca-
tastasi, cioè nella restituzione di tutti gli esseri alla loro perfezione
originaria (In Johann, XX, 7). Ma il primo a formulare chiaramente il concetto
del piano provvidenziale è stato S. Agostino. Questi vide nella S. la lotta tra
la città celeste e la città terrena: lotta destinata a finire con il trionfo
della città celeste. A questo trionfo, secondo S. Agostino, Dio fa contribuire
anche il male e la volontà catdell’intelligenza piena della verità di- vina
(Concordia novi et veteris testamenti, V, 84, 112). Tuttavia il piano
provvidenziale della S., per quanto infallibile e necessario, è, dal punto di vista
religioso, imperscrutabile nei suoi particolari. L’uomo religioso crede in esso
e nella sua perfe- zione; ma sa di non poter comprendere le vie attraverso le
quali si va realizzando. Posto di fronte al male, egli ha fiducia che il male
da ultimo non trionferà, ma come ciò avvenga o possa av- venire, sa di non
poter dire. Quando la dottrina del piano provvidenziale della S. si trasforma,
nel Romanticismo, in dottrina filosofica, il non sapere religioso si trasforma
in certezza razionale. Hegel ha più volte affermato che la differenza tra
religione e filosofia è che la seconda dimostra nella sua de- terminazione
quella relazione tra Dio e il mondo, quel piano provvidenziale, che la prima si
limita solo a riconoscere (Enc., $ 573; Philosophie der Geschichte, ed. Lasson,
I, pag. 55). L'ingresso di questa nozione in filosofia è però in primo luogo
opera di Fichte. Nei Caratteri dell’età contempo- ranea (1806) Fichte affermava
energicamente la necessità della S. e la riduzione di essa a un piano
provvidenziale. « Qualsiasi cosa realmente esiste, egli diceva, esiste per
assoluta necessità: ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui esiste
» (Ibid., IX). E distingueva, nel progressivo incivili- mento della specie
umana, due elementi: un ele- mento a priori che è il piano del mondo o l’ordine
provvidenziale e un elemento a posteriori o tempo- rale od empirico, costituito
dai fatti. La risultante di questa concezione è che: « Nulla è come è perchè
Dio vuole arbitrariamente così, ma perchè Dio non può manifestarsi altrimenti.
Riconoscere questo, sottomettersi umilmente ed essere beati, nella co- scienza
della nostra identità con la forza divina, è compito di ogni uomo» (/bid., IX;
trad. ital., Cantoni, pag. 67). Con questa distinzione Fichte sembra riconoscere
ai «fatti» della S. una certa autonomia (per quanto fittizia) di fronte al
piano provvidenziale di cui devono entrare a far parte. Ma anche questa
fittizia autonomia dei fatti spa- risce nella dottrina di Hegel. « Dio prevale,
dice Hegel, e la S. del mondo non rappresenta altro che il piano della prov-
mente e gradualmente» e distingueva tre periodi: quello in cui la provvidenza
appare come destino o forza cieca; quello in cui appare come natura e infine
quello in cui appare come provvidenza (System des transzendentalen Idealismus,
sez. IV, Aggiunte, III C; trad. ital., pag. 283 sgg.). Il con- cetto di
rivelazione è stato adoperato frequentemente nel tardo Romanticismo del sec.
xrx e nello spiri- tualismo e idealismo del sec. xx. In queste sue manifestazioni,
ha conservato la connessione con l’idea di progresso che Schelling gli aveva
ricono- sciuta. Tale connessione non gli è tuttavia indi- spensabile. La
rivelazione di Dio nella S. può essere non graduale, ma totale e completa in
ogni punto della S. stessa. Ogni epoca, ogni momento di essa è in questo caso
una rivelazione compiuta di Dio, secondo il detto di Goethe: « L’attimo è
l’eternità » e secondo la frase dello storico Ranke « Ogni epoca è in immediata
relazione con Dio +». In questa forma il concetto romantico della S. come
ordine prov- videnziale è stato accettato anche da alcuni storicisti tedeschi
come E. Troeltsch (Der Historismus und seine Probleme, 1922) e F. Meinecke (Die
Entste- hung des Historismus, 1936; Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der
Geschichte, 1939), preoc- cupati di salvare l’assolutezza dei valori e il
carat- tere divino del cristianesimo dalla mobilità e rela- tività della S.
(cfr. Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1956, parte VI).
Dall'altro lato non è indispensabile che il con- cetto della S. come ordine
provvidenziale si fondi sulla credenza in una provvidenza, immanente o
trascendente, di natura divina. « Ordine provviden- ziale » significa «ordine
necessario e perfetto »: e un ordine siffatto è riconosciuto proprio della S.
anche da dottrine che negano il concetto religioso della provvidenza, come il
positivismo sociale e il marxismo. Augusto Comte considerava la S. come lo
sviluppo progressivo dell'Umanità o Grande Essere che è «l’insieme degli esseri
passati, futuri e presenti che concorrono liberamente a perfezio- nare l’ordine
universale » (Politique positive, 1854, IV, pag. 30). E riconosceva a De
Maistre il me- rito di aver concorso a preparare la vera teoria del progresso
con la sua rivalutazione del Medio Evo: giacchè solo dopo questa nozione con-
sente infatti di parlare della S. come di un oggetto unico e semplice,
valutabile nel suo complesso una volta per tutte. La nozione di mondo storico,
come tutte le nozioni totalitarie e la nozione stessa di mondo (v.), è al di là
delle capacità effettive di indagine e di intelligenza di cui l’uomo dispone.
La S., come oggetto della storiografia non è mai un mondo in questo senso, cioè
la totalità assoluta degli eventi umani. Un periodo storico o un in- sieme di
istituzioni è detto talvolta un mondo (per es., il «mondo antico» o il «mondo
orien- tale », ecc.) soltanto nel senso di una totalità rela- tivamente
omogenea di culture e non in senso asso- luto. La stessa espressione « mondo
storico» se riceve il significato di «oggetto generale delle di- scipline
storiografiche » designa, non una totalità assoluta, ma il campo relativamente
omogeneo in cui vengono ad operare e a incontrarsi le tecniche delle discipline
storiografiche. Quando perciò come «realtà storica » s’intenda semplicemente
l’oggetto della conoscenza storica, si rinunzia ipso facto al concetto di mondo
storico come totalità assoluta e ad ogni giudizio su questa totalità. Si
rinuncia, anche, a considerare rurti i fatti come fatti storici: giacchè l’affermazione
che tutti i fatti sono storici (che ricorre, per es., in CROCE, La S. come
pensiero e come azione, 1938, pag. 19) non è che un altro modo di esprimere la
nozione della S. come totalità assoluta. Dall’altro lato, se la S. non è il
mondo storico, non esiste /a storia. Odi irrepetibile. Il riconoscimento
esplicito di questo carattere è dovuto allo storicismo tedesco. Già affermato
da Dilthey (Gesammelte Schriften, V, pag. 236) esso fu sottolineato da
Windelband (Prà- ludien, II°, pag. 145) e da Rickert (Die Grenzen der
naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, 1896-1902, pag. 251, 420, ecc.) come
una conseguenza della di- stinzione tra il procedimento generalizzante delle
scienze della natura e il procedimento individuante delle scienze dello spirito.
Questo carattere della S. ha suscitato talora la diffidenza dei metodologi
perchè è apparso come un carattere « metafisico » (cfr., ad es., C. G. HEMPEL,
in Readings in Philo- sophical Analysis, ed. Feigl e Sellars, 1949, pag. 461;
GARDINER, The Nature of Historical Explanatiohe non è nè individuato nè
connesso sufficientemente con altri fatti, nè si- nificante. STORIA IDEALE
ETERNA. V. STORIA. STORIA UNIVERSALE. V. STORIOGRAFIA. STORICHE, FONTI (ingl.
Historical Sources; franc. Sources historiques; ted. Historische Quellen). Con
questa espressione si indica comunemente il materiale della ricerca
storiografica. Le fonti S. sogliono dividersi in avanzi e tradizioni. Gli
avanzi sono: 1° i resti delle opere prodotte dall'uomo (case, ponti, teatri,
utensili, ecc.); 2° i modi di vita delle comunità (usi, costumi, ordinamenti
giuridici, politici, ecc.); 3° le opere letterarie e filosofiche; 4° i
documenti in generale. Gli avanzi che furono prodotti con l’intenzione di
tramandare il ricordo di un evento si chiamano monumenti. Tali sono i documenti
che ebbero lo scopo di testimoniare per l’avvenire la conclusione di una
faccenda e tali sono le iscrizioni, le me- daglie, le monete, ecc. Infine le
fonti di tradizione sono quelle me- diante le quali è stata tramandata la
memoria degli eventi passati e possono essere orali o scritte. (cfr. G. G. Droysen,
Grundzilge der Historik, 1882, $ 20-24). STORICISMO (ingl. Historicism; franc. Histo- ricisme; ted. Historismus). Con questo termine
che fu adoperato per la prima volta da Novalis (Werke, III, pag. 173) si
possono intendere tre indirizzi di- versi e cioè: 1° La dottrina che la realtà
è storia (cioè svolgimento razionalità e necessità) e che ogni conoscenza è
conoscenza storica, quale fu espressa da Hegel (cfr. specialmente Geschichte
der Philo- sophie, I, intr.) e da Croce (La storia come pensiero e come azione,
1938, pag. 51). Questa dottrina non è che la tesi fondamentale dell’idealismo
ro- mantico (v.): essa suppone la coincidenza di finito e infinito, del mondo e
di Dio, e considera pertanto la storia come la stessa realizzazione di Dio.
Essa si può chiamare S. assoluto. STORIA IDEALE ETERNA 2° Una variante della
precedente dottrina, che vede nella storia la rivelazione di Dio nel senso di
considerare ogni momento della storia stessa in diretto rapporto con Dio e
permeato dei valori trascendenti da Lui inclusi nella storia. È stato questo il
punto di vista sostenuto da E. Troeltsch e F. Meinecke [cfr. la voce STORIA, 3,
e)]. Si può chiamare questa dottrina S. fideistico perchè la rivelazione di Dio
nella storia avviene per essa sostanzialmente attraverso la fede. 3° La
dottrina che vede nelle unità di cui la storia costituisce la successione
(Epoche o Civiltà) organismi globali i cui elementi, necessariamente connessi,
possono vivere solo nell’insieme; ed af- ferma pertanto la relatività dei
valori (che sono appunto alcuni di tali elementi) all’unità storica cui
appartengono e la morte inevitabile di essi con la morte di questa. È questo il
punto di vista di Spengler e di altri e si può chiamare S. rela- tivistico.
Esiste anche, almeno come termine po- lemico, una nozione volgare di questo S.:
secondo la quale la storia sarebbe un movimento incessante che travolge tutto,
anche la verità e i valori, su- bito dopo l’attimo del loro fiorire. La
dottrina che più si avvicina a questa è quella difesa da G. Sim- mel ; secondo
il quale la vita è un fluire incessante che risolve e concilia ogni cosa entro
di sè: «Il bene e il male che facciamo e che riceviamo, il bello che ci allieta
e il brutto da cui fuggiamo, le serie compiute come quelle rimaste interrotte
nella nostra vita, tutte queste cose, per quanto possano di fatto
reciprocamente contrastare rientrano, come elementi della vita, come scene di
un de- stino, nella connessione dell'esperienza vissuta che si continua senza
posa e senza interruzione: in una vita, cioè, il cui senso, appunto come vita,
sovrasta a tutte le opposizioni che i suoi conte- nuti possono presentare
secondo altri criteri» (Hauptprobleme der Philosophie, 1910, IV; tradu- zione
ital., pag. 201). Lo stesso Simmel però am- metteva qualcosa che è più che vita
(v.) cioè la forma della vita stessa che emerge da essa e in essa ritorna
(Lebensanschauung, 1918, pag. 22-23). 4° L'indirizzo della filosofia tedesca che,
negli ultimi decenni dell’800 e nei primi del nostro secolo, ha dibattuto il
problema critico della storia. L’assurgere delle discipline storiche, nel corso
del sec. xIx, al rango di scienze faceva nascere nei loro confronti un problema
analogo a quello che Kant si era proposto nei confronti delle scienze naturali:
il problema della possibilità della scienza storica, cioè della sua validità.
Questo problema viene dibattuto in Germania a partire dagli scritti di Dilthey
e specialmente dalla Einleitung in die Geisteswquesti indirizzi non solo da
Dilthey, Win- delband e Rickhert ma anche da Simmel, Troeltsch e Meinecke; ma
ebbero il loro contributo più sostanziale da Max Weber che affrontò soprattutto
il problema della spiegazione storica e della cau- salità della storia.
L'eredità di questo indirizzo di studi, che ha iniziato l’elaborazione della
metodo- logia storica, è stata raccolta dai moderni meto- dologi della storia
(sui quali v. STORIOGRAFIA) (cfr., R. Aron, La philosophie critique de
l’histoire, Essais sur une théorie allemande de l’histoire, 2 ediz., 1950; P.
Rossi, Lo S. tedesco contemporaneo, 1956). STORICITÀ (ingl. Historicity; franc.
Histo- ricitè; ted. Geschichtlichkeit). 1. Il modo d’essere del mondo storico o
d’una qualsiasi realtà storica. 2. L'esisteme mondo. L’interpretazione di essa
come storia pluralistica corrisponde all’interpretazione della realtà storica
come oggetto definibile o accertabile solo attraverso gli strumenti di indagine
di cui si disponA) La storia universale o come meglio si di- rebbe cosmica
(ted. Weltgeschichte) è la cono- scenza del piano provvidenziale del mondo
storico (cfr. HeGeL, Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pa- gina 52). Essa ha
due caratteristiche fondamentali: 1° È opera del filosofo e non dello storico e
ad essa l’opera dello storico può servire solo come aiuto non indispensabile.
Fichte, che la chiama «storia @ priori», afferma: « Comprendere con chiara
intelligenza l’universale, l’assoluto, l’eterno e l’immutabile in quanto guida
la specie umana, è compito del filosofo. Fissare di fatto la sfera sempre
cangiante e mutevole dei fenomeni attraverso i quali procede la sicura marcia
della specie umana, è compito dello storico, le cui sco- perte sono solo
casualmente ricordate dal filo- sofo + (Grundziige des gegenwdrtigen
Zeitalters, 1806, IX; trad. ital., Cantoni, pag. 67). Ed Hegel, in po- lemica
contro i grandi storici del suo tempo, de- gradati a «filologi» (v. FiLoLogia),
affermava: «Per conoscere il sostanziale, bisogna accedervi da sè con la
ragione... La filosofia, nella certezza che ciò che impera è la ragione, sarà
convinta che l’accaduto troverà il suo luogo nel concetto e non altererà la
verità, come oggi è moda parti- colarmente presso i filologi che, con quel che
si dice acume, introducono nella sl’occhio del concetto, della ragione» e
perciò affidarsi a un modo di procedere rigorosamente aprioristico (Phil. der
Geschichte, 1, pag. 8). Croce parlava di una «anamnesi » dello Spirito
universale che tesse la storia e per il quale le fonti della storia stessa
servono solo come occasioni di ricordo (Teoria e storia della S., pag. 16). Lo
stesso Heidegger condi- vide questa concezione della storia cosmica. Egli av-
verte che « storia cosmica » significa in primo luogo «lo storicizzarsi del
mondo nella sua essenziale unità esistenziale con l’Esserci»; e in secondo
luogo «lo storicizzarsi intramondano degli stru- menti e delle cose» e che in
entrambi i sensi la storia cosmica è indipendente dalla conoscenza sto-
riografica (Sein und Zeit, $ 75) sicchè è la scelta implicita nella storicità
dell’Esserci a determinare la scelta storiografica. B) La S. pluralistica è
caratterizzata in primo luogo dall’abbandono di concetti come « mondo storico +
o « storia universale », e dal riconoscimento della pluralità delle forme della
conoscenza storica e della sua dipendenza dal materiale documen- tario
disponibile e dai princìpi che guidano la scelta storiografica. Da questo punto
di vista, la cono- scenza storica autentica verte sempre su oggetti delimitati
o delimitabili, mai sulla totalità della storia; e non è mai giudizio su tale
totalità sicchè esclude come privi di senso i concetti di progresso, di
decadenza, ecc., intesi in senso assoluto. Per quanto l’antichità greca ci
abbia lasciato esempi eccelto che 1’Umanesimo ha dato alla metodologia storica.
Giacchè mentre il Medio Evo ignorava la prospet- tiva storica, facendo dei
fatti e degli eventi più eterogenei e lontani fatti ed eventi contemporanei,
l’Umanesimo ha cercato di intendere il passato come passato, l’antichità come
antichità, l’altro come altro (cfr. E. Garin, Medioevo e Rina- scimento, 1954,
Il, 5). L'esigenza di «rivivere» il passato, di farlo «ritornare» sarebbe
falsifi- catrice della storia, se fosse presa alla lettera (cfr. H. I. Marrou,
De la connaissance histo- rique, 1954, pag. 43 sgg): come sarebbe falsifica-
trice, se fosse presa alla lettera l'esigenza affacciata da Croce (Teoria e
storia della S. pag. 3 sgg.; La storia come pensiero e come azione, 1938, pag.
5), che ogni storia sia intesa come « storia contempo- ranea +. Un corollario
dell’esigenza della prospet- STORIOGRAFIA tiva storica è il distacco dal
passato, che Nietzsche riteneva proprio della storia crifica (posta accanto
alla storia archeologica che «conserva e venera » e alla storia monumentale che
esalta e incoraggia, Unzeitgemàsse Betrachtungen, 1873, II) distacco che
Nietzsche intendeva come l’abbandono del passato e l’incamminarsi del presente
per nuove vie, e che è certamente uno degli insegnamenti della storio- grafia.
Ma c’è poi un distacco dal presente che è inerente all’atteggiamento
storiografico su cui in- sistette soprattutto l’Illuminismo e che fu espresso
da P. Bayle con famose parole: « Lo storico, egli diceva, deve dimenticare che
è di un certo paese, che è stato allevato in una certa comunità, che deve la
sua fortuna a questo o a quello e che questi e quegli altri sono i suoi parenti
o i suoi amici. Uno storico in quanto tale è, come Mel- chisedec, senza padre,
senza madre, senza genea- logia » (Dictionnaire, art. Usson, rem. F.). L'ideale
proposto da Bayle è difficile, per non dire impos- sibile, da realizzare
perchè, come gli storici oggi riconoscono (cfr. ad es., MARROU, Op. cif., cap.
Il) l’intervento attivo degli interessi e degli orienta- menti dello storico,
condiziona sempre, in qualche misura, i risultati della sua indagine e persino
la scoperta dei fatti. Tuttavia tutta la tecnica dell’in- dagine storiografica
tende, non già a disincarnare o a disumanare lo storico, come voleva Bayle, ma
a limitare e disciplinare l’intervento dei suoi interessi nella ricerca. 2° La
conoscenza storica è individuante perchè individuanti sono gli strumenti di cui
si avvale. L’individualità o l’unicità (irripetibilità) che è frequentemente
riconosciuta ai fatti storici è in realtà il riflesso in tali fatti degli
strumenti che li accertano (v. STORIA). In primo luogo ogni evento storico è
individuato dai due parametri fondamentali, cronologico e geografico. In
secondo luogo, il materiale documentario della S. ha carat- tere individuante.
Un documento, una moneta, un’iscrizione si riferiscono sempre, ognuno, ad un
unico fatto; e così una testimonianza. In terzo luogo, hanno carattere
individuante i criteri di scelta storiografica, perchè tendono a porre in evi-
dennel passato di ogni cosa cambia a misura che la cosa stessa cambia e si
sviluppa + (Op. cir., pag. 36). La scelta storiografica investe così in primo
luogo i fatti; ma essa investe anche e contempo- raneamente le ipotesi che sono
incorporate nello stesso accertamento dei fatti. La scelta di un’ipotesi non è
necessariamente suggerita allo storico dalle sue proprie simpatie o dai suoi
orientamenti; qualche volta, come accade nel caso di Tucidide, l’ipotesi che
egli prospetta e che trova verificata dai fatti è contraria a tutti i suoi desideri.
Il pluralismo delle scelte, cioè la possibilità di effettuare scelte storio-
grafiche differenti e di mutare e correggere quelle effettuate, è una delle
condizioni della conoscenza storica. I filosofi hanno tentato talvolta di
limitare, in linea di principio, la pluralità delle scelte; cioè di stabilire
un principio che orienti in ogni caso, unilateralmente, la selezione
storiografica. Così ha fatto Hegel affermando che la storia è « storia dello
spirito » e obbligando così la scelta dello storiografo a fermarsi sulle idee e
a dichiarare storicamente inesistente tutto il resto. Così ha fatto anche il
materialismo storico (v.) affermando che la storia è in primo luogo storia dei
« rapporti di produzione di lavoro » e che tutto il resto è « soprastruttura »
cioè non determina ma segue. Non c’è dubbio che questi tentativi di limitazione
della scelta storiogra- fica, e specialmente quello marxista, hanno polemi-
camente richiamato l’attenzione su fatti che potevano essertà di applicazione
nel dominio storiografico (come anche d’altronde nel dominio della fisica)
tende a prevalere tra i metodologi della storia. Lo scritto citato di W. Dray,
è in questo senso, par- ticolarmente significativo (v. su questo punto la voce
SPIEGAZIONE). La preferenza accordata alla spiegazione condizionale toglie
tutta la sua impor- tanza al contrasto tra spiegazione e comprensione che per
un certo tempo parve esprimere il con- trasto tra le scienze della natura e le
scienze dello spirito. Difatti, sia la spiegazione che la compren- sione
consistono nella determinazione della possi- bilità dell’oggetto (v.
COMPRENSIONE). 5° La conoscenza storica è diretta alla deter- minazione di
possibilità retrospettive. Questa è una conseguenza della rinuncia della S.
allo schema causale (che suppone la necessità dell’oggetto sto- rico) e del suo
ricorso allo schema condizionale. Questo schema consiste nella determinazione
di possibilità, o, se si vuole, di probabilità retrospet- tive. Questa
caratteristica fu già riconosciuta propria alla conoscenza storica da Max
Weber: «La con- siderazione del significato causale di un fatto sto- rico, egli
diceva, comincerà anzitutto con la que- stione seguente: se escludendolo dal
complesso dei fattori assunti come condizionanti, oppure mutan- dolo in un determinato
senso, il corso degli av- venimenti avrebbe potuto, in base a regole generali
dell’esperienza, assumere una direzione in qualche modo diversamente
configurata nei punti decisivi per il nostro interesse » (Kritische Studien auf
dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906; tra- duzione ital, in Z/
metodo delle scienze storico- sociali, pag. 223). Certamente ogni storico rico-
noscerebbe privo di senso il tentativo fatto da Renouvier nell’Ucronia
d’immaginare «lo sviluppo della civiltà europea quale avrebbe potuto essere e
non è stata +. Ma, come dice R. Aron: «Ogni storico, per spiegare ciò che è
stato, si domanda ciò che sarebbe potuto essere. La teoria si limita a mettere
in forma logica questa pratica spontanea dell’uomo comune + (op. cit., pag.
164; cfr. MARROU, op. cit., pag. 181). Per quanto spesso gli storici e i
metodologi della storia continuino a parlare di « causa », il senso che danno a
questa parola non ha niente a che fare con il significato tradizionale di essa:
pertanto un mutamento terminologico sarebbe opportuno seguisse al già
intervenuto mu- tamento concettuale (Cfr. una bibliografia selezio- nata sulla
metodologia storiografica in Theory und Practice in Historical Study: a Report
of the Com- mittee on Historiography, 1942, e cfr. sugli autori trattati in
questa voce: P. Rossi, Storia e storicismo nella filosofia contemporanea,
1960). STRETTO (ingl. Strict; franc. Strict; te- desco Streng). L’aggettivo si
applica talora al diritto o al dovere per indicare il suo carattere più rigorosamente
obbligatorio. Dice Kant.: « Vi sono azioni così conformate che la loro massima
non può nemmeno essere concepita senza contrad- dizioni come una legge
universale della natura... Ve ne sono altre in cui non si incontra questa
impossibilità interna, ma che sono tali che è im- possibile volere che la loro
massima sia elevata all’universalità di una legge della natura, perchè una tale
volontà si contraddirebbe in se stessa. Si scorge facilmente che la massima
delle prime è contraria al dovere S. o rigido (rigoroso), mentre la massima
delle seconde non è contraria che al dovere in senso /argo (meritorio) »
(Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, I. Altrove Kant chiama diritto S.
quello che « può anche essere rappresen- tato come la possibilità di una costrizione
generale reciproca in accordo con la libertà di ognuno secondo leggi universali
» (Mer. der Sitten, Introdu- zione alla dottrina del diritto, $ FE). Queste
nota- zioni kantiane sono tra le più precise in questa materia e tuttavia son
ben lontane dall’essere convincenti. STRUMENTALISMO. V. PRAGMATISMO. STRUMENTO
(ingl. Instrument; franc. In- strument; ted. Werkzeug). La parola è stata
estesa da Dewey a significare ogni mezzo adatto a con- seguire un risultato in
qualsiasi campo dell'attività umana, pratico o teorico. Dice Dewey: « Come
termine generale strumentale significa la relazione mezzi-risultati come
categoria fondamentale per la interpretazione delle forme logiche, mentre
opera- tivo esprime le condizioni grazie alle quali la ma- teria è: 1° resa
adatta a servire come mezzo e STRETTO 2° effettivamente funziona come mezzo nel
com- piere la trasformazione obiettiva che è il fine del- l'indagine » (Logic,
I, $ 2, nota; trad. ital., pag. 47-48). STRUTTURA (ingl. Structure; franc.
Structure; ted. Strukture). 1. Nel senso logico, la pianta o il piano d’una
relazione: sicchè si dice che due rela- zioni hanno la stessa S. quando lo
stesso piano vale per entrambe, cioè quando sono analoghe l’una all’altra come
una carta geografica è analoga al paese che rappresenta. La S. è in questo
senso il « numero-relazione » ed è concetto generalissimo, equivalente a piano,
costruzione, costituzione, ecc. (RussELL, Introduction to Mathematical Philosophy, VI; trad. ital., pag.
74-75; Human Knowledge, IV, 3; trad. ital., pag. 362 sgg.). La descrizione formale di Russell si attaglia all’uso
corrente del termine: per es., all’uso che se ne fa nella terminologia di Marx
e dei marxisti. In questa terminologia, S. è la costituzione economica della
società in cui en- trano i rapporti di produzione e i rapporti di lavoro mentre
soprastruttura (v.) è la costituzione giuridica, statale, ideologica della
società stessa (Marx, Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.;
Deutsche Ideologie, I). In questo senso la parola S. è da un lato sino- nimo di
forma nel senso in cui questo termine ricorre nel gestaltismo che infatti viene
anche chia- mato strutturalismo o psicologia strutturale (v. Pst- coLogia);
dall’altro è sinonimo di sistema (nel significato 2) come insieme o totalità di
relazioni. In quest’ultimo senso la parola è passata nella linguistica,
nell’estetica e negli altri campi in cui viene oggi comunemente adoperata. Lo
stesso Saus- sure aveva parlato di sistema: «La lingua è un sistema di cui
tutte le parti debbono essere consi- derate nella loro solidarietà sincronica »
(Cours de linguistique générale, III, $ 3). Quando si parla della struttura
come di «un insieme di elementi qualsiasi, dunque astratti, tra i quali o tra
certi loro sotto-insiemi, si saranno definite relazioni ugualmente astratte »
(Granger) o come «un com- plesso di elementi sottoposto a relazioni determi-
nate » (Mouloud) («La notion de structure» in Revue Inter. de Phil. 1965, pag.
254, 315) o in modi analoghi (Sens er usage du terme Structure dans les
sciences humaines et sociales, a cura di Bastide, 1962, passim; The Structure
of Language, a cura di Fodor e Katz, 1964, pag. 33 e passim), il termine ha
significato generico di sistema e po- trebbe essere opportunamente sostituito
da esso. Lo stesso può dirsi dell’uso fatto del termine nel campo
antropologico, soprattutto da Lévi-Strauss; il quale esplicitamente definisce
la S. come un sistema di elementi tali che una modificazione qual- siasi
dell'uno implica una modificazione di tutti gli altri; e la considera come un
modello concet- STRUTTURALISMO tuale che deve dar conto dei fatti osservati e
per- mettere di prevedere in qual modo l’insieme reagirà nel caso della
modificazione di uno degli elementi (Anthropologie structurale, 1958, XV, 1,
pag. 306 sgg). 2. In un senso ristretto e specifico, la S. non è un qualsiasi
piano o sistema di relazioni, ma un piano gerarchicamente ordinato cioè con un
ordine finalistico intrinseco, destinato a conservare, per quanto possibile, il
piano stesso. In questo senso specifico la parola fu usata da Dilthey che con
essa designò il fondamentale strumento esplicativo del mondo umano e storico.
Egli parlò di una « S. psi- chica » intesa come « l’ordine secondo cui, nella
vita psichica sviluppata, i fatti psichici di qualità diffe- rente sono
reciprocamente legati da un’interna rela- zione che può essere immediatamente
vissuta » (Ge- sammelte Schriften, VII, pag. 3 sgg.; cfr. Critica della ragione
storica, trad. ital., pag. 63). E soprattutto si servì del termine per indicare
le unità elementari del mondo storico cioè gli individui, le epoche, le
comunità, le istituzioni e i sistemi di cultura, in- tendendo per esso in
questo senso una connessione dinamica accentrata in se stessa «cioè che ha in
se stessa il suo fine e i suoi criteri di valutazione » (Der Aufbau der
geschichtlichen Welt in den Geistes- wissenschaften, 1910, VI, 2; trad. ital.,
in Critica della ragione storica, VI, 1, 2, pag. 243 sgg.). La connessione
dinamica o vitale in cui Dilthey vide il carattere proprio della S. fu tradotta
da Spengler col concetto di organismo, del quale si servì per descrivere le
epoche storiche che nascono, de- cadono e muoiono (v. Epoca). In questo senso
il termine viene adoperato comunemente in bio- logia. Secondo l'illustrazione
che ne ha dato re- centemente un biologo, la S. sarebbe «la forma rela- tiva
alla funzione +, come la funzione sarebbe la «S. che cambia nel tempo» (A. C.
MOULYin due modi: I) come costi- tuente l’ordine o la sostanza della realtà in
esame, quindi determinante necessariamente tutte le sue determinazioni in modo
da renderle infallibilmente prevedibili (Levi-Strauss, Sapir V. art. seguente).
Il) Come un modello (v.) o un costrutto (v.) ipo- tetico, suscettibile di
interpretazioni diverse, che eserciti condizionamenti non necessitanti e renda
possibili solo previsioni probabili (strutturalisti russi, cibernetici).
STRUTTURALISMO (inglese Structuralism; fr. Structuralisme; ted.
Strukturalismus). Con questo termine si intende ogni metodo o procedimento
d’indagine che, in qualsiasi campo, faccia uso del concetto di Struttura in uno
dei sensi chiariti. Il termine è nato nella psicologia della forma e nella
linguistica: nel qual campo, lo S. è stato difeso dai russi R. Jakobson, N.
Trubetzkoy e da nume- rosi altri. Nel campo dell’antropologia il punto di vista
strutturalistico è stato introdotto da Radcliffe- Brown a partire dalla sua
introduzione all’opera African Systems of Kinship and Marriage (1950) e diffuso
nell’antropologia moderna da Levi-Strauss (Anthropologie structurale, 1958 e
spec. cap. XV). Ci sono anche tentativi di estenderlo a tutto il dominio delle
scienze umane. Nella sua esigenza più generale, lo S. tende non soltanto a
interpretare in termini di sistema un campo specifico di indagine ma a mostrare
come i diversi sistemi specifici, verificati in diversi campi (per es.
nell’antropologia, nell'economia e nella linguistica), si corrispondano o
abbiano tra loro caratteri analoghi. Levi-Strauss ad es. ritiene possibile che
una stessa struttura possa essere riscontrata a tre livelli della società: nel
senso che le regole della parentela e del matri- monio servono ad assicurare la
comunicazione delle donne tra i gruppi come le regole economiche servono ad
assicurare la comunicazione dei beni e dei servizi e le regole linguistiche la
comunicazione dei messaggi (Anthropologie structurale, cap. III, pag. 95). Lo
S. è schierato polemicamente contro tre fronti: lo storicismo, l’idealismo e
l’umanesimo. Contro lo storicismo, che è sostanzialmente una considerazione /ongitudinale
della realtà cioè una interpretazione di essa in termini di divenire, svi-
luppo o progresso, afferma il primato di una con- cezione rrasversale
(cross-tion) cioè di una con- cezione che considera la realtà stessa come un
sistema relativamente costante o uniforme di rela- zioni. Il sistema non è
certo ritenuto dallo S. statico o immobile perché si ammette una considerazione
diacronica oltre che sincronica del sistema stesso; ma si subordina la
considerazione diacronica a quella sincronica, considerando i mutamenti tempo-
rali come trasformazioni nelle relazioni costituenti un sistema o oscillazioni
di queste trasformazioni intorno al limite costituito dal sistema stesso.
Contro l’idealismo, lo S. afferma l’oggettività di ogni sistema di relazioni
che, anche quando è con- cepito come un modello concettuale cioè una costru-
zione scientifica, non è ridotto a un atto o una funzione soggettiva ma ha come
funzione fonda- mentale quella di spiegare il maggior numero di fatti
accertati. Infine, contro l’umanesimo lo S. afferma la priorità del sistema
sull'uomo: delle strutture sociali sulle scelte individuali, della lingua sul
parlante singolo e in generale dell’organizzazione economica o politica sugli
atteggiamenti individuali. Sapir ha scritto: « Le lingue sono per noi qualcosa
di più che sistemi di comunicazione intellettuale. Esse sono abiti invisibili
che si drappeggiano intorno al nostro spirito e predeterminano la forma di
tutte le sue espressioni simboliche » (Language, 1922, cap. XI, trad. ital,
pag. 218). Secondo Althusser, la strut- tura globale della società determina
tutte le sue manifestazioni al modo in cui la Sostanza di Spi- noza determina
tutti i suoi modi (Lire Le Capital, 1965, IX, trad. ital., pag. 196 sgg.).
Questo deter- minismo è una conseguenza dell’interpretazione realistica del
concetto di struttura mentre è esclusa dall’interpretazione di esso come
modello (v.) 0 costrutto ipotetico, suscettibile di interpretazioni diverse.
Tuttavia poichè storicismo, idealismo e uma- nesimo indeterministico sono stati
i tratti caratte- ristici del clima idealistico dalla prima metà del ’900, lo
S., nelle sue varie forme, denuncia il dissolversi di questo clima nella
cultura contemporanea. STURM UND DRANG. Con questa espres- sione, che è il titolo
di un dramma di Massimiliano Klinger del 1776 e significa « tempesta e impeto
», s'intende un movimento filosofico e letterario che ebbe luogo in Germania
nella seconda metà del sec. XVII e che costituisce l’antecedente immediato del
Romanticismo. Gli atteggiamenti propri di questo movimento sono quelli che, per
l'appunto, possono essere simboleggiati dalle due parole in questione. Si
tratta di atteggiamenti irrazionalistici che tro- vano la loro espressione
filosofica nelle dottrine di Haman, Herder e Jacobi: le quali prendono atto
STURM UND DRANG dei limiti che Kant aveva imposti alla ragione solo per
procedere al di là della ragione stessa e far appello all’esperienza mistica o
alla fede (v. FEDE, FiLosoFia DELLA). Dallo «S. und Drang» si passa al Romanticismo
quando dal concetto kantiano della ragione finita — alla quale si contrappone
la fede o il sentimento, cui si attribuisce il potere cono- scitivo più alto —
si passa al concetto della ragione infinita o capace di raggiungere l’Infinito,
che co- mincia con Fichte: al quale infatti si deve la prima ispirazione del
Romanticismo (v.). SUAREZISMO (ingl. Suarezianism; franc. Sua- rezisme). La
dottrina dello spagnolo Francisco Suarez (1548-1617) che costituisce la
principale ma- nifestazione filosofica della Controriforma cattolica. Essa è
costituita sostanzialmente da un deciso e rigoroso ritorno al tomismo: le
Disputationes me- taphysicae di Suarez sono un manuale sistematico di
metafisica tomistica. Suarez tuttavia fece una concessione importante all’indirizzo
della scola- stica del sec. xrv, ammettendo l’individualità del reale cioè
riconoscendo che una cosa singola è tale di per se stessa e non per la materia
o per la forma o per un qualsiasi altro principio. Si scostò pure dal tomismo
nella dottrina politica esposta nel De Le- gibus (1612), asserendo che il
potere temporale dei prìncipi deriva soltanto dal popolo; e ciò per privi-
legiare di fronte ad esso il potere ecclesiastico, derivante immediatamente da
Dio. SUBALTERNAZIONE (lat. Subalternatio ; in- glese Subalternation; franc.
Subalternation; ted. Su- balternation). Con questo termine o con quello di
opposizione subalterna si indica il rapporto tra la proposizione universale e
la proposizione partico- lare corrispondente della stessa qualità; per es., tra
« ogni uomo è giusto » e « qualche uomo è giusto è; o tra « nessun uomo è
giusto » e « qualche uomo non è giusto ». La proposizione universale si chiama
subalternante e quella particolare subalternata (PIETRO Ispano, Summ. Log.,
1.14); JunGIuUs, Log. Ham- burgensis, II, 9, 15; B. HERDMANN, Logik, $ 70).
Hamilton ha chiamato restrizione la S. (Lectures on Logic) (v. QUADRATO DEGLI
oP- POSTI). SUB-CONTRARIA, PROPOSIZIONE (la- tino Propositio sub-contraria;
ingl. Sub-contrary Proposition; ted. Subcontràrsatz). Nella logica tra-
dizionale si chiamano così, nel loro rapporto reci- proco, la proposizione
particolare affermativa e quella particolare negativa: per es., « qualche uomo
corre» e «qualche uomo non corre» (cfr., ad es., Pietro Ispano, Summ. Logicales,
1.13) (v. Qua- DRATO DEGLI OPPOSTI). SUBCONTRARIETAÀ (lat. Subcontrarietas; in-
glese Subcontrary; franc. Subcontraire; ted. Sub- contràr). Il rapporto di
opposizione tra proposizioni SUBLIME 849 particolari. Ad es., « Socrate corre
», « Socrate non corre + (Pietro Ispano, Sum. Log., 1.27). Talvolta, il
rapporto tra possibile e non necessario (JunGiUS, Logica Hamburgensis, II, 12,
29). SUBCOSCIENTE (ingl. Subconscious; fran- cese Subconscient; ted.
Unterbewusst). Lo stesso che inconscio. Alcuni psicologi francesi del secolo
scorso hanno cercato di distinguerlo da inconscio conside- randolo come
coscienza debole o diminuita (Ribot, Janet, ecc.). Ma la distinzione è apparsa
fallace e il termine stesso è caduto in disuso (v. INCONSCIO). SUBLIMAZIONE
(ingl. Sublimation; franc. Su- blimation; ted. Sublimierung). Un meccanismo
psi- cologico di difesa che consiste nella trasformazione degli impulsi
sessuali in attività psichiche superiori e specialmente nella produzione
artistica. Il mec- canismo fu così descritto da Freud: « Le eccitazioni
eccessive che derivano da sorgenti differenti della sessualità trovano una
derivazione e una utilizza- zione in altri domini, in modo che le disposizioni
che all’inizio erano pericolose produrranno un aumento apprezzabile nelle
attitudini e nelle atti- vità psichiche » (Trois essais sur la théorie de la
sexualité, trad. franc., pag. 177). SUBLIME (gr. tyoc; lat. Sublime; ingl.
Sublime; franc. Sublime; ted. Erhaben). 1. Una forma lin- guistica, letteraria
o artistica che esprima sentimenti o atteggiamenti particolarmente elevati o
nobili. In loro, distinzione che non deve mai dimenticare chi si proponga di
suscitare pas- sioni » (Inquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and
Beautiful, 1756, MII, 27). Il terrore, il dolore in generale, le situazioni di
pericolo sono la causa del S. (Zbid., IV, 5). Come questa causa possa produrre
un godimento (poichè il S. è un godimento) è problema che Burke risolve al modo
stesso in cui l’aveva risolto Hume, che a sua volta si era ispirato a
Fontenelle (Réflexions sur la poé- tique, $ 36): Il godimento deriva
dall’esercizio cioè dal movimento, che il dolore e il terrore provocano
nell'animo, quando sono liberati dal pericolo reale della distruzione. In
questo caso si produce, dice Burke, non un piacere ma « una specie di dilettoso
orrore, di tranquroporzionata alle facoltà sensibili dell’uomo (S. matematico)
o di una potenza terrificante per queste stesse facoltà (S. dinamico); 2° il
sentimento di poter operare il riconoscimento di quella spropor- zione o di
quella minaccia, e perciò di essere su- periore all’una o all’altra. «La
qualità del senti- mento del sublime, dice Kant, è che esso è, nei confronti di
un oggetto, un sentimento di pena, che è rappresentato insieme come finale; il
che è possibile perchè la nostra propria impotenza rivela la coscienza di una
potenza illimitata dello stesso soggetto e il sentimento può giudicare
esteticamente quest’ultima solo attraverso la prima» (Crit. del Giud., $ 27).
Kant pertanto definisce il S. come «ciò che piace immediatamente per la sua
oppo- sizione all’interesse dei sensi » (/bid., $ 29, Oss. ge- nerale):
intendendo con questo che, avvertendo la sproporzione o il pericolo che il S.
rappresenta per la sua natura sensibile, l’uomo si rende conto che, per via di
questo stesso avvertimento, egli non è schiavo di tale natura ma libero di
fronte ad essa. Federico Schiller non fece che esporre e chiarire le idee
kantiane dicendo che «si chiama S. un oggetto alla cui rappresentazione la
nostra natura fisica sente i propri limiti, nello stesso tempo in cui la nostra
natura ragionevole sente la propria superiorità, la sua indipendenza da ogni
limite: un oggetto rispetto al quale siamo fisica- mente deboli mentre
moralmente ci eleviamo sopra di esso con le idee» (Vom Erhabenen, 1793). Egli
distinse il S. superamento delle espressioni, è la sublimità; la quale perciò
non consiste, come Kant ritenne, nella pura soggettività del sentimento e nel
suo potere di elevarsi alle idee della ragione, ma piuttosto ha il suo
fondamento nel significato rappresentativo, per cui si riferisce ad una
Sostanza assoluta » (/bid., pag. 484). Hegel pertanto vide nel S. una forma
speciale dell’arte e precisamente l’arte simbolica. Al dolore o alla situazione
in pericolo, che per l’estetica del *700 costituisce la causa del S., egli
sostituì l’inesprimibilità e la maestà della Sostanza infinita. Schopenhauer si
limitò invece a riproporre la dottrina tradizionale e ritenne che il S. si ha
quando «quegli oggetti, le cui forme significative ci invitano alla contem-
plazione pura, hanno un atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere,
quale si palesa nella sua oggettività — nel corpo umano — e si oppon- gono ad
essa o la minacciano con la loro forza SUBLIMINALE superiore » (Die Welr, I, $
39). L'ultimo a riesporre il concetto del S. in questi termini è stato
Santayana: « La suggestione del terrore ci fa ritirare in noi stessi e qui
interviene di rimbalzo la coscienza della sicu- rezza o dell’indifferenza e noi
abbiamo quell’emo- zione di distacco e di liberazione nella quale consiste
realmente il S. » (The Sense of Beauty, 1896, $ 60). SUBLIMINALE (ingl.
Subliminal; franc. Su- bliminal; ted. Subliminal). Lo stesso che inconscio. Il
termine fu reso popolare da F. Myers (Human Personality and its Survival of
Bodily Death, 1i finale o terminale... Il mondo non si ferma quando la persona
che ha avuto S. ha raggiunto il fatto suo nè si ferma egli stesso e la specie
di S. che egli ottiene, nonchè il suo atteggiamento rispetto ad esso, è un
fattore di ciò che verrà dopo +» (Human Nature and Conduct, pag. 254).
SUDDIVISIONE. V. Divisione. SUFFICIENTE, RAGION. V. FONDAMENTO. SUFISMO (ingl.
Sufism; franc. Sufisme; ted. Su- fismus). Il misticismo arabo-persiano
(cosiddetto dal pelo di cammello di cui era fatto il mantello dei SUICIDIO 851
suoi seguaci) che si sviluppò a partire dal sec. vmi per influsso del
cristianesimo e che culminò nel neoplatonismo di Algazali (sec. x1) (cfr. J. A.
AR- BERRY, Sufism, 1950). SUGGESTIONE (ingl. Suggestion; franc. Sug- gestion;
ted. Suggestiodal corpo. Questo è l’argomento addotto contro il S. da Plotino,
il quale dice che «quando si fa violenza al corpo per distaccarlo dall’anima
non è il corpo che lascia partire l’anima, ma la passione a decidere, cioè la noia,
il dolore o la collera » (Enn., I, 9). Questa è sostanzialmente anche la
ragione addotta da Schopenhauer secondo il quale «il S. lungi dall’essere
negazione della volontà è invece un atto di forte affermazione della volontà
stessa » perchè « il suicida vuole la vita ed è solo malcontento delle
condizioni che gli sono toccate» (Die Welt, I, $ 69). 3° Perchè è la
trasgressione di un dovere verso se stesso, in quanto, come dice Kant, «l’uomo
è obbligato alla conservazione della propria vita uni- camente per il fatto che
è persona » (Mer. der Sitten, II, parte I, $ 6). 4° Perchè è un atto di viltà.
Fichte a questo proposito osservava che esso può essere considerato ugualmente
come un atto di coraggio. Se difatti al suicida manca il coraggio di « sopportare
una vita divenuta insopportabile », il S. compiuto con fredda meditazione è
l’espressione del dominio della ra- gione sulla natura cioè sull’impulso
all’autocon- servazione. «In confronto con l’uomo virtuoso, concludeva Fichte,
il suicida è un vile; in confronto con il miserabile che si sottomette alla
vergogna e alla schiavitù per prolungare per qualche anno il sentimento
meschino della sua esistenza, è un eroe » (Sittenlehre, 1798, in Werke, IV,
pag. 268). 5° Perchè è ingiusto verso la comunità cui il suicida appartiene.
Questa è la ragione addotta da Aristotele (Et. Nic., V, 11, 1138a 9). A questo
argomento Hume obiettava che le obbligazioni del- l’uomo e della società sono
reciproche: sicchè la morte volontaria non scioglie solo quelle dell’uomo verso
la società ma anche quelle della società verso l’uomo (0f Suicide, in Essays,
cit., pag. 413). Dall'altro lato i filosofi hanno ritenuto lecito o doveroso il
S. in base ai seguenti motivi: 1° Perchè può essere un dovere rinunciarealla
vita quando il continuare nella vita renderebbe impossibile adempiere il
proprio dovere. Così pen- savano gli Stoici, dei quali Cicerone così espone la
dottrina: « Chi ha in maggior numero le cose con- formi a natura ha il dovere
di rimanere in vita; chi invece ha o si crede destinato ad avere in maggior
numuna meta e un erede, vuole la morte al- l’ora giusta e per la sua meta e per
il suo erede» (Also sprach Zarathustra, I, Della libera morte). 3° Perchè può
essere la via d'uscita da una situazione insostenibile e il solo modo per
salvare la propria dignità e libertà. Da questo punto di vista Hume affermava
che « Il S. è in accordo con il nostro interesse e con il dovere verso noi
stessi: ciò non può essere messo in dubbio da alcuno il quale riconosca che
l’età, la malattia e la disgrazia possono rendere la vita un peso insostenibile
e renderla peggiore dell’annichilamento » (Of Suicide, in Essays, cit., pag.
414). Nella filosofia contempo- ranea Jaspers ha addotto lo stesso argomento in
favore del S. (Phil., II, pag. 303 sgg.). E Sartre ha scritto: «Se sono
mobilitato in una guerra, questa guerra è la mia guerra: essa è a mia immagine
ed io la merito. La merito in primo luogo perchè potevo sottrarmici con il S. o
con la diserzione: queste possibilità ultime devono sempre esserci presenti
quando si tratta di affrontare una situa- zione » (L’érre et le néant, pag.
639). SUI GENERIS. Espressione usata in frasi sco- lastiche come questa: « Ogni
cosa è misurata da qualcosa che è del suo genere»: per es., la lun- ghezza
dalla lunghezza, il numero dal numero, ecc. La frase può essere assunta come
premessa per affermare che, dal momento che Dio è la misura di tutte le
sostanze, egli è nel genere delle sostanze. Ma la dottrina scolastica su questo
punto è, al contrario, che Dio non è in alcun genere per quanto sia principio
del genere delle sostanze e di tutti gli altri generi (cfr. S. TomMAso, S. Th.,
I, q. 3, a. 5; Contra Gent., I, 25). SUMMA. Con questo termine si cominciò ad
indicare nel sec. xIl una breve trattazione sistema- tica di un certo complesso
di conoscenze. Abelardo scriveva nella prefazione alla sua Introduzione alla
teologia: «Ho scritto una summa della sacra eru- dizione, come introduzione
alla divina scrittura » (P. L., 68°, col. 979). Le S. prendevano abitual- mente
il titolo dalla materia trattata (S. de vitiis et virtutibus; S. de articulis
fidei; S. sermonum; S.gram- maticalis; S. logicalis; ecc.). A partire dal 1200
circa, il termine cominciò a essere preferito a quello di Sententiae nel titolo
delle esposizioni sistematiche della teologia. L’opera di Pietro da Capua (com-
posta verso il 1200) porta già nei manoscritti il titolo di Summa. Nelle grandi
opere sistematiche del xm secolo il termine S. è usato quasi esclusiva- mente
(cfr. M. GRABMANN, Geschichte der scho- lastischen Methode, II, pag. 23 sgg.).
SUNNITI (ingl. Sunnites; franc. Sunnite; te- desco Sunniten). La corrente
ortodossa dell’Islam la quale ammette la validità di credenze pratiche non
prescritte dal Corano ma di cui si fa risalire l'origine allo stesso Maometto.
Gli Sciiti sono in- vece i negatori del valore della tradizione. SUPERADDITA,
FORMA. Questa espres- sione venne desunta da Telesio dagli scolastici di
ispirazione scotistica per designare l’anima sopran- naturale, direttamente
infusa nell'uomo da Dio, che Telesio ammise accanto all’anima naturale e mate-
riale, come soggetto della vita religiosa e della aspira- zione dell’uomo verso
ciò che è al di là della natura. A differenza dell’anima naturale, la forma S.
non sa- rebbe soggetta alla corruzione (De rer. nat., V, 3). SUPERANIMA (ingl.
Oversoul). Così R. W. Emerson chiamò Dio, concepito come il principio immanente
nel mondo e nell’uomo (Narure, 1836). SUI GENERIS SUPERARE (ingl. 7o Sublate;
franc. Dépasser; ted. Aufheben). Termine adoperato da Hegel per indicare il
procedimento della dialettica che nello stesso tempo conserva e abolisce
ciascuno dei suoi momenti. «La parola S., diceva Hegel, ha nella lingua un
duplice senso per cui significa da un lato conservare, ritenere e dall’altro
far cessare, metter fine. Il conservare racchiude già in sè il negativo, che
qualcosa sia tolto alla sua imme- diatezza e quindi da un'esistenza aperta agli
in- flussi estranei, al fine di ritenerlo. Così il superato è insieme un
conservato il quale ha perduto sol- tanto la sua immediatezza ma non perciò è
annul- lato » (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, nota; trad.
ital., pag. 105-06). Per quanto Hegel, nello stesso passo avvicini il
significato del termine tedesco al latino fo/lere, l’uso italiano ha sancito
l’equivalenza del termine con superare. Superamento significa di conseguenza un
progresso che ha conservato ciò che c’era di vero nei momenti precedenti e lo
ha portato alla completezza. Come esempio del concetto, si può addurre quello
che Hegel dice del superamento nel dominio della filo- sofia. «Ogni filosofia è
stata necessaria e tale è ancora; nessuna quindi è scomparsa anzi tutte sono
conservate affermativamente nella filosofia come momenti di un tutto: i
princìpi si conser- vano e la filosofia più recente è il risultato di tutti i
princìpi precedenti: in tal senso nessuna filosofia è stata confutata. Ciò che
è stato confutato, non è il principio di una data filosofia ma solo la pretesa
che essa rappresenti la conclusione ultima, asso- luta » (Geschichte der
Philosophie, I, Intr., A, 3, Db). È un termine di cui ha fatto uso ed abuso la
ter- minologia dell’idealismo italiano tra le due guerre. SUPERBIA (gr.
xxuvérng; lat. Superbia; inglese Pride; franc. Orgueil; ted. Hochmuth). Il
vizio corrispondente alla virtù della magnanimità (v.) e che ha come estremo
opposto la pusillanimità, nell’etica di Aristotele. Dice Aristotele: «I superbi
sono stolti perchè s’ingannano su se stessi: intra- prendono imprese onorevoli
credendo d’esserne degni ma fanno così solo risultare la loro insuffi- cienza »
(Er. Nic., IV, 3, 1125 a 27). Questa defi- nizione è rimasta ferma nella
tradizione e molte volte ripetuta. Diceva Spinoza: « La S. è una gioia
originata dal fatto che l’uomo sente di sè più del giusto » (Zbid., III, 26,
Scol.). SUPERCOSCIENZA (franc. Supraconscience). Termine adoperato da Bergson
per indicare una « pura attività creatrice» o una « pura coscienza », quale
egli esclude che sia la vita (Évol. Créarr., 8 ediz., 1911, pag. 267, 283,
ecc.). SUPsenziale » (De divinis nominibus, II, in P. L., 122°, col. 1122); e
Scoto Eriugena il termine su- peressentia (De divis. nat., I, 14). E il termine
ri- corre ancora nella tradizione mistica e teosofica. Maestro Eckhart parla di
Dio come di «una es- senza superessenziale e un nulla S.» (Deutsche Mystiker
des XIV Jahrhunderts, ed. Pfeiffer, II, pag. 318-19). E la stessa qualifica
ricorre in Schelling (Werke, I, X, pag. 260) (v. TEOLOGIA; TRASCEN- DENZA).
SUPERIORE (lat. Superius; ingl. Superior; franc. Supérieur; ted. Hòher). 1. In
senso logico: più esteso, che ha maggiore estensione o denota- zione. In questo
senso si dice « genere S. » o « con- cetto S.» o in generale «termine S.+.
Quest’uso rimonta alla logica terministica del sec. xrv (PIETRO Ispano, Summ.
log., 2.08; 3.02; 12.13; cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 49). 2.
Ciò che appartiene a una fase più progre- dita dell’evoluzione biologica: in
tal senso si dice «le specie S.» o «gli animali superiori ». 3. Ciò che
appartiene alla sfera delle funzioni spirituali o simboliche dell’uomo. In tal
senso si dice « funzioni S.» o «interessi superiori ». 4. Ciò che in un senso
qualsiasi si ritiene abbia un grado più alto di dignità o di valore, ad esempio
«uomo S.» o « forme d’arte superiori ». SUPERORGANICO (ingl. Superorganic;
fran- cese Superorganique; ted. Ùberorganisch). Termine introdotto dal
positivismo per indicare ciò che è al di là della vita organica cioè la vita
psichica o la vita sociale e specialmente quest’ultima. Il ter- mine è usato
frequentemente da Spencer. SUPERSTIZIONE (gr. Sera:daruovia; latino
Superstitio; ingl. Superstition; franc. Superstition; ted. Aberglaube).
L’eccesso o le aberrazioni della religione; oppure la forma di religione che
non si condivide. Nel primo senso, la S. fu definita da Cicerone: « Non solo i
filosofi ma anche i nostri antenati distinsero la S. dalla religione: quelli
che per intere giornate pregavano e immolavano vit- time per ottenere che i
loro figli fossero ‘super- stiti” furono chiamati superstiziosi e tale nome 853
ebbe poi più vasta estensione» (De nat. deor. II, 28, 71-72). Questa
definizione fu sostanzialmente ripetuta da S. Tommaso: « La S. è il vizio
opposto per eccesso alla religione e per il quale si presta un culto divino a
chi non si deve 0 nel modo in- debito » (S. 7A., II, 2, q. 93, a. 1). Nel
secondo senso definiva la S. Hobbes affermando: «Il ti- more di potenze
invisibili, se immaginate dallo spirito o suggerite da racconti pubblicamente
am-, è religione; se suggerite da racconti non pubblicamente ammessi, è S.»
(Leviath., I, 6). Ovviamente S. è termine polemico: per lo studio obiettivo
(antropologico o sociologico) delle cre- denze non ci sono superstizioni. E
quando si parla di S., lo si fa in riferimento a un determato si- stema di
credenze religiose che si ritiene come l’unico vero. Perciò ogni religione
appare come S. ai seguaci di una religione diversa; e l’unica de- scrizione
esatta del termine è quella data da Hobbes. SUPERUOMO (gr. srepdvipwros; ingl.
Su perman; franc. Surhomme; ted. Ùbermensch). Il termine che ricorre in Luciano
(Cataplus, 16) e fu usato talora per indicare l’uomo-Dio cioè il Cristo (cfr.
T. Tasso, Lettere, V, 6) era adoperato già dall’Ariosto (Or/. Fur., 38, 62) per
indicare un’umanità fuori del comune. Fu introdotto in Germania da Heinrich
Miiller (Geistliche Erbauungs- stunden, 1664-66) e adoperato da molti scrittori
del Romanticismo tedesco, compreso Goethe (Faust, I, Notte). Ma soltanto da
Nietzsche il termine ebbe un significato filosofico e fu reso popolare. Il S. è
l’incarnazione della volontà di potenza: «L’uomo dev'essere superato. Il S. è
il senso della terra... L'uomo è una corda tesa tra la bestia e il S., una
corda sull’abisso » (A/so sprach Zara» thustra, I, 3). Il S. è l’incarnazione
dei vil si- gnificato denotativo dei termini che ricorrono nella proposizione,
mentre il significato in senso stretto è il significato connotativo (v.
SigNIFICATO). La S. è in questo senso definita come una positio pro alio, uno
stare per o in luogo di qualche altra cosa: nel senso che quando si dice, ad
es., «l’uomo corre» il termine «uomo» sta per Socrate, per Platone o per
qualche altro (PIETRO IspanO, Summ. Log., 6.03; OckHam, Summa Log. I, 63; Buri-
pANO, Sophismata, 3; ALBERTO DI SASSONIA, Lo- gica, II, 1). Salvo che in alcuni
particolari, la dottrina della suppositio si presenta pressochè uniforme in
tutti i logici del sec. xrv. Essi distin- guevano tre specie fondamentali di
essa: la S. personale, la S. semplice e la S. materiale. La Spersonale si ha
quando il termine sta per l’oggetto significato qualunque esso sia: o cosa
esterna o parola o concetto o segno scritto o altro. Così nelle frasi «l’uomo è
un animale», «il nome è parte della proposizione », «la specie è un univer-
sale » i termini uomo, nome e specie hanno una S. personale perchè stanno per i
rispettivi oggetti. La S. semplice si ha quando il termine sta in luogo, non
dell’oggetto significato ma del concetto di esso. Così quando si dice « l’uomo
è una specie » il ter- mine uomo non sta per gli uomini ma per il con- cetto «
uomo ». Infine la S. materiale si ha quando un termine sta per la voce o per il
segno scritto come nelle frasi «uomo è un nome» o « sta scritto uomo » in cui
l’uomo sta per la parola o per il segno scritto. Ognuno di questi tipi di S.
viene poi dai logici del x1v secolo diversamente suddiviso e trattato nelle
difficoltà e nei problemi che offre. Per dare un’idea di tali problemi, ecco il
modo in cui Ockham affronta la difficoltà presentata dalla S. del termine
«uomo» nella proposizione «l’uomo è la più alta delle creature». Qui il ter-
mine uomo non può avere una S. semplice perchè non è il concetto uomo ad essere
la più alta delle creature; ma neppure una S. personale perchè so- stituendo a
« uomo » un singolo uomo il giudizio risulta falso. La soluzione è che la
proposizione ha una S. personale ma che dev'essere limitata dicendo che l’uomo
è la più alta di tutte le crea- ture che sono diverse da lui: in questo caso la
pro- posizione diviene vera dei singoli individui umani (Summa Log., I, 66). La
dottrina della S. fu abbandonata quando la logica terministica fu abbandonata
in favore della logica mentalistica sotto l’influenza del cartesia- nesimo. I
problemi da essa trattati vennero eredi- tati dalla teoria del concetto (cfr.
E. ARrNnOLD, Zur Geschichte der Suppositionstheorie, in Sym- posion, II, 1954;
E. A. Moopy, Truth and Conse- quence in Mediaeval Logic). SURRETTIZIO (lat. Surreptitius;
ingl. Sur- reptitious, franc. Subreptice; ted. Erschlichen). Propriamente, nel significato latino del termine, ciò
che si possiede, si acquista o si fa, clandesti- namente o senza averne
diritto. In filosofia, il ter- SURRETTIZIO mine viene specialmente usato per
indicare un presupposto o un'ipotesi di cui si fa uso in un ragionamento senza
esplicitamente assumerlo o dichiararlo. In questo senso, Kant chiamò surre-
zioni delle sensazioni (« Subreptione der Empfin- dungen », Crit. R. Pura, $ 6)
le qualità sensibili che, sulla base delle sensazioni, si attribuiscono agli
oggetti empirici. SUSSISTERE (lat.
Subsistere; ingl. To Subsist; franc. Subsister; ted. Subsistiren). Esistere come sostanza; o esistere indipendentemente
dallo spi- rito o dal soggetto pensante. Nel primo senso il termine (che
nell’ordinario uso latino significa per- sistere o durare) fu introdotto da Boezio
(Phil. Cons., III, 11) e conformemente usato nella tra- dizione scolastica
(Gn_.BERTO DE LA PORRÉ, /n Boethi De Trinitate, P. L. 64°, 1281; S. ToMMaso, S.
Th., I, q. 29, a. 2). Ricorre nello stesso al modo d’essere degli universali e
dai Neorealisti americani a tutte le entità neutre, costituenti il mondo, che
con la loro aggregazione possono formare sia la coscienza sia le cose (The New
Rea- lism, 1912). Questo secondo significato è tuttora abbastanza diffuso nella
filosofia contemporanea. SUSSUNZIONE (lat.
Subsumptio; ingl. Sub- sumption; franc. Subsumption; ted. Subsumption). Propriamente, l’assunzione della premessa minore del
sillogismo; la quale fu detta da Hamilton hypolemma per riservare il termine
/emma (v.) alla premessa maggiore (Lectures on Logic, I?, pag. 283; cfr. WOLFF,
Log., $ 362). Kant parlò della «S. di un oggetto sotto un concetto » (Cris. R.
Pura, Anal. dei Princ., cap. I); e nello stesso senso Husserl osservava che «
la S. di un individuo, in genere di un questo qui, sotto un'essenza, non è da
confondere con la subordinazione di un’es- senza ad una specie o ad un genere
superiori» (Ideen, I, $ 13). SVILUPPO (ingl. Development; franc. Dévelop-
pement; ted. Entwicklung). Il movimento verso il SYNKATATHESIS meglio. Per
quanto questa nozione abbia il suo precedente nel concetto aristotelico del
movi- mento (v.) come passaggio dalla potenza all’atto o esplicazione di ciò
che è implicito (CICERONE, Top., 9) il suo significato ottimistico è proprio
della filosofia dell’800 ed è strettamente collegato con il concetto di
progresso (v.). Il suo stretto sinonimo è evoluzione (v.); ma quest’ultimo ter-
mine è più frequentemente usato per indicare lo S. biologico o uno S. cosmico
che trae le sue ra- gioni o le sue analogie dallo S. biologico. Senza
riferimento a questo particolare aspetto, il termine fu usato da Hegel che ne
fece una delle categorie fondamentali della sua filosofia e lo illustrò soprat-
tutto rispetto al mondo della storia. Accanto al carattere progressivo dello
S., Hegel sottolineò un altro carattere fondamentale: lo S. pre- suppone ciò di
cui è S., cioè il fine verso cui muove e il principio o la causa di sè stesso.
«Lo spirito, disse Hegel, che ha come teatro, do- minio e campo della sua
realizzazione, la storia del mondo, non si aggira nel gioco estrinseco del
caso, ma è piuttosto in sè il determinante asso- luto... Ciò che esso vuole è
raggiungere il suo proprio concetto; ma esso stesso se lo oscura, si
inorgoglilla funzione del T. è do- vuta a A. R. Radcliffe-Brown che ha scorto
in esso uno strumento per sottolineare la importanza sociale di eventi,
operazioni, divieti, norme, ecc. Il T. è in questo senso collegato a qualsiasi
prescrizione rituale (Structure and Function in Primitive Society, 1952, cap.
VII). Freud ha avvi- cinato il T. alla nevrosi ossessiva e ha visto tra le due
cose quattro punti di somiglianza e cioè: 1° la mancanza di motivazione dei
divieti; 2° la loro convalidazione mediante una necessità inte- riore; 3° la
spostabilità e la contagiosità degli oggetti proibiti; 4° la creazione di
pratiche cerimo- niali e comandamenti derivanti dai divieti (Totem e T., 1913,
cap. II; trad. ital., pag. 37). TABULA RASA (gr. rivat dypaghe). Espres- sione
con cu(PLUTARCO, Plac., IV, 11; cfr. GaLeNO, Hist. Philos., 92; SESTO EMPIRICO,
Adv. Math., VII, 228). Lo stesso confronto si trova poi ripetuto frequentemente
(FILONE, Leg. Alleg., I, 32; Boezio, Cons. Phil., V, 4; ecc.). Ma l’espres-
sione « tavoletta non scritta » si trova per la prima volta adoperata dal
commentatore di Aristotele Alessandro di Afrodisia (circa il 200 a. C.); e nel
Medio Evo fu usata da S. Tommaso (De An., a. 8, resp.; S. Th., I, q. 89, a. 1,
ad 3°). L’immagine fu fatta propria da Locke per espri- mere la tesi
dell’origine empirica di tutta la cono- scenza (Saggio, II, 1, 2) ed usata da
Leibniz nella sua critica a questa tesi di Locke (Nouv. Ess., II, 1, 2). Da
allora in poi l’espressione è rimasta a indicare la tesi empiristica
sull’origi25, 14-30) è quello di « una superio- rità del potere conoscitivo, che
non dipende dal- l'insegnamento ma dalla disposizione naturale del soggetto ».
Questa è la definizione che dà del T. TAUTOLOGIA Kant (Antr., I, $ 54): il
quale distingue anche i T. in ingegno produttivo, sagacia e originalità:
quest’ultimo è il genio. Questa dottrina kantiana è stata spesso ripetuta con
poche varianti e si conserva nella stessa psicologia moderna, la quale tuttavia
accentua l’importanza dei cosiddetti T. specifici. ‘TALMUD. Il termine che
significa in ebraico «insegnamento » designa la raccolta enciclopedica in
aramaico della tradizione giudaica, compilata durante ottocento anni (dal 300
a. C. al 500 d. C.) in Palestina e in Babilonia. L’opera non è un semplice
commentario del Vecchio Testamento ma il sommario della filosofia, della teologia,
della storia, dell'etica e del folklore giudaico, accumu- lato durante otto
secoli. Il 7. è composto di due parti principali: il Mishnah compilato in
Palestina e il Gemara che è un commentario del primo. Il Gemara compilato in
Palestina è chiamato in- sieme con il Mishnah, T. di Gerusalemme; mentre il
Gemara compilato in Babilonia è chiamato, in- sieme con lo stesso Mishneh, T.
di Babilonia (cfr. H. L. STRACK-P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament
aus Talmud und Midrasch, Mo- naco, 1922-28). TANATISMO (ingl. Thanatism; ted.
Thana- tismus). Termine creato da E. Haeckel per designare la sua dottrina
della mortalità dell'anima, in op- izione ad atanatismo (v.). TAOISMO (ingl.
Taoism; franc. Taoisme; te- desco Taoismus). La dottrina di Lao-Tse (vissuto in
Cina probabilmente nel vi secolo a. C.) e al quale si attribuisce il Tao Té
Ching cioè il Libro della via e della virtà. Di fronte al carattere razio-
nalistico, mondano e pratico dell’insegnamento di Confucio, sta il carattere
mistico, religioso e con- templativo dell’insegnamento di Lao-Tse; nel quale
sono rintracciabili tracce del panteismo metafisico delle Upanishad. I due
punti principali del T. sono: il monismo panteistico per cui il tao che è la
via per la salvezza è anche il principio unico dell’uni- verso, di cui ogni
altra cosa è manifestazione; l’etica del mon fare cioè l’abbandono all’azione
immanente del principio cosmico e la rinuncia a interferire con esso o a
ostacolarlo. La traduzione italiana del Tao Té Ching è stata fatta da A.
Castellani con il titolo La regola celeste di Lao-Tse (Firenze, 1927) (cfr. A.
WALEY, The Way and Its Power, 1934). TASSONOMIA (ingl. Taxonomy; franc. Taxi-
nomie; ted. Taxinomie). La teoria della classificazione nelle scienze naturali.
Termine coniato e adoperato nel sec. xix. Sono chiamate tassonomiche la bo-
tanica e la storia naturale. TATTO (ingl. Tact; franc. Tact; ted. Tact). I. Uno
dei cinque sensi: che Condillac chiamava «sentimento fondamentale» in quanto
esso è « il sentimento che la statua (v.) ha dell’azione reciproca delle parti
del corpo e specialmente dei movimenti della respirazione » (Traité des
sensations, II, 1). Il T. è anche, secondo Condillac, il senso da cui deriva la
nozione del mondo esterno (/bid., II, 8, 30 sgg.). 2. Sapienza di mondo o esprit
de finesse, come nelle frasi «aver T.» o «procedere con T.»1 o « parlare con
T.+, ecc. TAT TWAM ASI. Una delle norme fondamen- tali della filosofia della
Upanishad che significa alla lettera « questo sei tu» e prescrive a ogni uomo
di riconoscersi identico nel suo principio (o diman) con qualsiasi essere o
cosa che gli stia davanti: essendo il principio universale o Brakman identico
in tutti. La locuzione indiana ricorre specialmente nella Chandogya-Upanishad
(VI, 8, 7 sgg.). TAUTOLOGIA (ingl. Tautology; franc. Tauto- logie; ted.
Tautologie). Nella terminologia filosofica tradizionale, T. significava
genericamente un di- scorso (in particolare, una definizione) vizioso in quanto
inutile, perchè ripetente nella conseguenza, o nel predicato o nel definiens,
il concetto già contenuto nel primo membro: «M. de la Palisse un quarto d’ora
prima di morire era ancora in vita ». Solo nell’Algebra della Logica il termine
« T. » acquista un significato tecnico, in quanto si intro- ducono con il nome
di /egge di T. i teoremi (1) ava=a, (2) ana=a[(1) l’affermazione di- sgiuntiva
di una medesima proposizione p con se stessa equivale alla semplice
affermazione di p; la somma di una classe « con se stessa è uguale alla
semplice classe «; (2) l’affermazione congiun- tiva di una medesima
proposizione p con se stessa equivale alla semplice affermazione di p;
l’interfe- renza di una classe « con se stessa è uguale all’in- tera e semplice
classe «]. Accanto a questa legge i Principia Mathematica di Whitehead e
Russell introducono un principio di T.: pvp.> p. ll’af- fermazione
disgiuntiva di una medesima proposi- zione p con se stessa implica
materialmente la stessa p: «se p O p, p*). In Wittgenstein (Tractatus
logico-philosophicus, 1922, 4.46) il concetto di T. acquista una notevole
importanza, venendo a de- signare una proposizione molecolare (funzionale) il
cui valore-verità è « vero » qualunque siano i valori- verità delle
proposizioni atomiche (variabili propo- sizionali) che la compongono; per es.,
«pv — p* [« piove o non piove»). Wittgenstein, seguito a malincuore da Russell,
giungerà a stabilire che le matematiche pure (ivi compresa la Logica) constte
di norme morali o giuridiche (la legge delle XII tavole, le T. di Mosè). Bacone
chiamò T. le coordinazioni delle istanze cioè dei particolari aspetti di un fe-
nomeno (Nov. Org., II, 10) e distinse le T. di presenza, le T. di assenza, le
T. dei gradi o com- parative e infine le T. esclusive (/bid., II, 11-13). Da
Kant in poi si parla della « T. delle categorie » (v. CATEGORIA). TAVOLE DI
VERITÀ (ingl. Truth tables; franc. Tables de verité; ted.
Wahrheitsmòglichkeiten). Le T. costruite con il metodo delle matrici (v.) che
consente l’enumerazione completa delle possibilità di verità per un certo
numero di proposizioni sem- plici e così di riconoscere se una proposizione è
vera nel dominio del calcolo delle proposizioni. Tali T. sono costruite con i
simb«e» è valida solo nel caso che entrambe le proposizioni sono vere come
quando si dice « Piove e c'è umido».TAVOLA La disgiunzione si ha quando tra due
proposi- zioni si inserisce la parola «0?, rappresentata dal simbolo V, e può
avere nella lingua corrente due significati: un significato inclusivo (per il
quale «0» è in latino ve/) come quando si dice «Si può an- dare a Roma o per questa
o per quella strada », per il quale almeno una delle due proposizioni è vera; e
un significato esclusivo (per il quale «0» è in latino ant) come quando si dice
proponendo un’alternativa « Si va a Roma o a Parigi » nel qual caso almeno una
delle proposizioni è vera e al- meno una è falsa. La T. di verità della
disgiunzione in generale è la seguente: p_l 4a | pVqa V V V V F V F V V F F F
la quale fornisce il criterio più generale per la validità di una disgiunzione
qualsiasi. Per la T. di verità del rapporto condizionale, espresso mediante il
connettivo se... allora e dal simbolo >, vedi i termini IMPLICAZIONE e
CONDI- ZIONALE. Sulla base di queste T. se ne possono costituire altre più
complesse, come la seguente che dà i valori di verità delle combinazioni
condizionali pos- sibili tra le proposizioni condizionali e le disgiuntive
(cfr. TARSKy, /ntr. to Logic, $ 3): cioè per la fun- zione (p V g)= (p.r), dove
p, qg, r stanno per proposizioni qualsiasi: |p>q|p.9|(.d=>p>N mg? è
una proposizione falsa; unendo insieme «(p=> g)=> (p= r)» si ottiene
un’implicazione in cui l’antecedente è vero e il conseguente è falso e che, in
base alla T. delle implicazioni, è falsa. L’uso delle T. può essere ed esteso e
complicato quanto si vuole per tutti i teoremi del calcolo delle proposizioni.
Come già dalla T. dell’implicazione materiale, derivano dalle altre T.
conseguenze che TECNICA appaiono paradossali dal punto di vista del lin-
guaggio corrente: tra esse le seguenti: se g è vero, allora g segue da
qualsiasi p; 0, in altri termini, una proposizione vera segue da qualsiasi
altra proposizione; se p è falso, allora p implica un qualsiasi g; o, in altri
termini, una proposizione falsa implica nua qualsiasi altra proposizione; quali
che siano peg, o p implica g o q im- plica p; in altri termini: almeno una di
due pro- posizioni qualsiasi implica l’altra. Queste conclusioni derivano dalle
T. di verità, e soprattutto da quella dell’implicazione, che costi- tuiscono la
semplificazione e generalizzazione degli usi correnti nel linguaggio comune e
nelle discipline scientifiche (al di fuori della matematica) dove le relazioni
puramente logiche tra le proposizioni sono sottoposte ad altre condizioni più
restrittive. Esse tuttavia continuano a dar luogo tra gli stessi logici a discussioni
che alcuni di essi (come Tarsky) ri- tengono oziose. Come si è detto
nell’articolo IMPLICAZIONE, la scuola stoico-megarica, soprattutto per opera di
Filone, ha dato per la prima volta la T. dell’im- plicazione materiale. Nella
logica moderna l’idea della T. è stata ripresa da Boole (Marhematical Analysis
of Logic, 1847), da Frege (Begriffsschrift, 1879) e da Peirce (1885: cfr. Coll.
Pap., 3.370 sgg.) ed è stata diffusa da Wittgenstein (Tractatus Logico-
Philosophicus, 1921, 4.31). TEANDRICO (ingl. Theandric; franc. Théan- drique).
Termine della teologia cristiana: che si riferisce all'unione della natura
umana e della natura divina nella persona del Cristo. TEANTROPISMO (ingl.
Theantrophism; fran- cese Théantropisme; ted. Theantropismus). 1. La dot- trina
dell’unione della natura divina e dell’umana nella persona di Cristo. 2. Lo
stesso che antropomorfismo (v.). TECNICA (ingl. Techric; franc. Technique; ted.
Technik). Il senso generale del termine coincide con quello generale di arre
(v.): comprende ogni insieme di regole adatte a dirigere efficacemente
un’attività qualsiasi. La T. in questo senso non si distingue nè dall’arte nè
dalla scienza nè da qualsiasi procedimento o operazione adatto a raggiungere un
effetto qualsiasi; e il suo campo si estende quanto quello di tutte le attività
umane. Bisogna tuttavia avvertire che a questo senso del termine, che è assai
antico e generale, fa eccezione il signi- ficato ad esso attribuito da Kant:
che parlò di una T. della natura per indicare la causalità di essa (Crit. del
Giud.); ma negò che la filo- sofia e specialmente la filosofia pratica potesse
avere una T. perchè essa non può contare su una causalità necessaria (Mer. der
Sitten, Intr., $ ID. Il 859 presupposto di questo significato è tuttavia la
ridu- zione della T. a procedimento causale, laddove per T. è stato inteso (ed
è meglio intendere) un proce- dimento qualsiasi, regolato da norme e provvisto
di una certa efficacia. In questa sfera di significato generalissimo rien-
trano pertanto i procedimenti più disparati che pos- sono tuttavia dividersi,
grosso modo, in due campi diversi: 4) quello delle T. razionali che sono re-
lativamente indipendenti da particolari sistemi di credenze, perciò possono
condurre a modificare tali sistemi e sono esse stesse autocorreggibili; B)
quello delle T. magiche e religiose che possono essere messe in opera solo
sulla base di particolari sistemi di credenze e perciò non possono riuscire a
modificarli e si presentano esse stesse non cor- reggibili o immodificabili.
Queste T. costituiscono uno dei due elementi fondamentali di ogni religione e
possono essere designate con il nome generico di riti (v.). Le T. razionali
possono essere a loro volta di- stinte in: 1° T. simboliche (conoscitive o
estetiche) che sono quelle della scienza e delle arti belle; 2° T. di
comportamento cioè morali, politiche, economiche, ecc.; 3° T. di produzione. 1°
Le T. conoscitive e artistiche possono essere chiamate T. simboliche perchè
consistono essenzial- mente nell’uso dei segni. Esse si distinguono dai metodi
(v.) che sono, strettamente parlando, indi- cazioni generali sul carattere
delle T. da seguire. Le T. simboliche possono essere T. di spiegazione, T. di
previsione, o T. di comunicazione: ma queste distinzioni non sono mutuamente
esclusive. 2° Le T. di comportamento dell’uomo rispetto all’altro uomo coprono
un campo estesissimo che comprende zone disparate: vanno dalle T. erotiche a
quelle della propaganda, dalle T. economiche a quelle morali, dalle T.
giuridiche a quelle educa- tive, ecc. In questo gruppo possono anche essere
comprese le T. organizzative dirette a cercare le condizioni per realizzare il
rendimento massimo con il minimo sforzo in tutti i domini dell'attività umana.
Di queste T. si occupa la recronica (v.) o prassio- logia (v.). 3° Il terzo
gruppo di T. è quello che concerne il comportamento dell’uomo nei confronti
della na- tura e che è diretto alla produzione dei beni. La T. in questo senso
ha sempre accompagnato la vita dell’uomo su questa terra essendo l’uomo, come
già notava Platone (Pror., 321 c) l’animale che la matura ha lasciato più
sprovveduto ed inerme in tutta la creazione. Un certo grado di sviluppo T. è
pertanto indispensabile alla soprav- vivenza di qualsiasi gruppo umano; e la
sopravvi- venza e il benessere di sempre più larghi gruppi umani sono
condizionate dallo sviluppo dei mezzi 860 tecnici. Tra i filosofi, Francesco
Bacone fu il primo a riconoscere, agli inizi del sec. xvn, questa verità.
Bacone concepì l’intera scienza come operante in vista del benessere dell’uomo
e diretta a produrre, in ultima analisi, ritrovati che rendessero più facile la
vita dell’uomo sulla terra. Quando nella Nuova Atlantide volle dare l’immagine
di una città ideale, non si fermò a vagheggiare forme perfette di vita sociale
o politica ma immaginò un paradiso della T. dove fossero portati a compimento
le invenzioni e i ritrovati di tutto il mondo. Il sansimonismo (v.) e il
positivismo (v.) dell’800 hanno condiviso l’esal- tazione baconiana della
tecnica. Solo a partire dalla fine del secolo scorso e nei primi decenni del
nostro secolo, ha cominciato a delinearsi quello che oggi si chiama il problema
della T.: cioè il problema fatto nascere dalle conseguenze che lo sviluppo
della T. del mondo moderno produce nella vita singola e associata dell’uomo. Il
con- trasto tra l’uomo e la T. è stato prima della se- conda guerra mondiale,
il tema preferito della let- teratura profetizzante. I profeti della decadenza
e della morte della civiltà dell’Occidente (per es., O. SPENGLER, Der Mensch
und die Technik, 1931), i difensori della spiritualità pura (per es., D. RoPs,
Le monde sans dime, 1932) avevano già additato nella macchina la causa diretta
o indiretta della decadenza spirituale dell’uomo. Il mondo in cui domina la
macchina è, secondo queste diagnosi, un mondo senz'anima, livellatore,
mortificante: un mondo nel quale la quantità ha preso il posto della qualità e
in cui il culto dei valori dello spi- rito è stato sostituito dal culto dei
valori stru- mentali e utilitari. Dopo la fine della seconda guerra mondiale
queste accuse sono state ribadite ed am- pliate. Esse sono presenti in tutta
l’opera di Albert Camus (cfr., ad es., Ni bourreaux ni victimes, 1946). Altri
hanno visto il male del macchinismo nello « sradicamento » che esso produce
nell’uomo (S. WEIL, L’Enracinement, 1948). Altri ancora coin- volgono, nella
condanna della T., la « ragione » che ne sarebbe il principio o accarezzano
l’utopia di un ritorno alla produzione artigianale (M. DE CORTE, Essai sur la
fin d’une civilisation, 1949; L. Du- PLESSY, La machine ou l’homme, 1949).
Dall’altra parte, a partire dall'opera di HussERL, La crisi delle scienze
europee (1954) la T. e la scienza su di cui essa si fonda sono state spesso
considerate come una degradazione o un tradimento della Ra- gione autentica
perchè asserviscono la ragione a scopi utilitari mentre il suo vero compito è
la conoscenza disinteressata dell’essere, cioè la contem- plazione. Questo
concetto rimane la base di tutte le critiche che sono rivolte alla società
contemporanea in quanto fondata sulla T. e ritenuta dominata dalla tecnocrazia:
per esse quindi vedi quest’ultima voce. TECNICA Ma esiste oggi una vasta
letteratura che, pur senza muovere da una pregiudiziale metafisica, ideologica
o teologica contro la T., ne mette in luce gli aspetti negativi, che possono
riassumersi nei punti seguenti: 1° Lo sfruttamento intensivo delle risorse na-
turali al di là del limite del loro spontaneo ripristino e quindi il rapido e
progressivo impoverimento di tali risorse. 2° L'inquinamento dell’acqua e
dell’aria, do- vuto agli scarichi industriali, al moltiplicarsi dei mezzi
meccanici di trasporto e all’addensarsi della popolazione. 3° La distruzione
del paesaggio naturale e dei monumenti storici e artistici, dovuta al
moltiplicarsi degli impianti industriali e all’estensione indiscri- minata dei
centri abitati. 4° L’assoggettamento del lavoro umano alle esigenze
dell'automazione, che tende a fare del- l’uomo un accessorio della macchina. 5°
L’incapacità della T. di venire incontro ai bisogni estetici, affettivi e
morali dell'uomo; quindi la sua tendenza a favorire o determinare l’isola-
mento degli individui e la loro incomunicabilità reciproca. Nei confronti dei
primi tre fattori negativi si può ricorrere a una controtecnica che è essa
stessa una T. (o un insieme di T.) diretta a controbilanciare o a correggere
gli effetti devastatori della T.: con- trotecnica che è già fornita di mezzi
potenti e che può diminuire, se non controbilanciare, gli effetti di quella
devastazione. Gli aspetti 4° e 5° concer- nono invece il piano umano, morale e
politico e vengono solitamente ritenuti come costituenti il fenomeno
dell’alienazione (v.). La T., sia nelle sue forme primitive sia in quelle
raffinate e complesse che ha assunto nella società contemporanea, è uno
strumento indispensabile per la sopravvivenza dell’uomo. Il suo processo di
sviluppo appare irreversibile perchè solo ad esso rimane affidata la
possibilità della sopravvivenza del numero sempre crescente degli esseri umani
e il loro accesso a un più alto tenore di vita. Anche la differenza tra la T. e
la scienza, sulla quale talvolta si continua ad insistere, sembra ridursi o
sfumare dal punto di vista dei compiti che si at- tribuiscono oggi alla scienza
(v.). L’unico rimedio ai reali pericoli della T. sembra oggi, non la ri- nuncia
alla T. stessa, ma il suo rafforzamento e il suo sviluppo in tutti i campi:
cioè da un lato la ricerca di nuovi strumenti che, oltre al con- trollo della
natura, ne assicurino la salvaguardia; e dall’altro la ricerca di nuove T. di
comporta- mento interumano che possano controllare e cor- reggere gli effetti
maligni delle T. produttive sul- l’uomo. E la sola speranza ragionevole che
questo TEISMO possa accadere è fondata sul fatto che la stessa T. produttiva
esige, in sempre maggior misura, da parte, dell’uomo, quelle capacità di
iniziativa, di immaginazione creativa e di solidarietà interumana che il
sistema tecnologico sembra minacciare. TECNICISMO (ingl. Technicism; ted.
Techni- zismus). 1. Lo stesso che tecnica. Kant adopera il termine per indicare
la tecnica della natura cioè il meccanismo (Crit. del Giud., $ 78). 2. L'uso di
parole o frasi appartenenti a un linguaggio tecnico o una parola o frase
apparte- nente a tale linguaggio. TECNOCRAZIA (ingl. Technocracy; francese Technocratie;
ted. Technokratie). L'uso della tecnica come strumento di potere da parte di
dirigenti economici, capi militari, uomini politici, per la di- fesa dei loro
interessi, ritenuti concordanti o uni- ficati e il controllo della società
intera. Questo è almeno il concetto di T. che si trova esposto negli scrittori
più qualificati (per es., C. W. MILLS, The Power Elite, 1956); e che consente
di definire la T. come «la filosofia autocratica delle tecniche » (G. Simonpon,
Du mode d’existence des objets techniques, 1958). Contro la T. si appuntano
perciò le critiche più radicali rivolte alla società contem- poranea. Ad essa
viene addossata non solo la re- sponsabilità di tutti i mali della tecnica (per
i quali vedi TECNICA) e di non volere o poter far nulla per eliminarli, ma
anche quella di eliminare o bloccare la libertà di scelta dell’uomo in tutti i
campi della sua attività (dal lavoro al divertimento) con una determinazione
dall’interno che gli impedisce di esercitare la sua ragione critica e reprime
il suo istinto vitale e la libera ricerca della sua felicità: «L’apparato
produttivo, ha scritto Marcuse, tende a diventare totalitario nella misura in
cui deter- mina non solo le occupazioni, le abilità e gli at- teggiamenti
socialmente necessari, ma anche i bi- sogni e le aspirazioni individuali... La
tecnologia serve a istituire nuove, più effettive e più piace- voli forme di
controllo e di coesione sociale » (One Dimensiona! Man, 1964, pag. xv). Da
questo punto di vista la T. (detta anche « The Establishment » o «Il sistema »
per antonomasia) eserciterebbe un de- terminismo necessitante su tutte le
attività umane e impedirebbe e bloccherebbe ogni forma di critica sociale, ogni
possibilità di trasformazione. Dall'altro lato però si ammette (come fa lo stesso
Marcuse, Ibid., pag. 238) che «una razionalità post-tecnolo- gica » possa
trasformare la tecnica stessa in stru- mento di pacificazione e organo
dell’arte della vita e in tal caso la funzione della ragione, il cui uso
strumentale ha dato origine alla T., convergerebbe con la funzione dell’arte.
Dall’altro lato, si mette in dubbio il carattere monolitico e necessitante
della tecnocrazia. Gal- 861 braith parla di una tecnostruttura per indicare la
formazione pluralistica e composita dei gruppi che dirigono la società
industriale e ammette la possi- bilità di minimizzare la subordinazione delle
cre- denze ai bisogni del sistema industriale e di scorgere in quest’ultimo
solo « una parte e relativamente una parte in diminuzione, della vita +, che
può essere subordinata ai fini estetici che costituiscono la di- mensione della
vita stessa e rendono possibile la libertà dell’individuo (7fe New Industrial
State, 1967, pag. 399). Una connotazione « non peggio- rativa » della T. è
anche talora presentata correla- tivamente al concetto più composito che si ha
oggi di classe sociale (cfr., ad es., A. TOURAINE, La société pos-industrielle,
1969, cap. I). TECNOLOGIA (ingl. Technology; franc. Tech- nologie; ted.
Technologie). 1. Lo studio dei proce- dimenti tecnici di un determinato ramo
della pro- duzione industriale o di più rami. 2. Lo stesso che tecnica. 3. Lo
stesso che tecnocrazia. TECTOLOGIA. Termine creato dal filosofo russo A.
Bogdanov per indicare una «scienza organizzatrice universale» cioè una scienza
che insegni a costruire il mondo a partire dagli ele- menti neutri dati
nell’esperienza (Tekrologija, 1922). Questa disciplina che si occupa anche, in
partico- lare, dell’organizzazione di tutte le attività utili dell’uomo allo
scopo di determinare le condizioni del loro massimo rendimento è stata poi
chiamata, in quest’aspetto, prassiologia (v.) da Kotarbinsky. Essa si integra
con la teoria dell’organizzazione e dell’amministrazione, con l’economia
politica e con la cibernetica (cfr. CauDE, MoLES e altri, Métho- dologie vers
une science de l'action, Paris, 1964). TEISMO (ingl. Theism; franc. Théisme;
tedesco Theismus). Il termine adoperato fin dal sec. xvn per indicare
genericamente la credenza in Dio, in opposizione ad ateismo (così lo adopera
ancora VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique, a. Théiste) fu definito da Kant
nel suo significato specifico, in opposizione a deismo (v.). Dice Kant: « Chi
am- mette soltanto una teologia trascendentale è detto deista; chi ammette
anche una teologia naturale, teista. Il primo ammette che noi possiamo cono-
scere con la semplice ragione un Essere originario di cui abbiamo un concetto
solo trascendentale, come di un Essere che ha ogni realtà ma che non si può
determinare di più. Il secondo afferma che la ragione è in grado di poter determinare
di più l'oggetto secondo l’analogia con la natura cioè di poterlo determinare
come un Essere che per in- telletto e libertà contenga in sè il principio
origi- nario di tutte le altre cose. Quello rappresenta questo Essere solo come
una causa del mondo (rimanendo indeciso se si tratti di una causa che 862
agisca per la necessità della sua natura o per la libertà); questo lo
rappresenta come un creatore del mondo » (Crit. R. Pura, Dial. Trasc. III, sez.
7). In altri termini, il deista può essere anche panteista e credere nella
necessità del rapporto tra Dio e il mondo, per quanto possa anche non esserlo;
il teista si contrappone al panteista. Inoltre proce- dendo al di là di ciò che
la pura ragione lo con- sente di credere, il teista afferma di Dio qualità o
caratteri che sono testimoniati non dalla ragione ma dalla rivelazione; e in
questo senso, come Kant dice più oltre, nello stesso passo, egli crede in un «
Dio vivente» (cfr. anche Crit. del Giud., $ 72). Queste notazioni kantiane
hanno fissato il signi- ficato del termine nell’uso contemporaneo, per il quale
T. si contrappone non solo ad ateismo ma anche a deismo e a panteismo ed
ammette che Dio sia persona per quanto in un senso più alto di quello che
solitamente è attribuito all’uomo. Il T. è in questo senso un aspetto
essenziale dello spiritualismo (o personalismo) contemporaneo, specialmente
nella sua reazione all’idealismo ro- mantico, che è sempre tendenzialmente
panteistico. Il T. è stato pertanto esplicitamente difeso sia dallo spiritualismo
che costituì la reazione allo hege- lismo classico (Fichte junior, Lotze, ecc.)
o al positivismo (Renouvier, Boutroux, ecc.) sia dallo spiritualismo che ha
costituito la reazione al neo- idealismo romantico che è fiorito nei primi
decenni del secolo in Inghilterra, America e Italia e dal quale lo stesso
spiritualismo deriva molti dei suoi temi. Cfr. per il T. anglosassone W. E. HocKina, Meaning of
God in Human Experience, 1912; A. SerH PRINGLE-PATTISON, The Idea of God in the
Light of Recent Philosophy, 1917; CLEMENT C. J. WEBB, God and Personality,
1920; ecc. Per il T. italiano: le opere di Carlini, Guzzo, Sciacca, ecc.
TELEGNOSI (ingl. Telegnosis). Lo stesso che
chiaroveggenza: la facoltà di conoscere avveni- menti lontani senza l’aiuto dei
mezzi di conoscenza normali (v. TELEPATIA). TELEGRAMMA, ARGOMENTO DEL (ingl.
Telegram Argument; ted. Telegrammbeispiel). Argomento o esempio addotto da F.
A. Lange per illustrare la tesi materialistica della dipendenza delle reazioni
psichiche dagli stimoli fisici e della possibilità di ridurre a meccanismo
fisiologico ciò che comunemente si chiama anima o coscienza. Il T. che annuncia
a un commerciante il fallimento di un suo corrispondente determina tutta una
serie di reazioni che sono descrivibili fisiologica- mente al modo in cui è
descrivibile fisicamente cioè in termini di ondulazioni luminose lo stimolo che
le ha provocate (Geschichte des Materialismus, II, III, 2 e nota 39; trad.
ital., II, pag. 385 sgg. e 661 sgg.). Talvolta l’argomento è stato invertito
TELEGNOSI e utilizzato per mostrare la relativa indipendenza delle reazioni nei
confronti degli stimoli. Il T. «Vostro figlio è morto » differisce solo per una
lettera dal T. « Nostro figlio è morto » ma produce una reazione enormemente
diversa, e non corri- spondente alla differenza fisica tra gli stimoli, in
coloro che lo ricevono (cfr. C. D. Broad, The Mind and its Place in Nature,
1925, pag. 118 sgg.). TELEOCLISI (ted. Teleoklise). Tendenza al- l’attività
finalistica, ritenuta propria degli organi- smi viventi. Termine raro.
TELEOFOBIA (ted. Teleophobie). Avversione per il finalismo. TELEOLOGIA (ingl.
Teleology; franc. Téléo- logie; ted. Teleologie). Il termine è stato creato da
Cristiano Wolff per indicare «quella parte della filosofia naturale che spiega i
fini delle cose » (Phi- losophia rationalis sive logica, 1728, Disc. Prael., $
85). Lo stesso che Finalismo (v.). TELEONOMIA (ingl. Teleonomy; franc. Téléo-
nomie). Termine usato dai biologi moderni per in- dicare l’adattamento
funzionale degli esseri viventi e dei loro artefatti alla conservazione e alla
molti- plicazione della specie. È stata chiamata informa- zione teleonomica la
quantità d’informazione che dev'essere trasmessa affinchè le strutture vitali
siano realizzate e conservate (cfr., ad es., J. MonoD, Le hasard et la
nécessité, 1970, pag. 26 sgg.). TELEOSI (ted. Teleosis). Perfezione. È la
trascrizione fonetica della parola greca. TELEPATIA (ingl. Telepathy; franc.
Télé- pathie; ted. Telepathie). Una forma di telegnosi e precisamente quella
che consiste nel conoscere gli stati di spirito di persone lontane o ciò che ad
esse accade, senza l’aiuto dei mezzi di conoscenza normali. Il termine fu
proposto dalla Society for Psychical Researches di Londra nel 1882 ed è stato
comunemente accettato. Talvolta, come suo sino- nimo, si adopera Telestesia
(cfr. D. J. WEST, Psy- chical Research Today, 1954, cap. VI). TEMA (lat. Thema;
ingl. Theme; franc. Thème; ted. Thema). Argomento o oggetto di indagine di
discorso o di studio. Nella terminologia filosofica contemporanea si adoperano
anche i termini tema- tizzare, tematizzazione per indicare la scelta o la
formazione dei T., che è una fase importante, e spesso decisiva, della ricerca.
In particolare Hei- degger ha inteso per tematizzazione il manifestarsi degli enti
intramondani, per il quale essi diventano oggetti (Sein und Zeit, 69 b).
TEMPERAMENTO (gr. xpàois; lat. Tempera- mentum; ingl. Temper; franc.
Tempérament; tedesco Temperament). La disposizione dell'uomo ad agire in un
modo o nell’altro a seconda della partico- lare mescolanza degli umori che ne
compongono il corpo. Il fondatore della dottrina del T. è il padre TEMPO della
medicina, Ippocrate (v secolo a. C.) e la dot- trina stessa si è tramandata ed
è rimasta come dot- trina medica. Ippocrate ammetteva quattro umori
fondamentali: il sangue, il flemma (la linfa, i sieri, il muco nasale e
intestinale, la saliva), la bile gialla e l’atrabile o bile nera (considerata
come la secre- zione del pancreas), corrispondenti ai quattro ele- menti del
macrocosmo. A seconda della preva- lenza di uno di questi umori sugli altri si
hanno i quattro T. fondamentali: il sanguigno, il flemma- tico, il bilioso e il
malinconico o atrabiliare. (De nat. hom., 4). Accenni a questa dottrina o a
dot- trine analoghe si trovano in Platone (Conv., 188 a; Tim., 86 B), in
Aristotele (Problem., 30, 1), in Se- neca (De ira, II, 18, sgg.), in Lucrezio
(De nat. rer., III, 288 sgg.), in Plutarco (Quaesr. nat., 26) ed in altri,
senza connessione con i presupposti filosofici da cui questi autori partono,
come di- mostra la loro concorde accettazione della dottrina stessa. Anche nel
Medio Evo la dottrina dei T. fu tramandata attraverso la medicina, specialmente
la medicina araba (Avicenna e Averroè) sino ai medici e ai maghi del
Rinascimento. Paracelso sostituì agli umori ippocratei i suoi tre elementi
(solfo, sale e mercurio) per la classificazione dei temperamenti. Tuttavia la
nozione di T. non ha subìto alcuna modificazione sino a Kant che,
riassumendola, distingueva l’aspetto fisiologico e l’aspetto psicologico del T.
stesso. « Fisiologica- mente considerato, egli diceva, il T. è costituito dalla
costituzione fisica (la struttura forte o debole) e dalla complessione (dal
fluido che nel corpo è messo regolarmente in moto dalla forza vitale: nel che
si comprende il calore o il freddo che si produce nell’elaborazione di tali
umori). Psicologi- camente considerato, cioè come T. dell'anima (del potere
affettivo e appetitivo) questa espressione, derivata dalla proprietà del
sangue, si riferisce all’analogia del gioco dei sentimenti e dei desideri con
le cause fisiche e motrici (di cui la principale è il sangue)» (Antr., II, 2).
Kant riprendeva poi la vecchia classificazione ippocratea dei T.; la quale ha
trovato spesso fortuna anche nella psi- cologia moderna (per es., cfr. WuNDT,
Physiologische Psychologie, II4, pag. 519 sgg.). Ma nella psicologia stessa la
parola, fin dalla fine del secolo scorso, è caduta in disuso ed è stata
sostituita da caraf- tere (v.): il quale in una delle sue accezioni si- gnifica
appunto la struttura organica originaria che condiziona le disposizioni
naturali dell’indi- viduo. L'uso della parola carattere segna pure il trapasso
della nozione dal dominio della medicina a quello della psicologia e della
filosofia. TEMPERANZA (gr. cwppootvn; lat. Tempe- rantia; ingl. Temperance;
franc. Tempérance; te- desco Besonnenheit). Una delle virtù etiche di Ari- 863
stotele e precisamente quella che consiste nel giusto uso dei piaceri corporei.
Aristotele notava che la T. non concerne tutti i piaceri corporei (non con-
cerne, ad es., quelli che derivano dalla vista o dall’udito) ma solo quelli che
derivano dal man- giare, dal bere e dal sesso (Er. Nic., III, 9-12). Platone
aveva definito in modo diverso la T., intendendo per essa «l’amicizia e
l’accordo delle parti dell'anima che si ha quando la parte che comanda e quelle
che ubbidiscono convengano nell'opinione che spetti al principio razionale di
governare e così non gli si ribellano +: questa è secondo Platone la T. sia per
l’individuo che per lo Stato (Rep., IV, 442 b). Gli Stoici a loro volta
definirono la T. come «la scienza delle cose da desiderare e di quelle da
fuggire» (STOBEO, Ecl., II, 6, 102). Sulla T. aveva insistito anche l’etica di
Democrito: «La fortuna ci procura la tavola sontuosa, la T. quella a cui nulla
manca» (Fr., 210, Diels). TEMPO (gr. ypévos; lat. Tempus; ingl. Time; franc.
Temps; ted. Zeit). Si possono distinguere tre concezioni fondamentali: 1° il T.
come ordine misurabile del movimento; 2° il T. come movi- mento intuito; 3° il
T. come struttura delle pos- sibilità. Alla prima concezione si connettono,
nel- l’antichità, il concetto ciclico del mondo e della vita dell'uomo
(metempsicosi) e, nell’epoca mo- derna, il concetto scientifico del tempo. Alla
se- conda concezione si connette il concetto di co- scienza, con la quale il T.
viene identificato. La terza concezione, nata dalla filosofia esistenziali-
stica, presenta alcune innovazioni concettuali nel- l’analisi del concetto di
tempo. 1° La più antica e diffusa concezione del T. è quella che lo considera
come l’ordine misura- bile del movimento. Già i Pitagorici definendo il T. come
«la sfera che abbraccia tutto + cioè la sfera celeste, lo collegarono col cielo
che con il suo movimento ordinato ne consente la misura perfetta (ARISroTELE,
Fis., IV, 10, 218a 33). Platone definendo il T. come «l’immagine mo- bile
dell’eternità» (7im., 37d) intende dire che esso riproduce nel movimento, sotto
la forma del periodo dei pianeti, del ciclo costante delle sta- gioni o delle generazioni
viventi e di ogni specie di mutamento, quella immutabilità che è propria
dell’essere eterno. La definizione di Aristotele «il T. è il numero del
movimento secondo il prima ed il dopo » (Fis., IV, 11; 219 b 1) è l’espressione
più perfetta di questa concezione che identifica il T. con l’ordine misurabile
del movimento. Non diverso è il significato della definizione degli Stoici,
secondo la quale il T. è « l'intervallo del movimento cosmico» (Diog. L., VII,
141). L'intervallo non è infatti che il ritmo, 864 cioè l’ordine, del movimento
cosmico. E neppure molto diverso è, forse, il significato della defini- zione
di Epicuro: «Il T. è una proprietà cioè un accompagnamento del movimento »
(STOBEO, Ecl., I, 8, 252). Nel Medio Evo, questa concezione del T. fu condivisa
sia da realisti (ALBERTO Magno, S. Th., I, q. 21, a. 1; S. Tommaso, S. 7A., I,
q. 10, a. 1) che da nominalisti (OckHam, /n Sent., II, q. 12) che ripetettero
concordemente la definizione aristotelica. Telesio, che indugiava a criticare
questa definizione, riduceva a sua volta il T. alla durata e all’intervallo del
movimento (De rer. nat., I, 29). Hobbes definiva il T. «l’immagine (phan-
tasma) del movimento in quanto immaginiamo nel movimento il prima e il dopo
cioè la succes- sione» e riteneva questa definizione in accordo con quella
aristotelica (De Corp., 7, 3). Cartesio ripeteva semplicemente quest’ultima,
definendo il T. come « numero del movimento » (Princ. Phil., I, 57). E Locke
criticava la connessione del T. con il movimento, stabilita dalla definizione
ari- stotelica, solo per affermare che il T. è connesso a qualsiasi specie di
ordine costante e ripetibile: «Qualsiasi apparizione periodica e costante o
mutamento di idee, che accadesse entro spazi di durata apparentemente
equidistanti, e fosse co- stante ed universalmente osservabile, avrebbe po-
tuto servire a distinguere tra loro intervalli del T. egualmente bene che
quelle di cui si è fatto uso in realtà » (Saggio, II, 14, 19). Berkeley
sostituiva, per definire il T., l’ordine delle idee all’ordine del movimento; o
per meglio dire l’ordine del movi- mento interno all’uomo all’ordine del
movimento esterno. «Se io tento, egli diceva, di costruire una semplice idea
del T., astraendo dalla succes- sione delle idee nel mio spirito, che fluisce
uni- formemente ed è partecipata da tutti gli esseri, sono perduto e impigliato
in difficoltà inesplica- bili » (Principles of Human Knowledge, I, 98). Questa
concezione del T. fu da Newton posta a fondamento della meccanica: egli
distingueva il T. assoluto e il T. relativo ma ad entrambi ricono- sceva ordine
e uniformità. « Il T. assoluto vero e matematico, egli diceva, in realtà e per
natura sua, senza relazione a qualcosa di esterno, fluisce uni- formemente
(aequabiliter) e si chiama anche du- rata. Il T. relativo apparente e comune è
una mi- sura sensibile ed esterna della durata mediante il movimento »
(Naruralis philosophiae principia, I, def. VIII). L’uniforme fluire della
durata assoluta fa riscontro, in queste definizioni di Newton, alla uniformità
del movimento che viene assunto come misura del tempo. Leibniz illustrava lo
stesso con- cetto nel modo seguente: « Conoscendo le regole dei movimenti non
uniformi, si può sempre rap- portarli ai movimenti uniformi intelligibili e
pre- TEMPO vedere con questo mezzo ciò che accadrà a diffe- renti movimenti
congiunti insieme. In questo senso il T. è la misura del movimento, cioè il
movimento uniforme è la misura del movimento non uni- forme » (Nouv. Ess., II,
14, 16). E pertanto definiva il T. come « un ordine delle successioni »
(Troisième lettre à Clarke, $ 4): una definizione che veniva accettata da Wolff
(Ontol., $ 572) e da Baumgarten (Met., $ 239). Era questa la concezione cui
Kant faceva implicitamente riferimento quando nell’Este- tica trascendentale
affermava l’idealità trascenden- tale, insieme con la realtà empirica, del T.
(v. oltre). Ma il contributo principale di Kant all’interpreta- zione del
concetto di T. non è contenuto nell’Este- tica trascendentale ma nell’Analitica
dei princìpi e precisamente nella trattazione della seconda ana- logia o
«principio della serie temporale secondo la legge della causalità ». Qui Kant
opera la ridu- zione dell’ordine di successione all’ordine causale. Egli dice
che una cosa «può acquistare il suo determinato posto nel T. solo a condizione
che nello stato precedente si presupponga un’altra cosa a cui essa debba
seguire sempre, cioè secondo una regola ». La serie temporale non si può
invertire perchè « quando lo stato precedente è posto, l’av- venimento deve immancabilmente
e necessariamente seguire »; sicchè «è legge necessaria della nostra
sensibilità e quindi condizione formale di tutte le percezioni che il T.
precedente determini necessa- riamente il seguente ». Questo appunto distingue
la percezione reale del T. dalla immaginazione, che potrebbe e può invertire
l’ordine degli eventi; e che fa della successione temporale « il criterio em-
pirico unico dell’effetto in rapporto alla causalità della causa » (Crir. R.
Pura, An. dei Princ., cap. II, sez. III, 3). Questa riduzione del T. all’ordine
causale che Kant difendeva relativamente alla con- cezione del T. dominante
nella sua epoca, cioè derivata dalla fisica newtoniana, è stata ripresentata ai
nostri giorni nei confronti della fisica einstei- niana. Affermando la
relatività della misura tem- porale, Einstein non ha in realtà innovato in
alcun modo il concetto tradizionale del T. come ordine di successione: ha solo
negato che l’ordine di succes- sione fosse unico ed assoluto (cfr. Uber die
spezielle und die allgemeine Relarivitàtstheorie, 1921, $ 8-9). Ora nei
confronti della fisica di Einstein, H. Rei- chenbach ha riproposto la tesi
kantiana dell’iden- tità del T. con la causalità. «Il T. è l’ordine delle
catene causali: questo è il principale risultato delle scoperte di Einstein »,
egli ha detto (A/berr Einstein: Philosopher-Scientist, ed. by P. A. Schilpp,
1949, pag. 289 sgg.). « L'ordine del T., l'ordine del prima e del dopo, è
riducibile all’ordine causale... L'in- versione dell’ordine temporale per certi
eventi, che è un risultato che deriva dalla relatività della si- TEMPO
multaneità, è solo una conseguenza di questo fatto fondamentale. Dal momento
che la velocità della trasmissione è limitata, esistono eventi tali che nessuno
di essi può essere la causa o l’effetto del- l’altro. Per eventi siffatti,
l’ordine del T. non è definito e ognuno di essi può essere detto posteriore o
anteriore all’altro » (/bid., 1949, pag. 289 sgg.). Gli stessi concetti
Reichenbach ha illustrato nel suo libro postumo 7he Direction of Time (1956):
nel quale identifica l'ordine del T. con la causalità e la direzione del T. con
l’entropia crescente (cfr. spe- cialmente $ 6, 16). La riduzione del T. alla
causalità può essere considerata come la più importante (ma non perciò la più salda)
proposizione filosofica avanzata nel- l'ambito della concezione del T. come
ordine. Assai minore importanza ha invece la discussione, cui i filosofi hanno
spesso inclinato, sulla soggetti- vità od oggettività del T. in questo senso.
Fu Ari- stotele a iniziare queste discussioni giungendo alla conclusione che se
da un lato il T. come misura non può esistere senza l’anima perchè solo l’anima
può misurare, dall’altro il movimento cui la misura si rivolge non dipende
dall’anima (Fis., IV, 14, 223 a 20-29). Nel sec. xrv Ockham, riprendendo queste
considerazioni, affermava che non vi sa- rebbe T. se l’anima non potesse nè
misurare nè numerare (/n Sent., II, q. 12). Perfino Hobbes chiamava il T.
un’immagine (v. definizione prima citata). Meno significativa è la riduzione
del T., operata da Locke e Berkeley all’ordine delle idee: perchè le idee, per
questi filosofi, sono i soli oggetti di cui si possa parlare. Quanto al «
soggettivismo » della concezione kantiana per cui il tempo è «in- tuizione pura
» cioè condizione di qualsiasi perce- zione sensibile, esso è frutto soltanto
di un ma- linteso: giacchè il T. può dirsi soggettivo solo rispetto alle cose
in sè che sono al di là della con- siderazione dell'uomo ma è oggettivo e reale
ri- spetto alle cose naturali, per cui il T. ha «realtà empirica » indubitabile
(Crit. R. Pura, $ 6, 7). L’oggettivismo della concezione kantiana è poi di-
mostrato dalla riduzione del T. all’ordine causale: una tesi a cui i
neo-empiristi hanno acceduto senza conoscere la sua derivazione kantiana. 2° La
seconda concezione fondamentale del T. è quella che lo considera come
intuizione del mo- vimento o «divenire intuito ». Quest’ultima defini- zione è
di Hegel: il quale aggiunge che «il T. è il principio medesimo dell'Io = Io,
della pura auto- coscienza; ma è quel principio o il semplice con- cetto ancora
nella sua completa esteriorità ed astrazione » (Enc., $ 258). Hegel pertanto
non iden- tifica il T. con la coscienza ma con qualche aspetto parziale o
astratto della coscienza stessa. Senza questa limitazione, Schelling aveva
detto « il T. non 35 è se non il senso interno che diviene oggetto per sè»
(System des transzendentalen Idealismus, sez. III, Seconda epoca, D; trad.
ital., pag. 141). E di regola la concezione del T. come intuizione del divenire
porta con sè la riduzione del T. stesso alla coscienza. Così accade già nella
dottrina di Plotino. Secondo Plotino, il T. non esiste fuori dell'anima: esso
«è la vita dell’anima e consiste nel movimento per il quale l’anima passa da
uno stato a un altro della sua vita » (Enn., III, 7, 11): sicchè anche
l’universo si può dire che è nel T. solo in quanto è nell'anima, cioè
nell’anima del mondo (/bid., III, 7, 3). A S. Agostino si deve la migliore
espressione e la diffusione di questa dottrina nella filosofia occi- dentale.
Il T. è identificato da Agostino con la vita stessa dell'anima che si estende
verso il passato o l’avvenire (exfensio o distensio animi). Dice S. Agostino:
«In che modo si diminuisce e con- suma il futuro che ancora non c’è? E in che
modo cresce il passato che più non è, se non perchè nell’anima ci sono tutte e
tre le cose, presente passato e futuro? L’anima infatti attende e fa attenzione
e ricorda, sicchè ciò che essa attende, attraverso ciò cui fa attenzione, passa
in ciò che ricorda. Nessuno nega che il futuro non ancora c’è; ma c’è già
nell'anima l’attesa del futuro. Nessuno nega che il passato non è più, ma c’è
ancora nell’anima la memoria del passato. E nessuno nega che il presente manca
di durata perchè subito cade nel passato; ma dura tuttavia l’attenzione
attraverso la quale ciò che sarà s si allontana verso il passato » (Conf., XI,
28, 1). Il teorema fondamentale di questa concezione del T. è stato enunciato
dallo stesso S. Agostino: « Non ci sono, propriamente parlando tre T., il
passato, il presente e il futuro ma soltanto tre presenti: il presente del
passato, il presente del presente e il presente del futuro» (Ibid., XI, 20, 1).
Nella filosofia moderna, Bergson ha ripresentato questa concezione
contrapponendola al concetto scientifico del tempo. Secondo Bergson, il T.
della scienza è un T. spazializzato e che perciò non ha alcuno dei caratteri
che la coscienza riconosce propri del tempo. Esso viene infatti rappresen- tato
come una linea ma «la linea è immobile, mentre il T. è mobilità. La linea è già
fatta, mentre il T. è ciò che si fa, anzi è ciò per cui ogni cosa si fa» (La
pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 9). Fin dalla sua prima opera,
l’Essai sur /es données immédiates de la conscience, Bergson aveva insistito
sull’esigenza di considerare il T. vissuto, cioè la durata della coscienza,
come una corrente fluida nella quale è impossibile perfino distinguere stati
perchè ogni momento di essa trapassa nel- l’altro con una continuità
ininterrotta come accade per i colori dell'iride. Questo è poi sempre rimasto
il concetto cardine della sua filosofia. Il T. come durata ha, secondo Bergson
due caratteri fonda- mentali: 1° quello della novità assoluta ad ogni istante,
per cui è un continuo processo di creazione; 2° quello della conservazione
infallibile e integrale di tutto il passato per cui fa boule de neige e si
ingrossa continuamente a misura che avanza verso il futuro. Non molto diversa
da questa è la con- cezione che Husserl ha del « T. fenomenologico ». Egli dice:
« Ogni effettiva esperienza vissuta è ne- cessariamente qualcosa che dura; e
con questa durata si inserisce in un infinito continuo di durate, in un
continuo pieno. Essa ha necessariamente un orizzonte temporale attualmente
infinito da ogni parte. Il che significa che appartiene a un'infinita corrente
di esperienze vissute. Ogni singola espe- rienza vissuta, come può cominciare
così può finire e chiudere la sua durata, come fa, per es., l’espe- rienza di
una gioia. Ma la corrente delle esperienze non può nè cominciare nè finire »
(/deen, I, $ 81). Il che significa che, come la durata bergsoniana, la corrente
dell’esperienza conserva tutto ed è una specie di eterno presente. 3° La terza
concezione del T. è quella che riduce il tempo alla struttura della possibilità.
Questa è la concezione illustrata da Heidegger nell’opera Essere e 7. (1927),
che già nel titolo annuncia l’identità dei due termini. La prima ca-
ratteristica di questa concezione è il primato rico- nosciuto all’avvenire
nell’interpretazione del tempo. Le due precedenti concezioni si fondano sul
pri- mato del presente. Il T. come ordine del movimento è una totalità tutta
presente perchè ogni ordine suppone la simultaneità delle sue parti, dal cui
reciproco adattamento l'ordine nasce. La conce- zione del T. come divenire
intuito non fa che interpretare l'intero T. in funzione del presente, perchè
l’intuizione del divenire è sempre un ora, un istante presente. Heidegger ha
interpretato in- vece il T. in termini di possibilità o di progettazione: il T.
è originariamente l’ad-venire (Zu-kunft): più precisamente, quando il T. è
autentico (cioè origi- nario e proprio dell’esistenza) esso è «l’avvenire
dell’ente a se stesso nel mantenimento della possi- bilità caratteristica come
tale». « Avvenire, dice Heidegger, non significa un ora che non è ancora
divenuto attuale e che lo diverrà, ma l’infutura- mento per cui l’Esserci
perviene a se stesso, in base al suo più proprio poter-essere. L’anticipazione
rende l’Esserci autenticamente avveniente sicchè l’anticipazione stessa è
possibile soltanto perchè l’Esserci è, in generale, già sempre pervenuto a se
stesso » (Sein und Zeit, $ 65). Il passato come un essere-stato è condizionato
dall’avvenire perchè, come sono autentiche possibilità quelle che sono già state,
così sono già state le possibilità cui l’uomo TEMPO può autenticamente
ritornare e che può ancora far sue (/bid., $ 65). Sia il T. autentico che è
quello per cui l’Esserci progetta la propria possibilità pri- vilegiata (quello
che è già stato, sicchè le sue scelte sono scelte del già scelto cioè
dell’impossibilità di scegliere) sia il T. inautentico che è quello della
esistenza banale, in cui il T. diventa una successione infinita di istanti,
sono entrambi il sopravvenire all’Esserci (cioè all'uomo) di ciò che la
possibilità progettata gli prospetta; e perciò è un presentarsi, dal futuro, di
ciò che è già stato nel passato (/bid., $ 80, 81). L’analisi del T. di
Heidegger contiene indubbiamente un impegno metafisico assai gra- voso che è
quello per il quale il T. è concepito come una specie di circolo per cui ciò
che si pro- spetta nell’avvenire è ciò che è già stato; e a sua volta ciò che è
già stato è ciò che si prospetta nel- l’avvenire. Heidegger parla in questo
senso di T. finito cioè di T. autentico; giacchè il T. inau- tentico (che
Heidegger chiama anche databilità o T. pubblico) è il misconoscimento parziale
della natura del T. e la concezione di esso come linea aperta e successione
infinita di istanti (Sein und Zeit., $ 79-81). Tuttavia l’analisi di Heidegger
con- tiene alcuni elementi di interesse filosofico notevole perchè
costituiscono una innovazione importante nell’analisi del concetto di tempo.
Tali elementi sono i seguenti: 1° il mutamento dell’orizzonte modale, per
l’interpretazione del T., dalla necessità alla possi- bilità: il T. viene
ricondotto non già ad una strut- tura necessaria, come l’ordine causale, ma
alla struttura stessa della possibilità. Questo punto può essere utilizzato per
esprimere adeguatamente la trasformazione che la nozione di T. ha subito per
opera della relatività di Einstein. Se difatti due eventi, contemporanei per un
certo sistema di rife- rimento, possono non esserlo per un altro, il T. non è
un ordine necessario ma la possibilità di più ordini; 2° il primato del futuro
nell’interpretazione del T. non costituisce soltanto un'alternativa di- versa
ed opposta al primato del presente, su cui si fondano le altre due
interpretazioni principali, ma offre anche la possibilità di non appiattire sul
presente le altre determinazioni del T. e di in- tenderle nella loro natura
specifica: il futuro come futuro (e non già come «presente del futuro ?) e il
passato come passato; 3° il rapporto tra passato e futuro, che Hei- degger ha
irrigidito in un circolo può essere age- volmente sciolto con l’introduzione
della stessa nozione di possibile. Il passato può essere infatti inteso come
punto di partenza o fondamento delle possibilità a venire e l’avvenire come
possibilità di conservazione o di mutamento del passato, in TEODICEA limiti di
volta in volta (e con approssimazione) determinabili; 4° l’introduzione di
nuovi concetti interpreta- tivi espressi da termini come progetto o progetta-
zione, anticipazione, attesa, ecc., che si sono dimostrati particolarmente
utili nell’analisi filoso- fiche e sono difatti entrati nell’uso filosofico
corrente. TEMPORALE (ingl. Temporal; franc. Tem- porel; ted. Zeitlich). 1. Ciò
che appartiene al tempo o concerne il tempo o accade nel tempo. Ad es.,
l’ordine T., uno schema T., ecc. 2. Ciò che è mondano, cioè appartiene
all’ordine del tempo, in contrapposto a ciò che è spirituale ed appartiene
all’ordine dell’eternità. La contrappo- sizione di T. e spirituale è uno dei
temi dominanti del cristianesimo paolino (cfr., ad es., Ad Cor. II IV, 18; Ad
Hebr., XI, 25; ecc.) TEMPORANEO (ingl. 7. emporary; franc. Tem- poraire; ted.
Einstweilig). Di scarsa durata, prov- visorio. TENDENZA (ingl. Tendency; franc.
Tendance; ted. Trieb). Si intende per T. ogni spinta all’azione, abituale e
costante; nel che la T. si distingue dal- l'impulso (v.) che è una spinta
all’azione improv- visa e temporanea. Kant limitava il significato del termine
all’appetito abituale di natura sensibile (Antr., $ 73). Schiller ammetteva
nell’uomo tre T. fondamentali di cui la prima, di natura sen- sibile, lo spinge
al mutamento; la seconda o 7. alla forma lo spinge all’immutabilità e infine la
terza 0 7. al gioco lo spinge a conciliare le due prime (Briefe liber die
aesthetische Erziehung, 12-13). A questa distinzione Fichte ne contrap- pose
un’altra: cioè quella tra la 7. alla cono- scenza, che fa dell’uomo un «essere
rappresen- tante »; la T. pratica che mira alla modificazione e formazione
delle cose; e la T. estetica che mira a una rappresentazione determinata solo
in vista della rappresentazione stessa e non della cosa o della conoscenza di
essa (Werke, VIII, pag. 278-79). Più recentemente Jaspers ha distinto tre
ordini di T.: 1° quelle sensibili con correlato somatico (la fame, la sete, il
sesso, ecc.); 2° quelle vitali ma senza localizzazione somatica (la T.
all’esaltazione di sè o alla sottomissione, all’emigrazione, alla so-
cievolezza, ecc.); 3° le T. spirituali cioè quelle dirette alla realizzazione
di valori (Allgemeine Psy- chopathologie). TENSIONE (gr. révoc; ingl. Tension;
fran- cese Tension; ted. Spannung). 1. La connessione tra due opposti che sono
legati soltanto dalla loro opposizione. Questo concetto costituiva, secondo gli
antichi (cfr. FiLone, Rer. Div. Her., 43), la grande scoperta di Eraclito. «
Gli uomini non sanno, aveva detto Eraclito, come ciò che è discorde è in
accordo con sè: armonie di T. opposte, come 867 quelle dell’arco e della lira »
(Fr., 51, Diels). Anche gli Stoici parlarono in questo senso della T. che tiene
insieme l’universo (ARNIM, Stoic. Fragm., II, 134). Mentre la dialettica (v.) è
l’unità degli op- posti come loro sintesi 0 conciliazione, la T. è il legame
tra gli opposti come tali, senza concilia- zione o sintesi. Le situazioni di T.
sono perciò quelle che non lasciano prevedere la conciliazione; in tal senso la
parola è usata anche nel linguaggio comune, come quando si parla della « T.
interna- zionale ». Nello stesso senso si parla di « T. psichica + per indicare
uno stato latente di conflitto. 2. Gli Stoici (e precisamente Cleante; cfr.
ARNIM, Stoic. Fragm., I, 128) introdussero la nozione di T. come forza tendente
a un risultato: nel qual senso la nozione è un sinonimo di tendenza o di
sforzo, e specialmente di sforzo prolungato o noso. TEOCRASIA (gr. 0eoxpacta;
ingl. Theocrasy; franc. Théocrasie; ted. Theocrasie). L'unione o mescolanza
dell’anima con Dio, nel misticismo (cfr. GiamBLICO, De vita pythagorica, 33,
240). TEOCRAZIA (ingl. Theocracy; franc. Théo- cratie; ted. Theokratie). 1. Il
regime politico in cui il governo è esercitato dalla casta sacerdotale. In
questo senso furono T. lo Stato ebraico, lo Stato maomettano e il calvinismo in
Ginevra. 2. La dottrina della supremazia del potere eccle- siastico, dal quale
il potere civile trarrebbe il suo diritto e la sua investitura. T. in questo
senso fu il curialismo medievale. 3. Più in generale, qualsiasi dottrina la
quale ri- tenga che ogni autorità derivi da Dio (v. AUTORITÀ). TEODICEA (ingl.
Theodicy; franc. Théodicée; ted. Theodizee). Termine creato da Leibniz come
titolo di una sua opera (Saggio di T. sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo
e l'origine del male, 1710) per indicare la dimostrazione della giustizia
divina mediante la soluzione dei due problemi fon- damentali; quello del male e
quello della libertà umana. Sul primo problema, la T. di Leibniz risponde più
specialmente alle considerazioni svolte da Bayle nel suo Dizionario (1697):
considerazioni che in realtà poi non facevano che amplificare quanto avevano
già detto gli Epicurei in polemica con gli Stoici: «Dio o non vuol togliere i
mali e non può, 0 può e non vuole, o non vuole nè può o vuole e può. Se vuole e
non può, è impo- tente: il che non può essere in Dio. Se può e non vuole è
invidioso, il che del pari è contrario a Dio. Se non vuole nè può è invidioso e
impotente perciò non è Dio. Se vuole e può, il che solo con- viene a Dio, da
che cosa deriva l’esistenza dei mali e perchè non li toglie?» (Fr., 374,
Usener). La soluzione di Leibniz è quella tradizionale: il male non è una
realtà e pertanto la sua respon- 868 sabilità non risale a Dio (v. MALE). Circa
il pro- blema della libertà Leibniz discute soprattutto le varie forme che il
determinismo teologico aveva assunto nella letteratura protestante
contemporanea, per rivendicare all'uomo la libertà nel senso tradi- zionale di
autodeterminazione (v. LIBERTÀ). Dio inclina senza necessitare e la libertà
dell’uomo non consiste nell’indeterminazione assoluta, cioè nell’ar- bitrio di
indifferenza, ma nell’assenza di necessità e di costrizione (v. LmertÀ). Da
Leibniz in poi la T. è considerata come una parte fondamentale della teologia
razionale (v. TEOLOGIA). TEOFANIA (lat. Theophania; ingl. Theophany; franc.
Théophanie; ted. Theophanie). Il termine che significa « visione di Dio» venne
usato da Scoto Eriugena (sec. 1x) per indicare il mondo come ma- nifestazione
di Dio. T. è, secondo Eriugena, il processo che da Dio discende all'uomo con la
creazione per ritornare attraverso l’uomo a Dio con l’amore. T. è anche ogni
opera della creazione in quanto manifesta l'essenza divina, che perciò diventa
visibile in essa e attraverso di essa (De divis. nat., I, 10; V, 23). TEOGNOSI
(ted. Theognosis). La conoscenza scientifica di Dio (cfr. C. F. Krause,
Vorlesungen liber das System der Philosophie, 1828, pag. 27). Termine molto
raro. TEOGONIA (gr. Broyovla; ingl. Theogony; fran- cese Théogonie; ted.
Theogonie). La generazione degli dèi e del mondo: la cosmologia mitica (cfr.
PLATONE, Leggi, X, 886 c) (v. COSMOLOGIA). TEOLOGIA (gr. Geodoyla; lat.
Theologia; in- glese Theology; franc. Théologie; ted. Theologie). In generale,
ogni trattazione o discorso o predica che abbia per oggetto Dio o le cose
divine. In questo senso generalissimo la parola fu intesa dal grande erudito
romano Marco Terenzio Varrone (sec. 1 a. C.), del quale S. Agostino ci ha
conser- vato la distinzione di tre T.: la T. mitica o favo- losa; la T.
naturale o fisica; la T. civile. La T. mitica o favolosa è quella di cui si
servono i poeti e che ammette molte finzioni contrarie alla dignità e alla
natura della divinità. La T. naturale è quella dei filosofi, che ha per oggetto
«ciò che gli dèi sono, il luogo in cui risiedono, il loro genere, la loro
essenza, il tempo in cui sono nati o la loro perennità; e se essi prendono il
loro principio dal fuoco, come crede Eraclito, o dai numeri come dice Pitagora
o dagli atomi come dice Epicuro +. Infine la T. civile «è quella che nelle
città i cit- tadini, e soprattutto i sacerdoti, devono conoscere e praticare e
che insegna quali divinità si debbano onorare pubblicamente e quali cerimonie e
quali sacrifici sia opportuno fare» (AGOSTINO, De Civ. Dei, VI, 5). In questo
senso varroniano, Vico considerava la sua «scienza nuova» come «una TEOFANIA T.
civile ragionata della provvedenza » in quanto essa trae origine dalla
«sapienza volgare dei le- gislatori che fondarono le nazioni con contem- plare
Dio per l’attributo di provvedente + (Sc. N., II, Corollari d’intorno agli
aspetti principali di questa scienza). In senso più specificamente sto-
rico-filosofico si possono distinguere: 1° la T. metafisica; 2° la T. naturale;
3° la T. rivelata; 4° la T. negativa. 1° Aristotele chiamò T. la sua « scienza
prima » cioè la metafisica: che egli intendeva, nello stesso tempo, come
scienza dell’essere in quanto essere cioè della sostanza e come scienza della
sostanza eterna, immobile e separata, cioè di Dio (Mer., VI, 1, 1026a 10).
Questo concetto della T. come metafisica è rimasto per lunghi secoli. Lo stoico
Cleante includeva la T. tra le parti della filosofia (Diogc. L., VII, 41). Per
Plotino, la T. era la sola scienza degna del nome (Enn., V, 9, 7). E da questo
punto di vista spesso i neoplatonici chia- marono teologi tutti i filosofi,
anche i fisici o i materialisti, in quanto si occupavano, come dice Proclo, dei
« princìpi primissimi delle cose in quanto per sè sussistenti » (P/ar. 7heol.,
I, 3.) Questo è anche il significato che Varrone attribuiva all’espres- sione «
T. naturale ». Quest'uso continuò nella filo- sofia cristiana: nè nella
patristica nè nella prima età della scolastica si potrebbe rintracciare una
delimitazione precisa tra T. e filosofia. Lo stesso S. Tommaso, in una prima
fase del suo insegna- mento, accettò l’identità di T. e di metafisica come
appare dal prologo del suo commento alla Mera- fisica di Aristotele. Qui egli
dice che poichè la metafisica considera in primo luogo le sostanze se- parate o
divine, in secondo luogo l’ente in quanto tale e in terzo luogo le cause o i
princìpi primi, essa «si dice scienza divina o T. in quanto consi- dera le
sostanze separate; metafisica in quanto con- sidera l’ente;... e prima
filosofia in quanto considera le cause prime delle cose» (/n Mer., Proemium).
Nel sec. xvi si cominciò a distinguere la « filo- sofia prima », che si chiamò
anche ontologia (v.), dalla T.; e si cominciò a distinguere anche la T. come
scienza naturale dalla T. fondata sulla rivela- zione. Queste distinzioni si
trovano chiaramente sta- bilite nel De Augumentis Scientiarum (1623) di F. Ba-
cone: che chiamò 7. naturale la conoscenza che si può ottenere di Dio «mediante
il lume della natura e la contemplazione delle cose create » (De Augm. Scient.,
III, 2) e chiamò 7. ispirata o sacra quella che si fonda su princìpi
direttamente ispirati da Dio (/bid., II, 1). 2° Il secondo concetto della T. è
pertanto quello di 7. naturale che si distingue dal prece- dente soltanto per
il fatto di comprendere una parte e non il tutto della metafisica; e
precisamente TEOLOGIZZANTE, FILOSOFIA quella parte che ha per oggetto le cose
divine. L'espressione baconiana « T. naturale» fu ripresa e diffusa da Wolff:
questi la definiva come «la scienza di ciò che è possibile per opera di Dio +
perciò come una parte della filosofia, la quale è in generale la scienza delle
cose possibili (Log., Disc. Prael., 57). Baumgarten insisteva sul carattere
razionale della T. così intesa: «La T. naturale è la scienza di Dio in quanto
si può conoscere senza la fede » (Mer., $ 800); e la riteneva come fonda- mento
della filosofia pratica, della T. e della T. rivelata (Zbid., $ 601). Fu questo
il concetto di T. che, insieme con il suo contenuto, subì la cri- tica di Kant
nella Critica della Ragion Pura. Kant tuttavia si preoccupò pure di distinguere
le varie specie della T.; e partendo dalla distinzione base tra T. razionale e
T. rivelata, distinse, nella T. ra- zionale, la T. trascendentale la quale «
concepisce il suo oggetto semplicemente con la ragion pura, mediante meri
concetti trascendentali (ens origi- narium, realissimum, ens entium)+ e la T.
naturale che si avvale di «concetti che ricava dalla natura ». A sua volta la
T. trascendentale può essere cosmo- teologia se deduce l’esistenza di Dio
dall’esperienza in generale; od ontofeologia se deduce la sua esi- stenza con
semplici concetti senza ricorrere al- l’esperienza. Infine la T. naturale può
essere o T. fisica, se risale agli attributi di Dio movendo dall'ordine e dalla
costituzione del mondo; o T. morale, se considera Dio come il principio del-
l’ordine e della perfezione morale (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. III, sez.
VII). Alcune di queste distinzioni sono rimaste e ancora vengono adope- rate
nel campo della T. ecclesiastica. 3° La 7. rivelata o sacra è quella che desume
i suoi princìpi dalla rivelazione. La prima esplicita formulazione di questo
concetto è, probabilmente, quella tomistica: S. Tommaso afferma che «la sacra
dottrina è scienza giacchè procede da prin- cìpi noti attraverso il lume di una
scienza supe- riore, che è la scienza di Dio e dei beati» (S. 7H., I, q. 1, a.
2). La «scienza di Dio e dei beati» coincide poi con «gli articoli di fede » o
«Ia rive- lazione divina +» (/bid., a. 7-8). Era questa la T. che Duns Scoto
considerava come scienza puramente pratica, di fronte alla metafisica, che egli
conside- rava come la scienza teoretica per eccellenza: la T. infatti non
avrebbe altro scopo se non quello di persuadere l’uomo ad agire per la propria
salvezza (Op. Ox., Prol., q. 4, n. 42); e le stesse verità apparentemente
teoretiche avrebbero solo va- lore pratico come, per es., la proposizione « Dio
è trino » che includerebbe semplicemente la cono- scenza del retto amore che l’uomo
deve a Dio (Ibid., Prol., q. 4, n. 31). La negazione del valore conoscitivo
della T. persiste, sul finire della scola- 869 stica, anche quando non si
riconosce alla totalità di essa il carattere pratico. Ockham, considerava la
T., non come una scienza, ma come un sem- plice insieme di conoscenze diverse,
teoretiche e pratiche, poggianti esclusivamente sull’autorità e aventi lo scopo
di avviare l’uomo alla salvezza (In Sent., Prol., q. 12, E-I). Questo concetto
non è molto diverso da quello che Spinoza doveva esporre più tardi nel Trattato
teologico-politico (cfr. specialmente cap. 15). 4° Il concetto della 7.
negariva è sorto e si è tramandato nell’ambito del misticismo. La di- stinzione
tra T. positiva o affermativa, la quale procede da Dio verso il finito mediante
la deter- minazione degli attributi o nomi di Dio; e la T. negativa che procede
dal finito a Dio e lo consi- dera al di sopra di tutti i predicati o nomi coi
quali si può designarlo, si trova nei trattati dello Pseudo Dionigi
l’Areopagita (De mysf. theol., 1; De div. nom., I, 4; 4, 2; 13, 1; De eccl.
hyerar., 2, 3); ma la sua fonte è negli scritti neoplatonici che pon- gono Dio
al di sopra di tutte le determinazioni finite e dello stesso essere (v.
TRASCENDENZA). Essa viene ripetuta da Scoto Eriugena (De divis. nat., JI, 30),
ripresa dal misticismo speculativo tedesco del sec. x1v (cfr. ECKEHART, in
PFEIFFER, Deutsche Mystiker des 14 Jahrhunderts, II, pag. 318-19); e nel
Rinascimento da Nicolò da Cusa (De docta ignor., I, 24; 26) e da Bovillo (De
nihilo, 11, 1, 4). Si può considerare come una manifestazione di questa T.,
rivissuta attraverso l’esperienza di Kier- kegaard, la cosiddetta « T. della
crisi » di K. Barth: soltanto che una tale T. non consiste nel negare di Dio
gli attributi finiti ma nel considerare il rapporto tra l’uomo e Dio come la
negazione di tutte le possibilita umane (crisi) e la loro ridu- zione a mere
impossibilità, sicchè solo da questa negazione nasca una possibilità di
salvezza, di origine, non più umana, ma divina (Ròomerbrief). TEOLOGICHE, VIRTÙ
(lat. Virtutes theo- logicae; ingl. Theological Virtues; franc. Vertus
théologiques; ted. Theologische Tugenden). Così furono chiamate nel Medio Evo
la fede, la speranza e la carità in quanto virtù dipendenti da doni divini e dirette
al raggiungimento di una beatitudine cui l’uomo non può giungere con le sole
forze della sua natura. Per questo carattere soprannaturale le virtù T. si
distinguono da quelle etiche (v.) e diano- etiche (v.) (cfr. S. Tommaso, S.
7h., II, 1, q. 62, a. 1). Per le singole virtù, confronta le relative voci.
TEOLOGIZZANTE, FILOSOFIA. Così Croce ha chiamato la filosofia che si occupa di
problemi mal posti e come tali irresolubili, sia poi che li dibatta come
«massimi» o «eterni», pro- 870 blemi, sia che li risolva con sistemi «
immaginari » sia infine che assuma di fronte ad essi un atteg- amento agnostico
(Sulla filosofia T. e le sue sopravvivenze, in Saggi Filosofici, 1920, V, pag.
297). ‘TEOMANZIA (ingl. Theomancy; ted. Theo- mantie). La divinazione ispirata
dalla divinità (vedi NTUSIASMO). ‘TEOMONISMO (ted. Theomonismus). La dot- trina
secondo la quale Dio è l’unica realtà: lo stesso che acosmismo (v.) o panteismo
(v.). TEONOMIA (ingl. Theonomy; franc. Théo- nomie; ted. Theonomie). Governo o
legislazione di Dio. Il termine viene talora opposto ad auto- nomia.
TEOPANTISMO (ingl. Theopantism; fran- cese Théopantisme; ted. Theopantismus).
La dot- trina che Dio è la sola realtà: lo stesso che pan- teismo (v.).
‘TEOPNEUSTIA (ingl. Theopneusty; francese Théopneustie; ted. Theopneustie).
L'ispirazione di- vina attraverso la quale viene comunicata la ve- rità
rivelata. ‘TEOREMA (gr. 8éwpnua; lat. Theorem; fran- cese Théorème; ted.
Theorem). Una qualsiasi pro- posizione dimostrabile. Il termine entrò fin
dall'an- tichità nel linguaggio matematico (cfr. ARISTOTELE, Mer., XIV, 2,
1090a 14); ma ha conservato e conserva, anche fuori del linguaggio matematico
il suo significato di proposizione non primitiva ma derivata o derivabile da
altre proposizioni. TEORETICO (gr. 0ewpnrix6c; lat. Specula- tivus; ingl.
Theoretical; franc. Théorétique; tedesco Theoretisch). L'aggettivo corrisponde
a specula- zione (v.) ed ha perciò come questo sostantivo due significati
fondamentali: 1° ciò che è puramente conoscitivo e si oppone a pratico; 2° ciò
che non è riducibile all’esperienza e si oppone a empirico. Nel primo esempio
si parla di «scienze T.»; nel secondo, di « concetti T.3. TEORIA (gr. 0ewpia;
lat. Theoria; ingl. Theory; franc. Théorie; ted. Theorie). Il termine ha i se-
guenti significati principali: 1° Speculazione o vita contemplativa. Questo è
il significato che il termine ebbe in Grecia. Ari- stotele identificava in
questo senso la T. con la beatitudine (Er. Nic., X, 8, 1178 b 25). In questo
senso, T. si oppone a pratica e in generale ad ogni attività non disinteressata
cioè che non abbia come fine la contemplazione; 2° Una condizione ipotetica
ideale nella quale abbiano pieno adempimento norme o regole che, nella realtà,
vengono solo imperfettamente o par- zialmente seguite. Questo significato si dà
alla pa- rola T. quando si dice: «In T. dovrebbe essere così, ma in pratica è
tutt’altra cosa », Kant esami- nava il problema del rapporto tra T. e pratica
in TEOMANZIA questo senso in uno scritto del 1793 (Uber den Gemeinspruch: Das
mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht fiir die Praxis): nel quale
si dànno le seguenti definizioni della T. e della pratica: «Si chiama T. un
complesso di regole anche pra- tiche quando siano pensate come principi
generali e si faccia astrazione da una quantità di condizioni che hanno
tuttavia influenza necessaria sulla loro applicazione. Inversamente, si chiama
pratica, non qualsiasi atto, ma solo quello che attua uno scopo ed è pensato in
rapporto a princìpi di condotta rappresentati universalmente» (Op. cit., in
principio). 3° La cosiddetta «scienza pura » cioè la parte della scienza che
non considera le applicazioni della scienza stessa alla tecnica produttiva.
Oppure quelle scienze o parti di scienze che consistono nel- l’elaborazione concettuale
o matematica dei risul- tati, per es., la «fisica teorica ». 4° Un'ipotesi o un
concetto scientifico. Que- st’ultimo significato va specialmente considerato
sotto questa voce perchè il problema della T. scientifica costituisce uno dei
capitoli più impor- tanti della metodologia delle scienze. I risultati
principali delle ricerche in questo campo possono essere ricapitolati nel modo
seguente: a) La T. scientifica è un’ipotesi o almeno con- tiene una o più
ipotesi come sue parti integranti. La scienza moderna ha abbandonato la
ripugnanza della scienza del sec. xv e xxx contro le ipotesi, ripugnanza che fu
così bene espressa da Newton e da altri (v. IPOTESI). Questo è accaduto perchè
l’ipo- tesi ha cessato di essere una congettura circa le cause ultime o
nascoste dei fenomeni. Kant aveva già condannato le «ipotesi trascendentali»
che fanno appello ad una semplice idea della ragione e si era pronunciato in
favore delle ipotesi empi- riche il cui carattere è «Ja sufficienza per
determi- nare a priori le conseguenze che sono già date » (Crir. R. Pura,
Dottrina del metodo, cap. I, sez. 3). Claude Bernard nel 1865 affermava,
insieme, l’in- dispensabilità delle teorie e il loro carattere ipo- tetico nel
senso stretto del termine. « Lo sperimen- tatore, egli diceva, pone la sua idea
[o ipotesi sperimentale] come una questione, come un’inter- pretazione
anticipata della natura, più o meno probabile, da cui deduce logicamente
conseguenze che confronta ad ogni istante con la realtà per mezzo
dell’esperienza » (Introduction à l’étude de la médecine expérimentale, I, 2).
E vedeva la fecon- dità delle ipotesi per la scoperta di fatti nuovi: «Le
ipotesi hanno per oggetto non solo di farci fare esperienze nuove, ma ci fanno
anche scoprire fatti nuovi che non avremmo percepito senza di esse » (Zbid.,
III, 1, 2). Ai principi del nostro secolo il carattere dell’ipotesi scientifica
(che è quello stesso dell’ipotesi in generale) di non poter essere TEORIA 871
direttamente provata dai fatti veniva chiaramente riconosciuto da E. Mach: «
Chiamiamo ipotesi una spiegazione provvisoria che ha lo scopo di far
comprendere più facilmente i fatti ma che sfugge ancora alla prova dei fatti»
(£rkenntniss und Irrtum, 1905, cap. XIV; trad. franc., pag. 240). E Duhem così
elencava le condizioni cui un’ipo- tesi dovrebbe rispondere per essere scelta a
fondamento di una T. fisica: 1° l’ipotesi non dev’essere una proposizione
contraddittoria; 2° non dev'essere contraddittoria con le altre ipotesi della
stessa scienza; 3° le ipotesi devono essere tali che dal loro insieme la
deduzione matematica possa tirare conseguenze che rappresentino, con approssi-
mazione sufficiente, l'insieme delle leggi sperimentali (La théorie physique,
II, 7, 1, pag. 363). Poincaré insisteva a sua volta sulla necessità delle
ipotesi per qualsiasi procedura sperimentale e sulla ne- cessità di non
moltiplicare le ipotesi stesse. Que- st’ultima avvertenza non è che il vecchio
principio dell'economia (v.) o rasoio di Ockham, sempre valido nel campo delle
formulazioni concettuali (La science et l'hypothèse, 1902, cap. IX). b) Una T.
scientifica non è un’aggiunta interpretativa al corpo della scienza ma è lo
sche- letro di questo corpo. In altri termini la T. con- diziona sia
l’osservazione dei fenomeni sia l’uso stesso degli strumenti di osservazione.
Su questo punto è rimasto classico il libro di Duhem La teoria fisica (1906;
cfr. specialmente il cap. IV della seconda parte). È questo un punto che è
stato talora sfruttato allo scopo di mostrare il carattere relativo o imperfetto
della conoscenza scientifica. Così ha fatto, per es., E. Le Roy (Science et
philosophie, 1899-1900). Ma in realtà esso in- valida, non già la scienza, ma
la tesi della separa- zione netta tra osservazione e T. e quella della verità
assoluta della scienza. c) Una T. scientifica contiene, oltre la sua parte
ipotetica, un apparato che consente la sua verificazione o conferma. Duhem
distingueva in una T. fisica quattro operazioni fondamentali e cioè: 1° la
definizione e la misura delle grandezze fisiche; 2° la scelta delle ipotesi; 3°
lo sviluppo matematico della T.; 4° il confronto della T. con l'esperienza (La
théorie physique, I, 2, $ 1). Ov- viamente le prime tre di queste operazioni
costi- tuiscono la costruzione e lo sviluppo dell’ipotesi, mentre la quarta è
diversa e costituisce la fase della conferma. Analogamente, Norman R. Camp-
bell ha distinto in ogni T. fisica due gruppi di pro- posizioni: « uno
consistente di asserzioni circa qual- che collezione di idee che sono
caratteristiche della T.; l’altro consistente nelle relazioni tra queste idee e
altre idee di natura diversa ». Il primo gruppo di idee è l’ipotesi, il secondo
è il dizionario. Lo scopo del dizionario è di rendere possibile la veri- fica
indiretta dell’ipotesi. Dice Campbell: « De- v'essere possibile determinare,
indipendentemente dalla conoscenza della T., se certe proposizioni che
contengono le idee del dizionario sono vere o false. Il dizionario riferisce
alcune di queste proposizioni, la cui verità o falsità è conosciuta, a certe
proposizioni che comprendono le idee ipotetiche affermando che, se il primo
insieme di proposizioni è vero, allora anche il secondo è vero e viceversa;
questa relazione può essere espressa dall’asserzione che il primo insieme
implica il secondo + (Physics: the Elements, 1920, pag. 122). Analogamente
ancora G. Bergmann ha detto che una T. scientifica consiste di: 1° assiomi; 2°
teo- remi; 3° prove di questi teoremi e 4° definizioni (Philosophy of Science,
1957, pag. 35); nella quale elencazione le « prove dei teoremi» costituiscono
l’apparato di verificazione della teoria. Due osser- vazioni sono molto
importanti a questo proposito. La prima è che le modalità e il grado della
prova o conferma, che una T. deve possedere per essere dichiarata o creduta «T.
scientifica », non sono definibili con un criterio unitario. Ovviamente, la
verità di una T. psicologica o di una T. economica richiede apparati di prova
completamente diversi da quello di una T. fisica, perchè le tecniche di
verifica sono completamente diverse. Anche i gradi di conferma richiesti sono
diversi e spesso, fuori del campo della fisica, si chiamano « T.» semplici
congetture che non includono il minimo apparato di prova. La seconda
osservazione è che ogni ap- parato di prova esige la limitazione delle ipotesi
contenute nella T.: giacchè, dove queste ipotesi si possono moltiplicare ad
arbitrio, la T. può es- sere mantenuta anche contro qualsiasi smentita empirica
e la sua conferma diventa indifferente (come fu, ad es., nel caso della T.
degli epicicli nella cosmologia tolemaica). Ma anche con questa limitazione è
spesso difficile decidere sino a che punto l’acquisizione di qualche dato
sperimentale si concili con la T. o metta in crisi l’insieme della T. stessa.
d) Una T. non è necessariamente una spie- gazione del dominio di fatti cui si
riferisce, ma uno strumento di classificazione e di previsione. Già Duhem
osservava: « Una T. vera non è quella che dà, delle apparenze fisiche, una
spiegazione conforme alla realtà; è piuttosto una T. che rap- presenta in modo soddisfacente
un insieme di leggi sperimentali » (La rhéorie physique, I, 2, 1). La verità di
una T. consiste nella sua validità; e la sua validità dipende dalla sua
capacità di adem- piere alle funzioni cui è chiamata. Le funzioni di una T.
scientifica possono essere specificate come segue: 1° una T. deve costituire
uno schema 872 di unificazione sistematica per contenuti diversi. Il grado di
comprensività di una T. è uno dei fonda- mentali elementi di giudizio della sua
validità; 2° una T. d ve offrire un complesso di mezzi di rappresentazione
concettuale e simbolica dei dati di osservazione. Sotto questo aspetto, il
criterio cui deve soddisfare è quello dell’economia dei mezzi concettuali cioè
della sua semplicità logica; 3° una T. deve costituire un insieme di regole di
inferenza che consentano la previsione dei dati di fatto. Questo è ritenuto
oggi uno dei compiti fondamentali di una T. scientifica; e la capacità di
previsione di una T. è il criterio fondamentale per valutarlo (cfr. S. TOULMIN,
The Philosophy of Science, 1953, pag. 42; M. K. MUNITZ, Space Time and
Creation, 1957, IV, 1). TEOSI. V. DEIFICAZIONE. ‘TEOSOFIA (gr. Brocogla; ingl.
Theosophy; fran- cese Théosophie; ted. Theosophie). Il termine veniva già usato
dai Neoplatonici per indicare la cono- scenza delle cose divine dovuta a una
diretta ispi- razione da Dio (PORFIRIO, De Absr., IV, 17; GIAM- BLICO, De
Myst., VII, 1; ProcLOo, Theol. Plat., V, 35). Fu ripreso nello stesso senso da
Jacob Bòhme (Sex Puncta Theosophica, 1620; Quae- stiones Theosophicae, 1623) e
da altri mistici della Riforma. Kant osservava che la limitazione della ragione
«impedisce che la teologia si elevi alla T., a concetti trascendentali in cui
la ragione si smar- risce » (Crit. del Giud., $ 89). E Schelling parlava del teosofismo
di Jacobi, intendendo per teosofi i filosofi che si ritengono direttamente
ispirati da Dio (Miinchener Vorlesungen in Werke, X, pag. 165). In seguito il
termine è stato ripreso nel 1875 dai fondatori della Società teosofica tra i
quali vi era Elena Petrowna Blavatsky, autrice di due opere /side svelata
(1877) e Dottrina segreta (1888) che esponevano la nuova T.: un mi- scuglio di
occultismo e di credenze orientali, che si assumeva avesse a suo fondamento una
diretta ispirazione di Dio. Le vicende e le dottrine di questa società cadono
fuori della filosofia. Basti qui accennare allo scisma provocato da Rudolf
Steiner e che portò quest’ultimo alla formulazione dell’antroposofia (v.).
‘TERMINE (gr. 6poc; lat. Terminus; inglese Term; franc. Terme; ted. Terminus).
I significati principali sono i seguenti: 1° un segno linguistico o un insieme
di segni. Questo è il significato che più da vicino interessa la filosofia (v.
oltre); 2° qualsiasi oggetto o cosa cui un discorso si riferisca. In tal senso
è sinonimo appunto di oggetto (v.) o di cosa (v.); 3° i confini di
un'estensione, per es., il T. di una linea o di una superficie; TEOSI 4° il
punto d’arrivo di un’attività o il risul- tato di un’operazione. In questo
senso, ad es., il T. della volontà è l’azione o dell’intelletto la conoscenza;
5° il punto di partenza o il punto d’arrivo di un movimento. E in tal senso si
parla di terminus a quo e di terminus ad quem (v.). Nel primo significato, che
interessa la logica, si possono distinguere i seguenti significati subordinati:
a) gli elementi che entrano a comporre le premesse del sillogismo categorico
cioè il soggetto e il predicato; b) tutti i componenti semplici che entrano
nelle proposizioni. In questo senso sono T. non solo il soggetto e il predicato
ma anche i verbi, le pre- posizioni, le congiunzioni cioè i componenti sin-
categorematici (v.). Non sono T. invece le propo- sizioni perchè non sono
semplici; c) tutti i componenti delle proposizioni sia semplici che complessi.
In questo senso generalis- simo sono T. non solo il soggetto, il predicato, il
verbo e i componenti sincategorematici, ma anche le proposizioni in quanto
possono entrare a far parte di altre proposizioni, come quando si dice «
Socrate è uomo, è una proposizione ». Il significato a) è quello definito da
Aristotele (An. Pr., I, 1, 24b 16) e che è rimasto a lungo anche nella logica
medievale (cfr. PIETRO IsPANO, Summ. Log., 4.01). Gli altri significati sono
stati ammessi dalla logica terministica del sec. x1v e si possono leggere in
Ockham (Summa Logicae, I, 2). Data questa diversità del significato della
parola, le divisioni del concetto sono state numerose e diverse. Quella che i
logici terministi considerano come fondamentale è la divisione tra T. scritto,
T. parlato, e T. pensato, corrispondenti alle tre specie di proposizioni
distinte da Boezio. Essi di- stinsero inoltre i T. categorematici e
sincategore- matici (v.); concreti e astratti (v.); connotativi e assoluti (v.
CONNOTAZIONE); univoci ed equivoci (v.) (cfr., su queste divisioni, OCKHAM,
Summa Logicae, I, 3 sgg.). Nella logica moderna la parola è assunta nel
significato più esteso, cioè nel senso c) (cfr. CHURCH, Introduction to
Mathematical Logic, n. 4). Nella matematica, è assunta in un analogo
significato, intendendosi per T. qualsiasi componente, semplice o complesso, di
una espressione. TERMINISMO (ingl. Terminism; franc. Ter- minisme; ted.
Terminismus). Sin dai princìpi del sec. xv, si indicarono con il nome di
terministi (terministae) o nominalisti (nominales) i sostenitori della tesi
nominalistica nella disputa sugli univer- sali (v. NOMINALISMO; UNIVERSALE) che
erano, nel contempo, cultori della nuova /ogica, considerata come lo studio
delle proprietà dei termini. Gio- TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL vanni Gerson
(morto il 1429) già parla della di- sputa tra formalisti e terministi (De
Concepribus, in Opera, 1706, IV, pag. 806). E in un manoscritto dello stesso
secolo della Biblioteca Colbert (stampato in parte da S. BaLuzi, Miscellanea,
IV, pag. 531 f) è detto: «Sono detti nominalisti i dottori che non mol-
tiplicano le cose significate dai termini a seconda della moltiplicazione dei
termini; realisti invece quelli che affermano che le cose si moltiplicano
secondo la molteplicità dei termini... Inoltre sono detti nominalisti coloro che
usano studio e dili- genza per conoscere tutte le proprietà dei termini dalle
quali dipende la verità o la falsità delle pro- posizioni; le quali proprietà
sono la supposizione, la nominazione, l’estensione, la restrizione, la di-
stribuzione e gli esponibili: e che conoscono inoltre le antinomie
(obligationes) e i veri fondamenti degli argomenti dialettici » (riportato in
PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 187). Lo studio, di cui qui si parla,
delle proprietà dei termini, muo- veva dall’indirizzo generale di questi
filosofi e logici per il quale la conoscenza e la scienza non hanno per oggetto
altro che termini. Diceva a questo proposito Ockham: « Qualsiasi scienza, sia
razio- nale sia reale, è scienza solo di proposizioni e di proposizioni in quanto
sono conosciute, in quanto solo le proposizioni sono conosciute. Tutti i ter-
mini di queste proposizioni sono soltanto concetti e non già sostanze esterne»
(/n Senr., I, d. 2, + 4, M, N) (v. Logica; NOMINALISMO; UNIVERSALE).
TERMINOLOGIA (ingl. Terminology; fran- cese Terminologie; ted. Terminologie).
Un qualsiasi linguaggio artificiale: ad es., «la T. matematica », «la T.
hegeliana », ecc. TERMINUS A QUO, AD QUEM. Espres- sioni usate a proposito del
movimento: 7. a quo si chiama il luogo dal quale un mobile si sforza di
allontanarsi. 7. ad quem si chiama il luogo al quale il mobile si sforza di
avvicinarsi (HOBBES, De Corp., 8, $ 10; WOLFF, Cosmol., $ 161). TERRORISMO
(ingl. Terrorism; franc. Ter- rorisme; ted. Terrorismus). Il termine appartiene
al dominio della filosofia solo nel significato, at- tribuitogli da Kant, di T.
morale: che sarebbe l’interpretazione della storia come decadenza o regresso
(Der Streit der Fakultàten, 1798, 1I, 3). TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL (in-
glese Principle of Excluded Middle; franc. Principe du milieu ou tiers
exclu; ted. Grundsatz vom aus- geschlossenen Dritten). Fu Baumgarten il primo a dare il nome a questo
principio e a considerarlo come autonomo nei rispetti del principio di con-
traddizione (Mer., 1739, $ 10) per quanto Wolff parlasse della « esclusione del
medio tra i contrad- dittori» come di un corollario del principio di
contraddizione (Onf., $ 53). 873 Le vicende di questo principio sono
strettamente collegate con quelle del principio di contraddizione dal quale,
sino a Baumgarten, non fu distinto. Tuttavia Aristotele lo formulò con tutta
chiarezza dicendo: « Tra gli opposti contraddittori non c’è un mezzo. Questa
infatti è la contraddizione: l’op- posizione, all’una o all’altra parte della
quale è presente l’altra parte, sicchè non ha un mezzo» (Met., X, 7, 1057a 33).
Nè questa formulazione è isolata perchè (come risulta anche dal passo citato)
l’esclusione del T. è da Aristotele ritenuta inelimi- nabile dalla
contraddizione (cfr. C. A. ViANO, La logica di Aristotele, 1955, pag. 35 sgg.).
La logica medievale ignorò totalmente il principio, che co- minciò ad essere
distinto dal principio di contrad- dizione solamente da Leibniz. Questi osservò
che il principio di contraddizione contiene due enun- ciati veri: « L’uno che
il vero e il falso non sono compatibili nella stessa proposizione o che una
proposizione non può essere vera e falsa ad un tempo; l’altro, che l’opposto o
la negazione del vero e del falso non sono compatibili o che non c’è un mezzo
tra il vero e il falso o che non è pos- sibile che una proposizione non sia nè
vera nè falsa » (Nouv. Ess., IV, 2, 1). A partire dalla metà del sec. xv, ad
opera di Wolff e Baumgarten, il principio del T. escluso faceva il suo
ingresso, insieme con quelli di identità e di contraddizione, tra le «leggi
fondamentali del pensiero ». Ma il principio del T. escluso non ha avuto la
fortuna degli altri princìpi: è stato talora revocato in dubbio. Secondo una
testimonianza di Cicerone lo revocava in dubbio Epicuro per togliere valore
alla dialettica (Acad., IV, 30, 97). E mentre Hegel ripeteva contro di esso le
solite critiche che indiriz- zava a tutti i principi logici tradizionali (Enc.,
$ 119), Kant cercava di stabilire una eccezione ad esso, nella discussione
delle antinomie cosmologiche. Egli distinse l’opposizione analitica, che è
quella della contraddizione e che esclude il medio, dall'oppo- sizione
dialettica la quale invece ammette il medio. Se le due proposizioni: «Il mondo
rispetto alla grandezza è infinito», «Il mondo rispetto alla grandezza è
finito» vengono considerate in oppo- sizione analitica, il mondo non può essere
che o finito o infinito. Ma esse possono essere considerate in opposizione
analitica solo se si ammette che il mondo sia una « cosa in sè » cioè solo se si
ammette come valida l’idea del mondo. Kant dichiara di negare questa validità:
pertanto le due proposizioni si trovano ad essere in opposizione dialettica e
si può affermare che il mondo «non esiste nè come un tutto in sè infinito nè
come un tutto in sè fi- nito » (Crit. R. Pura, Dial. trasc., cap. II, sez. VII.
Questo equivale a dichiarare che il principio del T. escluso non è valido nel
caso dell’opposizione 874 TERZO dialettica e a introdurre un nuovo valore
logico, accanto al vero e al falso, cioè l’indeterminato. La logica
contemporanea non si è lasciata sfug- gire la possibilità di costruire una
logica che esclu- desse il principio del T. escluso. Dapprima Lu- kasiewicz nel
1920 poi Lukasiewicz e Tarski nel 1930 hanno costruito una logica a tre valori,
corrispon- denti al vero, al falso e al possibile, simbolizzati dalle cifre 1,
0, 1/2. In questa logica il principio del T. escluso non trova posto, nel senso
che non è esprimibile con i simboli della logica stessa e non costituisce un
suo teorema (Untersuchungen liber den Aussagenkalkiil, in Comptes rendus des
Séances de la Société des Sciences et des Lettres de Varsovie, 1930, pag.
30-50, 51-77). Gli stessi autori hanno dato le regole per costruire un sistema
a un numero finito n di valori di verità (Philoso- phische Bemerkungen zu
mehrwertigen Systemen des Aussagenkalkiils, negli stessi Comptes Rendus, 1930,
classe III, pag. 51-77). Questo e i precedenti scritti citati sono ora raccolti
in Polish Logic 1920-39, Oxford, 1967, pag. 15-65). Un tipo di logica poli-
valente era stato anche costruito da E. L. Post (Introduction to a General
Theory of Elementary Pro- positions, in American Journal of Mathematics, 1921,
43, 163). A. Heyting ha costruito a sua volta una logica intuizionistica
formalizzata a tre valori, vero, falso e indeterminato, che si applica alla
teoria intuizionistica della matematica di Brower e che implica la rinuncia
alla dimostrazione per assurdo (Die formalen Regeln der intuitionistischen
Logik, in Sitzungesber. Preuss. Akad. Wiss. [Phys.-Math. Klasse], 1930, pag.
42-56). La logica a tre valori costituisce perciò una al- ternativa ai sistemi
tradizionali di logica. Scriveva C. I. Lewis: «Il principio del T. escluso non
è scritto nei cieli: riflette piuttosto la nostra ostina- zione ad aderire al
più semplice di tutti i modi della divisione e il nostro interesse predominante
per gli oggetti concreti, in opposizione ai concetti astratti. Le ragioni per
le quali scegliamo un sistema di logica non sono tratte dalla logica stessa
come non sono tratte dai princìpi matematici le ragioni per scegliere le
coordinate cartesiane piuttosto che quelle polari o le coordinate di Gauss +
(A/terna- tive Systems of Logic, in The Monist, 1932, pag. 505). H. Reichenbach
ha a sua volta mostrato l’utilità della logica a tre valori per la meccanica
quanti- stica, data la sua natura probabilistica (Philosophic Foundations of
Quantum Mechanics, $ 30) (cfr., sulla questione, anche L. RouGIER, Traité de la
con- naissance, 1955, II, cap. VII. TERZO UOMO (gr. «piroc &vipwroc).
Aristo- tele accenna più volte a un argomento così chiamato contro la dottrina
platonica delle idee, argomento che dà per noto e che non espone (Mer., I, 9,
UOMO 990 b 17; VII, 13, 1039a 2; El. Sof., 178b 36). Secondo Alessandro di
Afrodisia (In Met., I, 9) l’argomento consisterebbe nel dire che, poichè un
uomo particolare è simile all’uomo ideale, ci deve essere un terzo uomo di cui
entrambi partecipano. Ma questo è l’argomento addotto contro la dottrina delle
idee dallo stesso Platone, che tuttavia non menziona l’esempio dell’uomo
(Parm., 132 a). Ales- sandro tuttavia menziona anche altre forme del-
l’argomento del T. uomo: 1° una è quella usata dai Sofisti: quando diciamo
«l’uomo passeggia» non intendiamo nè l’idea dell’uomo (che è immobile) nè un
uomo particolare: dobbiamo allora intendere un uomo di una terza specie; 2°
Fania, uno scolaro di Aristotele, nel suo libro contro Diodoro Crono attribuiva
al sofista Polisseno il seguente argomento. Se l’uomo esiste per partecipazione
all’idea del- l’uomo, ci deve essere qualche uomo che avrà il suo essere in
rapporto all’idea: ma questo non sarà nè l'idea stessa nè l’uomo particolare.
Infine lo stesso Alessandro nota come l’argomento del T. uomo esposto nella
prima forma può essere ripetuto all’infinito perchè il rapporto tra il T. uomo
da un lato e l’idea e l’uomo particolare dall’altro possono dar luogo al quarto
e quinto uomo e via di seguito. Poichè Platone fa esporre l’argomento da Par-
menide contro quella interpretazione della dottrina delle idee che scpara
nettamente le idee stesse dalle cose, è probabile che l’argomento fosse
corrente nella stessa scuola platonica; la sua origine sembra però megarica o
sofistica (cfr. la nota di W. D. Ross a Met., I, 9, nella edizione della
Metafisica aristo- telica da lui curata; nonchè del Drès al Parmenide, nella
Coll. des Univ. de France, VIII, pag. 21). TESI (gr. 6éow; ingl. Thesis; franc.
Thèse; te- desco These). Il termine deriva dai testi logici aristotelici, nei
quali ricorre con due significati prin- cipali e cioè: 1° per designare ciò che
all’inizio di una di- scussione l’interlocutore pone come propria assun- zione
(Top., II, 1, 109a 9); 2° per designare una proposizione assunta come principio
proprio (An. Post.). Questi due significati si sono conservati nella tradizione
filosofica. Il primo ricorre già in Pla- tone (Rep., I, 335a); e, secondo una
tradizione riferita da Diogene Laerzio, si attribuiva a Protagora l’aver per
primo mostrato come si appoggi una T. con argomenti (Drog. L., IX, 53). Nella
termino- logia dei logici medievali e dei matematici è pre- valso questo
significato: la T. designa una propo- sizione che ci si accinge a dimostrare.
Con Kant il termine ha acquistato un nuovo valore filosofico: nelle antinomie
della Ragion pura T. è l'enunciato affermativo dell’entinomia (v.). TETICO
Nella dialettica post-kantiana, il momento della T. è l’elemento positivo o di
posizione, quindi iniziale, di un processo o sviluppo dialettico (v. DIALET-
TICA, 4°). G. P. TESTABILITÀ o ATTESTABILITÀ (in- glese Testability; franc.
Testabilité; ted. Testabi- litàt). La possibilità di un enunciato di essere
messo a prova e quindi d’essere confermato o verificato oppure sconfermato o
falsificato. Il ter- mine è frequentemente usato da logici e metodo- logi
contemporanei. L’attestabilità comprende ogni possibilità di conferma, di
verifica, di accertamento e di controllo, in quanto ognuna di tale possibilità
può mettere capo sia alla prova (v.) sia alla di- sprova dell’enunciato in
questione. Carnap ha tuttavia ristretto il significato del termine a quello di
verifica empirica incompleta, giacchè ha inteso per esso « una procedura la
quale conduce alla conferma, almeno in un certo grado, dell’enunciato o della
sua negazione ». Si ha la T., se si possiede effettivamente una procedura del
genere. Si ha invece la semplice confermabilità se pur non possedendosi quella
procedura, si cono- scono le condizioni nelle quali l’enunciato sarebbe
confermato. Un enunciato può essere così confer- mabile senza essere
attestabile: come accade quando si sa che una certa osservazione lo
confermerebbe, ma non si è in grado di effettuare l’osservazione stessa
(Testability and Meaning, 1936, in Readines in the Philosophy of Science, 1953,
pag. 47). Camap ha pure distinto ciò che è direttamente e ciò che è
indirettamente attestabile. Qualcosa è direttamente attestabile se «sono
concepibili circostanze nelle quali noi consideriamo fiduciosamente l’enunciato
così fortemente confermato o disconfermato sulla base di una o poche
osservazioni, che lo accet- tiamo o lo rigettiamo senz'altro; come, per es.,
‘c’è una chiave sul mio tavolo ’ ». L’attestazione indiretta di un enunciato
consiste invece « nell’at- testare direttamente altri enunciati i quali stanno
in una relazione logica specifica con l’enunciato in questione ». Questi altri
enunciati possono essere chiamati enunciati-prova (rest sentences) (Truth and
Confirmation, 1936, in Readings in Philosophical Analysis, 1949, pag. 124).
TESTIMONIANZA (ingl. Witnessing, Testi- mony; franc. Témoignage; ted.
Zeugniss). Il ricorso all’esperienza altrui o alle altrui asserzioni come
metodo di prova per le proposizioni che esprimono fatti. Già Aristotele aveva
notato che la T. può riferirsi «0 a questioni di fatto o a questioni di
caratteri personali » che sono anche questioni di fatto (Ret., I, 15, 1376 a
23). Il valore della testi- monianza in questo senso si trova riconosciuto
nella Logica di Portoreale (1662). « Per giudicare della verità di un
avvenimento e determinarmi a 875 crederlo o non crederlo, non bisogna
considerarlo in se stesso, come si farebbe con una proposizione di geometria,
ma bisogna considerare tutte le cir- costanze che lo accompagnano, sia interne
che esterne. Chiamo interne le circostanze che ap- partengono al fatto stesso,
ed esterne quelle che concernono le persone per la cui T. siamo portati a
crederlo » (ARNAULD, Log., IV, 13). Locke a sua volta introduceva la T. come
uno dei due fonda- menti del giudizio di probabilità (l’altro essendo «la
conformità di una cosa con la nostra conoscenza, osservazione od esperienza »).
Nella T. degli altri sono, secondo Locke, da considerare: « 1° il numero dei
testimoni; 2° la loro integrità; 3° la loro capa- cità; 4° l'intento
dell’autore, se la T. è tratta da un libro; 5° la coerenza tra le parti e le
circostanze della relazione; 6° le T. contrarie » (Saggio, IV, 15, 4). Leibniz
ammetteva il valore della T. solo subor- dinatamente al carattere di
verisimiglianza del- l’evento testimoniato, come argomento « non arti- ficiale»
che si differenzia da quelli «artificiali» che sono dedotti dalle cose con il
ragionamento. Tuttavia osservava che la stessa T. può fornire un fatto che
tende a formare un argomento arti- ficiale (Nouv. Ess., IV, 15, 4). Hamilton
così rias- sumeva la dottrina della T.: « L'oggetto della T. è detto il farro
(factum); e la sua validità costituisce ciò che si chiama la credibilità
storica (credibilitas historica). Per valutare questa credibilità si richiede
di considerare: 1° l'attendibilità soggettiva della T. (fides testium); 2° la
probabilità oggettiva del fatto. La prima è fondata in parte sulla sincerità e
in parte sulla competenza del testimone. La seconda dipende dalla possibilità
assoluta e relativa del fatto stesso. La T. è o immediata o mediata. È
immediata quando il fatto riportato è l’oggetto di un’esperienza personale; è
mediata quando il fatto è l'oggetto di un’esperienza altrui» (Lectures on
Logic, 2* ediz., II, pag. 175-76). TEST-SENTENCE. V. TESTABILITÀ. TETICA (ted.
Therik). Secondo Kant, « ogni insieme di dottrine dogmatiche », in opposizione
ad Antitetica (v.) (Crit. R. Pura, Dialettica, libro II, cap. 2, sez. 2).
TETICO (ingl. Thetic; franc. Thétique; tedesco Thetisch). Che afferma o pone.
Fichte chiamò giudizio T. «un giudizio nel quale qualcosa sa- rebbe posta non
già come uguale o contraria di un’altra, ma solo come uguale a se stessa ».
Questo giudizio si distinguerebbe dal giudizio antitetico e dal giudizio
sintetico e precisamente si oppor- rebbe al giudizio antitetico. Il supremo
giudizio T. sarebbe «Io sono» nel quale, dice Fichte « dell’io non si afferma
nulla ma il posto del predicato è lasciato vuoto per la possibile
determinazione dell’io all’infinito ». Questo giudizio sarebbe « l’as- 876
soluta posizione dell'io » (Wissenschaftslehre, 1794, 1,$3,D7. L'aggettivo è
stato poi spesso adoperato in senso analogo a quello stabilito da Fichte.
Husserl ha chiamato T. «gli atti che pongono l’essere » cioè che hanno il
carattere della credenza (/deen, I, $ 103), TETRAKTYS (gr. terpaxtic). Secondo
i Pitago- rici, la somma dei primi quattro numeri, cioè il numero 10, in quanto
rappresentabile con un trian- golo che ha il quattro per lato. (Carm. Aur.,
48). La figura costituisce una disposizione geometrica che esprime un numero o
un numero espresso da una disposizione geometrica. Essa aveva un carat- tere
sacro e i Pitagorici usavano giurare per essa. TEURGIA (gr. deovpyla; lat.
Theurgia; inglese Theurgy; franc. Théurgie; ted. Theurgie). Il potere magico o
purificatorio delle tecniche religiose cioè dei riti. Già ammessa da Porfirio
(cfr. AGOSTINO, De Civ. Dei, X, 9), essa fu posta da Giamblico al di sopra
dell’unione spirituale con Dio cioè dell’estasi. Il proprio della T, è, secondo
Giamblico, il valore autonomo che i riti posseggono, indipen- dentemente da
coloro che li adoperano: cioè la loro capacità di muovere o persuadere le
potenze divine (De Myst. Aegyp., II, 11). S. Agostino si fermò a criticare
lungamente la T. che pareva a lui si rivolgesse indifferentemente sia ai demoni
cattivi sia agli angeli (De Civ. Dei, X, 10 sgg.). Kant considerò la T. come «
quella illusione fan- tastica che consiste nel credere di avere il senso di
altri esseri soprasensibili e di poter influire su di essi» e ritenne che essa,
come la teosofia, è resa impossibile dal riconoscimento della limita- zione
della ragione (Crit. del Giud., $ 89). TICHISMO. V. CasuaLisMo. TIMOCRAZIA (gr.
tiuoxparta; ingl. Timocracy; franc. Timocratie; ted. Timokratie). 1. La forma
di governo fondata sul desiderio degli onori che, secondo Platone, è una corruzione
dell’aristocrazia (Rep., VII, 545 b). 2. La forma di governo fondata sul censo,
se- condo Aristotele (E. Nic., VIII, 10, 1160a 36). TIMOLOGIA. AxioLogia.
TIPICA (ingl. Typics; franc. Typique; tedesco Typik). Kant ha chiamato «T. del
giudizio pra- tico» ciò che nella Critica della Ragion Pratica corrisponde allo
schematismo (v.) trascendentale della Critica della Ragion Pura. Il tipo della
legge morale è la stessa legge morale in quanto « può essere manifestata in
concreto nell’oggetto dei sensi » cioè in quanto è liberamente realizzata nel
mondo sensibile (Crir. R. Prat., I, libro I, cap. II). TIPICO (ingl. Typical;
franc. Typique; ted. Ty- pisch). In generale, ciò che corrisponde ad un tipo
cioè ad un modello o a una rappresentazione gene- rale o schematica o ciò che
esprime o realizza i TETRAKTYS caratteri del tipo. Così, ad es., la « bellezza
T.» che Ruskin esaltava è una bellezza idealizzata secondo un certo modello. La
« rappresentazione T.+» è una rappresentazione generalizzata e co- mune a una classe
di cose. I « caratteri T. + sono quelli che contrassegnano il tipo; mentre una
«esperienza T.» è un’esperienza che può far da modello a molte altre esperienze
o ne riassume i caratteri comuni. Il termine, come si vede, non ha un
significato rigoroso ma implica costantemente il riferimento a ciò che è comune
e generale e che, appunto come tale, è ritenuto fondamentale. TIPO (gr. ròrog; ingl. Type;
franc. Type; te- desco Typus). Nel
senso di modello, forma o schema o insieme collegato di caratteristiche che può
essere ripetuto da un numero indefinito di esemplari, la parola è usata già da
Platone (Rep., 379 a, 380, 396 e, ecc.) e da Aristotele (Er. Nic., II, 2, 1104
a 1; Ibid., II, 7, 1107b 14; ecc.). Galeno la usò per indicare le forme della
malattia (Op., ed. Kihn, VII, 463). E la parola è rimasta con lo stesso signi-
ficato in molti usi correnti del linguaggio comune, scientifico e filosofico.
In particolare la biologia e la psicologia fanno un uso amplissimo del termine
e lo considerano fondamentale. Dice, ad es., Kret- schmer: « Ciò che noi
chiamiamo, matematicamente, punti focali di correlazioni statistiche, chiamiamo
anche, in prosa più descrittiva, T. costituzionali... Un T. vero può essere
riconosciuto dal fatto che esso conduce a sempre maggiori connessioni di
importanza biologica. Dove vi sono molte e sem- pre nuove correlazioni con i
fattori biologici fon- damentali... abbiamo a che fare con punti focali della
più grande importanza » (Korperbau und Cha- rakter, 1948). Nella psicologia
analogamente il T. è definito come «un gruppo di tratti correlativi + allo
stesso modo in cui un tratto è definito come un gruppo di atti
comportamentistici o di tendenze di azioni correlative (H. J. EySENCK, The
Structure of Human Personality, 1953, pag. 13 sgg.). Il significato della
parola non cambia nella cosid- detta « teoria dei T. logici » di Russell e
Whitehead, nella quale designa appunto le forme o i modelli dei concetti (v.
ANTINOMIA). Peirce ha inteso per T. una parola o un segno che non è una cosa
singola o un singolo evento ma una « forma defi- nitamente significante » che
per essere usata deve prender corpo in un gettone (Token) che dev'essere il
segno di un T. e perciò dell'oggetto che il T. significa. Un T. è, per es.,
l’articolo «il» nella lingua italiana che non può essere visto o ascol- tato
perchè non è un singolo evento, ma deter- mina i singoli eventi cioè i gettoni
o gli esempi di esso nel discorso scritto o parlato (Coll. Pap., 4.537) (v.
GETTONE; PAROLA; SEGNO). TOLLERANZA TIPOLOGIA (ingl. Typology; franc.
Typologie; ted. Typologie). Lo studio dei tipi, in una qualsiasi disciplina o
scienza; ad es., T. biologica, T. raz- ziale, T. psicologica, ecc.TIRANNIDE(gr.
tupawilc; lat. Tyrannis; ingl. Tyranny; franc. Tyrannie; ted. Tyrannie). La
forma di governo nella quale l’arbitrio di una o più persone tiene il posto del
diritto. Il concetto di T. fu elaborato dai Greci, insieme con quello di libera
costituzione. La definizione del tiranno è già contenuta nei versi di Euripide:
« Non c’è peggior nemico che un tiranno in una città, sotto il quale scompaiono
tutte le leggi comuni e uno solo comanda, tenendo in sua mano la legge»
(Suppi., II, 429-32). Secondo Platone la T. è lo sbocco dell'eccessiva libertà
in cui cadono talora le democrazie. « Il popolo fuggendo il fumo, come si suol
dire, della servitù sotto un governo di uo- mini liberi si trova, con la T.,
caduto nel fuoco della servitù sotto il dispotismo di servi e in cambio di
quell’eccessiva e inopportuna libertà, è costretto a vestire la tunica dello schiavo
e a soggiacere alla più triste ed amara delle servitù, quella d’essere servo
dei servi » (Rep., VIII, 569 b-c). A sua volta Aristotele dice che la T.
raccoglie in- sieme i mali della democrazia e della oligarchia. Dalla
oligarchia prende il suo fine che è la ricchezza (che è l’unica condizione a
cui si può mantenere la guardia e la vita di lusso) nonchè la sfiducia nel
popolo cui toglie le armi e il danneg- giamento della popolazione allontanata
dalla città e dispersa nelle campagne. Dalla democrazia prende la lotta contro
i maggiorenti, la loro rovina provo- cata occultamente o manifestamente e il
loro esilio (Pol., V. 1, 1311 a 8 sgg.). Nel Medio Evo, mentre S. Tommaso
ritiene che « dalla monarchia se si tra- sforma in T. segue minor male che da un
governo di più ottimati quando si corrompe» (De regimine prin- cipum, I, 5); e
condanna il tirannicidio, affidando alla pazienza dei sudditi la sopportazione
della T. o a un potere superiore il potere di eliminarla (/bid., I, 6),
Giovanni di Salisbury fa una esplicita difesa del tiran- nicidio perchè
considera il tiranno come un ribelle contro la legge dalla quale i re, come
tutti i citta- dini, sono vincolati (Policraticus, IV, 7). Queste idee furono
poi spesso ripetute dai monarcomachi e giusnaturalisti del sec. xvi e xvil.
Diceva Bodin: «La più notevole differenza tra il re e il tiranno è che il re si
conforma alle leggi di natura, il ti- ranno le calpesta; l’uno coltiva la
pietà, la giustizia e la fede, l’altro non ha Dio nè fede nè legge» (De la République,
1576, II, 4, 246). A sua volta Locke affermava: « Dove la legge finisce,
comincia la T., quando la legge sia trasgredita a danno di altri, e chiunque
nell’autorità ecceda il potere con- feritogli dalla legge e fa uso della forza
per com- 877 piere nei riguardi dei sudditi ciò che la legge non permette,
cessa, in ciò, di essere magistrato e, in quanto delibera senza autorità, ci si
può opporre a lui come ci si oppone a un altro qualsiasi che con la forza viola
il diritto altrui » (Two 7reatises of Governementr, II, $ 202). Hobbes aveva
affermato al contrario che «coloro che sono contrari ad una monarchia la
chiamano tirannia + (Leviarà., II, 19, 2). Il concetto della T. ha accompagnato
la forma- zione del liberalismo politico perchè è servita come pietra di
paragone o come simbolo di tutto ciò che il liberalismo condannava. Come tale,
essa ha pure costituito uno dei temi della retorica rivolu- zionaria e liberale
dal sec. xvi in poi. Oggi si fa un uso assai meno frequente del termine, non
già perchè i regimi tirannici siano spariti o sia sparito il pericolo che essi
si instaurino anche là dove vige un certo grado di libertà, ma solo perchè il
ter- mine sembra appartenere ad un tipo di retorica caduto in disuso.
Assolutismo o totalitarismo sono i termini che hanno sostituito tirannide. Ma
il concetto non è mutato; e queste stesse parole significano ancora: un regime
in cui l’arbitrio indi- viduale tiene il posto della legge; una servitù im-
posta da servi: un governo che non si può mutare nè correggere se non con la
violenza. TITANISMO. V. RoManTICISMO. TOLLERANZA (ingl. Toleration; franc. To-
lérance; ted. Toleranz). 1. La norma o il principio della libertà religiosa. Si
è ritenuta talora poco adatto a designare questo principio un termine che
significa « sopportazione »; ma in realtà la parola è stata l'emblema di quella
libertà sin dalle prime lotte che essa è costata e attraverso le quali si è
venuta affermando in forme che sono ancor oggi deboli o incomplete. Nessun
altro termine potrebbe perciò sostituirla. Fin da queste lotte, la T. fu in-
tesa come la coesistenza pacifica tra varie confes- sioni religiose ed oggi
s’intende, in senso ancora più generale, come la coesistenza pacifica di tutti
gli atteggiamenti possibili in materia religiosa. Il criterio per riscontrare
se tale esigenza si trova realizzata nelle situazioni storiche o politiche par-
ticolari è uno solo: la sua realizzazione significa infatti che nessuna
violenza o inquisizione giu- ridica o poliziesca o diminuzione o perdita di
diritti o discriminazione qualsiasi, colpisca il cit- tadino a causa delle sue
convinzioni, positive o negative, in materia religiosa. Il principio della T. o
almeno un suo corollario immediato, la possibilità di salvarsi anche senza la
fede cristiana, compare in qualche filosofo del sec. xIv specialmente in
Ockham. Dice Ockham: « Non è impossibile che Dio ordini che colui che vive
secondo i dettami della retta ragione e non 878 creda se non a ciò che la sua
ragione naturale conclude che sia da credersi, sia degno di vita eterna. E se
Dio così dispone, potrebbe anche salvarsi chi altra guida non ebbe nella vita
che la retta ragione + (/n Senr., III, q. 8, ©). D'altronde la T. religiosa è
già implicita nel concetto che Ockham aveva della Chiesa infallibile come della
comunità dei fedeli vissuti dai tempi dei profeti fino ad oggi (Dialogus inter
magistrum et discipulum, I, IV, in GoLpasT, Monarchia, II, pag. 402); e del
papato come di un principato ministrativus che non può togliere a nessuno i
diritti e le libertà che Dio ha dato a tutti gli uomini e che il cristianesimo
è venuto a rivendicare (De Imperatorum et Pontifi- cum Potestate, IV, ed.
Scholz, II, pag. 458). La famosa novella di Boccaccio dei tre anelli (Deca-
merone, 28) illustra ugualmente la possibilità di salvezza data egualmente a
Maomettani, Ebrei e Cristiani. Tuttavia, il principio della T. cominciò ad
affacciarsi come elemento indispensabile della vita civile dell’occidente
soltanto dopo la Riforma, nelle lotte che contrapposero l’una all’altra le
varie parti della cristianità. Probabilmente fu espli- citamente affermato per
la prima volta da quel gruppo di riformati italiani che respinsero il dogma
della Trinità cioè dai Sociniani, che furono co- stretti da Calvino a fuggire
in Transilvania e in Polonia dove propagarono la loro dottrina. Nel 1565
Giacomo Aconcio nel suo Straragemata Sa- tanae vedeva nell’intolleranza
religiosa un tranello di Satana e affermava che è essenziale alla fede solo ciò
che incoraggia la speranza e la carità. Nel 1580 Michele di Montaigne difendeva
in un suo saggio, per motivi di natura politica, la libertà di coscienza (Ess.,
II, 19). Verso il 1593 Jean Bodin nel Colloquium heptaplomeres, sosteneva la
necessità della pace religiosa ottenibile con un ritorno alla religione
naturale che eliminerebbe le controversie dogmatiche. A sua volta Grozio
riteneva fonda- mentali le credenze della religione naturale e non obbliganti
quelle della religione positiva che sono spesso ambigue. Secondo Grozio,
credere nel cri- stianesimo è possibile solo con l’aiuto misterioso di Dio; e
per conseguenza volerlo imporre con le armi è contrario alla ragione (De jure
belli ac pacis, 1625, II, 20, 48-49). Il poeta Milton scriveva nel 1644 il suo
discorso per la libertà di stampa intitolato Areopagitica. Tutte queste difese
del prin- cipio della T. adducono in favore di esso argo- menti politici e
religiosi, più che filosofici o concet- tuali; più spesso anzi gli argomenti
addotti sono specificamente religiosi e hanno quindi valore sol- tanto per chi
condivida le credenze religiose cui esse fanno appello. Il primo a impiantare
la difesa della T. su argo- menti obiettivi è stato Spinoza che ha addotto in
TOLLERANZA favore di esso l’argomento principe e, cioè che la violenza e
l'imposizione non possono promuovere la fede e che pertanto le leggi che si
propongono questo scopo sono inutili (Tractatus rheologico-politicus, 1670,
cap. 20). Ma da questo punto di vista è e rimane classica l’Epistola sulla T.
(1689). In questo scritto Locke fa vedere come, esaminando indipen- dentemente
l’uno dall’altro il concetto dello Stato e quello della Chiesa, il principio
della T. risulti come il punto d’incontro dei loro compiti e dei loro interessi
rispettivi. Lo Stato è infatti « una società di uomini stabilita unicamente per
conser- vare e promuovere i beni civili »: intendendosi per beni civili la
vita, la libertà, l’integrità e il benessere corporeo, il possesso dei beni
esterni, ecc. Tra i suoi compiti pertanto non rientra la cura delle anime e
della loro salvezza eterna perchè di fronte a questo compito il magistrato
civile, da un lato è incompetente come qualsiasi altro cittadino, dal- l’altro
non ha alcun strumento efficace: giacchè l’unico suo strumento è la costrizione
e nessuno può essere costretto a salvarsi. Dall’altro lato, la Chiesa è « una
libera società di uomini, congiun- tisi spontaneamente per servire Dio in
pubblico a quel modo che giudicano a Lui più accetto, per conseguire la salute
delle loro anime +. Come so- cietà libera e volontaria essa non può vincolare
nessuno con la forza; e le sanzioni che sono di sua competenza sono le
esortazioni, gli ammoni- menti e i consigli che, soli, possono promuovere la
persuasione e la fede. Il principio della T. ga- rantisce ugualmente
l’interesse religioso della Chiesa e l’interesse politico dello Stato, i
diritti dei citta- dini e le esigenze dello sviluppo culturale e scien- tifico.
Tuttavia, neppure nell’Epistola di Locke il prin- cipio della T. ha
un’espressione completa perchè Locke riteneva che « coloro che negano l’esistenza
di Dio, non devono essere tollerati in alcun modo +. Soltanto il trionfo
dell’Illuminismo nel sec. xvui e del pensiero politico liberale nel sec. xix,
hanno portato a riconoscere il principio di T. nella sua forma completa, che è
quella esposta sopra. Poco o nulla però la posteriore letteratura ha aggiunto
alle giustificazioni date a questo principio dallo stesso Locke; e neppure, a
questo proposito, si distingue il Trattato sulla T. (1763) di Voltaire che è
giustamente famoso per l’influenza storica che esercitò. Il principio della T.
è entrato a far parte della coscienza civile dei popoli di tutto il mondo. Tut-
tavia, la sua realizzazione nelle istituzioni che reg- gono la vita di molti
popoli è incompleta e soggetta a sempre nuovi pericoli. Le discussioni che
talora suscita sono prevalentemente ispirate dal desiderio di mantenere o di
riconquistare, a qualche parti- TOTALITÀ colare confessione religiosa, un
privilegio di fatto che si cerca alla meglio di conciliare con l’ossequio
formale reso al principio (cfr. specialmente: F. Rur- FINI, La libertà
religiosa, 1901; LuIcI LUZZATTI, La libertà di coscienza e di scienza, 1909; J.
B. Bury, A History of Freedom of Thought, 1913; nuova ediz., 1952; W. K.
JorDaN, The Development of Religious Toleration in England, 1932 sgg. 2. Nel
linguaggio comune, e talora in quello filosofico, la T. è intesa anche in un
senso più vasto, come comprensiva di ogni forma di libertà, morale, politica e
sociale. Così intesa è identificata con il pluralismo dei valori, dei gruppi e
degli inte- ressi nella società contemporanea; e talvolta si scorge in questo
pluralismo un mezzo per mantenere il controllo dei gruppi sociali esistenti
sull’intera so- cietà e quindi un ostacolo alla realizzazione di una forma
nuova di società. Per « T. pura» si intende talora quella estesa alle
politiche, alle condizioni e ai modi di comportamento che non dovrebbero essere
tollerati, perchè impediscono, se non di- struggono, le probabilità di creare
un’esistenza senza paura e sofferenza; e Marcuse ha affermato che, se la T.
indiscriminata è giustificata nei dibattiti innocui e nelle discussioni
accademiche ed è indi- spensabile nella religione e nella scienza, non può
essere ammessa quando sono in giuoco la pace, la libertà e la felicità
dell’esistenza, perchè in questo caso equivarrebbe alla repressione di ogni
fattore innovatore nella realtà sociale (A Critigue of Pure Tolerance, di
WoLFF, MOORE jr. e MARCUSE, 1965). Tuttavia, in questo significato più
generico, la pa- rola T. non si distingue da libertà e i suoi pro- blemi sono
senz'altro quelli dei limiti e delle con- dizioni della libertà politica.
TOLLERANZA, PRINCIPIO DI. V. Con- TRADDIZIONE, PRINCIPIO DI; CCONVENZIONALISMO.
TOMISMO (ingl. Thomism; franc. Thomisme; ted. Thomismus). I capisaldi della
filosofia di S. Tommaso, che sono stati ritenuti e difesi dagli indirizzi
medievali e moderni che si ispirano a lui. Tali capisaldi possono essere
ricapitolati così: 1° La dottrina dei rapporti tra ragione e fede consistente
nell’affidare alla ragione il compito di dimostrare i preamboli della fede (v.
PREAMBULA), di chiarire e difendere i dogmi indimostrabili e di procedere in
modo relativamente autonomo (cioè salvo il rispetto delle verità di fede che
non possono essere contraddette) nel dominio della metafisica e della fisica;
2° La dottrina della analogicità dell’essere (vedi ANALOGIA) che consiste nel
ritenere che il termine essere riferito alla creatura ha un significato non
identico ma solo simile o corrispondente all'essere di Dio. Questo principio,
che S. Tommaso derivava da Avicenna, serve a stabilire la distinzione tra 879
teologia e metafisica e la dipendenza della metafi- sica dalla teologia; 3° La
dottrina del carattere astrattivo della conoscenza, la quale consiste in ogni
caso nel- l’astrarre dall’oggetto o la specie sensibile o la specie
intellegibile (che corrisponde all’essenza della cosa); 4° La dottrina che
l’individuazione dipende dalla materia segnata (v. INDIVIDUAZIONE); 5°
L’illustrazione rimasta classica dei due dogmi cristiani della Trinità e
dell’Incarnazione (v. INCAR- NAZIONE; RELAZIONE; TRINITÀ). Questi capisaldi
distinguono nettamente il T. dallo scotismo (v.) con cui esso si divise il
campo nei secoli x1v e seguenti; e costituiscono anche i punti di maggior
interesse della ripresa del T. nella neo- scolastica contemporanea. Alla
formazione storica del T. aveva contribuito oltre l’opera di Alberto Magno,
maestro di S. Tommaso, l'opera di Avi- cenna e quella di Mosè Maimonide. TOPICA (gr. roruà téxm; lat.
Topica; ingl. To- pics; franc. Topique;
ted. Topik). La teoria dei luoghi logici e l’arte di inventarli (v. LuoGHI).
Kant ha chiamato 7. trascendentale la dottrina dei luoghi trascendentali cioè
dei posti che si as- segnano ai concetti nella sensibilità o nell’intelletto
puro. Questa T. dovrebbe evitare l’anfibolia dei concetti di riflessione cioè
l’uso malsicuro di questi concetti (Crir. R. Pura, Analitica trasc., Nota al-
l’anfibolia). Droysen ha parlato anche di una 7. storiografica che sarebbe la
raccolta delle esposizioni di ciò che è stato storicamente indagato (Grundzijge
der Historik, 1882, $ 18). TOPOLOGIA (ingl. Topology; franc. Topo- logie; ted.
Topologie). Con questo nome o con quello di analysis situs s'intende, da un
secolo a questa parte, lo studio delle proprietà delle figure geome- triche che
rimangono invarianti anche quando le figure stesse sono sottoposte a
trasformazioni così radicali da perdere le loro proprietà metriche e
proiettive. La T. ha il suo precursore in Eulero (1707-83); ma la sua prima
formulazione si trova nell’opera di A. F. Moebius (1790-1868) (cfr. spe-
cialmente O. VEBLEN, Analysis situs, 2> ediz., 1931, e le voci GRUPPO;
TRASFORMAZIONE). Alcuni concetti della T. trovano applicazioni in altre
discipline. In particolare nella psicologia della forma è stato utilizzato il
concetto topologico di regione (con le sue varie determinazioni) che si presta
a esprimere lo spazio vitale di un orga- nismo (Kurt LEWIN, Principles of
Topological Psy- chology, 1936, specialmente cap. XI sgg.) (vedi CAMPO; PSICOLOGIA).
TOTALITÀ (gr. rè 820y; lat. Universitas; in- glese Torality; franc. Totalité;
ted. Allheit, Tota- 880 litàt). Un tutto completo nelle sue parti e perfetto
nel suo ordine. Questo fu il concetto che Aristo- tele dette della T. in quanto
distinta dal tutto le cui parti possono mutare la loro disposizione senza
modificare l’insieme (Mer., V, 26, 1024a 1). In questo senso il mondo (cosmo) è
una T., ma non così l’universo (v. MonDO). La nozione di T. ha conservato anche
nelle lingue moderne la caratteristica della completezza e della perfetta
disposizione delle parti. Secondo Kant, la «T. delle condizioni» corrisponde,
nella sintesi dell’intuizione, all’universalità del predicato nella premessa
maggiore del sillogismo. La nozione di una T. delle condizioni è l’idea della
Ragion pura. L'idea è perciò, secondo Kant, la nozione di una perfezione,
sebbene non di una perfezione reale (Crit. R. Pura, Dialettica, libro I, sez.
I-II) (v. TUTTO). TOTALITARISMO (ingl. Totalitarianism; franc. Totalitarisme;
ted. Etatismus). La dottrina o la prassi dello Stato totalitario cioè dello
Stato che pretende identificarsi con l’intera vita dei suoi cittadini. Il
termine è stato coniato per indicare la dottrina del fascismo italiano e del
nazismo te- desco. È talora anche usato a indicare ogni dot- trina
assolutistica, in qualsiasi campo si riferisca. La parola viene usata in questo
senso da G. H. SABINE, A History of Political Theory, 1951, cap. 35; trad.
ital., pag. 708 sgg.). Spesso per estensione s’intende per T. Sl forma di
assolutismo dottrinale o politico. TOTEMISMO (ingl. Totemism; franc. Toté-
misme; ted. Totemismus). La credenza nel rotem o l’organizzazione sociale
fondata su questa credenza. Il termine totem è stato desunto dal linguaggio
degli Indiani d'America e poi esteso a indicare il fenomeno (che si ripresenta
in tutti i popoli pri- mitivi) per il quale una cosa (naturale o artificiale)
diventa l'emblema del gruppo sociale e la garanzia della sua solidarietà. Su
questo carattere del torem ha insistito soprattutto Durkheim, che ha visto in
esso l’espressione dell’unità del gruppo sociale nella sua interezza e perciò
nelle relazioni che i c/ans, in cui esso si divide, hanno l’uno con l’altro
(Les formes élementaires de la vie religieuse, 1912). Ac- canto a questo
carattere del T., A. R. Radcliffe- Brown ha messo in luce il suo carattere
ancora più universale, consistente nel fatto che il T. co- stituirebbe « una
rappresentazione dell’universo come un ordine morale e sociale » e pertanto la
regola- zione del rapporto tra l’uomo e la natura, oltre che quella del
rapporto tra l’uomo e l’uomo come tale, sarebbe un elemento universale della
cultura umana (Structure and Function in Primitive Society, 1952, cap. VI). A
un fenomeno linguistico formale sembra invece ridurre il T. Levi-Strauss: «Il
co- siddetto T. è solo un’espressione particolare, per mezzo di una speciale
nomenclatura formata di nomi TOTALITARISMO di animali e di piante (o come noi
diremmo, in un certo codice) la quale è il suo solo carattere distintivo, delle
correlazioni e opposizioni che pos- sono essere formalizzate in altri modi: per
es., come accade in certe tribù del Nord e Sud America, da opposizioni del tipo
cielo-terra, guerra-pace, in su-in giù, rosso-bianco, ecc.» (Le rotémisme
ajourd’hui, 1962, pag. 127). Dall'altro lato Freud aveva presentato una
interpretazione psicanalitica del T.: « Se l’animale rotem è il padre, allora i
due principali precetti del T., quello di non uccidere il totem e quello di non
usufruire sessualmente di alcuna donna dello stesso fofem, coincidono in so-
stanza con i due crimini di Edipo che uccise suo padre e prese in moglie sua
madre, e con i desi- deri primitivi del bambino, desideri la cui rimo- zione
insufficiente o il cui risveglio costituiscono forse il nocciolo di tutte le
psiconevrosi » (Totem e tabù, 1913, IV, 3; trad. ital., pag. 146). Per una con-
cezione analoga a questa di Freud cfr. J. G. FRAZER, Totemism and Exogamy,
1910. TOTO-PARZIALE, TOTO-TOTALE (in- glese Toto-partial, Toto-total).
Espressioni adoperate da W. Hamilton per indicare rispettivamente la pro-
posizione in cui il soggetto è preso universalmente e il predicato
particolarmente (es.: gli uomini sono animali) e la proposizione in cui sia il
soggetto che il predicato sono presi universalmente (es.: gli ani- mali sono
mortali) (Lecrures on Logic, II, pag. 287). TRADIZIONALISMO (ingl.
Traditionalism; franc. Traditionalisme; ted. Traditionalismus). 1. La difesa
esplicita della tradizione, che, nell’ambito dello spirito romantico, trovò in
Francia i suoi protagonisti in: Madame de Staél (1766-1817), che nella sua
opera De l’Allemagne (1813) vide nella storia umana una progressiva rivelazione
religiosa; Renato di Chateaubriand (1769-1848) che nel Génie du Christianisme
(1802) vide nel cattolicesimo il depositario dell’intera tradizione delle
umanità; e in Luigi de Bonald (1754-1840), Giuseppe de Maistre (1753-1821) e
Roberto Lamennais (1782-1854) che si fecero paladini nei loro scritti delle due
istitu- zioni fondamentali, in cui la tradizione si incarna e contro cui
l’Illuminismo aveva polemizzato e la Rivoluzione combattuto: la Chiesa e lo
Stato. Per- tanto questi scrittori furono anche detti feocratici o
ultramontanisti (v. TEOCRAZIA). 2. In senso più generale e filosofico, per T.
si può intendere il ritorno alla tradizione che fu un aspetto importante del
Romanticismo nella prima metà del sec. xIx e che ha tra i suoi protagonisti,
oltre che i grandi romantici come Fichte Schelling ed Hegel, Maine de Biran
(1766-1824), Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), Vincenzo Gioberti (1801-52) e
lo stesso Giuseppe Mazzini (1805-72), oltre altri scrittori minori sia dell’800
italiano sia TRADIZIONE 881 di altre nazioni: per es., l’inglese Giacomo Mar-
tineau (1805-1900). L’idea comune di tutti questi pensatori è che sia il
pensiero individuale sia la tra- dizione dell’umanità si fondano su una diretta
rive- lazione di Dio, che è compito dell’uomo sviluppare con la riflessione
individuale e con l’azione col- lettiva. L’idea dell’essere di Rosmini è la
migliore espressione concettuale di questa nozione di rive- lazione
progressiva. Applicato alla storia, tale con- cetto non è altro che quello del
provvidenzialismo (v.). TRADIZIONE (gr. rapàdoor; ingl. Tradition; franc.
Tradition; ted. Ùberlieferung). L'eredità cul- turale cioè la trasmissione da
una generazione al- l’altra di credenze o di tecniche. Nel dominio della
filosofia l’appello alla T. implica il ricono- scimento della verità della T.
stessa. La T. diventa, da questo punto di vista una garanzia di verità e talvolta
l’unica garanzia possibile. In tal senso essa era intesa dallo stesso
Aristotele che più volte, nel corso della sua indagine, fa appello alla T. e la
assume come garanzia di verità: «I nostri antenati delle più remote età hanno
trasmesso alla loro posterità tradizioni in forma mitica che i corpi celesti
sono divinità e che il divino abbraccia l’intera natura. Altre T. sono state
aggiunte in forma mitica per la persuasione dei più e allo scopo di rafforzare
le leggi e di promuovere l’uti- lità pubblica; esse dicono che gli dèi hanno
forma di uomini o di altri animali e danno su di essi altri dettagli simili. Ma
se consideriamo solo il punto essenziale, separatamente dal resto, che le prime
sostanze sono tradizionalmente credute di- vinità, possiamo riconoscere che
questo è stato divinamente detto e che, per quanto le arti e le filosofie
possono avere spesso esplorato e perfezio- nato e di nuovo perduto, questi miti
e altri sono stati conservati sino ad oggi come antiche reliquie. È solo in
questo modo che noi possiamo rendere chiare le opinioni dei nostri antenati e
predeces- sori » (Mer.). La sua stessa filosofia appare così ad Aristotele come
la liberazione della T. dai suoi elementi mitici, perciò come una sco- perta
della T. autentica e nello stesso tempo come fondata sulla garanzia che questa
stessa T. le offre. È questo il punto di vista che divenne pre- valente
nell’ultimo periodo della filosofia greca e specialmente nell’indirizzo
neoplatonico. Plotino di- ceva: « Bisogna credere senza dubbio che la verità è
stata scoperta da antichi e beati filosofi; a noi conviene di esaminare quali
sono coloro che l’hanno incontrata e come possiamo noi stessi arrivare a
comprenderla » (Enn., III, 7, 1). Fu questa l’idea dominante nel cui ambito fu
possibile fabbricare, in appoggio di una T. presunta, documenti fittizi quando
quelli autentici mancavano; e le opere di falsa attribuzione, le più famose
delle quali furono 56 quelle di Ermete Trismegisto, obbediscono appunto
all’esigenza di rinviare nel passato la dottrina in cui si crede e di
procurarle, sia pure in modo truffaldino, il prestigio e la garanzia della
tradizione. Da allora in poi, il concetto della T. non è mu- tato, e ha
conservato l’apparenza o la promessa di questa garanzia. Il grande ritorno
dell’idea di T. è il Romanticismo. J. G. Herder nella sua Ideen zur Philosophie
der Geschichte der Menschheit (1783- 1791) aveva esaltato la T. come « la sacra
catena che lega gli uomini al passato e che conserva e tra- smette tutto ciò
che è stato fatto da coloro che l’hanno preceduto ». Hegel ha esplicitamente
esal- tata la T. e ha insistito sul suo carattere provvi- denziale. «La T.,
egli ha detto, non è una statua immobile ma vive e rampolla come un fiume im-
petuoso che tanto più s’ingrossa quanto più si allontana dalla sua origine...
Ciò che ogni genera- zione ha fatto nel campo della scienza, della pro- duzione
spirituale è un’eredità cui ha contribuito con i suoi risparmi tutto il mondo
anteriore, è un santuario alle cui pareti gli uomini d’ogni stirpe, grati e felici,
hanno appeso ciò che li ha aiutati nella vita, ciò che essi hanno attinto alle
profondità della natura e dello spirito. E questo ereditare è ad un tempo un
ricevere e un far fruttare l’eredità » (Geschichte der Philosophie, edi- tore
Glockner, I, pag. 29). In questo senso, ovvia- mente, la T. non è che un altro
nome per designare il piano provvidenziale della storia (v. STORIA). Fu questo
il punto di vista prevalente in tutto il Romanticismo; e di esso il cosiddetto
rradiziona- lismo (v.) non è che una manifestazione particolare. L’antitesi di
questa valutazione della T. è una concezione la quale: 1° neghi che tutti i
risultati o i prodotti migliori dell’attività umana siano in- fallibilmente
conservati e incrementati nel corso dello sviluppo storico; 2° neghi che ciò
che da tale sviluppo è conservato sia, per ciò stesso, ga- rantito nella sua
verità o nel suo valore. Una con- cezione di questo genere è quella che fu
propria dell’Illuminismo (che perciò è spesso definito anti- storicistico da
chi condivide il punto di vista della storia come ordine provvidenziale o T.).
L’Illumi- nismo si iscrisse in falso contro la T., assumendo che quel che essa
tramanda è, il più delle volte, errore, pregiudizio o superstizione e
appellandosi contro la stessa T. al giudizio della ragione cri- tica (v.
ILLUMINISMO). Le discussioni filosofiche sul significato e l’im- portanza della
T. sono in realtà, come si vede, discussioni sulla storia (v.). Nel campo della
socio- logia invece l’analisi della T. è l’analisi di un de- terminato
atteggiamento o meglio di un tipo e specie di atteggiamenti e precisamente di
quello che consiste nell’acquisizione inconsapevole (cioè 882 non deliberata)
di credenze e di tecniche. L’atteg- giamento tradizionalistico è quello per cui
l’indi- viduo considera i modi d'essere e di comportarsi che ha ricevuto o va
ricevendo dall’ambiente sociale come suoi propri modi d’essere, senza rendersi
conto che sono quelli del gruppo sociale. Manca nella T. la distinzione tra
presente e il passato, tra sè e gli altri: il che fa di essa una forma di
comunicazione primitiva ed impropria (ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959,
XI, 3). All’atteggia- mento tradizionalistico si oppone da questo punto di
vista l'atteggiamento critico per il quale l’indi- viduo ha una certa libertà
di giudizio (che tuttavia non è mai assoluta o infallibile) nei confronti di
quelle stesse credenze e tecniche che ha assorbito dalla tradizione.
L'atteggiamento critico ha con- dizioni antitetiche a quelle della T.:
l’alterità tra il presente e il passato e tra sè e gli altri. TRADUCIANISMO
(ingl. Traducianism; te- desco Traducianismus). La dottrina che l’anima dei
figli derivi dall'anima dei padri come un ramo (tradux) deriva dall’albero.
Questa dottrina si tro- vava già presso gli Stoici (TEMISTIO, De An., II, 5;
GacenO, Op., IV, 699), fu accettata da Tertulliano (De An., 22) e da altri
scrittori della patristica e difesa più tardi dai teologi protestanti che
vedevano in essa la possibilità di spiegare la trasmissione del to originale. Leibniz
stesso inclinava verso di essa (7héod., I, $ 86). La stessa dottrina è stata
talora indicata con il nome di generazionismo. La dottrina opposta, che ogni
anima sia creata ex novo, si chiama crea- zionismo (v.). TRAGICO (ingl. Tragic;
franc. Tragique; te- desco 7ragisch). Il concetto del T. viene talora discusso
dai filosofi non solo in rapporto con quella particolare forma d’arte che è la
tragedia, ma anche in rapporto alla vita umana in generale o alla scena del
mondo. Il punto di partenza impli- cito o esplicito di tali discussioni è quasi
sempre la definizione aristotelica della tragedia secondo la quale essa è
«imitazione di vicende che suscitano pietà e terrore e che mettono capo alla
purificazione di tali emozioni » (Poer., 6, 1449 b 23). Le situa- zioni che
suscitano « pietà e terrore » sono quelle in cui la vita o la felicità di
persone incolpevoli è posta in pericolo o in cui i conflitti non sono ri- solti
o sono risolti in modo da determinare « pietà e terrore » negli spettatori.
Nella tragedia greca, ha detto W. Jaeger, «la felicità, come ogni possesso, non
può restare a lungo presso chi lo detiene e la perpetua sua instabilità è
insita nella sua natura stessa. Il convincimento di Solone che esista un
ordinamento divino del mondo aveva trovato ap- punto in questa nozione, pur
tanto dolorosa per l’uomo, il suo appoggio più saldo. Anche Eschilo
TRADUCIANISMO è inconcepibile senza tale convincimento, che può dirsi piuttosto
una nozione che non una credenza » (Paideia, II, cap. 1; trad. ital., I, pag.
449). Ora le interpretazioni che nel pensiero moderno sono state date della
natura del T. sono tre: 1° T. è il conflitto continuamente risolto e superato
nell’or- dine perfetto del tutto; 2° T. è il conflitto irrisolto e
irrisolvibile; 3° T. è il conflitto che può essere risolto ma la cui soluzione
non è definitiva nè per- fettamente giusta o soddisfacente. 1° La prima
concezione del T. è quella di Hegel. Hegel afferma che il conflitto, in cui il
T. consiste, pur costituendo la sostanza e la vera realtà, non si conserva come
tale ma trova la sua giusti- ficazione solo in quanto viene superato come con-
traddizione. « Intanto lo scopo e il carattere T. è legittimo, dice Hegel, in
quanto è necessaria la soluzione del conflitto in cui esso consiste. Attra-
verso tale soluzione, l’eterna giustizia si afferma sugli scopi e sugli
individui particolari, in modo che la sostanza morale e la sua unità si
ristabili- scono col tramonto delle individualità che distur- bano il suo
riposo» (Vorlesungen iiber die Aes- thetik, ed. Glockner, III, pag. 530). La
soluzione T. pertanto ristabilisce l’armonia e ciò che essa di- strugge è
soltanto la « particolarità unilaterale » che non ha potuto giungere ad
accordarsi con l’ar- monia stessa (/bid., ed. Glockner, II, pag. 530).
Ovviamente, da questo punto di vista, che è quello proprio di ogni ottimismo o
provvidenzialismo di stampo romantico, la tragedia è la semplice appa- renza di
una sostanziale commedia: tutto finisce bene, e ciò che viene perduto è la «
particolarità unilaterale » che non ha il minimo valore. 2° La seconda
interpretazione del T. è quella di Schopenhauer, secondo il quale il T. è
conflitto irresolubile. La tragedia, dice Schopenhauer «è la rappresentazione
della vita nel suo aspetto terri- ficante. Il dolore senza nome, l’affanno
dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il
fatale precipizio dei giusti e degli inno- centi ci vengono presentati da essa;
sicchè essa costituisce un segno significante della natura propria del mondo e
dell’essere» (Die Welr, I, $ 51). Ma l’inevitabilità e quindi la certezza d’un
fato maligno o di una ingiustizia immanente tolgono, come l’ine- vitabilità e
la certezza della giustizia e dell'armonia, il carattere tragico. Di fronte ad
essi infatti l’unico atteggiamento possibile è quello della rassegnazione o
della disperazione: atteggiamenti, che come quelli a loro opposti, escludono il
conflitto costitutivo del tragico. 3° La terza concezione è quella che fu
presen- tata da Schiller nello scritto Uber naive und sentimen- talische
Dichtung (1795-96). In questo scritto il T. viene presentato come una
manifestazione della TRANSFINITO poesia sentimentale (v. INGENUITÀ) e
precisamente di quella poesia che rappresenta il conflitto tra il reale e
l’ideale. La poesia sentimentale si divide in satira ed elegia: la satira è
quella in cui il poeta prende a suo oggetto il reale, considerandolo
insufficiente rispetto all’ideale. Quando l’insufficienza del reale è
rappresentata mediante il conflitto tra il reale stesso e le nostre esigenze
morali si ha, secondo Schiller, la satira seria, cioè il T. (Werke, ed. Kar-
peles, XII, pag. 150). A concetti analoghi si ispi- rava il cosiddetto «
pantragismo +» del poeta Hebbel (cfr. Werke, X, pag. 43). Assai più paradossalmente
Nietzsche vedeva nel T. da un lato il carattere terrifi- cante dell’esistenza,
dall’altro la possibilità di accet- tare e trasfigurare tale carattere o
attraverso l’arte o attraverso la volontà di potenza. La prima soluzione è
quella che Nietzsche attribuisce ai Greci nella Nascita della tragedia (1872).
L'uomo greco, che era in grado di scorgere chiaramente l’orribile e l’assurdo
dell’esistenza, riuscì a trasfigurarla me- diante lo spirito dionisiaco,
domando e assogget- tando l’orribile che così diventa il sublime cioè l'oggetto
della tragedia e liberando dal disgusto dell'assurdo, che così diventa il
comico, cioè l’og- getto della commedia (Die Geburt der Tragòdie, $ 7). Più
tardi Nietzsche scorse la via d’uscita da ciò che c’è di terrificante nella vita
nell’accettazione della vita stessa dovuta alla volontà di potenza e considerò
pertanto il T. come l’accettazione dio- nisiaca di ciò che è terrificante e
incerto. «La profondità dell’artista T., egli scrisse allora, con- siste in
questo che il suo istinto estetico considera le conseguenze lontane e non si
arresta con vista corta alle cose prossime; che egli afferma l'economia in
grande, l’economia che giustifica ciò che è ter- ribile, maligno e problematico
e che non si contenta solamente di giustificarlo » (Wille zur Macht, ediz.
1901, $ 374). Questa concezione del T., per quanto di solito imperfettamente
espressa o mescolata, nella sua espressione, con le altre due, si può
riconoscere dal fatto che essa fa posto nella sua caratterizza- zione alla problematicità
della situazione T., cioè al carattere per cui essa si può decidere in un modo
o nell’altro senza che la sua decisione sia definitiva o perfetta. In questo
senso il carattere del T. è stato colto da Michele de Unamuno nel Sentimento T.
della vita (1913) che lo esprime col quien sabe? di Don Chisciotte. Nello
stesso senso si sono espressi Scheler (Vom Umsturz der Werte, 1953), Jaspers (
Uber das Tragische, 1952) e Cantoni (Tragico e senso co- mune, 1964). P.
Romanell ha detto che a differenza dell’epica, in cui il conflitto è tra il
bene e il male, nel T. il conflitto è tra beni diversi cioè tra valori
eterogenei tra i quali la scelta è dolorosa ed im- plica sempre sacrificio
(Making of the Mexican Mind, 1952, pag. 22). Questo carattere del T. è bene
realiz- 883 zato nella tragedia greca. La tragedia di Sofocle si fonda sul
convincimento che esiste un ordinamento divino del mondo il quale fa sì che
talvolta l'in- nocente debba pagare il fio di una colpa commessa da altri. Il
fatto che la decisione del conflitto non possa essere netta, che anche nella
sua soluzione qualcosa vada perduto e che questo qualcosa non è, come diceva
Hegel, una « particolarità unilate- rale », costituisce il fascino e la verità
della tragedia. TRANQUILLITÀ. V. ATARASSIA. TRANSAZIONE (ingl. Transaction;
francese Transaction; ted. Transaction). Termine introdotto in filosofia da
Dewey e Bentley per indicare una relazione che non presuppone, come entità a
sè, i termini relativi. Dice Dewey: «Il termine indica negativamente che nè il
senso comune nè la scienza devono essere considerati come entità, come al-
cunchè di collocato a parte, completo e circo- scritto... Positivamente indica
che debbono essere contrassegnati dalle caratteristiche e dalle proprietà che
si riscontrano in qualsiasi cosa riconosciuta come T.: per es., un affare o T.
commerciale. Questa T. fa di un partecipante un compratore e dell’altro un
venditore: non esistono compratori e venditori che in T. e a causa di T. in cui
siano impegnati » (Knowing and the Known, 1949, pa- gina 270). Il termine T.
era stato adoperato in Italia da Romagnosi: secondo il quale, dal « com- mercio
fra l’interno e l’esterno » dell’uomo nasce «una T. sullo stesso fondo dell’io
pensante, la quale pone in armonia le leggi del mondo interiore con quello
esteriore per formare un solo mondo e una sola vita » (Che cos'è la mente sana?
[1827], ed. 1936, pag. 100, 138. TRANSCREAZIONE (ingl. Transcreation; franc.
Transcréation). Termine adoperato da Leibniz per indicare l’operazione
particolare con cui Dio dà la ragione all’anima sensibile o animale. Leibniz
preferisce questa ipotesi a quella che ritiene che l’anima animale si sollevi
alla ragione con mezzi puramente naturali (7héod., I, $ 91). TRANSEUNTE (ingl.
Transeunt; franc. Tran- seunt; ted. Transeunt). 1. Lo stesso che transi- tivo
(v.). 2. Mutevole, passeggero. TRANSFERT. V. PSICANALISI. TRANSFINITO (ingl.
7ransfinite; francese Transfini; ted. Transfinit). Espressione usata da G.
Cantor per indicare i numeri che sono al di là dei numeri finiti. Per es., se è
T. il numero ordinale della classe che comprende tutti i numeri ordinali
finiti, nel loro ordine naturale (0, 1, 2,...), questo nu- mero è denotato da
un omega minuscolo (G. CANTOR, Contributions to the Founding of the Theory of
Transfinite Numbers, trad. ingl., 1915) (v. INFI- NITO). Conseguentemente per
«induzione transfi- 884 nita » s’intende l’estensione dell’induzione mate-
matica (v.) a una classe di numeri ordinali arbitrari in modo simile a quello
nel quale la stessa induzione è applicata a una classe ben ordinata di numeri
omega. TRANSITIVITÀ (ingl. Transitivity; francese Transitivité; ted.
Transitivitàt). Il carattere di una relazione che, se intercede tra x e y e tra
ye z, intercede pure tra x e z. Tale carattere è proprio delle relazioni di
identità o di eguaglianza come pure delle relazioni minore, precede, a sinistra
di, ecc. (cfr. B. RussELL,
Introduction to Mathe- matical Philosophy, cap. IV; trad. ital., pag. 44). Nel calcolo proposizionale, le leggi di 7. della
implicazione materiale e dell’equivalenza materiale sono le seguenti: « Se p
implica g e q implica r, allora p implica r (cioè: [p> gl[g>7r]>[p>
7)) Se p è equivalente a g e g è equivalente a 7, allora p è equivalente a r
(cioè: [p=gllg=-A=p=?#) (cfr. A. CHURCH,
/ntroduction to Mathematical Logic, I, $ 48, ecc.). TRANSNATURALE (franc. Transnaturel). Termine proposto da M. Blondel per
indicare la situazione dell’uomo che è posto tra la natura e la sopranatura; ed
è destinato, durante la vita mortale, a prepararsi per la vita eterna (Mistoire
et dogme, 1904, pag. 68). RANSOBBIETTIVO (ted. Transobjektiv). Termine
adoperato da N. Hartmann per indicare ciò che della realtà rimane al di là dei
limiti del conosciuto quindi al di là dell’oggetto di cono- scenza (Methapysik
der Erkenntnis, 2* ediz., 1925, pag. 50). TRANSOGGETTIVO (ingl.
Transsubjective; ted. Transsubjektiv). Lo stesso che Trascendente (v.).
TRANSPATIA (ingl. Transpathy). Termine adoperato da scrittori inglesi per
indicare il con- tagio emotivo o la fusione emotiva in quanto è diversa dalla
simpatia (v.). TRANSRAZIONALISMO (ingl. Transratio- nalism; franc.
Transrationalisme; ted. Transrationa- lismus). Termine adoperato da A. Cournot
per indicare la disposizione naturale dell’uomo a cre- dere nel soprannaturale
o nel misterioso o in ge- nerale a ciò che al di là della ragione
(Matérialisme, vitalisme, rationalisme, 1875, pag. 385). TRANSUSTANZIAZIONE
(lat. Transustan- tiatio; ingl. Transubstantiation; franc. Transsubstan-
tiation). L’interpretazione del sacramento dell’altare che consiste nel
ritenere che la sostanza del pane o del vino si trasforma nella sostanza del
corpo o del sangue di Cristo e che pertanto gli accidenti di essa rimangano
senza soggetto. È l’interpretazione di quel sacramento che fu data da S. Tommaso
(S. Th., III, q. 77, a. 1) e fu accettata dal Concilio di Trento.
L’interpretazione alternativa, accettata TRANSITIVITÀ dalla chiese riformate, è
quella della consustanzia- zione (V.). TRASCENDENTALE (lat. Transcendentalis;
ingl. Transcendental; franc. Transcendental; te- desco Transzendental). Con
questo termine o con quello di trascendente, si cominciarono a chiamare, a
partire dalla fine del sec. x1m, le proprietà che tutte le cose hanno in
comune, e che perciò ecce- dono o trascendono la diversità dei generi in cui le
cose si distribuiscono. Il nome si trova già ado- perato da Francesco Mayrone
(morto nel 1325, Formalitates, ediz. 1479, f. 22, r. A); e alla dif- fusione di
esso contribuì certamente Lorenzo Valla (Dialecticae disputationes, I, 1). Ma i
trascendentali o trascendenti erano stati già definiti da S. Tom- maso come
quelle proprietà « che si aggiungono al- l'ente in quanto esprimono un modo di
esso che non viene espresso dal nome dell’ente »; e lo stesso S. Tommaso ne
enumerava sei: ens, res, unum, aliquid, bonum, verum (De Ver., q. 1, a. 1); una
lista che riuscì la più diffusa e accreditata fra tutte. Questo concetto del
T., con qualche mutamento occasionale nella lista dei termini, fu ripetuto
spesse volte in seguito (CAMPANELLA, Dialectica, I, 4; Bruno, De /a causa, IV;
F. BACONE, De Augm. Scient., III, I; Jungius, Logica Hamburgensis, I, 1, 45;
Spinoza, £Et., II, 40, scol. I; BERKELEY, Principles of Human Knowledge, $ 118; WoLFF, Ont., $ 495,
503; BAUMGARTEN, Met., $ 72, 89; HAMILTON, Lectures on Logic, I, pag. 198). A questa tradizione si connette l’uso kantiano del
termine. Dice Kant: «Questi presunti predicati T. delle cose non sono che
esigenze logiche e criteri di ogni conoscenza delle cose in generale, e
riposano sulle categorie della quantità cioè dell’unità, della pluralità e
della totalità; solo che queste categorie, che si sarebbero dovute assumere nel
significato materiale come ap- partenenti alla possibilità delle cose stesse,
gli an- tichi le adoperavano in realtà solo in un valore formale, come
costituenti l’esigenza logica nei con- fronti di ogni conoscenza; e tuttavia di
questi criteri del pensiero facevano inavvertitamente pro- prietà delle cose in
se stesse» (Cri. R. Pura, Analitica, $ 12). In altri termini, Kant ritiene che
il vecchio concetto del T. pecchi per due lati: 1° perchè fa del T. un semplice
concetto logico- formale; 2° perchè considera questo concetto for- male come
proprietà delle cose in se stesse. Al- l'opposto il concetto kantiano del T.
consiste: 1° nel considerare il T. stesso come condizione della possibilità
della cosa cioè come concetto @ priori o categoria; 2° nel considerare la cosa,
di cui il T. è la condizione, non come «cosa in sè» ma come fenomeno. Con tutto
ciò il T. non si iden- tifica, per Kant, con le condizioni a priori della
conoscenza umana e dei suoi oggetti (che sono i TRASCENDENTE fenomeni); ma è
piuttosto da lui inteso come la conoscenza (o la scienza, se c’è una scienza)
di tali condizioni @ priori. Dice Kant infatti: «Chiamo T. ogni conoscenza che
si occupa, non degli oggetti ma del nostro modo di cono- scere gli oggetti, in
quanto è possibile a priori» (Ibid., Intr., VII). E precisa: « Bisogna chiamare
T. non ogni conoscenza a priori ma solo quella per cui sappiamo che e come
certe rappresenta- zioni (intuizioni o concetti) sono applicate o sono
possibili esclusivamente a priori. È cioè T. la co- noscenza della possibilità
della conoscenza o del- l’uso di essa a priori» (Ibid, Logica, Intr., II; cfr.
Prol., $ 13, osserv. III). Da questo punto di vista, T. non è «ciò che è al di
là di ogni espe- rienza» ma piuttosto «ciò che antecede l’espe- rienza (a
priori) pur non essendo destinato ad altro che a rendere possibile la semplice
conoscenza empirica + (Prol., Appendice, nota [A 204]). Tuttavia bisogna
osservare che Kant non si attenne rigoro- samente a questo significato del
termine e che spesso chiamò T. ciò che è indipendente dall’espe- rienza o da
princìpi empirici (cfr., ad es., Critica R. Pura, L’ideale della ragion pura,
sez. 5, Sco- perta e illustrazione dell’apparenza dialettica). Co- munque, in
base al significato che Kant esplicita- mente accetta, si possono chiamare T.
soltanto le conoscenze che hanno per oggetto elementi a priori, non questi
stessi elementi. Sicchè sono T. l’estetica, la logica e le loro parti ma non
già le intui- zioni pure o le categorie o le idee. Ma anche quest’uso non è
rigoroso perchè Kant chiama T. le idee e chiama unità T. l’io penso (Ibid., $
16). Il termine fu ripreso da Fichte per designare la dottrina della scienza in
quanto fa vedere che tutti gli elementi del conoscere rientrano nell’Io cioè
nella coscienza: «Questa scienza non è rrascen- dente, ma resta 7. nelle sue
più intime profondità. Essa spiega certo ogni coscienza con qualcosa che esiste
indipendentemente da ogni coscienza; ma anche in questa spiegazione non
dimentica di con- formarsi alle sue proprie leggi; ed appena vi ri- flette
sopra, quel termine indipendente diventa di nuovo un prodotto della propria
facoltà di pen- sare, quindi qualcosa di dipendente dall’Io in quanto deve
esistere per l’Io, nel concetto dell’Io » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 5, II;
trad. ital., pa- gina 231). Nello stesso senso il termine veniva in- teso da
Schelling per il quale, nel sapere T., « l’atto del sapere giunge ad assorbire
l’oggetto come tale » sicchè esso è «un sapere del sapere in quanto è puramente
soggettivo » (System des transzendentalen Idealismus). Lo stesso senso idea-
listico il termine assume per Schopenhauer: secondo il quale è T. « una
conoscenza che determina e sta- bilisce prima di ogni esperienza tutto ciò che
è pos- 885 sibile nell’esperienza » (Uber die vierfache Wurzel des Satzes vom
zureichenden Grunde, $ 20). Come risultato di queste determinazioni, il con-
cetto del T. si è venuto fissando nella filosofia con- temporanea come ciò che
appartiene al soggetto o alla coscienza in quanto è condizione dell’oggetto e
cioè della realtà stessa. Si è qualificato pertanto come T. ogni attività o
elemento della coscienza da cui dipenda l’affermazione o la posizione della
realtà oggettiva. Pertanto espressioni come « punto di vista T.» o «conoscenza
T.» equivalgono alla espressione di Schelling « idealismo T. » cioè di dot-
trina la quale mostra come nella coscienza sogget- tiva ci siano le condizioni
di ogni realtà. Questo concetto di T. è rimasto sia nelle scuole di più stretta
ispirazione kantiana sia nelle scuole ideali- stiche. Gentile chiamava «Io T.»
l’io assoluto o uni- versale, che crea pensando ogni realtà (Teoria gene- rale
dello spirito, 1920, I, $ 5). Un senso idealistico il termine conserva anche
nell’uso che ne fa Husserl, che chiama T. l’esperienza fenomenologica o la
riflessione che vi mette capo. « Nella riflessione fenomenologica T., noi
lasciamo il terreno empi- rico, praticando l’epoché universale quanto alla
esistenza o alla non esistenza del mondo. Si può dire che l’esperienza così
modificata, l’esperienza T. con- siste in questo: noi esaminiamo il cogito
trascenden- talmente ridotto e lo descriviamo senza effettuare in più la
posizione di esistenza naturale implicita nella percezione spontanea » (Carr.
Med., $ 15). Al- l’opposto, per Heidegger T. ha senso oggettivo perchè designa
« ogni manifestazione dell’essere nel suo essere trascendente» (Sein und Zeit,
$ 7C). TRASCENDENTALISMO (ingl. Transcen- dentalism; franc. Transcendentalisme;
ted. Transzen- dentalismus). La teoria dell’idealismo trascendentale cioè
dell’idealismo romantico. Il nome è stato in- trodotto nei paesi anglosassoni e
specialmente in America, da Emerson (cfr. O. B. FROTHINGHAM, Transcendentalism
in New England, 1876; nuova edizione 1959). TRASCENDENTE (lat. 7ranscendens;
inglese Transcendent; franc. Transcendant; ted. Transzen- dent). Il termine ha due significati fondamentali,
corrispondentemente ai due significati di rascen- denza (v.) e cioè: 1° ciò che
è al di là di un certo limite, assunto come misura o come punto di ri-
ferimento; 2° l’operazione dell’oltrepassamento. 1° Nel primo significato, la
parola assume va- lori diversissimi, a seconda di ciò che si assume come limite
o misura. Le proprietà trascendentali (v.) erano dette tali perchè T. rispetto
ai generi, dai quali esse erano considerate indipendenti. Si parla di «
perfezione T.» cioè di una perfezione che su- pera ogni grado praticamente
ottenibile. Più fre- quentemente, il termine viene adoperato in filosofia 886
per indicare ciò che oltrepassa i limiti di una qualche facoltà umana o di tutte
le facoltà e dell’uomo stesso. Così Boezio diceva che « La ragione trascende
l’im- maginazione perchè afferra la specie universale che inerisce nelle cose
singolari » (Phil. Cons., V, 4). S. Tommaso diceva che la teologia « trascende
tutte le altre scienze sia speculative che pratiche »; giacchè è più certa di
esse ed inoltre si occupa di cose «che per la loro altezza trascendono la
ragione » (S. 7Th., I, q. 1, a. 5). Cusano, a proposito della identità del
minimo assoluto e del massimo asso- luto in Dio, dice che «ciò trascende ogni
nostro intelletto, che non può combinare razionalmente le cose che sono
contraddittorie nel loro principio » (De Docta Ignor., I, 4). Più precisamente
a partire da Kant, si intende per T. una nozione che eccede i limiti dell’espe-
rienza possibile. Sono pertanto T., secondo Kant, le idee della Ragion pura.
Dice Kant: « Diremo immanenti i princìpi la cui applicazione si tiene in tutto
e per tutto nei limiti dell’esperienza possi- bile; T. invece quelli che devono
sorpassare tali limiti» (Crift. R. Pura, Dialettica, Intr., I; con- fronta
Prol., $ 40). Diverso dai princìpi T. è l’uso trascendentale dei princìpi
immanenti: uso che si avvale di princìpi conoscitivi legittimi ma senza tener
troppo conto dei limiti dell’esperienza (/bid., Dialettica, Intr., I; cfr.
Prol., $ 40). 2° Nei precedenti significati, la parola T. è assunta a
significare ciò che è al di là di un certo limite. Nella filosofia
contemporanea essa viene spesso adoperata a significare un’attività o un’ope-
razione in corrispondenza col significato 2° di trascendenza. T. in questo
senso è, secondo Husserl, la percezione delle cose, in opposizione alla perce-
zione che la coscienza ha di se stessa (che è perce- zione immanente) (/deen,
I, $ 46). Hartmann chiama nello stesso senso atto T. la conoscenza (Systema-
tische Philosophie, $ 11). E Heidegger definisce come T. «ciò che attua
l’oltrepassamento, ciò che si mantiene nell’oltrepassare » (Vom Wesen des
Grundes, II; trad. ital., pag. 29) (v. TRASCEN- DENZA). ‘TRASCENDENTISMO.
Termine che non trova riscontro in altre lingue e che è usato talora a
designare ogni dottrina che ammetta la trascen- denza dell’essere divino.
TRASCENDENZA (ingl. 7ranscendence; franc. Transcendance; ted. Transzendenz). Il
ter- mine è stato usato in due significati diversi, cioè per indicare: 1° lo
stato o la condizione del prin- cipio divino o dell’essere che è al di là di
ogni cosa, di ogni esperienza umana (in quanto espe- rienza di cose) o
dell'essere stesso; 2° l'atto di stabilire un rapporto che escluda
l’unificazione o l ’identificazione dei termini. TRASCENDENTISMO 1° Nel primo
senso, il termine si connette alla concezione neoplatonica della divinità.
Platone aveva già detto che il Bene, come principio supremo di tutto ciò che è,
paragonabile come tale al sole che fa vivere e rende visibili tutte le cose, è
d/ di là della sostanza (èntveva tic obdolac, Rep., VI, 509 b). Sulle orme di
Platone, Plotino ripete che l’Uno è « al di là della sostanza » (Enn., VI, 8,
19); ma aggiunge pure che esso è «al di là dell'essere » (eréxewa Évroc, /bid.,
V, 5, 6); e che è «al di là della mente» (tréxewva voù, /bid., III, 8, 9); in
modo che è trascendente (òrepfeByxdc) rispetto a tutte le cose pur producendole
e tenendole in es- sere lui stesso (/bid., V, 5, 12). Proclo dice: «AI di là di
tutti i corpi, c'è la sostanza dell’anima, al di là di tutte le anime, la
natura intelligibile, al di là di tutte le sostanze intelligibili, c'è l’Uno »
(Ist. Teol., 20). Scoto Eriugena ed altri usarono il termine superessente (v.)
per indicare la T. asso- luta per cui Dio è al di sopra di tutte le determina-
zioni concepibili, perfino dell’essere o della so- stanza. Non sempre tuttavia
la T. è spinta fino a questo punto cioè sino a situare Dio al di là del-
l’essere e a farne in qualche modo un «nulla». La scolastica classica,
riconoscendo la analogi- cità dell’essere, non pone Dio al di là dell’essere
stesso: questa forma di T. è invece propria della teologia negativa o mistica
(v. TEOLOGIA, 4). Fuori della teologia, questa specie di T. è stata rico-
nosciuta da Jaspers, che ha contrapposto la T. all’esistenza: la T. è ciò che è
al di là di ogni pos- sibilità dell’esistenza, è l'essere che non si risolve
mai nel possibile e con cui pertanto l’uomo non può avere altro rapporto se non
appunto quello che consiste nell’impossibilità di raggiungerlo. In tal senso,
la T. si rivela sotto forma di cifra (v.) nelle situazioni-limite (v.) e non
può essere con- trassegnata neppure come « divinità » senza cadere nella
superstizione. L'unica certezza che si può acquisire nei riguardi della T. è
che « l’essere è e che è così» (Phil., III, pag. 134). Nel contempo la T.
veniva riconosciuta, dagli indirizzi realistici della filosofia contemporanea
alle cose o agli oggetti di conoscenza in generale o all’essere di tali
oggetti. Husserl negava in questo senso che una cosa potesse essere data come
im- manente in qualsiasi percezione o coscienza e de- finiva l’essere della
cosa come essere trascendente, che è più o meno adombrato dalle apparizioni della
cosa stessa alla coscienza (/deen, I, $ 41). N. Hart- mann insisteva a sua
volta sulla T. dell’essere rispetto alla conoscenza, in quanto l’essere stesso
rimane sempre al di là dell’oggetto conoscitivo immanente (Metaphysik der
Erkenntniss, 23 ediz., 1925, pag. 50). Nello stesso senso la T. veniva
combattuta dalle varie forme dell’immanentismo (v.). TRASMUTAZIONE DEI VALORI
2° Nel secondo significato, la T. è l’atto con cui si stabilisce un rapporto
senza che questo rap- porto significhi unità o identità dei suoi termini bensì
garantendo, con il rapporto stesso, l’alterità di essi. Anche questo concetto
ha un'origine reli- giosa e neoplatonica. Plotino diceva che la con-
templazione è « per colui che è andato al di là di tutto + (tà brrepfdvii
rdvra, Enz., VI, 9, 11). In un passo famoso S. Agostino diceva: «Se troverai
mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso +; e aggiungeva: « Ricordati
che nel trascendere te stesso, trascendi un'anima razionale e che pertanto devi
mirare al punto da cui dipende ogni luce di ragione » (De vera relig., 39).
Questo senso attivo di T. è stato pressochè obliterato nella filosofia
tradizionale ed è stato ripreso solo dalla filosofia contemporanea. Con
riferimento alla T. dell’essere o della cosa rispetto alla coscienza che
l’apprende o all’atto di cono- scenza che ne fa oggetto, trascendente è stato
chiamata, in senso attivo la coscienza stessa o l'atto di conoscenza. Così
Husserl parla della percezione trascendente, che è quella che ha per oggetto la
cosa e rispetto alla quale la cosa stessa è trascendente, come diversa dalla
percezione imma- nente che ha per oggetto le stesse esperienze co- scienti le
quali sono immanenti alla percezione stessa (/deen, I, $ 42, 46). N. Hartmann
ha messo il concetto della T. a fondamento del suo realismo. «La conoscenza,
egli ha detto, non è un semplice atto di coscienza, come il rappresentare o il
pen- sare ma un atto trascendente. Un atto simile s°at- tacca al soggetto
soltanto con una sua parte, con l’altra ne sporge fuori; con quest’ultima s’at-
tacca all’esistente che, mediante esso, diviene og- getto. La conoscenza è
relazione tra un soggetto e un oggetto esistente. In questa relazione, l’atto
trascende la coscienza» (Systematische Philoso- phie, $ 11). Nello stesso senso
egli chiama tra- scendente la relazione conoscitiva (/bid. $ 10). Ma la più
importante utilizzazione del concetto in questo senso è stata fatta da
Heidegger che ha definito come trascendente il rapporto tra l’uomo (Dasein,
Esserci) e il mondo. « L’Esserci che trascende (ecco un’espressione già di per
sè tautologica) non oltrepassa nè un ostacolo ante- posto al soggetto in modo
tale da costringerlo a restare dapprima in sè stesso (immanenza) nè un fosso
che lo separerebbe dall’oggetto. Da parte loro gli oggetti (gli enti che gli
sono presenti) non sono ciò verso cui l’oltrepassamento si attua. Ciò che viene
oltrepassato è proprio e unicamentel’ente stesso, cioè qualsiasi ente che possa
essere svelato o svelarsi all’Esserci e quindi anche pro- prio quell’ente che
l’Esserci è, in quanto, esistendo, è se stesso» (Vom Wesen des Grundes, 1929,
II). L’atto di T. è in altri termini quello per cui l’uomo, come ente nel
mondo, si distingue dagli altri enti od oggetti e si riconosce come 4se stesso
». Hei- degger perciò considera la T. come il significato dell’essere nel
mondo. «Colui che oltrepassa e quindi va oltre, deve come tale sentirsi situato
nell’ente. L’Esserci, in quanto si sente tale, è in- cluso nell’ente in modo
che, ricompreso in esso, viene da esso accordato a se stesso. La T. è un
progetto del mondo tale che colui che progetta è dominato dall’ente che
trascende ed è già in ac- cordo con esso. Con questo essere incluso del-
l’Esserci, connesso con la T., l’Esserci ha preso base nell’ente, ha ottenuto
il suo fondamento » (Ibid., III). È caratteristica di Heidegger questo far
ricadere e appiattire la T. sugli oggetti tra- scesi, il progetto sulle sue
condizioni di partenza, il possibile sull’effettuale, il futuro sul passato.
Heidegger chiama deiezione o effettività (v.) questa ricaduta o appiattimento.
E così fa Sartre, che esprime lo stesso concetto di T. affermando che la
coscienza (il per-sé), trascendendo verso l'essere (l’in-sè), non fa che
annullarsi per rivelare e af- fermare, attraverso di sè, l’essere stesso (L’étre
et le néant, II, cap. III; spec. pag. 268-69). Per una interpretazione della T.
che sfugga all’appiatti- mento o alla nullificazione (cfr. ABBAGNANO, Strut-
tura dell’esistenza, 1939, $ 18; Ip., Introduzione al- l’esistenzialismo, I, 6;
ecc.). TRASFORMAZIONE (ingl. Transformation; franc. Transformation; ted.
Umformung, Transforma- tion). Dewey ha visto nella T. la categoria fonda-
mentale del ragionamento matematico. « La T. dei contenuti concettuali, egli ha
detto, secondo regole metodiche che soddisfino determinate condizioni lo-
giche, è implicita tanto nella condotta del ragiona- mento che nella formazione
dei concetti che ne fanno parte ». Il principio logico della T. può essere
espresso dicendo che: 1° il contenuto del ragiona- mento consiste di possibilità;
2° che in quanto possibilità, esso richiede la formulazione in sim- boli
(Logic, XX, 1; trad. ital., pag. 516). Regole di T. si chiamano abitualmente le
regole di infe- renza dei sistemi logistici o dei linguaggi forma- lizzati (v.
SISTEMA LOGISTICO). ‘TRASFORMISMO (ingl. Transformism; fran- cese
Transformisme; ted. Transformismus). Con questo termine si indica
l’evoluzionismo biologico cioè la dottrina che ammette la trasformazione delle
specie viventi l’una nell’altra (v. EVOLUZIONE). TRASMIGRAZIONE. V.
METEMPSICOSI. TRASMUTAZIONE DEI VALORI (fran- cese Transmutation des valeurs;
ted. Umwertung aller Werte). La frase famosa con cui Nietzsche ha riassunto il
compito della sua filosofia. « In- versione di tutti i valori, egli ha scritto,
ecco la mia formula per un atto di supremo riconoscimento di sè di tutta
l’umanità, atto che in me è diventato carne e genio. Il mio destino esige che
io sia il primo uomo onesto, che io mi senta in opposi- zione con le menzogne
di vari millenni » (Ecce Homo, $ 4). L’inversione dei valori consiste nel porre
al posto della tavola tradizionale dei valori, fondati sulla rinuncia alla
vita, i nuovi valori che derivano dall’accettazione entusiastica (dionisiaca)
della vita, anche nei suoi aspetti più crudeli (Ge- nealogie der Moral, I, $
10; Die froeliche Wissen- schaft, $ 344; ecc.) (v. VALORE). RASPARENZA (ted.
Durchsichtigkeit). Così Heidegger ha chiamato l’intuizione che l’Esserci ha di
se stesso: « Esistendo, l’Esserci vede se stesso solo in quanto è divenuto originariamente
traspa- rente nel suo essere nel mondo e nel suo essere con gli altri, quali
momenti costitutivi della sua esistenza » (Sein und Zeit, $ 31). TRASPOSIZIONE
(ingl. Transposition; fran- cese Transposition; tedesco Transposition). Così è
detto un teorema del calcolo proposizionale per il quale da «se p, allora g* si
può inferire « non q, dunque non p». TRIADICO (ingl. Triadic; franc. Triadique;
ted. Triadisch). La divisione T. ha goduto spesso di un certo privilegio in
filosofia. A prescindere dalla perfezione che gli antichi Pitagorici riconob-
bero al numero tre, Plotino aveva riconosciuto tre fasi dell'emanazione e
quindi tre ipostasi della di- vinità, l’Uno, il Logos e l’Anima (Enn., II, 9,
1). Ma fu soprattutto Proclo a privilegiare il proce- dimento T., scorgendo in
ogni qualsiasi processo (o emanazione) tre fasi: quella in cui ciò che pro-
cede rimane simile a se stesso; quella in cui si differenzia da se stesso e
infine quella in cui ritorna a se stesso (/st. theol., 31). Su queste tre fasi del-
l'emanazione Hegel modellò le tre fasi della sua dialettica che consistono
rispettivamente: 1° nel- l’identità di un concetto con se stesso; 2° nel con-
traddirsi o nell’alienarsi del concetto rispetto a se stesso; 3° nella
conciliazione e nell’unità delle due prime fasi (cfr. Enc., $ 79-82). Hegel
interpretò secondo questa divisione T. sia il mondo della logica, sia il mondo
della natura sia quello dello spirito (Wissenschaft der Logik, ed. Glockner,
II, pag. 340 sgg.). Per quanto Hegel facesse risalire a Kant il merito di
questa triadicità di ogni processo razionale quindi anche dell’intera realtà
(/bid., pag. 344), la giustificazione che Kant dà del fatto che le sue «
divisioni nella filosofia pura riescono quasi sempre T.» è completamente
diversa ed è desunta dalla logica. Dice Kant infatti: «Se una divisione
dev'essere fatta a priori, o sarà analitica secondo il principio di
contraddizione e allora sarà sempre in due parti (guodlibet ens est qut A aut
non A); o sarà sintetica e in tal caso dovrà essere derivata da concetti a
priori... e conterrà: 1° la condizione; 2° un condizionato; 3° il concetto che
nasce dall’unione della condizione con il con- dizionato, riuscendo così
necessariamente una tri- cotomia » (Crit. del Giud., Intr., Nota finale). TRIADISMO
o TRIALISMO (ingl. Tria- dism; franc. Triadisme; ted. Trialismus). La dot-
trina, di origine stoica, che considera l’uomo for- mato da tre princìpi,
l’anima, il corpo e lo pneuma o spirito: dottrina che si trova ripetuta nelle
let- tere di S. Paolo (v. PNEUMA). TRIBUNALE (ingl. Tribunal; franc. Tribunal;
ted. Gerichtshof). Il termine è stato usato da Kant per definire il compito
della filosofia critica: « La critica della Ragion pura, egli disse, si può
consi- derare come il vero T. per tutte le controversie di questa, perchè essa
non si immischia nelle con- troversie che si riferiscono immediatamente agli
oggetti, ma è istituita per determinare e per giu- dicare i diritti della
ragione in generale secondo i princìpi della sua prima istituzione» (Crit. R.
Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez. 2). 'TRICOTOMIA (ingl. Trichotomy;
franc. Tri- chotomie; ted. Trichotomie). Divisione in tre parti, elementi o
classi. Il termine viene quasi esclusi- vamente adoperato per la dottrina della
triplice composizione dell’anima, che si chiama anche tria- dismo o trialismo.
La dottrina logica della T. fu elaborata nel sec. XVII, con l’avvertenza che
occorre ridurre la T. alla dicotomia ogni volta che due membri della dicotomia
abbiano una nozione in comune. Si può dire che il triangolo è o rettangolo o
obliquangolo e, si può poi dividere di nuovo il triangolo obli- quangolo in
ottusangolo e acutangolo (cfr. JunaIUS, Logica Hamburgensis, 1638, IV, 7, 13).
‘TRILEMMA (ingl. Trilemma; franc. Trilemme; ted. Trilemma). È stato indicato
con questo nome dai logici dell’800 uno schema d’inferenza che ha come premessa
maggiore una tricotomia, invece della dicotomia del dilemma (v.): «Ogni cosa è
o PoQ0M; S nonè nè M nè Q; dunque S è P». Nello stesso senso si parla di
tetralemma o di po- lilemma, ma si tratta di schemi di inferenza che trovano
scarsissima applicazione. TRINITÀ (ingl. Trinity; franc. Trinité; te- desco
Dreifaltigkeit). Uno dei dogmi fondamentali del cristianesimo, che afferma
l’unità della so- stanza divina nella T. delle persone. La formula del dogma fu
fissata dal Concilio di Nicea nel 325; e nella sua formulazione ebbe gran parte
l’opera del vescovo Atanasio e la polemica contro la dottrina di Ario che
tendeva ad accentuare la subordinazione del Figlio rispetto al Padre e pra-
ticamente ignorava la terza persona della Trinità. TUTTO L'illustrazione
classica di questo dogma [come di quello dell’incarnazione (v.)] fu data da S.
Tommaso mediante il concetto della relazione. La relazione da un lato
costituisce le persone divine nella loro distinzione; dall’altro si identifica
con la stessa unica essenza divina. Le persone divine, infatti, sono costituite
dalle loro relazioni di origine: il Padre dalla paternità, cioè dalla relazione
con il Figlio; il Figlio dalla filiazione o generazione, cioè dal rapporto con
il Padre; lo Spirito dal- l’amore cioè dal rapporto reciproco di Padre e
Figlio. Ora queste relazioni in Dio non sono ac- cidentali (nulla c’è di
accidentale in Dio) ma reali; sussistono rea/mente nella sostanza divina. Pro-
prio la sostanza divina dunque, nella sua unità, implicando le relazioni,
implica la diversità delle persone (S. 7h., I, q. 27-32 e spec. q. 29, a. 4).
Questa interpretazione basta, secondo S. Tommaso a mostrare che « ciò che la
fede rivela non è impos- sibile ». Dal punto di vista logico essa implica una
dottrina sulla natura delle relazioni che è stori- camente importante (v.
RELAZIONE). Tuttavia nell’ultima età della scolastica il dogma della T. o fu
dichiarato una « verità pratica », come fece Duns Scoto (Op. Ox., Prol. q. 4,
n. 31), o veniva dichiarata al di là di ogni possibilità di in- tendimento,
come fece Ockham (/n Sent., I, d. 30, q. 1B). Il dogma della T. è stato
accettato anche dalle chiese protestanti. Fa eccezione la tendenza rap- presentata
dal socinianesimo (v.) che riprese le dottrine di tipo ariano che circolavano
nei primi secoli del cristianesimo. Tali dottrine sono state riprese dai
cosiddetti unitari che costituirono un movimento religioso diffuso soprattutto
in Inghil- terra e in America a partire dalla seconda metà del sec. xVII (v.
UNITARISMO). TRINITARISMO (ingl. 7rinitarianism; fran- cese 7rinité). La
dottrina ufficiale della Chiesa cristiana sulla natura di Dio come un'unica so-
stanza in tre persone uguali e distinte (v. TRI- NITÀ). TRITEISMO (ingl.
Tritheism; franc. Trithéi- sme; ted. Tritheismus). Con questo termine si suole
indicare l'eresia trinitaria che consiste nel- l'ammettere tre sostanze divine
relativamente indi- pendenti l’una dall'altra. Quest’eresia fu sostenuta nel
sec. v da Giovanni Filopono; e nel sec. x1 da Roscellino il quale, secondo una
testimonianza di S. Anselmo, affermava che « Le tre persone della trinità sono
tre realtà come tre angeli e tre anime, sebbene siano identiche assolutamente
per volontà e potenza» (De fide trinitatis, 3). Al T. inclinava anche Gilberto
de la Porrée che chiamava deità l’unica essenza divina, dalla quale
parteciperebbero le tre persone diverse; e probabilmente sulle sue 889 orme
inclinava al T. Gioacchino Da Fiore (sec. x11). La dottrina è stata
costantemente condannata dalla Chiesa. TRIVIO. V. CULTURA, 1]. TROPI (gr.
tpéro; lat. Tropes; franc. Tropes; ted. Tropen). Così si chiamarono e tuttora
si chia- mano i modi o le vie indicate dagli scettici per arrivare alla sospensione
dell’assenso. Tali T. con- sistono nell’enunciazione delle situazioni dalle
quali risultano contrasti di opinioni o addirittura contraddizioni. Enesidemo
di Cnosso ne enumerava dieci, che sono i seguenti: 1° la differenza fra gli
animali, che stabilisce una differenza fra le loro rappresentazioni; 2° la
differenza fra gli vomini, per lo stesso motivo; 3° la differenza fra le sen-
sazioni; 4° la differenza fra le circostanze, che influiscono anch'esse sulla
diversità delle opinioni; 5° la differenza delle posizioni e degli intervalli;
6° la differenza delle mescolanze; 7° la differenza fra gli oggetti semplici e
gli oggetti composti; 8° la differenza fra le relazioni, giacchè le opinioni
cam-biano a seconda delle relazioni in cui le cose en- trano col soggetto
giudicante; 9° la differenza fra la frequenza o la rarità degli incontri tra il
soggetto giudicante e le cose; 10° la differenza dell’educazione, dei costumi,
delle leggi, ecc. (/p. Pirr., I, 36-163). A sua volta Agrippa aggiungeva altri
cinque tropi, come obiezioni contro la raggiungibilità della verità: 1° la
discordanza delle opinioni; 2° il processo all'infinito nel quale si cade
quando si vuole addurre una prova, giacchè questa prova ha bisogno di un’altra
prova e questa di un’altra e così via; 3° la relazione tra il soggetto e
l'oggetto che fa variare l’apparenza dell’oggetto stesso; 4° l’ipotesi cioè il
ricorso ad una assunzione priva di dimostrazione quindi insostenibile; 5° il
diallele o circolo vizioso quando si assume come principio di prova proprio ciò
che si deve provare (SESTO EMPIRICO, /p. Pirr., I, 164-69). Infine Sesto
Empirico enuncia altri due tropi, che sono argomenti i quali tendono a
dimostrare che non si può comprendere una cosa nè in base a se stessa nè in
base a un'altra cosa (/p. Pirr., I, 178-79). TRUISMO (ingl. Truism; franc.
Truisme). Una verità evidente ma ovvia quindi poco importante o poco utile. Il
termine e la nozione sono propri della lingua inglese. TUTTI. V. Ogni. TUTTO
(gr. rò nav; lat. Torum; ingl. Whole; franc. Tout; ted. AIN). Un qualsiasi
insieme di parti: cioè un insieme di parti in quanto è indipen- dente
dall’ordine o dalla disposizione delle parti stesse. In questo, il T. si può
distinguere dalla totalità che implica un ordine delle parti che non può essere
modificato senza modificare la totalità stessa (v. MonDO; TOTALITÀ; UNIVERSO).
890 Sulla base delle determinazioni aristoteliche (Mer., V, |[26, 1023 b 25),
la logica medievale distingueva: 1° il T. universale o essenziale, che è quello
ie cui parti costituiscono la sostanza di esso: ad es., «corpo vivente +; 2° il
T. integrale che è quello le cui parti sono quantità: quantità simili come in
«acqua»? o quantità dissimili come in «albero +; 3° il T. nella quantità, che è
l’universale preso universalmente come «ogni uomo» o «nessun uomo»; 4° il T.
nel modo che è l’universale preso senza determina- zione, come «l’uomo +; 5° il
T. nel luogo che è una determinazione comprendente avverbialmente il luogo come
« dovunque » o «in nessun luogo +; 6° il T. nel tempo che è un’espressione che
com- prende avverbialmente la totalità del tempo come «sempre» e « mai» (Pietro
Ispano, Summ. Logi- cales, 5, 14-23). Nizolio riduceva a due queste specie, con
l’argomento che due soltanto si tro- vano in natura e cioè il T. continuo che è
una sin- TUZIORISMO gola cosa e il T. discreto che è un complesso di cose
singole (De veris principiis, I, 10); al che Leibniz aggiungeva il T.
disgiuntivo, per es., « l’ani- male è o uomo o bruto » (Nota al passo citato di
Nizolio). Altre distinzioni si trovano registrate da Hamilton: il T. per sè in
cui le parti sono connesse necessariamente come il corpo e l’anima sono
connesse nell’uomo e il T. per accidens in cui le parti sono connesse
contingentemente. Il T. per sè può essere a sua volta: un T. /ogico come un
uni- versale, un T. metafisico o reale; un T. fisico o sostanziale; un T.
matematico, quantitativo o in- tegrale e un T. collettivo o di aggregazione
(Lectures on Logic, 2> ediz., I, pag. 202 sgg.). Nella logica moderna T. è
un operatore e pre- cisamente il quantificatore universale simboleggiato con la
notazione «(x)» (v. OPERATORE). Per la differenza tra 7. e ogni, v.
quest’ultimo termine. TUZIORISMO. V. ProBABILISMO. ÙU U. Nella logica
tradizionale, simbolo della propo- sizione modale che consiste nella negazione
del modo e nella negazione della proposizione: ad es., «non è possibile che non
p» (cfr. ARNAULD, Log., II, 8) (v. PURPUREA). UBI. Con questo avverbio latino
(dove) Duns Scoto indicò la determinazione qualitativa che il corpo in movimento
acquista a ogni istante del suo movimento. L’U. non è il luogo (v.) perchè il
luogo di un corpo non è un attributo di esso ma risiede nei corpi che lo
attorniano; è piuttosto simile al calore che è acquisito dal corpo che si
riscalda (Quod!., q.11, a. 1). La nozione fu criti- cata da Pietro Aureolo (/n
Senr., I, d. 17, a. 4) da Ockham (/n Sent., II, q. 9 c) e da Gregorio da Rimini
(Zn Sent., II, d. 6, qg. 1, a. 2) che invece ridussero il movimento al corpo
che si muove. Essa è ricordata ancora, con disprezzo, da Locke (Saggio, II, 23,
21). UBICAZIONE. V. Luoco. UBIQUITÀ (lat. Ubiquitas; ingl. Ubiquity; franc.
Ubiquité; ted. Allgegenwart). Quel modo d'essere nello spazio che gli
Scolastici del sec. x1v chiamavano definitivo (definitivus) e che consiste nell’esser
tutto in tutto lo spazio e tutto in qual- siasi parte dello spazio. Questo modo
d’essere veniva distinto da quello detto circoscrittivo (cir- cumscriptivus)
che consiste nell’essere tutto in tutto lo spazio (occupato) e parte in
ciascuna parte di esso (v., per questa distinzione, OCKHAM, /n Sent., IV, q.4;
Quodl., VII, q. 19; De Corp. Christi, 6). Il concetto dell’esistenza spaziale
definitiva ser- viva ad intendere la presenza del corpo di Cristo nel pane e
l’onnipresenza di Dio nel mondo. Per quest’ultima, Leibniz (che ricorda i due
primi modi che chiama wubietés) parla di una ubieré reple- tiva (Nouv. Ess.,
II, 23, 21). UCRONIA (franc. Uchkronie). È il titolo di un romanzo di Carlo
Renouvier (Uchronie, l’utopie dans l’histoire, 1876) nel quale l’autore si
propone di ricostruire «la storia apocrifa dello sviluppo della civiltà
europea, quale avrebbe potuto essere e non è stata ». Lo scopo del romanzo è di
mostrare l’assenza della necessità nella storia (v. STORIA). UGUAGLIANZA. V.
EGUAGLIANZA. ULTIMO (gr. cò toyaroy; ingl. Ultimate; franc. Ultime; ted.
Letzt). Uno dei due estremi di una serie, precisamente quello cui la serie
mette capo. Poichè la stessa serie può essere considerata come facente capo per
certi scopi (o da un certo punto di vista) ad un certo estremo e per altri
scopi (o per altro punto di vista) all’altro estremo, la parola U. è spesso
ambivalente e le stesse cose sono dichiarate U. e prime. Così accade frequente-
mente nella terminologia aristotelica: in cui è detto U. il motore immobile
perchè è il primo nella serie dei movimenti (is., VIII, 2, 244 b 4); ma è detto
anche U. la specie che è più vicina all’individuo (Mer., III, 3, 998b 15).
Aristotele chiama inoltre U. un soggetto come l’acqua o come l’aria (/bid., V,
6, 1016a 23); ma chiama anche U. sostrato la sostanza (/bid., V, 8, 1017 b 24);
e considera il principio di contraddizione come « un’opinione U. » (/bid., IV,
3, 1005 b 33). Chiama pure U. il fine (/bid., V, 16, 1021 b 25). Tutti questi
usi, o usi assai simili a questi, sono rimasti nella tradizione filosofica. Nel
Medio Evo si chiamò «fine U.» la beatitudine, in quanto è il fine al di là del
quale non si può procedere (con- fronta S. Tommaso, S. 7h., II, 1, q.1, a. 4).
Oggi si parla di « problemi U. » o di «ragioni U.» nello stesso senso in cui si
potrebbe parlare di problemi primi o massimi e di ragioni prime: il che
dimostra ancora una volta che il termine appartiene piuttosto 892 alla retorica
del discorso filosofico e ha scarso valore concettuale (v. ESTREMO). ULTRAMONDANISMO.
V. TRADIZIONA- LISMO, 1. UMANESIMO (ingl. Humanism; franc. Huma- nisme; ted.
Humanismus). Il termine è usato per indicare due cose diverse e cioè: I) il
movimento letterario e filosofico che ebbe le sue origini in Italia nella
seconda metà del sec. x1v e dall’Italia si dif- fuse negli altri paesi
d'Europa, costituendo l'origine della cultura moderna; II) un qualsiasi
movimento filosofico che assuma a suo fondamento la natura umana o i limiti e
gli interessi dell’uomo. I Nel suo primo significato, che è quello storico,
l’U. è un aspetto fondamentale del Rina- scimento (v.): precisamente l’aspetto
per il quale il Rinascimento è il riconoscimento del valore dell’uomo nella sua
interezza e il tentativo di in- tenderlo nel suo mondo, che è quello della natura
e della storia. In questo senso l’U. si fa iniziare con l’opera di Francesco
Petrarca (1304-74). I principali umanisti italiani sono: Coluccio Sa- lutati
(1331-1406), Leonardo Bruni (1374-1444), Lorenzo Valla (1407-57), Giannozzo
Manetti (1396- 1459), Leonbattista Alberti (1404-72), Mario Ni- zolio
(1498-1576). Fra gli umanisti francesi: Carlo Bovillo (1470 o 75-1553), Pietro
Ramus (1515-72), Michele di Montaigne (1533-92), Pietro Charron (1541-1603),
Francesco Sanchez (1562-1632), Giusto Lipsio (1547-1606). Tra gli umanisti
spagnoli va ricordato Ludovico Vives (1492-1540) e tra quelli tedeschi Rodolfo
Agricola (1442-85). I capisaldi fondamentali dell’U. possono essere esposti
così: 1° Il riconoscimento della roralità dell’uomo come essere formato di
anima e di corpo e destinato a vivere nel mondo e a dominarlo. Il curriculum
medievale degli studi era fatto per un angelo o un’anima disincarnata. L'U.
rivendica per l’uomo il valore del piacere (Raimondi, Filelfo, Valla); afferma
l’importanza dello studio delle leggi, della medicina e dell’etica contro la
metafisica (Salutati, Bruni, Valla); nega la superiorità della vita con-
templativa su quella attiva (Valla). Si ferma lungamente a esaltare la dignità
e la libertà del- l’uomo, a riconoscere il suo posto centrale della natura e il
suo destino di dominatore della na- tura stessa (Manetti, Pico della Mirandola,
Ficino). 2° Il riconoscimento della storicità dell’uomo cioè dei legami
dell’uomo con il suo passato, legami che da un lato servono a connetterlo con
tale passato dall’altro a distinguerlo e a contrapporlo ad esso. Da questo
punto di vista, è parte fondamentale dell’U. l'esigenza filologica: che non è
solo il bi- sogno di scoprire i testi antichi e di ripristinarli nella forma
autentica, studiando e collazionando i codici, ma è anche il bisogno di
rintracciare in ULTRAMONDANISMO essi l’autentico significato di poesia o di
verità filosofica o religiosa che contengono. L’ammira- zione e lo studio
dell’antichità non erano mai venuti meno nel Medio Evo; ciò che costituisce il
proprio dell’U. è l’esigenza di scoprire il volto autentico dell’antichità,
liberandola dalle incro- stazioni che la tradizione medievale vi aveva accu-
mulato. 3° Il riconoscimento del valore umano delle lettere classiche. Questo è
l’aspetto da cui l’U. prende il suo nome. Già al tempo di Cicerone e Varrone la
parola humanitas significava l’educazione dell’uomo come tale che i Greci
chiamavano paideia; e si riconoscevano nelle «buone arti» le discipline che
formano l’uomo perchè sono proprie solo di lui e lo differenziano dagli altri
animali (AuLo GetLio, Nocf. atf., XIII, 17). Le buone arti, quelle che ancora
oggi si chiamano le discipline umanistiche, non avevano tuttavia per PU. valore
di fine ma di mezzo per la + forma- zione di una coscienza davvero umana,
aperta in ogni direzione, attraverso la consapevolezza storico-critica della
tradizione culturale » (GARIN, L’educazione umanistica in Italia, pag. 7) (vedi
CULTURA). 4° Il riconoscimento della naturalità del- l’uomo cioè del fatto che
l’uomo è un essere natu- rale per il quale la conoscenza della natura non è una
distrazione imperdonabile o un peccato ma un elemento indispensabile di vita e
di successo. Il rifiorire dell’aristotelismo, della magia e delle spe-
culazioni naturalistiche (ad opera di Telesio, Bruno e Campanella) costituisce
il preludio della scienza moderna. II) Il secondo significato della parola non
sempre ha strette connessioni con il primo. Si può dire che per esso l’U. è
ogni filosofia che faccia dell’uomo, secondo il vecchio detto di Pro- tagora,
«la misura delle cose». Proprio in questo senso, e in riferimento al detto di
Protagora, F. C. S. Schiller chiamò U. il suo pragmatismo (Studies in Humanism,
1902). Nello stesso senso, ma per respingerlo ha inteso l’U. Heidegger che ha
visto in esso quell’indirizzo della filosofia che fa dell’uomo la misura
dell’essere e subordina l’essere all'uomo invece di subordinare, come dovrebbe,
l’uomo all’essere e di vedere nell’uomo soltanto « il pastore dell’essere »
(Ho/zwege, 1950, pag. 101-02). Riferendosi ad un senso analogo, Sartre ha
accet- tato la qualifica di U. per il suo esistenzialismo (L’existentialisme
est un humanisme, 1949). Più in generale si può intendere per U. qual- siasi
indirizzo filosofico che tenga conto delle pos- sibilità e quindi dei limiti
dell’uomo e che proceda su questa base a un ridimensionamento dei pro- blemi
filosofici. UMILTÀ UMANITÀ (lat. Humanitas; ingl. Humanity; franc. Humanité;
ted. Humanitàt, Menschheit). Il termine ha i seguenti significati principali:
1° La forma compiuta o l’ideale o lo spirito dell’uomo. In tal senso gli
antichi adoperavano la parola humanitas, corrispondente al greco pai- deia,
dalla quale è venuto il nome e il concetto stesso di umanesimo (v.). In un
senso analogo Humboldt considerava come fine della storia «la realizzazione
dell’idea dell’U.» (Schriften, IV, pa- gina 55). 2° La sostanza o l'essenza
dell’uomo, nel significato aristotelico rimasto proprio della meta- fisica
classica. In tal senso S. Tommaso diceva: « U. significa i princìpi essenziali
della specie, tanto formali quanto materiali, a prescindere dai prin- cìpi
individuali. L’U. è infatti ciò per cui un uomo è tale; e un uomo è tale non
perchè ha i princìpi individuali ma perchè ha i princìpi essenziali della
specie » (Contra Gent., IV, 81). 3° Il genere umano cioè la specie umana come
entità biologica. In tal senso si parla, ad es., della storia o delle vicende
dell’U. su questa terra o del- l’evoluzione biologica dell’umanità. 4° La
sintesi ipostatizzata della storia o della tradizione dell’uomo, secondo il
concetto di Comte che intende per essa « l’insieme degli esseri passati, futuri
e presenti che concorrono liberamente a perfezionare l’ordine universale »
(Politique positive, IV, pag. 30). In tal senso I’U. costituisce, secondo
Comte, un Grande Essere, cioè una specie di divinità che non è altro che lo
stesso mondo storico ipo- statizzato. Comte volle istituire il culto di questo
grande essere (v. ESSERE, GRANDE). 5° La natura ragionevole dell’uomo, in quanto
dotata di dignità e quindi in quanto deve valere come fine a se stessa. Questo
è il significato che la parola assume nella seconda formula dell’impera- tivo
categorico di Kant: « Agisci in modo da trattare l’U. (Menschheit), tanto nella
tua persona come nella persona di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo
come mezzo » (Grundlegung der Me- taphysik der Sitten, ID. L’U. nella persona
degli uomini è l’oggetto proprio del rispetto (v.) che, secondo Kant, è l’unico
sentimento morale (Met. der Sitten, II, $ 11). 6° La disposizione alla
comprensione degli altri o alla simpatia verso di essi. In questo senso, il
termine è stato ottimamente definito da Kant: « U. (Humanitàt) significa da un
lato il sentimento universale della simpatia, dall'altro la facoltà di poter
comunicare intimamente e universalmente: due proprietà che insieme
costituiscono la socia- bilità propria dell’U. (Menschheit) per cui essa si
differenzia dall’isolamento animale » (Crif. del Giud., $ 60; cfr. Antr., $
88). 893 UMANITARISMO (ingl. Humanitarianism; franc. Humanitarisme; ted.
Humanitàt). V. FiLAN- TROPIA. UMILTÀ (gr. tarewoppootvn; lat. Humilitas; ingl.
Humility; franc. Humilité; ted. Demut). L'at- teggiamento di volontaria
abbiezione, tipico della religiosità medievale alla quale viene suggerito dalla
credenza nella natura miserabile e peccaminosa dell’uomo. In questo senso l’U.
viene illustrata ed esaltata da Bernardo di Chiaravalle: « L'U. è la virtù per
la quale l’uomo, con verissimo ricono- scimento di sè, tiene a vile se stesso »
(De gradibus humilitatis et superbiae, in P. L., 182°, col. 942). In questo
senso l’U. era sconosciuta al mondo antico. Lo stesso S. Paolo, che adoperò per
primo la parola, intese per essa l’assenza dello spirito di competizione e di
vanagloria (Philipp., ID e ne vide il modello in Cristo che si è abbassato, con
l'incarnazione, sino all'uomo (Ibid, II, 3-11). Allo stesso modo Sant'Agostino
parla dell’U. pre- valentemente a proposito della via humilitatis che è
l’incarnazione del Verbo per la redenzione degli uomini: e in tal senso
contrappone l’U. cristiana alla superbia dei Platonici che sapevano tante cose,
ma ignoravano l'incarnazione (Conf., VII, 9). S. Tommaso considerava l’U. come
quella parte della virtù «che tempera e frena l’animo affinchè non tenda senza
misura verso le cose più alte» e vedeva in esse il completamento della
magnanimità che «conferma l'animo contro la disperazione e lo spinge a
perseguire le cose grandi secondo la retta ragione» (S. 7h., II, 2, q. 161, a.
1). Ma è ovvio che in questo senso l’U. non è che la ma- gnanimità stessa nel
significato aristotelico (v. Ma- GNANIMITÀ) e non ha nulla a che fare con l’U.
nel senso di S. Bernardo. I filosofi hanno spesso polemizzato contro l’U. nel
significato medievale o hanno cercato di ricon- durla a un significato
compatibile con l’etica clas- sica. Spinoza negava che l’U. fosse una virtù e
la riteneva una emozione passiva in quanto essa nasce dal fatto che «l’uomo
contempla la propria impotenza ». Mentre, se pensa a tale impotenza nei confronti
di un essere più perfetto questo pen- siero favorisce la sua potenza d’azione
ed è perciò non U. ma virtù (Er., IV, 53). Kant distingue l’U. morale che è «il
sentimento della piccolezza del nostro valore in confronto con la legge »
dall’U. spuria che è «la pretesa di acquistare, mediante ia rinuncia a un
qualsiasi valore morale di sè, un valore morale nascosto ». La pretesa di
superare gli altri abbassando se stessi è un’ambizione opposta al dovere verso
gli altri; e servirsi di questo mezzo per ottenere il favore di altri (Dio o
uomo che sia) è ipocrisia e adulazione (Mer. der Sitten, II, $ 11). Hegel a sua
volta affermava che 1°U. » è la coscienza 894 di Dio e della sua essenza come
amore » (Philoso- phische Propàdeutik, $ 207; cfr. Philosophie der Reli- gion,
ed. Glockner, II, pag. 553). Mentre, dall’altro lato, la protesta di Nietzsche
che vede nell’U. sem- plicemente un aspetto della « morale degli schiavi » è
ovviamente diretta contro il tipico concetto me- dievale dell’U. (cfr. Werke,
VII, pag. 348 sgg.). UMORE (ingl. Mood; franc. Humeur; tedesco Stimmung). Uno
stato emotivo che non ha oggetto, o il cui oggetto è indeterminabile, e che si
distingue perciò dall'emozione vera e propria. Questa distin- zione è stata
proposta da W. Cerf (« U. ed emozioni nell’arte», in Rivista di Filosofia,
1954, pag. 363 sgg.) ed appare opportuna per individuare nella vasta gamma
degli stati emotivi quelli che vanno sotto il nome di umore. L’U. non ha
oggetto intenzionale nel senso che non esiste un U. di..., come esiste una
paura di..., o una gioia di..., ecc. Esso ha una causa o una ragione ma non si
riferisce a un parti- colare oggetto e non costituisce l’avvertimento del
valore biologico di una situazione. In tal senso, Cerf ha affermato che
nell’arte non ci sono emozioni ma soltanto umori. Sul significato esistenziale
degli U. aveva richia- mato l’attenzione Heidegger: « Che gli U. possano mutare
o dileguare significa solo che l’Esserci è già sempre in uno stato emotivo ».
L’U. fondamen- tale è la noia, «il peso dell’essere». Ma in ogni caso l’U. è
ciò che rende manifesto « come uno è e diviene » (Sein und Zeit, $ 29). UNICO
(lat. Unicus; ingl. Unique; francese Unique; ted. Einzig). 1. Ciò che non è la
specie di un genere, intendendosi per genere una deter- minazione che possa
essere partecipata da più specie. In questo senso Dio solo è U. (cfr. S. Tom-
Maso, S. Th., I, q. 3, a. $). 2. Ciò che è solo nella sua specie, cioè il solo
in- dividuo appartenente a una specie determinata. In questo senso, nella
metafisica tradizionale possono dirsi U. gli angeli dei quali è impossibile che
ve ne siano due della stessa specie in quanto sono privi della materia che
distingue gli appartenenti di una stessa specie (cfr. S. Th., I, q. 50, a. 4).
In questo senso Stirner intendeva l’unicità: «Io, l’U., sono l’uomo. La
questione ‘che cosa è l’uomo?’ si trasforma nella questione ‘chi è l’uomo?’.
Nel che cosa si cercava il concetto; nel chi la questione risolta perchè la
risposta è data da quello stesso che interroga » (Der Einzige und sein
Eigentum, 1845; trad. ital., pag. 270). Il che cosa è il chi, la specie è
l’individuo (vedi ANARCHISMO). 3. Ciò che non è sostituibile nel suo valore o
nella sua funzione. In tal senso si dice U. una persona o un’opera d’arte; e si
dice U., in mate- matica, il valore di una funzione. UMORE 4. Ciò che non si
ripete o non si ripete identica- mente. In tal senso si dice U. l’evento
storico come tale (v. STORIA). 5. Ciò che può essere effettuato in un solo
modo; e in tal senso diciamo U. un’operazione, per es., la scomposizione di un
numero in fattori primi. UNIFICAZIONE DELLE SCIENZE. Vedi ENCICLOPEDIA.
UNIFORME (gr. spoedic; lat. Uniformis; in- glese Uniform; franc. Uniforme; ted.
Einformig). I. Ciò che appartiene alla stessa specie o alla stessa essenza o
sostanza. In questo senso il termine ve- niva adoperato da Aristotele (Mer., V,
2, 1013b 31; I, 9, 991 b 23; VII, 7, 1032a 24; ecc.) e inteso da S. Tommaso (/n
Sent., II, d. 48, q. 1, a. 1). In tal senso si chiamano U. gli oggetti che
hanno lo stesso genere o la stessa specie o in ge- nerale la stessa natura. 2.
Ciò che rimane costante o immutabile o al- meno relativamente costante e
immutabile. In tal senso si parla della uniformità delle leggi di natura (v.
INDUZIONE). 3. Ciò che presenta analogie o somiglianze par- ziali, messe in
luce dall’astrazione prescissiva, ed è suscettibile di previsione. In questo
senso si parla dell’uniformità della natura o dell’uniformità della storia o
del mondo umano e sociale. Peirce ha così illustrato l’uniformità in questo
senso: « Se scegliamo molti oggetti col principio che essi deb- bano
appartenere ad una certa classe e troviamo che hanno tutti un carattere comune,
si troverà assai spesso che l’intera classe avrà lo stesso ca- rattere. O se
scegliamo molti caratteri di una cosa a caso e poi troviamo una cosa che ha
tutti questi caratteri, generalmente troviamo che la seconda cosa è assai
simile alla prima » (Coll. Pap., 7.131). Come osserva lo stesso Peirce,
uniformità in questo senso si potrebbe trovare anche in un mondo in cui tutto
si verificasse a caso (/bid., 7.136). E sono queste le uniformità di cui si
avvalgono le disci- pline scientifiche sia quelle naturali sia quelle so-
ciali; come si avvale di esse il senso comune. Il dizionario di un linguaggio
qualsiasi non è che la espressione di uniformità di questa sorta. La ri-
petibilità è il carattere fondamentale dell’uniformità in questo senso. 4. Ciò
che è conforme a un ordine, cioè a una regola o una legge qualsiasi. In tal
senso si dicono U. i fenomeni naturali che obbediscono a leggi. Ma in realtà
questa specie di uniformità non è che la precedente perchè una legge
scientifica non è che un’uniformità nel senso 3. Questo fu un punto messo in
luce da J. Stuart Mill (System of Logic, III, IV, 1) (v. REGOLARITÀ). UNIONE
(ingl. Union; franc. Union; ted. Ver- bindung). Qualsiasi forma di relazione
che consenta UNITÀ di considerare (a qualsiasi titolo) l'insieme dei ter- mini
come un tutto. Questa è la definizione che della parola dette Leibniz (De arte
combinatoria, 1666, Op., ed. Erdmann, pag. 8). Un tutto non è necessariamente
un’unità o una totalità (vedi TUTTO) e può avere gradi diversissimi di coesione
tra le sue parti. Sicchè anche i gradi dell’U. pos- sono essere diversissimi.
Kant divise ogni U. in composizione (compositio) e in connessione (nexus). La
prima è una sintesi mon necessaria cioè tale che non connette necessariamente i
suoi termini. Kant ritiene che sia propria delle matematiche e la divide in
aggregazione, che riguarda le quantità estensive e coalizione che riguarda le
quantità in- tensive. La connessione invece è una sintesi ne- cessaria, per
es., quella dell’accidente con la so- stanza e dell’effetto con la causa. Essa
può sussistere anche fra termini eterogenei e può essere o fisica, che è la
connessione dei fenomeni tra di loro, o metafisica che è l’U. dei fenomeni
nella facoltà conoscitiva a priori (Crit. R. Pura, Analitica, libro II, cap. 2,
sez. 3, nota [B 202)). Questa diversità di significato si riscontra nel- l’uso
corrente del termine come in quello filosofico e teologico. La teologia parla
di una «U. ipo- statica » cioè sostanziale o necessaria tra la natura umana e
la natura divina nella persona del Cristo (v. INCARNAZIONE); ma parla anche
dell’U. mistica dell'anima con Dio, che non è nè sostanziale nè necessaria. La
filosofia parla dell’U. tra materia e forma e di sostanza e accidente, che sono
necessarie; e parla pure dell’U. dell’anima e del corpo che non è necessaria
(cfr. LEIBNIZ, Op., ed. Erdmann, pag. 127). Nel linguaggio comune sono passati
al- cuni di questi usi; e in più si parla, ad es., di «U. carnale »; o di U.
nel senso di concordia o di solidarietà; o di associazione per la difesa di
interessi comuni (U. operaia, ecc.). UNITÀ (gr. uovéc; lat. Unitas; ingl.
Unity; franc. Unité; ted. Einheit). 1. In senso proprio, ciò che è
mecessariamente uno, cioè indivisibile o nel senso che è privo di parti o nel
senso che le sue parti sono inseparabili dalla totalità e insepa- rabili l’una
dall’altra. Questo fu il concetto elabo- rato da Aristotele, che distinse ciò
che è uno dî per sè o essenzialmente da ciò che è uno per acci- dente (Met., V,
6, 1015 b 16); definì l’U. (uovéc) come qualcosa di indivisibile o
assolutamente o quantitativamente (/bid., 1016 b 24) e distinse quattro specie
fondamentali di U.: 4) l’U. di una totalità continua qual'è, per es., un
organismo; b) l’U. di una forma o sostanza; c) l’U. numerica; d) l’U.
definitoria cioè l’U. di cose che hanno la stessa definizione (/bid., X, 1,
1052a 15-1052b 15; cfr. V, 6, 1016a 1-1016a 35). Queste deter- minazioni
aristoteliche non sono perfettamente coe- 895 renti perchè, mentre definiscono
l’U. come indi- visibilità, includono tra le forme dell’U. la continuità, che
Aristotele stesso definisce come la divisibilità in parti a loro volta
divisibili (v. ConTINUO). Il loro significato è tuttavia abbastanza chiaro.
L’U., cioè l’uno per sè, è da un lato l’identità della forma o sostanza con se
stessa, dall’altro l’identità degli og- getti che hanno la stessa definizione
(identità degli indiscernibili), dall'altro ancora è l’elemento o il principio
del numero. Per ciò che riguarda il numero, questo concetto dell’U. è durato a
lungo (v. NuMERO). Ma delle altre due forme di U. distinte da Aristotele, è so-
prattutto l’U. formale o sostanziale quella che è stata di regola assunta come
concetto o ideale dell’U. nella tradizione filosofica. I neoplatonici
illustrarono ed esaltarono l’U. come condizione necessaria di ogni essere,
trascurando la distinzione aristotelica tra l’U. che è necessaria e l’uno che
non lo è. L’U. è sempre necessaria secondo Plotino: «Separati dall'uno, gli
esseri non ci sono più. L'esercito, il coro, il gregge non esisterebbero se non
fossero un esercito, un coro, un gregge. La casa e la nave non sono se non
hanno unità; giacchè la casa è una casa e la nave è una nave e se per- dessero
l’unità non sarebbero nè casa nè nave. Le grandezze continue neanch’esse ci
sarebbero se non avessero l’unità. Si divida una grandezza: perdendo l’U., il
suo essere si trasforma. Lo stesso accade per i corpi delle piante e degli
animali che, se per- dono l’U. e si dividono in molte parti, perdono l'essere
che possedevano e non sono più quel che erano; si mutano in altri esseri che,
in quanto sono, sono ciascuno un essere» (Enn., VI, 9, 1). Queste
considerazioni sono rimaste decisive per la storia ulteriore del concetto di
unità. Ripetute da Proclo (/nst. Theol.) e da Dionigi l’Areo- pagita (De div.
nom., XIII, C-D) passarono nella filosofia medievale (cfr. S. Tommaso, S. Th.,
1, q. 11, a. 1); e furono riprese da Nicolò da Cusa (De doct. ignor., I, 5) che
identificò l’assoluta U. col massimo assoluto ed entrambe le cose con Dio ed
ispirò le corrispondenti speculazioni di Bruno sull’argomento. Nell’U. consiste
la sostanza delle cose (De /a causa, principio et uno, V, in Op., ed. Guzzo e
Amerio, pag. 409). Locke presenta la prima istanza polemica contro il concetto
dell’U. sostanziale. Egli sostiene che «l’U. di sostanza» non serve a fare
intendere le varie specie di identità, per es., l’identità della so- stanza
dell’uomo, della persona, ecc., e che tali identità devono essere chiarite o
spiegate indipen- dentemente l’una dall’altra (Saggio, II, 27, 8). Ma Leibniz
già ritornava alla difesa dell’identità so- stanziale «l’unica vera e reale U.»
(Nouv. Ess., II, 27, 4). E Wolff ridefiniva nel senso tradizionale 896 l’U.,
intendendo per essa « l’inseparabilità di quelle cose mediante le quali un ente
è determinato» (Ont., $ 328); la determinazione dell’ente essendo nient'altro,
secondo Wolff, che la ragione o la forma dell’ente (/bid., $ 116). Il ruolo
determinante che Kant affida alla sintesi (v.) in tutti i gradi e le forme
della conoscenza e in generale dell'attività umana ubbidisce allo stesso favore
accordato alla nozione di unità. Questa è in generale per Kant sinonimo di
sintesi o di connessione necessaria. Il suo carattere proprio è, in altri
termini, l’insepa- rabilità di ciò che viene unificato o sintetizzato. A
fondamento di tutti i gradi o le forme di U., che costituiscono le forme e i
gradi del conoscere, Kant pone «l'U. oggettiva della percezione» la quale si
manifesta con l’uso della copula é in senso oggettivo. Questa copula designa
secondo Kant «I’U. necessaria » del soggetto con il predicato e la relazione di
questa U. necessaria con l’apper- cezione originaria. Questo non vuol dire che
le rappresentazioni legate insieme della copula sono « necessariamente
subordinate l’una all’altra +; ma vuol dire che esse sono « subordinate l’una
all’altra mediante l’U. necessaria dell’appercezione» (Cri- tica R. Pura, $
19). Come si vede, l’uso kantiano del concetto di U. è, rigorosamente, quello
tradi- zionale: Kant trasferisce all'io penso o « U. neces- saria
dell’appercezione » il fondamento dell’U. ne- cessaria degli oggetti; ma la
nozione stessa « U. necessaria » è quella aristotelica. Nè da questa no- zione
si distacca il concetto che ebbe Hegel dell’U.: di cui lamentava che essa
potesse intendersi come « riflessione soggettiva » e riteneva invece che do-
vesse intendersi nel senso di « inseparazione e in- separabilità ». Ma questo è
appunto il concetto aristotelico dell’U. (Wissenschaft der Logik, I, libro I,
sez. I, cap. I, n. 2). L’uso del termine che Hegel fece lungo tutta la sua
opera per indicare il terzo momento della dialettica, quello dell’U. o identità
degli opposti, è perfettamente conforme a questo concetto. Nell’uso filosofico
corrente, il termine non sempre conserva il suo significato proprio di
indivisibilità o inseparabilità cioè di connessione necessaria. Tut- tavia
questo significato è presente quando si parla dell'U. di Dio o del mondo o
della natura o della storia; e perfino quando si parla di U. ideali o
normative, come « l’U. dell’umanità » o «l’U. della famiglia », ecc. 2. In
correlazione con il significato precedente, i filosofi hanno talora chiamato U.
gli elementi costitutivi o i princìpi generali dell’essere. Sap- piamo che i
Pitagorici ritenevano in questo senso che «I°U. è il principio di tutte le cose
» (Dioc. L., VIII, 25; StoBEO, Ec/., I, 2, 58). Nello stesso senso il neoplatonismo
parlava di Monadi o di Enadi UNITARISMO (ProcLo, /nst. Theol., 64) e Leibniz
chiamò Mo- nadi (v.) le sostanze spirituali che egli considerò come elementi
del mondo. Il termine, in questi usi, conserva il significato di sostanza
indivisibile. 3. In senso generico ed improprio lo stesso che uno (v.).
UNITARISMO (ingl. Unitarianism; franc. Uni- tarisme; ted. Unitarismus,
Unitismus). 1. L'indirizzo religioso che insiste sull’unità di Dio, in
opposizione alla formula trinitaria del cristianesimo. Per quanto si riconnetta
a vecchie eresie religiose, 1’U. moderno ha trovato la sua prima forma nel
socinianesimo (v.) e in seguito ha costituito l’indirizzo religioso più
tollerante e liberale del mondo moderno. Questo indirizzo si è quasi
esclusivamente sviluppato in Inghilterra e in America. In Inghilterra fu costi-
tuita nel 1825 l'Associazione Unitarista dalla quale deriva il nome che
l’indirizzo ha assunto, anche fuori dell’associazione stessa o in numerose
altre associazioni in Inghilterra e in America. Confronta W. E. CHANNING, Works, 1886; Unitarian
Christ- ianity and Other Essays, ed. I. H. Bartlett, 1957; A. A. BowMAan, The
Absurdity of Christianity and Other Essays, ed. C. W. Hendel, 1958. 2. Specialmente in tedesco il
termine equivale a panteîsmo (v.). Dice Fichte: « Se si dovesse doman- dare il
carattere della dottrina della scienza ri- spetto all’unitismo (?v xal màv) e
al dualismo, la risposta è: essa è unitismo nel suo aspetto ideale giacchè sa
che a fondamento di tutto il sapere sta l’eterno Uno che è al di là di ogni
sapere; ed è dualismo nell’aspetto reale, in quanto pone il sa- pere come
reale» (Wissenschaftslehre, 1801, $ 32, in Werke, II, pag. 89). UNIVERSALE (gr. xa06Xo0u; lat.
Universalis; ingl. Universal; franc. Universel; ted. Allgemein). Il termine ha avuto due significati principali: 1°
uno oggettivo, per il quale esso indica una deter- minazione qualsiasi che può
appartenere o può essere attribuita a più cose; 2° l’altro soggettivo, per il
quale indica la possibilità di un giudizio (sia che concerna il vero e il
falso, sia che con- cerna il bello o il brutto, il bene e il male, ecc.) di
valore per tutti gli esseri ragionevoli. 1° Il primo significato è quello
classico, per il quale Aristotele dice che Socrate è stato lo sco- pritore dell’universale
(Mer., XIII, 4, 1078 b 28). In questo senso, l’U. può essere considerato nel
duplice aspetto ontologico e logico. Ontologica- mente l’U. è la forma o l’idea
o l’essenza che può essere partecipata da più cose e che dà alle cose stesse la
loro natura o i loro caratteri comuni. L’U. ontologico è la forma o specie di
Platone (cfr., ad es., Parm., 132 a) o la forma o la sostanza di Aristotele: il
quale pertanto affermava che la scienza c’è solo dell’U. (De an., II, 5, 417 b
23). UNIVERSALE Logicamente l’U. è secondo Aristotele « ciò che può essere per
sua natura predicato di più cose? (De Int., 7, 17a 39): una definizione la
quale è stata pressochè universalmente accettata nella storia della filosofia.
Fu all’U. in questo senso che i logici me- dievali riconobbero il carattere di
segno (v.) e la funzione della supposizione (v.). Era questo l’U. che M.
Nizolio interpretava come un tutto collettivo o multitudo rerum singularium,
sicchè la proposizione «l’uomo è animale» avrebbe significato «tutti gli uomini
sono animali » (De veris principiis, I, 6); al che Leibniz opponeva che esso è
invece un tutto distributivo, sicchè quella proposizione significa che questo o
quell’uomo, quale che sia, è animale (Op., ed. Erdmann, pag. 70). Leibniz
riproduceva così sostanzialmente su questo punto la dottrina nominalistica
della EDO dell'U. (OcKHAM, Summa Log., I, 70). È chiaro che I’U. in questo
senso non è che un altro nome per indicare il con- cetto, il segno o il
significato: sicchè i problemi ad esso connessi devono essere considerati sotto
queste voci. Dall'altro lato, lo status ontologico dell’U. dava luogo alla
cosiddetta disputa sugli U. che ha occu- pato buona parte della filosofia
medievale e in qualche modo ha continuato e continua nella filo- sofia moderna
(v. UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI). Come si è detto, l’U. nel significato
ontologico è la forma o la sostanza delle cose: un concetto che non è soltanto
aristotelico e medievale. Anche Locke osservava che il fondamento della
universa- lità delle proposizioni può essere soltanto la so- stanza, con la
connessione necessaria, che essa im- plica, tra le sue determinazioni, e che
dove manca la conoscenza della sostanza l’universalità non è rigorosa (Saggio,
IV, 6, 7). Analogamente Kant osservava che l’universalità empirica non è mai
rigorosa o vera e che l’universalità autentica bi- sogna che sia fondata sulle
forme 4 priori della conoscenza: cioè su quelle forme che entrano a costituire
le cose stesse come fenomeni (Crir. R. Pura, Intr., II). Hegel a sua volta insisteva
sul- l’unità dell’U. e del particolare, che è l’U. con- creto o Idea o Concetto
reale. AW’U. astratto, che è contrapposto al particolare e all’individuo, egli
pertanto contrapponeva l’U. concreto che è l’es- senza o la natura positiva del
particolare (Wissen- schaft der Logik, II, libro III, sez. I, cap. I, A; trad.
ital., III, pag. 42 sgg.). E scorgeva il compito della filosofia per l’appunto
nella conoscenza dell’U. concreto: « Compito della filosofia è di dimostrare,
contro l’intelletto, che il vero, l’Idea non consiste in vuote generalità ma in
un U. che in se stesso è il particolare, il determinato » (Geschichte der
Philo- sophie, ed. Glockner, I, pag. 58). Nello stesso senso, Croce scriveva: «
Se il concetto è U. trascendente 87 897 rispetto alla singola rappresentazione,
presa nella sua astratta singolarità, è d’altra parte immanente in tutte le
rappresentazioni e perciò anche nella singola » e pertanto identificava il
concetto stesso con la ragione o Idea (Logica, 1920, pag. 28). La «concretezza
dell’U.» di cui parlano gli scrittori idealisti non è che lo sfarus ontologico
che all’U. era stato riconosciuto dalla metafisica tradizionale. AIl’U.
ontologico si ricollegano pure alcuni altri usi del termine universale. Così,
la «storia U.» è la storia che ha per oggetto la forma o l'ordine complessivo
del mondo umano (v. StoRIA). La «gravitazione U. + è una forza o un principio
che regge la totalità del mondo e così via. In usi simili del termine il suo
significato oggettivo è unito con la sua portata ontologica. 2° Nel secondo
significato, U. è ciò che è o dev'essere valido per tutti. Il concetto dell’U.
in questo senso è nato dal dominio dell’analisi dei sentimenti e specialmente
dei sentimenti estetici (v. Gusto). Già Hume si era proposto di cercare una
regola del gusto, cioè una regola « mediante la quale possano venire accordati
i vari sentimenti degli uomini» (Essays, I, pag. 268 sgg.). Ma è stato Kant
colui che, oltre ad adoperare questo tipo di universalità nel dominio
dell'estetica, l’ha esteso al dominio morale e lo ha chiarito nei suoi
caratteri specifici, definendolo come validità co- mune o universalità
soggettiva. Per ciò che ri- guarda la sfera estetica, Kant vedeva nel giudizio
di gusto semplicemente «la necessità oggettiva dell'accordo del sentimento di
ognuno con il nostro stesso sentimento + e in tal senso definiva il bello come
« un piacere necessario » cioè un pia- cere che tutti devono provare allo
stesso modo (Crit. del Giud., $ 22). Nel dominio dell'etica, Kant affermava che
una legge pratica è tale solo se «è valida per la volontà di ogni essere razio-
nale » (Crit. R. Prat., $ 1); e faceva dell’univer- salità soggettiva, cioè
della possibilità di una massima di valere come legge per tutti gli esseri
razionali, il criterio per giudicare se una massima è o non è una legge morale
(Grundlegung der Mera- physik der Sitten, II). Ma egli si soffermava anche ad
illustrare la differenza fra questa universalità sog- gettiva e l’universalità
oggettiva. Diceva: «Ogni giudizio oggettivamente U. è anche sempre sog-
gettivo, vale a dire che, quando il giudizio vale per tutto ciò che è compreso
in un dato concetto, vale anche per ognuno che si rappresenti un og- getto
secondo quel concetto». Tuttavia, non è sempre vero l’inverso, cioè non ogni giudizio
che ha universalità soggettiva o validità comune è anche oggettivamente U.; e
questo è il caso del- l’universalità estetica che possiede l’universalità
soggettiva ma non quella oggettiva (Crir. de/ Giud., 898 $ 8). Da Kant in poi
l’universalità soggettiva è di- ventata un luogo comune della filosofia; come è
di- ventato un luogo comune la nozione di validità (v.). Forse più esattamente
questa specie di U. viene oggi indicato con il termine di intersoggettivo (v.).
Il riferimento all’intersoggettività costituisce il si- gnificato del termine
in molte espressioni correnti come « lingua U.» o «educazione U.» o « consenso
U.», «amore U.», ecc. In altre espressioni, il termine può avere sia il
significato soggettivo sia il signifi- cato oggettivo logico: per es., «genio
U.» che si può intendere come il genio che tutti debbono riconoscere o
riconoscono come tale; o come il genio che è tale nei confronti di qualsiasi
ramo dello scibile. UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI (inglese Controversy about
Universals; franc. Querelle des universaux; ted. Universalienstreit). S’intende
con questo termine la disputa sullo status ontologico degli U. (generi e
specie) che s’iniziò nella Scola- stica del sec. xI, rimanendo caratteristica
di tutta la filosofia medievale, e continuando poi, con forme appena mutate,
nella filosofia moderna. La disputa fu impostata secondo un passo della /sa-
goge (Introduzione) di Porfirio alle Categorie di Aristotele e i relativi
commenti di Boezio. Il passo di Porfirio è il seguente: « Intorno ai generi e
alle specie non dirò qui se essi sussistano oppure siano posti soltanto
nell’intelletto, nè, nel caso che sus- sistano, se siano corporei o incorporei,
se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse ed esprimenti i
loro caratteri comuni » (Zsag., 1). Delle alternative indicate da Porfirio in
questo passo, una sola non trova riscontro nella storia della di- sputa: quella
secondo la quale gli U. sarebbero realtà corporee. In compenso, un'alternativa
che Porfirio non aveva previsto si è verificata storica- mente, almeno a quanto
dicono: cioè che l’U. non esiste neppure nell’intelletto e sia soltanto un
nome, un flatus vocis. È questa la soluzione at- tribuita a Roscellino da S.
Anselmo (De fide Trini- tatis, 2) e da Giovanni di Salisbury (Metal., II, 13;
Policrat., VII, 12). Le soluzioni che nella Scolastica e dopo la Scolastica
sono state date di questi problemi sono molte numerose; e spesso si di-
stinguono l’una dall’altra solo per un capello. Realismo (v.) e nominalismo
(v.) sono le soluzioni fondamentali; ma già Ockham enumerava nella con-
futazione sistematica che volle dare del realismo, sei forme fondamentali di
esso (/n Sent., I, d. 2, q. 4-8; Quodl., V, q. 10-14; Summa Log., I, 15-17;
cfr. ABBAGNANO, G. di Ockham, II, $ 8-11). Ma la cosa fondamentale per
intendere sia l’origine storica della disputa sia la portata per- manente che
essa può avere, è che le sue due soluzioni fondamentali, realismo e
nominalismo, UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI corrispondono ai due indirizzi
fondamentali della logica antica e medievale, quello platonico-ari- stotelico e
quello stoico. Questi due indirizzi cor- rispondono a quelle che nello stesso
Medio Evo furono chiamate la logica antica e la logica moderna e più tardi
formalismo e terminismo (v. TERMINI- smo). Il primo di questi indirizzi
insisteva sulle dottrine logiche tradizionali, il secondo sulla dot- trina
della supposizione (v.) e sui ragionamenti antinomici. La trattazioni logiche
medievali giu- stappongono i due tronchi dottrinari; ma l’incon- ciliabilità e
l’antagonismo di questi si manifesta appunto sulla disputa degli U. che
pertanto de- nunzia la presenza attiva, nella Scolastica, di una tradizione
logica anti-aristotelica, che è appunto quella stoica, attinta attraverso le
opere di Boezio e di Cicerone. Realismo e nominalismo costituiscono pertanto le
due soluzioni tipiche e storicamente originarie del problema. Per il realismo
cioè per la tradizione logica platonico-aristotelica, l’U. è, oltre che con-
ceptus mentis, l’essenza necessaria o la sostanza delle cose. Per il
nominalismo, cioè per la tradi- zione stoicizzante, l’U. è un segno delle cose
stesse. Il realismo e il nominalismo medievale costi- tuiscono pertanto le due
alternative che la dot- trina del concetto ha sempre incontrato nella sua storia
(v. CONCETTO). Più specificamente, per quel che riguarda il realismo, si
possono distinguere tre forme fonda- mentali di esso che potremo chiamare
rispetti- vamente quella platonizzante, quella aristotelica e quella
semi-aristotelica. La forma platonizzante del realismo è attribuita da Abelardo
al suo maestro Guglielmo di Champeaux (sec. x1): l’U. sarebbe la sostanza e gli
individui costituirebbero acci- denti di questa sostanza (ABELARDO, (Euvres,
ed. Cousin, pag. 513). La soluzione aristotelica è quella che si trova più
comunemente difesa nella Scolastica ed è espressa da S. Tommaso dicendo che
1’U. è in re come forma o sostanza delle cose, post rem come concetto
nell’intelletto e anse rem nella mente divina come Idea o modello delle cose
create (/m Senr., II, d. 3, q. 2, a. 2). Questi tre U. non fanno che uno cioè
si identificano con l’essenza, sostanza o forma della cosa, che esiste ab
aeterno nell’intelletto divino e che l'intelletto umano astrae dalla cosa
stessa (S. 7h.). Infine, soluzione semi-aristotelica può chia- marsi quella di
Duns Scoto, secondo il quale il vero e proprio U. esiste solo nell’intelletto,
ma esiste nelle cose una natura comune distinta non numericamente ma solo
formalmente dall’indivi- dualità delle cose (Op. Ox., II, d. 3, q. 6, n. 15).
Il carattere proprio di questa soluzione sta nel principio della distinzione
formale (v. DISTINZIONE) UNIVOCO ED EQUIVOCO che è una delle caratteristiche
della filosofia di Duns Scoto. Dall’altro lato il nominalismo presenta una mag-
giore uniformità. Se si prescinde dall’accennata tesi di Roscellino (della
quale per altro non esistono documenti convincenti) il nominalismo, da Abe-
lardo a Ockham, ha sostenuto sempre le stesse tesi fondamentali, la riduzione
dell’U. alla fun- zione logica della predicabilità, dividendosi solo sulla
realtà psichica attribuita o meno all'U. stesso. Ockham si dimostra
indifferente nei confronti di quest’ultimo problema: nega, ovviamente, che l'U.
sia una species (v.), ma ritiene indifferente che lo si identifichi con l'atto
dell'intelletto o che addi- rittura si neghi che abbia una realtà qualsiasi
nel- l'anima (/n Sent., I, d. 2, q. 8, E). Il suo carattere fondamentale è la
sua funzione di segno, cioè la supposizione (v.). Questi rimasero i capisaldi
della logica terministica dopo di Ockham; e una nozione analoga dell’U. è
quella che compare nella dottrina del concetto che veniva difesa nell'empirismo
in- glese a partire dal sec. xvIr e cioè da Locke, Ber- keley e Hume (v.
CONCETTO, 2). UNIVERSALISMO (ingl. Universalism; fran- cese Universalisme; ted.
Universalismus). x. In senso teologico la dottrina che Dio vuol salvare tutti
gli uomini e che pertanto non esiste una qualsiasi pre- destinazione alla
dannazione. È la dottrina soste- nuta fra gli altri da Leibniz che parla in
questo senso del contrasto tra « universalisti » e « partico- laristi »
(7héod., I, $ 80). 2. In senso etico, ogni dottrina anti-individuali- stica
cioè ogni dottrina che afferma la subordina- zione dell’individuo a una
comunità qualsiasi (stato, popolo, nazione, umanità, ecc.). UNIVERSALIZZAZIONE.
V. GENERALIZ- ZAZIONE. UNIVERSO (gr. tè rav; lat. Universum; in- glese
Universe; franc. Univers; ted. Universum). 1. Un qualsiasi tutto: per es., « U.
del discorso » o «U. delle stelle fisse» o «U. visibile ». 2. Il tutto della
natura fisica, a prescindere dal suo ordine. Questo è il significato che al
termine dettero Aristotele (Mer., V, 26, 1024a 1) e gli Stoici (StoBEO, Ecl.,
I, 21, pag. 442 sgg.). 3. Lo stesso che mondo. Questo uso prevale presso i moderni
(v. MonDo; TOTALITÀ; TUTTO). UNIVERSO DEL DISCORSO (ingl. Uni verse of Discourse;
franc. Univers du discours). L'espressione
fu introdotta da De Morgan (Forma! Logic, 1847, pag. 37) e diffusa da Boole
(Laws of Thought, 1854, III, $ 4) per indicare in generale « l’estensione del
campo dentro il quale si trovano tutti gli oggetti del nostro discorso ». Più
precisamente, in seguito, si designò con questo termine, nell’algebra della
logica, una classe 899 non vuota dalla quale, e solo dalla quale, siano tratti
tutti gli elementi con i quali siano costituite tutte le classi su cui si opera
il calcolo. Va da sè che in tal modo l’U. del discorso è la somma lo- gica di
tutte le classi che si possono formare con tali elementi. Viene indicato con il
simbolo « V» oppure «1». Nell’interpretazione proposizionale esso sarà
costituito dalla disgiunzione (somma logica) di tutte le proposizioni sulle
quali opera il calcolo, oppure dalla congiunzione (prodotto lo- gico) di tutte
le proposizioni vere. Nella Logica delle relazioni, l’U. del discorso è,
ancora, formato da tutti gli elementi che possono entrare nelle relazioni
considerate: in tal caso deve contenere almeno due elementi se si pren- dono in
considerazione solo relazioni diadiche, almeno tre se si prendono in considerazione
anche relazioni triadiche... almeno n se si prendono in considerazione
relazioni n-adiche. La relazione-U. è la relazione «a v 5» che vige tra tutte
le coppie possibili di elementi dell’universo. Nella Logica odierna questo
concetto ha per- duto di importanza: qualora venga usato, lo è nel senso sopra
definito. In pratica però si usa spesso l’espressione « U. del discorso » per
desi- gnare l’insieme di elementi (termini e proposi- zioni) che costituiscono
il campo di una data di- sciplina. G. P. UNIVOCO ED EQUIVOCO (gr. suvevupoc,
sudvupog; lat. Univocus, Aequivocus; ingl. Univocal, Equivocal; franc.
Univoque, Équivoque; ted. Ein- deutig, Aequivok). Questi due termini hanno
avuto definizioni diverse a seconda che sono stati riferiti all'oggetto o al
concetto (o nome). 1. Aristotele li riferì all'oggetto e intese per uni- voci
(o sinonimi) gli oggetti che hanno in comune sia il nome sia la definizione del
nome: così, ad es., sia l’uomo che il bue si dicono animali. Chiamò invece
equivoci (od omonimi) gli oggetti che hanno in co- mune il nome mentre le
definizioni richiamate dal nome sono diverse: in questo senso si chiama animale
sia l’uomo sia un disegno (Car., I, 1a 1-11). Queste definizioni ricorrono
frequentemente nella scola- stica (per es., Pietro Ispano, Summ. Log., 3.01) e
si mantengono anche in logici più recenti (ad es., Jungius, Logica
Hamburgensis, 1, 2, 4-9). 2. La logica terministica ritenne «improprio» il
riferimento dei due termini agli oggetti e ritenne che essi si dovessero riferire
propriamente soltanto ai segni e cioè ai concetti o nomi. Da questo punto di
vista, le definizioni di Ockham sono le seguenti. «U. è o la voce o il segno
convenzionale che corri- sponde a un solo concetto o, più strettamente, è ciò
che si può predicare di per sè di più cose o è il pronome dimostrativo di una
cosa. Eguivoco dall’altro lato è il nome che, significando più cose, 900 non è
subordinato a un unico concetto ma è unico segno di più concetti o intenzioni
dell’anima. L’U. può derivare o dal caso, come accade quando il nome Socrate
viene imposto a più uomini, o da una deliberazione quando si impone un certo
nome a certe cose e lo si subordina a un solo concetto e poi per la
similitudine di questo concetto con altri si estende ad altri il nome stesso» (Summa
Log., I, 13). Le definizioni terministiche dei due termini sono quelle che si
danno anche oggi dei termini stessi. Le discussioni medievali sulla natura
dell’univocità avevano nel Medio Evo un’immediata risonanza teologica, per la
disputa tra i sostenitori dell’uni- vocità e quelli dell’analogicità
dell’essere (v. ANA- LOGIA). UNO (gr. ele; lat. Unus; ingl. One; franc. Un;
ted. Ein). 1. L'elemento di un insieme o di una classe qualsiasi: come quando
si dice «l’uomo è un ani- male ». A questo proposito, si dice che una relazione
è molti ad U. se per ogni x del suo campo vi è un solo y che abbia la relazione
stessa ad x. Si dice che essa è U. a molti se per ogni y dominante inverso del
suo campo vi è un unico x che abbia la relazione stessa ad y. Si dice infine
che la relazione è U. a U. se essa e il suo inverso sono uno a molti e molti a
uno. In questo caso si parla anche di una corri- spondenza di U. a U. (A.
CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, n. 556, 564). 2. Ciò che è unico,
come quando si dice « Dio è U.» (v. UNICO). 3. L’unità nel senso proprio del
termine (vedi UNITÀ). 4. Il numero U. cioè il primo termine nella serie
naturale dei numeri o in generale il primo termine di una serie qualsiasi. 5.
L’U. ipostatico o teologico cioè Dio o il Bene come primo termine del processo
dell’ema- nazione e ultimo termine del processo del ritorno. In questo senso
già Eraclito diceva «da tutte le cose l’U. e dall’U. tutte le cose» (Fr., 10
Diels; cfr. EMPEDOCLE, Fr., 17, 1). Ma furono soprattutto i Neoplatonici a
adoperare il termine per designare la divinità o il bene in quanto è
trascendente rispetto all’essere e all’intelligenza e quindi al di là d’ogni
molteplicità. « Bisogna, diceva Plotino, che prima di tutte le cose ci sia
qualcosa di semplice e di di- verso da tutte quelle che vengono dopo di essa;
essa è in se stessa, non si mescola con quelle che la seguono ma può essere in
qualche modo presente alle altre: ed è veramente 1°U. non qualcosa che sia una,
ma semplicemente l’U.» (Enn., V, 4, 1). L’unità del primo principio deve
intendersi così rigorosa- mente che il nome stesso di « U. » appare a Plotino
improprio. « Questo nome U. non contiene forse altro che l’esclusione del
molteplice. I Pitagorici UNO lo designavano simbolicamente come Apollo per indicare
tra loro la negazione dei molti... Si può adoperare questa parola per
cominciare la ricerca con una parola che designi la massima semplicità; ma
infine bisogna negare questo stesso attributo che non merita più degli altri di
designare quella natura che non può essere attinta dall’udito nè compresa da
colui che la nomina ma soltanto da colui che la contempla» (2bid., V, 5, 6).
Queste speculazioni sull'U. sono state frequentemente riprese dalla teologia
negativa e dal panteismo. Esse sono di solito accompagnate, in Plotino e negli
altri, dall’esaltazione della funzione dell’unità in tutto il dominio del
conoscere e dell’essere (v. UNITÀ). Così accadde nelle speculazioni plato-
niche del Rinascimento. Così accadde anche nel Romanticismo, dal quale l’U.-Tutto,
fu assunto come il principio del mondo coincidente con il mondo stesso: come
appare in modo più esplicito nella filosofia della natura di Schelling (Werke,
I, III, pag. 276). Hegel a sua volta, che vedeva la concretezza nell’unità
(v.), scorgeva nell’U. l’astra- zione o l’immediatezza e insisteva sulla
relazione dell’U. stesso con i molti che illustrava fantasti- camente con le
nozioni, arbitrariamente manipolate, dell’attrazione e della repulsione
(Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. III, B; trad. ital., pag. 181
seguenti). Il concetto di U. in questo senso viene spesso utilizzato sia dalle
dottrine teistiche sia dalle dottrine panteistiche. Tra coloro che ne hanno
fatto un uso più esteso e rigoroso, si deve ricordare Piero Martinetti (La libertà,
1928, pag. 490; Ragione e fede, 1942, pag. 402), per quanto nella speculazione
di Martinetti si senta l’effetto della separazione radicale tra Dio come U.
assoluto e realtà empi- rica e molteplice, su cui aveva insistito Africano Spir
(Denken und Wirklichkeit, 1873). UOMO (gr. &vpwros; lat. Homo; ingl. Man;
franc. Homme; ted. Mensch). Le definizioni dell’U. possono essere raggruppate
sotto i titoli seguenti: 1° definizioni che si avvalgono del raffronto tra ’U.
e Dio; 2° definizioni che esprimono una carat- teristica o una capacità propria
dell’U.; 3° defini- zioni che esprimono, come propria dell’U., la sua capacità
di autoprogettarsi. 1° Le definizioni del primo gruppo sono di natura religiosa
o teologica, ma possono anche trovarsi in dottrine che di religioso e teologico
non hanno nulla. Ogni definizione del genere si rifà al detto della Genesi «E
Dio disse: facciamo l’U. a immagine e somiglianza nostra» (Gen., I, 26). Questo
detto ha servito spesso di punto di partenza per le speculazioni sull’anima e
special» mente sulle partizioni dell’anima (v. ANIMA): in realtà esso è
un’esplicita definizione dell’U. e come tale fu assunto dai teologi della
Riforma. D'altronde UOMO 901 già Aristotele, parlando della vita contemplativa,
aveva parlato di un «elemento divino» dell’U. che di quanto eccelle, nel
composto che costituisce I°U., di tanto rende l’U. virtuoso e beato (Et. Nic.).
Ma questo tipo di definizione dell’U. si è, nella tradizione filosofica,
costantemente ispirato alla Bibbia. Sull’U. come immagine di Dio insistettero
Calvino (/nstitutio, I, 15, 8) e Zuiglio (Deutsche Schriften, I, 56); e lo
stesso concetto attraverso le ricche amplificazioni di Jacob Boehme (cfr., per
es., Aurora oder die Morgenròthe im Aufgange, VI, 1) passò nella filosofia
romantica tedesca. Spinoza diceva che «l’essenza dell’U. è costituita da certe
modificazioni degli attributi di Dio » (Er., II, 10, Corol.). Nelle lezioni
sulla De- stinazione del dotto nel 1794 Fichte additava come compito dell’U.
quello di adeguarsi all’unità e all’immutabilità dell'Io assoluto, secondo la
mas- sima «agisci in modo da poter considerare la mas- sima della tua volontà
come legge eterna per te» (Uber die Bestimmung des Gelehrten, 1794, 1); ma l’Io
assoluto è il principio o la sostanza del- l’U., e la sua unità e immutabilità
non è che l’unità e l’immutabilità di Dio: sicchè il miglior modo di esprimere
la dottrina di Fichte in proposito è che l’U., nel suo principio ideale, è Dio
e deve sforzarsi di diventar tale. Analogamente, per Hegel l’U. è essenzialmente
Spirito e lo Spirito è Dio. «L’U., dice Hegel, per quanto considerato per se
stesso finito, è anche immagine di Dio e sorgente dell’infinità in se stesso:
giacchè è scopo a se stesso, ed ha in se stesso il valore infinito e la
destinazione all’eternità » (Philosophie der Geschichte, editore Glockner, pag.
427). Il cristianesimo è definito da Hegel appunto come la posizione della «
unità dell’U. e di Dio +» (/bid., pag. 416). In queste de- finizioni dell’U. il
rapporto dell’U. con Dio è assunto in modo positivo. Ma lo stesso rapporto può
essere assunto in modo negativo o invertito, rimanendo sostanzialmente lo
stesso. Feuerbach, ad es., ritiene che I’U. si riveli e si definisca a se
stesso nel suo concetto di Dio. « L’essere assoluto, il Dio dell’U., è l’essere
stesso dell’U. », egli dice (Wesen des Christentum, $ 1). Ciò che l’U. pensa di
Dio, è la definizione dell’U.: 4 Pensi tu l’infinito? Ebbene tu pensi e affermi
l’infinità della potenza del pensiero. Senti tu l’in- finito? Tu senti e
affermi l’infinità della potenza del sentimento » (/bid.). Le tesi
dell’esistenza o del- l'inesistenza di Dio non influisce su queste defi-
nizioni dell’U., che rimangono ancorate al raffronto tra l’U. e Dio. Così
Nietzsche, dopo aver fatto proclamare da Zaratustra che «Dio è morto», gli fa
annunziare il Super U., come ciò che è al di là dell’U. stesso. «La grandezza
dell’U. sta in questo, che egli è un ponte e non uno scopo: ciò che può farlo
amare è il fatto che egli è un pas- saggio e un tramonto» (Also sprach Zarathustra,
Prol., $ 4). In un senso analogo a quello di Feuer- bach e Nietzsche, ma con in
più il concetto dello scacco cui l’U. è destinato, Sartre ha detto: « Se l’U.
possiede una comprensione preontologica dell'essere di Dio, non sono nè i
grandi spettacoli della natura, nè la potenza della società che gliela hanno
conferita: ma Dio, valore e scopo supremo della trascendenza, rappresenta il
limite permanente a partire dal quale I’U. si fa annunciare ciò che egli è.
Essere U., è tendere a Dio; o, se si preferisce, l’U. è fondamentalmente
desiderio d’essere Dio » (L’étre et le néant, pag. 653-54). 2° Le definizioni
che esprimono una caratte- ristica o una capacità ritenuta propria dell’U. sono
numerose e di esse la prima e più famosa è quella secondo la quale I’U. è «
animale ragione- vole ». Questa definizione esprime bene il punto di vista
dell’Illuminismo greco e lo spirito della filosofia platonica e aristotelica.
Ma essa non si trova esplicitamente in Platone, il quale avrebbe detto soltanto
che l’U. è animale «capace di scienza » (Def., 415a): una determinazione che
Aristotele ripete considerandola come il proprio dell’U. (7op., V, 4, 133a 20).
Ma nella politica Aristotele afferma che «l’U. è l’unico animale che abbia la
ragione » e che la ragione serve a in- dicargli l’utile e il dannoso, perciò
anche il giusto e l’ingiusto (Po/., I, 2, 1253a 9; cfr. VII, 13, 1332 b, 5).
Accettata dagli Stoici, (SEsTo EMPIRICO, Ip. Pirr., II, 26; StoBgo, Ecl., II,
132) questa de- finizione è rimasta classica e ad essa si rifanno abitualmente
gli scrittori medievali (cfr., ad es., S. TomMaso, S. 7h., II, 1, q.71, a. 2;
II, 2, q.34, a. 5). È questa la sola definizione entrata nella comune cultura;
ed anche i filosofi si rifanno ad essa per variarla opportunamente in conformità
del senso specifico che essi dànno alla parola ra- gione. Ad es., la
definizione di Rosmini «I’U. è un soggetto animale dotato dell’intuizione
dell’es- sere ideale indeterminato» (Antropologia, $ 23) esprime la stessa cosa
della definizione tradizionale perchè, secondo Rosmini, la « percezione
dell’essere ideale indeterminato » è la ragione (Nuovo Saggio, $ 396). La
definizione di De Bonald, che fu per un certo tempo famosa, « l’U. è
un’intelligenza servita da organi » (Cuvres, 1864, I, pag. 41; III, pag. 149)
non è altro anch’essa che una parafrasi della de- finizione tradizionale in
quanto in essa il « servizio degli organi» è l’equivalente della « animalità ».
E l’ancora più famosa definizione di Pascal « L’U. non è che un giunco, il più
debole della natura, ma è un giunco pensante» (Pensées, 347) può anch’essa
essere considerata come una variante della definizione tradizionale: una
variante nella 902 quale la connotazione della fragilità naturale dell’U. ha
preso il posto della «animalità». Dall’altro lato Cartesio aveva fatto a meno
della animalità e aveva ridotto l’U. al pensiero, come coscienza immediata: «Io
non sono, precisamente parlando, che una cosa che pensa cioè uno spirito, un
intelletto o una ragione » (Med., II). Ma l’ani- malità, nella definizione
tradizionale, serviva da un lato a spiegare l’ovvia limitazione dell’attività
pen- sante dell’U., dall’altro a riconoscere nell’U. un essere terrestre o
mondano, che ha bisogno di organi. Nel senso cartesiano Husserl ha detto: «Se
l’U. è un essere razionale (animal rationale) lo è solo nella misura in cui
tutta la sua umanità è un'umanità razionale, nella misura in cui è la-
tentemente orientato verso la ragione oppure aper- tamente orientato verso
l’entelechia che si è rivelata a se stessa e guida ormai coscientemente, per
una necessità essenziale, il divenire umano » (Die Xrisis der europdischen
Wissenschaften und die transzen- dentale Phanomenologie, 1954, $ 6). L’ultima e
più aggiornata versione della vecchia definizione è quella dell’U. come animale
simbolico cioè come animale che parla (CASSIRER, Essay on Man, cap. II; trad.
ital., pag. 49). Questa caratteristica era in verità presente allo stesso
termine greco che si- gnifica ragione: logos infatti è il discorso razionale o
la ragione che si fa discorso. Nella filosofia con- temporanea, la definizione
serve ad esprimere il potere condizionante del linguaggio cioè del com-
portamento segnico, in tutte le attività dell'uomo. Questo potere difficilmente
potrebbe essere esage- rato; e la definizione in esame è a giusto titolo tra le
più diffuse e accettate nella filosofia contem- poranea. Essa tuttavia non può
essere intesa a prescindere da quella caratteristica della autopro- gettabilità
che il terzo gruppo di definizioni rico- nosce all’uomo. Una seconda e più
specifica determinazione, che è stata spesso assunta come definizione dell’U.,
è la natura politica cioè socievole dell’U. stesso. Già menzionata da Platone
(Def., 415a) questa determinazione è strettamente legata, da Aristotele, con la
natura razionale dell’uomo. « Chi non può entrare a far parte di una comunità o
chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città ma
è o una belva o un Dio» (Pol. I, 2, 1253 a 27). Ovviamente, per Aristotele,
razio- nalità e politicità dell’U. sono strettamente con- nesse; e tali
rimangono per tutti coloro che in se- guito faranno capo a questa definizione.
Hobbes che combatteva questa definizione la intendeva come se essa
significasse: « L’U. è adatto sin dalla nascita a vivere socialmente » e
affermava che in questo senso essa è falsa, perchè l’U. diventa adatto ad
associarsi solo per educazione (De Cive, I, 2, UOMO e nota). Ma il significato
più ovvio della definizione in esame è che l’U. non può fare a meno di vivere
in società e in questo senso neppure Hobbes dubita della fondamentale esattezza
di essa. Questa defi- nizione, tuttavia, non è stata proposta per deter- minare
la natura dell’U. nella sua totalità. Con la pretesa di esprimere la totalità
dell’U., si presenta invece la definizione di Bergson: « Se potessimo
spogliarci del nostro orgoglio, se per definire la nostra specie ci attenessimo
strettamente a quelle che la storia e la preistoria ci presentano come la
caratteristica costante dell’U. e dell’intel- ligenza, non diremmo forse Momo
sapiens ma Homo faber. In definitiva, l'intelligenza, considerata in ciò che
sembra il suo compito originale, è la facoltà di fabbricare oggetti
artificiali, in partico- lare utensili per fare utensili, e di variarne indefi-
nitamente la fabbricazione » (Évol. Créatr., 83 ediz., 1911, pag. 151). In
realtà però lo stesso Bergson am- mette, attorno all'intelligenza, un « alone
d’istinto » e ritiene possibile il ritorno dell’intelligenza al- l’istinto
mediante l’intuizione: il che dovrebbe voler dire che l’U. non è soltanto homo
faber. 3° Il terzo gruppo di definizioni comprende quelle che interpretano
l’uomo come possibilità di auto-progettazione. Quasi tutte le definizioni del
secondo gruppo, pur facendo leva su un’unica determinazione dell’U., ritenuta
come propria o fondamentale, la considerano, esplicitamente o im- plicitamente,
come una possibilità, cioè una capacità o disposizione. Leibniz, difendendo la
definizione dell’U. come animale ragionevole, osservava che il fatto che gli
idioti mancano di ragione non è un'obiezione contro di essa: basta che essi,
sia pure con la sola loro figura fisica, ne mostrino un indice (Nouv. Ess.,
III, 6, 22). Ma in realtà già in Aristotele è abbastanza chiaro che la ragione
è una possibilità o capacità di giudizio, non una determinazione necessitante;
e che solo a questo titolo costituisce la definizione dell’uomo. Forse, il
carattere indeterminato dell’U. veniva adombrato nel detto di Democrito: «I'U.
è quello che tutti sappiamo » (Fr., 165, Diels). Ma esso è chiaramente espresso
nelle speculazioni dei neoplatonici del- l’antichità e del Rinascimento sulla «
natura media » o «centrale» dell’uomo. Già Plotino affermava a questo
proposito: «Il posto dell’U. è nel mezzo tra gli Dei e le bestie ed egli
inclina talvolta verso gli uni talvolta verso le altre; certi uomini sono
simili agli dèi, altri alle bestie e i più tengono il mezzo » (Enn., III, 2,
8). Questo pensiero veniva illustrato nel sec. ix da Scoto Eriugena: « Non
immeritamente, egli diceva, l’U. è stato chiamato l’officina di tutte le
creature: difatti tutte le creature si cont.ngono in lui. Egli intende come
l’angelo, ragiona come l’U., sente come l’animale irragio- UOVO nevole, vive
come il germe, consiste di anima e corpo e non è privo di nessuna cosa creata »
(De divis. nat., III, 37). Questi pensieri venivano ripetuti nel Rinascimento
da Nicolò Cusano (De visione dei, 6; Excitationes, Vi De ludo globi, II) e da
Marsilio Ficino (Theol. Plat., III, 2) che entrambi li trasferiscono all'anima
dell’U.j Ficino chiama l'anima copula del mondo. Ma soprattutto si trovano
espressi in modo classico nell’orazione De hominis dignitate di Pico della
Mirandola: « Non ti ho dato, o Adamo, fa dire Pico a Dio, nè un posto determi-
nato, nè un aspetto proprio, nè alcuna prerogativa tua, perchè quel posto,
quell’aspetto, quelle prero- gative che tu desidererai, tutto secondo il tuo
voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è
contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna
barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti
posi nel mezzo del mondo, perchè di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel
mondo. Non ti ho fatto nè celeste nè terreno, nè mortale nè immortale, perchè,
di te stesso quasi libero e sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella
forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori; tu
potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine
» (De hom. dign., f.131r). Certamente, l’illimitata capacità di
autoprogettazione dell’U. non è stata mai più esaltata con tanta eloquenza e
con tanto fiducioso ottimismo come in questa pagina di Pico. Tuttavia, il
concetto illuministico dell’U. come ragione progettante, limitata e impedita,
bensì, ma efficace può ritenersi una filiazione del concetto rinascimentale
dell'uomo. Diceva Kant: «La ra- gione in una creatura è il potere di estendere,
oltre gli istinti naturali, le regole e i fini dell’uso di tutte le sue
attività; essa non conosce limiti ai suoi disegni. Però la ragione non agisce
istintivamente, ma procede per tentativi, con l'esercizio e impa- rando, per
elevarsi a poco a poco e passare da un grado di conoscenza ad un altro» (Idee
zu einer allgemeinen Geschichte in weltbilrgerlicher Absicht, 1784, tesi II.
Kant ritiene pertanto che soltanto attraverso la storia della specie umana
sulla terra l'uomo realizzi la sua natura: che è la libertà di autoprogettarsi
con la sua ragione e specialmente di progettare per sè una società civile fondata
total- mente sul diritto. Queste idee esprimevano bene il punto di vista
dell'illuminismo, al quale Kant stesso le riferiva. Ancora più chiaramente,
Kant descriveva così il carattere della specie umana: « Per potere attribuire
all'U. il suo posto nel sistema della natura vivente e così caratterizzarlo,
non rimane altro che dire che egli ha quel carattere che egli stesso si fa in
quanto sa perfezionarsi secondo i fini da se stesso derivati: onde, come
animale fornito della capacità di ragionare (animal rationabile), può farsi da
sè ani- male ragionevole (animal rationale) » (Antr., II, e). L’esistenzialismo
e lo strumentalismo americano hanno, nella filosofia contemporanea, ereditato
questo concetto dell’uomo. Da un lato, essi sotto- lineano che I’U. è ciò che
egli stesso può o vuole farsi; che perciò egli è costantemente problema a se
stesso e soluzione di questo problema; che con- tinuamente egli progetta il suo
modo d'essere o di vivere e che questo progetto entra a costituire in qualche
grado e misura il suo modo d’essere o di vivere effettivo. Dall'altro lato,
entrambe le correnti riconoscono le limitazioni di questa pro- gettabilità:
limitazioni che agiscono specialmente nel fatto che ogni progetto trova già, in
qualche misura, come dari (cioè come relativamente immo- dificabili) gli
elementi di cui si avvale; che tutto ciò che esso può progettare nel futuro è
già stato in qualche modo o forma nel passato; e che per- tanto il passato
condiziona entro certi limiti (ri- conosciuti più o meno estesi) il futuro
dell’uomo. Questo è il senso in cui Heidegger ha detto che il progetto è il
modo d’essere fondamentale dell’U. (Sein und Zeit, $ 31); e in cui Sartre ha
parlato di un progetto fondamentale del mondo (L’érre er le néant, pag. 540).
Nello stesso senso, John Dewey ha parlato della mutabilità della natura umana e
dei suoi stessi cosiddetti istinti o impulsi fonda- mentali (Human Nature and
Conduct, pag. 95 sgg.; 106 sgg.). Heidegger ha insistito pure sulla limi-
tazione della progettabilità in quanto ogni pro- getto ricadrebbe e si
appiattirebbe su ciò che è già stato e in ciò consisterebbe l’effertività (o
fat- tualità) dell’U. (v. PROGETTO). Sartre ha insistito sulla libertà assoluta
della progettabilità e ha con- siderato puramente arbitraria o gratuita la
scelta di un progetto qualsiasi (L’érre er le néant, pag. 721). Dall’altro
lato, Dewey ha ripreso il concetto illu- ministico della razionalità (che è
nello stesso tempo condizionamento e libertà) dei progetti umani; e sugli
stessi caratteri dell’auto-progettazione ha in- sistito l’esistenzialismo
positivo (cfr. ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, I, 7; II, 3; ecc.).
D'al- tronde questa concezione sembra oggi condivisa dagli stessi biologi.
Dice, per es., G. G. Simpson: «L’U. può scegliere di sviluppare le sue capacità
come più alto animale e tentare di sollevarsi an- cora di più; o può scegliere
altrimenti. La scelta è sua responsabilità, e sua soltanto. Non c’è un
automatismo che lo porterà in alto senza scelta o sforzo e non c'è una tendenza
unilaterale nella giusta direzione. L'evoluzione non ha alcuno scopo; D’U. deve
dare lo scopo a se stesso + (The Meaning of Evolution, 6 ediz., 1952, pag.
310). UOVO (gr. ®6y; ingl. Egg; franc. (Euf; ted. Ei). Il primo principio del
mondo, secondo la teogonia orfica (Orphicorum fragmenta, 53, 54 Ke). La con-
siderazione del mondo come un gigantesco ani- male è alla base di questo mito,
che ha parecchi precedenti orientali. Su di questi e sul mito stesso cfr. A.
OLIVIERI, Civiltà greca nell’Italia meridionale, 1931, pag. 3-32. URDOXA o
URGLAUBE. Husserl ha chia- mato con questo termine (che significa credenza
originaria) la certezza propria della credenza cioè il riferimento certo della
credenza a un oggetto esistente (/deen, I, $ 104) (v. CREDENZA). URPHAENOMENON.
Termine adoperato da Goethe, che così ne illustrava il concetto: «
Nell’esperienza per lo più cogliamo soltanto casi che, con una certa
attenzione, possono essere con- dotti sotto rubriche empiriche generali. Queste
a loro volta si subordinano a rubriche scientifiche che rimandano oltre, sicchè
veniamo a conoscere meglio alcune condizioni indispensabili di ciò che appare.
Di qui in poi tutto si sistema gradualmente sotto regole e leggi superiori, che
si manifestano, non all’intelletto mediante parole e ipotesi, ma all’intuizione
attraverso fenomeni. Sono questi i fenomeni che chiamiamo originari; perchè
niente nell’apparenza è al di sopra di loro ed essi ci per- mettono, come prima
siamo saliti, di discendere gradualmente sino al caso più comune dell’espe-
rienza quotidiana » (Farbenlehre, 1808, $ 175). USIOLOGIA (ingl. Usiology;
franc. Usiologie; ted. Usiologie). Dottrina delle essenze. Termine raro. USO
(ingl. Use; franc. Usage; ted. Gebrauch). L’atto o il modo di adoperare mezzi,
strumenti o utensili. Il termine è usato in filosofia soprattutto a proposito
di strumenti o mezzi intellettuali, o della ragione stessa. Kant parlò di un U.
/ogico della ragione che è quello mediante il quale si effettuano inferenze
mediate cioè sillogistiche; e di un U. puro che è quello mediante la quale la
ra- gione si fa essa stessa « una speciale fonte di con- cetti e di giudizi».
Quest'ultimo è I’U. dialettico della ragione stessa (Crit. R. Pura, Dialettica,
Intr., II, B-C). Kant distinse pure l’U. teoretico e l’U. pratico della ragione
stessa (Crit. R. Pura, Pref. alla 2* ediz.). Ed infine distinse l’U. empirico
dei concetti, che significa il loro riferimento a og- getti dell'esperienza
possibile, dall’U. trascendentale che invece significa il loro riferimento a
oggetti che sono al di là di tale esperienza (v. TRASCENDEN- TALE). Della
nozione di U. si è servito Wittgenstein per definire il significato dei termini
linguistici: « Per una estesa classe di casi — sebbene non per tutti — nei
quali adoperiamo la parola ‘ signifi cato * essa può essere definita così: il
significato di una parola è il suo U. nel linguaggio » (Philo- URDOXA O
URGLAUBE sophical Investigations, $ 43) (v. LINGUAGGIO; Sr- GNIFICATO). I
logici contemporanei distinguono l’U. di una parola dalla sua menzione. Nella
frase «l’uomo è un animale razionale » la parola «uomo» è usata ma non
menzionata. Invece nella frase «la tradu- zione italiana della parola inglese
man ha quattro lettere» la parola uomo è menzionata ma non usata. Infine nella
frase «la parola uomo ha quattro lettere », la parola uomo è nello stesso tempo
usata e menzionata. Quest'ultimo U. è quello che gli Scolastici chiamavano
della supposizione mate- riale (v. SuPPOSIZIONE) e che Carnap ha chiamato U.
autononimo (CARNAP, Logical Syntax of Lan- guage, $ 64; QuINE, Methods of
Logic, $ 7; CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 80). UTENSILE (ingl.
Tool; franc. Ustensile; te- desco Zuhandene). Un mezzo potenziale, che di-
venta attuale quando si congiunge all’occhio, al braccio, alla mano, in qualche
operazione speci- fica. Questa è la definizione data da Dewey (Human Nature and
Conduct, pag. 25). U. è stato spesso considerato il modo d’essere proprio della
cosa (v.) come tale. È questa una dottrina che è stata avan- zata da Heidegger
(Sein und Zeit, $ 15) ed accet- tata da Ortega y Gasset, che ha considerato
come U. anche l’intelligenza, la scienza e la cultura (Schema delle crisi,
1933, pag. 43); e da Sartre, che ha detto: «Il rapporto originale delle cose
tra loro è il rapporto d’utensilità... la cosa non è dapprima cosa per essere
in seguito U., nè dapprima U. per svelarsi di seguito come cosa: è cosa-U.» (L’étre et le néant, pag. 250).
UTILE (ingl. Useful; franc. Utile; ted. Niitz-
lich). 1. Ciò che è mezzo o strumento per un fine qualsiasi. In questo senso
definivano l'utilità Al- berto Magno (S. 7h., I, g. 8, a. 3), Geulincx (Ethica,
III, 6) e Baumgarten (Mer., $ 336). L’uti- lità è in questo senso un carattere
delle cose. 2. Più specificamente, a partire da Hobbes, è stato chiamato U. ciò
che giova alla conserva- zione dell’uomo o in generale appaga i suoi bi- sogni
o soddisfa i suoi interessi. Hobbes affermava a questo proposito che ciascun
uomo è, per di- ritto naturale, arbitro circa ciò che gli è U. e che «la misura
del diritto è l’utilità » (De Cive, 1642, I, 9-10). Sulle tracce di Hobbes,
Spinoza identi- ficava il comportamento razionale dell’uomo con la ricerca
dell’U.: «La ragione, non richiedendo nulla contro la natura, richiede di per
sè, innanzi tutto che ognuno ami se stesso e ricerchi il proprio U. che
veramente sia tale ». Tra le molte cose U. e desiderabili le più importanti
sono quelle che convengono alla natura umana c perciò la più importante di
tutte è la conservazione dell’uomo nella propria persona e nell'altrui. « Gli
uomini che sono governati dalla ragione, ossia gli uomini che cercano il
proprio U. secondo la guida della ra- gione, non desiderano per sè nulla che
non desi- derino anche per gli altri uomini giusti, fidati e onesti » (Er., IV,
18, schol.). L’utilità in questo senso divenne da un lato fondamento di quella
dottrina morale che è l’uzilitarismo (v.) dall'altro il concetto fondamentale
dell’economia politica (v.). Nel primo indirizzo, già Hume si domandava 4
perchè l’utilità piace» e vedeva la risposta a questa domanda nella naturale
simpatia dell’uomo verso l’altr'uomo (/ng. Conc. Morals, V). La coinci- denza
dell’utilità individuale con quella sociale era così già postulata e divenne
uno dei temi dell’uti- litarismo. Bentham definiva l’utilità come « quella
proprietà di un oggetto per la quale esso tende a produrre beneficio,
vantaggio, piacere, bene o feli- cità (Introduction to the Principles of
Morals, 1789, I, 1). Nel campo dell’economia politica, per U. fu inteso
abitualmente «tutto ciò che appaga un bi- sogno +; e l'avvertenza che non
sempre ciò che appaga un bisogno dal punto di vista economico (cioè viene
desiderato come tale) lo appaga dal punto di vista biologico, consigliò Pareto
a intro- durre la nozione di ofelimità (v.) che è l’U. nel contesto economico
(Traité d’économie politique). UTILITÀ MARGINALE. V. EcoNnoMIA Po- LITICA.
UTILITARISMO (ingl. Utilitarianism; francese Utilitarisme; ted. Utilitarismus).
Per quanto la dot- trina che identifica il bene con l’utile si possa far
risalire ad Epicuro (v. ETIcA) l’U., come dottrina storicamente determinata è
un indirizzo del pen- siero etico, politico ed economico inglese dei se- coli
xvin e xrx. Stuart Mill affermò di essere stato il primo ad usare la parola
utilitarista (utilitarian) e d’averla desunta da un’espressione usata da Galt
negli Annals of Paris (1812): ed a lui infatti è do- vuta la fortuna del nome.
Esso però era stato usato occasionalmente da Bentham, e per la prima volta nel
1781. I capisaldi dell’U. possono essere riassunti nel modo seguente: 1° L’U. è
in primo luogo il tentativo di tra- sformare l’etica in una scienza positiva
della con- dotta umana, scienza che Bentham voleva rendere «esatta come la
matematica » (/ntroduction to the Principles of Morals, in Works, I, pag. v).
Questo tratto fa dell’U. un aspetto fondamentale del mo- vimento positivistico;
e dall’altro lato assicura al- Il°U. stesso un posto importante nella storia
del- l’etica (v. ETICA). 2° Conseguentemente, 1’U. sostituisce alla con-
siderazione del fine, desunto dalla natura metafi- sica dell'uomo, la
considerazione dei moventi che, in linea di fatto, determinano l’uomo ad agire.
In ciò esso si riconnette alla tradizione edonistica che scorge nel piacere
l’unico movente cui l’uomo o in generale l’essere vivente, obbedisca (v. Epo-
NISMO). Sotto quest’aspetto, come sotto quello pre- cedente, l’U. veniva
soprattutto illustrato da Ge- remia Bentham (1748-1832). 3° Il riconoscimento
del carattere superindi- viduale o intersoggettivo del piacere come mo- vente,
onde il fine di ogni attività umana diventa «la massima felicità divisa nel
maggior numero possibile di persone »: una formula che enunciata per la prima
volta da Cesare Beccaria (Dei diritti e delle pene, 1764, $ 3) fu accettata da
Bentham e da tutti gli utilitaristi inglesi. L'accettazione di questa formula
suppone la coincidenza dell’utilità privata con l’utilità pubblica: una
coincidenza che fu ammessa da tutto l’indirizzo del liberalismo moderno (v.
LiserALISMO). Prevalentemente a giu- stificare tale coincidenza fu diretta
l’opera di Gia- como Mill e di Stuart Mill. Giacomo Mill l’affi- dava alla
legge dell’associazione psicologica: la felicità altrui viene desiderata perchè
è stretta- mente associata con la propria (Analysis of the Phenomena of the
Human Mind). Mill affidava questa stessa connessione al sentimento dell’unità
umana, che Comte aveva messo in luce con la sua religione dell’umanità
(Urilitarianism, 2* ediz., 1871, pag. 61).4° La stretta associazione dell’U.
con le dot- trine della nascente scienza economica. Due dei fondatori di questa
scienza, Tommaso Roberto Malthus e Davide Ricardo sono utilitaristi e
condivisero dell’U. lo spirito positivo e riformatore. 5° Lo spirito
riformatore, nel campo politico e sociale, degli utilitaristi che si
preoccuparono di far servire la loro dottrina morale come fon- damento di
riforme che avrebbero dovuto, nei vari campi, aumentare il benessere e la
felicità degli uomini. Sotto questo aspetto l’U. fu anche detto radicalismo. Cfr. S. LesLie [sic], The
English Utilitarians; E. ALBEE, A History of English Utilitarianism. UTOPIA (lat. Utopia; ingl. Utopia; francese Utopie;
ted. Utopie). Tommaso Moro intitolava così una specie di romanzo filosofico (De
optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia, 1516) nel quale narrava le
condizioni di vita in un'isola sconosciuta detta appunto U.: condizioni di vita
che sarebbero state caratterizzate dall’abolizione della proprietà privata e
dell’intolleranza religiosa. In seguito il termine è stato esteso a designare
non solo ogni tentativo analogo, anteriore o po- steriore che fosse, come la
Repubblica di Platone o la Cirtà del sole di Campanella, ma' anche in generale
ogni ideale politico, sociale o religioso di difficile o impossibile
realizzazione. Come genere letterario, l’U. cade fuori della considerazione
filosofica: basti qui osservare che essa è stata ed è tutt'ora, in questa
forma, molto diffusa e che una delle sue incarnazioni sono i romanzi di
fantascienza. Problema filosofico è la valutazione dell’U., sia questa espressa
in forma romanzesca sia espressa in forma di mito o di ideologia, ecc.; e su
questa valutazione i filosofi non sono d’accordo. Comte affidava all’U. il com-
pito di migliorare le istituzioni politiche e di svi- luppare le idee
scientifiche (Politique positive). Marx ed Engels, al contrario, condan- navano
come « utopistiche » le forme che il socia- lismo aveva assunto per opera di
Saint Simon, Fourier e Proudhon, contrapponendo ad esse il socialismo «
scientifico » che prevede la trasforma- zione immancabile del sistema
capitalistico in si- stema comunista ma esclude qualsiasi previsione sulla
forma che assumerà la società futura e qual- siasi programma per essa (v.
SociaLIsMo). Sorel nello stesso senso contrapponeva all’U. « opera di teorici
che, dopo aver osservato e discusso i fatti, cercano di stabilire un modello al
quale si possano paragonare le società esistenti per misurare il bene e il male
che racchiudono» il mito che invece è l’espressione di un gruppo sociale che si
prepara alla rivoluzione (Réflexions sur la violence, 4* edi- zione, pag. 46).
Mannheim ha invece considerato l’U. come destinata a realizzarsi, in
contrapposto all'ideologia (v.) che non riuscirebbe mai a realiz- zarsi. L'U.
sarebbe in questo senso alla base di ogni rinnovamento sociale (/deologie und
Utopie, 1929, II, 1; cfr. R. K. MERTON, Social! Theory and Social Structure,
1957, 3* ediz., cap. XIII). In generale si può dire che Il’U. rappresenta una
correzione o un’integrazione ideale di una situazione politica o sociale o
religiosa esistente. Questa correzione può rimanere, come spesso è accaduto ed
accade, allo stato di semplice aspira- zione o sogno generico, risolvendosi in
una specie di evasione dalla realtà vissuta. Ma può anche accadere che l’U.
diventi una forza di trasforma- zione della realtà in atto e assuma abbastanza
corpo e consistenza per trasformarsi in autentica volontà innovatrice e trovare
i mezzi dell’innova- zione. Di regola la parola viene intesa più in rife-
rimento alla prima possibilità che alla seconda. E al primo significato si
riattacca la cosiddetta « teoria critica della società » svolta da Horkheimer,
Adorno e Marcuse (e specialmente da quest’ultimo) che si è concentrata
soprattutto sulla critica disso- lutrice della società contemporanea. «La
teoria critica della società, ha scritto Marcuse, non pos- siede concetti che
possano gettare un ponte tra il presente e il futuro, non offre promesse e non
mostra successi, rimane negativa» (One Dimensional Man). Ed ancora: « Se oggi
abba- stanza determinato, sicchè vi sono casi nei quali sembra impossibile
decidere se essa è applicabile o meno. Così la parola lontano è V. perchè ci
sono casi nei quali è impossibile decidere se si può par- lare di lontananza o
meno; mentre non è V. l’espres- sione « distante trenta chilometri ». Peirce ha
dato del termine la definizione seguente: « Una propo- sizione è V. quando sono
possibili stati di cose, riguardo ai quali chi parla, anche contemplandoli,
sarebbe intrinsecamente incerto se siano affermati o negati dalla proposizione.
Con intrinsecamente incerto intendiamo parlare di ciò che è dubbio, non per
l’ignoranza di chi interpreta, ma per l’in- determinazione del linguaggio di
chi parla» (in BALDWIN, Dictionary of Philosophy, Il, pag. 748). La vaghezza
non va identificata nè con l’ambiguità nè con la generalità. B. Russell ha
tuttavia insistito sulla difficoltà di distinguere ciò che è V. da ciò che è
generale, inclinando per una interpretazione soggettiva dell’incertezza
inerente a ciò che è V. (Analysis of Mind, 1921, pag. 184). Max Black ha dato
un'analisi esauriente della nozione di V. suscitando una feconda discussione in
proposito {Vagueness in Language and Philosophy, 1952, cap.II; nella traduzione
italiana del libro Vagueness è reso con /ndeterminatezza). VAISESIKA. Uno
dei-principali sistemi filo- sofici dell’India antica, la cui fondazione è
attri- buita a un bramano detto Kanada, che sostenne una specie di atomismo,
considerando la materia formata di elementi indivisibili e caratterizzata da
sei determinazioni fondamentali: la sostanza, la qualità, il movimento, la
generalità, la particolarità e l’inerenza. Il sistema ammette pure l’esistenza
delle anime, dimostrata per inferenza dall’impos- sibilità di attribuire al
corpo eventi come la cono- scenza, il piacere, l’amore, ecc.; e l’esistenza di
Dio considerato come la causa e il regolatore del Karman (Tucci, Storia della
filosofia indiana). VALENZA (ingl. Valency; franc. Valence; ted. Wertheit). Il
corrispondente oggettivo o noe- matico del valore, secondo Husserl. Dice Husserl:
«Da un lato parliamo della semplice cosa che è valevole, ha il carattere di
valore, ha la V.; dall’altro parliamo degli stessi valori concreti o della
ogget- tività di valore» (/deen, I, $ 95). Peirce aveva stabilito un’analogia
tra le proprietà delle proposizioni e la V. chimica (Coll. Pap.). VALIDITÀ
(ingl. Validity; franc. Validité; ted. Giltigkeit). 1. L’universalità
soggettiva (v. UNI- VERSALITÀ, 2): nel qual senso è valido ciò che è (o
dev'essere) riconosciuto da tutti vero, buono, bello, ecc. 2. La conformità a
regole di procedura sta-bilite o riconosciute. In tal senso si dice valida
un’inferenza, se conforme alle regole della logica, o una legge se è conforme
alle regole costituzionali; o una sentenza se è conforme alle leggi, o un
ordine se è dato dalla persona cui spetta darlo e nelle forme stabilite dalle
regole. La V. in questo senso dev'essere tenuta distinta dai valori di verità,
di giustizia, ecc. Difatti un’inferenza valida, cioè effet- tuata in conformità
delle regole logiche non è un’in- iaggio è valido per effettuare un certo
percorso; o una certa organizzazione è valida per certe funzioni, ecc. 4. Più
particolarmente e limitatamente al do- minio della logica, Carnap ha proposto
di chia- mare valido l’enunciato (o la classe degli enunciati) che è la
conseguenza di una classe nulla di enunciati; e contro-valido l’enunciato di
cui ogni enunciato può essere conseguenza. I due termini in questo senso stanno
rispettivamente per analitico e con- tradditorio (The Logical Syntax of Language,
$ 48). Analogamente Quine ha proposto di chiamare valido uno schema logico che
rimane vero quale che sia l’interpretazione che si da ai suoi simboli. Per es.,
lo schema p > pè uno schema valido; mentre lo schema p. 7 è coerente ma non
è valido perchè è vero solo quando p è interpretato come vero e qg come falso
(Methods of Logic). V. in questo senso non significa altro che analiticità o
verità logica. VALORE (gr. &Ela; lat. Aestimabile; inglese Value; franc.
Valeur; ted. Wert). In generale, ciò che dev'essere oggetto di preferenza o di
scelta. Fin dall’antichità la parola fu usata a indicare l’utilità o il prezzo
dei beni materiali e la dignità o il merito delle persone; ma quest’uso non ha
alcun signi- ficato filosofico perchè non ha dato origine a pro- blemi
filosofici. L'uso filosofico del termine comincia soltanto quando il suo
significato viene generaliz- zato per indicare qualsiasi oggetto di preferenza
o o di scelta; e ciò accadde per la prima volta con gli Stoici i quali
introdussero il termine nel dominio dell’etica e chiamarono V. gli oggetti
delle scelte morali. Ciò accadde perchè essi intendevano il bene in senso
soggettivo (v. BENE, 2) e potettero così considerare i beni e i loro rapporti
gerarchici come oggetti di preferenza o di scelta. Per V., in generale, essi
intesero «ogni contributo a una vita conforme a ragione » (Dro. L., VII, 105);
0, come dice Cicerone, « ciò che è conforme alla natura o ciò che è degno di
scelta (selectione dignum)» (De Fin., III, 6, 20). Per ciò che è conforme a VALORE
natura, intendevano ciò che dev’essere scelto in tutti i casi cioè la virtù;
per ciò che è degno di scelta, intendevano i beni da preferirsi come l’ingegno,
l’arte, il progresso, fra le cose spirituali; la ricchezza, la fama, la salute,
la forza, la bellezza fra le cose corporee; la ricchezza, la fama, la nobiltà
fra le cose esterne (Diog. L.). La divisione tra V. obbligatori e V.
preferenziali sarà più tardi espressa come quella tra V. intrinseci o finali e
valori estrinseci o strumentali. La ripresa della nozione nel mondo moderno si
ha soltanto con la ripresa della nozione soggettiva del bene: il che accade con
Hobbes. «Il V. di un uomo, egli dice, è, come quello di tutte le altre cose, il
suo prezzo, ciò che potrebbe esser pagato per l’uso della sua facoltà: quindi
non è assoluto, ma dipende dal bisogno e dal giudizio di un altro. Un abile
condottiero di soldati è di gran prezzo in tempo di guerra presente o
imminente, ma non in pace» (Leviath., I, $ 10). Tuttavia la nozione di V.
soppiantò la nozione di bene nelle discussioni morali solo nel sec. xrx; ed
anche in questa occa- sione ciò avvenne per una estensione del signi- ficato
economico del termine, che intanto era stato assunto a fondamento della scienza
economica (v. EcoNOMIA POLITICA). Kant aveva identificato il bene con il V. in
generale: «Ognuno, egli diceva, chiama bene ciò che apprezza ed approva cioè
ciò in cui c’è un V. oggettivo» e aggiungeva che il bene in questo senso è tale
per tutti gli esseri ragionevoli (Crit. del Giud.). Egli tuttavia limitava la
parola V. a designare il bene obiettivo, escludendone il piacevole e il bello.
L'estensione del termine a indicare non solo il bene ma anche il vero ed il
bello fu dovuta ai kantiani e in primo luogo all'indi- rizzo psicologistico del
kantismo. Polemizzando contro lo stesso Kant, Beneke affermava che la moralità
non può determinare una legge universale della condotta, ma può e deve
determinare l'ordine dei V. che devono essere preferiti nelle scelte in-
dividuali; i V. stessi poi sono determinati dal sentimento (Grundlinien der
Sittenlehre, 1837, I, pag. 231 sgg.); Grundlinien des Naturrechtes). Questo
orientamento dell’etica verso i V., in filosofi che si ispiravano a Kant, è
dovuto indubbiamente all’indirizzo psicologistico, che ha come suo corollario
la nozione soggetti- vistica del bene. Ma fu soprattutto Windelband a parlare,
nei saggi che furono poi raccolti in Preludi (1884), di un « V. di verità » e
di un «V. di bellezza » oltre che di un « V. di bene ». Alla diffu- sione del
concetto e del termine di V. contribuì potentemente Nietzsche con le sue opere
fondamen- tali Jenseits von Gut und Bòse (1886) e Zur Genea- logie der Moral.
Approssimativamente da questi anni, il concetto di V. diventa uno dei concetti
fondamentali della filosofia e le discussioni intorno ad esso esauriscono quasi
totalmente il campo dei problemi morali. Ed a partire dalla stessa data tende a
riprodursi, nel campo della teoria dei V., una divisione analoga a quella che
aveva caratterizzata la teoria del bene: la divisione tra un concetto
metafisico o assolu- tistico e un concetto empiristico o soggettivistico del V.
stesso. Il primo attribuisce al V. uno status metafisico, che è completamente
indipendente dai rapporti del V. con l’uomo. Il secondo considera il modo d’essere
del V. in stretto rapporto con l’uomo o con le attività o il mondo umano. La
prima concezione è animata dall’intento di sottrarre il V., o meglio
determinati valori e i modi di vita che su di essi si fondano, al dubbio, alla
critica e alla negazione: un intento che appare puerile, se si pensa che il V.
più saldamente ancorato nelle coscienze degli uomini e che suscita le maggiori
passioni è anche il V. più mutevole e relativo, tale che talvolta i filosofi
pudicamente si rifiutano di considerarlo autentico: il V.-denaro. La prima
concezione deve, da un lato, insi- stere sulla connessione del V.con l’uomo e
dall’altro, sull’indipendenza del V. stesso. La prima determi- nazione è
difatti costitutiva del V. e segna la sua caratteristica differenziale nei confronti
del bene tradizionalmente inteso. La seconda determinazione mira a garantire al
V. la sua assolutezza. Il concetto kantiano dell’a priori sembrava possedere
entrambe queste determinazioni: perciò da Windelband e Rickert il concetto di
V. fu elaborato in relazione con quello di a priori. Per Windelband, il V. è il
dover essere di una norma che può anche non avere realizzazione in linea di
fatto, ma che è la sola che può dare verità, bontà e bellezza alle cose
giudicabili (Pràludien, 4* ediz., 1911, II, pa- gina 69 sgg.). I V. in questo
senso non sono cose o super-cose, non hanno realtà o essere, ma il loro modo
d'essere è il dover essere (sollen). Rickert ripete questo punto di vista e
ribadisce che l’essere dei V. non consiste nella loro realtà ma nel loro dover
essere. Tuttavia i V. si trasfor- mano, nella trattazione di Rickert, in realtà
tra- scendenti. Rickert distingue sei domini del V.: la logica, l'estetica, la
mistica (che è il dominio della santità impersonale), l'etica, l’erotica (che è
il dominio della felicità), e la filosofia religiosa. A ciascuno di questi
domini corrisponde un bene (scienza, arte, uno-tutto, comunità libera, comunità
d’amore, mondo divino), una relazione al soggetto (giudizio, intuizione,
adorazione, azione autonoma, unificazione, devozione) e infine una determinata
intuizione del mondo (intellettualismo, estetismo, misticismo, moralismo,
eudemonismo, teismo © politeismo) (System der Philosophie 1921). La 909
mediazione tra la realtà e i V. è poi chiarita da Rickert con il concetto del
senso (Sinn): il senso è il riferimento della realtà, o di una parte della
realtà, al mondo dei V. e attraverso di esso i V. si calano nella storia e sono
realizzati dall’uomo (System der Philosophie, I, pag. 319 sgg.). Teorie dei V.
molto simili a questa venivano elaborate dal tedesco ame- ricano Ugo
Miinsterberg in una Philosophie der Werte, del 1908, dall’americano W. M. Urban
(Va- luations: its Nature and Laws, 1919; The Intelle- gible World, 1920),
dall’italiano Guido della Valle (Teoria generale e formale del V., 1916) e da
numerosi altri scrittori. Tutte queste dottrine si lasciano sfug- gire il
problema che è alla radice della loro im- postazione o presentano di esso
soluzioni illusorie. Da un lato, infatti, riconoscono che il V. è in qualche
modo presente all'uomo o alle attività umane o al mondo umano di cui
costituisce la norma o il dover essere; dall’altro, esigono che esso sia
indipendente da ogni riconoscimento o vicenda umana e che possegga uno status
indifferente ri- spetto al mondo umano. Al V. si tendono ad attri- buire, in
queste teorie, i caratteri dell'essere perfetto: l’unità, l’universalità,
l'eternità, di fronte alla mol- teplicità, particolarità e mutevolezza delle
mani- festazioni empiriche di cui dovrebbero costituire la regola. Ma
dall’altro lato, come regole di tali mani- festazioni, essi debbono avere con
esse un rapporto essenziale, senza il quale non potrebbero servire nè a
giudicarle nè a dirigerle. Il concetto kantiano dell’a priori trascendentale
non si era rivelato efficace come modello per una soluzione di questo problema.
Un altro tipo di soluzione fu cercato affidando l’intuizione del V. a una
esperienza sui generis, di natura sentimentale. Il sentimento è, secondo
Scheler, «una forma di esperienza i cui oggetti sono completamente inac-
cessibili all’intelletto, che è cieco nei loro riguardi come l’orecchio e
l’udito nei riguardi dei colori »; questa forma di esperienza ci presenta
autentici oggetti disposti in un ordine eterno gerarchico, che sono i V. (Der Formalismus
in der Ethik, 3* ediz., 1927, pag. 262). In altri termini, il V. è l’oggetto
intenzionale del sentimento come la realtà è l’oggetto intenzionale del
conoscere; e questo oggetto è appreso nel suo rapporto gerarchico con gli altri
oggetti della stessa specie. L'’intuizione sentimentale del V. è anche un atto
di scelta prefe- renziale: scelta preferenziale che segue la gerarchia
oggettiva dei valori, costituita da quattro gruppi fondamentali: V. del
gradevole e dello sgradevole, corrispondenti alla funzione del godere e del
sof- frire; V. vitali, corrispondenti ai modi del sentimento vitale (salute,
malattia, ecc.), V. spirituali cioè estetici e conoscitivi; e V. religiosi.
Questa soluzione di Scheler faceva tuttavia ri- sorgere, nel dominio dell’intuizione
fondamentale, quella stessa antinomia che caratterizzava l’inter- pretazione
neocriticista o trascendentale del valore. E questa antinomia veniva
addirittura assunta come caratterizzazione del V. nella dottrina di Nicolai
Hartmann. Hartmann da un lato afferma che i V. sono tali solo rispetto
all’essere del soggetto e riconosce pertanto la relazionalità (non relatività)
di essi (Erhik, 3° ediz., 1949, pag. 141). Dall’altro afferma che i V. hanno un
«essere in sè» indi- pendente dalle opinioni del soggetto e costituiscono
autentici oggetti che, sebbene non siano reali come gli oggetti delle scienze
naturali, hanno un modo d’essere altrettanto immutabile ad assoluto (/bid.,
pag. 153). Con terminologia diversa perchè di natura teologica ma analoga, gli
stessi due aspetti anti- nomici del V. sono stati espressi da R. Le Senne
dicendo che il V. è un Dio-con-noi: come Dio è unico e trascendente, come
con-noi è in rapporto con l’uomo e capace di guidarlo (Obstacle et valeur,
1934, pag. 220 sgg.). 2° La fortuna del termine V. nel mondo mo- derno è dovuta
in buona parte all’opera di Nietzsche e allo scandalo che egli suscitò con la
pretesa di invertire i valori tradizionali. Nietzsche dichiarava di puntare le
sue speranze « verso spiriti forti e abbastanza indipendenti da dare impulso a
giudizi di V. opposti, da riformare e invertire i valori eterni: verso
precursori o uomini dell'avvenire che nel presente formino il nodo che
costringerà la volontà dei millenni ad aprire nuovi sentieri, ecc.» (Jenseits
von Gut und Bòse, $ 203). L’inversione dei V. tradizionali, ironizzati come «
V. eterni », fu ritenuta da Nietzsche il compito della sua filosofia (Ecce
Homo, $ 4). E questa inversione consisteva sostan- zialmente nel sostituire ai
V. della morale cristiana fondata sul risentimento (v.) quindi sulla rinuncia e
sull’ascetismo, i V. vitali che nascono dall’affer- mazione della vita cioè
dalla sua accettazione dio- nisiaca (Genealogie der Moral, I, $ 10). Questa
concezione di Nietzsche è stata considerata come un relativismo dei V. e come
tale è stata il ter- mine polemico di riferimento di tutte le dottrine
assolutistiche. In realtà vi sono scarse tracce, in Nietzsche, di una
relatività dei V.: il suo intento è piuttosto quello di ripristinare la tavola
autentica dei V., che è quella dei V. vitali, al posto dei V. fittizi che la
morale del risentimento ha fatto propri. La tesi autentica di Nietzsche è
quella dello stretto rapporto dell'essere del V. con l’uomo sicchè non c'è V.
che non sia una possibilità o un modo d’essere dell’uomo stesso. È questa la
tesi caratteristica dell’interpretazione che abbiamo detto empiristica o
soggettivistica del valore. Meinong fu il primo a ripresentare esplicitamente
questa tesi riducendo il V. di un oggetto alla sua « forza di motivazione »
«Uber Werthaltung und Wert» in Archiv fiîr syste- matische Philosophie, 1895,
pag. 341). Ehrenfels osservando che in base a questa definizione posse-
derebbero V. solo gli oggetti esistenti, definiva il V. come semplice
«desiderabilità» (System der Werttheorie, I, 1897, pag. 53). Questa definizione
di Ehrenfels è importante giacchè introduce per la prima volta esplicitamente,
nella nozione di valore, la connotazione della possibilità. V. non è la cosa
desiderata, ma l’oggetto desiderabile: non è cosa nel senso che non è
necessariamente un oggetto reale, non è desiderato perchè semplicemente può
esserlo. Non diverso significato ha la definizione del V. che alcuni anni più
tardi dava R. B. Perry, dicendo che « ogni oggetto, qualunque sia, acquista V.
quando è investito da un interesse qualsiasi » (General Theory of Value, 1926,
2% ediz., 1950, pag. 116): l’interesse infatti, a differenza del desi- derio, è
soltanto una possibilità. Proprio sul dominio di questa concezione del V.
nasceva il relativismo dei valori e nasceva nel seno dello storicismo cioè
della considerazione del rap- porto tra i V. e la storia. Per la prima volta,
il re- lativismo dei V. è stato difeso da Dilthey. « La storia, diceva Dilthey,
è essa medesima la forza produttiva delle determinazioni di V., degli ideali,
degli scopi in base ai quali si determina il signi- ficato di uomini e di
avvenimenti» (Gesammelte Schriften, VII, pag. 290). I V. e le norme pertanto
nascono e muoiono nella storia e non sussistono al di fuori o al di sopra del
corso di essa (/bid., pag. 290). Ancora più esplicitamente il relativismo dei
V. nei confronti della storia fu affermato da Simmel. Partendo dal
riconoscimento della rela- tività del V. economico, Simmel giunse al ricono-
scimento della relatività di ogni V.: il V. non è mai un’entità oggettiva ma la
sua oggettività deriva soltanto dalla correlazione tra soggetto e oggetto. Non
sussistono pertanto V. assoluti; e sono V. solo quelli che in condizioni
determinate gli uomini riconoscono come tali. La sfera dei V. si distingue da
quella della realtà, non in base a un proprio staerus ontologico, ma per una
qualifica- zione categoriale, che può investire qualsiasi og- getto
(Philosophie des Geldes, 1900, I, $ 1). Lo storicismo tedesco tuttavia non fu
unanime nel riconoscere questa relatività; la considerò sempre come un pericolo
ma talvolta volle evitarla. Fu Troeltsch il primo a formulare chiaramente l’an-
titesi tra relatività storica e assolutezza dei V. e nello stesso tempo a
cercare di recuperare questa assolutezza nell’ambito stesso dello storicismo.
La soluzione che egli dette all’antitesi è la coincidenza tra i due termini
antinomici: ogni punto della storia è in rapporto diretto con la sfera dei V.
assoluti VARIAZIONI CONCOMITANTI, METODO DELLE e contiene in sè tali V., senza
relativizzarli alla propria mutevolezza (Der Historismus und seine Probleme,
1922, Gesammelte Schriften, III, pag. 211). Allo stesso modo Meinecke affermava
che della storia è costitutiva la relazione con l'Assoluto ma che questa relazione
va dall’infinito al finito e non viceversa: sicchè mentre la storia trova il
suo fon- damento nei V. che realizza, il modo d’essere di questi V. è
irreducibile alla relatività storica e conserva la sua validità incondizionata
(Die Enr- stehung des Historismus, 1936, II, pag. 645). della storia stessa.
Max Weber, pur insistendo sulla pluralità dei V. e delle sfere di V. vedeva
nella storia, non un’incessante creazione dei V. ognuno relativo a un fuggevole
momento di essa, nè un rapporto fuggevole con V. assoluti, ma una lotta tra V.
diversi offerti alla scelta del- l’uomo (Gesammelte Politische Schriften, pag.
63; cfr. Pietro Rossi, Lo Stforicismo tedesco contem- poraneo, pag. 367 sgg.).
Lo stesso riconoscimento delle molteplicità dei V. e dell’importanza della
scelta, che continuamente tale molteplicità esige da parte dell’uomo, si trova
in Dewey che, appunto per questo, ha definito la filosofia come « critica dei
V. »: «La confusione che tutte le teorie del V. hanno fatto, dice Dewey, tra
una determinata posizione nel rapporto causale o successivo e il V. vero e
proprio, è un’indiretta testimonianza del fatto che ogni valutazione
intelligente è anche critica, cioè giudizio, della cosa che ha V. immediato.
Ogni teoria del V. è necessariamente un ingresso nel campo della critica»
(Experience and Nature, 1926, pag. 397). Ma la critica dei V. in questo senso
non è altro che la disciplina intelligente delle scelte umane. Tale disciplina
implica in primo luogo la considerazione del rapporto che c’è tra mezzi e fini,
sicchè non si può giudicare sui fini se non giudicando nello stesso tempo sui
mezzi che ser- vono a conseguirli (Theory of Valuation, 1939, pag. 53).
Dall’altro lato difficilmente la critica dei V. potrebbe essere efficacemente
istituita senza tener conto di un altro aspetto dei V. sul quale ha
specialmente insistito R. Frondizi: la connes- sione tra V. e situazione. «
L’organizzazione eco- nomica e giuridica, ha detto Frondizi, i costumi, la
tradizione, le credenze religiose e molte altre forme di vita che trascendono
l’etica, contribui scono a configurare determinati valori che invece sono
affermati come esistenti in un modo estraneo alla vita dell’uomo. Sebbene il V.
non possa de- rivarsi esclusivamente da elementi di fatto, non può neppure
prescindere da ogni connessione con la realtà. Una simile separazione condanna
chi la ese- guisce a mantenersi sul piano disincarnato delle essenze » (Qué son
los valores?, 1958, pag. 127). Gli studi contemporanei, impiantati su questo
pre- supposto negativo, hanno messo in luce i punti seguenti: 1° Il V. non è
semplicemente la preferenza o l’oggetto della preferenza stessa ma è piuttosto
il preferibile, il desiderabile, l’oggetto di un’antici- pazione o di un’attesa
normativa (confronta DEWEY, The Field of Value, in Value: a Cooperative In-
quiry, ed. Ray Lepley, 1949,
pag. 68; CLYDE KLUCKONN e altri, in Toward a General Theory of Action, ed. Parsons e Schils, 1951, pag. 422). 2° Dall'altro lato
esso non è un mero ideale da cui le preferenze o le scelte effettive possano
completamente o quasi completamente prescindere, ma è piuttosto la guida o la
norma (non sempre seguita) delle scelte stesse e in ogni caso il loro criterio
di giudizio (cfr. C. MoRrRIs, Varieties of Human Value, 1956, cap. I). 3°
Conseguentemente la migliore definizione di esso è quella che lo considera come
una possi- bilità di scelta cioè come una disciplina intelligente delle scelte,
che può condurre ad eliminarne al- cune o a dichiararle irrazionali o dannose,
e può condurre (e conduce) a privilegiarne altre, pre- scrivendone la
ripetizione ogni volta che certe condizioni si verifichino. In altri termini,
una teoria del V., come critica dei V., tende a deter- minare le autentiche
possibilità di scelta cioè quelle scelte che, potendosi sempre ripresentare
come possibili nelle stesse circostanze, costitui- scono la pretesa del V. alla
universalità e alla per- manenza. VANITÀ (ingl. Vanity; franc. Vanité; tedesco
Eitelkeit). 1. Nullità. In questo senso la parola è adoperata frequentemente
dalla Bibbia (cfr. Ec- clesiaste, I, 2: «V. delle V., disse l’Ecclesiaste; V.
delle V. e tutto è V.»). 2. Ambizione meschina, vanagloria, egocentri- smo
(v.). VARIABILE. V. COsTAnTE. VARIAZIONI CONCOMITANTI, ME- TODO DELLE (ingl. Method of Concomi- 912 tant
Variations; franc. Méthode des variations con- comitantes; ted. Methode der einander begleitenden Veranderungen).
Così J. Stuart Mill chiamò uno dei metodi induttivi già illustrati da Herschel
(A Discourse on the Study of Natural Philosophy, $ 145) e che si esprime con la
seguente regola: « Qualunque fenomeno che varii in qualsiasi ma- niera ogni
volta che un altro fenomeno varia in qualche particolare maniera, è una causa o
un effetto di questo fenomeno o è connesso con esso mediante qualche fatto di
causazione » (Logic, III, VIII, $ 6). Le altre regole dell’induzione sono il
metodo della concordanza, il metodo della diffe- renza e il metodo dei residui,
sui quali vedi le rispettive voci. VEDANTA (ingl. Vedanta; franc. Vedénta; ted.
Vedéînta). Uno dei grandi sistemi filosofici dell’India antica, che è stato
codificato nei Brahma- sutra o Vedantasutra attribuiti a Badarayana (forse m
secolo d. C.). Il principio del sistema è il Brahman o Atmann, riconosciuto
come unica realtà: il mondo è considerato come apparenza ingannevole, maya.
Nell’ambito di questo sistema, Sankara supponeva che l’io individuale è
identico con il Brahman o Atmann, mentre Ramanuja elaborava un sistema teistico
distinguendo dal Brahman sia il mondo creato sia le anime indi- viduali (Das
GuPTA, A History of Indian Philo- sophy, 1932-55, III; G. Tucci, Storia della
filosofia indiana, 1957, pag. 136 sgg.). VEDUTA. V. INTUIZIONE. VEICOLO SEGNICO
(ingl. Sign Vehicle). Uno dei quattro componenti del procedimento segnico
(assieme al designato, all'interpretante e all’interprete) secondo Morris; e
precisamente l’og- getto o cosa che funziona da segno (Founda- tions of the
Theory of Signs, 1938, $ 2) (vedi SEGNO). VELLEITÀ (ingl. Velleity; franc.
Velléité; te- desco Velleitàt). Sforzo impotente o mal riuscito. Il termine
ricorre in Locke che indica con esso «la gradazione più bassa del desiderio,
quella che è più vicina a non esistere affatto» (Saggio, II, 20, 6). Con senso
analogo, il termine ricorre in Leibniz che intende per esso «una specie assai
imperfetta di volontà condizionale» cioè di una volontà che si impegnerebbe, se
potesse, ma non può (Théod., III, 404). Questa notazione è assai più vicina al
significato moderno del termine. Ed è d’altronde il significato più antico. S.
Tommaso intendeva per V. una volontà antecedente, che può essere o rimanere
sospesa, come la volontà del giudice che vorrebbe che il reco vivesse, in
quanto è uomo, ma che tuttavia desidera che sia impiccato (S. TA., I, q. 19, a.
6, ad. 1°). VENDETTA. V. TAGLIONE. VEDANTA VERACITÀ (ingl. Truthfulness; franc.
Véra- cité; ted. Wahrhaftigkeit). 1. Carattere di un di- scorso che esprime la
convinzione di chi lo pro- nuncia e che pertanto non può essere fonte di
inganni in chi ascolta. Locke chiamava la V. in questo senso «verità morale» e
la distingueva dalla verità « metafisica » che è la conformità delle idee alle
cose (Saggio, IV, 5, 11). Ma Leibniz adoperava a questo proposito la parola V.
(Nour. Ess., IV, 5, 11). 2. Talvolta si intende per V. la sincerità, che è una
qualità, non del discorso, ma della persona che tiene abitualmente discorsi
veraci. In questo senso Cartesio aveva parlato della « V. divina », affermando
che Dio non può ingannarci nel senso che non può essere causa di errori
(Medit.). VERBALISMO (verbalism, verbalisme). Un’espressione verbale di scarso
o impreciso significato; o la tendenza a valersi di tali espressioni.
Un’espressione verbale. VERBO. V. Logos. VERBO (gr. &îua; lat. Verbum;
ingl. Verb; franc. Verbe; ted. Zeitwort). Come parte del di- scorso, il V. fu
definito da Aristotele come «il nome che ha nel suo significato, una determina-
zione temporale, le cui parti non significano nulla separatamente e che è il
segno delle cose che sono predicate di un’altra cosa (De Int.). Questa
definizione è conservata dalla logica medievale (cfr. Pietro Ispano, Summ.
Log.). Nella linguistica moderna, la distinzione tra nome e verbo è diventata
assai meno importante giacchè, per quanto comune a molti linguaggi, essa manca
in certi altri (BLOOMFIELD, Language). VERIDICO (veridical, véridique, wahrhaftig).
Veridico è lo stesso che verace o vero (v. VERACITÀ). Veridico è ciò che
contiene una parte o un accenno di verità. Per es., «sogno veridico», «
allucinazione veridica», ecc. VERIFICA, VERIFICABILITÀ. V. VERIFICAZIONE.
VERIFICAZIONE (verification, vérification, verifikation. VERIFICAZIONE è, in
generale, ogni procedimento che consenta di stabilire la verità o la falsità di
un enunciato qualsiasi. Poichè i gradi e gli strumenti della verificazione
possono essere innumerevoli, il termine ha una portata generalissima e indica
la messa in opera di qualsiasi pro- cedimento di attestazione o di prova (v.).
Il ter- mine può anche essere usato per indicare il controllo di una situazione
qualsiasi in base a regole o a strumenti adatti; e in tal senso si parla di
verificare i conti o i gradi di un angolo o l’autenticità di certi documenti,
ecc.: procedure che in italiano si VERITÀchiamano più semplicemente verifiche
(termine che no va riscontro nelle altre lingue). In questo senso generale, il
termine viene adoperato anche senza riferimento all’esperienza o ai fatti; e si
può parlare di V. di un’espressione matematica o di un enunciato analitico
della logica come della V. di un enunciato fattuale o di un'ipotesi scien-
tifica. Dall'altro lato, la nozione di V. viene talora estesa nel senso di
includere in essa non solo il procedimento che consente di stabilire la verità
o falsità di un enunciato, ma anche quello che con- sente di stabilire la
verità, la falsità o l’indeter- minazione dell’enunciato stesso: cioè in
riferimento a una logica a tre valori piuttosto che a due (con- fronta
REICHENBACH, «The Principle of Anomaly in Quantum Mechanics», 1948, in Readings
in the Phil. of Science, 1953, pag. 519-20). 2. In senso ristretto e specifico,
la V. concerne gli enunciati fattuali ed è un procedimento che fa appello
all’esperienza o ai fatti. Proprio in questo senso la V. è stata assunta
dall’empirismo logico (v.) come criterio del significato delle propo- sizioni:
criterio che il Circolo di Vienna (v.) inter- pretava nella forma più rigorosa,
dichiarando privi di senso tutti gli enunciati che non si pre- stassero ad
un’assoluta verifica empirica. Questo punto di vista veniva espresso con tutto
rigore da Carnap nella sua opera Der /ogische Aufbau der Welt (1928). La
possibilità di una verifica assoluta fu però negata, nell’ambito dello stesso
Circolo di Vienna da K. Popper (Logik der Forschung) e in seguito da Lewis («
Experience and Meaning» in Philosophical Review, 1934) e da Nagel (in Journal
of Philosophy, 1934). Sicchè Carnap stesso modificava il suo punto di vista e
in un saggio del 1936 (« Testability and Meaning », ora in Readings in the
Phil. of Science, 1953, pa- gine 47-92) parlava, invece che di V., di conferma
(confirmation) degli enunciati. Dove una V. com- pleta non è possibile (e non è
possibile quasi mai nel dominio della scienza) il principio della verifi-
cabilità esprime l’esigenza di una conferma gra- dualmente crescente (Ibid,
pag. 49). Da questo punto di vista l’accettazione o il rifiuto di un enun-
ciato fattuale contiene sempre una componente convenzionale, che consiste nella
pratica decisione che si deve prendere per considerare il grado di conferma di
un enunciato come sufficiente per l'accettazione dell’enunciato stesso. Questo
punto di vista è oggi estesamente accettato. 3. Per ciò che concerne la
procedura della V. fattuale, poco è stato finora detto dai filosofi.
Reichenbach ha diviso questo procedimento in due fasi che sono: 1°
l’introduzione di una classe fondamentale O di enunciati osservazionali cioè di
significati primitivi o diretti, che non sono sotto 58 — ABHAGNANO, Dizionario
di filosofia.indagine durante il corso dell’analisi; 2° un insieme di relazioni
derivative (o regole di trasformazione) D che consentono di connettere alcuni
termini con le basi O. Dopo aver definito, per un’indagine specifica, sia la
base O che le relazioni derivative D, il termine « verificato » può essere
definito come «l’esser derivato dalla base O in termini delle relazioni D+. A
questa descrizione Reichenbach aggiunge una determinazione importante: la con-
dizione del significato non è la V. attuale ma la V. possibile (senza la quale
gli enunciati storici per es., non avrebbero significato); perciò la no- zione
di verifica suppone quella di possibilità e Reichenbach distingue a questo
proposito la pos- sibilità /ogica, la possibilità fisica e la possibilità
tecnica e distingue corrispondentemente tre specie di significati «
Verifiability Theory of Meaning», in Proceedings of the American Academy of
Arts and Sciences). La teoria della V. si lega così strettamente alla nozione
della possibilità (v.). VERISIMILE (gr.
elx6c; lat. Verisimilis; inglese Likely; franc. Vraisemblable; ted. Wahrschein-
lich). 1. Ciò che è simile al vero, senza avere
la pre- tesa di essere vero (nel senso, ad es., di rappresen- tare un fatto o
un insieme di fatti). Pertanto un racconto, ad es., un romanzo o una tragedia,
può essere V. senza essere minimamente probabile, senza che ci sia alcuna
probabilità che i fatti che narra si siano verificati o si verifichino. In tal
senso, il concetto del V. è stato adoperato costantemente nel dominio
dell’estetica da Aristotele in poi. « Nar- rare cose effettivamente accadute,
diceva Aristotele, non è compito del poeta ma piuttosto quello di rappresentare
ciò che potrebbe accadere cioè le cose possibili secondo verisimiglianza o
necessità + (Poer., 9, 1451 a 36). In questo senso il V. è il carattere di
enunciati, teorie o espressioni che non contraddi- cono alle regole della
possibilità logica o a quelle delle possibilità tecniche o umane. Una vicenda
umana immaginata è V. se essa viene giudicata conforme al comune comportamento
degli uomini o trova spiegazioni o appigli in tale comportamento. 2. Lo stesso
che persuasivo (v.) o probabile (v.). Popper ha tuttavia distinto la
verisimiglianza (Ve- risimilitude) dalla probabilità, perchè mentre que-
st’ultima rappresenta l’idea di un avvicinamento alla certezza logica o alla
verità tautologica attra- verso una diminuzione graduale del contenuto in-
formativo, la verisimiglianza rappresenta l’idea del- l’avvicinamento alla
verità comprensiva e così combina verità e contenuto, mentre la probabilità
combina verità e mancanza di contenuto (Con- jectures and Refutations, 1965,
pag. 237). VERITÀ (gr. &xH0ew; lat. Veritas; ingl. Truth; franc. Vérité;
ted. Wahrheit). La validità o l’effi- cacia dei procedimenti conoscitivi. Per
V. s'intende infatti in generale la qualità per cui una procedura conoscitiva
qualsiasi risulta efficace o ha successo. Questa caratterizzazione si può
applicare ugualmente sia alle concezioni che vedono nella conoscenza un
processo mentale sia a quelle che vedono in essa un processo linguistico o
segnico. Essa ha pure il vantaggio di prescindere dalla distinzione tra defi-
nizione della V. e criterio della verità. Questa di- stinzione non viene
effettuata sempre, e neppure è frequente; quando viene effettuata, non è altro
che l’assunzione di due definizioni della V. stessa. Per es., nell’ambito della
teoria della corrispon- denza, quando si distingue da essa il criterio della
V., lo si definisce come evidenza ricorrendo al con- cetto di V. come
rivelazione. E la dottrina della V. come conformità a una regola, presentata da
Kant come criterio formale, accanto al concetto della V. come corrispondenza,
diventa poi una definizione della V. stessa. Si possono distinguere cinque
concetti fondamen- tali della V.: 1° la V. come corrispondenza; 2° la V. come
rivelazione; 3° la V. come conformità a una regola; 4° la V. come coerenza; 5°
la V. come utilità. Queste concezioni hanno avuto un’impor- tanza assai diversa
nella storia della filosofia: le prime due, e specialmente la prima, sono
incom- parabilmente le più diffuse. Esse non sono nep- pure alternative tra
loro: cioè accade che più d’una di esse si ritrova nello stesso filosofo, per
quanto adoperata a diverso proposito. Sono tut- tavia disparate e irriducibili
l’una all’altra, perciò vanno tenute distinte. 1° Il concetto della V. come
corrispondenza è il più antico e diffuso. Presupposto da molte delle scuole
presocratiche, veniva per la prima volta esplicitamente formulato da Platone
con la defini- zione del discorso vero che dà nel Cratilo: « Vero è il discorso
che dice le cose come sono, falso quello che le dice come non sono» (Crar., 385
b; cfr. Sof., 262 e; Fil., 37c). A sua volta Aristotele diceva: « Negare quello
che è e affermare quello che non è, è il falso, mentre affermare quello che è e
negare quello che non è, è il vero 1 (Mer., IV, 7, 1011 b 26 sgg.; cfr. V, 29, 1024b
25). Aristotele enunciava anche i due teoremi fondamentali di questa concezione
della verità. Il primo è che la V. è nel pensiero o nel linguaggio, non
nell’essere o nella cosa (Mer., VI, 4, 1027 b 25). Il secondo è che la misura
della V. è l’essere o la cosa, non il pensiero o il discorso: sicchè una cosa
non è bianca perchè si asserisce con V. che è tale; ma si asserisce con V. che
è tale, perchè essa è bianca (Mer., IX, 10, 1051 b 5). Nelle precedenti
dottrine la definizione della V. e il criterio di V. coincidono. In altre
dottrine, pur mantenendosi immutata la definizione di V., il criterio di V.
viene ritenuto diverso; così accade nello stoicismo e nell’epicureismo. Stoici
ed Epi- curei continuano ad ammettere che la V. è la cor- rispondenza della conoscenza
alla cosa (SESTO Emp., Adv. Math., VIII, 38; IH, 9) ma ritengono che il
criterio della V. sia diverso, perchè gli Stoici lo vedono nella
rappresentazione caralettica (v.) che è la manifestazione dell’oggetto all'uomo
e gli Epicurei lo vedono nella sensazione, che è, per loro, il manifestarsi
stesso della cosa (Diog. L., X, 31). In tali casi, la distinzione tra la V. e
il cri- terio equivale al riconoscimento di due concetti, rite- nuti
compatibili (o non incompatibili) della verità. La coesistenza di due concetti
di V. d’altronde è tutt'altro che rara. Spesso la teoria della corri- spondenza
si accompagna con quella della V. come manifestazione o rivelazione. S.
Agostino da un lato definisce il vero come « ciò che è così, come appare »
(Solil., II, 5); dall’altro considera come V. «ciò che rivela quel che è, o che
manifesta se stesso » e in tal senso identifica la V. con il Verbum o Logos che
è la prima immediata e perfetta mani- festazione dell’Essere, cioè di Dio (De
Vera Rel., 36). A sua volta S. Tommaso, riprendendo una definizione data da
Isacco Ben Salomon nel se- colo rx, definisce la V. come « l’adeguazione del»
l'intelletto e della cosa» (S. 7h., I, g. 16, a. 2; Contra Gent., I, 59; De
Ver., q. 1, a. 1). Ma mentre conserva rispetto all’uomo il teorema aristotelico
che le cose, e non l’intelletto, sono la misura della V., inverte questo
teorema rispetto a Dio. « L’in- telletto divino, egli dice, è misurante, non
misu- rato; la cosa naturale è misurante e misurata; ma il nostro intelletto è
misurato, non misurante, rispetto alle cose naturali e misurante solo rispetto
a quelle artificiali» (De Ver., q.1, a. 2). Esiste quindi anche una V. delle
cose che è ciò per cui le cose somigliano al loro principio che è Dio; e in
questo senso Dio stesso è la prima e somma V. (S. 7h., I, q. 16, a. 5). Questi
concetti ricorrono frequentemente nella filosofia medievale. Il con- cetto
della V. come corrispondenza viene ampia- mente utilizzato. Pietro Ispano
(Summ. Log., 3.34) Herveus Natalis (Quod!., III, 1), Antonio Andrea (Super
artem veterem, ed. 1508, f. 45r A) conser- vano la dottrina della V. come
conformità dell’in- telletto alla cosa pur polemizzando sul modo d°’es- sere
della cosa o più precisamente degli oggetti cui l’intelletto deve conformarsi.
In generale, nella Scolastica della seconda metà del *200 e in quella del ’300,
si specifica che la « cosa » cui l’intelletto deve conformarsi è la « res
intellecta » cioè la cosa come è appresa dall’intelletto, non esterna all’in-
telletto stesso (cfr. anche DURANDO DI SAINT- POURGAIN, /n Sent., I, d. 19, q.
5). Il concetto del- l’adeguazione o della conformità tuttavia perde, a partire
dal sec. xIv, la sua portata metafisica e teologica per assumere un significato
strettamente logico o, come oggi si direbbe, semantico. L’iden- tificazione
polemica, difesa da Ockham, di « V.» e « proposizione vera » equivale appunto
alla nega- zione del valore metafisico della parola V. (Summa Log., I, 43;
Quodl., V, q. 24). I platonici di Cam- bridge mantengono, per ovvi motivi, il
carattere metafisico e teologico della nozione della corrispon- denza, parlando
di una conformità della cosa con se stessa o con la propria essenza contenuta
nel- l'intelletto divino (cfr. HERBERT DI CHERBURY, De veritate, 1656, pag. 4
sgg.); ma Hobbes insiste sul punto di vista nominalistico della V. come
semplice attributo delle proposizioni (De Corp., 3, $ 7) e così fa Locke
(Saggio); e perfino Leibniz che rigetta la nozione metafisica della V. quale
«attributo dell’essere » e si limita a vedere nella V. «la corrispondenza delle
proposizioni, che sono nello spirito, con le cose di cui si tratta » (Nouv.
Ess., IV, 5, 11). Wolff metteva insieme il concetto della V. come «concordanza
del nostro giudizio con l'oggetto, cioè con la cosa rappre- sentata » (Log., $
505), che egli chiamava defini- zione nominale della V., e la nozione logica
della V. come « determinabilità del predicato mediante la nozione del soggetto»
che egli chiamava de- finizione reale (Ibid, $ 513). Baumgarten ritor- nava
alla nozione di V. metafisica come « ordine del molteplice nell’unità» (Mer., $
89); mentre Kant dichiarava di presupporre semplicemente la « definizione
nominale della V.» come « accordo della conoscenza con il suo oggetto » e si
poneva il problema di trovare un crirerio per la V. stessa. Escluso che fosse
possibile un criterio generale cioè valido per tutte le conoscenze, egli si
fermava sul criterio formale della V. che è la conformità della conoscenza a
proprie regole (Crir. R. Pura, Lo- gica, Intr., III; v. oltre). Questo concetto
della V. come corrispondenza non è mai venuto meno neppure nella filosofia più
recente dalla quale è talvolta assunto come semplice presupposto, tal- volta
esplicitamente difeso. Ciò è accaduto spe- cialmente nelle correnti realistiche
(cfr., per es., BoLzano, Wissenschaftslehre, I, $ 25; A. MEINONG, Ùber
Annahmen, pag. 125 sgg.). Appunto nello spirito del realismo, N. Hartmann ha
difeso la concezione della V. come «coincidenza con un oggetto che deve venire
inteso come tale» (Syste- matische Philosophie, $ 9). L’intero mondo della
conoscenza è inteso da Hartmann come «la rifles- sione dell'essere su se
stesso» (Meraphysik der Erkenntnis, 1921, cap. 27, b). La dottrina della
corrispondenza è quella cui ricorrono anche i logici contemporanei, che cercano
di formularla in modo da renderla indipen- dente da qualsiasi ipotesi
metafisica. Da questo punto di vista la migliore formulazione è stata data alla
teoria da Alfred Tarski, che si è esplici- tamente rifatto, oltre che alla
definizione aristote- lica sopra riportata, anche a definizioni analoghe o
dipendenti da essa, come quella secondo la quale «un enunciato è vero se
designa uno stato di cose esistente» (B. RusseLL, An /nquiry into Meaning and
Truth, 1940, pag. 362 sgg.). Tarski è partito da un’equivalenza di questo
genere: « L’enunciato “la neve è bianca” è vero se, e solo se, la neve è
bianca» per generalizzarla nella formula « X è vero se, e solo se p ».
Utilizzando la nozione seman- tica di soddisfazione intesa come la relazione
tra oggetti arbitrari e certe espressioni chiamate « fun- zioni enunciative»
del tipo «x è bianco» «x è più grande di y», ecc., Tarski ha dato la seguente
definizione della V.: « Un enunciato è vero se è soddisfatto da tutti gli
oggetti e falso altrimenti ». Tarski ha sottolineato il fatto che la nozione
se- mantica della V. (come egli l’ha chiamata e come abitualmente si chiama)
non implica nulla circa le condizioni sotto la quale un enunciato come «la neve
è bianca » può essere asserito. Indica solo che, ogni qualvolta che asseriamo o
rigettiamo questo enunciato, dobbiamo essere pronti ad asserire o rigettare
l’enunciato correlativo « L'enunciato ‘la neve è bianca” è vero ». In tal modo
egli ritiene che la concezione semantica della V. possa con- ciliarsi con qualsiasi
atteggiamento epistemologico essendo neutro riguardo a qualsiasi concezione
realistica o idealistica, empiristica o metafisica della conoscenza (« The
Semantic Conception of Truth », 1944, in Readings in Philosophical Analisys,
1949, pag. 52-84; la concezione di Tarski fu esposta per la prima volta in uno
scritto polacco del 1933 tradotto in tedesco negli Srudia Philosophica del
1935, pag. 261-405). Carnap accettava questa con- cezione della verità ma
insistendo sulla sua diffe- renza fondamentale dai concetti di credenza,
verifica- zione, conferma ecc. (Introduction to Semantics $ 7). M. Black
metteva in luce l’insignificanza filosofica di essa (Language and Philosophy,
IV, $ 8). 2° La seconda concezione fondamentale della V. è quella che la
considera come rivelazione o manifestazione. Essa ha due forme fondamentali,
una empiristica, l’altra metafisica o teologica. La forma empiristica consiste
nell’ammettere che la V. è ciò che immediatamente si rivela all’uomo, ed è
perciò sensazione, intuizione o fenomeno. La forma metafisica o teologica è
quella secondo la quale la V. si rivela in modi di conoscere eccezio- nali o
privilegiati, attraverso i quali si rende evi- dente l’essenza delle cose o il
loro essere o il loro stesso principio (cioè Dio). La caratteristica fon-
damentale di questa concezione è il rilievo dato all’evidenza, assunta insieme
come definizione e criterio della verità. Ma l'evidenza, ovviamente, non è che
rivelazione o manifestazione. Nel senso empiristico, la V. veniva intesa come
rivelazione dai Cirenaici, che vedevano nelle sen- sazioni l’evidenza stessa
delle cose (SESTO EMP., Adv. Math., VII, 199-200), dagli Epicurei che con-
sideravano la sensazione come il criterio della V. (Droga. L., X, 31-32) e
dagli Stoici che lo vedevano nella rappresentazione caralettica (v.) (Dioa. L.,
VII, 54). La nozione della conoscenza intuitiva è in Ockham la nozione di una
manifestazione im- mediata delle cose, nei loro caratteri e nelle loro
relazioni, all’uomo (/n Sent., Prol., q. 1, Z). Nello stesso spirito, Telesio
diceva che le cose « retta- mente osservate, manifestano da sè la grandezza che
ognuna ha, nonchè la loro capacità, le loro forze, la loro natura» e vedeva
nella sensazione una tale immediata rivelazione delle cose stesse (De rer.
nat., I, Proem.). In generale tutte le dot- trine che affidano alla sensibilità
la conoscenza delle cose tendono a scorgere nella sensibilità stessa la
rivelazione della loro natura e identificano con tale rivelazione o la verità
stessa o il criterio della verità. Dall’altro lato, dalla stessa
interpretazione me- tafisica o teologica della V. come corrispondenza, nasce il
concetto di V. come manifestazione del- l'essere o del principio supremo.
Plotino diceva: «La V. vera non è in accordo con un’altra cosa ma in accordo
con se stessa: essa non enuncia nulla fuori di sè, ma enuncia ciò che essa
stessa è » (Enn., V, 5, 2). In questo senso la V. è ipostatiz- zata: non è il
carattere formale di certi procedi- menti conoscitivi ma un principio
metafisico o teologico che ha la stessa sostanzialità e la stessa dignità del
principio che si manifesta in essa, cioè di Dio. Questo concetto è il tema di
numerose speculazioni nella filosofia patristica e scolastica. S. Agostino
afferma che ci deve essere una natura che è così vicina all’Unità suprema da
riprodurla in tutto e da essere uno con essa; e che questa na- tura è la V. o
Verbo di Dio (De Vera Rel., 36). E che la V. sia, in primo luogo, lo stesso
intelletto o Verbo di Dio è dottrina comune nella Scolastica (AnseLMO, De Veritate,
14; S. ToMMAasOo, De Veri- tate, q. l, a. 4). Più tardi lo stesso concetto di
V. come rivelazione condusse a riconoscere, sulla base del criterio del-
l'evidenza, l’esistenza di V. eterne. Cartesio vide nel cogito (v.) l’evidenza
originaria, quella per la quale si rivela al soggetto pensante la sua stessa
esistenza; e ritenne che dovesse essere considerato come vero tutto ciò che si
manifesta in modo evi- dente. Nell'ambito di ciò che si manifesta in tal modo,
Cartesio pose le V. eterne, stabilite e garan tite dall’immutabilità di un
decreto di Dio (Méd., IV; Princ. Phil., I, 49). Le V. eterne, sono, secondo
Cartesio, garantite e rivelate direttamente da Dio, perciò sono eterne
(Réponses, VI, 4). E tali le con- sidera anche Malebranche per quanto, a differenza
di Cartesio, ritiene che esse siano, non già poste ma semplicemente
riconosciute e fatte valere da Dio (Recherche de la verité, X éclaircissement).
Ma il concetto della V. come rivelazione fu soprat- tutto caro al Romanticismo
che, in suo aspetto essenziale, si potrebbe designare come filosofia della
rivelazione (v. RoManTticISMO). Hegel di- ceva: « L’Idea è la V.: perchè la V.
è il rispondere dell’oggettività al concetto. Non nel senso che le cose esterne
rispondano alle mie rappresentazioni: queste sono in tal caso solo
rappresentazioni esatte che io ho come individuo. Ma nel senso che tutto il
reale, in quanto è vero, è l’Idea; e ha la sua V. solo per mezzo dell’Idea e
nelle forme dell’Idea » (Enc.). In altri termini, l’Idea è «l’oggettività del
concetto » cioè la razionalità del reale, ma in quanto si manifesta alla
coscienza nella sua necessità, cioè come sapere o scienza (System der
Philosophie, ed. Glockner, I, pa- gina 423; Wissenschaft der Logik, ed.
Glockner, II, pag. 275): e il sapere e la scienza sono l'auto- manifestazione
dell’Idea cioè la sua autentica e completa rivelazione. A metà strada tra la
forma empiristica e la forma teologica di questa concezione della V., sta
quella che essa ha ricevuto per opera della feno- menologia e dell’esistenzialismo.
La fenomenologia è, nel suo stesso concetto, il metodo per rendere possibile
alle essenze di manifestarsi o rilevarsi come tali. L’epoché (v.)
fenomenologica, mettendo in parentesi l’atteggiamento naturalistico, che con-
siste nell’affermare la realtà delle cose nel mondo, tende a rendere possibile
alle cose stesse di mani- festare la loro essenza. Da questo punto di vista la
V. è la stessa evidenza con cui gli oggetti fenome- nologici si presentano,
quando l’epoché è stata ef- fettuata (/deen, I, $ 136). V. ed evidenza, secondo
Husserl, appartengono pertanto non solo agli og- getti teoretici ma a tutti gli
oggetti della conside- razione fenomenologica, siano anche valori, sen-
timenti, ecc. (/bid., $ 139). A sua volta Heidegger ha insistito sul carattere
di rivelazione o di sco- primento della V., appellandosi anche all’etimologia
della parola greca. Perciò da un lato egli ha insi- stito sulla stretta
connessione del modo d'essere della V. col modo d'essere dell’uomo cioè con
l’esserci: in quanto solo all'uomo la V. può ri- velarsi e si rivela (Sein und
Zeit, $ 44). Dall’altro ha insistito sulla tesi che il /uogo della V. non è il
giudizio e che la V. non è una rivelazione dicarattere predicativo, ma consiste
nell’essere sco- perto dell’essere delle cose o di queste cose stesse e
nell'essere scoprente dell’uomo (/bid., $ 44b; cfr. Vom Wesen des Grundes, I,
trad. ital., pag. 20). Heidegger ha tuttavia insistito anche sul fatto che ogni
scoprimento dell’essere, in quanto scoprimento parziale, è anche un coprimento
di esso; un tema che ricorre soprattutto nei suoi scritti del secondo periodo.
« L'essere si sottrae, mentre si rivela, all’ente. In tal modo, l’essere,
illuminando l’ente, lo svia nello stesso tempo verso l’errore » (Holzwege, pag.
310). 3° La terza concezione della V. è quella che la considera come la
conformità con una regola o con un concetto. Questa nozione fu per la prima
volta enunciata da Platone. « Prendendo a fonda- mento, egli diceva, il
concetto che io giudico il più saldo, tutto ciò che mi sembra in accordo con
esso lo pongo come vero, sia che si tratti di cause sia che si tratti di altre
cose esistenti; quello che non mi sembra in accordo con esso, lo pongo come non
vero» (Fed., 100a). Sporadicamente, questa concezione ritorna nella storia
della filo- sofia. S. Agostino affermava che «c’è, sopra la nostra mente, una
legge che si chiama V.» e che noi possiamo giudicare tutte le cose in
conformità di questa legge, che tuttavia sfugge a qualsiasi giudizio (De Vera
Rel., 30-31). Nella letteratura che si ispira a S. Agostino questo tema ritorna
frequentemente; ma la più importante espressione di questo concetto della V. è
dovuta a Kant. Kant veramente si avvale della nozione, non per la de- finizione
della V. (giacchè, come si è detto, di- chiara di presupporre la definizione
nominale della V. che è quella della corrispondenza) ma come criterio della V.
stessa. Il criterio può concernere, secondo Kant, solo la forma della V., cioè
del pensiero in generale; e consiste nella conformità con «le leggi generali
necessarie dell’intelletto ». «Ciò che contraddice queste leggi, afferma Kant,
è falso perchè l'intelletto in tal caso contrasta con le sue stesse leggi,
perciò con se stesso ». Tuttavia questo criterio formale non basta a stabilire
la verità materiale, od oggettiva, della conoscenza; chè anzi il tentativo di
trasformare questo canone di valutazione formale in organo di conoscenza
effettiva non è che l’uso dialettico, cioè illusorio, della ragione (Crit. R.
Pura, Logica, Intr., m; Logik, Intr., vm). Questo criterio fu raccolto e
accentuato dai neo-kantiani soprattutto da quelli della scuola del Baden.
Windelband riteneva che l’oggetto della conoscenza, ciò che misura e de-
termina la V. della conoscenza stessa, non è una realtà esterna (che come tale
sarebbe irraggiungi- bile e inconoscibile) ma la regola intrinseca della
conoscenza stessa (Prdludien, 1884, 4* ediz., 1911, passim). Rickert
identificava l’oggerto della cono- 917 scenza con la norma a cui la conoscenza
deve adeguarsi per essere vera (Der Gegenstand der Erkenntnis, 1892). In questi
neo-kantiani la confor- mità alla regola, che Kant aveva posto semplice- mente
come criterio formale della V., diventa l’unica definizione della V. stessa. 4°
La nozione della V. come coerenza compare nel movimento idealistico inglese
della seconda metà del sec. xIx e viene condivisa da tutti gli apparte- nenti a
questo movimento in Inghilterra e in Ame- rica. Essa venne espressa per la
prima volta nella Logica o morfologia della conoscenza (1888) di B. Bosanquet;
ma la sua diffusione fu dovuta al- l’opera di Bradley, Apparenza e realtà. La
critica del Bradley al mondo dell’esperienza umana partiva dal principio che
ciò che è con- tradditorio, non può essere reale; e conduceva pertanto Bradley
ad ammettere che la V. o realtà è coerenza perfetta. La coerenza però,
attribuita alla realtà ultima cioè alla Coscienza infinita o assoluta, non è
semplice assenza di contraddizione; è abolizione di ogni molteplicità relativa
e forma di armonia che non si lascia intendere nei termini del pensiero umano
(Appearance and Reality, 2 ed., 1902, pag. 143 sgg.). I gradi di verità
raggiungi- bili dal pensiero umano si possono giudicare © graduare, secondo
Bradley, in base al grado di coerenza che essi posseggono, per quanto tale
coerenza sia sempre approssimativa e imperfetta (Ibid., pag. 362). Questi
concetti ritornano in una numerosa serie di pensatori dello stesso indirizzo
(v. IpraLIsMo) senza che la nozione della coerenza ne venga modificata o
chiarita (v. (COERENZA). I precedenti di questa dottrina si trovano più che in
Hegel (al quale tuttavia gli idealisti inglesi più frequentemente si
riferivano) in Spinoza. Essa in- fatti non è che la trascrizione di quella che
Spinoza chiamava « il terzo genere di conoscenza + o « amore intellettuale di
Dio »: cioè della conoscenza dell’or- dine totale e necessario delle cose, che
Spinoza identificava con Dio stesso (Er., V, 25). 5° La definizione della V.
come utilità è propria di alcune forme della filosofia dell’azione e special-
mente del pragmatismo. Ma il primo a formularla è stato Nietzsche: « Vero, non
significa in generale se non ciò che è adatto alla conservazione dell’uma-
nità. Ciò che mi fa perire quando ci credo non è vero per me, è una relazione
arbitraria e illegittima del mio essere con le cose esterne» (Wille zur Macht,
ed. Kréner, $ 78, 507). Fu il pragmatismo a diffon- dere questa nozione, che fu
difesa in primo luogo da W. James. Questi tuttavia identificò utilità e V. solo
nei limiti delle credenze non verificabili empiricamente o non dimostrabili,
quali erano, secondo lui, le credenze morali e religiose (The Will to Believe,
1897). L'equazione tra utilità e V. fu estesa a tutta la sfera della conoscenza
da F. C. S. Schiller (Humanism, 1903 e scritti seguenti). Da questo punto di
vista una proposizione, a qual- siasi campo appartenga, è vera solo per la sua
effettiva utilità cioè perchè è utile a estendere la conoscenza stessa o a
estendere mediante la cono- scenza il dominio dell’uomo sulla natura o alla solidarietà
e all’ordine del mondo umano. Un criterio simile veniva presentato da H.
Vaihinger nella sua Filosofia del come se (Philosophie des Als Ob, 1911) e
popolarizzato da M. De Unamuno nella sua Vita di Don Chisciotte e Sancio (v.
PRAGMATISMO). Forse si può scorgere una forma diversa di questa stessa
concezione nella tesi di Dewey della strumentalità di ogni procedura
conoscitiva, e della conoscenza nel suo insieme, ai fini del perfe- zionamento
della vita umana nel mondo. Non si trova tuttavia in Dewey la definizione della
V. come utilità ma soltanto l’affermazione del carattere stru- mentale quindi
valido, ma non vero, delle proposizioni (Logic) (vedi VALIDITÀ). VERITÀ DOPPIA.
V. DOPPIA VERITÀ. VERO (gr. dandé; lat. Verum; ingl. True; franc. Vrai; ted.
Wahr). Gli Stoici distinguevano il V. dalla verità perchè il V. è un enunciato
quindi è incorporeo, mentre la verità, come scienza che contiene tutti i V., è
un modo d'essere della parte egemonica dell’uomo e quindi corporea. Inoltre il
V. è semplice mentre la verità consta di molti V. e la verità appartiene alla
scienza quindi al sa- piente mentre il V. può essere anche dello stolto (Sesto
EMPIRICO, /p. Pirr., II, 81-83; Adv. Dogm., I, 38-42). Nella scolastica il V.
fu inteso come uno dei #ra- scendentali (v.) cioè dei caratteri che
appartengono alle cose come tali, indipendentemente dai loro generi e per esso
fu intesa l’intelligibilità della cosa (S. Tommaso, S. 7h., q. 16, a. 3, ad.
3°). VERUM IPSUM FACTUM. Formula di cui si servl G. B. Vico per esprimere il
principio che l’uomo può conoscere solo ciò che egli stesso ha fatto, perchè la
conoscenza di una cosa è la cono- scenza della sua genesi (De antiquissima
italorum sapientia). Ma questo concetto era de- sunto da Hobbes che lo aveva
esposto nel De Homine. Hobbes stesso aveva ridotto il dominio della conoscenza
umana da unlato alle matematiche, i cui oggetti sono interamente prodotti
dall’uomo, dall’altro alla politica e all’etica che anch'esse trat- tano di
oggetti (leggi, convenzioni, princìpi) creati dall'uomo (De Hom. 10).
Analogamente Vico dap- prima restrinse il dominio della conoscenza umana alle
matematiche (nel De Antiquissima) poi lo estese al mondo della storia, nella
Scienza Nuova (1725). Un precedente di questa dottrina si può trovare VERITÀ
DOPPIA nel De Possest (1460) di Cusano, dove si dice che l’uomo può conoscere
gli enti matematici « nozio- nali » perchè procedono dalla sua ragione e hanno
in essa il loro principio, mentre solo Dio può conoscere gli enti reali che
hanno in lui la sua causa (Philosophisch-Theologische Schriften, ed. Ga- briel,
II, pag. 318-20). VETTORE (ingl. Vector; franc. Vecteur; te- desco Vector). In
matematica, una grandezza deter- minata in quantità, direzione e senso. Esso
viene abitualmente rappresentato con una freccia. White- head ha utilizzato il
termine per indicare il rife- rimento all’esterno dell’esperienza sensibile
(Pro- cess and Reality, 1929, pag. 249). VIOLENZA (gr. Bla; lat. Violentia;
ingl. Vio- lence; franc. Violence; ted. Gewaltsamkeit). 1. Azione contraria
all’ordine o alla disposizione della na- tura. In tal senso Aristotele
distingueva il movi- mento secondo natura e il movimento per V.: il primo è
quello che porta gli elementi al loro luogo naturale; il secondo è quello che
li allontana (De Cael., I, 8, 276, a 22) (v. FISICA). 2. Azione contraria
all’ordine morale giuridico o politico. In tal senso si dice «commettere» o «
subire V.». L’esaltazione della V. in questo senso è stata talora fatta per
motivi politici. Così Sorel ha contrapposto la V. diretta a creare una società
nuova alla forza che è propria della società e dello stato borghese. « Il
socialismo deve alla V. gli alti valori morali con i quali porge la salvezza al
mondo moderno » (Réflexions sur la violence; 1906, tra- duzione ital, pag.
133). VIRTÙ (dpeth, virtus, virtue, vertu, tugend). Virtù designa una qualsiasi
capacità o eccellenza, a qualsiasi cosa o essere appartenga. I significati
specifici di virtù possono essere ridotti a tre: capacità o potenza in
generale; capacità o potenza propria dell’UOMO (vir); capacità o potenza
propria dell’uomo, di natura morale. Nel primo SENSO che è quello della
definizione generale, la virtù indica una capacità o potenza qualsiasi, per
es., di una pianta o di un animale o di una pietra. MACHIAVELLI (vedasi) parla
della virtù dell’arte della guerra (Principe); e Berkeley delle virtù
dell’acqua di catrame (sottotitolo della Siris). Nel secondo SENSO, la virtù è
una capacità o potenza propria dell’uomo. Così, ad es., si chiama VIRTUOSO chi
possiede un’abilità qualsiasi, per es., nel canto o nel suonare uno strumento o
nell’uso del grimaldello. A questo senso della virtù vuole ritornare Nietzsche.
Io riconosco la virtù in questo, egli ha detto: che essa non si impone; che
essa non suppone dappertutto la virtù ma precisamente un’altra cosa; che essa
non soffre per l’assenza della virtù ma considera questa assenza come un
rapporto di distanza grazie al quale c’è qualcosa di venerabile nella virtù.;
che essa non fa propaganda; che essa non permette a nessuno di fare il giudice
perchè è sempre una virtù di per se stessa; che essa fa precisamente tutto ciò
che è proibito (la virtù come io la comprendo è il vero veritum in tutta la
legislatura del gregge); che essa è virtù nel senso del Rinascimento, virtù
libera dalla moralità (Wille zur Macht). Nel terzo SENSO, virtù designa una
capacità dell'uomo nel dominio morale. Deve trattarsi di una capacità uniforme
o continuativa, come nota Hegel (Fil. del Dir.) giacchè un atto morale non fa
virtù. Questa condizione tuttavia non è sempre rispettata e Locke, per es.,
parla di virtù e di vizio nel senso di atti morali isolati (Saggio). Le
definizioni della virtù in questo senso rientrano nelle seguenti rubriche: la
capacità di adempiere a un compito o ad una funzione; l’abito o la disposizione
razionale; la capacità del calcolo utilitario; un sentimento o tendenza
spontanea; lo sforzo. La virtù come capacità d’attendere a un compito
determinato è il concetto platonico della virtù. Come la funzione di un organo,
per es., degli occhi è quella di vedere e la possibilità di vedere è la virù
propria degli occhi, così l’anima ha le sue proprie funzioni e la sua capacità
di adempiere ad esse è la virtù propria dell’anima (Rep.). La diversità delle
V. è perciò secondo Platone determinata dalla diversità delle funzioni cui
l'anima deve adempiere o cui deve adempiere l’uomo nello Stato. Le quattro V.
fondamentali o cardinali (v.) sono per l’appunto determinate dalle funzioni
fondamentali dell’anima e della comunità. b) La concezione della V. come abito
(v.) o disposizione razionale costante è quella propria di Aristotele e degli
Stoici ed è la più diffusa nell’etica classica. Secondo Aristotele, la V. è
l’abito che rende l’uomo buono e gli consente di far bene il suo compito
proprio (Ef. Nic., II, 6, 1106 a 22); ed è un abito razionale (/bid., II, 2,
1103 b 32) nonchè, come tutti gli abiti, uniforme o costante. Gli Stoici, a
loro volta definivano la V. come « una disposizione dell’anima coerente e
concorde, che rende degni di lode coloro in cui si trova ed è di per se stessa
lodevole anche indipendentemente dalla sua utilità » (Cic., Tusc., IV, 15, 34;
STOBEO, Ecl., II, 7, 60). Queste definizioni sono state ri- petute innumerevoli
volte nella filosofia antica e medievale ed anche nel pensiero moderno. Esse si
trovano, ad es., in Abelardo (Theol. Christ.), Alberto Magno (S. 7A., II, q.
102, a. 3), AQUINO (vedasi) (S. 7A., II, 1, q. 55), Leibniz (il quale distingue
le V. come abitudini dalle corrispondenti azioni, 919 Nouv. Ess., II, 28, 7), e
Cristiano Wolff. (Phil Practica, I, $ 321). c) Il terzo concetto della V., è
quello che la considera come la capacità del calcolo utilitario. Fu Epicuro il
primo ad esporre questa nozione, considerando come V. suprema, dalla quale
tutte le altre derivano, la saggezza che giudica sui pia- ceri che occorre
scegliere e su quelli che sono da fug- gire e distrugge le opinioni che sono la
causa delle perturbazioni dell'anima (Dio. L.). Nel Rinascimento, questa
concezione veniva difesa da Telesio che vedeva nella V. la facoltà di stabilire
la misura giusta delle passioni e delle azioni affinchè non venga da esse alcun
danno all’uomo (De rer. nar.). E più tardi una concezione analoga veniva
ripresa da Hume (/ng. Conc. Morals, I), e in generale dall’utilitarismo inglese
e special- mente da Bentham che definiva la V. come «l’at- titudine a produrre
la felicità» (Deontology, X). Per quanto questo concetto della V. sia
solitamente proprio dell’empirismo, Spinoza lo condivise: « Agire assolutamente
secondo V., egli scrisse, non è altro per noi che agire, vivere, conservare il
proprio essere (tre cose che significano lo stesso) secondo la guida della
ragione, sul fondamento della ricerca dell’utile» (Er., IV, 24). d) Il concetto
della V. come sentimento o tendenza, cioè come spontaneità, fu proprio degli
analisti inglesi a cominciare da Shaftesbury. «In una creatura sensibile, egli
dice, ciò che non è fatto attraverso un’affezione, non produce né bene né male
nella natura di quella creatura; la quale può essere detta buona solo quando il
bene o il male del sistema con il quale essa è in relazione è l’oggetto
immediato di qualche emo- zione o affezione che la muove» (Characteristics of
Men, Treatise IV, Book I, part. 2, sect. D. Su questa base Hutchinson postulò
un senso morale a fondamento della V. (System of Moral Philosophy, I, 4): e
Adamo Smith definì questo senso morale come simpatia (Theory of Moral
Sentiments, 1759, III, 1). Ma fu soprattutto l’illuminismo francese a
diffondere questo concetto della V., Rousseau parlava della pietà come di una
«V. naturale » che è «una disposizione con- veniente a esseri così deboli e
soggetti a tanti mali come gli uomini» e che precede ogni riflessione (De
l’inégalité parmi les hommes, I); e Voltaire riteneva nello stesso senso che la
V. non è altro che «il far bene al prossimo » (Dictionnaire philo- sophique,
art. Vertu). L'etica del positivismo si riattacca a questa concezione facendo
della V. la manifestazione dell’istinto altruistico (COMTE, Catéchisme
positiviste; SPENCER, Data of Ethics). Nella filosofia contemporanea una conce-
zione analoga si può scorgere nella dottrina di Bergson della cosiddetta
«morale aperta» che è la manifestazione dello slancio vitale (Deux sources de
la morale, 1932, cap. I). e) Infine la dottrina della V. come sforzo è stata
enunciata da Rousseau e fatta propria da Kant. Diceva Rousseau: « Non c’è
felicità senza coraggio nè V. senza lotta: la parola V. deriva dalla parola
forza; la forza è la base di ogni virtù. La V. appartiene soltanto agli esseri
deboli di natura, ma forti di volontà: per questo appunto rendiamo onore
all’uomo giusto e per questo, pur attribuendo a Dio la bontà, non lo diciamo
vir- tuoso, perchè le sue buone opere sono da Lui com- piute senza sforzo
alcuno» (Émile, V). In questo spirito Kant ha definito la V. come «
l’intenzione morale in lotta» che non avrebbe senso nel caso in cui all’uomo
fosse accessibile la santità cioè la coincidenza perfetta della volontà come
legge (Crir. R. Prat., I, libro I, cap. III). Come Cicerone (vedi Coraggio) e
Rousseau, egli ha connesso stretta- mente la nozione di V. con quella di
coraggio: «La qualità speciale e il proposito elevato con cui si resiste a un
forte ma ingiusto avversario si chiama coraggio (fortitudo) e quando si tratta
dell'avversario che l’intenzione trova in noi, si chiama V. (virtus, fortitudo
moralis). Dunque la parte della dottrina generale dei doveri che sotto- mette a
leggi, non la libertà esterna, ma la libertà interna è una dortrina della V.»
(Met. der Sitten). In polemica con Kant, Schiller cercò di ricondurre la
dottrina kantiana a quella della V. come spontaneità o sentimento. « Non ho un
buon concetto dell’uomo, scrisse Schiller, che si può così poco fidare della
voce dell’istinto che ogni volta deve farlo tacere davanti alla legge della
morale, e piuttosto rispetto e stimo colui che si abbandona con una certa
sicurezza all’istinto sognatori della sensazione » che sono quelli che credono
di avere la visione di spiriti disincarnati, e i «sognatori della ragione »
cioè i metafisici che anch'essi vi- vono in un mondo di sogni o di visioni
private. VISIONE (ingl. Vision; franc. Vision; tedesco Anschauung, Traàumerei).
1. Nel senso propriamente filosofico, lo stesso che intuizione (v.). 2.
L’operazione propria del senso della vista. 3. Allucinazioni, sogni, immagini
credute reali di fantasmi o di spiriti disincarnati. VITA (gr. oh, Bloc; lat.
Vita; ingl. Life; francese Vie; ted. Leben). La caratteristica di certi
fenomeni di prodursi o regolarsi da sè; o la totalità di tali fenomeni. Questa
caratterizzazione si da qui soltanto come quella sulla quale più ampio è l’ac-
cordo tra filosofi e tra scienziati, e a titolo pura- mente descrittivo, senza
che il riconoscimento di una caratteristica propria dei fenomeni della V.
implichi il riconoscimento di un principio o di una causa a sè di tali
fenomeni. Vedremo anzi come a certi livelli della V. la distinzione stessa tra
ciò che è V. e ciò che non lo è diventa oltre modo difficile o perde di senso.
La disputa tra vitalismo e antivitalismo non concerne il problema della ca-
ratterizzazione della V.: concerne invece quello circa l'origine e lo sviluppo
della V. stessa; e su tale problema, v. VITALISMO. Fin dall’antichità i
fenomeni della V. sono stati caratterizzati in base alla loro capacità di auto-
produzione: cioè in base alla spontaneità per cui gli esseri viventi si
muovono, si nutriscono, cre- scono, si riproducono e muoiono, in modo al- meno
apparentemente e relativamente indipendente dalle cose esterne. Platone
identificava l’anima e la V. (Fed., 105c) perchè riteneva propria del- l’anima
la capacità di « muoversi da sè» (Fedro, 245 c). Aristotele intendeva per V.
«la nutrizione, la crescita e la distruzione che si originano da sè stessi »
(De An., II, 1, 412 a 13); e per conseguenza riteneva la V. propria degli
esseri animali in quanto «hanno in se stessi una potenza o un principio tale
per cui subiscono aumento o diminuzione nelle VITA direzioni opposte» (/bid.,
II, 413 a 27). In base allo stesso concetto della V., Plotino affermava che
«ogni V. è pensiero» e che il pensiero « vive per se stesso » (Enn., III, 8,
8). E S. Tommaso aîffer- mava che V. significa «la sostanza a cui conviene per
sua natura muover se stessa o condurre se stessa, in qualsiasi modo,
all’operazione » (S. 7h.); e che pertanto l’anima è il principio della V.
(/bid., I, q. 75, a. 1). Quando con Cartesio e Hobbes si affacciò la concezione
meccanica della V. e si cominciò a paragonare l’uomo, e in generale l’organismo
vi- vente, a una macchina ben congegnata, il concetto della V. non mutò,
giacchè l'ipotesi meccanistica era suggerita ai filosofi proprio dalla credenza
che « gli automi possono muoversi da sè » (DESCARTES, Traité de l’homme, pag.
1; HoBBEs, Leviarh., I, Intr.). Ciò che veniva negato in questo caso era l'identità
tra anima e V.: si riteneva cioè possibile che la stessa materia corporea, in
certe forme di organizzazione, fosse in grado di muoversi o di svilupparsi da
sè. La disputa tra vitalismo e mecca- nicismo (v. VITALISMO) verte proprio su
questo: il meccanicismo afferma che la V. è dovuta a una certa organizzazione
fisico-chimica della materia corporea; il vitalismo ritiene che questa
organizzazione non basta e che la V. dipende da un principio di natura
spirituale, che è, ad es., l’archeus (v.) di Helmont, la natura plastica (v.)
di Cudworth, il dominante (v.) di Reinke, l’ente- lechia (v.) di Driesch, lo
slancio vitale (v.) di Bergson. Leibniz obiettava sia al meccanicismo sia al
vitalismo che essi contraddicono al « grande prin- cipio della fisica » secondo
il quale « un corpo non si muove se non spinto da un corpo vicino e in
movimento »; e riteneva che la sola teoria della V. d’accordo con quel
principio fosse quella del- l'armonia prestabilita, secondo la quale la V.
stessa consiste nella concordanza dell’azione delle sostanze, prestabilita da
Dio (Sur le principe de vie, 1705, in Op., ed. Erdmann, pag. 429 sgg.). Il con-
cetto della V. come auto-regolazione sembra essere semplicemente presupposto da
quella disputa, come dall’osservazione di Leibniz. E lo presuppone Kant quando
afferma che «la ag. 250); o in altri termini con «l’intero che si sviluppa, che
risolve il suo sviluppo e che si mantiene sem- plice in questo movimento»
(Phdnom. des Geistes, I, IV, 1). Dall’altro lato Claude Bernard scriveva: «Le
macchine viventi sono create e costruite in modo che, perfezionandosi, esse
divengano sempre più libere nell'ambiente cosmico generale... La mac- china
vivente conserva il suo movimento perchè il meccanismo interno dell’organismo
ripara, me- diante azioni e forze sempre rinascenti, le perdite provocate
dall’esercizio delle funzioni. Le macchine create dall’intelligenza dell’uomo,
per quanto infi- nitamente più grossolane, non sono costruite al- trimenti»
(Zntr. à l’étude de la médecine expéri- mentale, II, I, 8). Infine, occorre
appena notare che lo slancio vitale in cui Bergson ha riconosciuto la sorgente
della V. non è altro che coscienza, e coscienza creatrice, cioè che trae da se
stessa tutto ciò che produce. « Lo slancio di V. di cui parliamo, dice Bergson,
consiste in una esigenza di creazione. Non può creare assolutamente, perchè
incontra da- vanti a sè la materia cioè il movimento che è l’in- verso del suo.
Ma esso s’impadronisce di questa materia, che è la necessità stessa, e tende a
intro- durvi la più grande somma possibile di indetermi- nazione e di libertà»
(Évol. créatr., 8® edizione). Lo stesso significato pare che abbia
l’espressione di Whitehead che la vita è « autofrui- zione individuale e
assoluta» (Nature and Life, 1934, II. D'altronde sembra che la scienza stessa
ricorra a una caratterizzazione non diversa dei fenomeni vitali, per quanto
eviti di ipostatizzare in entità o principi tale caratterizzazione. I fenomeni
che la scienza considera come propri della V. cioè il me- tabolismo, la plasticità,
la reattività, la riproduzione, sono appunto uelli in cui il carattere di
autore- golazione è evidente. Quando J. B. S. Haldane ha detto che « qualsiasi
modello autoperpetuantesi di reazioni chimiche » può chiamarsi vivente (« The
Origin of Life » in Rationalist Annual, 1928, pag. 148- 153), non fa che
esprimere con altre parole il vecchio concetto dell’autoregolazione. Al quale
fanno ap- pello anche, sia pure in modo indiretto o con espressioni diverse
(come quelle di « totalità », « ci- clicità », « autonomia », « selettività »,
ecc.) anche gli scienziati di più schietta ispirazione materialistica. Ma
nonostante la quasi unanimità che esso rac- coglie, difficilmente il concetto
di autoregolazione può essere considerato in tutti i casi come una caratterizzazione
esclusiva dei fenomeni vitali. Da 922 un lato infatti, a certi estremi della
scala biologica (ad es., per i virus) non è possibile, in base ad esso,
decidere se si tratta di corpi viventi o non viventi. Non è mancato chi, a
questo proposito, ha rite- nuto addirittura privo di senso l’uso della parola
V. in riferimento ai sistemi posti nella zona limite tra la V. e la materia
inorganica (PIRIE, The Meaninglessness of the Terms «Life» and « Living» in J.
NEEDHAM, e D. R. GREEN, Per- spectives in Biochemistry, 1937, pag. 21 sgg.).
Dal- l’altro lato la releonomia (v.) ritenuta propria degli organismi viventi e
interpretata come attività orien- tata, coerente e costruttiva, non impedisce
alla bio- logia moderna fondata soprattutto sulla genetica e sulla biochimica,
di considerare gli esseri viventi come macchine chimiche, dotate di unità
funzionale e che si costruiscono da sè. Tali macchine esigono l’intervento di
un sistema cibernetico che governi e controlli l’attività chimica nei punti
strategici; e per quanto si sia ben lontani oggi dall’aver chia- rito la
struttura dei sistemi costituenti gli organismi superiori, l’indirizzo della
scienza moderna nelle ricerche biologiche rimane quello segnato dalla ci-
bernetica e dalla biochimica (cfr., ad es., MonNoD, Le hasard et la nécessité,
1970, cap. Il). VITA, FILOSOFIE DELLA (ingl. Philo- sophies of Life; franc.
Philosophies de la vie; tede- sco Lebensphilosophien). Con questa espressione,
che è stata usata specialmente in Germania, vengono designate quelle filosofie
che hanno in comune la caratteristica di considerare la filosofia come V.,
piuttosto che riflessione sulla vita. È un’espressione polemica che consente di
accomunare filosofie di- sparate come quelle di Nietzsche, Dilthey, Simmel,
Spengler, James, Bergson, ecc.; e polemicamente questa espressione fu adoperata
nel titolo di un libro di RICKERT, La filosofia della vita (Die Phi- losophie
des Lebens). VITALISMO (ingl. Vitalism; franc. Vitalisme; ted. Vitalismus).
Termine ottocentesco per indicare ogni dottrina che consideri i fenomeni vitali
come irreducibili ai fenomeni fisico-chimici. Questa irre- ducibilità può
significare varie cose perchè vari sono i problemi le cui soluzioni dividono i
parti- giani e gli avversari del V.: 1° In primo luogo esso significa che i
fenomeni vitali non possono essere interamente spiggari con cause meccaniche;
2° in secondo luogo, significa che un organismo vivente non potrà mai essere
prodotto artificial- mente dall'uomo in un laboratorio di biochimica; 3° in terzo
luogo, significa che la vita sulla terra, o in generale nell’universo, non ha
avuto un’ori- gine naturale o storica, dovuta all’organizzarsi o all’evolversi
della sostanza dell’universo, ma è frutto di un disegno provvidenziale o di una
crea- zione divina. VITA, FILOSOFIE DELLA 1° Dal primo punto di vista si
possono chia- mare vitaliste tutte le concezioni classiche che, iden- tificando
la vita con l’anima, la sottraggono ad ogni influenza delle forze materiali. Ma
in senso più preciso, V. è la dottrina difesa dai filosofi e scienziati tra la
metà del sec. xvm e la metà del sec. x1x, che pone, a fondamento dei fenomeni
vitali una forza vitale indipendente dai meccanismi fisico-chimici. La
caratteristica propria del V. è quelia di dichiarare inutile la stessa indagine
scien- tifica dei fenomeni vitali in quanto essa non riu- scirebbe mai a
cogliere la forza che costituisce l’essenza della vita. Il V. in questa forma
fu reso impossibile dalle scoperte della biochimica che, a cominciare dal 1828
(data in cui fu effettuata la fabbricazione sintetica dell’urea) dimostrò la
pos- sibilità di produrre nei laboratori le sostanze or- ganiche. Il
neo-vitalismo, prendendo atto di questa possibilità, riconosce l’utilità
dell'indagine fisico- chimica dei fenomeni vitali, ma continua ad am- mettere
l’irreducibilità di questi fenomeni alle forze fisico-chimiche riconoscendo che
ad essi presiede un elemento specifico variamente denominato [il dominante (v.)
di Reinke, l’entelechia (v.) di Driesch, lo slancio vitale (v.) di Bergson]. La
difficoltà principale di quest’aspetto del V. è l’inopportunità di ammettere
una causa sconosciuta e inaccessibile, che è poco più di un nome e che per di
più fa apparire insignificante o fuori posto l’osservazione sciedella vita
stessa. L’in- teresse della scienza, è, da questo punto di vista, quello di un
beninteso materialismo metodologico, il quale ammette: 1° che i fenomeni vitali
hanno caratteri propri, diversi da quelli fisico-chimici e tuttavia non tali da
stabilire un abisso tra l’uno e l’altro ordine di fenomeni e da rendere impos-
sibile ogni passaggio dall’uno all’altro; 2° che si possa e si debba condurre
avanti l’analisi scienti- fica dei fenomeni vitali come l’unica adatta a dar
ragione di tali fenomeni. Questo è il punto di VIZIO vista assunto da un
numeroso gruppo di biologi contemporanei (cfr., su di essi: G. G. Simpson, The
Meaning of Evolution, cap. X). 3° Circa il problema dell’origine della vita
sulla terra o in generale dell’universo, la vecchia credenza nella generazione spontanea
ammetteva senz’altro, come un fatto non miracoloso ma nor- male, l’originarsi
della vita dalla materia inorganica. Questa vecchia credenza già confutata
dalle espe- rienze di Francesco Redi (1668) e di Lazzaro Spal- lanzani (1765)
fu definitavamente eliminata dalla scienza per opera di Pasteur. Dall'altro
lato, l'ipotesi dalla panspermia (v.) che ammette l’emi- grazione di semi
vitali nell’universo, mentre non è una risposta al problema dell'origine della
vita, appare in contrasto con le condizioni che si sup- pongono esistere negli
spazi intrastellari e soprat- tutto con l’azione battericida dei raggi
ultravioletti. In questa situazione, non esistono che due solu- zioni
alternative. La prima è quella secondo la che li contrappose ai valori rinunciatari
della morale tradizionale (vedi TRASMUTAZIONE). VITA, TERZA (franc. Troisième
vie). Così Maine de Biran chiamò la vita religiosa o mistica dell’uomo in
quanto distinta dalla vita semplice- mente umana che è la libertà dagli affetti
e dalle passioni e dalla vita animale caratterizzata dalle sensazioni e dagli
istinti (Nouveaux essais d’An- thropologie, 1823-24, in (Euvres, ed. Naville,
III, pagina 519). La terza V. è quella che nel /V Evan- gelo è detta la « V.
secondo lo spirito ». VITTORIOSO, ARGOMENTO (gr. è xupi- ebwy A6yoc). Un
argomento famoso con cui Dio- doro Crono, uno dei seguaci della scuola
socratica di Megara (iv-v secolo a. C.) mostrava l’identità del possibile e del
necessario. L'argomento era formulato così: « Da ciò che è possibile, non può
seguire qualcosa di impossibile. Ora è impossibile che ciò che è passato sia
altro da ciò che è stato. Ma se, in un momento anteriore, fosse stato pos-
sibile qualcosa di diverso da ciò che è stato, dal possibile sarebbe venuto
fuori l'impossibile: dunque, ciò che è diverso da ciò che è stato non era pos-
sibile ad alcun momento. Ed è per conseguenza impossibile che possa accadere
qualcosa che non accada realmente» (EPITTETO, Diss., II, 19, 1; confronta
CICERONE, De fato, 6 sgg.). Limitando la possibilità a ciò che è realmente
accaduto, Diodoro affermava la necessità di tutto ciò che accade: cioè
l’impossibilità che ciò che accade possa ac- cadere diversamente da come accade
(v. NECESsaRIO; PossisiLe). Nella filosofia contemporanea l’argomento è fatto
proprio da N. Hartmann, con esplicito riferimento a Diodoro Crono (Méglichkeit
und Wirklichkeit). VIVACITÀ (ingl. Vivacity). La caratteristica fondamentale
che distingue le impressioni dalle idee, secondo Hume: impressioni e idee si
somi- gliano ma le prime hanno dalla loro parte mag- giore « forza e V.» sicchè
inclinano alla credenza (Treatise). VIZIO (vitium, Vice, Vice; Laster). Il
contrario della virtù, nei vari significati di questo termine. In riferimento
al concetto aristotelico-stoico della virtù come abito razionale della
condotta, il vizio è un abito o una disposizione irrazionale. Precisamente sono
vizi, in questo caso, gl’estremi opposti di cui la virtù è la medietà: per es.,
l'astinenza e l’intemperanza nei confronti della moderazione, la codardia e la
temerarietà nei confronti del coraggio, ecc. In questo senso ‘vizio’ non si
applica che alle virtù etiche. In riferimento alle virtù dia-noetiche o
intellettive, ‘vizio’ significa semplicemente la mancanza di esse: mancanza
che, secondo il LIZIO, è vergognosa solo come mancata partecipazione alle cose
eccellenti di cui partecipano tutti gl’altri o quasi tutti o almeno quelli che
sono simili a noi, cioè della nostra città, famiglia o classe sociale (Rer.). Pertanto
il senso più generale di ‘vizio’ è la mancanza o il difetto di qualche
caratteristica che un oggetto può pertanto anche essere un vicolo cieco (blind-
alley vocarion). VOLGARE (vulgaris; ingl. Vulgar; francese Vulgaire; ted.
Gemein). In senso NON peggiorativo – Grice, “vulgar connectives” --, ‘volgare’ è
usata da Tertulliano che mette in valore la testimonianza contenuta nelle
espressioni che IL POPOLO (‘the lay’) adopera: le quali: dice Tertulliano, sono
‘volgari’ ‘perchè comuni, comuni perchè naturali, naturali perchè divine, De
testimonio animæ. Vico dice che le tradizioni V. devono avere avuto pubblici
motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi
spazi di tempi, Sc. Nuova). VOLONTA (gr. Botamow; voluntas; inglese Will;
franc. volonté; ted. Wille). Il termine ‘volontà’ è stato usato in due
significati fondamentali.Come il principio razionale dell’azione. Come il
principio dell’azione in generale. Entrambi questi significati sono propri
tuttavia della filosofia tradizionale, perchè sono collegati con la nozione di
facoltà o poteri originari dell'anima che si combinerebbero assieme per
produrre le manifestazioni dell’uomo (v. FACOLTÀ). Ma la filosofia non interpreta
ora in questo modo la condotta dell’uomo. Le nozioni di COMPORTAMENTO (v.) e di
forma (v.) nonchè l’indirizzo funzionalistico della psicologia (v.) non
consentono di parlare di princìpi dell'attività umana e pertanto la
classificazione intelletto-V. o quella intelletto-sentimento-V. PERDONO il loro
significato letterale. Talvolta il termine ‘volonta’ vieoè facoltà d’agire
secondo la rappresentazione di regole (Grundlegung der Metaphysik der Sitten –
CITED BY H. P. GRICE – volvntas). Fichte non intende una cosa molto diversa
affermando che la volonta è la facoltà di compiere il passaggio dall’indeterminatezza
alla determinatezza con coscienza, una facoltà che la ragione teoretica
costringe a pensare che esiste (Sifrenlehre). In senso analogo, Hegel afferma
che la volonta è universale nel senso in cui universale significa razionalità
(Fil. del Dir.). La distinzione di CROCE (si veda) tra la forma economica
utilitaria e la forma etica o morale dell’attività pratica corrisponde alla
distinzione tradizionale tra mero DESIDERIO e volontà propriamente detta. La
forma economica – il desiderio -- è, secondo CROCE (si veda), volizione del
particolare cioè dell’UTILE (futile), la forma morale volizione dell'universale;
cioè, appetizione RAZIONALE (Filosofia della PRATICA). Alla nozione di V. come
appetito razionale si può anche ricondurre la tendenza della psicologia moderna
a distinguere la V. stessa dagli impulsi e a considerarla come condizionata da
una mani- polazione di simboli. Dice, ad es., G. Murphy: «La V. è il nome con
cui si indica un complesso processo intimo che influenza il nostro comporta-
mento in modo da renderci meno facilmente preda della pura forza bruta degli
impulsi. Discorriamo con noi stessi, introduciamo modi diversi di espri- mere
la nostra situazione, ci immaginiamo le conse- guenze dei vari tipi di risposta
e cerchiamo di valu- tare quanto ognuno di essi ci piacerà » (Introduction to
Psychology, 1950, cap. IX, trad. ital., pag. 163). Ciò che la psicologia
moderna chiama «elaborazione di simboli » è quello stesso che nella
terminologia tradizionale si chiamava « processo razionale ». Infine la stessa
nozione di V. è implicita nelle espressioni V. pura, V. buona, V. generale, V.
di credere. La V. pura è, secondo Kant, la V. determinata, non da particolari
motivi empirici, ma soltanto da princìpi a priori cioè da leggi razionali
(Grund/egung der Metaphysik der Sitten, pref.). La V. buona, anche secondo
Kant, è la V. di agire esclusivamente in conformità del dovere e è in tal senso
esaltata da Kant come ciò di cui nulla c’è di meglio al mondo o anche fuori del
mondo (Ibidem I). La V. generale è concepita dagli ro lato la V. è stata talora
identi- ficata con il principio dell’azione in generale cioè con l’appetizione.
Il primo ad esporre questo con- cetto generalizzato della V. è S. Agostino, il
quale affermò che «la volontà è in tutti gli atti degli uomini, anzi tutti gli
atti nient’altro sono che volontà » (De Civ. Dei, XIV, 6). S. Anselmo ripeteva
questa nozione (De Libero Arbitrio, 14, 19) che nell’età moderna veniva
accettata da Cartesio. Cartesio, come S. Agostino, chiamò 925 V. tutte le
azioni dell'anima, in opposizione con le passioni: « Quelle che io chiamo
azioni sono tutte le nostre V. perchè noi sperimentiamo che esse vengono
direttamente dal nostro animo e sembrano dipendere solo da esso, mentre le af-
fezioni sono tutte le percezioni o conoscenze chLocke definiva la V. come « il
potere di cominciare o non cominciare, continuare o interrompere certe azioni
del nostro spirito o certi moti del nostro corpo, semplicemente con un pensiero
o la prefe- renza dello spirito stesso » (Saggio, II, 21, 5). E Hume
dichiarava: « Per V. non intendo altro se non l’impressione interna, che
sentiamo o di cui siamo consci, quando consapevolmente diamo origine a un nuovo
movimento del nostro corpo o a una nuova percezione del nostro spirito »
(Treatise, II, III, 1). Hume negava pure ogni influenza della ragione sulla V.
così intesa, riducendo le cosid- dette volizioni razionali alle emozioni
tranquille connesse o con istinti originari della natura umana come la
benevolenza e il risentimento, l’amore della vita, l). Secondo queste
interpretazioni in- fatti sarebbero atti volontari quelli in cui l’impulso determinante
è costituito da un atteggiamento di riguardo o di esaltazione dell’Io di fronte
a se stesso. Infine nel senso più generale la V. è intesa nelle espressioni V.
di vivere e V. di potenza. La V. di vivere che, secondo Schopenhauer è il
noumeno del mondo, non ha nulla di razionale: «è un cieco, irresistibile
impeto, che noi già ve- diamo apparire nella natura inorganica e vege- tale,
come anche nella parte vegetativa della nostra propria vita ». Pertanto « ciò
che la V. sempre vuole è la vita, appunto perchè questa non è che il mani-
festarsi della V. stessa nella rappresentazione: ed è semplice pleonasmo dire
V. di vivere invece di V.» (Die Welt, I, $ 54). Analogamente la V. di potenza
è, secondo Nietz- sche, un impulso fondamentale che non ha nulla di razionale:
« La vita, in quanto caso particolare, aspira al massimo possibile sentimento
di potenza. Essa è essenzialmente l’aspirazione a un soprappiù di potenza.
Aspirare non è altro che aspirare alla potenza. Questa V. rimane ciò che v'è di
più in- timo e di più profondo: la meccanica è una sem- plice semiotica delle
conseguenze (Wille zur Macht). VOLONTARIO (voluntary; volontaire; frei-willig):
Volontario è che appartiene alla volontà, o concerne la volontà. Volontario è lo
stesso che libero (v. LIBERTÀ). VOLONTARISMO, voluntarism, volontarisme, voluntarismus).
Il termine volontarismo, che è usato per la prima volta da Ténnies e diffuso da
Wundt (EUCKEN, Geistige Stròomungen der Gegenwart), è stato adoperato a
indicare due indirizzi dottrinali differenti: quello che afferma il primato
della volontà sull’intelletto; e quello che vede nella volontà la sostanza del
mondo. Il primo indirizzo è gnoseologico ed etico. Il termine è stato in questo
SENSO applicato a caratterizzare alcune correnti della filosofia medievale.
Gand afferma la superiorità della volontà sull’intelletto perchè VOLONTARIO l’abito,
l’attività e l’oggetto della volontà sono superiori a quelli dell’intelletto.
Infatti l’abito della volontà è l’amore, quello dell’intelletto è la sapienza;
e L’AMORE è superiore alla sapienza – Grice, judging in terms of willing.
L’attività del volere s’identifica con l’oggetto di esso che è il fine, mentre
l’attività dell’intellietto rimane sempre distinta e separata dal suo oggetto.
Infine, l’oggetto del volere è il bene che è il fine assoluto, mentre l’oggetto
dell’intelletto è il vero, che è uno dei beni, quindi subordinato al fine
ultimo (Quodi.). Scoto afferma a sua volta il primato della volontà ma su un
altro fondamento. In quanto cioè non la bontà dell’oggetto causa
necessariamente l’assenso della volontà, ma la volontà sceglie liberamente il
bene e liberamente lotta per il bene maggiore (Op. Ox.). A questa dottrina si
collega l’altra secondo la quale il bene e il male consistono nel comando
divino. Dio non può volere qualcosa che non sia giusto perchè da numerosi
psicologi. Il volontarismo metafisico è
quello iniziato da Schopenhauer, che vede nella volontà la sostanza o il
noumeno del mondo. mentre considera il mondo naturale come la manifestazione o
rivelazione della volontà. Come apparenza o fenomeno, il mondo è
rappresentazione; come sostanza o noumeno, il mondo è volontà. La volontà è l’essenza
del corpo umano, nel quale è colta direttamente e in se stessa, come di ogni
altro corpo e s’identifica con qualsiasi forza del mondo (Die Welt). Come tale
la volontà determina lo stesso mondo della rappresentazione che viene definito
da Schopenhauer come oggettività della volontà e asservisce a sè questo mondo
facendolo apparire nelle forme dello spazio, del tempo e della causalità che
sono le forme del fenomeno. Queste idee trovano spesso accoglimento parziale
nei filosofi. Basti qui ricordare i Nuovi VUOTO saggi d’antropologia di Biran e
la Filosofia dell'inconscio di Hartmann. VOLUTTÀA. V. PIACERE. VORTICE (8îvoc,
vortex; vortex, vortex, wirbel). Il vortice è un concetto fondamentale della
fisica. Anassagora considera il vortice come il mezzo di cui si avvale
l’intelletto divino per ordinare il mondo (CLEMENTE, Strom.). Democrito
considera il vortice come la causa della generazione di tutte le cose e lo
identifica con la necessità (Dioc. L.). Epicuro riprende lo stesso concetto che
nell'età moderna viene ancora utilizzato da Cartesio (Phil. Princ.). VUOTO
(xevéy, vacuum, vide, leere). L’esistenza del vuoto è uno dei teoremi
fondamentali della concezione dello SPAZIO (vedasi) come il contenente degli
oggetti. Leibniz parla di un vuoto di forme, vacuum formarum, che ci sarebbe se
non ci fossero sostanze capaci di tutti i gradi di percezione cioè sia
inferiori, sia superiori agl’uomini (Op., ed. Erdmann). WELTANSCHAUUNG. V.
INTUIZIONE DEL MONDO. X X. r. Come simbolo dell’incognita, la lettera x viene
talora adoperata in filosofia. L’adoperano Gric, e Kant nella prima edizione della Critica della
Ragion Pura e nell’Opus Postumum: «L'oggett(ted. Yle sensuelle). Husserl indica
con questo termine i contenuti sensibili (colori, suoni o anche piaceri,
dolori, impulsi, ecc.) che, in sè privi di riferimento intenzionale, acquistano
tale riferimento nell’esperienza vissuta. Sicchè essi sono distinti dalla loro
forma intenionale e nello stesso tempo uniti con essa (Ideen) (v. ILETICO).
YOGA. Lo yoga è uno dei principali sistemi filosofici indiani, che consiste
essenzialmente in una tecnica dell’ascetismo. Il testo fondamentale di questo
sistema sono i Yogasutra di Patanyali. Lo Y. le cui dottrine coincidono
sostanzialmente con quelle del sistema Samkhya, ma con un’accentuazione
teistica, consiste essenzialmente nella descrizione d’esercizi graduali per
ottenere la perfetta liberazione dell'anima. I gradi fondamentali sono otto:
restrizione morale; cultura dell’anima con lo studio dei testi sacri; positure
convenienti alla meditazione; controllo del respiro; controllo dei sensi; concentrazione;
attenzione continuata; raccoglimento assoluto (samadhi) nel quale scompare la
dualità tra chi contempla e l'oggetto contemplato. Dallo Y. si distingue lo
Hatha- yoga © Y. violento che suggerisce gli esercizi in- tesi ad allentare il
vincolo tra l’anima e il corpo (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana,
pa- gina 98 sgg.). Z ZELOTIPIA (lat. Zelotypia). È, secondo Baum- garten,
l’amore che vuole che l’amore dell’amato sia proporzionato al proprio (Mer., $
905). ZEN. La corrente buddistica, fondata da Bo- dhidharma in Cina nel 527 d.
C., introdotta in Giappone da Ei-Sai nel 1191 e qui sviluppatasi con caratteri
propri. Il suo insegnamento fondamentale è l’eliminazione del contrasto,
proprio del bud- dismo, tra il mondo dell’apparenza (samsara) e il nirvana; e
il suo compito è quello d’insegnare a scorgere (e realizzare) il nirvana nelle
più semplici e modeste manifestazioni della vita quotidiana. Così un maestro
dello Z. enumera i dieci passi succes- sivi che costituiscono il lavoro
dell’intera vita di un seguace dello Z.: un seguace dello Z. deve credere che
vi è un insegnamento (lo Z.) trasmesso fuori della dot- trina buddistica
generale; deve avere una conoscenza definita di que- sto insegnamento; deve
capire perchè sia l’essere senziente sia l’essere non senziente può predicare
il dharma (cioè la legge del mondo); dev’essere capace di vedere la sostanza
come se contemplasse qualcosa di vivido e di chiaro proprio nella palma della
sua mano; il suo passo deve essere sempre deciso e fermo; 5° deve avere «
l’occhio del dharma +; 6° deve camminare sul « sentiero degli uccelli » e sulla
«strada dell’al di là » (o «strada del mira- colo 1); 7° deve saper adempiere
sia a un ruolo posi- tivo sia un ruolo negativo nel dramma dello Z.; 8° deve
distruggere tutti gli insegnamenti eretici e ingannevoli e additare quelli
giusti; 9° deve acquistare grande forza e flessibilità; 10° deve entrare
nell’azione e praticare dif- ferenti modi di vita. Lo Z. ha suscitato negli
ultimi anni interesse notevole nei paesi occidentali e specialmente in America
dove è stato talora anche considerato in rapporto con vari aspetti della cultura
occidentale (confronta la bibliografia contenuta nella traduzione italiana di
WATTS, The Spirit of Z.. Per i dieci gradi dell’iniziazione dello Z., confronta
CÒang CHEN-CHI, The Practice of Z.). ZERO (zéro, null). Lo zero è stato
introdotto come numero solo nella matematica. PEANO (vedasi) l'include tra le
nozioni primitive del suo sistema logico (v. ARIMMETICA). Russell define lo zero
come la classe il cui solo membro è la classe nulla (Introduction to
Mathematical Philosophy). Grice: the class
of philosophy tutors who have no other class. In SENSO – od, meglio, uso -- metaforico, talvolta,
si dice punto zero per indicare il punto di incontro o di equilibrio di
possibilità diverse. Dice Kierkegaard. Ciò che io sono è un nulla; questo
procura a me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia esi- stenza
al punto zero., tra il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine,
tra qualche cosa e il nulla, come un semplice forse (Werke). ZETETICO
(tnonawx66; zététique, zetetisch). Zetetico è investigativo o in- quisitivo. Il
termine zetetico è dapprima applicato da Trasillo a designare un gruppo di
dialoghi platonici (Diog. L.; LIZIO,
Pol.). In seguito zetetico è assunto come la denominazione dell’atteggiamento
scettico. L'indirizzo scettico si chiama zetetico dall’azione del cercare e
dell’indagare; sospensivo per la disposizione d’animo che conserva dopo
l’indagine rispetto all’oggetto indagato; e dubitativo per il suo dubitare e
investigare intorno a ogni cosa (Sesto EMP., /p. Pirr.). Zetetica è stata
talora chiamata quella forma dell'analisi matematica che mira alla
determinazione delle grandezze incognite. ZOOLATRIA (zoolatrie, zoolatrie). La
zoolatria è il culto prestato agl’animali in quanto creduti manifestazioni o
incarnazioni della divinità. La zoolatria è propria di molte religioni: di
quella egiziana, di quella frigia e di quella siriaca (cfr. F. CuMONT, Les
religions orientales dans le paganisme romain) (vedi TOTEM). ZOROASTRISMO
(Zoroastrianism, Zoroastrisme, Zoroastrismus). La religione persiana,
conosciuta anche come mazdaismo o parsismo, stabilita da Zaratustra e che ha il
suo principale documento nello Zendavesta. L'insegnamento principale di questa
religione è il dualismo tra due principi opposti detti rispettivamente Ormuz
(Ahura Mazdah) e Ariman (Angra Manyu) per cui essa si presenta in primo luogo
come una soluzione del problema del MALE (vedasi). ZUINGLISMO (Zwinglianism, Zwinglianisme,
Zwinglianismus). La dottrina del riformatore Zuinglio che condivide con l’umanesimo
l’idea di una sapienza religiosa originaria dalla quale deriverebbero sia i
testi delle Sacre Scritture sia quelli dei filosofi pagani. Zuinglio ritenne
perciò che la rivelazione è universale e che il divino è la forza che regge il
mondo e si rivela in tutte le cose. Caratteristiche della dottrina di Zuinglio
sono anche la dottrina della predestinazione (vedasi) e l’interpretazione dei
sacramenti, compresa l’Eucarestia, come pure cerimonie simboliche. Su questo
punto cadde il dissenso tra Lutero e Zuinglio. Diversamente da Lutero, Zuinglio
nega anche il valore assoluto dell’autorità politica. Nicola Abbagnano. Abbagnano.
Keywords: filosofia latina, filosofia romana, filosofia italiana, impiegare,
implicare, dizionario filosofico. Luigi Speranza,
"Grice ed Abbagnano," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia. #abbagnano #griceedabbagnano
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