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Monday, February 10, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z B BA

 

Luigi Speranza -- Grice e Bacchin: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’anypotheton haploustaton -- overo, i fondamenti della filosofia del linguaggio – la scuola di Belluno – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Belluno). Filosofo veneto. Filosofo italiano. Belluno, Veneto. Grice: “I like Bacchin; as an Italian he is allows to speak pompously as we at Oxford cannot! But he is basically saying the commonplace that ‘intersoggetivita’ has a ‘dialectical dimension’ (interoggetivita come dimensione dialettica) in the sense that the ego (or ‘l’io’) presupposes the ‘altro’ (as he puts it: ‘a cui’) – therefore; it is a presupposition of the schema, as Collingwood would have it, alla Cook Wilson – and thus only transcendentally justified. Bacchin has noted that the operator ~ is basic in that ‘inter-rogo’ invites a ‘risposta’ whose ‘motivation’ may be ‘implicita’ – the ad-firmatum is motivated by the domanda – which can be another dimanda: why do you think so? “Why do you ask why I think so?” --  Bacchin is alla Heidegger and other phenomenologists, with the ‘essere’ versus appare on which my impicata in ‘Causal Theory of Perception’ depend (‘if A seems B, A is not B. Note that there is no way to express this implicata without a ~. It might be argued that it can express with some of the strokes or with some expression that would flout ‘be brief, rather than the simplest” – and which would involve, as Parmenide has it, the idea of, precisely –altro’ (other than). Note that Bacchin equivocates on the ‘altro’ – in the dialectical dimension of intersubjectivity he obviously means ‘tu,’ not ‘altro.’ In the negation or contradiction (in dialectical terms) of an affirmation – which is involved in every ‘dialogue’ that Bacchin calls ‘socratico’ or euristico rather than sofistico (based on equivocation) – the ‘altro’ is the other, A is not B, impying A is other than B (cf. my ‘Negation and Privation’). This does not need have us multiply the sense of ‘ne,’ in old Roman!” -- Dopo aver conseguito la laurea ottenne la libera docenza in filosofia. Insegna filosofia a Perugia, Lecce, e Padova. Membro della Società Filosofica Italiana. Cresciuto nella scuola metafisica di Gentile, sviluppa una propria originalità di approccio e di ricerca filosofica, che lo rendono difficilmente assimilabile ad una qualche corrente o famiglia filosofica se non quella della libera e inesausta teoresi.  A testimonianza della specificità del suo approccio metafisico si può citare questa sua affermazione. V'è un senso metafisico che può andare perduto. Né basta parlare di metafisica e considerarsi metafisici per possederlo. La perdita del senso metafisico è anche trionfo del condizionale e quindi dell'ipocrisia: "direi", "avanzerei la proposta", "mi si passi l'espressione", "vorrei che il lettore ricavasse l'impressione..'", "anche se siamo, il lettore ed io, certo ioimmensamente piccoli", "a mio sommesso avviso" e così via in un continuo spostare l'attenzione su di sé e in un continuo, inutile, domandare scusa al lettore della propria scontata pochezza, rivelando che non è poi così scontata da non parlarne. Nudo e indifeso alla presenza della verità, il metafisico non lo può essere di meno di fronte agl’uomini, i qualidi certo- non sono la verità.  Riferimento costante dell'incessante dialogo filosofico di B. E senz'altro l'attualismo gentiliano.  Altre saggi: “Su le implicazioni teoretiche della struttura formale” (Roma, Sapi); “Originarietà e mediazione del discorso metafisico” (Roma, Sapi); Sull'autentico nel filosofare” (Roma, Sapi); “L'originario come implesso esperienza-discorso” (Roma, Sapi); “Il concetto di meditazione e la teoremi del fondamento” (Roma, Sapi); “I fondamenti della filosofia del linguaggio” (Assisi); “L'immediato e la sua negazione, Perugia, Grafica); “Anypotheton” Saggio di filosofia teoretica” (Roma, Bulzoni); “Teoresi metafisica” (Padova, Nuova Vita); “Haploustaton” (Firenze, Arnaud); “La struttura teorematica del problema metafisico”;  “Classicità e originarietà della metafisica, scritti scelti” (Milano, Angeli); “La metafisica agevola o impedisce l'unità culturale europea?”in ‘Il contributo della cultura all'unità europea', Castellano, Edizioni scientifiche, Napoli); “L'attualismo in Gentile, in Annali, Roma, Fondazione Spirito. Informazioni biografiche reperibili anche in Bacchin, Haploustaton, Arnaud, Firenze, B., Teoresi metafisica, Berti, Ricordo di B., Bollettino della Società Filosofica Italiana, Scilironi, Tra opposte ragioni: nota in ricordo di B. in Studia patavina: Rivista di scienze religiose. Filosofia Filosofo Professore Belluno Rimini. Metafisica del principio. Si comincia dopo avere cominciato. L’innegabile è innegabilmente. Negare è escludere un’inclusione indebita. Non v’è limite del sapere. Il luogo del filosofare è la domanda del luogo per filosofare. Ciò che v’è di originario nell’esperienza. La filosofia non ha oggetto e nessun oggetto si sottrae alla filosofia. La riappropriazione metafisica. L’esperienza praticabile è conversione fattuale in fatto. Funzione della parantesi nell’asserzione e l’aporia del dogmatico. L’autorità del dogmatico si presenta come critica di ogni autorità. L’ideale dell’autorità è di essere indiscutibile. Autorità e intelletto si fronteggiano. Ciò che l’intelletto impone all’autorità è di essere ciò che pretende di essere. Il luogo della domanda è l’insufficienza di ciò che si presenta a ciò che, presentan- dosi, non è interamente. L’identità tra inevitabile e necessario è solo co- struita. Il senso in cui non si può domandare tutto. Ciò da cui dipendono le valutazioni del domandare. Il senso in cui non si può non domandare tutto. Domandare tutto è negare di poter asserire. Paradigma del dottrinario in filosofia. Una richiesta che preceda la domanda di verità non può essere vera. Il prefilosofico oltrepassa il sapere di non sapere credendo di superarlo. L’impossibilità di oltrepassare quel ‘limite’ che è la stessa impossibilità di oltrepassarlo. La costante esistenziale dell’esperienza e gli equivoci della sua valorazione. La domanda universale investe il linguaggio come luogo della possibilità dell’errore. Digressione. La base del FILOLOGISMO in filosofia. Dell’ingenuità storiografica in filosofia. Le due direzioni dell’ingenuità storiografica. L’equivoco storico in filosofia. Equivoco di coscienza storica e conoscenza storica. Le storie della filosofia rendono la filosofia accessibile al senso comune prefilosofico. L’ideale sistematico del prefilosofico si prolunga nella storiografia. Filosofare nonostante la storia della filosofia. Inattualità teoretica dello storicismo. La nozione dogmatica di storia. Il carattere fideistico della tradizione e il circolo del riconoscimento. Due figure dell’accoglimento della tradizione: integralismo e progressismo. La ragione formale come unica ragione delle due figure. L’ideale immanente del credere è coincidere con il vivere. La ragione. Indice. Indice formale presiede nel suo uso ciò che la determina nei suoi contenuti. Se ogni fede è cosmica, ogni cosmo è creduto. La valenza sperimentale è già nella protomatematica, come si esemplifica in GALILEI (si veda). Il carattere ipotetico di ogni riferimento assertorio all’esperienza. Il rischio erme- neutico è considerare effettivo ciò che è interpretazione, come si esemplifica in GALILEI. Il senso in cui la scienza è alienazione. Ingenuità del ten- tativo di fondare scienza e filosofia sull’esperienza immediata. Il campo in cui si discute è ciò che intanto permane indiscusso. Credere di conoscere è non sapere di credere. Il rapporto tra intendere e pretendere è struttura del conoscere. Il rapporto strutturale di compreso e comprendente tra universi. Il rapporto di compreso e comprendente è struttura del contenuto di osservazione. Costanti del progetto d’esperienza e il vettore di interesse. Il progetto fondamentale e KANT Il progetto di filosofare è il modo filosofico di progettare: miraggio del ritorno all’immediato, Controllabilità e statuto dell’individuale. Ambiguità del sapersi orientare nel mondo. L’intenzione conoscitiva del fenomeno individuale. Progetto del conoscere come adeguazione progressiva. Il co- noscere rappresentato come rappresentazione. Il presupporre è limite presupposto all’operare. La scienza ignora di essere una fede. La scienza non può sapere ciò che essa implica, dovendo postulare ciò di cui abbisogna. La considerazione pensante. La conoscenza scientifica ipotizza la realtà che le consente di ipotizzare. Tentativo della distinzione tra ‘visione naturale’ e ‘visione scientifica’ del mondo. Esame della struttura del ‘punto di vista’ nella configurazione dei sistemi di riferimento. Dopo l’intermezzo ludico, che cosa si intende per ‘considerazione logica’. La logica formale è il modo formale di considerare la logica. Il FORMALISMO DELLA LOGICA (cf. Grice, ‘Formalists and informalists’). Il formalismo della logica è il nihilismo della verità. La conciliazione tra storia mondana e filosofare non può avvenire nella storia mondana. Ciò che si presenta con la divisione pone la richiesta della connessione. Il pensiero si affida al linguaggio per essere riconosciuto come indipendente dal linguaggio. Si esemplifica con l’espressione hegeliana “movimento dell’essenza”. Si insiste con l’esemplificazione hegeliana. Ancora esemplificazione hegeliana: la “cosa stessa” non può venire utilizzata. Il senso della cura–custodia. Il senso in cui il pensare penetra. Il pragmatico è fittiziamente teoretico. La verità mette in questione ogni discorso intorno alla verità. Il nesso tra tecnica logica e configurazione funzionale del concetto. La conoscenza scientifica considera astratto ciò che essa non può considerare. Rischio dell’equivoco tra mera domanda e domanda pura. L’imporsi della verità è l’asse delle pseudofilosofie. Volontà di coerenza e volontà di dominio. Coerenza è fedeltà alla logica di un sistema. Sistema ed esistenza. Esistenza e chiarificazione. Esistenza e coscienza. Coscienza e punto di vista. Il punto di vista fondamentale non è un punto di vista. La nozione comune di esistenza e l’istituzione. Ciò che esiste non è assoluto. Differenza tra teoresi e teoria e l’impossibilità di scegliere la teoresi. La teoresi, che non è teoria, appare in una qualche teoria. Poiché l’intero non può essere oggetto, nessun oggetto è intero. La scienza che escluda la filosofia diventa “filosofia della  natura”. Il mondo della vita impone l’astrazione. La filosofia non vincola a se stessa le scienze. Ricorso alla formula. La “formula” e l’aporia del metodo ideale. Il metodo di filosofare è filosofare, ossia domandare. Inevitabilità dell’astratto. Necessità e cogenza. Il carattere divino della matematica è l’essenza matematica di Dio anche se GALILEI non lo vuole. L’ordine astratto si esemplifica in WOLFF, ma esso è la logica interna della formulazione del principio di non contraddizione. La “proposizione” è la figura minima del sistema, la forma del quale è l’equazione. L’ideale del conoscere esclude dal conoscere l’operare. Le condizioni del conoscere sono riconosciute nella loro indipendenza dal conoscere, nel conoscere di cui sono condizioni. La relazione, che è esperienza, non può essere relazione dell’esperienza con altro da essa. La conoscenza dell’incono- scibilità dello in sé è conoscenza in sé. L’astratto è inevitabile, ma non necessario. Per dire con che cosa si comincia, si comincia con la domanda intorno a come si comincia. Affermare la totalità è dimostrare che es- sa non può venire negata e, dunque, non abbisogna di venire affermata. La condizione apriori è trovata analiticamente, perché è contraddittorio che, nel no- stro conoscere, tutto derivi dall’esperienza. L’uso è unicamente empirico ed è riconosciuto trascendentalmente. L’analisi è la presenza operante del “principio di non contraddizione”. La struttura sintetica del giudizio è l’infinitezza dell’analisi. Il giudizio è domanda infinita di venire fondato. Tra esperienza e giudizio non sussiste rapporto, perché l’esperienza non può essere un giudicato. La prima forma di mediazione è l’immediatezza fenomenologica, o medialità. Il contessere infinito del dato non è dato. Ogni ordinamento di oggetti è teorico. L’oggetto è pluralità di oggetti. Se è astratto l’oggetto, è astratto il suo contesto. L’intuizione astrae dal contessere infinito. Ciò che è dato per primo è risultato di un processo astrattivo: l’intuizione non è originaria. Differenza tra teorica dei giudizi e teoresi del giudizio. Impostazione. L’interpretazione empirica dell’oggetto “come tale” quale oggetto in generale: trascrizione generalizzata degli oggetti. La sintesi precede ogni analisi e la condiziona. Il conoscere presenta un duplice livello: quello del suo fungere che costituisce l’oggetto, quello della consapevolezza di tale fungere. Il conoscere muove dalla fiducia nello essere in sé del conosciuto, con base esclusiva- mente pratica. Può venire formulata anche la contraddizione, dunque la forma proposizionale non è struttura del giudicare. L’analisi come presenza dell’incontraddittorietà formulata come principio di non contraddizione. Un giudizio media la posizione di altro giudizio: medialità posizionale o fenomenologica. Di volta in volta un giudizio può valere come analitico o come sintetico. Si intende di sapere con necessità. Se v’è un modo empirico di conoscere, v’è un modo non empirico di riconoscerlo. KANT conosce analiticamente che la conoscenza umana è sintetica. Nessun giudizio matematico è conoscitivo. La ragione dell’aritmetica è un fatto, perché le risulta possibile ciò che le risulta fattibile. Le categorie. Indice. Indice trovate dall’analitica sono usate dalla stessa analitica. L’esperienza è condizione del darsi delle sue condizioni. “Cosa” ha significato operativo. Il tempo è essenzialmente prassi. Spazio e tempo provengono dalla sintesi dell’intelletto, ma operano nella sensibilità. L’oggettivazione dell’esperienza è matematizzazione, di cui il trascendente è negazione. Il trascendentale è, ma non appare. La sintesi è negazione di se stessa come negarsi reciproco dei suoi termini. Tempo e durata. La presenza fungente dell’apriori è analiticamente reperibile nel dato e non lo eccede. La differenza tra conoscere e sapere è conosciuta e saputa. Conoscere non è sapere e l’oggetto è matematico perché è oggetto. Esemplificazione con KANT di ambiguità fra matematica e conoscenza. Il conoscere della matematica, essendo matematico come conoscere, non è conoscere. La volontà di potenza è l’impotenza dell’io nei confronti delle sue rappresentazioni. L’io si riferisce a se stesso come dato all’io. Non vi può essere una ragione pura. Teoresi e finitezza della ragione. Il senso teoretico dell’inconoscibilità dello “in sé” è quello dell’inoggettivabilità del vero. La ragione è strumentale per se stessa. Il carattere filosofico della ricerca. Il carattere dialettico, o negatorio della filosofia. La dialettica dell identico livello.  La dia-letticità della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio.  I limiti di validità dell analisi nella filosofia del linguaggio.  Limiti di validità e valore.  Come è possibile una filosofia del linguaggio.  Concetto di teoria e sua riduzione. La riduzione del concetto di teoria e la radice pragmatica dell intellettualismo.  La nozione a-teoretica dello  in generale come base della teoria. Riduzione del procedimento analitico all inde terminato, cioè al contraddittorio. Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il negato.  La dialetticità come impossibilità di un procedimento analitico sulla totalità. La domanda totale e la totalità domandata. L intero della domanda totale e della totalità domandata. La conversione dialettica della totalità domandata nella esclusività del domandare.  La domanda come riferirsi in atto alla risposta. La problematicità della definizione concettuale.  L inter-soggettività come dimensione dialettica.  La struttura dialettica dell'implicazione.  L'insignificanza teoretica del disaccordo.  La preoccupazione di raggiungere un accordo effettivo è empirica e filosoficamente ingenua. Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune.  La superfluità del problema del solipsismo. Presenza e coscienza.  La realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione. L'attualismo come attualismo  puro. La realizzazione come negazione e come posizione. L'attualismo monistico come naturalismo. La presenza pura. La coscienza della presenza pura. Il rapporto tra atto ed oggettivazione tra presenza e pre-sentificazione.  Importo teoretico dell'espressione "Verum et esse convertuntur".  La metaforicità intrinseca delia parola. La "cosa stessa" come l'intero di se stessa. L identità pensare-essere.  Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine della parola "cosa". La duplice funzione della parola  "cosa". Le condizioni ad un indagine critica. L atto critico o negatorio come atto di pensiero nella coscienza.  La ricerca del mezzo logico adeguato e l interrogazione. I limiti teoretici delle asserzioni condizionate da interessi. La riduzione pretesa del sapere al potere e il concetto a-teoretico di teoria. L'interpretazione matematicistica nei suoi limiti.  La teoria come formulazione generale.  La radice dell'interpretazione matematicistica.  Le condizioni imposte dal concetto d interpretazione.  Il carattere teoretico del controllo sull esperienza.  Lo spostamento del limite come essenziale alle determinazioni.  La determinazione come ritorno dell atto: totalità di definizione e totalità di esaustione.  La totalità di definizione come "essenza". L' atteggiamento fondamentale umano operante nella definizione concettuale.  Il modo indiretto dì dire l'essenza. Originarietà e mediazione nel discorso metafisico (Il "Tema"; Svolgimento delle indicazioni teoretiche del "Tema". L'originario come implesso esperienza-discorso. L'"Esperito" e l'"Esperienza integrale". Il significato dell'"Implesso"; Il senso dell'"Originarietà" dell'"Implesso". Il concetto di meditazione e la teoresi del fondamento (L'impostazione; La "sospensione" degli enti dall'essere). Giovanni Romano Bacchin. Keywords: anypotheton, haploustaton; ovvero, i fondamenti della filosofia del linguaggio, il discorso metafisico – a new discourse on metaphysics, from genesis to revelations, etymologia di ‘autentico’, l’esperienza e il disscorso, implesso esperienza-discorso;  anypotheton, haploustaton, anypotheton hypotheton, supponibile, insupponibile, haplloustaton, superlative di haplous, simplex, simplicior, simplicissum, simplicissmo, complesso, simplice/complesso, simpliccismo, simplicissimo, complessissimo, complesso proposizionale, semplice sub-proposizionale – implesso, analisi del concetto d’impicazione – senso e significato – senso e segno – proposizione – funzione proposizionale – Whitehead. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bacchin” – The Swimming-Pool Library. Bacchin.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  

Luigi Speranza -- Grice e Bacchio: il principe tra gl’accademici di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo italiano. A member of the Accademia. ANTONINO (si veda) attended his lectures. He was the adopted son of GAIO. Bacchio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Bacci: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei bagni dei romani – la scuola di Sant’Elpidio A Mare – filosofia marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice (Sant’Elpidio). Filosofo marchese. Filosofo italiano. Sant’Elpidio a Mare, Fermo, Marche. Grice: “You’ve got to love Bacci; he was born in the Italian equivalent of Weston-super-Mare, and therefore, he dedicated his philosophy to swimming!” – Studia a Matelica, Siena, e Roma. Scrive “Del Tevere, della natura...”. Pubblica il “De Thermis”, un saggio sulle acque, la loro storia e le qualità terapeutiche che venne accolto con entusiasmo. Dopo aver ottenuto la cattedra alla Sapienza e l'iscrizione all'albo dei cittadini romani, e nominato Archiatra pontificio. I saggi “Delle acque albule di Tivoli”, “Delle acque acetose presso Roma e delle acque d'Anticoli”, “Delle acque della terra bergamasca”, “Tabula semplicim medicamentorum”, “De venenis et antidotis”, “Della gran bestia detta alce e delle sue proprietà e virtù”; “Delle dodici pietre preziose della loro forza ed uso”, “L'Alicorno”. Il monumentale trattato “De naturali vinorum historia”, un compendio in sette libri su tutti i vini conosciuti. Tratta temi relativi alla vinificazione e conservazione dei vini; Consumo dei vini in rapporto alle condizioni di salute; Caratteristiche peculiari dei vini; Uso dei vini nell'antichità classica, Vini delle varie parti d'Italia, Vini importati a Roma, Vini stranieri. Note  DBI.  B. la figura le opere, Atti della giornata di studi tenutasi a Sant'Elpidio. Crespi, B., in Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. De Naturali Vinorum Historia De Vinis ItalEae et de Conuiuijs Antiquorum Libri VII B. I Traduzione del libro V nella parte dedicata ai vini delle Marche, Brandozzi, Associazione culturale Giovane Europa, Filosofi italiani, Medici italiani Scrittori italiani Professore Sant'Elpidio a Mare Roma Enologi italiani. In quo agitur de balneis artificialibus, penes instituta recæperit, hoc tempus non esta deo compertum, nisi quantum legitur fuisse antiquissimum. Nam ex omnibus monumentis quæad notitiam hominum peruenerunt, vetustissima huncritum lavationum, perinde necessarium ad communem vitam commemorant. Balnearum enim mentionem invenio non modo ante ROMANORUM IMPERIUM. Sed ante asiaticos etiam et chaldæos extitisse. Imòsii actatis, ante quam ulla extitisset literarum inventio, dicterija credamus; extat apud Pisandrum id circo calida balnea fuisse natura bal. cognominata Herculea, quod Minerva olim fesso Herculi calida parasset. Vel  veterum et Galeni in Thermis primus la tascoengerit quodammodo ad lauacra homines. Quippe ea necessitas, quæ uationumv a primordio rerum monstrauerat mortalibus ex agresti vita victum quærere, sus. Tecta construere, abæstu& frigoresetueri: eadem et fordesabluere, mun ditiæ quecultum monstrauit primo quidem quantum vitæ satisfaceret, donec paulatima liqua industria ad hibita, laffata corpora mollia quarum foturecrea reedocuit. Verum quando id inftitutum locum aliquem in REPUBLICA HABE ROMANORUM, VANTA fuerit naturæ solertia incumulandis gratijs aquarum spontem anantium et quæ differentiæsinttùm simplicis Elementi, tùm consequentes ex misturi. Et quis vsus earumin balneis. Hactenus proeoac potuimus explicauimus. Quis enim pro dignitate naturæ, speciales proprietates cunctarum aquarum sermonem consequi audeat? In his autem quæ ad thermarum vsum dicendarestant, sirectèquis thermarum ARTIFICIALIUM magisterial consi dignitas. deret, summum artis cum natura certamen videri poterit. Ut tnesciam anadeo sciuerit natura elargiri mortalibus tota diumentorum materiam, torqueadeo divinæ dispositionis ostentare miracula inaquis. Quanto maiora funt, quæ ars addiditor namenta in Thermissuis. Præsertim fubila ROMANI IMPERII maiestate. In quarum monumentis, quæ ex eis partim videntur et partimle guntur apud varios authores, nons atis constat apud me vtra fuerit maior, an magnificentia operis ad illorum temporum instituta, an commoditas popularis ad vtilitatem lauationum. Principionon eft dubium fi prima quasiin cunabula cæterarum rerum coniectemus, quin ipsa vitæ, ac naturæ necessi quia  quia eidem vt Athenæus est author vulcanus muneris vice feruida suppo fuisset. Et livera credimusre tulisse PLATONE tamspectatæ fapientiæ authorem, superat omnium seculorummemoriam, quam ipse traditexantiquissi mis monumentis, de Atlantica maxim a olim insula nunc Oceano ipso occupant aextram Columnas; quam Neptunimunere cùm omni delitiarum genere Thermarron clarssima, habuisse refert ipse etiam balneas quæ omni cultu ornatæ partim usus, quidem sub diuo paterent, partim verò subtecto calentia haberent lauacrahy Είμαζα, τ'έξιμοιρα, λοιπάτε θερμα,καιανα cus Sexcentis autem post Homerum annis, Hippocrates primus medicinæ auderat. thor, Thermarum vsum curandarum ægritudinum causa, tanquam rei iam in Græcia communiter vsitate commemorat, ac damnauit aliqua. Floruitau tem ut ratio temporum habeatur natus primo octogesimæ Olympiadis ut Hippocrates Soranus tradidit circam Peloponnesia cum bellum: quod teste PLINIO gestu està tricentesi movrbis Roniæ anno ex actis anteà Regibusannos circitersexa ginta, et Artaxerse Persarum Regemagnam Græciæ partem, et Hellespontú occupante. Postquæ temporadum Græcia in dies Sapientiffimorum virorú scriptis venirent illustrior, perpetua habemus de Balneis testimonia, Socratis, Platonis, Aristotelis, cæterorum quesuccessu temporum authorum,qui& Aliam et Persiamnonfolùm Gręciam balnearum vsum habuissefamiliarem LaconesTber testantur. Laconesinter Græcos antiquiores, primamlaudem Thermarum marimiznitanquam suuminuentumsibivendicare videntur, Dioneauthore: ac abeis tores. pofteà huncmorem reliquas nations didicisse. Quod confirmatpartium nomina in Thermis Romanis, quæ omnes græcæ suntvoces, laconicum,Hypo cauftum,Miliarium,& Thermæ ipfæ, nedicam cætera. Ex quibusconstat vsum Thermarum apud Romanos fuise posteriorem, aceasinæmulationem græcorum constructastestanturMarcus Varroin librode antiquis nomini bus,& item Vitruuius.Veruntamensubila Romani imperij maiestate, sicut omnes artes floruere, ac inuenta prius ab alijs meliora cuasére, vnde meri to Roma QUASI ALTER A MVNDI PARENS dictaest: itaomnium maxi mè Thermarumi nftituta incredibiles, et supraquàm exprimivnquam pof sit, habuêre progressus,eatamen obliterataferèad hancætatem,necliteris mandata, multis forsanèdoctis hæc Melius scientibus. Quamobrem nos, volentes ad noftrarum lauationum regulam, antiquum Thermarum vsum rcuocarein lucem; operæ precium eft Romanarum instituta prosequi:inqui bus quæ prima ipsarum introducendarum ratio fuerit, quisordopartium,& quisvsus,& quæ tandem ineis medicinæ pars extiterit,percurremus. In Critia, berno tempore, atque feorsumaliaregibuspriuata,alia viris, aliamulieri bus,aliaitem equis, cæterişúeiumentis. Posteris veròseculis pater OMERO, cuiusscriptisnullum constat apud Græcos testimonium antiquius,mul toties calidaruin lauationum mentionem fecit. Præcipuè verò in Odysseæ lib. 8. vbi Poëtaomnium fermèrituum memoriadignorum obseruátissimus, Thermas indeliciis commemorat illisversibus. vic. Homeri lo Aid δωμϊνδαίς τεφίλη, κιθαρίςτε, χοροίτε, De  affiduis primùm venatibus deditos, necminusagrestibus operibusedu catos, nonaliaferè industriatùm amplificandæ Reipublicę, tùmdefen dendæquùm opusfuit, præualuiffe, quàm quod durata iampacislaboribus corpora, facile quod cunque militiæ onus sustineredi dicerant. Inquo perce lebremhabemus Quintium Cincinnatum, abaratro ad dictaturam vocatum. Itemque C. Fabritium et Curium Dentatum, qui rure ac militiæ laudatissimi, omni Spicula contorquent, cursuque, ictuquelacescunt, Ab his ergo exercitijs, vt erant frequentes, harena, puluereque conspersi, ac fudoreprofusiatqueoleo,vtseminudi acexertisbrachijs, cruribusque,vel liberos altemhabitu, quo degebant, vt effent admunia propriores, necessario lauationes pofcebant. Qua dere, dum adhuc nouitiavrbs inhis studijs Patres campum Martium vicinum Tyberi, in quo iuventus post exercitium  Lib. 1. c.10 armorum, ludorem, pulueremque dilueret, aclassitudinem, cursusquela borem natandodeponeret. Qui mos vt paulatim èreipsa, et quasi nemine Lauationes instituentese in ciuitatem ingessit quem ve plurimum soletese nouo rūrituum in Tyberi, introduction itatandem crescente indiesiuuentute,armorumquefimulac exercitiorum affiduo studio, viamtam frugiinstituti aperuit. Sanèin ciuile videri nobilem ciuitatem in luculentis Auminis aquis quotidie lauari; aclaua craid circo Asiaticorum, et Græcorum moreparandaesse, quæpostexercitia non ad munditiam facerentsolùm, verumetiam recrearent, maiusque robur laffatis membrisadiungerent.Quod tamen propositum longissimè distulêre: nonquideminscitia, aut vecordiatamgenerosæciuitatis, sed propter  Antevrbempueri, et priinęuofore iuventus. Exercenturequis, domitant que in puluerecurrus. Aut acres tendunt arcus, aut lenta lacertis ENEIDE Lauationum Deprimis Thermarum institutis in vrbe Roma. Aris quidem constar Romanos illos Quirites,antiquosque Sabinos, satissuntexemplonobis, hæc fuisse illius seculi ftudia. Non pecuniapræua lere, non forma, nõ ambitiofo hominum comitatu, non stemmatis dignitate certare: fed totamvimin proprijanimi excellentia,viribuscorporis,acexa etacura Rei pub. collocare. Feruebant honestælaudisemulatione ingenia, vt quosarma,& propria virtus ad prim s ciuitatis honores euexerant, studio, ac laboreæ quarent. Quare vbi militiæ in externosceffasset occasio, ROMANORUM quasi natiuo instinctu dediti ad labores, autrurese agrestibus ex ercebant ope studia. ribus, autaddisciplinamac roburcorporis, ciuilibus,ijsquevarijs exercita mentis vtebantur: cursu, disco,faltu, lucta,& pugilatu,natatione, atque armis. Quem more man t è urbem conditam fuiffe quoue. APUD LATINO antiquissimum, planèilis versibusrepresentauit Vergilius. necessitas. 36 strenuè adolesceret, præclarum habemus Vegetij testimonium, constituisse gruentem,au&taque fpatio temporis, spectatæ vrbis infiniti masterras autho Aquaríper ducen.decre ritate; deaquistandem èvicinis montibus, Auuijsquein vrbem perducen- tum. 1 vt egoreor potissimas causas:Tùm quiaprimiili Patresnontamfrugifu turumolimhuncritum existimauêre, quàm luxui, ac mollicieiforelenoci nium; id quod accidisse, posteà declarabitur. Deinde ob aquarum incom moditatem,quarum incolles, vbitunchabitabantdifficiliserat,& nonsine maximaimpensa,perductio. Verùmhoc laucitiædesideriovniuersimin dis, duas  dis, decreto S. P. Q. R. publico ftatutum est: quæ et potuum fimul,& laua tionumritui suppeterent.Quod factum est primùm M. VALERIO MASSIMO P. De cio Mure Coss. (authore PLINIO aqua Tyberinarī Appia ex Tusculano per ducta, Censore Appio Claudio curante. Aquibusté. porusdimif. poribus, Tyberinarum aquarum vsus,adeam vsque ætatem tàm potu, quá sus. lauacrofrequentiffimus, exolescerepaulatimincepit:aclauationum simul, atque exercitationis gratia (ut tradit Festus Pompeius) Piscina publica ad cli Piscina Pub.uium Capitolinum iuxtà Tyberimest constituta.Pofteà Thermæconstructę. stitut& uationumduntaxat, conftitutæ fuerant, haudmagnum habuêre progressum. Visicùm auctaciuitate, simul atque crescenteindiesineisiuuentutisapplau. fu; semper maiorisearum capacitates ratiofuit habenda.& præsertim vbime dicorum consensu incurationem quoque ægritudinum suscipicæperunt.Ve rum tamen post initia diu ad modum consuetum fuitangustasfieri,actenebri cosas;nonenimcalidæ videbanturnisi obscuræ;quem admodum fcribit SENECA ad LUCILLO, fuissebalneum SCIPIONE Aphricani ad Linternum. Causa verò amplificationis Thermarum præcipua, fuit Palæstrarum adiunctio. Quippe cùm apud Romanos veteres, ferèvfquead Augustum, nonadeo multa extiterit architecturæ dignitas, nec adeo fuerit consuetudinis Italicæ vt desuotempores cripsit VITRUVIO et multoetiampost cum Palęstris Lavationes habere coniunctas;contentus quisque ruralibus exercitationibus, Thermeadvel Campo ipfoMartio,& harenaPlatearum;solasin Thermisobibantla exercitia có uationes. Quo ritu ad imperium vsque Principum perseuerante (vnde planè stitute. constarepoteritThermas exercitiorum cauffa fuiffeinstructas vbicunqueali qua fierent publica edificia, ac populi celebritas,iuxtà constituebantur et Thermæ.Exemplo primùm Agrippæ clarissimo; qui ob celebritatem admira bilistempli Pantheon,atque Campi Martij; iuxtà,Thermas suas extruxit. Sic NERONE posteà Neronianas suasiuxtà Agonalem circum, ob Ludos, qui ibi fiebant celebres,constituit. Necfecus authore Suetonio TitusVespasianus dedicato Amphitheatro, Thermas celeriterextruiiussit: nimirùm ad Amphi Palestrari theatri,& exercitiorum, quæineofiebant commoditatem. Donectandem cum Ther. Illustratacuni Imperijmaiestate Architecturæ peritia, more Græcorum Palæ mis coniun-ftræcum Thermis fuêre coniunctæ, vbinimirùm generosa iuuentus,relictis iamruribus, atqueharenis, simul& exercitationes obirentomnisgeneris, ac lauarentur. Atque hinc non solum opera Thermarum fuerunt elegantiùsdi. sposita,atque admodum amplificata, sedtantam etiam promeruerunt o m niumgratiam, vttotaciuitas paulatim hancsusceperit consuetudinem, fre quentare singulis diebus Thermas, et tàm Senes, quàm consulares, atque amplissimi ordinis viri, nec non artifices, et matronæ. Proveteriinstituto, acftudio virium, promunditia, et prosanitate, atque omni cura corporum. Romanarum Thermarum cenfura, atque Magnificentia,  Quæ quoniam frugiinprimis,obeam, quam dixi causam et ad ritum la.10 Etæ 40 čtio. A e c ergo initia, atque hæc incrementa fuerunt thermaru m Romanorum. Primò quidem institutæob ritum laudabilem,quem exer citium, et vitæratioillorum temporum inuexerat. Deinde au Therme con Therma au Ctæobcommunem vtilitatem, et magnificatæ cumpalestris. Eradfum mam tandem amplitudinem, ac magnificentiam perductęob delicias. quem ad modum à nobis ex earum aliqua descriptionem on f trabitur. Quan quam id quidem, prorei, atq;vrbis magnitudine, haud nostroindigeret testimonio,descriptio qui Medicinę duntaxatineis instituta profiteremur: nisi minusplenèomnes,curnecela quide Architecturaconscripserunt, earummaiestatem expreffiffent. Nam ria. quidde VITRUVIO libriseliciemus,nisinudaquædam lineamenta,atqueeaqui Invitruvio dem nonadmodum explicata, paucaquelocabalnearumsuitemporis,quan-censura. doperangusta,& blactariafiebant balnea vt pauloantè ex SENECA testimo niodiximus quæeiusætate, et poftcà maximè, locuminter primas ædificio rum vrbis magnificentiashabuêre? Minusàiuniorum scriptis,quimutatis rebusposttotsecula, acminus concordibus, quif parfimdeeismeminerunt authoribus; fatissibi,atquelegentibus fecisseratisunt, sivastamduntaxat Thermarum dixerintmolem, ac Dedalei operisinstar admirarentur, cùm ta men Romanarum rerum magnitudo cunctarum nationum miracula supera- Medicorum. uerit, non in Thermis folum. Minimè omnium à medicis. Quos turpe h o dieadrectam lauandiægros institutionem videri deberet hæcignorasse; indi gnissimumveròproea,quam profitentur Galeni imitationem,quæ vixvlla essepotestsinehorumrituum notitia, inquibus ferètotaeius doĉtrina versa 20tur. Quam obremoperæ preciumest, advniuersam instituti nostril rationé, Therme an aliquam ThermarumVrbanarum, partiumq; ipfarúcensuramfacere. Princi-publicę,an pio Thermas fuissedecreto publico constitutes vt eftdictü non eft dubitan priuata. dum.Nam idmultæ declarantauthoritatesscriptorum,acmarmoreæ tabu læ,inquibus vel Senatusconsulta leguntur, vellegespositæin Thermis,ve! munera. Quę exmultis pofteàritibusdeclaranda venient, vt potè, in aliquo publico gaudiosinemercedepræstarisolitas; veloleum gratuitodari incom muni veròluctupublicè Thermarum vsum interdicisolitum. Imò in priua tispęnisexéplum legimus apud VALERIO MASSIMO Titio pręfectoobigno miniofam deditionem Calpurnium Cor. Conuictum hominum, et balnearu vsuminterdixisse. Verùm quinegant Thermas opera fuiffe publica,memi sedin Thermis: quarumhodieamplitudinem, accelebritatem,hac sancta religione introducta, templanostra, ac pia xenodochia immittantur. Quare et Thermæ Xeniædicte, quæ ita apud græcos cognominari folebant, quasi hospitales, et gratuitæ, quo cognomina Thermarum publicarum vtitur manı  Thermarum nissedebent magnificos in eis Imperatorum titulos, qui æternitate nomi- Thermarum nissui, tantioperismagnitudine affectassevidenturacRomanis suis, vel Po- magnitudi Oo pulo gratuito constitutasindicant.Quo planum fitetiam,easfierioportuis secapacissimas. Non enim in templistuncconsueuit populus congregari, quæidcirco angustafiebant, acsuisquisqueindigetisacpenatibuseratcon tentus, Tuniorum, nis ratio. Therma xea 40. Vnde perperam inhistorijsretulit Volaterranus, quiblice. M.Tulliuspro Cælio legitproSenensibus, cùm nus Francisci Patritij imitatus, Senias primas verò scripta subSenarummenioria.Inter quam balneainantiquislegantur, quarummeminititem palatine.,credo fuiffe Palatinas, atquehas xenias per acpublicas, ademissaria Aque Claudiæ adeaspofteå Cicero,vbi Sex. Rosciusoccisus,authoreeodemSene,earum cura erat publici muneris Max. ductæ. Necminus ætatem, quails et Cato, et Fabius ca, nobilissimos Aediles antesuam, acsuaetiam et alij, populum inthermis exigend imunditias gratia receptare niæ dop H. 2  manutemperare folitos. Balneator estamenin Plautolegimus, et pofteain Balneatores M. Tullio CICERONE pro Celio, quieiministerio aderant. Et Iureconsulcus.Instru et Balneato me nto inquit balneatorio legato, balneatores continentur, quoniam sinerium lega ti. his balneæ vsum suum præber e non possunt. Producto autem seutis annis instituto ipso ad luxuriam Principum, non solùm capacitatitantæ vrbis con sultum eft, fed citrà vllam mensuram aut modum, et vt Ammianus aflimi Thermarunlat potiusprouinciaruminftar,quàmvlliusædificijforma Thermascæpe numerus Ther.Impe runtextruere. Extatinterprimamonumenta,M.Agrippam,inAedilitatis munere; quodpostconsulatum gessit, gratuitapræbuiffebalneaquæ'po steasub Nerone,vt testator Plinius, ad infinitum auxêre numerum. Sextus autem ANTONINO victorin censu partium vrbis, Thermas, amplissima opera Imperatori axii. nominauit. Priuatarum verò balnearú, quasad priuatosvsus Ther. Priua qui lautè viuerētsibiinproprijs domibus compararunt, numerum exeodem ta. fubducimusferèdcccLx. quassuccinctèperregioneshicrecensebimus. Prima s ergo harum duo deci m non eft dubitandum, fuisse Agrippę  Thermas, qui Ther. Agripeo dé authore Plinio, imperáte OTTAVIANO eiussocero, multa et egregiainvrbe perfecitopera, ac Thermas fuaslytostrato, acencaustopinxit,& pauimétaex Neroniana. vitropofuit. Erantautemvltrà Campum Martium adfiniftram templiPan theon, vbinunclocusvulgò Ciambelladicitur, vtquæin Campo et inAgo nali Circo exercitaretur iuventus, hinc Tyberisnaturalem aquam, hincverò calentiumin Thermis aquarium haberet commoditatem, vbilauaretur.Ineis verocùm neque capacitati, nequeadeodelicijs consultumfuisset, eodem au. thore, successit quadragesimo circiterpofteàanno Nero profusiffimus Imperator, quiad Agonalem ipsum Circumsecundas Thermas suo nominee ex truxit. Inquibus,vtscribit Lampridius, syluasdeputauit;& nonfolùmdulces, Alexandri. Sed vel marinas aquas interdum, velalbulasper Aquæductus Anienisadduci ADRIANO Traiana. eum fecissememinit SVETONIO.Ponitidē Lampridius Alexandrinas, ab ALESSANDRO SEVERO extructas in CAMPO MARZIO quas quidam easdem esse NERONIANAS putant, quam tanto imperio fastuo- 30 sam,par erat hac quoque non carere superbia. InIli et Serapide Moneta Regione, cùm Titus Amphitheatrum dedicasser, Thermas iuxtà celerite rex truxit, Suetonio;quæ tertiæfueruntImperatoriæ, nimirùm inAmphitheatri celebritatem& commode vti diximus et id circo breues. Quartæiuxtàhas Traianę, quas Traianu sobhonorem Suræ, cuiusstudioad imperium perue nerat,erexit,ac Titi Thermis maiores, vbiquæextantmira Aquarum rece ptaculaseptem Salas vulgo appellant. Priuatæveròintotahac Regione Bal cömodianæneę xxx.I n Regione ad Portam Capenam, quintæinordinefuerunt Com et Seueria-modianę,quarum &Alexandrum Seuerum affectassenomen videtur: etiamsi nę. Antoniana. interpriores, acnoftrosantiquarios, aliquafitdelocis, et temporibus,& cognominum assignatione varietas. Inquapræterhas,extantalicuiusnomi nisapud authoresciuium balnea, Torquati,Vettij Bolani, Mamertini, Aba s c antiani, Antiochiani, et priuatæ aliæ Balneæ Lxxxv. Sextæ in Circo Maximo Antonianæ, quasmaximas verè dixeris, Spartianoauthore,quieasm e minitadradices Auentinicollis ANTONINO Imperatorem cognomento CARACALLA minchoasse, perfeciffeveròeundem Seuerum:mirahodie architectu ra,  ratoria. pa. na. Agrippina. Titi. instauratas. Adhæc P.Victor Hadriani Thermas. Et ex priuatis Balneisintotahac Regione Lxu11. Eodemtemporeerexitquoq; suasTher-: mas iuxtàExquilias Agrippina Neronismater ra, nec imitabili, cum Palęstris coniuncto. In hac et Varianæ, et Decianępo sterioresnumeranturaP.Victore,necnon Syriacæaliæ cognominatę, et Pri uatæaliæLXIIII. Seueriquoque nominef uêrein TranītyberinaRegione Scueriane. Thermæ, eode in Spartiano teste. Necnon Aurelianz,Vopisco. Balneuitem Aureliane. Ampelidis, Balneum Priscilianæ, et Priuatæ aliæ 1xxxvi. Inter Esquilias et Montem Celium, apud Titi et Traiani Thermas, PhilippiImp. Thermas Gordiani. amplifl. ac pofitum estadperpetuamrei memoriaminipsabasylicadistichuin,deAngelis. Quodlicànobisest restitutum. Quæfuerant Thermæ, nunctemplum est Virginis, auctor El Pivs ipsePater,cedite Deliciz. ruptèdicuntur, et Priuatæ intota hac Regione 1xxv. Porròrecenseturinli. Esquilijs Regione Olimpiadis Lauacrum, vbisummo colliculo Sancti Lau Vltimæ Cæsarum nomine, Constantinæleguntur ThermæinCliuoMontis Quirinalis. Quas non reparatas, non d e integro ex tructas à Constantin o e x i ftimo, cùmvetuftofatis appareant opére. Necnonmarmoreæ tabulætestimo nio, quodlegitur: HAS CIVILI BELLO DEVAST ATAS QVANT VM PVBLICÆ PATIEBANTUR ANGVSTIÆ PETRONIVS PERPENNA RE STITVIT. Propèhas L.quoq; PauliBalnea,quæ vulgò Balnca Napolicor- Balnea Pau rentijinPanisperna,monialium ecclesiahodiecelebratur. Adcliuumcollisà Olympiadis. Suburra Agrippinæ Neronis,quod diximus Balneum, et infrà Nouati ciuis alix balneæ, vbi S. Pudentianæ est ecclesia. Et Priuatæ aliæ in totum lxxv. Subinde vede Priuatisreliquisbreuiteragam: erantinquarta Regione, vbi et Templum Pacis, Priuatæ Balne xLxxv. cum Daphnidisbalneo. In Celi montio xx. Invia Lata LXXV. In Foro Romano iXVI.In Piscina Publica xlinn. InP alatioxxvi. Pluresin Martialesparsim leguntur Thermæ, Tuccæ,Hetrusci,Grilli,Lupi, Fortunati, Pontij, Seueri, Fausti, Peti,Ti ti, Tigillini, quarum locanon assignantur. PorròextraVrbem nonminor Thermarum cultusessedebuit, vtexquarundam preclariscolligimusm onu, Constantina. Mentis. Erantad Hostiam P. Tacij Thermæ, centum Numidicis columnis Thermeer Ooij adscribit Pomponius Lçtus. Necprocul Gordianorum Domus, quam escry psitIul. Capitolinus admirandam, ducentas columnas vnostilo habentem, et cum Therinisadeolautis,vtprætervrbanas, vixaliæfimiles haberenturin toto orbe terraru m. In a lta Semita Regione, Viminali colle, Diocletianæ ex – Diocleti. 1 1.. tant Thermæ, qua sincçperatquidem Diocletianus Imp. Cuni ordine exactif simo, atque amplissimo Palestrarú omnium generum, inquarum opus quadra gintamilliaChristianorumeum addixisseaccepimus. Ob magnitudinem tamen vt in Marmorea tabula legitur CONSTANTIVS ET MAXIMIANVS OMNI CVLTV PERFECTAS ROMANIS SVIS DEDICAR. Hę,cùm in fermè ædificio admirandæ permanerent, hodie Cartusiensium Mona tegro sterio Sacræ, Pio Iu11. Pont. Max.subtitulo Sanctæ Mariæ de Angelis magnificèrestaurantur: Curante M. ANTONIO AMV110.S.  R.E.CARD. S. Maria exornatæ. Arpini suas instituitThermas Cicero,scribens ex Asia ad Q. Fra trem. Erantin Lucullano, quænunc Frascati vulgò dicitur, Luculli Thermæ, vbi nos integra vidimus Hypocausti vestigia. Ad Baias autem Thermæ Baians. erantprætervrbanas,supraquàm quisoptarepotuissetvoluptuofiffimæ,na turaipsaibia quasvberriinè fuppeditante, gelidas, calidas, et plurifariâfalu bres, quasfatisinsuishistorijs celebrauimus. Quid verò hìc cęteras Italię pro sequar Philippi. Trarbem L.  haberet? Quinetiam Rusticanas, inquibusfamilia vt inquit COLUMELLA et Rusticana. exeo Palladius ferijssaltemdiebuslauaretur: nequeenim frequenteniearū vsum robori corporis operariorum conuenire. Similiterhunc morem acce Aquarum maris, et portuum commoditate, aquarumduntaxatsustineretpe-': nuriam;hacinpartevenisseincertamenquodam modo cum naturavisaest, vtaquarum quoque essetabundantissima. Itaquecumhocdesiderio, crescen teindiesinstituto Thermarum, et modò aliaatquealiaadducta multo spatio temporis in tantam aquæ venêre copiam, vt Augusti ætate, Strabone teste, pervrbem, atquecloacasomnesinundareviderentur, et vni uersæpropemodum ędessubterraneos meatus, syphones, acfistulasvndo sashaberent. Quo tempore M.Agrippa Augusti ipliusgener, quem complura invrbefecisse constat opera, cultu,atqueedificiomagnifica;aquarum Cu ratorperpetuus, PLINIO, alijscorriuatis atque emendatis,& alijs nouiter adductis,septingentos lacus fecit.Pręterea fontes c v,Castella Lacusintelligo ex Frontino, alueosbreuimuro,inquibusaquæ reciperen tur,& aliaexalia, vt fiunt apud nos Fontane,Lauacra,Fullonum stagna, jumentorumaquagia, et huiusmodipublicacommoda. Fontes, quiprimas ac fyn ceras ex Castello funderent aquas, pauciores id circo quàm lacus. Castella, certaAquæductuum receptacula, ad MęniaVitruuio,&inviarumdi uortijs, vbi aquarum facienda esset distributio. Quale etiam num visitur in E r quilijs Castellum aquæ Claudiæ, indiuortio ad portam Maiorein nunc dictá et adpisse reliquas Provincias, quibus Romani imperassent, in transcursu diversarum lectionum obseruauimus. Prætermultas, quaslegimus Romanis anti  Lacus in vr sequar Thermas, cùmeatempestate vulgò vilaquæ libetdiuitumfuas balneas quiores, vtquasprimasin Greciadiximus, in Asia,inSicilia,& apudPersas Hebræorum DarijThermas, quasPlutarchusdescribitditiffimas, et lautiffimas. EtIose Hifpanorum phus Hebrçorum Thermas ad Ascalonem, ad Tripolim, ad Damascum, ad Ptolemaidam. Hispaniaqua calidalauari poftfecundum bellum Punicum à 10 Romanisdidicêre,anteànon consueueruntnisiin frigidalauari, authorIu stinus Historicus. Multæ occurrunt apud authores Thermarum memoriæ,in Germania,in Gallia,in Britannia,aclongè plura ipfarum vestigial visuntur in Italia, in quibus vidi sępius per inscitiam etiam doctos virosobstupescere, alij Theatra, alij Labirinthos, alijmemorandas moles alicuius sepulchri ia ctantes.Quarum tamenritum legimusvenisseadeo communem, vtnonco lonias, et municipia solum,sednemo dignè tùm Romanam militiam profi terivisusesset, quinon haberetsuabalnea,& gymnasia, inquibuscommi litonessuiexercerentur. Quod de CleandroTribuno equitum Commodi Cęs.meminit Herodianus. Indomesticisveròvsibusbalneum eratviainci-20 bum, vtnotauit Arthemidorus. Cuiusreipassimhabentur exempla,quùm ex itinere,labore, acexercitio quopiam balneum primò ingredi consueue rint, et pofteamollia quarumfotu recreatiaccumberent. De aquis vrbanisad vsum Thermarum adductis. Externe. aqua; haud copiaivrbe bequid. Fontes V Ros autem Roma, cùmprætercæteras gratias, quibuseamaltissi musdecorauit, salubritateaëris, situagriadimperium opportuno, zo adportam SanctiLaurentij,quod pofteà C.Marijtrophæisinsignitum, adhuc illius retinet nomen. Porrò fingulis castellis aquaruin erant propositi Trophça suiCastellarij,vtpræclaroquod Romæ legitur epitaphiocostat. D. M. Clemen Aquarum propria commoda. Mirariveròlicet inprimis ipsarum ductuum fabricam, duétuumma dignam planècùm magnitudine operis, tùm certè publicaipsavtilitate, quęgnitudo. Pluribus mundi spectaculis proponenda esse videatur. Molesingens, àdimi dioferèItaliæquædam perducta,partimexcisisac perforatismontibus, par 30timascendens, partim abimis vallibus perimmensosarcussublata, quibus Aufeia, et 20 fue xit. Et anteà lib. 31. cap. 3. Clarissima inquit Aqua ruinomniumintotoorbefri goris, falubritatisquepalmapræconio vrbis Martiaest, inter reliquadeûn damlociscentum et nouempedesaltitudinismensurantur.Vniuersamverò omnium censuram ita habuit Frontinus. Altissimus Anioestnouus, Proxima Claudia, Tertiumlocum tenetIulia,quartum Tepula, dehinc Martia, quæ capiteetiam Claudiæ libramæquat, deinde Appia, omnibus humiliorAllie tina. Primaverò, vtpropinquior, et maximècommoda, Appiaadducta co ftarexTusculano:Cenfore vtfupradiximus APPIO CLAUDIO, annovrbis Appia aqua quæ perportam Capenam,nuncSanctiSebastiani,inocto vr munera vrbitributa.Vocabatur hæc quondam Aufeia.Fons autem ipfePico nia. Oriturinvltimismontibus Pelignorum.TransitMarsos,& Fucinum La piconia tempus addu tiCæsarum N.Seruo CASTELLARIO Aquæ Claudiæ fecit Claudia Saba tis& fibi& fuis. Extat Senatus consultum apud Iul. Frontinum,quoaquam non eratpermissum nisiex castelloadducere,ne autriui, autfiftulæ publicæ lacerarentur. Publicisidcirco Thermis, propria castella videnturfuissecon ftituta: qualia videmus integra ad Diocletianas Thermas,& adTraianas,mul tiplici opere con cameratas.In Priuatisautemprima Censorum, aut Aedi liumeratauthoritas,quorum arbitratupermodulos, digiti, velvncięnomi ne certo annuo solute vectigali concedebatur. Legequecautum codem te fte,ne quispriuatus aliam duceret,quàm quæ exlacuredundaret, quam ca ducam vocabant: et hancipsam non in alium vsum quàm balnearum, aut fullonicarumdari esse solitam. Omnem aquaminpublicosvsuserogari debere. Cæterùm quotnumeroessenthæaquæ, quæ, quonomine, et quo tempore,& vnde adducerentur, breuiter percurrendumest. ScribitPro copiusIustinianiCæs.fcriba,Romæ quatuordecim fuisse aquarum ductus, excocto latere,ealatitudine,acprofunditate, vtferèequesteripsocúequo pereosposseteuadere. Nos Frontinum imitati, qui Nerva imperante pręfuit hisceoperibus curator perpetuus, et fcriptis cuncta sid elitermandauit, octo aut nouem suo emissario per ductas dicimus. Quę fuerunt ex ordine, Appia, Anienisvetus, Martia,Tepula, Claudia, Anienisnouus, Iulia, Allietina, et virgo: etiamsi pofteàduplici, acplurinomine, vtvsueuenit,fuerintcogno minatæ. Nam poft Frontiniætatem, non aliamlegitur, prętereasfuiss ead ductam, nisieasdem àdiuersis Imperatoribus autinstauratas, autseductasad bis Regiones exviginti caftellis distribuebatur. Quadraginta veròannispo- tus. fteà, exmanubijs Pyrrhi Regis Epiri, Spurio Garbilio,L. Papirio Coff.prima Anienisadductafuit, vtetiamcommodavrbi, et altæoriginis supra Tybur.Martiaquę. Tertia fuit adducta Martia, dicente PLINIO. Q. Martius iussusà Se natu Aquarum Appiæ, et Anienistegulaductusreficere, nouamànomine suo appellatam, cuniculispermontes actis intràpræturæ cum, Marü. Anienis ve Oo i 1  Triana. cum, Romam non du biè pet ens. Mox specum er sa in Tiburtina se aperit nouem millibus passuumfornicibusftructis perducta. Primuseam invrbem per ducere auspicatus est Ancus Martius, vnus exregibus. Poftea Q. Martius Rex inprętura, rursus querestituit M. Agrippa. Hæc PLINIO. Hancdemum et Traia namnuncupatam aserit Frontinus, àTraianoin Auentinumvsq; protracta. Quartafuit Tepula, quaabagro Luculli, quéin Tusculan oex VARRONE legimus Tepula,. Gn. Seruilius Cepio, L.CasiusLonginus Collin Capitolium perduxêre, via, quæ PortaMaiorhodie appellatur,claristitulis Cæsarum, Claudij, Claudiaque VespasianiT, iti,& M.Aurelij. Eamquidemdestinaueratprius Caligula,per et Curiadaduxitveró Claudiusabvsque xxxvi. lapide, via Tiburtina, èfontibus Cæ Cerulean ruleo,Curtio,atque Albudino collectam, quibus fæpènominibusscribitur. Adduxithiç et alteram Anienem, cui ductui ad differentiamveteris, Nouus Anio cognomen tumfuitinditum, Frontino authore, qui& ipfumpofteàre Fons Albu ftituit. Concipiturautem per agrum Tyburtinumxx, milliario, operealtili-. Moad Portam Esquilinamadducto. Aquam verò Iuliam admiscuitcum Tepu laM. Agrippa, viaLatina,quæab Aureliano iterurm eftituta, eiuscognomen Julia quęeg assumplit. Ållietinam,quam et Augustam, miratur Frontinus Augustumpro Aureliana, uidentiffimum Principem per ducere curasse nullius gratiæ, imò et parum sa Alietina, lubrem,nisi fortecùm opusNaumachiæ aggredereturtrans Tyberim. Quidam ob hoc eam intervrbanas aquas non numerant. DE AQVA VIRGINE QVAM duxit Agrippa, vt PLINIO, meminitlib.31.c.3.& deinde Claud. Cęs.Pri mum veròauthorêCaium Cęs. Fuisse indicant marmoreæ inscriptiones, quarú 30 vnaineiusaquæductuita legitur. Tit.CLAVDIVS DrusifiliusCesarAug. Nominisra-ductusaquæ Virginis destinatosper Cæs.àfundamétisrefecit, acrestituit.Virginis porrò nomen vt Frontinus scribitnobilis author de aquis vrbanis ad cafum fuithuicaquæ inditum:nam quærentibusa quammilitibus, puellam virgunculam quasdam venas præmonstrasse, ac il as sequutos in gentem aquç moduminueniffe. Aediculaidcirco Virginisfontiapposita.Quod nomen posteavidenturadsciuiffe Dianæ, ac Triuiænuncupaffe, quasi Dianæfonsdi Fons Diane triplex habere dicebatur numen, celebrarisolita, necnon à triplicifonte,qui- 40 bushæcaquaconcipitur. Vel vt quibusdam placet antiquarijs virginisno futurna menindicasseIuturnam,quam Nymphamsic dictam teste VARRONE quòd Nympha. iuuaret, invotisfuisehabitaminfirmis, quiexeaaquabiberent, facramque in via. simulat que puteum, qui extat, dive Mariæ  Virgini fuisse consecratum, vt ran In Triuia. Libetquiseiusnominis interpretationem accipiat, verumtamen eofit magis verisimilisnoftrafententia huncfontemfuisse virginéàDiana,& Triuianun Meuiæ,quæ dinus, Anio nouns 20 vocant Şaloniam, tio. Vel Triuię. et aqua Diançsacra, quę veteribus virgo habitaest, et in Triuijs, vt AQVA autem Virgincquoniamsola hæc ad nostrum hanc ætatem Romam perducitur, altioraliquantosermo habendusest. Eam per cupa Primus aute D thor, ceretur, 10 Latina dextrorsus, longex1, milliapaff. subterraprius, deinde arcuato opere. Quinta, ac fausti nominis fuit aqua Claudia, vtinfrontispiciolegitur Portæ id circo hanc ædemei fuisse constituta masseruntiuxtaipsum fontem,quam Sinct. Mar. posteà Religione introducta, insuperstitionem præteriti seculiabolendam,  JO est Herculaneus riuus, quem refugiens, virginis nomen obtinuit. Hactenus Ductus lon Plinius. Habetautemductus longitudinesàcapiteadipsum Triuijfontem,girudo. spatio a bestàvia Prænestina, dicente Plinio.Marcus Agripa et virginéaddu ” xitaquamaboctauilapidisdiuerticuloduomillia pafsuú Prænestinavia:iuxtà (vt Frontinus dimensus est) milliariorum XIIII.n a m vbi fpecus subit montių, vbicircuitcolles, velvallesæquatarcuatoopere, multos habetflexus. Pro greditur Anienemfuuium, acintersecta Tyburtinavia, et exinde Nomenta na, et proximè Salariavia; tandeminter Collatinam Portamque estsalaria, et Puteus Po. Pincianam sub colle Hortulorú, qui est hodie Sanctæ Trinitatis, ad Trivium litianus vicum exilit fonte. Subitautemeum collempro fundiffimnospecu,cuiusho die puteus altissimus repertus estin medio viridario, quod magnifico, ac con spicuointotāvrbem ædificio ibi constituit Cardinalisamplish. POLITIA. 20NVS, et vtrinqueduæ eiusaquæ marmoreæ inscriptiones.Tı.CLAVDII nomine. Etquo digno tum fuit magnisilis Romanorum Architectis, erita; omni futuro seculo memorabile Camilli Agripæ Architecti inventum, salientemsuaptes ponte facit aqua (impulsam tamen in æreum tubum rotis ræ, primam fanèlaudem promerentur Sanctiffimi D.nostriPivs IIII. et qui - statim ei successit Pivs V. Pont. Max. quivirginem ipsam aquam ad Virginisper pristina mantiquorum formam perducerecurauêre. Quippe lapsu temporum hæcaqua varias subijt mutationes,& quodmirum eft, vsqueà Plinijtem lutem. Pofte àc raffantibus in Italiam,& invrbemipsamtot bellis,acvaria rumgentium incursionibus: plana in historijs monumenta habentur, quæ ductio. Refert Platina, Adrianum patria Romanum Pont. Max.d omitisiamaf. Adrianiin fi&isque Longobardis, anno falutisnoftræcirciter Virginis Stauratio. Aquæductum dirutum, cumalijsvrbisaquæ ductibus restituisse. Donecite rumnonmulto poftdirutus, protantarerum, quæsuccessit calamitate, nuf quam prætdr e a videtur fuisse restitutus. Nam quod in ipso Trivii fonte legi Nicolai. tur, Nicholaumv. annoabh in ccxII. Virginem fontem restituiffe, planevi detur is Pontifex haud vllam antiqui ductus huius aquæ partem instauraffe; sedconfluentesduntaxatè vicinia venascitràpontem Salarium prorefugio vrbis collegiffe, quæeftminimapars; virgoigitur aqua octauo vt diximus est Salonia. Milliario concipitur,vbi nunc locusà Salone dicitur: Quæcunque fuerithu ius nominis significatio apud vulgus, quod,vt consueuit huiusinodi aqua run conceptaculafalasdicere, forsan et hoc obamplitudinem areę Salonem nunc uparit, dicente præsertim Frontino, hunclocum vnde virgo aqua con- Riuusnúad iicitur, palustrem fuiffe, et vt scaturigines contineret, lignin operecom-mititur.  40 cupatum, quod nomen ipsum ædis Sancta Maria invia, vulgari (vt videtur) vocem utila dicitur,  pro Sancta Maria in Trivia, vbi multa cum devotione Beatæ Mariæ Virginis etiam num ea aqua ab infirmis bibitur. De Fonte ergo ipso quia d huc in Triviæ vico celebris est, non est dubitandum. De origin eau - Origo. tem, Pliniusa pertèdicit concipivia Prenestina. Frontinus autem Collatina ad milliariumoctauum, quæ vtquidam putant,duorumcircitermilliariorü pore(vtipsememinit )cæpithuius aquæ fimulatque Martiæpenuria: Ambitione inquit ac auaritia in vilas,acsuburbanadetorquentibus publicamsa Artificium per Usurpatio.  Herculews ipsam aquam volubilibus, et machinis) quæ eximo puteoads ummam planiciem. paffusexilitfonte, actantavbertate, vt non hortosfolùm,fed et totam quoque subiectam vrbis partem reddat irriguam. Cuiustam frugiope Agrippe. mu 4 OO 111 munitum, quod nunc quoque visitur aliqua parte. Iuxtà estriuus Herculaneus. quemtamen non admittit, tùm quia locus palustris humilisque est, acvligin e totus obsitus; nec aquæ est satis vtilis: tùm qui a  satis fupe r q; adeam formam aquæductus Salonia est. Neceum riuum admisisse antiquos,satis apertè de clarantea Plinij verbaiam allegata. Iuxtàest Herculaneus riuusqué A Salinis refugiens Virginis nomen obtinuit. Nec secusdimittendaeorum sententia aqua. est,qui ad Salinas vocatas à Frontino aquas pro Salonia acceperint: cùm hæ longiusinfluantà Salone, sinistrorsusàvia Præneftina, vcidem Frontinus inquit,passuum septingentorum octogint aquæ vel Appia aqua, vel Appix Appi&origo carestudeat, piètamen et public vtilitati consulens, opus tàm frugiprofequu Vltimaper tusest, aquamqueVirginem, ad eotot seculis desideratam, hocanno, acmen se MDLxx. decimoseptimo Calen.Septembris, cummaximo totiusvrbis applausu, ac gaudio perduxit in totum. Consultistamen prius (vt Sapientissimum decet Principem) Medicis, àquibus et bonitatem aquæ, et vtilitatem, quam præbere posset huic almæ vrbì re latam comprobauit. Qua dere Naturaem hæc mea eft sententia: Sanè magnum argumentum bonitatis huius aquæ hoc Qualitates esseexistimo, quòd hæcaquafueritinvsu, vt nunc quoqueeft, longiffimis seculis. Quippe hæc primas sempermeruit laudes simulcum aqua Martiain tercæteras vrbisaquas. PLINIO Quantum vir gotactu(hocestfrigore)tantumpræstatMartia haustu: alternante hoc bo tactus intfrigidæ, easnonperinde(laudabiles) et haustuesse. Hæcs uccinctè Plin. Hác aquam Martialis cognominatcrudam, ilisuerlibus. Ritussi placeanttibi Laconum, Contentus potesaridovapore 30 te influentium, et tepidarum, et frigidarum aquarum; hanc specialiter vsu Ab experi- balnei comprobat frigore, et profrigida, metri causa dixitcrudam. Velcru mentis. Dam intelligas eum dixisse in comparatione aquæ Martiæ, quæ (vt dictúest) vtilior haultuerat, virgo tactu. In experimentis, tardius hæccoquit legu mina, accibariareliquaque Tyberisaquęlimpidę,& Cisternales aliquę.nimi rum quia fluuialeseiusmodi, inrespectu fontium, omni exutæsuntcrudita te,ac pluuiales magis aëreæ. Cæterùm hęcaquanullis fontium aquis vide- 40 turmeritò postponenda. Cætera verò quæ leguntur aquarium vrbis nomina, aut variæduntaxatipso nomin e sunt, sicut iam plura ali cuia quę adduximus nomina:a u t externę sunt Crabra. Sabatina Lacus Saba saporem, inter vrbanas non adnumerant. Nec Crabram,quæ erataliaaqua, aquæ, nonvrbanæ. Quomodo quidam Alfietinam, ita vocatam obingratū tis. Amnis Tusculanis, vndeaduehebatur, relicta. NecSabatinam,quamàLacuSa Larus. batis, qui hodie est amnis Larus, nouissima momnium aquarum breuimo. Io ductio. Martialis.  pars per Capenam portam, nunc Sancti Sebastiani ducebatur in vrbem. Tota ergo virgo aqua Saloniaeft, multisvenarum, et riuulorum acquisitionibus vt Frontini verbisvtar obitervsqueinviam Salariamaucta'. Quam Pivs IIII. Pont. Max. vt delectabatur vrbem suam æternis monumentis, publi cisq; idgenus operibus adornare,destinauerat.Pivs verò V. Pont. Max.cũ fanèprimùm orthodoxam fidem noftram à tot seculihuiuserroribusvendi no, vtquæ Cruda Virgine Martia quem ergi. Quo nomine haud quidem cruditatisvitioeāhic Poëta damnare voluit. Sed mirisex tollens laudibus Hetrusci balneum, blandicie præsertim, et varieta dulo  20 qua quanı diversæ à prædictis aquæ. Quod vsu cuenit in eternis id gen us operibus, perpetuams ibiquisque memoriamcomparare.ItaqueprimaTherma structuræ exemplo, nulloque integrèscriptoremandata literis, nisi obiteràmultis, et controuersè. Et quæ obfitaadeo vetustissimis iacetruinis, vt quanquàm peritissimi multi hacętate antiquarij conquisitiffimè studuerint easinali quamlucem reuocare: nonminortamenadhucrelictafit, magnis etiamingenijsconfusio, vtquęsparsim dehisleguntur authoritates scripto rum,cum paucis quæ ipsarumapparentreliquijs concordentur. Inprimis describenda esse tixvoypapíce, basisquetantiedificij, quam noftriadverbú Plan tamrectè appellant: at hæc diuersissima habeturabe aquam tradit Vitruuius, neceadem dispositioin omnibus Thermis.Porrò, præterfpatiaplatearum, mina esse tantum aut instauratorum, aut insigniu meor undem constat, ha ud ac additos lucos, hortosque immensos, ac Lacus, distinguenda effentloca exercitationum àbalneis.Acloca propriacuique exercitij generiassignanda, vbicominus, acbreuicirco, vbi eminusfierent, sub Diuo, subtecto, in Xi stis. Et quæratio fuisset exercitiorum in Palestris, et quali aexercitia.Quis vsus præter e a totaliarum partium: et quæ dispositio, Corycęi Ephebi, El cothefij, Conisterij, Exhedrarum, Spheristerij, Xistorum. Etdebalneis, fi singulæ Thermæ plura habebant balnea, at dubiumnonest,quæ naniratio 30 distinctionis, ancommoditati, an loco, an ordini, vtcunctis legitur fuisse consultum. An omnibus vnum essetcommune hypocaustum:& feu vnum commune omnibus, seu commune vni partitioni, vt verisimile fit, quo loco maximècommodo.Anbinæ& ternæ, quæle guntur lauationes, eodem fie rentbalneo, andiuerso. Etsidiuerso, aneadem pluribusferuiebat,ansin gulisnouaaqua.Velquæ ratiotàmmiriartificij calefaciendivna hora tantam aquæ quantitatem, quæ innumerabili populo sufficeret? Vnde et quo certo ductutantæ aquæ copia? Quæ ratio erat Pensilium Balnearum, quastantocú applause Vrbis, et totius Italiæ quosdamintroduxisselegitur? Quibusadid valibus, aut balneis, aut alueisvtebantur? Etsilabrislapideis vt quidam putant quæ videmus per Vrbem maximis: quæ eorum erant in balneis dispositiones, et quo situ ad aquas accipiendas? Etdebalnearijsrebus, quæ fanis expedirent, et quæęgris. Quiddicam delauandirituperordines; perætates, perleges, peranni tempora, peripsa exercitia; acde innumerisdenique id genuscircunstantijs,quasvelnon scriptasabantiquarijs,velper coniectu ramduntax attentatasà iunioribus, merispotiùserroribus obscuratas, quàm explicatas invenimus? Quare nos dum hec aliqua ex parte revocare in lucem intendimus, et quævsuimaximè medico opportunasunt, exponere,nullam Fos Veneris  1 rum instituta, atquemomenta Aquarum ductuum habemus. is fchnographia Thermarum, &dehisque tractanda funt. Cap.v. Hermas verò per partesliterisinstaurare, haudquaquàm presentis muneris est. Nec facile esset, pro tantæ molis magnitudine,  non vnius dulorestituit  Hadrianus I. Pont. Max.quam et Ciminam interim appellariin uenio, àCiminoipsomonteinFaliscis, fonteVenerisdeducta.Drusaauté, Ciminaaqui Annia, Traiana, Antoniana, Seueriana, Alexandrina, et idgenusaliæ,no. ferè Dubia in Ther. 2 Oov  ferèiuniorum positionem fequemur: sedquátum exrationeillorumrituum,  Spacia Thersimulatque locorum ipsorum diligenti consideratione colligerepotuimus, percurremus. Spatia in primis Thermarum videmus amplissima: atque ad eo vt quasdam vndeciesmilliespedumtotaarea continere constet,authore Baptista Alberto in libris de Architectura. In Diocletianis, quæ inipsaareaappa rentvestigia,præterspatiavndiqueplatearum,& prætermembra,quæinfe riusacsuperius varijsThermarum ministerijsferuiebant, centum continent partitiones, vario ac nobiliffim oordine. Nec mirum, siconsidereturpublici çdificijmagnitudo,inquocommunis fueritratiomaximæciuitatisadexer 10 Magnitudo. citia corporis, ad balneas, ad disciplinas. In  is enim communia er nt  studia, tamanimi quàm corporis, necalia erantartium gymnasia, vndefæpè apud authores Gymnasia legimus pro balneis. Necminus addelicias: Nam ratio Gymnasia acresipsaostendit, nonfolùmvsuiinpartibus Thermarumfuiffe consultum, verumetiamvtiuuentus faciliùsadea studiatraheretur, et delicijsmaximè, et ornamento cunctarum rerum. Propterea Thermæ neque digniores occupa bantvrbis locos, nequeintervilioresfiebantvicos, sed vbilocicapacitas, at Forma Ther marum, ac partitið. Queoperis maiestas requireret.Vitruuijtamenętatenon videturfuissecon suetudinis Italicæ vtipsescribit magnificareadeo palæstrasac Gymnasia in Thermis: vtquibus satisad exercitiafacerenttùm Campus ipfe Martius,tùm Agonalis, totCirci,totplatex,totaliaexercitationumlocapublica, et priuata. Sed per angustas fieri, et paruas quales Agrippæ Thermas meminit Pli nius.Pofteà veroperductoimperiovrbisad luxuriam Principum,non modò Græcorum more constitutæ, sed dilatatæfuêreamplius,distinctaquem e liusloca exercitationum, ac Gynınaliaà balneis. QualesAntonianæ, acDio cletianæde maioribusextant,acmeliusdispositis:quarum sinunc præsumná describere magnitudinem, non tam describere, quàm maiorem partem di gnitatis earum mihi videbor minuere: sedharum maximè, ad notitiam tanti ritus, fequarvestigia. In his edificationis eratvaria forma, ac varia dispositio partium: sedare a amplissima, quæ in quadrum clausa, tribus vel uti perpetuis circuitionibusdiuisaesset. In primovndiq; ambitu, quæ męniorumin ftar lib. s. 6. 11. totum edificium claudebant, errant gymnasia exercitationum, varioordine, quædicemus. In secundo, longèlat eque spatia platearum, Xista, acPlatano nes, ad exercitiasub diuo. In medio,tota ipfa moles Thermarum, quæ sunt membra balnearum, Atria,simul atq; Xifti, et Palęstrarum amplissimæ porti cus,vbi VITRUVIO athletæ perhyberna tempora intectisstadijsexer cerentur, actranfirentstatim ad balneas, vt delineata primùm ipfa rumbasi, distinctèmagissingula explanabimus,  4marum. Thermæ. Ther. Diocl. 1 Oo vj  Hexedra Lalitudopal. 200 choricen Calidaria FOхNAT MC) V R a THERMARVM DIOCLE Longitudo Platego Atriolum Die Scola riú BВ Spheriferti H Tostring 71 Apod TOD  Schola Longitudo ΡΙΑΤΑ Laconica Hexedra Basilica Fngida Topida n u" Agaagiâetlume ORIINS Hexedma Hephebri ATRIVM nPoarttaitciuosnis la карэхэн Spheristerium 200 Hacera Lpatlitudo. 2  Hemicyclus Condste platego Porucus Tres Stadiate Theatric SET VN M M HT NONES Hexedra A triolum sperifleriâ Laconicü Coniste Hephebell Hexedra pal. Kesedara LongituPdloa. odyterium Hypocau Dico Engda Hexedra 'Jių rium Porticus Staduatę Aquagiấetlume pal. OCCIDENS OS Tres salo ирэхэн ATIOTES TIANARVM ICON. ATRIVM n Paotrattiicounsis Spenfterum IOOO. Basilica Tepida Frigidai Calidariú Tõstrina A 5oC Hemicjclus sefala ridium PTENTRIO Scola 1 Departibus Thermarum, acexercitationum locis. N PRIMA ergo facie, quæestadmeridiem, tertiam ferè partem mediamoc cupabat Theatridium. Quæparseratprincipalis,& tang caputtotiushuius ædificij: vndeduplicem vt quibusdam videtur habebatvsum;alterum extrinsecus, alterum intrinsecus. Ambitum enim exterioré ponunt fuisse arcuato opere distinctum,& apertum,quo exéplo patet, circūcolumnium poftbafilicam Posticã. ecclesiæ Lateranen.Vnde. f.ingrederenturquafiper Posticum, fiuedextrâverte rentur, fiuefiniftrâ per porticus, apertèvenirentinampliffimam plateam,ac exindè quò vellent, fiue in palæstras, fiue in balneas. In conspectu verò interiori ergaplateas, eratTheatrispeciedistinctumcũsedibus, vbi.f.populus,& maximè nobiles subvmbrameridiei sederetadludorū spectacula, quiinplateisexercitij causa fierent. Partes verò quæ vt rinqueà Theatri dio plures sunt, aliqui balnea putant. Ná quod rotunda forma est vt rinque inversuris vnum,pinguntessecali darium, et consequenterponunt vnú Tepidarium,vnum Frigidarium,& vnum lib.5.c.1 Apodyterium. Nec equidem nega uerim debuisse quæ d ã balnea seorfum, et quali extra palestras constitui: partimmulieribus,partim artificibus, &hisquivenien tesàciuitate,statimintrarent, et quasiextràcon spectumpopularemlauarétur, et abirent. Verütamen hæcnonfuifle balnea, hauddubièvidetur:nam iuxtàeá ria Sacella. appictionem,nullus hicvidetur Hypocaufti locus: quoddebuite ffeinmedio, et commune vtriqueordini balnearum, tefte Vitruuio, atinmediohiceft Thea tridiummaximum. Nec eratconsentaneum, vtmébraspectaculieffentStuphæ. Deest et laconicum,nisifortasse hæc opinio confundat laconicum cũ calidario. Saterat& vnum Apodyterium comune, vtpotevnum vestibulum balnearum: hicduo ponuntur. EtprætereaTepidariaduo,cùm tamenidemfitTepidarium, quodApodyterium. Melius ergomihi videtur dicendū, hæc fuiffepartimipfius Theatridij membra, et partimlocaadvsum Athletarum.i.eorum, quiexercendi essentcoram Theatridio, vtpote Conisteria, Elçotesia, et quædam apertè in pla team, forsane quorum carceres. Duo pofthæc Peristiliaquadracaoblonga, hinc (vt scribit Plin. Lunior de villa sua) exercitationú generibus.Vel Sacella, vt nota turperædiculasæquisvndiquespatiisstaruarum. hæceratprimæfacieipartitio. Porròinaltera facie, quæabaquiloneeodem comensuhuic refpondet, videntur Gymna fuiffe maiori ex parte Gymnasia, FILOSOFI dicata, ac Rhetoribus, reliquisq; q studiis literarum de dissent operam.Vtpot epars magis remota àftrepituAthle tarum,& litucômodiffimo, tùm propteramenitatévnibrarum erant.n.inhac plarea Platanones, vt dicemus tùm proptergratafontium murmuria, inNataa tionéipsamcadentiū. Quaproptervisum est pluribus antiquariis, inmediohoc Vestibulu. Spatioå Septétrione fuifleprincipale vestibule totius huiusæ dificij. Ex quo per40 Hexedre medios Platanones patebat aditus ad Natationem, et hinc, et hinc in porticus, in et Hemi-basilicas, Diętas, et atria, quæ pofteà dicemus. Primùm verò àd extra vestibuli, cycli. et àsinistraerant Ex hedræ plures clausæ ante plateam, &cusedibus Hemicycli forma, vt disputantes, et tam loquentes, quàm audientes sese omnes afpicerent: et aliquæpatentes, cellscholænoftræad leuiora studia. Maioremverò citer  10 Peristilia fia. atq; hinc vnum àTheatridiq, quasipalestræbreues,veldeābulationes.Acinver Spheriste surisvtrinque,vnum Sphærifterium, quod diximus rotunda forma,cum plurib. 30 Schola. exercitationum. Gymnasticarum continebant partem duæ vtrinque facies laterales, hinc, atquehinchabebantpartitiones.Ac fuisseeasadexerci quæ conformes tiadicatas videtur: tùmquia platexhælateraleserant liberæ,& amplæmillecir,  citer pedum spatio. Tùm quia membr a ipsa partim erant Hemicycli aperti cũ sedibus,acvarioornamento,quod apparet,lignorum,acpicturarum:& partim conisteria, Elæothesia,aliaquemembra advsumAthletarum oppor tuna. Totam hanc autem primam circunferentiam circundabant continua porticus,ducentiscolumnisvnostylo. Subinde erantPlatex,amplæ,&.Nam siædificiorum perfectio proportionibushumani corporis responderedebet,vtVitruuiustradit,perfectisfimèresponder in Thermis Diocletianis, ac melius quàm constituat ex Græcis VITRUVIO eniminhis Theatridium, vbieratvestibulum, tanquàmcaput: Apodyteriū, pectus: Hyppocaustum, Stomachus: vmbilicus, maxima, acregalisbasili-Diocletiana cainmedio: venter, Natatio. Membrorum veròvtrinque, quæfuntbalnea, rummirifica atria, palæstræ, porticus, Diętæ, basilicæ; æquaratio, ac mensura eft, vt braars et de chiorum, acfæmorum. itavtquæ exvnatr ad etur parte,cadem ex alterapa basilicaameniffima, vbiconuenirentomnes, quivelin palæstras venturi Basilica. essent, velinbalneas. Idcircosatisampla,ornatuplastices,acpicturis adhucnitet antiquiflimis. Hinc rectâ in Diętam, quæ erat eadem capacitate, fed latiortamen basilica, duplici columnarum stylotripartita: nam media par teceuatriolum, erat ad itusinatriummaximum, et inpalestras: capitaverò hincatquehinc deunebantinhemicyclis, vbifortasseAthletarum ferrentur iudicia Circuncolí - liberæ, vt dixi, t à m q uæ antè Theatr idium Stadium, nia.,erant xistum, Platanones, et autem, quæeratante Natationem enim Xista (authoreVi maximè estiuas idonea. Fiebant adexercitationes Platani, virentes queidgenusXista,&Syl )interduasporticusSylux,quæerant caperentre-ua. truuio situantè Natationem, vndeaquarum arboresconfitæ, aptissimo autemStadium,itafiguratum, inquit Vitruuius, vtpof frigeria. PoftXiftum, Athletarum cursus, variaque alia sent hominum copiæ fine impedimento hæ omnes errant partitionesquoquo latere,&  gym: spectarecertamina.Atque veròoperismaiestas,erattotamolesinme Stadium nasiorum, et platearum. Summa,acmultimodisearúmē dio,quæ communes habebatpalæstrascum balneis bris, acmiriartificij, quàm vtræquelaterales. Inea Porticus riterintelligendafit. Incipiemusautem àNatatione, quæ patentiffima pars aspiciebatAquilonem: et exeaàlatereperbasilicas,acdiệtasveniemusin atria, exindein palæstras interiores, acmaximam bafilicam,& demum ad balnearum membra. Erat in quam Natatio in recessum e dio ab aquilone, lon Natatio. Gitudinedu centorum pedum, latitudinedimidiominus, ponte, acarcubus bipartite ad interiores aditus, vbinunc facta estmaiorisaltaris basilica. Habe batautemàcastelloproximo Aquæ Martiæ emiffarium, quod per occultos tubos ferebatad Natationem ipfam aquas.Habebat& supernèadlongitudi-Emissarium nem fontesvaria specie, ac Musxa,quæ teftePlinio,expumicibus, acero-aqua Mar fisvetustatefaxis extructa vt hodie quoque Romæ sunt in vsu specusima-tię. ginem referebant, ac fiftulis modò apertis, modò clausis, vario, blandisli moque salientium aquarumlusu, recentessemperaquasinnatationéipfam Fontes,ac fundebant. Miris circùm ad hibitis ornamentis, quorum etiamnumapparetMufaa ædiculæfignorum,& statuarum, fontiumque vestigia, et columnarum bases. A Natatione plura, ac nobilissimamembra: primùm ab vt roquecapiteerant Porticusna amplissimæ porticus conformes, nimirùm et adspectaculaNatationum,& tationis. Ad refrigeria constitutæ. Etaliæadaltiorem prospectumporticuspensiles,mi noristylo. Exeuntibus veròàporticu, tamdextrâ,quam sinistra,eratprimùm fcriptio. 30 Platanones. Dięta.  iudicia. I n Atriis era nt Peristilia, hoc est circü columnia, quæ faciebant atrium oblongum trecentis pedibus, latitudine dimidiominus. vbiin Porticu, orie simacum sedibus, quæ tertiaitem parte longior quàm lata, eratad exercitia Corticum. iuuenumdicata. Sub dextra Ephebei erat Corticeum, seu Coryceum à Co. Coryceum. ryco, quod videtur pilæ genus in Galeno 11. de San. tuenda. Seu Choriceum Choriceum dictum, Choreisnimirùm, ac saltationibus locus proprius. Proximè Frigidarium, locus ventis per flatus, feneftris amplis. Ab eoqueiterin Spheristeriú ro oblongum, et fimplex, ad pilæ ludum aptissimum. Adsinistram Elçothesium, Spherifleritquæeratad vnctiones faciendascellaolearia. SubhocConisterium, vbificcó Elçothelium.puluere, velharenaluctaturiseseconspergerent. Ab eoqueiterinPropni. Conisteriú. geum, vbi erat in ver  u r a porticus Laconicum, quod referemus suo loco p o Propnigeú. iteà. A Peristilioautem, atrioqueintrantibus ad interiores Palæstras, erant Talastre in Porticus tres stadiatæ,quas hodie occupat longitudo ecclesiæ.Ex quibus m e teriores. diaparsamplissima, centumpedumlatitudine, superingentescolumnas,al Porticusftatissima prominettestudine, cæterùmitafactasecundum Vitruuium, vtilate Frigidariit. diate. Xistus. ra, quæ suntvtrinqueadcolumnasmargineshaberent,& qualeshabethodie via ab Hadriani mole ad Vaticanumsemitas, nonminuspedum denûm,re liquaqueplaniciesoctogintapedúm. Ita qui vestiti ambularent circùm inmar 20 ginibus, non impediebanturàcunctisfeexercentibus. Hæc autemPorticus ziso'sapud Gręcos vocitatur,in quo Athletæ in tectis stadijs exercerentur. Quę quoniamexacteeratinmedio,& velutiincorde totius edificij, vbimaximè conuenire solebat nobilitas ad exercitia hyberna, ad ambulationes, et adspe ctacula; cæterasmeritò exceditpartes, tùm magnitudine, tùmregalimaie stateoperis, altiffimis fuperbiffimis que prominens columnis, et patentissima vndiqueinperistilia, inbalneas,in Hypocaustum,in Natationein, acfuper nè feneftris illustrator latissimis. præualereassuesceret: deinde ad sanitatemtuendam,quiduofuerant fines præcipui:& demum ad delicias. In quibus omnibus mutua Balnearum,atq; Exercitationum errant beneficia. Nam quantum conferebant balnea lassatis rumque similiter coniunctaeratvtilitas, acmutuaerantinuicembe Thermarumneficia. Nempe Thermarum ratioduos, imòtreshabebat fines: primum ad instituta,  ac disciplinam iuuentutis, quæfic viribus corporis, honestis que vitæ conatibus fines et Exercita exercitatione, aclabore corporibus ad robur virium reparandum, et admuntionum muditiam. Tantundem rependebant vtilitatis exercitia, fine quibus balnea non tuo beneficia possuntesse vtilia, maximèsanis. Itaque Galenusinlibrisdetuenda San.mo Non pila, non sollis, non t e paganica Thermis Prz.  tali parte, eranthæcmembra,situaliquantifperdiuerfoabeo,quem assignat €phębeum Vitruuius. Primò Ephæbeum, in medio, hoc autem erat Hexædraamplif Balnearum 1 Bal. Recurel Atria. De exercitatio num generibus, ac preparationibus ad balnea. Cap. vir. CONSTAT ergo hactenus,balnearum locain Thermis, at que Exer citationumfuisseconiuncta. Idqueoptimaratione, quoniam vtro dobalnea Recuratoria virium esse dixit; modò Exercitia Præparatoriaadbal toria. Exerci nea.Quod frequenter inalijs authoribuslegimus, et succinctèeoEpigram tatio,Prapa ratoria. mate colligiturMartialis vnde dieta existimat D. Augustinusin confessionibus, quòd Bénestaisdivíes,idestquòdan xietatestollat. Ergo vtpro veteriinstituto generosæ Ciuitatis, quam diximus in laboribusnatam& educatam, magnaeratomniuminThermiscelebritas; itapro tempore, et pro conditionibus personarum,Exercitationeserantva- Exercitatio riæ,& invarijslocis. Quippealiæin Palestris fiebant, aliæinXistis, aliæinnumloca. Hexedris, subdioalię,instadio,& platearumlibero fpatio; alięin pluribus fiebantlocis. Necsecus quædam eran tcommunes exercitationes,pueris, senibus,& iuuenibus, vteo carminenotaturà Martiale. tereolusuum genera,quorum (vt cætera rumrerum viciffitudincs sunt) vix nomi. Iuuenum  De fatu.  Præparat, aut nudis tipitisictushebes. Vara nec iniecto ceromate brachia tendis, Folle decet pueros ludere, follesenes. Quædam propriæ. Iunioresautlucta, autcursu, autfaltu, autpilaludicriss; Personarum 20 idgenus exercitij scepissentaf suescerein Ephebęis. Quemplanèmoremre exercitatio- presentauit Plautusin Bacchidibus, vbi in personam seuerisenis indicat pue-nes. Rosprimis vigintianniscum Pedagogo in Palestramantè Solem exorientem veniffefolitos, d. Βαλανέα Romanorum Puerorum Non harpaftamanu puluerulentarapis. Vidiffes igiturtum frequentem civitatem,nonfecusatq; hodienossolemus Vite ratio facrasEcclefiasfestissolennibus, frequentare Thermas. Alios quidem adho nestos, quos primo instituto proposuimus vitæ conatus.Alios ad sanitatem Ther. tuendam. Et alios ad oblectamenta tam animi,quàm corporis capienda, pro celebritate illa populi, pro variarum rerum, ac ludorum spectaculis. Et denique pro amænitate loci deliciosissimi: vnde barevéesidcirco dictas græca voce Ibi cursu, luctando, hasta, disco, pugilatu, pila, Saliendo se exercebant, magis quam scorto, aut fauijs. Fortiori autemiuuentaiis dem quidemexercebantur, velacrioribusetiáple runqueludis,halteribus,harpafto,& aliquandocęstu.Velarmorum varijs generibus in Palestris. Vel in Hippodromis cursu equì, vel agitatu. Athle - Caftus. tæ vel stadium spectante populo de cusrrissent, vela c ri pugilatu dimicassent,  Halteres. cum cęstibusplumbeis,acbaltheis implicatismanibus,quo grauiùs percu terent. Alijsaltusimul et halteribus, item plumbeis globulis. Alijinsphę risterijslusifsent pila, vel foliinplateis, vel Harpasto, pilamaxima. Senio-Harpastum. resquidam, quorum erat ad sanitatem præcipuastudia, vtrecensuit Galenus, ambulatione duntaxatantè balneumcontentierant. Alijclaralectione, vel Senumexer disputatione in Hemicyclis, velde clamatione oratoria, vel cantumusico. Alijcitationes. modòvnovtebantur, modò alio per occasionem, exercitij genere. Id circos. Defa. tu. nec mirum septies quosdam aliquadielauari solitos, quod apud Plinium le gitur. Alexander Seuerus, vt  meminit Lampridiuspostlectionemoperam Palęftræ, aut Sphæristerio, aut cursui,aut luctaminibus mollioribus dabat, m o x venieba t in balneum. Aliis supplebant diurni operris labores, quia d r e Operari j. creandum lassatum viriumr oburvsuriessent balneo. Cæterùm lenis exercitationis modus erat ambulatio,quam Senes, et Virigraues, et imbecilles potiffimùmobibant. Dignior adl audem, acdisciplinam,eratexercitatioin Palestris et armiseorum, quirobustisess entviribus. Etquam oriquazíar, hoc 2. Desa.cu. est vmbra til empugnam, vt interpretatur GELLIO Græci appellant, divodepce Teu Tirl, ob salubritatem a gymnasticis dictam, Galeno teste. Innumera præ Рp  nomina ad posteras ætates transiêre. Nec nostræ professionis est exercitatio Nostrisecunum singulosmodos,aut genera: quibusiliveteresvterentur, recensê. livita dif ferensaban tiquis. re, quam partemà Hieronymo Mercuriali, Medico atque Philosopho scientissimo elucubratam, propediem in luce meditam videbimus.Verùm exco rum exercitiorum censu, quem fecimus, hanc præcipuam habebimus vtili tatem, considerantes quàm longè differathic præsens nostri seculi viuendi modus,& maximèPrincipum,necopportuno pofteros destituemusconfi lio. Sanèvbiillorumtemporum vitaaffiduisdeditaeratexercitijs,vtpote 10 quæ et fanitatem conseruarent,& promptiores redderentviresad singula, tàm animi, quam corporis munera o b e unda; è contra hodie in continuo ocio degitur. Età Principibus maximè, quiob decorum, ac ampliffimi ordinis maiestatem, semotam à communi consuetudine degentes vitam;aut curis animi grauibus iugiter tenentur. Aut siad ludicra aliqui tranfire foleant, ea Exercitianoinertiasunt, tabellæ, alex, vel Trochinouus modus hàc illuc supermensam stritemporisagitati: in quo vitæ generet andem ob defidia in, et anxietatem,totam breui inertia, cursu vitædeficiant. Quapropter generalisfimum hoc ac saluberrimum sibi Exercitijnequisqueproponeredebet institutum, exercitium necessarium esse ad susten cesitas ad vitationem vitæ: inquire omnes sapientes, variorum quenationum ritussum moconsensu conueniunt. Verùin quoniam hoc tempore non solùm pluri maveterum exercitiorum generanon funtinvsu,  imòvelipsorum nomina (ut diximus) sunt obscura; necadeoilisvtiessetpoffibile, quinec Palestras habemus,  nec Thermas, proptereàingratiamnoftrorun Principum,aliquot particularium exercitation numgenera proponemus ex Galeno,  atq; alijsan tiquisauthoribus,  quarum multas si non in campis et plateisobire poterit; licebitfaltem et incameris et inatrijs, acviridarijsfuis, seruataetiainperso nægrauitate,  percommodèexerceri. Exercitationum inquit Galenus com Exercitatio-pluresdifferentiæinueniuntur. Aliærobustæsunt,  et violentę,  fiuevehemen num dife-tes; aliæ mediocres,  &lenes. Aliæ singulares,  aliæcumalio fiunt. Etaliæ rētiæex Gavni uersas simul corporis exercent partes,  aliæ vnam magis, et aliæalteram. le.2.desan. Vehemens exercitatiodicitur, quę& robusta, et celerissit: atque hæc multer graue quod uistelum iaculari,  et continuatisia et tibusoneremaximo subla  tame,  pervertere temperaturam coguntur. Vnde non mirum est,  qui præ properam accelerant senectam,  incurrantque facile autin morbos renales,  autinpoda gram, autin Hemicraniam,  alios queidgenus affectus, medioquevelutiin fum tuen to,  tash abet differentias. Quædam enim fiuntocylimèagitatis,  quædamrobore,  acnixu,  quædamfinehis,  quædam cum roborepariter et celeritate,  et quæ Exercitatio damlente. Fodererobustaest, et singularis exercitatio,  remigare, discum nugenera. mittere,  mouericeleriter,  saltare; idquefineintermissionemaximè. Simili et ac clivis ambulare. Grauiarmaturatectumceleriteragitari.Continua tusdiucursus.Et iterfacere.Perfunem manibus apprehensum scandere,  modo in Palestris quo solitum erat puerosexerceri.Velèfune,  velperticama nuapprehensa sublimenpendere,  acdiutenere. Manibusinpugnum redu: &tis,  iisdemqueprolatis,  velinaltumsublatis. Halteribus,  feuglobisplus minusgrauibusleorsumpositis,  vtraquese inflectensmanu attollere. Quæ robustior erit exercitatio,  si qui ad sinistram manum fuerit dextrâ coneturat tollere,  et sinistrà qui ad dexteram. Diuq;, acsępiusidentidem facere. Potest et foliscruribuserectusacvno lococõsistensceleriter exerceri,  modò retrora suminsiliens,  modóinanterioravicifsim crurumvtrunquereferens. Solus fimiliterexerceriest,  summis pedibus ingredi,  tensasqueinsublimemanus,  hancantrorsum,  illamretrorsum celerrimèmouere. Sehumi celeritercir cumuoluere, velsolum, velcumalijs.Cum alijsverò& citràrobur,  et violen tiammultæ exercitationes peraguntur. Vtcursus admetam constitutam.Vel vibratilisar morum meditatio. Summisinuicem manibusconcertare.Cones cú alijs. ryco,  et paruapilaludere. Stare,  nec finereseloco dimoueri;quo exercitij genereMilo Crotoniates celebratur. Velseerectum, et circumactum 10astantemmutare. Complecti quempiam manibus,  digitisquepectinatimiun ctis, isque diuellere seadnitens. Medium appræhendere, ac sublatum ceù magnumonus protendere, &reducere. Luctaytrius queluctatorisrobur maximèvtipoterunt Seniores, et quiadmotum suntimbecilles. Ambula.Vltimò Fri &tiones suppleant. His omnibus ex ercitationum generibus, imòinfinitis alijs vt Galenusinquit docebant Pædotribæ exercendumesse:& velinPa læstris,  velextrà,  velinaltopuluere,  velconculcato,  et firmosolo,  et omni noantèbalneum. Quibus et nosiuxtàpræsentemviuendi modum,  siuepro præparatione,  fiquis velit ad balneum,  feusinebalneo,  vt pleriquehodiefa tecdicere,  quæ situborealifrigidas, acpurasstatimàfontibusadmittebat aquas.EratenimNatatio (vtidiximus) separataà partibus balnearum: citationes,  le  cimus,  percommodè vtipoterimus. Sed de exercitationum emolumentis 40 alio loco occurretdicere: nunc ad describendas balnearum partesin Thermis redibimụs,  acaliaineisrequisitaexplicabimus. De Natatione. Ne i principes autemThermarum partes,  primùm de Natatione opor Cap. vii. Рp ij nimi. Exercitatio. prope rium mem brorum.exercet. Luctaricum roboreest,  ambobus cruribus alter alteriu scrus com plecti,  minibus intersesecollatis,  et collo. Manua lteratanquamfunecol loalteriusiniecta, ipsumqueretrorsumtrahere,  acreuellere.Pectoribusex aduers oinnixi,  magn o se conat uin uicem retrudere. Ad singulares porrò universalis,  attinet electionem,  qua parte corporis quis vtivelit,  aut indigeat exerci- particula tatione. Aliæ enim vniuersas simul exercent corporis partes;quo nomine ludusparuæpilæà Galeno prætercæteracommendatur. Aliæ vnam magis,  aliæalteram exercentpartem,  lumbos,  crura, brachia,  spinam,pulmonē, Deparuepi thoracem. Itatio, cursusquecrurum exercitationes sunt. Acrocorisini, hoclxludo. Est festiuæs altationes et Sciamachiæ, crurum, brachiorum,& manuum pro pria. Lumborum autem, affiduèse inclinare,autpondusaliquod àterra tollere,autassiduèmanibus sustinere, Spinam transuersim exercet, atollere vt dictum est alternatimhalteres. Thoracis vero et pulmonis suntpro priæ, maximæ Respirationes. Cor. Celsus inter exercitationes imbecillisto lib.2. c.8. macho conferentes,claramcommendatlectionem. Maximaverò voxvocis quoque instrumentaomniapermouet, dilatatque:naturalemexcitatcalo-Clarale&tio. rem, et quo magis fitafsidua, eomagisvniuersis corporis partibus communicatur, vtinnostris concionatoribus experimur et in libro de voceà Gale noestproditum. Hoc genere exercitationum per vocem, quælenessunt, Lenesexer Lufta. Etio,& amo tioneetiam quimagis validi. Velequitationessufficiantur, gestationesquebulatio. seucurru, seuproægrotantibusin Scimpodio,& Sellaportatili Nimirùmquia singularis eiuserat, acpropriusvsus, non tàm quidemadlaua Varzac efttionem,quàm ad exercitium. Eftenim Natare laboriosum, quòd itaiacta quoddam e rerectè Aristoteles in Probleumatibus, Natationem, oblaborem, cursuico parat, aquarum periculaexercerentur. Et Galenus testator de suo tempore, pue 1, Defa.tu,rosin aquis qumasina's Feudasfacere consueuiffe,idest, quòd prima fiebantin of Pifcina, Piscina Pu aquis pueritiæ rudimenta. Itaque præter Tyberis commoditatem,propria adhuncritum locaconstituta fuisseinvrbediximus,quæ diuersisexplicata nominibusinuenimus, Natationes, Piscinas, Stagna, atque etiam naumachias, Piscinædi&tæ, quòd et pisces hauddubiècontinerent, nontamenad vsum piscium, nam ad hoc propriaerantviuaria,sed ad munditiam seruanda aquarum,& amoenitatem. Videturautem exercitatio numhuiusmodi causa, primùm constituta fuiffe Piscina publica dieta sub cliuo Capitolino, ad veniebat populus. Exca& piscinæaliquandofuntdictæparticularesNata tiones,& labra lapidea, qualia Romæ videmus maxima, nec non portatilia, ac lignea advsum etiam calidarum aquarum. Quod authoritate constatM. 08 Tullij CICERONE ad Q.Fratrem desuisbalneis, Latiorem inquit piscinamvoluissem, vbiiactatabrachianon offenderentur. Hasà Galeno, acalijs Græcisautho xanu puso 'n ga ribus, modò xodua krízsas, mod ò Bari i su poe edicta s legimus. Parva autem Solia, Capesupulco peluesquequercus; quam differentiam planamfaciuot Galeni verba lib.7. Mé πυελοι. Stagna. thodi, vbi ad ventriculis iccitatem curandam, quæ Hecticamminetur, nata tioneminbalneo factam consulitivteīsno numerisus, id eft in piscinis natandocó stitutis, quàmivtotspixpsīsavenoīs. Memorantur porrò et Neronis Stagna, vbi Amphitheatrum à Martiale poniturinprimis Epigrammatis d. Hic, vbiconspicui venerabilis Amphitheatri Erigitur moles Stagna Neronis erant. Quod tamen stagnumnon plane constatanad natationis usum, anpro Nau stagno circumpofuit, conseuiffe. Stagnihuiusin Vaticano Naumachiæno Navale Sta minememinit Egelippus Græcus author, in D. Petri et Pauli martyrologijs. Cæterùm NaumachiapostNatationes& balneas, altiorisfuitinstit utiquàm Naumachia adnatationem,nec, nifipoftimperiaprincipuminuenta. Nempe inqua nautici certaminis fieret spectaculum, vel ad disciplinam militarem, quò faci of Finis duplex liùsmilites pericula Aluminum, vel naualis belli, cùın opus fuisset, possent Naumachię euadere. Sic Polybius refert Romanos primo bello Punico, quod aduersus Chartaginienses gesturierant, militessuosinnaualidisciplina exercuisse. Et SuetoniusAugustumcúm effetcótrà Pompeiumiturus, inportuIulioapud Baias milites in nauali exercitatione tota vna hieme detinuiffe. Vel erat N a u jucundunfpe Etaculum. Machiævsusad delectationem populi, vt cætera spectacula. Pluraenimerãt quæ præberent animo delectationem:primò aluei magnitudo, ac Cyrcicu  1 vivarium. blica. Quam (ut Festus Pompeius est author) et natatum et exercitationis caussas duo. rat, gnum. xercitium, tismanibus, accruribusaffiduè, vniuerfæcorporis exercentur partes.Qua Et Oribasiuseaminteraliaexercitationum generaadnumerat. Imò Natationis in vrbe fuitprimus,acantiquissimus vsus ante balnea:quando scilicet conftitutæ fuerunt exercitationes in Campo Martio,vbiiuuenes (te ste Vegetio)  puluerem, sudoremque detergerent, simulatque ad obennda machiafuerità Nerone constitutum.Vsumtamen vtrunquepræftarepote Neronis no- sicut& de altero eius nominis meminit Tacitus,claufifle Neronem in mine stagna valle Vaticani spatium, in quo equos regeret, apud quenemus, quod navali iusdam OZ jusdamamplissimiforma, editaadcommoditatem tantiludi,inconspectu maximæciuitatis. Deinde classisineam, et iam magnarum nauium introdu Etio, et ludusipsecertaminis. Etdemum populicelebritas, et velipsaaqua r u m copia, atque amænitas, maris instar tranquillissimi. Et quæ apertis eu ripistantamvimaquarun vnohaustureciperet,laxaretquefinitospectaculo.Martialis inquo mouet admirationem aduenæ Martialis,dum sicadulatur Domitiano.locus. Cui lux primas acrimunerisipsafuit. Ne tedecipiatratibus naualis Enyo (Paruamora est) dices, hicmodò Pontuserat. Ex quo plane authoritate colligitur, in Cyrcotammarisquàm terræcelebra In Cyrco rispectaculadebuisse: vbimodòterra (inquit) modòPontuserat. Quod Naumachia. Cyrci Maximisitus confirmatinter Auentinnm montem,& Palatinum de pressus, inquem Gabiusæaquæriuus,quemMarianam posteridixerunt,per Gabiusaa petuòinfluit na. na aqua,vtFrontinuseftauthor, quæ fapore,& crafficiemari namaquam Augusti Na æmulabatur, in q u a faciliùs natat r, t efte quo que Aristotele in Problemati - u m achia: sub colle Hortulorum, ademiffarium aquæ Virginis. Authore Sueto Domitiani. nio,quiasseritDomitianum circunstructoiuxtà Tyberinilacu (inter Cain pum Martium scilicet& ipsum collem Hortulorum, vbi nunc iuxtà Sanctito pluresessentqui exercerentur et quifrequentarent Thermas adca,quă Bal spectaculaquàm quilauarentur. Eteodemtemporemagnahominum co-nearum. piaexercebatur, &quivno,& quialioexercitiigenere. Atadbalneasin trantiumcontinuaficbatsuccessio, nam cùm priores occupassentloca, reli qui (vt scribit Vitruuius) circunstabant, dum lauarentur. Pleriquesani,ac robusti, poftquàm in exercitijs incaluissent, nullisferè alijsvtebantur bal neis vtinfràmonftrabitur nisinatatione. Quæ parsidcircoeratamplissi ma, et exercitationibustamsubdialibus; quàm interniscommodissima. Vel Balnearum transiffentdunt axat ad balneas calidas, atque illico egrelliinsili ebantin frigisitus. dam. Summa ergo artificijin balneishæc fuissevidetur, vt in locoessentquả commodo omnibus seseexercentibus; acmirandiplanè artificijministerijs totaquarum,calidarum simul,& tepidarum, quæ continụèexse funderen turin balneas. Pro commoditate, ac ratione lauationum, erant omnes ad Рpij meri  Et parvndafreti, hic modò terrafuit. Non credis?spectes dum laxent æquora Martem. ropriè verò ad vsum naualis certaminis, duæ fuerunt certiffiqua Mariainæ Naumachiæ. Priina Augustitrans Tyberim, adductâobidineam Alfieti Sylueftriædes apparentvestigia naualespugnasineo, penè iustarum Claf fiume didisse. Luxuosissimus Heliogabalus, euripis vino plenis, naumachia Heliogabali. exhibuisse. Tradit Lampridius. Sed nuncad partes balnearum proprias acMilanius. De partibus balnearum, esde Milliariis vafisin Hyppocausto. BÀLNEARVM veròin Thermisnoneam videmuscopiam, quamde BВ exercitationum locis iam diximus. Ex quo planè videtur, quod mulnum pluralo Exercitatio Siquisades longis serus spectatoraboris, bus. Alteraverò et magis celebris, fuit naumachia, quam Domitianidixi. mus Apodyteriú seu Tepidarium. meridiem, vnde folissemperi llustrarentur, acfouerenturaspectu. Nam tó: taeafaciesanteriorerat distincta in duos ordines balnearum, vnusàdextris Hypocausti, &alteràfiniftris. Etvterqueordo distinguebaturinquatuor Cameras, conformes vtrinque, ac ita collocatas, vt ex una in aliam Etuplatearum àsitumeridionali proposuimus, progressuferèad media pla eratceù vestibulum regale Apodyterium, seu Tepidarium. Quem lo mirabilem, meritò alterum noftræ ætatis Trimegistum dixerim. Hinc fini Hypocaustús tror sumn modicus introitus in Hypocaustum. Sive vt meliusdicam super Hypocaustilocum, quirotundaforma, cumopportunishincatquehincmē Cryptoportibris, nuncprimis Nouæ Ecclesiæ facelis dicatuseft. Totaeniminfràmoles res. Aftuaria. darum, aliæ frigidarum aquarum ductus, alię calorum æstuaria, aliægrandes tores vt vocabulo vtar Iure consulti curam succédendi ignem habebant in Thermis. Eratautem vnicum, teste etiam Vitruuio: collocatum tamenin medio, vt communis eiusesset vsus vtrisque caldarijs, exvnaparte virilibus, exaltera muliebribus. Id que per opportune æstuaria, quierantmeatus ab Hypocausto perpetui, vndecalores occulti in cameras caldariorumipsorum penetrabant. Quod tetigit in primo Syluarum Papinius Statiusd. Vbi languidus ignisinerrat dioplacet æneatamenpatinasubiecta. Quorum idemeratnomencum ca meris prædictis,vnum caldarium, alterum tepidarium, tertium frigidarių. Legitur item Milliaria, a magna fortasse capacitate, quali plus millelibrarú aquæ caperent. Quippeidgenusvasa, teste Vitruuio, maximi aheni inftar, actestudinataadcircinum, itaerantcollocata, utex tepidarioin caldarium quantum quæ calidæ exisset, infueret, de frigidario in tepidarium adeundem modum. Atque hinc planum artificium est, in quotant opere laborauimus, quomodo ad communeinvsumtantaaquarum copia exvafisfuppedi tareturinbalneas. Quod restituo in lucem ex Seneca, quidum ad Lucillum mira deliciaruminuentasui temporisdetrectat, hocafferitobiter. Construiteam, huiusædificij, concameratainuenitur, acdistinctaaddiuerfosvsus. Aliæ Fornacato. Criptoporticus erant patentes ad refrigeria in magnis caloribus. Aliä сali  IO CUS.  cum laxum, et hilaremdescribit PliniusadApollinarem, hocest, amænum, acmollisteporis, tùm solaribusradijsàmeridie illustratum;tùm proximi Hypocausti vapore laxum:vbi nimirùm ingressuri ad balneas exuebát vestes. Qux quoniamprimaerat, acnobiliffima Thermarum pars, nobilissimietiá numapparetartificij. Figura inquadrumoblonga, achemicyclis quaquefa ciedistinctum,cum aditis vndiqueinter columniorum, columnisque super nætestudinis altissimis, quætàm authoris, quàmoperissummam maiestate ostendunt. Vnde sapienter hæc pars, proposita est pro prima porticu Ecclesiæà Michaele Angelo Bonaroto, quem pictura, sculptura et rchitectura cloacæ vnde lauationes exonerarentur, et aliadenique Hypocaustum,atq; Lib.s.c.10 Hypocaustimembra.EratergoHypocaustum fornaxinferior, vbifornaca Aedibus,& tenuem voluunt hypocausta vaporem. Vasariatria Super Hypocaustotriaerant compositavasariaænea, velplumbea (ut Palla Mincepice Græcis hæc Mirsapíe, Latinis vt apud CATONE, Senecam, atque Palladium folitum aditus.Inmedio quidemerat Hypocaustum, vtrinqueveròinversuris La conicum, deinde consequenter Calidarium,Frigidarium,& tepidarium,vt planèsingula explicabimus. Principio contram Theatridium, quodinprospe pateret solitumin ipsis milliarijs dracones, quæerant fistulatavasatubæ instarære tenui, perdecliuemilliariocircundata,vtaquadum ados draconis con lis canales occultos, quorum aliquæ visæ sunt reliquię in eruendis ad nouam ecclesiam m a c e r ijs: atque ex hinc aquas de duci solitas in Natationes, in Fonsicis organis non absimiles. Quia d firmitatem quidem, ac robur faciebant Tubi etepi ipsis valibus: simulatque artificio ferès i miliquonos hodie Romæ nymph eiss tomia. acviridarijsdamus velarcemusaquas, habebantfiftulasinfra parietes occul tas, quæ in cameras balnearum,vbi opportunis locis essent epistomia, infundebant aquas. Quod ex eodem Seneca non est dubium, dum nimiæ la uti ti æ adscribit, quod continue aqua calida ex sefunderetur in balneas,acrecens semper, veluti ex calido fonte per cameras transcurreret. Et ex Galeno, vë iam decamerarum dispositionibus dicemus. De Laconico, esde Solis Balnearum. RDINES quidembalnearumin Thermisduosdiximus,vtrinque scilicetabhypocausto vnum teste Vitruuio, alterumvirilium,alte Balnea viri. rum muliebrium. Nam vtscribit Gelliuslib.io.cap.3.authoritateVar ronis 2. de Analogia, Pudornon patiebaturvtrunquesexum simullauari,sed do liadoMu aquarкт epis tomijs, fundebantur. Vbi nota harum ductuum in Balneas alterum arti 30fícium. Eranttubięne ierecti, tresàdextera et tresàsinistra milliarijs, mu glomerati specie plurieseundem ignemambiret, pertantumfueretspatij, vasis. quantum acquirendo calorisatisesset. Quare triplex semper aqua invalis, acinfinitæcopiæ, calida, tepida, frigida, nam successiuas vasexvase Caldarium piebataquas.primum quidem,quod caldarium dicebatur,superprimavas. Hypocaustistratura collocatum, tanquam omnium vasorumvalis, calfa tes, Dracones i 10 са. Etasperdraconisinuo lucra fundebat aquas. Secundumsuperhoc erat tepidarium, quod a primi vasis vaporibus modicè incalescebat. Tertium Fri- Frigidariú. gidarium: vtpotequod frigidass tatimab emissario aquas capiebat et quan tum subiecta vasa vacuabantur, tantum hoc nouarum aquarum infunde- batfinefine. Emissarij verò huius obscura quoque ratio est. Nam vide-Emisariaa mus quidemad Thermas ipsas propria aquarum Castella constituta: qualequarum· extatin Diocletianis poft palestras orientali parte. Etin Antonianisàt ergo Theatridij admeridiein. Horum tamen altitude nullibi excedit planiciem bal nearum. Nec vllus est modus, neque artificij vllius vestigium, insummis Thermarum testudinibus, vndetam altè deduci potuissent aquæ.Videturita que mihià proximis iliscaftellis cóstructosfuiffeinf ràpauimentatotiusm o Tepidarium lib.io.administris balnearijs veletiam iumento alligato, subleuatæ aquæinsu ipsihypocausto piscinam infundebantur, quæs ponteposteàinsubie pernamn rursusin Tepidarium, et conse ĉtumFrigidariumcaderent,et exFrigidario, quenterinCaldarium,velutidiximus. Vnde plenas emper vasa suis aquis imumcalida, medium temperata, supremum frigida, quæ per fistulasencas hinc atque hinc in quolibet vase compactas, versis ad vnum quenque actum Tympana Fistulę aqua ac alias piscinas. Hinc, tanquam a communi fonte, per rotas ac tymparo teacna, ac id genus alias machinas aquæ hau storias, quas describit Vitruuius commoditas coniungi desiderabat. Quanquam in hisque post Varronis et post Vitruvi j ętátem f a ett æ sunt, hæc distinctio non sit mihi ve risimili. Qanrum. liebria.  do auctoritu exercitationum,ac lautitia inThermis,vix publicas potuisse virorum frequentiæ sufficere videtur.Itaquepromiscuas potius ex eo tempo refuissereor, achonestis mulieribussatisfecissepriuatas,velquasprincipes Matronas constituisse iam scripsimus, Agrippinæ Neronis matris balneas, terke inbal Olympiadis,atquealias. Cameræ in quoque ordine quaternæ, Laconicum, Calidarium, Frigidarium et Tepidarium. Velternæ adminus:hoc enim non videturdubitandum,non fuisseThermas vno stylo vbique,nequevno ordinepartium et tam in publicis quam in priuatis. Et hinc in authoribus Celsus. Tanta earum inuenitur varietas. Quaternas point Celsus lib. 1. cap. 4. dum scribit, Sub veste primùm paululumin Tepidario sudare folitos: tùmtranfi- Galenus. re ad Calidarium, vbi sudabatur largiùs, quod ponitpro Laconico: tumque aut in calidamd efcendere,autinTepidam;deinde in Frigidam. Easdem C.i72ero qua λουτρόν Pyriateriit. Hypocaustü point Galenus lib.10..Methodi, a Laconico incipiens: Primùm enim inquit ingredientis inaë reversantur calido:hinc secundò in aquam Calidam defcé dunt,quod propriè aoutcovait appellari. Ab hac mox in tertiam Frigida ibár: et tandem in quarta sudoren detergebant, quod erat tepidarium, seu Apo dyterium græce dictum. Inquoet Celsusdicit,fenouissimèquiselauissent abstergere,et vngereconsueuisse. Quem planèordinem et inhis Thermis, quarum videmus vestigia, seruatum inuenimus. Extat Laconicum adsuda tiones in quoque primæfacieiangulo vnum, idquenonadeomagnum, hu- iusenim partis noneratvsus communis, nequeadeo necessaries omnibus, vtquibus fatis ad sudandum exercitiafeciffent. Sed imbecillis proprius et quiminus validiadexercitia, sudoreshocloco excitabant:subindeintrabát adcæterasbalneas. Nomen autemdeduxità Laconibus: quos huncritum rium, Laconicum veròc ommuniter omnibus, et Ciceroni quodam loco ad Sphærifte- Atticum. Suetoniusin Vespasiani Cæs. Vita Sphærifterium hanc partemap- 30 rium. pellat à figuræ rotunditate. Locus quippe concameratus ac rotunda fpecie, Lib.5.c.10.habens,authore Vitruuio, inhemisphæriolumen,exeoqueclypeumæneú cathenispendens,percuiusreductiones,acdemissiones perficeretur Suda Clypeus Lationum temperatura, vaporibusnimirùm ficretentis,veldifflatis. Erat autem huius institutiratio, vtfcribit Dion in Annalibus, vtfus è intrantesinhac par vfus: t e sudaret et sub i n d e unctione ad hibita, statim descenderent in frigida. Quod planè clarius ex Galeno fiet pofteà, ac à Martiali obiter tangitur in Hetrusci Thermis, ad Oppianuin tribus versibus. tepidum tamen aquarum vaporem potuisse suscipere. Proinde Celsusineo, affus dixit sudationes lib.z. cap.27. alibi exiccari dixit corpora: Seneca exani tos  .primò instituise, Plutarchusin Alcybiadis Lacedemonijvitaeftteftis. Græ Calidarium. cialiquando Ilupice Supo's,et nonnullisuTorw50sdictum,ob igneum ineova Sudatorium. porem: Latinis modo Calidarium,inodò Cella calidaria,Senecæ Sudato Laconici coni, ncis. mari, ritus si placeant tibi Laconum Contentus potes arido vapore CrudaVirgine, Martiaquemergi. Vaporíqua Virginem dixit, et Martiaminhisbalneis Romanasaquas, blandissimifrigo litas in Laco ris. Videtur autem Laconici aërem,siccum quidem fuisse, atque igneum, Bico. Galenus et alijmediciinterdum elixari, Oribafius planè aëreferuidu dixit, ac præhumidum in Laconico. Quod rationi consonum sit. Nam ex æstuarijs, partim quidem siccis, ex quibusiaindiximusab hypocaustooccul  10 su  tenui calore, diceba t Galenus x. Methodi, reservatis vniquem eatibus, liquatisque per totum corpus superfluis,sudores, vtilesquemadores clicere, quæ inęqualias untęquare, cutimlaxare et multa quæsubhac detenta erant, vacuare. Ex Laconico patet aditus i n Calidarium, quod proprie Calidum So aoutpór, hocestlauacruindicitur, eodemteste,et calidum Solium. Patetau-lium. tem hæc pars,duplex magnitudine ad cęteras cameras:vt cuius in balreis maior erat necessitas, longior in e o f i ebat mora, ac usus frequentior, præsertim minusvalidis ac imbecillis. Vbi meminisse oportetex Celli verbis, quæ pau Halat et immodicosexta Nerone calet. Mox tertiolocoerat Frigidarium,seuFrigidumSoliuminquo aquaexquisi. acviresdensatacutifirmarentur. Qui enim, subdit, hoc modo àcalidislaua- Vlus. tionibus, sudationibus que laconicis ftatim in frigidam non descendissent, Paulo post transpirato immoderatius calido innato,totum corpus frigidius euafiffe sentiebant. Quodfanè frigidælauatiofieri prohibebat,totum semel corpusconftringendo, etconstipando,nonsecusatqueaccideresoletcalen tiferro, quod quùm infrigidammittitur, et refrigeratur,et induratur. Atque huius rei causa potissimum constatinuenta fuisse balna, pro imbecilliu vm i delicet corporum robore: hoc eft vtimbecilla corporapræcalfacerent, itaque ad frigidum Soliumpræpararent. Adeoquepræualuit semper frigidarũvsus, Frigidarum vt vixquidam alijsbalneis vterentur. Carmis Maffiliensis Medicus, etate Neronis prerogativa, scribit PLINIO damnatis prioribus Medicis, ac balneis, frigidalauarihybernis etiam algoribus persuasit. Merficęgrosin Lacus.Vide bamussenes consularesin ostentationem vsquerigentes. Ex frigido tandem Solio erat exitus in Tepidarium, tepidiscilicetaëris,q uod diximus apodyterium, sive spoliatorium. Etcratfinisinbalnco.Ancè Tepidarium tamen Cella olearia in Diocletianis commodè est ut videtur Cella Olearia, eademque Tonstrinæ na.  tôs penetrare ignes in cameras, partim aqueis per suostubos ac spiracula, v a pores misti ad hemisperium Laconicipetentes,sub curuatura magni clypei intenuiffimas conuertebanturaspergines, quæimbrium modò super capita Facultates. corum,qui morabantur in Laconico depluebant. Potest autem hæc prima pars lo ante retulimus,vel in calidam fieridescensum, vel in tepidam, et quali ad uno, tenore vtentis arbitrium potuisse temperari. Et Galenus in 3. de  an, tuend a idem videtur asserere, nimirùmquòd in Calido Solioaqua, exvafisquæ diximus Miliariorum calidis, tepidis,ac frigidis, poteratadvsum trifariam tèfrigida, ad hunc videlicet vsu minquit Galenusx. Methodi; vtquæ fuerantFrigidum.So fòexcalfacta fiue'in lium., anterioribus Solijs, fiucin exercitijs, hicrefrigerarentur, An balnea calida. fieri, tepidam, aciusto calidiorem. Quam tamenva ri, nempè temperatam lauationibus, sed in priuatis,vel non videopotuissefieriinpublicis rietatem, parabatur à Balneatore aqua advsum pu adpriuatosvsus. Nam in Thermis compara LO Aeftiuo serues vbi piscem tempore quæris. fortas selocus,vbinimirùmoleaseruarentur,atquevnguenta do Tonstri,aliique odo blicum,vnotenorecalidaomnibus. Quod declarant authoritates scripto-frigidæ, alia rum, quialias Thermas appellant frigidas, alias blandas, alias fervidas. Vei frigidas significauit Martialisinprimo Epigrammatum. In Thermisferua Cecilianetuis. Idem inx. Neronianas indicat fuisse calidiffimas, eo epigrammate. Temperat hæc Termas nimios priorhoravapores res cal d a Therme alię  resad opportunosvsus,et quivellentbarbæ,et capillorum cultuivacarent. Unetiones in Eratautem hæc pars vn ade necessarijs, acessentialibus ut ita loquuntur in Thermis, toto ritu Thermarum, quando hiçmoserat communissimus, vtquisque lo tus,simplicis faltem oleivnctionevteretur, tùmvtsudoresinhiberet,tùm vt feabextrinsecùs ambientis iniuriavendicarepofset. Hunc enim tenorem in omnibus ferè,quę hùc sparsim adductæ sunt,authoritatibus obseruabis: primùm legitur exercitium, deindebalneum, vbifrictiofiebat,et detersio, inoxstatim frigidæ lauatio, pofteavnctio,posteacibuset potus,vltimòso mnus. Proinderecolome legissepluriesinvitis Principum, ficuti ntermu..10 Oleimunus nerapublica erat Congiarium,erat Recta, erat Sportula,itaoleum aliquan publicum. do publicè donatum, quoin communi velutigaudio,quisque frueretur in balneis.Nimirùm vel Thermis cùmprimùmdicatis,velfaftualiquo Principis.vnctionum verò, quasquis quesibi priuatim deferebatadbalneum, luxus legiturinestimabilis. Quidelicatèviuerent, velimbecilles, odoratisvnguen Balnea contis refouebant spiritus. Quosdam legimus iuffisse spargi parietes unguento. spersa vn-Vtfimul equidem puto et lauarentur, proiectisinalueositaimbutosaquis ipfis, et vngerentur, fic penetrante exactiùs vnguento, et odorem, virtu temquesuam diutiusseruante in corpore. At queita Caium Principemsoli tum lauari, testisest Suetonius. Scribit Lampridius Heliogabalum nunquá inPiscinislauarisolitum, nisiillæcroco, alii súe preciosisvnguentisperfusæ fuissent. Velplanè conspersiseo modoadluxum parietibus vtebantur,vedu quis se parieti confricaret (quod aliqui facere folebant, vt apud Spartianum in Hadrianoleginus)sineministris,acetiam proprijsmanibusperungilice Balneton ret. Neroautem profusissimus non folùm calidis balneass pargebatodorib. guentipre-sed et frigidis quoque vnguentislauabatur, fcribit PLINIO. Recensenturau ciosi. tem hoc in generepræciolamulta, quæ Galeno teste Romanorum lauritia Olea, etvn- inueniffevidetur: vt Mendelium, Cyprinum, Narcissinum, Susinum, M e guenta pre- galium factum ex balsamo, Regale apud Reges Parthos primò comparatum. ciofa. Nardinumquoque, quodet Foliatumdicebatur, Plinio:et alterum Spicatú, Quodidem Nardipisticæpræciosivnguentum legiturin Euangelio. Etitem Iasminum oleum,quododoriscaufla vtteftis eft Dioscorides non inbal neissolùm, verumetiaminterepulandum apud Persas, vsurpari consueue. Unguenta in r a t. Dono, equidem opinor, et in Xenijs. Quem morem diu Spartanos, at conuiuijs. Quelonasretin uiffe narrat Valerius quę, Plinio teste, Diapasmata,quasi conspersoria dixeris, Cyprini pulueris instar, quo hodievtimurodoratissimi; dequoebriam,putidamq;Felceniam illuditMartialis in primo Epigrammatum, eo carmine. Quid?quod oletgrauiusmiftumdiapasmatevirus? Apodyterií Vt redeamus ergo ad cameras, Apodyteriumerat principium, et finisinbal gues. Max. vnguenti, coronarumq uein conuiuio dandarum, secundismensis. Eratet Oenanthinuminter præciosa. Quorum similia aliqua apud Paul. Aeginetam legimus vnguenta, atqueolea. Multaquei d genu salia apud PLINIO inalabastrisferuari solita:nunc omnia rarissima, aut que dam subdititi a, vel adulterata, tantæ verò e a tempestate copiæ, vevsuscorum ad vulgares quoquede fuxerit, quodserioarguit Iuuenalis. Moechis Foliataparantur. Diapasmara Ad sudores autem propri  cohibendos, quæda m ficcis constabnt odoribu, neo;  eôdem nimirùm reuertentes, vbiantèbalnearum vestimentacõsignal sent.Idemqueex Galeni verbis plane intelligiturx. Methodi: hicenim dum cunctarentur, actergerentur, corpusadhucpersudorem,innoxiè, accitrà refrigerationem vacuabatur,acinnaturalem redibat mediocritatem. Porrò vana quorundam controuersia est, ponere Auicen.trescasas(itaenim interpretantur) in balneo, easque long è aliter dispositas, quam diximus. Cui bil. cnim dubium non fuisse balneas vnost ylovbiquenequevno ordine? Defijf setamen pariterapud Arabes hunc ritum, testator Auerroes in Canticis, ac Balnearum nonmirùm imperfectastùmeoshabuiffebalneas, Nequein antiquiffimisa nidemsły 10 exemplisea distinction quærendaeft: quando Hippocratisætatenon adeori tè balneaparabantur, quod et ipseinnuit 3. De ratione victus in morbis acutis. Neque in priuatis multo minus, quas Galenus aliquando perinde damnat, acin commodas, Depensilibus balneis, ac balneariis rebus. Uenire potuirationem. Nam si Pensiles balncas intellexeris sublime salueos, Pensile quid et quæ fu per solario locatæessent, idmagnuninoneft: ficut et Hortospensi lesvidemus, atquehorrea, acmaiusopus, Thębas Aegyptias pensiles fcribit Plinius. Audiuiqui id artificiumattribuant Laconico, ècuiussuspensura  lusvbique. ENSILIVM veròbalnearum, celebreduntaxatnomen peruenitad nos, fuis se eas inter maiora illius seculi blandimenta: cæterùm Cap. xi. namearum fuerit ratio, non facilè ex aut horibus colligitur. Ponit Valerius Max,interluxuriæexemplalib.9. CaiumSergium OratamPensiliabal quæ Auicenna neaprimum facereinstituiffe. Idquet radit Plinius lib. 9.cap: Pensilibal 54.L. Crafsi Ora- neurum inui torisetate,parum anterempub.occupatam.Queminteraliasvoluptates,et torSergius Ostrearum afferitinueniffe viuaria, nec tamgulæ causaa, quàm auaritiæ, vt Orata. Quiitamangonizatas vendebat villas. Eadem testator Macrobius 3. Saturna lium cap.15. Porrò venisse eas in gratiam popularem planè oftendit PLINIO Asclepiadis Neronis Mediciçtate: vrbe, inquit, imòveròtota Italia imperatrice, tum primùm vsu balnearum pensiliadinfinitumblandien te. Extat et Annei Senecę censura ad Lucillum, dePensilibusbalneis:qua vapores conuersosintenues aspergines, imbriummodo Aqua pensi supercapitacorum, lis. q u i lauabantur, depluere diximu s. Vel quem ad modum Aqua Pensilis dicitur z Fluvius p e n et Auuius Pensilis, ita id balneum Pensile fortasse intelligendum, exquodi-filis. ximus authore Seneca, atque Galeno calidas perpetuò aquas, vel quales quisquevellet et tepidas et frigidas, velut ex calido fonte depluere, actran {currerepercameras. Verùm nihililliusblandimentivideoinhis,quam ob rem populus eascum tanto applausu receperit, et quæ ad authorem adscri: bantur voluptuosiffimum. Pensiles ergo balneę haud publici videntur fuisse vera balnea instituti, sed in priuatis extitiffe. Vtquæ priuatum habuêre authorem, et pri-rum Pensi uatamc aussam,nempèinuentæaddelicias. Necvllumvestigium,nulladeliurnrutio. Hisin Thermis publicis mention habetur, Earumveròrationem, inquatanto. perehesitaui,elicioexeodem Plinio, cuidererumanti quarummemoriapri ma laussupercæteros scriptores, meritòtribuendaest.Pensileenim dicitur rum inqnit suspensura inuentaest, vtnequid deesset adlautitiam. Hæc ha 3 benturde inuentione, atquedelicijs Pensilium, quarum tamen non facilèin P suspensuspenfum,et mobile: qualesipfememinit Tyberij Cesaris hortos Pensilesmiræ voluptatis, quoshaud quaquam ponitsupersolariolocatos, sedsuspensos,et mobiles, quos inquit singulis diebuspromouerentadso lemrotisolitores. Quod idem clarainbalneis authoritate exposuit lib.26. сар.3.dum Cleophantum Medicum commemorat, authore M. Varrone, alia quoque blandimenta ex cogitaffe, iam inquit suspendendo lectulos, quo rum iactatuautmorbosextenuaret,autsomnosalliceret. Iambalneasaui disfima hominum cupiditate instituendo: easdemscilicet,etsuspensas,vtdi xitlectulos.Quam fententiam confirmant quæm oxpaulòsubiunxitverba, quæ allegauimus; Anxiam nimis fuisse Asclepiadis, et quorundam eum sequentium curan,tum primùm Pensili balnearum vsu ad infinitum blandien te. Easdem et balnearum suspensurasdixitSeneca. Et ValeriusMax.impen faleuibusinitijscępta, suspensis calidæaquæ balneis. Vnde fiiam mente co cipiasvidere hominem inbalneo Pensili,velęgritudine debilem,vel volu ptuofævitæ, çuiusdulcitepore,acleniiactaræ, et nęnijs, et dulciconcentu tibiarum,somnoet quietiindulgeretur, iamnihilpoterisexcogitaresuauius. Leftuli non Ex quibus intelligitur, neque lectulorum ritum in publicisextitisse: sed ho erấtin Therrumquoq;, vt Pensilium balnearum, priuataratio effedebuit, maximèegris. mis. Vtensilia in Neque particulariumquorundam vtensilium,quorum in balneis aliquando xandrinus Pedagogij consueuiffe nobilesante ferreadbalneasva sainnumerabilia, aurea,atqueargentea, quorum hęcquidem adlauandum, illa ad vescendum, alia ad propinandum. Quin etiam carbonum craticulas, Syndones. etcathedras. Syndonestergendosudoripræparatas, maximèægris,memi-. nusfitpedesdenos, vt gradus inferior indeauferat,et puluinus duos pedes. Labrainvr-Hactenus Vitruuius. Quare, vtarbitror, labraistalapidea, quæmultavide bemarmo-muspervrbemmaxima, vicenoset ampliuspedeslongitudine, erantfortaf- se in priuatis balne s. Vel aliqua fort af f e in Thermis ad magnificentiam potius operis, ac ornamentum, quàm advsum. Alioquia d publicum vsum nó videolocum, nequeadeofuiffevidenturcapaciapopulo. Pofteàvitroquæ dam extructafuiffe conftat. Pauimentorumautem, ac Lythoftrotorum, quibus alveos, atque ipsas cameras adornabant, luxus erat inæstimabilis. Quod certe inuentum Agrippæ tefte Plinio lib. 36. cap. 25. In Thermis, inquit, quas Romæ fecit Agrippa, figlinum opus encaustopinxit, in reliquis albarioador  Sufpenfabal nea, Thermis. mentio fit, quæ pueris voquisque domino ad balneum ante ferebant. Ut de strigili, quo sudore in detergebant;meminit Persius eo carmine Ironico. Strigiles Ipuer, et STRIGILES Crispiniadbalneadefer. Inęgristamen prostrigilibus, quierantvelofsei, velferrei, velargentei, spon giavtebantur,Galeno testex.Metho. Idgenuseratet Guttus,quodLe cythum quoquelegitur, inquoferuabanturoleuni,velaliavnguenta præ 20 30 rea, ciosa ad balneum. Hydriæ, pelues, alabastri, aliaqueid genusvasa, exau Vasaaurea.ro,argento, ferro, velinterdum lapidibus quibusdam. Refert Clemens Ale Labra, nit Galenusx. Methodi. Labraautem ex Vitruuio,et vestigijsipsorumal ueorum videntur fuiffe extructa in cameris signino opere, atque albario: sic enimlegitur Labrumsublumine faciendum videtur, nestan tes circumsuisvmbriso bscurentlucem. Scholasautem labrorum itafieri oportetspaciosas, vtcùm prioreso ccupauerintloca, circumspectantes reli quirectèftare poffint. Aluei autem latitude inter parieten et pluteumnemi nauit.  O nauit. Non dubi èvitreas facturus cameras, fipriusi dinuentum fuisset. Visasolimscribit Balineasgemmis, acargentostraras,vtnevitres ca vestigio quidem locus esset. Argento fæminas lauari solitas, argenteis folijs, meræge m Afiaticori sum missem perin delicijs fuisse apud omnes nationes oftenditur, hanc par mirans, hydrias, pelues, vnguentorum odores, et alabastros, cunctaauromaditißimg  lita, ac miro ornamento instructa; ad socios conuersus, et quasi nimiunı il DeritibusantiquisinThermisvrbis. Primis ergoThermarum,ac Palæstrarum institutis,jam partium earum principalium distinctiones,necnon requisitaad earum vsum magis necessaria tetigimus. De Ritibus verò in eis, atque ordine publicaemolumentum, quoniam per hæc oblectamenta, assiduafiebatin gymnasijs frequentia, ac varijs, quasdiximus corporis exercitationibus af suefiebat iuuentusad armorum industriam,vnde faciliùs posset militiæ labo res,quando hæc erantprimaillius feculiftudia, sustinere. Hûc accesserat et alia causa, quoniam qui tepidescere quodammodo ab honeftis conatibus cepiffent,perhas delicias retrahebaturà vitijsanimi, sicqueocium, quod eftomnium malorum fomes, tollebantur, feditionesarcebantur, et omnes populares corruptelæ. Ex quibus triainter communes ritus videnturesse manifesta. Primùm si vetustam illam verecundiam, ac Romanum decusrespicias, summam in Thermishonestatemfuisse feruatam. Simaiestatem populi, omnia ineis fuisse magnifica et splendida, velutidiximus, et quæ nolentes allicerent, atque etiam traherent. Sid enique communem causam. Communem, ac liberum earum vnicuique fuiffe usum. Erat autem hæc balnea- Thermecó. Rum condition communissima, vt singuli balneum ingressuri Quadrantem solmunes. Uerent balneatori. Quod planèali quæpræclaræ declarant authoritates: pri Quadrantis mùm M. Tullii pro Cælio, vbi quadrantariam vocat permutationem balnea em concludam. Asiaticos durante suo imperio luxuofiflimos fuisse, acexeis Thermalu A Fines, etvti &, probrisseruisse. Pauper fibiquisquevide eandeinque materiam et cibis seexercentium,aclauationum,haudmirum est hæc instituta semper maioré mis,acar litatesprin habuisse progressum; siconsideremus non folùm hincvitæ cip.iles Ther seruare consueuiffe, fanitatem elegantiam eos, et roburcorporis;sedquod maius eftinre ز gëtostratę. Baturacsordidus (scribit Seneca ad Lucillum) nisiparietes balnearūmagnis, a c preciocis orbibus refulsissent. Alexandrina marmor a Numidicis crustis distincta, operose vndique, et picturæmodo variataçircunlitio, Vitroconditæ cameræ. Aquainper argenteaeffundebant epistomia, et adhuc (inquit) ple beiasfiftulasloquor. Relinquocum hisstatuasillicęternitatidestinatas, operatectoria, picturas, speculariorumlapidumluxus, quiantècameras præbe bantlumina, et columnarn mingentium numerum, alia quetantioperisor namentasinefine. Atque hocvnotantùm Plutarchiexemplo,quobalneas primùm ad Gręcos, et exindeadRomanos huncmorem balnearumema nafse,apud veterum historiarummonumenta clarum est. Cùm ergo Alexa der Magnusdeuicto Dariorerumtandem Persię, ac imperijeius potitusesset, balneumque, vt sudorem pugnæ leuaret, ingrederetur; aquarum ductusad-Darij Ther ludens luxum, Hoccine (inquit) imperare erat. Torifieri solitam. Indicat et cocarmine Horatius, folutio. 1. Saty.3. Qq dum xuofiffima.  Nuditas in Redde pilam, sonatæs Thermarum,luderepergis? Verecundi ase nudum quisque in balneas exhibere,& etiamin exercitationes. Cuiusreiinteraliafidem faciuntstatuæ, præsertimvirotum, inqui bus videtur minuere potuisse corporis gratiam, ac venustatem, si non pudenda etiam fimpliciterenudataessent. Nonnullitameninter exercitationes, autfuccincta fibulaprodiresolebant,autsubligaculis,quæ et subligariavo nihil foluiffe videntur:teste Iuuenali Satir. Nec pueri credunt, nisiquinondum ærelauantur. Quorum tamen priuatafieret lauatio, hora extraordinaria quæerat poftde cimā, ij pluri precio lauabant, quod indicate o carmine Martialis Balneapostdecimanılafo, centumq; petuntur Quadrantes, &c. incommunitamen gaudio, erataliquandohocmunus interalia Principum, ut gratis lavaretur. Antonini Pij exemplo, quem balneum sinemercede prestitisse, meminitIul. Capitolinus. Sive ergo proveter iinstituto, fiueproso Sub ligaculo cabant. Authore CICERONE (si veda) offi.Scenicorum mostantamhabetveterisdi rumvfus. Sciplinæ verecundiam, vtin Scenasinesubligaculo prodeat nemo. Tecta tamen non hac,qua debes partelauaris..promi-Cæterùm cum haclicentiabalnei,videturdiuadmodum perdurassemulie. Eal. Mulierum verecundiam, quænon promiscuècumvirisintrarentinbalneas,nisi perabusum. Hinctotpriuatarum balnearum numerus. Etquædam viden  uerecunda. Subligar. E.. dum tuquadrante lauatum annum, Lauari. Cædere Syluano porcum, et quadrantelauari. Pueri tamen antè Fibula. Bal Rexibis,&c. Vituperanseum Principem, quivtvnusde multisqua drāte lauaretur. Idem Iuuen.authoritate confirmatur in 6.ybi mulieres quas damarguit impudentiæ, quæ communiter cum viris auderent, inquit ips e, lutamercede, hocmanifestumest, commune,acperpetuum fuissein Ther Locai Thermis indultum,vtlocus inbalneo, cuicunque tam primati,quàm plebeio co mis commu munis esset, atque indifferens. Ex quo intelligitur Tertulliani similitudo nia. aduersusMarchionem, QUASI LOCVS IN BALNEIS: quiavidelicetnul li e x merito datur, nectollitur locus in balneis, iam gratuito constitutis, et T intinnabu - ad usum publicum. Erant autem tintinnabula in Thermis summo quo p i a m fasti gi oposita, fære factitio conflata, quorum sonitu populum, sicut i hodie ad facra; conuocari lauandihoraeratsolitum.Tintinnabuluminter Xenias exhibuit Martialis, eo disticho. Virgine visfolalotusabire domum? Facitadeandem licentiam Suetonijauthoritas, D. Titum Cæs. admissaple Secum plebebenonnunquamin Thermissuis lavisse. Et Aelij Spartianialia, Hadrianum Cæs. tamprobatævitæ, publicè frequenterselaui consueuiffecum multis, verecundia etiam priuatis. Inuafiffe enim consuetudo videtur,ex affiduis il lisexercitijs, inbalneis. vndefolutohabitu, acseminudiplerunque homines degebant, vtnonesset Idem affirmatquodamloco Clemens Alexandrinus de athletis et martialis si pudor est, transfer subl igar in faciem. 10 la. Reges lauif. invil. bres. uaret.d. Dum ludit media populospectantepalæstra Delapsa est misero fibula verpus erat. Et lib.3. Chionemnotat verecundiæ, quæmuliebriainbalneis contectala tur  publicæ fuisse muliebres, ut Agrippinæ Augustæ Neronis matris. Olym piadisitem balneæ in Suburra. EtquastransTyberim, quasiextràconspe čtum hominum habuisse Ampelidem,& Priscilianam ex P.Victorerecensui mus. Conqueritur hac de caussa insuis Amatorijs Propertiusnon eam esse tum Romanis virginibusin balneis libertatem, quibuscum more Spartano publice liceretcertare, et lauari, hisversibus. Sed magè virgine itot bona gymnasij. Quòd noninfamesexercet corpore laudes cepsbeneinstitutę Reip.lapsus) totos singulis diebus lauari cepisse. Invniuer 20sum, qui cunquein exercitijsfuis, aut laboribus defatigati effent, vix fanam vitam putassent, nisibalneasstatimintrarent, vbisudoré, fordespulueremq; detergerent,acintotum semolliaquarumfoturecrearent. Quoplanèfit, ve Septiesquos dam lauari. Mirum ese non debeat, nequeluxuiadscribendum,quodquidamsepties eadem dietum lauari consueu erint, quod Plinius in primis refert. Ac posteri scriprores Commodum Cęf. et Gordianum idasseruntfactitasse. Sicenim intelle xêrequotienscunqueexercerentur, laffitudini sacrefrictionisvitare pericula, obstructionestollere, cutis afperitateinlenire, faciei, manuum,ac vniuersi corporis decorem conciliare. Erant tamen lauandi horæ constitutæ. Scribit Lauandiho I ul. Capitolinus antem Alexandri Severi tempora numquam Therinasantèau 30 roram apertas fuisse, et semper antè solis occasum claudi consueuiffe. Communiterv erò lauandihora erat a meridie ad vesperum, quando, inquit Vitruvius, maxime calidæ auræ a spirare incipiunt. Cuiomnesaliæ authoritates consentiunt. Hadrianus Cęs. inquit Aelius Spartianus ante horam octauam inpublico neminem, nisiçgrum, lauaripassus est: quod erat duashoras poftmeridiem.Vbi operæ præciumest Horarum apudantiquos Horologiri rationemhabere,quidiemartificialem quolibetanni temporedistinguebanttusapudan horisduodecim, &no&teni per vigilias. Horæergoerantinęquales, maiorestiquos. estate, quialongiorestuncdies; minoreshieme, et proportionecæteristem poribus.Haud tamen intelligendumest cosà prandiovsosbalneis fuise: Prădijetcę Nam communiter vir Romanus impransus, autientaculo tantùm primoma-navfus. nerefectus, bonam dieipartemimpendissetnegocijs: mox àmeridie,àsexta nimirùm ad decimam horam,exercitijs et balneo;à balneo autem, circa vi gesimamscilicet& secundamhoram, cenabatopiparè.Quam dieiatqueho rarum partitionem conquisitèin eo Martialis epigrammate comprehensam habemus. Primasalutantes, atquealteracontinethora, Exercet raucos tertiacausidicos. Martialis  ma 10 CO, Multa tuæ Spartemiramur iura Palæstræ, Inter luctantes n uda puella viros. Refert Plutarc husinterlaudabiles Catonisillius Cenforij mores, hocsum- verecundiă ma:laudiilicefliffe, quodcùmfilionunquàmlauisset. Imò Val. Max. fcribitinterafines. Deinstitutis antiquis, necpatercum filiopubere, necsočercum generis lauabatur. Quia interista fancta Vincula, non magis quàm in aliquo sacra tolo nudare se ne fasesse credebatur. Sed transeamusiamadeosritus, qui com inunivsuretinebanturin Thermis. Perinitia institutihuius, narratSenecaad Lucillum consueuifse veteresquotidiebrachia, et cruralauare, totosnundi nisfolùm. Cæterùm poft Magni Pompei ętatē (cuiusmemoria notatur præra. Qa ij Ad quintam variosextendit Roma labores, Sexta quieslafis,septimafiniserit. Sufficitinnonam nitidisoctaua palæstris, Imperat extructos frangerenonatoros. Hora libellorum decimaest Euphememeorum, Temperat ambrosias cùm tuacuradapes. Octavam verò dieihoram fuisselauationibus propriam,tùm publica,tùm pri M. Tullius CICERONE, uata testantur exempla. M. Tullius scribit ad Atticum de Cesare: Ambulavit inquitinlittore,pofthoram octauamin balneum, vnctusest, accubuit, edit, bibitq;opiparè. Horam et distinctionem temporum aliquamadnotamusex Galenus, Galeno v.de Sa.tuen.d. ANTONINO Imp. cognomento Pius, ad curam corporis promptifsimus, subbrumabreuibus, f.diebus, sole Occidente in palestram ingressus, sub indeole operun et tus lauarierat solitus: in Solstitio autemhora Thermehie-nona, autfummumdecima. Porrò quod legitur apud aliquos authores,Ther males, eteftimasaliquasfuise Hiemales, aliquasAestiuas;hæcnoneratcommunisom niumdistinctio, sedquarundam àcerto coelisitu dispositio. Quales Hiema lesfecissetraditVopiscusAurelianum Cæs.in Transtyberina regione; nimi rum ad meridiem expositæ,apertè solis fouebantur aspectu, itaq; ad hie males exercitationes aptissimæ. A e quaratione A estivas in Gordiano Iunior e meminitIul. Capitolinus, quæ in opaco fit uinter montem Celium et Esqui Bal.vfuspe-lias,gratas estate exercitationibus præftabant vmbras. Alioquî penes anni nesannitem tempora, vix vllaeratlauandidistinctio, sed benèpersonarum. Nam qui cun que lavabantura d exercitium, in differentert am hiem e, quam estate lauissent, quando cunquescilicetexercerentur.Sanitatisverò& mundicieicauf sa: quando cunque opusfuisset,velad priuatamcuique consuetudinem, vt de Telep o Grammaticom emin it Galen. v. de San. t u. qui lauari consueverat hieme bis mense, estate quater,medijs verò temporibus ter. Et de Primigene quodam FILOSOFO, quiquadie non lauisset, febricitabatomnino. Adde liciasautemac voluptates, velme tacente, priuataquoqueratio essedebuit,  et citràvllamaut regulam, autmensuram. Vnde Meridianæ lauaționes le Lychniinguntur, atqueetiam antemeridianę, et vespertinæ. Necnon  Medicine introductio. xi,trimixi,polymixi, idest angulorum et luminum,vnius, duorum,trium, plurium, Devrilitatibus Balnearum es quando primum Dalnceinvfum Medicina venêre. seruatur; nonaliam legimus fuiffe Rome Medicinam sexcenti sannis, quàm balnea. Quod teftatur PLINIO Receptos primùm è Græcia Medicos L. Aemilio,  M. Licinio Coff. vxxxv. Vrbis Romæ anno. Quádoqui dempetrari erant, nisi quiob cæliinclementiam crassarentur morbi. Nam quæ ex malo vitæregimine, ac ex termis causise ueni rep. Andrea Baccius. Andrea Bacci. Keywords: i bagni dei romani, De thermis – thermal baths – philosophy of thermal baths – implicatura ginnastica – le xii pietro pretiose – storia naturale del vino, bacco – terme romane – il vino e la filosofia, bacco ed Apollo, le xii pietre pretiose per ordine di dio I sardio II topatio III smeraldo IV barconchio IV saphhiro VI diaspro VII lingurio VIII agata IX amethisto X berillo XI chrisolito XII onice – tevere, le tibre au louvre, i vini. Thermopolium romanum – illustrazione – incisione terme romanae – natatio – piscina – ginnasio, mercurial, arte ginnastica. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bacci” – The Swimming-Pool Library

 

Luigi Speranza -- Grice e Badaloni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della colloquenza – la scuola di Livorno – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice  (Livorno). Filosofo toscano. Filosofo italiano. Livorno, Toscana. Grice: “I like Badaloni; he never took the ROMAN story of philosophy – I say story since history, as every Italian knows, is too pretentious! – seriously until he had to teach it! “Storia del pensiero filosofico – l’antichita’ is my favourite – because he does his best to understand Plato’s pragmatics of dialogue as misunderstood by Cicero!” --  Nicola Badaloni, Sindaco di Livorno Predecessore Diaz Successore Raugi Nicola B. (detto Marco). Di spiccate convinzioni marxiste, è stato uno studioso di Bruno, Campanella, Vico, Marx, e Gramsci.  All'attività di ricerca e di docenza a Pisa, dove è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e  occupa e la cattedra di filosofia, B. ha affiancato un'imponente attività politica nelle file del movimento operaio, ricoprendo per molti anni la carica di sindaco di Livorno, di presidente dell'Istituto Gramsci, nonché di membro del Comitato centrale del PCI. I suoi contributi storiografici, salutati fin dall'esordio dall'apprezzamento di Benedetto Croce hanno messo in luce autori considerati minori e pensatori inattuali (Franco, Fracastoro, Porta, Cherbury, Conti) rinnovando radicalmente, attraverso una collocazione nel contesto storico, grandi figure viste dalla storiografia idealistica precedente come immerse in una «solitudine metastorica».  Storicismo e filosofia Nella presentazione dell'ultima pubblicazione di B., Bodei ha sostenuto che il marxismo, lontano da ogni vulgata, conserva, per lo storico della filosofia toscano, la sua capacità di strumento di comprensione del mondo, di erogatore di energie di cambiamento, di guida per lo sviluppo di una prassi razionale, ancora validi dopo le esperienze del cosiddetto "socialismo realizzato". B. ha incessantemente ricercato un legame, nella storia, tra pensiero e azione sociale e sviluppato uno storicismo di impronta marxista che raccordasse autori lontani nel tempo (come Bruno, Vico, e Labriola), ma accomunati dalla tensione al rinnovamento e alla trasformazione progressiva degli assetti sociali in una data situazione storica determinata. Così come c'è alterità profonda, ma non rottura senza legame, tra Hegel e Marx e similmente tra Croce e Gramsci.  Altre saggi: “Retorica e storicità in Vico” -- “Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano” (ETS, Pisa); “Appunti intorno alla fama del Bruno”; “Introduzione a Giambattista Vico, Feltrinelli); “Marxismo come storicismo, Feltrinelli); “Tommaso Campanella” (Feltrinelli, 'Istituto Poligrafico dello Stato); “Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire” (Feltrinelli); “Il marxismo italiano degli anni Sessanta” (Editori Riuniti); “Labriola politico e filosofo, sta in Critica marxista, Roma); “Per il comunismo. Questioni di teoria, Einaudi); “Fermenti di vita intellettuale a Napoli, Storia di Napoli, Società Editrice Storia di Napoli); “Cultura e vita civile tra Riforma e Controriforma” (Laterza); “La storia della cultura, sta in Storia d'Italia, III -(Dal primo Settecento all'Unità), Einaudi); “Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, Einaudi); “Libertà individuale e uomo collettivo in Gramsci, in Politica e storia in Gramsci, F. Ferri,  1, Roma, Editori Riuniti-Istituto Gramsci); “Labriola, Croce e Gentile” (Laterza); “Dialettica del capitale, Editori Riuniti); “Gramsci: la filosofia della prassi, sta in Antonio Gramsci. La filosofia della prassi come previsione, in Hobsbawm, E. H., Storia del marxismo” (Torino, Einaudi); “Teoria della società e dell'economia in Labriola, I e II, in Dimensioni”; Forme della politica e teorie del cambiamento. Scritti e polemiche” (ETS); Movimento operaio e lotta politica a Livorno”; “Democratici e socialisti in Livorno” (Nuova Fortezza); “Filosofia della praxis, sta in  Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Editrice l'Unità); “Labriola nella cultura europea dell'Ottocento, Lacaita); “Il problema dell'immanenza nella filosofia politica di  Gramsci, Quaderni della Fondazione Istituto Gramsci Veneto, Venezia, Arsenale); “ Bruno. Tra cosmologia ed etica, De Donato); “Laici credenti all'alba del moderno. La linea Herbert-Vico, Le Monnier-Mondadori); “Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano, Edizioni ETS, Pisa, B. è inoltre coautore di due importanti manuali:  Storia della pedagogia, (Laterza); “Il pensiero filosofico. Storia. Testi. Per le Scuole superiori” (Signorelli Editore). Notizia della morte sul settimanale Macchianera, su macchianera.  Giuliano Campioni, Addio a B., maestro di filosofia, Athenet, Sistema bibliotecario di ateneo, Pisa. La lezione di Nicola Badaloni di Giuliano Campioni, professore del Dipartimento di Filosofia dell'Pisa, 20 gennaio,, in Pisanotizie. B. in Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Predecessore Sindaco di LivornoSuccessore Livorno Stemma.svg Diaz Raugi Filosofia Politica  Politica Categorie: Politici italiani Politici italiani Filosofi italiani Filosofi. Nicola Badaloni. Badaloni Keywords: colloquenza, la retorica di Vico. La storia di Vico, storia e storicita, campanella, lingua utopica. Bruno, Campanella, Gentile, Croce, Labriola, Gramsci. badaloni — implicatura vichiana — libero — biologia filosofica  telesio — vallisneri — lingua utopica di campanella — “retorica e storicità” — laico — bruno — comune — comunismo — marchetti — vignoli —Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Badaloni” – The Swimming-Pool Library. Badaloni.

 

Luigi Speranza -- Grice e Baglietto: la ragione conversazionle e l’implicatura conversazionale della dialettica – filosofia ligure – la scuola di Varazze -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice (Varazze). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Varazze, Liguria. Grice: “I like Baglietto; unlike me, he was a consceinious objector, but then we were fighting on different camps! I love the fact that his first tract is on ‘il problema del linguaggio’ in Mazzoni – but then he turned from ‘la bella lingua’ to Dutch! And specialized in Kant, but most notably Heidegger – ‘mitsein und sprache.’ But he also wrote on ‘eros’ and ‘love,’ – which is very Platonic of him! And of me, since the ground for my theory of conversation is on the balance between what I call a principle of conversational self-LOVE (or egoism, if you mustn’t) and a corresponding principle of conversational OTHER-love (or altruism, if you must, since I prefer tu-ism – ‘thou-ism’).” Claudio Baglietto (Varazze), filosofo.   Di origini modeste, dopo gli studi liceali presso il Liceo "Chiabrera"di Savona, studiò Filosofia all'Pisa e si perfezionò presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, allora diretta da Giovanni Gentile. Baglietto fu assistente del filosofo Armando Carlini. Negli anni pisani sviluppò idee di riforma religiosa e morale, in contrapposizione al Cattolicesimo e al Fascismo. Insieme a Capitini, B. organizzava riunioni serali in una camera della Normale, cui partecipavano giovani studenti, divenuti in seguito affermati intellettuali, come Binni, Dessì, Ragghianti, Varese.  Così Capitini ricordava l'amico nel suo saggio Antifascismo tra i giovani (Trapani): "era una mente limpida e forte, un carattere disciplinato, uno studioso di prima qualità, una coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, con un'evidentissima sanità spirituale. Cominciai a scambiare con lui idee di riforma religiosa, egli era già staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su due punti convenivamo facilmente perché ci eravamo diretti ad essi già in un lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano; il metodo Gandhiano della noncollaborazione col male. Si aggiungeva, strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che B. venne concretando meglio. Non tenemmo per noi queste idee, le scrivemmo facendo circolare i dattiloscritti, cominciando quell'uso di diffondere pagine dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni periodiche in una camera della stessa Normale [...]".  Ottenuta una borsa per perfezionarsi presso l'Friburgo in Germania, dove allora insegnava Heidegger, in coerenza con i suoi ideali di nonviolenza incompatibili col Fascismo, B. decide di non rientrare più in Italia e rinunciò alla borsa, cosa che scandalizza Gentile (che aveva garantito per lui presso le autorità per il visto). Anche Cantimori criticò animatamente la scelta di B., in particolare nel suo carteggio con Capitini e con Varese, accusando i colleghi normalisti dissidenti dal Fascismo di mancanza di senso di realismo politico, nonché di senso dello Stato (fu poi lo stesso Cantimori ad avvisare Gentile della morte di B.).  Lasciata Friburgo, B. si trasfere quindi a Basilea, dove visse da esule, proseguendo gli studi e dando lezioni private. Sepolto nel cimitero di Basilea. Il cammino della filosofia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Scritti religiosi. Antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); "Kant e l'antifascismo", in Fontanari e Pievatolo, Bollettino italiano di filosofia politica, Pisa, Ospitato su archiviomarini.sp.unipi. (Saggio inedito di Baglietto, composto a Basilea e da anni depositato nell'Archivio Marini dell'Pisa) Note. A. Capitini, L'antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); Chiantera Stutte, Cantimori. Un intellettuale del Novecento, Carocci, Roma, che rinvia soprattutto a Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso; Angeli, Milano); Capitini. Capitini Mahatma Gandhi Nonviolenza  B. e la questione morale --  "Phenomology Lab", B., Kant e l'antifascismo di Fontanari, nel "Archivio Marini". Filosofia Università  Università Filosofo Professore Varazze Basilea Nonviolenza Antifascisti italiani Studenti dell'Pisa. Claudio Baglietto. Baglietto. Keywords.  dialettica, filosofia ligure, baglietto — il kantismo di heidegger — manzoni — filosofia dell’amore — dialettica — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baglietto” – The Swimming-Pool Library. Baglietto.

 

Luigi Speranza -- Grice e Balbillo: il filosofo personale di Nerone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. A man of learning, he is much admired by Seneca. He is the personal philosopher of NERONE and writes a long book on astrology. Tiberio Claudio Balbillo. Balbillo.

 

Luigi Speranza -- Grice e Balbo: il tutore di filosofia -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Scolaro di SCEVOLA (si veda) pontefice, e soprattutto un giurista. I shall say but little of some other Balbus's, mentioned by ancient Authors. Disciple SCEVOLA, and preceptor of Servio Sulpizio, an excellent philosopher of law. CICERONE says that Sulpizio did exceed his master, who, by the addition of a mature judgment to his learning, was something slow, whereas his disciple is quick and expeditious. B.’s essays are lost, to which perhaps his disciple Sulpizio did not a little contribute by inserting most of them in his own. Lucio Lucilio Balbo. Balbo.

 

Luigi Sperana -- Grice e Balbo: gl’ortelani – Roma antica – filosofa italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Portico. Consul. Friend of CICERONE, who successfully defended him in a legal action. Comments made by Cicero suggest he was a member of L’ORTO. Lucio Cornelio Balbo. Balbo.

 

Luigi Speranza -- Grice e Balbo: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Chiamato ‘dal portico’ da CICERONE che nel De natura Deorum gli assegna l’esposizione delle dottrine teologiche stoiche.   Ivi B. dichiara di avere familiarità con Posidonio.Antioco dedica a B. un saggio.  Secondo CICERONE, B. e pari ai più insigni stoici. A Stoic philosopher and a pupil of Panezio.  B. appears to CICERONE as comparable to the best philosophers. He is introduced by CICERONE in his dialogue De natura deorum as the expositor of the opinions of the Portch on that subject. B.’s arguments are represented as of considerable weight. His name appears in the extant fragments of CICERONE’s Ortensio, but it is no longer thought that B. is a speaker in the dialogue. Cicero, De Divinatione. Griffin, "Composition of the Academica, in Inwood and Mansfield, Assent and Argument: Studies in Cicero's Academic Books. Brill. Smith, Dictionary of Roman Biography. Categories: Philosophers of Roman Italy Roman-era Stoic philosophers Lucilii Ancient Roman people GRICE E BALBO We must not, as Glandorpius has done, confound this Balbus with *Quintus* Lucilius BALBUS, the philosopher, and one of Cicero's interlocutors in the books de Natura Deor. A member of the Portch. Cicero uses him as a spokesmn for the Porch in De natura deorum. Lucio Lucilio Balbo. Quinto Lucilio Balbo. Balbo.

 

Luigi Speranza-- Grice e Baldini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del linguaggio – la scuola di Greve – filosofia fiorentina – la scuola di Firenze – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Greve). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo Italiano. Greve, Firenze, Toscana. Grice: “I like Baldini, but more so does Austin! In his collection of ‘lessons’ (lezioni) on ‘filosofia del linguaggio’ (not just ‘sematnica’ or ‘semiotica’) for the distinguished Firenze-based publisher Nardini, he deals with Austin, but not me!” Grice: “Baldini fails to realise that I refuted Austdin – when Baldini opposes ‘filosofese,’ I am reminded of my non-conventional non-conversational implicata – and Austin’s less happy idea of a felicity condition for a perlocutionary effect!” Grice: “But what I like about Baldini is that being Italian, he refers to ‘amore’ in his ‘natural’ history of AMicizia – which is all that my conversational pragmatics is about: Achilles and Ayax must share a lot of common ground to be able to play the game of conversation, and they do!”  Si dedica alla filosofia del linguaggio. Figlio dello storico Carlo B., laureato a Firenze, insegna a Firenze, Siena, Perugia, Bari, e Roma. Diversi sono gli’ambiti di ricerca che più di altri B. coltiva: la filosofia della scienza (con una particolare attenzione al pensiero dell'epistemologo  Popper, di cui ha curato anche alcune opere), la filosofia del linguaggio, e la semiotica delle mode filosofiche. Dedicato saggi all'epistemologia, cogliendone le possibili applicazioni alla medicina, alla storia della scienza, alla pedagogia e, infine, alla filosofia politica. Parallelamente, ha rivolto i suoi interessi anche alla storia della scienza e, in particolare, alla storia della medicina. Un'attenzione particolare è stata dedicata ai nessi che intercorrono tra l'epistemologia e la filosofia della politica: sulla scorta delle riflessioni popperiane, ha riletto il pensiero utopico sia nella sua dimensione storica che in quella teorica.  L'altro grande interesse filosofico di B. è stata la filosofia del linguaggio. In particolare ha studiato le tesi dei semanticisti generali, un movimento nato negli Stati Uniti tra le due guerre mondiali e di cui si era occupato per primo in Italia negli anni Cinquanta Francesco Barone. L'interesse per la filosofia del linguaggio si è declinato anche in chiave storica: e alla storia della comunicazione Massimo Baldini ha dedicato numerose opere. Inoltre, gli studi sulla filosofia del linguaggio si sono incentrati sull'analisi di alcuni linguaggi specialistici: quello della pubblicità, quello dei mistici, quello della pubblica amministrazione, quello dei giornalisti, nonché il tema correlato del silenzio. Tutti questi linguaggi, sono stati studiati nelle prospettive dell'oscurità e della chiarezza, e dell'oggettività (soprattutto con riferimento al contesto dell'informazione).   La biblioteca comunale "B." di Greve in Chianti A partire dalla fine degli anni Novanta, infine, gli interessi di B. si sono incentrati sul tema della moda, che egli ha studiato dal punto di vista storico e semiotico, e nelle diverse componenti della moda vestimentaria e della moda capelli. Tutta l'attività di ricerca di B. è confluita in numerose opere individuali e collettive, curatele, introduzioni e prefazioni a testi italiani e stranieri, traduzioni, nonché nella collaborazione stabile con alcune case editrici e riviste scientifiche. In particolare, presso l'editore Armando (Roma) ha diretto le collane Temi del nostro tempo, I maestri del liberalismo, Moda e mode, I linguaggi della comunicazione; presso l'editore Rubbettino (Soveria Mannelli) la collana Biblioteca austriaca (con Antiseri, Infantino e Ricossa).  Menzione a parte merita poi il ricordare che B. è stato ed è rimasto nel corso dei decenni un grande estimatore e diffusore dell'opera del concittadino grevigiano Giuliotti, il "poeta-mistico" o "profeta" Giuliotti, del quale il nostro ha riedito alcune delle sue maggiori opere per lo più per conto delle edizioni Logos di Roma, oltre a dedicare al medesimo alcune raccolte di saggi come "Il più santo dei ribelli. Scritti su Domenico Giuliotti" oppure "Giuliotti. Cristiano controcorrente" (ed. EMP), senza contare i volumetti preparati per conto della preziosa casa editrice La Locusta di Vicenza, in consonanza agli interessi espressisi e sviluppatisi soprattutto a partire dagli anni ottanta, quelli che afferivano ai connotati e alle 'modalità' del linguaggio dei mistici, o alle relazioni intercorrenti fra le dimensioni del silenzio-parola-Parola di Dio-ascolto.  È stato altresì membro del Comitato Nazionale per la Bioetica; membro del comitato scientifico delle riviste L'Arco di Giano, 'Nuova civiltà delle macchine, Desk.  Morì a causa di un infarto mentre si trovava a cena con alcuni colleghi universitari. Nel  per la casa editrice Rubbettino è uscito il libro La responsabilità del filosofo. Studi in onore di B. Antiseri con saggi di amici, colleghi, collaboratori e studenti per ricordare la figura intellettuale e morale di Massimo Baldini a quattro anni dalla scomparsa. Partecipano all'antologia Mauro e Kerckhove. Il primo maggio  è stata inaugurata a Greve in Chianti la Biblioteca B.  Sulla filosofia del linguaggio «È chiaro che devo preoccuparmi di essere inteso da tutti perché penso che la chiarezza sia la cortesia del filosofo»  (Gasset, Cos'è la filosofia?) Secondo Baldini scopo del filosofo e della sua filosofia è essere chiari: scrisse infatti «l'accusa che più frequentemente viene rivolta alle opere dei filosofi è quella dell'illegibilità». I filosofi come dimostra nel suo Contro il filosofese e nel Elogio dell'oscurità e della chiarezza non seguono sempre questa missione ed in alcuni casi sembra usino volutamente un linguaggio oscuro ed incomprensibile. Tre dei filosofi più oscuri secondo Baldini, che ricalca in questo anche il giudizio di Schopenhauer, sono stati Fichte, Hegel e Schelling. Parlando di Hegel, Baldini riporta il giudizio di uno scritto di Koyré che definisce la lingua di Hegel "incomprensibile e intraducibile".  Citando inoltre il giudizio di Popper scrive: «Troppo spesso, secondo Popper, i filosofi vengono meno alla virtù della chiarezza. Con l'oscurità sovente mascherano le tautologie e le banalità che infiorettano i loro discorsi».  Bergson cita l'esempio di Cartesio, di Malebranche e di molti altri filosofi francesi mostrando che idee molto raffinate e profonde possono essere espresse nel linguaggio ordinario anziché con circonlocuzioni e ridondanze e termini che sono causa di equivoci. B. afferma che l'oscurità in filosofia è, dunque, il modo migliore per fingere di spacciare pensieri, mentre si sta solo spacciando parole, è una maschera che cela spesso il vuoto di pensiero o la banalità dei pensieri. Nonostante tutto secondo B., non bisogna giudicare frettolosamente un filosofo, definendolo oscuro, a volte può essere una carenza della nostra conoscenza che ci porta a respingere come vuoto suono, parole che invece, hanno il loro preciso significato.  Filosofare in maniera chiara può avere le sue difficoltà, Nietzsche infatti afferma che ci vuole meno tempo ad imparare a scrivere nobilmente che chiaramente e  Wittgenstein che celebra a più riprese la chiarezza, fa autocritica ammettendo in una sua lettera a Russell che il suo Tractatus logico-philosophicus è tremendamente oscuro. Quanti celebrano la chiarezza in filosofia, sanno bene che ogni lettore di testi filosofici deve fare proprio il consiglio che Wittgenstein da a Russell, quando questi si lamenta con lui dell'oscurità del trattato, gli scrive. Non credere che tutto ciò in cui tu sei capace di capire consista di stupidaggini. Invece, un personaggio che volutamente, secondo B., tende a non farsi capire e a sopraffare linguisticamente fra gli applausi di ammirazione i suoi ascoltatori, è Verdiglione.  Chi si avventura nelle sue opere, fa rilevare il filosofo, si imbatteva in frasi tipo questa. Sono tratto da un demone a dire, a fare, a scrivere sempre fra oriente e occidente e fra nord e sud. Senza luogo della parola. Questo demone è il colore del punto, dello specchio, dello sguardo, della voce: la moneta stessa. Punto, sembiante, oggetto scientifico, è indotto dalla pulsione, dall'instaurazione della domanda, dove l'offerta è il pleonasmo», ed ancora: «Ecco questo primo rinascimento. Primo in quanto procede dal secondo, ovvero dall'originario. Secondo dunque non in senso ordinale, non in nome del nome. Non è neppure nuovo, perché non parte dalla corruzione per arrivare all'utopia». "Oscuro superlinguaggio" e "gargarismi linguistici e semantici" sono secondo B. il risultato della verdiglionite ovvero di chi si muove sui sentieri del filosofese. Secondo B. quindi la difficoltà di esprimere alcuni profondi pensieri filosofici non dovrebbe essere amplificata, è vero che ci sono pensieri filosofici difficili da esprimere in modo semplice, ma è pur vero che il filosofo che desidera trasmettere la propria filosofia, dove fare un onesto sforzo affinché essa sia quanto più possibile comprensibile al proprio uditorio.  Sociologi: è morto B., semiologo e filosofo, Adnkronos, Contro il filosofese I filosofi e l'abuso delle parole; Contro il filosofeseFichte, Schelling, ed Hegel: i professionisti dell'oscurità; Koyré, Note sulla lingua e la terminologia hegeliana, Interpretazioni hegeliane, La Nuova Italia, Firenze; Russel. L'autobiografia Longanesi, Milano Verdiglione, Manifesto del secondo rinascimento, Rizzoli, Milano. Altre saggi: “Epistemologia e storia della scienza” (Città di vita, Firenze); “Campanella ed il linguaggio dell’utopia” – “Utopia e ideologia: una rilettura epistemologica” Ed. Studium, Roma); “Epistemologia contemporanea e clinica medica” (Città di vita, Firenze); “Teoria e storia della scienza” (Armando, Roma); “I fondamenti epistemologici dell'educazione scientifica” (Armando, Roma); “La semantica generale” (Città nuova, Roma); “Gli scienziati ipocriti sinceri: metodologia e storia della scienza” (Armando, Roma); “La tirannia e il potere delle parole: saggi sulla semantica generale” (Armando, Roma); “Congetture sull'epistemologia e sulla storia della scienza” (Armando, Roma); “Epistemologia e pedagogia dell'errore” (Scuola, Brescia); “Il linguaggio dei mistici” (Queriniana, Brescia); “Il linguaggio della pubblicità” “La fantaparola” (Armando, Roma); “Educare all'ascolto, Scuola, Brescia); “Parlar chiaro, parlar oscuro” (Ed. Laterza, Roma Bari); “Lezioni di filosofia del linguaggio” (Nardini, Firenze); “Antologia filosofica, Scuola, Brescia); “Contro il filosofese” (Laterza, Roma); “Storia della comunicazione, Newton et Compton, Roma); “La storia delle utopie, Armando Editore, Roma); “Il proverbi italiano” (Newton et Compton., Milano); “Karl Popper e Sherlock Holmes: l'epistemologo, il detective, il medico, lo storico e lo scienziato” (Armando, Roma); “La medicina: gli uomini e le teorie, CLUEB, Bologna); “Il liberalismo, Dio e il mercato” (Armando, Roma); “L’amicizia” (Armando, Roma); “Introduzione a Karl R. Popper, Armando Editore, Roma); “Capelli: moda, seduzione, simbologia” Peliti, Roma); “Popper e Benetton: epistemologia per gli imprenditori e gli economisti” (Armando, Roma); “Elogio dell'oscurità e della chiarezza, LUISS University Press e Armando Editore, Roma); “Elogio del silenzio e della parola: i filosofi, i mistici, i poeti, Rubettino, Soveria Mannelli); “I filosofi, le bionde e le rosse, Armando Editore, Roma); “L'invenzione della moda: le teorie, gli stilisti, la storia. Armando Editore, Roma); “L'arte della coiffure: i parrucchieri, la moda e i pittori, Armando Editore, Roma); Popper, Ottone, Scalfari, LUISS University Press, Roma. Citazionio su B. Scheda dell'Università LUISS, su docenti. luiss. Filosofia Filosofo Filosofi italiani Accademici italiani Accademici italiani Professore Greve in Chianti Roma Professori della Libera università internazionale degli studi sociali Carli Professori della Sapienza Roma Perugia Siena Bari Firenze. Intendo concentrarmi qui su alcuni aspetti della teoria aristotelica dell’amicizia: il metodo di indagine attraverso cui è articolata e acquisita, e il suo significato dialettico e teorico.  Il processo conoscitivo per Aristotele è una transizione da ciò che è primo per noi a ciò che è primo per sé, e l’indagine sull’amicizia non fa eccezione. Il primo per noi contempla la nostra esperienza della cosa intesa in senso ampio, tale da includere: le prassi linguistiche e ascrittive diffuse, le opinioni notevoli (ἔνδοξα) condivise da tutti o dai più o dai sapienti o da alcuni di essi, i topoi o luoghi comuni consegnati dalla tradizione, i fenomeni intesi come fatti della vita, ovverosia le ordinarie prassi umane, i comportamenti concreti implicati nelle relazioni di amicizia. Si tratta di un materiale eterogeneo, variegato, opaco, bisognoso di sintesi e di articolazione concettuale. Il suo trattamento dialettico preliminare e orientato anzitutto a evidenziare le contraddizioni che tale materiale ospita, per poi cercare di superarle entro una sintesi superiore la quale, attraverso una teorizzazione positiva ˗ materiata di distinzioni semantiche e concettuali, argomenti, definizioni ˗ ne salvi gli elementi genuini nella misura del possibile, mostri l’apparenza delle contraddizioni, e produca così una sorta d’equilibrio riflettuto fra il primo per noi, da cui pure si sono prese le mosse, e il primo per sé, punto d’arrivo dell’indagine. Una buona teoria dovrà fare giustizia dei caratteri manifesti dell’oggetto, renderli cioè intellegibili e inferibili. Una teoria che nega questi caratteri, e ipso facto una teoria deficitaria, insoddisfacente: non ci riconcilierebbe coi φαινόμενα, che pure sono il suo originario explanandum.  Questa cifra metodologica va tenuta presente, se si vuole apprezzare in modo non superficiale la trattazione aristotelica dell’amicizia nelle Etiche. Perciò è opportuno partire non da Aristotele, bensì dall’orizzonte teorico-culturale cui egli si rapporta dialetticamente, nonché dai suoi obbiettivi polemici. Il significato ordinario di «φιλία» ha un’estensione ben più ampia della nostra nozione di «amicizia»: oltre all’amicizia propriamente intesa, può denotare anche l’alleanza politica, la vasta gamma dei rapporti sociali, dalle relazioni parentali e matrimoniali a quelle commerciali, quelle cameratistiche, quelle amorose ed erotiche; insomma, qualunque interazione umana positiva e non ostile, fra individui o fra gruppi – ma anche fra uomini e dei– è denotabile come φιλία. Nella caratterizzazione preliminare che ne offre, Aristotele attinge ai grandi modelli omerico ed esiodeo, così come ai Sette Savi, ai tragici, nonché al sapere filosofico dei predecessori (Empedocle, Eraclito, etc.); ma il punto di riferimento dialettico che, sottotraccia, orienta l’intera trattazione, è il Liside platonico, la prima indagine filosofica sistematica dedicata alla φιλία[8], nelle cui note aporie sono peraltro condensate e portate a tematizzazione le contraddizioni insite nelle istanze della tradizione pre-filosofica globalmente intesa. Il Liside dunque, fra gli ἔνδοξα e i λεγόμενα, riveste un ruolo dialettico-polemico primario, anche se non se ne fa alcun riferimento esplicito. È impossibile in questa sede tentarne anche solo una cursoria sintesi, ma è necessario individuare perlomeno quelle aporie di fondo intorno alla φιλία che Aristotele riprende in maniera puntuale.  Una importante aporia radicata nella dicotomia attivo/passivo, è articolata intorno alla questione: chi dei due, in una relazione amicale, è l’amico? Chi ama o chi è amato? Si sonda tutto lo spazio logico delle possibilità, producendo esiti paradossali (di qui, appunto, lo status di aporia): se è chi ama, ad essere amico di chi è amato, allora nel caso che chi è amato odiasse chi lo ama, uno sarebbe amico di chi lo odia! se è chi è amato, ad essere amico, sarà anche il caso che chi è odiato è nemico, dunque se qualcuno ama qualcuno che lo odia, allora sarà nemico di un suo amico! se sono amici o chi ama o chi è amato, indifferentemente, resta fermo che uno potrebbe essere amico di chi lo odia se sono amici necessariamente entrambi, allora non potremmo essere “amici” di entità che non ci amano, come la scienza, o il vino, o i cavalli. L’aporia presuppone l’ampia estensione semantica di φιλία e di φίλος, che da un lato può avere significato passivo (esser caro a qualcuno), attivo (essere amico o reciproco, dall’altro come prefisso (φίλο-) può comporre termini denotanti amore, passione o apprezzamento per entità impersonali, che non reciprocano. Ma l’aporia è filosofica, non meramente linguistica.  Una seconda aporia muove dalla questione se l’amicizia si dia fra simili o fra dissimili. Se si dà fra simili, allora anche i malvagi sarebbero amici, ma fra malvagi non si dà vera amicizia (assunzione qui data per vera); se si dà non fra simili simpliciter ma fra simili nell’esser buoni, sorge il problema di come il buono – il quale basta a se stesso – possa trarre utilità da un altro buono, e viceversa, quando si era precedentemente stabilito che nessun amico è inutile all’amico se si dà fra dissimili contrari, come povero/ricco, sapiente/ignorante etc., allora, daccapo, l’amico sarà amico del nemico, il malvagio del buono etc.: amico/nemico e malvagio/buono sono contrari; 4) forse si dà fra certi dissimili non contrari: chi è intermedio fra buono e cattivo può amare il buono in virtù della presenza in sé di un “male”, cioè della privazione di bene di cui è conscio e che lo rende intermedio; così l’amicizia diventa un caso particolare del desiderio, volto strutturalmente a ciò di cui si è privi. Ma anche qui si ricadrebbe nel caso 1 della Prima aporia: pare che l’amare unidirezionale e non ricambiato non sia sufficiente all’amicizia, inoltre il buono sarebbe amato senza amare a sua volta (infatti l’altro gli è inutile giacché egli ha già il bene presso di sé).  A questo punto viene introdotta l’idea che, se noi cerchiamo nell’amico il bene ma nessun amico può avere il bene pienamente presso di sé, allora ciò che cerchiamo negli amici è il «Primo Amico», qualcosa che trascende sia noi che gli amici stessi, di cui questi ultimi sono apparenze (εἰδώλα). Le relazioni amicali sono da ultimo orientate verso qualcosa che trascende entrambi i relati, secondo una dinamica “ascensionale” segnatamente platonica: ma così l’amico in carne e ossa parrebbe ridotto a mero luogo di transito di una tensione desiderante che ascende in direzione di un assoluto ideale. Riesaminando poi la relazione “orizzontale”, si introduce la nozione di «affine» (οἰκεῖος): forse la φιλία è rapporto col simile in quanto affine, o familiare; ma l’affinità pare essere reciproca (se A è affine a B, B è affine ad A), dunque il buono risulta inservibile a chi è già affine al buono; inoltre, sono affini anche i malvagi.  Anche se la trattazione appare un poco schematica e talora verbalistica, essa tocca problemi speculativi genuini. Come ci si aspetta da un dialogo “socratico” di Platone, le aporie non trovano uno scioglimento, se non la paradossale acquisizione che né amanti né amati, né simili né dissimili né contrari, né affini, né buoni, possono essere amici! Teniamo dunque a mente questi nodi problematici. L’amicizia è studiata nell’Etiche Eudemia e Nicomachea. Mentre la trattazione dell’Etica Eudemia risulta più logica e astratta, quella dell’Etica Nicomachea è più orientata a salvare i fenomeni, è più empirica e inclusiva: per cogliere i nuclei teorici di fondo, è sensato muovere dalla prima, e valutare criticamente quando e perché la seconda propone integrazioni o discostamenti teorici da quella. Sia la Eudemia precedente alla Nicomachea o meno, in essa appare più nitidamente come la trattazione aristotelica costituisca una sorta di virtuale controcanto filosofico del Liside platonico.  Etica Eudemia VII introduce il soggetto come specialmente degno di essere indagato: gli ἔνδοξα universalmente diffusi pongono la φιλία come il fine stesso della politica, come antidoto all’ingiustizia, come habitus caratteriale rivolto ai buoni, pongono l’amico come il più grande dei beni esterni (anche in quanto volontariamente scelto) e l’assenza di amici come il male più terribile. La φιλία è aspetto centrale dell’etica – soprattutto entro un’etica eudemonistica imperniata sul bene e sulla felicità – dunque non sorprende che la sua trattazione occupi quasi un quinto degli scritti etici aristotelici.  Ma altre opinioni notevoli non sono universalmente condivise: per alcuni il simile è amico del simile (Omero, Empedocle), per altri lo è il contrario del contrario (Esiodo, Euripide, Eraclito): sono le opzioni 1 e 3 della Seconda Aporia del Liside, che pure non viene citato. Si ricordano poi altre opinioni, topoi tradizionali già ripresi dal Liside: per alcuni non c’è amicizia fra malvagi ma solo fra buoni (cfr. opzione 1 della Prima Aporia), per altri solo chi è utile può essere amico (cfr. opzione 2 della Seconda Aporia).  Prima di passare alla pars construens, Aristotele enuncia candidamente il criterio metodologico e lo scopo dell’indagine:    Occorre trovare un’argomentazione che insieme renda conto (ἀποδώσει) al massimo grado delle opinioni (τά δοκοῦντα) intorno a queste cose, e anche che sciolga le aporie e le contraddizioni. Ciò avverrà qualora appaia che le opinioni contrarie sono sostenute con buone ragioni: una tale argomentazione sarà nel massimo accordo coi fenomeni. E le tesi in contraddizione risultano mantenersi, se quel che affermano è vero in un senso, ma in un altro no. (Et. Eud.).  Le opinioni diffuse e notevoli non vanno accolte in modo supino e acritico, ma comprese nelle loro buone ragioni e, nella misura del possibile, salvate entro una sintesi teorica che superi le aporie e mostri che le affermazioni apparentemente incompatibili possano essere vere entrambe, in sensi diversi; così vi sarà anche il massimo accordo coi φαινόμενα. Questi, i desiderata da soddisfare.  Se l’amicizia è desiderio (altra acquisizione del Liside[25]), il desiderio può essere del piacevole (appetito) o del buono (volontà)[26], dunque ciascuno di essi ci è «amico» o caro (φίλον); comunque il piacere si presenta come un bene (o appare tale o è creduto tale[27]): la prima distinzione da fare è perciò fra bene e bene apparente (φαινόμενον ἀγαθόν), oggetti del desiderio[28]. La seconda è quella fra bene incondizionato (ἁπλῶς) e bene per qualcuno[29]: ciò che è buono simpliciter lo è per l’essere umano in generale, ciò che è tale «per qualcuno» lo è per certi individui particolari in certe circostanze (per esempio, un’operazione per un malato); parimenti, vi è un piacevole incondizionato e un piacevole «per qualcuno» (per esempio, in condizioni fisiche o morali alterate); Aristotele sostiene che il piacevole incondizionato coincida col buono incondizionato[30]: ciò che è buono per l’uomo in generale, è anche piacevole per l’uomo in generale, invece un individuo malato o corrotto troverà piacevoli cose non oggettivamente buone; né coincideranno il piacevole «per lui» e il buono «per lui». Un uomo saggio e virtuoso troverà piacevole ciò che è buono, dunque nel suo caso si identificano bene apparente e bene reale (è buono ciò che gli appare tale), bene «per lui» e bene incondizionato (ciò che è bene per lui è buono in generale per l’uomo), nonché bene e piacere: egli è norma rispetto a ciò che per l’uomo in generale è e deve essere buono e piacevole, in quanto esprime l’eccellenza della stessa natura umana. A ogni modo, ciò che motiva un soggetto S deve apparire un bene a S (che lo sia o meno), e apparire a S un bene per lui (che sia o meno anche un bene in senso incondizionato). Ci sono cose per noi buone in quanto le riteniamo dotate di valore intrinseco, cose per noi buone in quanto le riteniamo utili, e cose per noi buone in quanto le troviamo piacevoli. Poiché l’amico è un bene scelto e desiderato ˗ il φιλεῖν è un caso particolare di desiderio ˗ potrà esserlo per questi tre motivi: come bene in sé, e cioè in quanto è ciò che è e «per la virtù», o in quanto è ci è utile, o in quanto sia piacevole, «per il piacere». Chiariremo successivamente perché il buono in quanto buono, quando il bene sia l’amico stesso, si identifichi con la sua virtù.  Colui che è amato in base a uno dei tre aspetti suddetti (bene-virtù, utilità, piacevolezza) diventa un amico ˗ si aggiunge ˗ quando contraccambia l’affetto: dunque la reciprocità diviene un tratto essenziale dell’amicizia, una sua condizione necessaria; Aristotele sceglie l’opzione 4 della Prima Aporia del Liside, ma replica all’obiezione ivi contenuta, secondo cui cose amate come il vino, i cavalli e la scienza non possono ricambiare, mediante la distinzione fra φιλία e φίλησις[33]: la seconda è un affetto/desiderio per le cose inanimate, la prima implica un simile affetto come componente, ma include necessariamente la reciprocità. Talvolta, una nozione vaga può essere disambiguata mediante una distinzione semantica, in modo da sciogliere apparenti contraddizioni e insieme “salvare i fenomeni”. Tuttavia, l’affetto reciproco sulla base di uno dei tre amabili non è ancora sufficiente perché ci sia φιλία; tale reciprocità deve essere esplicita, non celata, nota ai due amici: se amo qualcuno che non lo sa, non siamo amici, nemmeno nel caso lui ami me e io lo sappia; entrambi devono amarsi l’un l’altro, ed entrambi lo devono fare in modo manifesto, tale che sia noto all’uno e all’altro. La coscienza di essere amici è essenziale all’essere amici: qualcuno può credere di essere amico senza esserlo[34], però nessuno può essere amico di qualcuno senza credere di esserlo. Se manca la reciprocità, non si ha amicizia ma «benevolenza» (εὔνοια), cioè desiderio del bene dell’altro; quando quest’ultima è reciproca e non è celata, allora può divenire amicizia.  Le tre forme di amicizia, rispettivamente basate su virtù, utilità, piacere, secondo l’Eudemia intrattengono la relazione asimmetrica che Aristotele chiama πρὸς ἓν, in cui vi è un significato primario o focal meaning cui gli altri, secondari e derivati, rimandano[36]: l’amicizia a causa della virtù e fondata sul bene è posta come πρώτη φιλία, «prima amicizia», da cui le altre dipendono dal punto di vista definitorio. Quindi «φιλία» non denota tre specie di un unico genere, né è un termine equivoco che denota realtà completamente diverse; è termine “multivoco”, giacché l’amicizia si dice in molti modi ma in riferimento a un senso che illumina tutti gli altri, e a cui gli altri si rapportano necessariamente. Molti critici ritengono che, siccome l’amicizia “utilitaristica” e quella “edonistica” possono darsi indipendentemente da quella “virtuosa”, l’idea che esse rimandino necessariamente a quella “virtuosa” non sarebbe convincente, e proprio per questo sarebbe poi abbandonata nella Nicomachea. Ma la gerarchizzazione πρὸς ἓν è anzitutto definitoria: il piacere è un bene apparente (dunque, una declinazione del bene), l’utile è tale in quanto foriero di bene[38] o di piacere (che, daccapo, è un bene apparente); dunque i tre amabili sono un bene, un modo di apparire del bene, una via che porta al bene. Al modo in cui il piacere e l’utilità si definiscono in rapporto al bene[39] (ma, per Aristotele, non viceversa), così le amicizie basate sul piacere e l’utile si definiscono in rapporto a quella basata sul bene come tale: e infatti, come vedremo, ne sono forme imperfette e difettive.  Si noti la pur generica assonanza fra la πρώτη φιλία e il πρῶτον φίλον, il Primo Amico del Liside: se Platone radica il senso delle relazioni amicali in un anelito a qualcosa che trascende le amicizie e gli amici stessi illuminandole, per così dire, dall’alto, Aristotele immanentizza il bene entro gli amici stessi e le loro relazioni; c’è una amicizia prima, ma non un Amico primo che si distingua dagli amici empirici e concreti. Il bene che è in gioco nell’amicizia è ubicato negli amici stessi, è immanente.  Qual è la ragione profonda di questa tripartizione? Si può mostrare in modo puntuale che si tratta di una risposta alle aporie platoniche: se i platonici pongono come amicizia solo quella virtuosa, «non riescono a dare conto dei fenomeni»[40], ove per fenomeni si devono intendere non solo le prassi umane, ma anche gli ἔνδοξα e i λεγόμενα. Se vi sono tre forme di amicizia, può darsi che alcune opinioni notevoli e intuizioni siano vere dell’una ma false dell’altra, altre siano vere dell’altra ma false dell’una, come afferma il passo metodologico succitato. Se poi a partire da ciascuna delle tre caratterizzazioni si potessero inferire o congetturare dei rispettivi propria, che coincidano coi rispettivi tratti manifesti dell’amicizia che parevano aporetici in quanto incompatibili, allora grazie a questa tassonomia tricotomica le aporie potrebbero essere sciolte, poiché alcuni di questi tratti caratterizzeranno un tipo di amicizia, alcuni altri un altro tipo di amicizia.  L’amicizia virtuosa, fondata sul bene, è fra simili in quanto buoni[41]: essa cattura l’opzione 2 della Seconda Aporia del Liside, nonché l’ideale arcaico, omerico ma anche teognideo e in generale aristocratico, della φιλία come sodalizio elettivo fra ἀγαθοί; a questo topos tradizionale, il Socrate del Liside replica che esso è incompatibile con un’altra idea ben radicata (basata su altri due topoi tradizionali): il buono è autosufficiente, e un amico gli sarebbe inutile, ma l’amicizia è fondata proprio sull’utilità reciproca; quest’ultima idea, di matrice esiodea[42] ma anche un luogo comune confermato dalle prassi umane, non può essere negata, per Aristotele: sono gli stessi φαινόμενα a mostrare che coloro che intrattengono relazioni continuative di utilità e soccorso reciproco, si chiamano amici  e si ritengono tali, e così sono dagli altri chiamati e ritenuti. La contraddizione è apparente, se si postula che l’utilità reciproca è un prerequisito di una forma di amicizia (quella basata sull’utile) e non dell’altra (quella basata sul bene). Le relazioni utilitaristiche sono amicizia, sebbene di un certo tipo; sia queste che quelle fondate sul piacere, possono sussistere anche fra individui non buoni, persino fra malvagi, sebbene in forma estremamente labile e instabile: l’opzione 1 della Seconda Aporia del Liside è anch’essa percorribile, in quanto due individui non “buoni” possono essere amici sulla base del piacere, e sono simili nella misura in cui condividono certi tipi di piacere; inoltre, l’intuizione per cui l’amicizia si dà fra contrari come povero/ricco, sapiente/ignorante etc. ˗ opzione 3 della Seconda Aporia del Liside ˗ è anch’essa fatta salva, in quanto viene posta come peculiare all’amicizia utilitaristica, che tipicamente è intrattenuta da individui in qualche senso contrari (l’uno ha qualcosa che l’altro non ha). Aristotele riesce a salvare i fenomeni attraverso una distinzione tassonomica fondamentale, che deve conciliare certe apparenti incompatibilità ma al tempo stesso preservare una certa unitarietà dell’oggetto: quella di amicizia è una nozione originariamente ospitale, plurale e polivoca, tanto internamente differenziata da implicare una demarcazione netta fra l’amicizia virtuosa e le altre, ma non tanto monolitica da implicare che si escludano dal novero delle amicizie quelle forme di relazione (utilitaria, edonistica) ordinariamente denominate così: altrimenti si farebbe violenza al linguaggio e alle “cose stesse”: a quel “primo per noi” che è lo stesso explanandum originario.  Una delle ragioni per cui l’amicizia virtuosa è detta «prima» nella Eudemia e poi «perfetta» (τέλεια) nella Nicomachea[44], è che essa è costitutivamente piacevole, benché non sia fondata sul piacere, e implica la disposizione alla mutua utilità quando serva, benché non sia fondata sull’utile: dunque contiene in sé, in certo modo, le altre due. Tuttavia, il piacere che consegue al bene ed è persino costitutivo di esso, non è lo stesso piacere che fonda le amicizie edonistiche; il primo è inseparabile dal bene cui consegue[45], quindi l’integrazione di piacere e utilità nell’amicizia virtuosa non è da concepirsi come una somma estrinseca o giustapposizione di aspetti positivi (bene + utilità + piacere). La perfezione di questa amicizia non è una somma di amicizie imperfette, è originaria completezza.  Nella Nicomachea non vi è traccia della relazione πρὸς ἓν, e la πρώτη φιλία diventa τέλεια φιλία[46]. Le altre amicizie qui sono dette tali «secondo somiglianza» a quella perfetta: a mio avviso, al netto della differenza di linguaggio, la posizione di Aristotele non muta in modo sensibile fra le due opere; la somiglianza delle amicizie edonistica e utilitaristica a quella perfetta consiste anche qui nel fatto che quest’ultima è, per entrambi gli amici, utile e piacevole, dunque contiene quegli aspetti che fondano le amicizie imperfette, ma non ne è simmetricamente contenuta. Infatti, ciò che è buono è anche utile e piacevole, mentre ciò che è utile può non essere piacevole e può non essere buono (né simpliciter, né per l’individuo) – per esempio, se l’individuo è corrotto e trova per sé utile qualcosa che lo approssima a ciò che non è il suo bene (anche se egli magari crede che sia il suo bene[48]) – e ciò che è piacevole può essere inutile o persino dannoso. Questo vale in generale, e a fortiori vale per gli amici buoni, utili, piacevoli. In realtà, lo stesso “compito” etico implicitamente affidato all’uomo, gli è affidato anche in rapporto all’amicizia: l’ideale umano, incarnato dal saggio che ne è norma ed esempio, è quello di far coincidere ciò che è bene per sé con ciò che è bene in generale, e ciò che è piacevole per sé con ciò che lo è in generale; si realizza così anche la coincidenza di bene e piacere, visto che il buono in generale e il piacevole in generale si identificano per natura[49]. Ciò importa che occorra anzitutto essere buoni (saggi e virtuosi) e, essendolo, prediligere le amicizie virtuose (che sono appannaggio dei buoni): esse non ospitano conflitti strutturali, soprattutto il bene e il piacere – il confliggere dei quali sopraffà l’acratico – sono adeguati ab origine, nell’amicizia perfetta, giacché essa è piacevole proprio in quanto buona. Ma ciò non esclude che i buoni possano intrattenere anche amicizie fondate sul piacere, o sull’utile[50]: esse però, nell’economia della loro vita, risulteranno marginali, sia nella quantità che nella qualità.  Può sorprenderci il fatto che alla forma di amicizia più rara e più “inarrivabile” delle tre (i buoni sono pochi, gli amici a causa del bene ancora meno) venga ascritta una priorità definitoria, sia essa del tipo πρὸς ἓν o «per somiglianza». Ma per Aristotele qualunque capacità umana – l’amicizia è una virtù, le virtù sono capacità acquisite – viene individuata e definita sulla base della sua eccellenza: è il caso eccellente, in cui un tratto umano è più pienamente realizzato, che funge da essenza normativa rispetto ai casi difettivi, deficitari, degradati, imperfetti; per definire, occorre guardare ai casi migliori, alla modalità in cui una potenzialità è dispiegata ed espressa più compiutamente, e che misura gli altri casi quasi costituendone un virtuale dover-essere rispetto a cui essi mostrano la loro manchevolezza. Perciò la teoria aristotelica presenta al contempo una dimensione descrittiva e una normativa, fra le quali sussiste una sorta di tensione dialettica. E in effetti le amicizie fondate sul piacere e sull’utile sono incomplete: vengono caratterizzate addirittura come amicizie per accidens[51], il che sembra sulle prime vanificare l’atteggiamento inclusivo adottato da Aristotele come cifra metodologica, non solo praticata ma persino esplicitata in modo programmatico[52]. È come se in sede di definizione generale Aristotele fosse interessato a preservare l’unità della nozione di amicizia nonostante le differenze, ma in sede di caratterizzazione sinottico-comparativa dei diversi tipi, ponesse invece l’enfasi sullo iato che separa l’amicizia prima o perfetta dalle altre, fino a trattare le altre come solo accidentalmente tali. Perché esse sono caratterizzate come «accidentali»?  Chi si ama per l’utile o per il piacere lo fa «non perché l’individuo amato sia quello che è, ma in quanto è utile o in quanto è piacevole»[53]: l’utilità e la piacevolezza sono proprietà relazionali esterne all’essenza dell’amico amato, determinate dagli effetti che esso ha su chi lo ama, «perché gli uni ne traggono un qualche bene, gli altri un piacere»[54]; invece l’amicizia basata sulla virtù e la bontà dell’amico amato, è basata su proprietà intrinseche all’amato, su ciò che da ultimo l’amato è. Noi siamo il nostro carattere, il nostro carattere è l’insieme unificato delle nostre virtù, una seconda natura che è frutto prima dell’educazione e poi delle nostre scelte: noi siamo un sé che sceglie, e i nostri pensieri, discorsi e azioni manifestano il nostro “sé”. Pertanto, nell’amicizia perfetta il bene che è in gioco è l’amico stesso che è amato, per ciò che egli essenzialmente è, mentre il bene che è in gioco nelle altre amicizie è il bene – nella forma dell’utile o del piacevole – dell’amico che ama. Anche se l’amicizia è sempre reciproca, resta fermo che nell’amicizia perfetta il fondamento è, per ciascuno degli amici, l’altro come buono, nelle altre è invece il proprio bene in quanto utilità o piacere[56]. Nelle amicizie imperfette la ragione per cui si vuole e persegue il bene dell’altro, resta radicata nell’interesse proprio come diverso dal bene elargito all’altro e diverso dall’altro stesso come dotato di valore intrinseco. È questa differenza radicale a rendere le amicizie imperfette amicizie per accidens: ciò non implica, si badi, che non siano amicizie, bensì che lo sono solo in virtù del loro somigliare all’amicizia perfetta, seppure in modo difettivo.  Ma l’amicizia fondata sul bene dell’amico non rischia così di risultare “disinteressata” in un modo psicologicamente implausibile? Solo in apparenza, in quanto il bene di chi ama è in gioco, ma lo è in quanto coincide col bene dell’amico: se siamo amici perfetti, siamo entrambi buoni e virtuosi, e il nostro bene individuale coincide col bene simpliciter: noi, come amici perfetti, cooperiamo per realizzare il bene in generale[58]; il bene mio e dell’amico sono voluti – rispettivamente, dall’amico e da me – in conseguenza del fatto che anzitutto io e l’amico siamo dei beni: se lo siamo l’uno per l’altro, è perché siamo buoni, siamo dotati di valore intrinseco, e lo riconosciamo reciprocamente. Non si tratta di una implausibile relazione puramente altruistica e disinteressata, perché non si fonda – ribadiamolo – solo sul volere il bene dell’altro, ma anzitutto sull’altro come bene in sé: voglio e perseguo il bene dell’altro non per altruismo astratto, ma perché l’altro è un bene. Una nozione comune con cui forse potremmo rendere più chiaro questo aspetto, è quella di stima. L’amicizia perfetta è fondata sulla stima reciproca: un amico che stimo per ciò che è e per come è, esemplifica in sé ciò che è buono, a prescindere da ciò che io posso trarre da lei/lui: «se uno non gioisce perché l’altro è buono, non c’è la prima amicizia» (1237b4-5). La stima reciproca presuppone una consonanza di valori, un’intesa su ciò che vale e ciò che è degno: e visto che i due amici sono virtuosi e buoni, essi valgono e sanno di valere, per questo valgono anche l’uno per l’altro. Si tratta di una amicizia in cui coltivare il proprio bene coincide col coltivare l’altro e il suo bene, e questo coincidere non è accidentale – come accade nelle altre amicizie – bensì è costitutivo. Invece posso trarre vantaggio da un amico utile senza stimarlo affatto, così come posso trarre piacere – per esempio, divertendomici insieme – da qualcuno che non stimo, che non ritengo una persona buona, degna, valida.  L’accidentalità delle amicizie non perfette si rende perspicua nella loro strutturale instabilità: un rapporto fondato sull’utilità non avrà più ragion d’essere, qualora uno dei due amici smetta di essere utile all’altro; i bisogni umani sono cangianti, e tali sono le risorse altrui per farvi fronte, cosicché anche le relazioni utilitarie sono essenzialmente mutevoli; lo stesso accade per gli amici secondo il piacere: cambiano, nel tempo, le fonti del piacere, i “gusti”, e cambiano anche le capacità altrui di procurarci piacere; l’amicizia piacevole, poi, è precaria anche perché riguarda tipicamente i giovani, i quali sono di per sé in continuo cambiamento[59].  Invece la virtù del carattere è cosa stabile: le amicizie complete sono stabili perché sono fondate sul bene come virtù, che è costante e non facile a mutare[60]. Il tempo può rendere inutile un amico che prima era utile, o non più piacevole un amico che lo era, ma difficilmente può sottrarre a un carattere le virtù, far diventare malvagi i buoni, stolti i saggi, e dunque minare le basi su cui le relazioni virtuose fra buoni sono costruite. Per questo l’amicizia completa è specialmente solida, quasi incrollabile[61], e l’amico virtuoso è un amico «al massimo grado», un amico «vero»[63]. Un tale amico si renderà utile se può e quando sia necessario, ma sarà utile perché è un amico, piuttosto che essere amico perché è utile; e sarà piacevole all’amico, giacché ci risulta tendenzialmente piacevole frequentare chi stimiamo[64].  Così Aristotele, forte della sua tassonomia tripartita, deriva dei propria (dei caratteri distintivi) di ciascuna amicizia, spiegando i fenomeni e riconciliandoci con le comuni pratiche ascrittive: alcune intuizioni, luoghi comuni e opinioni notevoli sono vere di un’amicizia, alcune dell’altra. Parlando coi giovani Liside e Menesseno, Socrate nel Liside si dice desideroso di amicizia più di ogni cosa al mondo – con una Priamel che restituisce in modo icastico l’idea dell’amicizia come il più grande dei beni esterni, fatta anch’essa propria da Aristotele – e invidia ironicamente la loro felicità, visto che sono giovani e sono diventati amici «in modo facile e rapido». Si tratta di caustica ironia, visto che la φιλία che ha a cuore Socrate non è né facile né rapida: ciò che è dissimulato, è che quella non è verace amicizia, ma altro. Qui c’è un’aporia in nuce, visto che i giovani che si frequentano, pur con una certa leggerezza e una conoscenza reciproca non profonda, paiono amici e sono detti tali, eppure non soddisfano i requisiti della “vera” amicizia non solo secondo l’idea socratica, ma anche secondo l’opinione diffusa per cui la vera amicizia è durevole, lenta e difficile a darsi. Aristotele distingue i soggetti delle attribuzioni incompatibili, salvando la verità di entrambe: l’amicizia giovanile (per esempio, quella di Liside e Menesseno) è fondata sul piacere, e ha certi tratti distintivi quali la facilità a prodursi e a decadere, l’intensità emotiva, e così via; l’amicizia perfetta, tipica degli uomini maturi (è quella per cui Socrate dice di ardere di desiderio), necessita di una lunga consuetudine e di una conoscenza reciproca profonda[66], è rara e appannaggio di pochi, è difficilissima a nascere ma altrettanto difficile a morire, fondandosi su ciò che in noi vi è di più stabile. Invece, quella utile caratterizza tipicamente gli anziani, particolarmente bisognosi d’aiuto e sensibili, per debolezza, al beneficio che può arrecare il mutuo soccorso[67]; inoltre, essa si riscontra nei più, nelle masse, le quali sono più preoccupate dei benefici personali che del bene e del bello. Fra le amicizie incomplete, Aristotele ascrive una superiore nobiltà a quella fondata sul piacere, mentre quella fondata sull’utile è «da bottegai»[68]. In effetti, la condivisione del piacere è qualcosa di meno strumentale rispetto al trarre vantaggi da qualcuno: perlomeno il piacere è un fine, non un mezzo; inoltre, il piacere appartiene alla frequentazione stessa dell’amico, mentre l’utile è a questa completamente estrinseco: dunque il fondamento dell’amicizia utile è più esteriore e più contingente di quello dell’amicizia piacevole.  Un altro aspetto problematico del Liside emerge in particolare nella Prima Aporia rispetto alla polarità attivo/passivo (amante/amato), ma soggiace implicitamente anche ad altre aporie: l’amicizia sembra implicare uguaglianza e comunanza da un lato, e differenza e asimmetria dall’altro; si mescolano aspetti tipici del rapporto pederastico-erotico (amante e amato non sono intercambiabili), aspetti del rapporto genitoriale, anch’essi per definizione asimmetrici, e relazioni “fra buoni” simili, potenzialmente simmetriche. Aristotele cerca di articolare queste istanze entro un quadro più sistematico: la tassonomia delle tre amicizie si arricchisce di una distinzione trasversale, fra amicizie simmetriche e amicizie asimmetriche in cui uno è superiore e l’altro inferiore[69]; la φιλία deve essere reciproca, ma tale reciprocità può essere simmetrica o asimmetrica (fra superiore e inferiore). I tipi di amicizia sono dunque sei, giacché si può essere superiori quanto a virtù, a utilità, e a piacevolezza.  La ulteriore distinzione fra amicizie simmetriche e asimmetriche consente ad Aristotele una esplorazione straordinariamente ricca dei legami sociali più eterogenei, che assimila alla φιλία e alle sue declinazioni i rapporti familiari (padre-figlio, marito-moglie, figlio-figlio), i rapporti politici fra città (in vista dell’utile)[70], gli stessi rapporti fra i cittadini in rapporto alla loro comunità, i rapporti fra governanti e governati, le relazioni commerciali, e così via, e indaga le relazioni profonde fra amicizia, giustizia, concordia, comunità. Non è possibile restituire nemmeno sommariamente la ricchezza di tali analisi in questo contributo, il quale si focalizza piuttosto sul significato filosofico e dialettico della tripartizione in generale: ma fa d’uopo rilevare che le applicazioni di questa teoria generale sono molteplici e fecondissime.     3. Amicizia e autosufficienza    La tripartizione (con ulteriore dicotomia trasversale) non scioglie di per sé un nodo aporetico concernente la stessa amicizia perfetta fra buoni: è l’idea espressa entro il punto 2 della Seconda Aporia del Liside, per cui chi ha il bene presso di sé è autosufficiente e non ha bisogno di nulla, dunque l’amicizia di chicchessia gli sarebbe inutile. È vero che Aristotele ha distinto l’amicizia perfetta da quella utile, ma resta il problema di comprendere come mai colui che è saggio, virtuoso e buono, bastando a sé stesso, abbia una qualche motivazione a coltivare un amico, foss’anche un amico perfetto: «se è felice chi ha la virtù, che bisogno avrà di un amico?»[71]. L’idea dell’autosufficienza di chi è saggio, virtuoso, felice e beato, ripresa dal Liside, è un topos tradizionale, quindi ha lo status di ἔνδοξον ben radicato, di cui va dato conto e di cui va mostrata la compatibilità con la teoria positiva proposta nonché con altri ἔνδοξα altrettanto ben attestati.  Il problema è affrontato in Etica Eudemia VII 12 e in Etica Nicomachea IX 9, in maniere parzialmente differenti. L’Eudemia muove dall’analogia con la condizione divina, paradigma dell’autosufficienza. Ma la condizione umana può assurgere all’autosufficienza solo nella misura in cui lo consente la natura dell’uomo, che è animale sociale-politico[72] e può/deve realizzare questa natura, non quella divina[73]: il bene umano contempla sempre il rapporto a un’alterità – è καθ’ ἕτερον[74] ˗ quello divino è assoluto rapporto a sé[75]. L’autosufficienza divina funge da “idea regolativa”, da norma ideale: l’uomo felice minimizzerà il numero degli amici e si limiterà a quelli virtuosi, degni di accompagnarsi a lui; proprio il caso di chi non è obnubilato da bisogni e mancanze, evidenzia il valore intrinseco dell’amicizia perfetta, perseguita non già per ricevere benefici bensì per fare, dare e condividere il bene che si possiede. Ma l’argomento successivo – che è molto complesso e possiamo solo sintetizzare[76] – chiarisce che non si tratta di un altruismo generico e astratto, in quanto l’amicizia è ingrediente essenziale, non accessorio, della felicità individuale.  Vivere, per l’uomo, è percepire e conoscere[77], e – prosegue Aristotele ˗ l’aspirazione massima di ciascuno di noi è, da ultimo, quella di conoscere noi stessi (tesi che rivisita il celebre monito delfico-socratico); la felicità è costituita dalla conoscenza di sé in quanto attivi come buoni e virtuosi[78], e la conoscenza di sé passa per la conoscenza reciproca fra amici: l’amico è «un altro sé»[79], «percepire l’amico necessariamente è percepire in certo modo sé stesso e conoscere in certo modo sé stesso»[80]. Condividendo con l’amico i beni, i piaceri e le attività della vita felice, incrementiamo dunque la conoscenza di noi stessi e della nostra stessa felicità. La Nicomachea chiarisce la relazione fra il riconoscimento reciproco degli amici virtuosi e la loro felicità, soprattutto in un passo speculativamente densissimo:    Se l’essere felici consiste nel vivere e nell’agire, e l’attività dell’uomo dabbene ed eccellente è per sé virtuosa [..], se poi anche ciò che è familiare/affine (οἰκεῖον) a qualcuno è tra le cose che lui trova piacevoli, se noi possiamo osservare il nostro prossimo meglio di noi stessi, e le sue azioni più che le nostre, se le azioni degli uomini superiori, che siano anche amici, sono fonte di piacere per i buoni, dato che hanno tutte e due le caratteristiche piacevoli per natura, allora l’uomo beato avrà bisogno di amici simili a lui, posto che davvero preferisca osservare azioni buone, e che gli sono proprie, come lo sono le azioni dell’amico, quando è buono. (Et. Nic.) Le attività di un’esistenza virtuosa e felice sono obbiettivamente piacevoli agli occhi di un uomo buono, virtuoso e felice a sua volta: vi si rispecchia, sentendocisi “a casa propria”, e la familiarità determinata da affinità e prossimità, gli è in sé piacevole. Come si evincerà, la nozione platonica di οἰκεῖον, introdotta sul finire del Liside come cifra stessa della φιλία, trova una ripresa puntuale e una valorizzazione speculativa nella teoria aristotelica. Il prossimo si offre alla nostra conoscenza in modo più trasparente che noi stessi, giacché la sua distanza da noi lo rende meglio oggettivabile. I due tratti umani piacevoli per natura sono da un lato la felicità di cui la virtù è costitutiva, dall’altro la familiarità, che chi è felice è virtuoso riscontra ed esperisce nel contemplare e cooperare con un’altra esistenza felice e virtuosa. Le azioni di un nostro amico “perfetto” sono buone e nel contempo ci sono proprie, cosicché contemplarle è come trovare in esse lo stesso bene che noi siamo. Potrebbe stupire il riferimento reiterato al tema del piacevole, quasi che si trattasse di una delle due amicizie non perfette: ma occorre tenere a mente che il piacevole per natura o ἁπλῶς coincide col bene ἁπλῶς, e che si tratta di un piacere costitutivo del bene e inseparabile da esso, piuttosto che di un piacere addizionale ed esteriore rispetto al bene cui consegue. Se l’altro è sufficientemente prossimo a me, posso de-situarmi e oggettivarmi riconoscendomi nelle sue azioni, secondo una dialettica complessa e chiastica di riconoscimento reciproco. «Se l’uomo eccellente si comporta verso l’amico come si comporta verso di sé, dato che l’amico è un altro se stesso, allora, così come è desiderabile per ciascuno il suo proprio esserci, così è desiderabile l’esserci dell’amico, o quasi» (EN IX 9, 1170b5-8). In questo gioco speculare di identificazioni reciproche, il mio rapporto con l’altro è mediato del mio rapporto con me stesso[82], l’altro è un «altro me» e perseguo il suo bene in maniera pressoché equivalente a come perseguo il mio (quel «quasi» è una concessione al realismo empirico, da cui questa idealizzazione non vuole disancorarsi); ma è altrettanto vero che il mio rapporto con me stesso è a sua volta mediato dal mio rapporto con l’altro, giacché conosco genuinamente me stesso non già con un qualche misterioso atto introspettivo[83], bensì conoscendo persone simili a me che a loro volta mi riconoscono simili a sé: questa è la ragione perché v’è bisogno di amici buoni e virtuosi entro relazioni di amicizia “perfetta”; se la felicità implica autosufficienza, si tratta di un’autosufficienza umana e non divina, che passa per l’inclusione del prossimo nella nostra esistenza, e per la cooperazione con chi scegliamo come degno incarnare il bene e la virtù[84]. Come l’essere amici non si dà senza il sapere di esserlo anche se si può credere di essere amici senza esserlo, così l’essere felici (in quanto buoni e virtuosi in attività) non si dà senza la coscienza di essere felici (in quanto buoni e virtuosi), anche se è possibile credere di essere felici senza esserlo davvero. E per sapere chi sono, devo rispecchiarmi in amici simili a me[85]. Ciò importa che l’uomo beato non avrà bisogno di amici “meramente utili” e “meramente piacevoli”, invece dovrà avere amici buoni e virtuosi: il topos tradizionale è riscattato nella sua verità profonda, ma anche oltrepassato in virtù della tripartizione; in un senso è vero, in un altro no. Essere felici insieme è diverso dal semplice divertirsi insieme, anche se lo include, ed è diverso dal semplice aiutarsi l’un l’altro, anche se può includerlo.  L’amico perfetto ˗ come ogni altro autentico bene ˗ è oggetto di scelta razionale[86]. Anche per questo la teoria aristotelica si distanzia da quella platonica[87]: la φιλία erotica, già ben presente nel Liside sin dalla sua ambientazione scenica – una palestra, ove Liside è il «bello del momento» di cui Ippotale è innamorato – viene relegata da Aristotele a una delle tante forme di φιλία, degna di pochi accenni espliciti, mentre nel Simposio e nel Fedro, dialoghi ben più elaborati e costruttivi del Liside, l’eros è la forma di φιλία che viene eletta a oggetto di indagine paradigmatico. Ma le componenti mistico-estatiche della φιλία erotica come «follia divina» e frutto di invasamento[88], risultano completamente marginalizzate entro la teoria aristotelica. L’amicizia più degna e verace è attività derivante da scelta come desiderio razionale; se la felicità è attività e i beni che la materiano sono oggetto di scelta, allora anche l’amicizia, ingrediente costitutivo della vita felice, sarà espressione di attività, piuttosto che passivo invasamento consistente nell’esser “posseduti” da uomini o dèi. Il primato etico, fisico e metafisico dell’azione sulla passione, è anche il primato di un certo tipo d’amore su un cert’altro. L’amicizia è riportata fra gli amici, e la sua declinazione più eccellente, normante rispetto alle altre, è caratterizzata secondo la dimensione eticamente più elevata dell’umano: la ragione che sceglie e governa il desiderio, piuttosto che esserne governata. L’eros platonico, così bellamente ed enfaticamente rappresentato nel Simposio e nel Fedro, diventa per Aristotele solo una delle tante declinazioni possibili di un tipo di amicizia – quella fondata sul piacere – che è già di per sé incompleta e deficitaria[89].  Secondo l’aporetico excipit del Liside, né amanti né amati, né simili né dissimili, né contrari né affini, né buoni, possono essere amici[90]; le Etiche aristoteliche presentano una teoria la quale non solo consente ma anche prevede che amanti, amati, simili, dissimili, contrari, affini, buoni, e perfino malvagi possano essere amici; inoltre tale teoria offre le risorse concettuali per chiarire quali coppie di amici possano e/o debbano avere questo o quel carattere distintivo, e perché.  Spero di avere almeno approssimato il duplice obbiettivo prefissatomi: mostrare in modo dettagliato e sistematico la dipendenza polemico-dialettica della teoria aristotelica dal Liside platonico, e mettere in luce il significato filosofico generale della tripartizione della φιλία in Aristotele. Adkins, ‘Friendship’ and ‘Self-sufficiency’ in Homer and Aristotle, «Classical Quarterly», Annas, Plato and Aristotle on Friendship and Altruism, «Mind»: 532-554. 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I 1, 100 b 21-23; intendo questa definizione di ἔνδοξον come una disgiunzione inclusiva: se un’opinione è condivisa almeno da uno degli insiemi indicati (tutti, i più, i sapienti, qualcuno di essi), è un ἔνδοξον, e ciò che lo rende tale può essere quantitativo, o qualitativo, o entrambi: per esempio, se è condiviso da tutti, lo sarà anche dai sapienti. [4] Sulla intima connessione fra δοκοῦντα, λεγόμενα e φαινόμενα, cfr. Owen (1967), Nussbaum (1986b).  Cfr. De An. I 1, 402b 16-403a8. [6] Cfr. Herod. III 82, 35 e Tucid. I 137, 4, in cui si trova l’endiadi «συμμαχίᾳ καὶ φιλία». [7] Nei poemi omerici non vi è il termine φιλία – le prime occorrenze si trovano in Teognide (Teog. I, 31-38, 53-60, 323-28) – ma termini analoghi come φιλότης, φίλος sono utilizzati sia a proposito del rapporto fra uomini che di quello fra uomini e dèi. Sulla φιλία nel mondo antico, cfr. Pizzolato (1993), Fraisse (1974). [8] Nel Fedro platonico (228a-e), Socrate confuta un discorso di Lisia sulla φιλία, che Fedro custodiva sotto il mantello: quindi è verosimile che anche prima della data di composizione del Liside la φιλία fosse importante oggetto di dibattito e di riflessione critica. Del resto Giamblico (De Pythagorica Vita, 229-30) e Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum, VIII, 10) attribuiscono già a Pitagora la prima trattazione filosofica della φιλία. [9] Anche il Fedro e il Simposio si occupano lungamente della φιλία – l’eros è una forma della φιλία, per Platone quella più significativa – ma, come cercherò di mostrare, l’indagine aristotelica dipende sistematicamente dal Liside: per così dire, essa articola una differente risposta a quelle aporie, rispetto a quella che propone Platone nel Simposio e nel Fedro. [10] Meglio: se qualcuno sia amico di qualcun altro in quanto ami o, piuttosto, in quanto sia amato. [11] φίλος + dativo significa “caro a qualcuno”, φίλος + genitivo indica colui a cui qualcuno è caro, due individui sono φίλοι, quando sono l’uno “caro” all’altro. [12] Alcuni interpreti leggono il Liside come un esercizio dialettico, filosoficamente debole [Versenyi (1975)] o più retorico-sofistico che filosofico [Bordt (1988)], o dal significato prolettico-introduttivo rispetto ai maturi Simposio e Fedro [Kahn (1996), ma già Gomperz (2013), Auslage 5, e Willamovitz (1959)]; benché questi due dialoghi successivi ne possano a buon diritto adombrare il valore intrinseco, tuttavia i temi sollevati dal Liside sono nodi aporetici sostanziali, e non deve fuorviare il fatto che Socrate mutui il linguaggio e lo stile argomentativo dal tipo di interlocutore che affronta (per esempio, “facendo” il sofista col sofista Menesseno, e così via). Per una interpretazione non riduttiva del Liside e del suo valore speculativo, è illuminante Trabattoni (2004). [13] Un altro topos tradizionale – per cui la vera amicizia è fra ἀγαθοί – ricorrente in Platone: per restare all’esempio più noto, in Resp. I, 351a-e Socrate replica a Trasimaco che fra malvagi e ingiusti non può esserci alcuna cooperazione né amicizia; era comunque un tema essenziale per Socrate (cfr. Senofonte, Mem., 2.6 1-7). [14] Sull’ascendenza omerica di questo topos tradizionale, e sulla sua importanza per Aristotele (cfr. infra: Par. III), cfr. Adkins (1963). [15] La coscienza del male come tale è sintomo del fatto che il male è relativo e non assoluto. [16] Qui nel Liside si tratta di ἐπιθυμία (cfr. 217c). [17] Tralascio qui la questione della possibile identificazione del Primo Amico col Bene: ciò che rileva, qui, è il fatto che esso trascenda gli amici concreti, i quali sono tali solo «a parole» e stanno al Primo amico – che è tale «in realtà» (τῷ ὄντι) – come i mezzi al fine (cfr. Lys. 220b1-4). [18] Lys 222e1-7. [19] La letteratura sull’amicizia in Aristotele è sterminata: in luogo di proporre una lunga lista di studi che comunque sarebbe tutt’altro che esaustiva, nel seguito mi limiterò a citare alcuni contributi che sono particolarmente pertinenti agli aspetti che tratterò. Un commento sintetico e preciso a Et. Nic. VIII e IX è Pakaluk (1998). [20] È il giudizio nettamente prevalente, anche se non unanime. [21] Sul rapporto fra il Liside e le Etiche aristoteliche riguardo l’amicizia, buoni spunti si trovano in Annas (1986). [22] Et. Eud. VII 1, 1234b18-1235a4; cfr. anche Et. Nic. VIII 1. [23] Et. Eud.. [24] Trad. it. modificata. [25] Cfr. supra: nota 16. [26] Et. Eud. VII 2, 1235b22-23. [27] C’è chi crede che il piacere sia un bene, ma c’è anche chi crede che non lo sia eppure gli appare – porto dalla φαντασία – come se lo fosse. Nell’acratico la forza della φαντασία sopravanza, nelle scelte pratiche, quella della δόξα. [28] Il «bene apparente» è qualcosa che appare come bene; ma può anche non esserlo: tuttavia, anche il bene reale motiva il desiderio solo apparendo come bene. Dunque «apparente» qui non va affatto interpretato come falsa apparenza. [29] Et. Eud. VII 2, 1235b30-1236a1. [30] Il piacevole non è l’immediato, ma anche ciò che non procura dispiacere futuro; Aristotele sa bene che molte cose dannose possono procurare del piacere immediato. Ma chi non è acratico, conscio delle conseguenze negative, accorderà il suo desiderio con la sua ragione, e la motivazione data dall’ipotetico piacere immediato sarà soverchiata dalla motivazione a evitare danni futuri. [31] Questo punto è più chiaro per come è presentato in Et. Nic. VIII 2, 1155b23-27. [32]  Nelle espressioni δι’ ἀρετὴν, διὰ τὸ χρήσιμον, δι’ ἡδονήν, la preposizione significa a un tempo «in base a», «a causa di», «al fine di»: il rispettivo amabile è ciò che causa quell’amicizia, ciò che ne costituisce il fondamento o ragion d’essere, ciò che ne rappresenta il fine [su un’idea analoga, cfr. Nussbaum (1986a)]; nei termini della nota teoria delle quattro cause (dei quattro sensi del διὰ τί, cfr. Phys. II 3), potremmo plausibilmente intendere il tipo di amabile come causa efficiente, formale e finale della rispettiva relazione amicale. [33] Cfr. Et. Nic. VIII 2, 1155b26-31. Mentre la φίλησις è una passione o affezione (πάθος), la φιλία è uno stato abituale (ἕξις, 1557b28-29). [34] Cfr. Et. Eud. VII 2, 1237b17-23; Et. Nic. VIII 4, 1156b30-33. [35] Vi è discussione sul fatto che questa caratterizzazione definitoria offra condizioni sufficienti perché qualcosa sia amicizia, oppure solo condizioni necessarie; propenderei per la seconda opzione: per esempio, Aristotele ritiene che per diventare amici deve passare del tempo, e molti scambiano il desiderio di essere amici con l’amicizia stessa (Et. Eud. VII 2, 1237b12-22); ma se il desiderio è reciproco, sussiste già benevolenza reciproca non celata, che non è ancora amicizia. [36] Sul focal meaning cfr. Owen (1963), Ferejohn (1980). L’exemplum princeps è quello della Metafisica: la sostanza è il focal meaning dell’essere, tutto ciò che è o è sostanza o rimanda a una sostanza, al modo in cui tutto ciò che è «sano» rimanda alla salute e tutto ciò che è «medico» alla medicina (cfr. Met. IV 2, 1003a32-1003b11). [37] Cfr. Fortenbaugh (1975). Può esserlo in modo mediato, come foriero di un altro utile, al modo in cui qualcosa è mezzo di un altro mezzo, ma in ultima istanza l’utile è tale perché porta al bene e i mezzi sono tali perché portano al fine. [39] Per esempio, in De An. III 7, 431a10-13 il piacere è definito come l’essere percettivamente attivi nei confronti del bene in quanto bene; l’utilità è indefinibile se non come capacità di avvicinarci a un qualche bene; l’utile sta al bene come il mezzo al fine, e non vi è modo di definire cosa sia un mezzo, senza chiamare in causa la nozione di fine. [40] Et. Eud. VII 2, 1236a25-26. [41] Et. Eud. VII 2, 1236b1-2; Et. Nic. VIII 4, 1156b7-8. [42] Cfr. Esiodo, Opera et dies, 342-360; 707-723. [43] Chiamare amicizia solo quella prima, equivarrebbe a «violentare i fenomeni» (βιάζεσθαι τὰ φαινόμενα, Et. Eud. VII 2, 1236b 22). [44] Et. Nic. VIII 4, 1156b7. [45] La prima amicizia, infatti è quella «secondo virtù e a causa del piacere della virtù» (EE VII 1238a31-32). [46] Secondo Aspasio (164.3-11), Owen (1960) e Dirlmeier (1967) vi sarebbe comunque focal meaning e relazione πρὸς ἓν, ancorché non esplicitata. [47] Et. Nic. VIII 5, 1157a32. [48] Se poi l’individuo è acratico, potrebbe anche non credere che qualcosa sia il suo bene, ma perseguirlo perché gli “appare” bene e frequentare individui utili a qualcosa che egli cerca di procurarsi pur sapendo che non è il suo bene: come uno che frequentasse un pusher in modo costante per procurarsi della droga, sapendo di farsi del male ma perseverando nel suo comportamento autodistruttivo (e nelle frequentazioni relative) per debolezza. [49] Sulla rilevanza della distinzione fra «bene per qualcuno» e «bene incondizionato» in rapporto alla teoria delle tre amicizie, insiste doverosamente O’Connor (1990). [50] Et. Nic. [51] Così, nella Nicomachea (Et. Nic. VIII 2, 1156a17), non nella Eudemia. [52] Cfr. supra: Par. II, 3. [53] EN VIII 3, 1156 a 16-17. [54] EN VIII 3, 1156a18-19 [55] Cooper (1977) sostiene che le amicizie accidentali siano tali perché dipendano da tratti accidentali del carattere dell’amico amato; Payne (2000) replica che anche i tratti in virtù di cui qualcuno risulta piacevole o utile possono essere altrettanto essenziali di quelli che lo rendono virtuoso: gli amici perfetti sarebbero scelti «per sé stessi» in quanto i loro caratteri virtuosi sono scelti come fine e non come mezzo (per altro). Ma le letture sono forse componibili: l’esser utile o piacevole, anche se sopravviene a tratti essenziali del carattere altrui, restano esterni all’altro, in quanto relazionali in un senso diverso dalla virtù; l’esser buono è sia essenziale e intrinseco all’amico, che scelto per sé stesso e non per altro, e rende anche l’amico stesso, che ha quel carattere virtuoso, scelto per sé stesso e non per altro. Cfr. supra: nota 31. [56] In Et. Eud. VII 7, 1241a5-7 si afferma che «se uno vuole per un altro i beni perché costui gli è utile, li vorrebbe allora non per quello ma per sé stesso; mentre invece la benevolenza, proprio come l’amicizia, si ritiene che sia rivolta non a quello che la prova, ma a colui per il quale la si prova. Pertanto, è chiaro che la benevolenza è in relazione con l’amicizia etica». Qui pare che solo l’amicizia etica (=virtuosa) implichi la benevolenza, che però è un costituente della definizione generale di amicizia. Da passi di questo tenore pare che le amicizie incomplete non siano amicizie in senso proprio, visto che non soddisfano la definizione; Aristotele è oscillante, è innegabile che vi sia una tensione irrisolta fra la sua vocazione inclusiva e lo sforzo di enucleazione della “vera” amicizia come tipologia normante e assiologicamente sovraordinata, che non è semplicemente una delle tre amicizie ma quella par excellence, di cui le altre sono approssimazioni manchevoli. Si può accogliere la lettura di Walker, per cui l’amicizia perfetta soddisfa criteri più severi, le altre criteri più laschi. [57] Si pensi alla percezione per accidente (De An. II 6, III 1): essa è comunque studiata come una modalità genuina di percezione: le ragioni per cui essa è percezione per accidente non inficiano il fatto di essere genuinamente un tipo di percezione. [58] I due amici perfetti, in quanto buoni e virtuosi, realizzano l’eccellenza della natura umana, sono esempi del bene incondizionato e del piacere incondizionato. [59] Et. Nic. VIII 3, 1156a31-1156b1. [60] Et. Eud. VII 2, 1238a11-30; Et. Nic. VIII 3, 1156b17-32. [61] Può succedere che l’altro cambi, peggiori, o impazzisca, ma non accade per lo più. Cfr. Et. Nic. IX 3. [62] Et. Nic. VIII 4, 1156b10. [63] Et. Eud. VII 2, 1236b31. [64] La sventura, poi, può rivelare che un’amicizia che pareva perfetta era in realtà in vista dell’utile (Et. Eud. VII 2, 1238a19-21). [65] Lys. 211e-212a. [66] Et. Eud. VII 2, 1237b13-27. [67] Et. Nic. VIII 3, 1156a24-31. [68] Et. Nic. VIII 7, 1158a21. [69] Et. Eud. VII 4; Et. Nic. VIII 8. [70] Et. Eud. VII 9-11, Et. Nic. VIII 12-14. [71] Et. Eud. VII 12, 1244b4-5. [72] Cfr. Pol. I 1, 1253a10-12; Et. Nic. IX 12, 1169b18-19. [73] Et. Eud. VII 12, 1245b15-16. [74] Et. Nic. 1245b18. [75] Et. Eud. VII 12, 1245b18-19. [76] Si tratta di una complessità anche filologica, dovuta a corruzioni del testo. Su ciò, cfr. Kosman (2004). [77] Delle tre anime – nutritivo-riproduttiva, percettiva, razionale – la percettiva e la razionale sono quelle che discriminano la realtà (cfr. De An. III 3, 427a17-23); la percettiva, poi, è intimamente connessa col desiderio e, quindi, con l’azione (cfr. De An. III 9-11). Vivere significa realizzare le proprie capacità naturali e acquisite, il che per l’uomo implica anzitutto l’esercizio di percezione e pensiero (ove entrambe vanno concepite come connesse all’azione, in quanto coinvolgono anche desiderio e intelletto pratico). Su ciò, mi permetto di rimandare a Zucca (2015), Capp. II e VI. [78] La felicità è «una certa attività dell’anima secondo virtù completa» (Et. Nic. II 13, 1102a5-6). [79] Et. Eud. VII 12, 1245a30; Et. Nic. IX 9, 1166 a 32, 1170 b 6. [80] Et. Eud. VII 12, 1245a35-7. [81] Trad. it. modificata. [82] In Et. Eud. VII 6 e in Et. Nic. si argomenta che i tipi di relazione che si hanno con gli altri dipendono dal rapporto che si ha con sé stessi: chi è buono e virtuoso sarà anche amico di sé stesso in modo armonico e costante – sebbene si possa parlare di amicizia solo κατὰ ἀναλογίαν (1240a13), nel caso dell’auto-rapporto – chi è malvagio sarà incostante e in conflitto con sé stesso, e in senso analogico sarà nemico di sé stesso. Questa idea non contraddice l’idea per cui la conoscenza di sé passa per la conoscenza dell’altro (Et. Nic. IX 9), ma anzi la completa: il buono e virtuoso è felice anzitutto in quanto ha un “sano” rapporto con sé, ma si conosce e realizza come felice solo in quanto ha un rapporto di riconoscimento reciproco con amici che hanno, a loro volta, un altrettanto “sano” rapporto con sé stessi. [83] L’idea di un accesso introspettivo infallibile ed essenzialmente privato ai nostri propri atti mentali, così tipicamente moderna, è affatto estranea ad Aristotele. [84] Come è naturale porre l’enfasi sul valore speculativo intrinseco della teoria, così è altrettanto opportuno ricordare che l’amicizia perfetta aristotelica resta prerogativa di un sottoinsieme dei maschi adulti liberi; tuttavia, questa tara storica affetta la teoria dell’amicizia, per così dire, mediatamente: in quanto restringe a quel sottoinsieme la capacità di realizzare l’eccellenza morale, precondizione della relazione d’amicizia perfetta. [85] Non uso la locuzione «sapere chi sono», anacronisticamente, come il coglimento di me stesso in quanto individualità irriducibile, magari ineffabile e inaccessibile ad altri – non è certo questa sorta di soggettività “novecentesca”, che secondo Aristotele giungerebbe alla coscienza di sé nell’amicizia – bensì come il venire a conoscenza di che tipo di persona sono. [86] Come bene intrinseco che trascende il livello del piacevole, è un amabile oggetto di volontà piuttosto che di appetito (Et. Eud. VII 2, 1235b22-23), e la volontà è desiderio razionale di beni scelti. [87] Un’analisi sistematica e comparativa delle nozioni di amicizia e amore in Platone e Aristotele, è Price (1989). Cfr. anche Kahn (1981). [88] Cfr. Phaedr. 265b-c. [89] La relazione erotica amante/amato, peraltro, è anche meno significativa e più instabile di altre relazioni fondate sul piacere – dunque, già di per sé instabili – in quanto in questo caso il piacere «non deriva dalla stessa fonte» (l’uno gode nell’esser corteggiato, l’altro nel contemplare l’altro, Et. Nic. VIII 5, 1157a2-10). [90] Lys. 222a3-7. Proverbi, impicatura proverbiale. A Errare humanum est.jpg Ab amico reconciliato cave. Guardati da un amico riconciliato.Absit reverentia vero. Bando ai pudori di fronte alla verità. (Ovidio) Abusus non tollit usum. L'abuso non esclude l'uso.[2] Accidere ex una scintilla incendia passim. A volte da una sola scintilla scoppia un incendio.Ad impossibilia nemo tenetur. Nessuno è obbligato a fare l'impossibile.[4] Adulator propriis commodis tantum suadet L'adulatore tiene di mira solo i suoi interessi.[5] (Giulio Cesare) Amantis ius iurandum poenam non habet. Il giuramento dell'innamorato non si può punire.[6] Amicus certus in re incerta cernitur. Il vero amico si rivela nelle situazioni difficili.[7] (Quinto Ennio) Amicus omnibus, amicus nemini. Amico di tutti, amico di nessuno.Amicus Plato, sed magis amica veritas. Amo Platone, ma amo di più la verità.[9] (Aristotele) Amor arma ministrat. L'amore procura le armi [agli amanti perché possano essere grati alla persona amata].[10] (proverbio medievale) Amor caecus. L'amore è cieco.[11] Amor gignit amorem.[10] Amore genera amore. Amor tussisque non celatur. L'amore e la tosse non si possono nascondere.[12] Amoris vulnus sanat idem qui facit. La ferita d'amore la risana chi la fa.[12] Anceps fortuna belli. Le sorti della guerra sono incerte.[9] (Cicerone) Aquila non captat muscas. L'aquila non prende mosche.[13] Athenas noctuas mittere.[14] Mandare nottole ad Atene. Fare cosa inutile e superflua. Ars est celare artem.[15] La perfezione dell'arte sta nel celarla. Audi, vide, tace, si vis vivere in pace.Ascolta, guarda e taci, se vuoi vivere in pace. B Barba virile decus, et sine barba pecus.[17] La barba è decoro dell'uomo e chi è senza barba è pecoro. Bene qui latuit, bene vixit. Ben visse chi seppe vivere nell'oscurità.[18] (Ovidio) Beati monoculi in terra caecorum. Beati i monòcoli nel paese dei ciechi. Bis dat qui cito dat. Dà due volte chi dà presto.[19] Bis peccat qui crimen negat.[20] È due volte colpevole chi nega la propria colpa. Bis pueris senes. Il vecchio è due volte fanciullo. Bonis nocet qui malis parcet. Chi risparmia i malvagi danneggia i buoni.[22] Bonum nomen, bonum omen.[23] Buon nome, buon augurio. C Caecus non judicat de colore.[24] Il cieco non giudica i colori. Non si può giudicare ciò che si sottrae alle nostre attitudini. Caesar non supra grammaticos.[25] Cesare non (ha autorità) sopra i grammatici. Le persone più altolocate non possono avere autorità se non su quelle cose di cui s'intendono. Canis caninam non est.[26] Cane non mangia cane. Carpe diem. Cogli il giorno. (Quinto Orazio Flacco) Caseus est sanus, quem dat avara manus. Fa bene quel formaggio servito da una mano avara.[27] Causa patrocinio non bona peior erit. La causa cattiva diventa peggiore col volerla difendere.[28] (Ovidio) Causa perit iusta, si dextera non sit onusta.[29] La giusta causa soccombe se la destra non è piena [di denaro]. Cave a signatis. Guàrdati dai segnati.[28] Antico adagio in odio a coloro che sono affetti da qualche imperfezione fisica: guerci, zoppi, ecc. Cave tibi ab acquis silentibus. Guàrdati dalle acque chete.[28] Cavendo tutus.[30] Se sarai cauto, sarai sicuro. Cogito ergo sum. Penso dunque sono. (Cartesio) Commendatoria verba non obligant.[31] Le parole di raccomandazione non obbligano. Commune periculum concordiam paret.[32] Il comune pericolo prepari la concordia. Consuetudo est altera natura. L'abitudine è una seconda natura.[33] D De gustibus non est disputandum. Sui gusti non si discute.[34] Difficilis in otio quies. È difficile esser tranquilli nell'ozio. Dulce bellum inexpertis, expertus metuit. La guerra è dolce per chi non ne ha esperienza, l'esperto la teme. (proverbio medievale) Dum caput dolet, caetera membra languent. Quando duole il capo, tutte le membra languono.[37] Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a Roma si delibera, Sagunto è espugnata.[38] Dum vinum intrat exit sapientia.[39] Mentre il vino entra, esce la sapienza. Duo cum faciunt idem, non est idem.[35] Quando due fanno la stessa cosa, non è più la stessa cosa. E Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.[40] L'errare è cosa umana, il perseverare nella colpa invece è diabolico. Error hesternus sit tibi doctor hodiernus.[41] L'errore di ieri ti sia maestro oggi. Est in canitie ridicula Venus. È ridicolo l'amore di un vecchio.[42] (Proverbio medievale) Est modus in rebus, sunt certi denique fines | quos ultra citraque nequit consistere rectum. C'è una giusta misura nelle cose, ci sono giusti confini | al di qua e al di là dei quali non può sussistere la cosa giusta. (Quinto Orazio Flacco) Ex ungue leonem.[43] Dall'unghia si conosce il leone. Da un atto compiuto si rivela la forza dell'autore, morale o materiale. Excusatio non petita fit accusatio manifesta (proverbio medievale)[44] Chi si scusa senza esserne richiesto s'accusa. F Fabas indulcat fames.[45] La fame addolcisce le fave. Facile est inventis addere.[46] È facile aggiungere a ciò che è stato inventato. Facile perit amicitia coacta.[47] Facilmente muore un'amicizia forzata. Facit experientia cautos.[48] L'esperienza rende cauti. Fac sapias et liber eris.[49] Fa' di sapere e sarai libero. Felicium omnes sunt cognati. Tutti sono parenti dei fortunati.[8] Fiat iustitia et pereat mundus. Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo. Frangitur ira gravis cum sit responsio suavis.[50] Una dolce risposta infrange l'ira. Frustra sapiens qui sibi non sapet.[51] Inutilmente sa chi non sa per sé. G Gutta cavat lapidem. La goccia scava la pietra. H Homo longus raro sapiens; sed si sapiens, sapientissimus. Un uomo lungo (ossia alto) di rado è sapiente; ma se è sapiente, è sapientissimo.[52] Homo sine pecunia, imago mortis. L'uomo senza danaro è l'immagine della morte.[53] I Ianuensis ergo mercator. Genovese quindi mercante.[54] Imperare sibi maximum imperium est. Comandare a sé stessi è la forma più grande di comando. (Seneca, Lettere a Lucilio, CXIII.30) In magno mari capiuntur flumine pisces.[55] Nei grandi fiumi si pescano i grandi pesci. Nei grandi affari si fanno i grossi guadagni. In medio stat virtus. La virtù sta nel mezzo. (Orazio) In vino veritas. Nel vino c'è la verità. L M Magnum vectigal parsimonia.[56] La parsimonia è un gran capitale. (Cicerone) Major e longiquo reverentia.[56] La riverenza è maggiore da lontano. (Tacito) Mala gallina, malum ovum.[57] Gallina cattiva, uovo cattivo. Mea mihi conscientia pluris est quam omnium sermo.[58] Per me val più la mia coscienza che il discorso di tutti. (Cicerone) Medicus curat, natura sanat. Il medico cura ma è la natura che guarisce.[59] Melius est abundare quam deficere. Meglio abbondare che trovarsi in scarsezza.[60] Mors tua vita mea.[56] La tua morte è la mia vita. Mortui non mordent. I morti non mordono[61] [truismo] Mortuo leoni et lepores insultant. Anche le lepri insultano un leone morto.[62] Multi multa, nemo omnia novit. Molti sanno molto, nessuno sa tutto.[63] N Natura non facit saltus. La natura non procede per salti.[64] Naturalia non sunt turpia.[65] Le cose naturali non sono turpi. Nemo non formosus filius matri. Nessun figlio non è bello per sua madre.[66] Ne pulsato portam alterius, nisi velis pulsetur et tua.[67] Non bussare alla porta altrui se non vuoi che bussino alla tua. Nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu. Nulla è nell'intelligenza che prima non fosse nel senso[68] Non omne quod licet honestum est.[69] Non tutto ciò che è lecito è onesto. Non omnibus dormio. Non dormo per tutti.[70] Nomen omen Il nome è un presagio (v. anche nomina sunt consequentia rerum e conveniunt rebus nomina saepe suis) (Plauto, Persa, 625) Nomina sunt consequentia rerum. I nomi sono corrispondenti alle cose. (Giustiniano, Institutiones, 2, 7, 3) O Omne animal post coitum triste. Tutti gli animali sono mesti dopo il coito.[71] Omne ignotum pro terribili.[72] Tutto ciò che è ignoto incute paura. Omnia munda mundis. Per chi è puro tutto è puro. (Paolo di Tarso) Omnia vincit amor. L'amore vince ogni cosa. (Virgilio, Bucoliche X, 69) Omnia fert aetas. Il tempo porta via tutte le cose. (Virgilio) Omnis festinatio ex parte diaboli est.[73] Ogni fretta viene dal diavolo. P Panem et circenses. Pane e giochi [per distrarre il popolo]. (Giovenale, X 81) Patere quam ipse fecisti legem.[74] Subisci la legge che tu stesso hai fatta. Pectus est enim quod disertos facit È infatti il cuore che rende eloquenti (Quintiliano, 10,7,15) Pecunia non olet Il denaro non puzza (Vespasiano) Per aspera ad astra. Alle stelle [si giunge] attraverso aspri sentieri.[75] Periculum in mora. Vi è pericolo nel ritardo. (Tito Livio, Ab urbe condita; XXXVIII, 25) Philosophum non facit barbam.[76] La barba non fa il filosofo. Primum vivere deinde philosophari (Thomas Hobbes) Prima vivere, poi fare della filosofia. Q Quando Sol est in Leone, bibe vinum cum pistone. Quando il sole è in Leone [segno zodiacale], bevi il vino col pistone [a garganella].[77] Qui aquam Nili bibit rursus bibet.[78] Chi beve l'acqua del Nilo la berrà di nuovo. È destinato a ritornarvi. Qui asinum non potest, stratum caedit.[79] Chi non può bastonare l'asino bastona la bardatura. Qui gladio ferit gladio perit. Chi di spada ferisce di spada perisce.[80] Qui in pergula natus est, aedes non somniatur. Chi è nato in una capanna, i palazzi non li vede neanche in sogno. (Petronio, 74,14) Qui jacet in terra non habet unde cadat. Per chi giace in terra non c'è pericolo di cadere.[81] [truismo] Qui medice vivit, misere vivit. Chi vive sotto la guida del medico, vive miseramente.Qui scribit, bis legit.[82] Quisque faber fortunae suae. Ognuno è artefice del proprio destino. (Appio Claudio Cieco) Quod differtur non aufertur Ciò che si dilaziona non lo si perde[83] Quod non potest diabolus mulier evincit. Ciò che non può il diavolo, l'ottiene la donna.[84] (proverbio medievale) Quot homines tot sententiae. Tanti uomini, altrettante opinioni.[85] Quot servi tot hostes. Tanti servi, tanti nemici.[85] R Re opitulandum, non verbis.[86] L'aiuto va dato con i fatti, non con le parole. Rem tene, verba sequentur Possiedi l'argomento e le parole seguiranno. (Marco Porcio Catone) Res satis est nota, plus foetent stercora mota.[87] È cosa nota: lo sterco più è stuzzicato e più puzza. S Salus extra Ecclesiam non est[88] Al di fuori della Chiesa non v'è salvezza (Tascio Cecilio Cipriano, Lettera, 73, 21) Sapiens nihil affirmat quod non probet.[89] Il saggio nulla afferma che non possa provare. Satis quod sufficit.[90] Ciò che è sufficiente al bisogno, basta. Semel abas, semper abas.[91] Una volta abate, sempre abate. Proverbio medioevale, affermante che chi ha vestito una volta l'abito sacerdotale non può spogliarsi più delle idee e delle abitudini ecclesiastiche. Significa anche, per estensione, che si conservano sempre le idee una volta acquistate. Semel in anno licet insanire. Una volta all'anno è lecito fare follie. (Seneca) Senatores boni viri: senatus autem mala bestia.[92] I senatori sono brava gente; ma il senato è una cattiva bestia. Sero venientibus ossa.[93] Per chi viene troppo tardi restano le ossa. Si vis pacem, para bellum. Se vuoi la pace prepara la guerra. (Vegezio) Sicut mater, ita et filia eius. Quale la madre, tale anche la figlia.[94] Simia simia est, etiamsi aurea gestet insignia.[95] La scimmia resta sempre scimmia, anche se indossa ornamenti d'oro. Sol lucet omnibus.[96] Il sole splende per tutti. Vi sono delle cose di cui tutti gli uomini possono godere. Sorex suo perit indicio.[97] Il topo perisce per essersi rivelato da sé. Sublata causa, tollitur effectum.[98] Soppressa la causa, scompare l'effetto. T Timeo Danaos et dona ferentes. Io temo comunque i Greci, anche se recano doni. (Publio Virgilio Marone) U Ubi maior, minor cessat. Dinanzi al più forte, il debole scompare.[8] Ubi opes, ibi amici. Dove sono le ricchezze, lì sono anche gli amici.[8] Ubi uber, ibi tuber.[99] Dove è la mammella, ivi è il tumore. Dove c'è abbondanza, ivi si forma il marciume, la corruzione. V Verba movent, exempla trahunt.[100] Le parole commuovono, ma gli esempi trascinano. Verba volant, scripta manent.[101] Le parole volano, gli scritti restano. Vigilantibus, non dormientibus, jura succurunt.[102] Le leggi forniscono aiuto ai vigilanti, non ai dormienti. Vinum lac senum.[103] Il vino è il latte dei vecchi. Vulgus vult decipi, ergo decipiatur. Il popolo (il mondo) vuole essere ingannato, e allora sia ingannato.[104] Note  Citato in Mastellaro, p. 21.  Citato in Tosi 2017, n. 1408.  Citato in Tosi 2017, n. 1010.  Citato in 2005, p. 6.  Citato in Mastellaro, p. 11.  Citato in Mastellaro, p. 25.  Citato in Mastellaro, p. 18.  Citato in Mastellaro, p. 20.  Citato e tradotto in 2005, p. 15.  Citato in De Mauri, p. 27.  Citato in Mastellaro, p. 24.  Citato in Mastellaro, p. 23.  Citato in Tosi 2017, n. 2265.  Citato, con spiegazione, in Umberto Bosco, Lessico universale italiano, vol. XV, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1968, p. 59.  Citato e tradotto in 2005, § 169.  Citato e tradotto in 2005, § 188.  Citato e tradotto in 2005, § 215.  Citato con traduzione in 2005, p. 28.  Citato in 1921, p. 43, § 161.  Citato e tradotto in 2005, § 243.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 148.  Citato con traduzione in 2005, p. 30.  Citato e tradotto in 2005, § 256.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 154.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 155.  Citato e tradotto in 2005, § 280.  Citato in Andrea Perin e Francesca Tasso (a cura di), Il sapore dell'arte, Skira, Milano, 2010, p. 41.  Citato e tradotto in 2005, p. 37.  Citato e tradotto in 2005, § 305.  Citato e tradotto in 2005, § 312.  Citato e tradotto in 2005, § 343.  Citato e tradotto in 2005, § 344.  Citato in Mastellaro, p. 9.  Citato in 2005, p. 57.  Citato in Arthur Schopenhauer, Aforismi sulla saggezza nella vita, traduzione di Oscar Chilesotti, Dumolard, Milano, 1885.  Citato in Marco Costa, Psicologia militare, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 645. ISBN 88-464-7966-1  Citato in 1876, p. 66.  Citato in 1921, p. 496.  (ES) Citato in Jesús Cantera Ortiz de Urbina, Refranero Latino, Ediciones Akal, Madrid, p. 68 § 773. ISBN 9788446012962  Citato e tradotto in 2005, § 645.  Citato e tradotto in 2005, § 650.  Citato in De Mauri, p. 29.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 366.  Citato in Giuseppe Fumagalli, L'ape latina, Milano, 1975, p. 82  Citato e tradotto in 2005, § 732.  Citato e tradotto in 2005, § 739.  Citato e tradotto in 2005, § 741.  Citato e tradotto in 2005, § 744.  Citato e tradotto in 2005, § 747.  Citato e tradotto in 2005, § 829.  Citato e tradotto in 2005, § 835.  Citato in 2005, p. 108.  Citato in 2005, p. 109, § 941.  Citato in Filippo Ruschi, Questioni di spazio: la terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt, G. Giappichelli Editore, Citato e tradotto in 2005, § 1072.  Citato in 2005, p. 152.  Citato e tradotto in 2005, § 1313.  Citato con traduzione in Jean Louis Burnouf, Metodo per studiare la lingua latina adottato dall'Università di Francia, presso Ricordi e Jouhaud, Firenze 1850, p. 276.  Citato in 2005, p. 158.  Citato in 2005, p. 159.  Citato in AA. VV., Dizionario delle sentenze latine e greche, § 1509, Rizzoli, Milano, 2017.  Citato in 2005, p. 166.  Citato in 2005, p. 168.  Citato in 1921, p. 88, § 319.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 733.  Citato in 2017, § 664.  Citato in 1876, p. 58.  Citato in 1921, p. 556.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 788.  Citato in 1921, p. 536.  Citato in Paul-Augustin-Olivier Mahon, Medicina legale e Polizia medica, vol. 4, a cura di Giuseppe Chiappari, Pirotta, Milano, 1820, p. 295.  Citato in Guillaume Musso, Central Park, traduzione di Sergio Arecco, Bompiani, 2016, p. 195.  Citato in Ann Casement, Who Owns Jung?, Karnac Books, 2007, Londra, p.176 Anteprima Google  Citato in L. De Mauri, Angelo Paredi e Gabriele Nepi, p. 95.  Citato in Peter Olman, Zwei Mädchen suchen ihr Glück: Caleidoscopio berlinese, Edizioni Mediterranee, Roma, 1966, p. 265.  Citato e tradotto in 2005, § 1970.  Citato in 2005, p. 248.  (DE) Citato in Friedrich Otto Bittrich, Ägypten und Libyen, Safari-Verlag, Berlino, 1953, p. 7.  Citato e tradotto in 2005, § 2167.  Dal Vangelo:... tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada (Mt 26:52).  Citato in 2005, p. 256.  Citato in 2005, p. 258.  Citato in Tosi 2017, n. 1174.  Citato in De Mauri, p. 171.  Citato in 2005, p. 266.  Citato e tradotto in 2005, § 2342.  Citato e tradotto in 2005, § 2363.  Spesso la frase viene attribuita a Cipriano in una forma diversa: Extra Ecclesiam nulla salus.  Citato e tradotto in 2005, § 2415.  Citato e tradotto in 2005, § 2421.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1034.  Citato e tradotto in 2005, § 2457.  Citato e tradotto in 2005, § 2472.  Citato in 1921, p. 138, § 465.  Citato e tradotto in 2005, § 2528.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1079.  Citato e tradotto in 2005, § 2606.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1097.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1169.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1203.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1204.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1216.  Citato in Proverbi siciliani raccolti e confrontati con quelli degli altri dialetti d'Italia da Giuseppe Pitrè, Luigi Pedone Lauriel, Palermo, 1880, vol. IV, p. 140.  Traduzione in voce su Wikipedia. Bibliografia L. De Mauri, 5000 proverbi e motti latini, seconda edizione, Hoepli, Milano, 2006. ISBN 978-88-203-0992-0 Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, Milano, 1921. Giuseppe Fumagalli, L'ape latina, Hoepli, Milano, 2005. ISBN 88-203-0033-8 Giacomo Lo Forte, Ad hoc, Sandron, 1921. Paola Mastellaro, Il libro delle citazioni latine e greche, Mondadori, Milano, 2012. ISBN 978-88-04-47133-2. Gustavo Benelli, Raccolta di proverbi, massime morali, aneddoti, ed altro, Carnesecchi, Firenze, 1876. Renzo Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Rizzoli, 2017. Voci correlate Modi di dire latini Lingua latina Palindromi latini Categorie: Lingua latinaProverbi per nazione. Proverbi Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi: Proverbi toscani. A A brigante brigante e mezzo. 1 A buon cavalier non manca lancia. 2 A buon cavallo non manca sella. 2 A buon cavallo non occorre dir trotta. 3 A buon intenditor poche parole.[1 2 A caldo autunno segue lungo inverno. 4 A cane scottato l'acqua fredda par calda. 5 A cane vecchio non dargli cuccia. 2 A carnevale ogni scherzo vale, ma che sia uno scherzo che sa di sale. 6 A caval che corre, non abbisognano speroni. 3 A caval donato non si guarda in bocca.[2 2 A cavalier novizio, cavallo senza vizio. 3 A cavallo d'altri non si dice zoppo. 3 A cavallo di fuoco, uomo di paglia, a uomo di paglia, cavallo di fuoco. 3 A cavallo giovane, cavalier vecchio. 3 A caval nuovo cavaliere vecchio. 2 A chi batte forte, si apron le porte. 7 A chi Dio vuole aiutare, niente gli può nuocere. 4 A chi fortuna zufola, ha un bel ballare. 4 A chi ha abbastanza, non manca nulla. 4 A chi mangia sempre polli vien voglia di polenta. 8 A chi non piace il vino, il Signore faccia mancar l'acqua. 8 A chi non può imparare l'abbicì, non si può dare in mano la Bibbia. 4 A chi non vuol credere, poco valgono mille testimoni. 8 A chi non vuol credere sono inutili tutte le prove. 8 A chi non vuol far fatiche, il terreno produce ortiche. 9 A chi prende moglie ci vogliono due cervelli. 4 A chi tanto e a chi niente. 2 A chi troppo e a chi niente. 10 A chi ti dà il cappone, dagli la coscia e l'alone. 8 A chi ti porge un dito non prendere la mano. 2 A chi vuole fare del male non manca l'occasione. 4] A ciascun giorno basta la sua pena.[3] 2] A ciascuno sta bene il proprio abito. 4] A donna di gran bellezza, dalla poca larghezza. 4] A duro ceppo, dura accetta. 4] A goccia a goccia si scava la pietra.[4] 11] A goccia a goccia s'incava la pietra. 2] A gran salita, gran discesa. 4] A granello a granello si riempie lo staio e si fa il monte. 4] A grassa cucina povertà vicina. 4] A lavar la testa all'asino si perde il ranno e il sapone. 12] A lume spento è pari ogni bellezza. 4] A mali estremi estremi rimedi. 1] A muro basso ognuno ci si appoggia. 1] A nemico che fugge ponti d'oro. 1] A ogni uccello suo nido è bello. 1] A padre avaro figliuol prodigo. 13] A pancia piena si ragiona meglio. 8] A pagare e a morire c'è sempre tempo. 14] A paragone del molto che ignoriamo, è meno di niente quanto noi sappiamo. 4] A pazzo relatore, savio ascoltatore. 8] A pensar male, s'indovina sempre. 15] A pensar male ci s'indovina. 2] A pentola che bolle, gatta non s'accosta. 8] A rubar poco si va in galera, a rubar tanto si fa carriera. 1] A san Lorenzo il dente la noce già sente. 2] A san Martino [11 novembre], apri la botte e assaggia il vino. 8] A San Martino ogni mosto è vino. 16] A san Mattia la neve va via. 4] A scherzar con la fiamma, ci si scotta. 17] A tal fortezza, tal trincea. 4] A torto si lagna del mare chi due volte ci vuole tornare. 4] A tutto c'è rimedio fuorché alla morte. 1] A usanza nuova non correre. 2] Abbattuto l'albero scompare l'ombra. 8] Accasa il figlio quando vuoi, e la figlia quando puoi. 18] Acquista buona fama e mettiti a dormire. 4] Ai bugiardi e agli spacconi non è creduto. 8] Ai voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser vicini. 19] A voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser vicini. 2] Abate cupido, per un'offerta ne perde cento. 4] Abate rigoroso rende i frati penitenti. 4] Abbi piuttosto il piccolo per amico, che il grande per nemico. 8] Abiti stranieri, costumi stranieri; costumi stranieri, gente straniera; la gente straniera sloggia gli antichi abitanti. 4] Abito troppo portato e donna troppo vista vengono presto a noia. 4] Abbondanza genera baldanza. 4] Accade in un'ora quel che non avviene in mill'anni. 2] Accade in un'ora quel che non avviene in cent'anni. 2] Accendere una candela ai Santi e una al diavolo. 4] Accendere una fiaccola per far lume al sole. 4] Acqua che corre non porta veleno. 4] Acqua cheta rompe i ponti. 16] Acqua di san Lorenzo [10 agosto] venuta per tempo; se alla Madonna viene va ancora bene; tardiva sempre buona quando arriva. 2] Acqua e chiacchiere non fanno frittelle. 20] Acqua lontana non spegne il fuoco. 21] Acqua passata, non macina più. 22] Ad albero vecchio ed a muro cadente, non manca mai edera. 4] Ad ogni primavera segue un autunno. 4] Ad ognuno la sua croce. 23] Ad ognuno pare bello il suo. 4] Ad un grasso mezzogiorno spesso tien dietro una cena magra. 4] Agosto ci matura il grano e il mosto 16]. Agosto: moglie mia non ti conosco.[5][6] 1] Ai macelli van più bovi che vitelli. 2] Ai pazzi ed ai fanciulli, non si deve prometter nulla. 8] Ai pazzi si dà sempre ragione. 8] Aiutati che Dio t'aiuta. 24] Aiutati che il ciel t'aiuta. 25] Aiutati che io ti aiuto. 16] Al baciarsi presto tien dietro il coricarsi. 4] Al bisogno si conosce l'amico. 1] Al buio la villana è bella quanto la dama. 2] Al buio, le donne sono tutte uguali. 8] Al buio tutti i gatti sono bigi. 16] Al confessor, medico e avvocato, non tenere il ver celato. 26] Al confessore, al medico e all'avvocato non si tiene il ver celato. 2] Al contadin non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere. 1] Al cuore non si comanda. 1] Al cuor non si comanda. 27] Al cazzo non si comanda. 2] Al culo non si comanda. 28] Al destino non si comanda. 2] Al tempo non si comanda. 2] Al tempo e al culo non si comanda. 2] Al debole il forte sovente fa torto. 8] Al fratello piace più veder la sorella ricca, che farla tale. 8] Al levar le tende si conosce il guadagno. 4] Al gatto che lecca lo spiedo non affidar arrosto. 8] Al genio non si danno le ali, ma le si tagliano. 4] Al medico, al confessore e all'avvocato, bisogna dire ogni peccato. 8] Al povero manca il pane, al ricco l'appetito. 8] Al primo colpo non cade l'albero. 2] Al primo colpo non cade un albero. 2] Al suono si riconosce la pignata. 29] Al villano, se gli porgi il dito, si prende la mano. 30] All'A tien dietro il B nel nostro abbicì. 4] All'eco spetta l'ultima parola. 4] All'orsa paion belli i suoi orsacchiotti. 8] All'uccello ingordo crepa il gozzo. 2] All'ultimo si contano le pecore. 1] All'umiltà felicità, all'orgoglio calamità. 8] Alla fame è presto ridotto chi s'imbarca senza biscotto. 4] Alla fine anche le pernici allo spiedo vengono a noia. 8] Alla fine loda la vita e alla sera loda il giorno.[7] 4] Alla fine loda la vita e alla sera il giorno. 2] Alla guerra si va pieno di denari e si torna pieni di vizi e di pidocchi. 4] Alle barbe dei pazzi, il barbiere impara a radere. 8] Alle volte si crede di trovare il sole d'agosto e si trova la luna di marzo. 8] Altri tempi, altri costumi. 2] Alzati presto al mattino se vuoi gabbare il tuo vicino. 8] Ambasciator non porta pena. 2] Amare e non essere amato è tempo perso. 4] Ambasciatore che tarda notizia buona che porta. 2] Amicizia che cessa, non fu mai vera. 4] Amico beneficato, nemico dichiarato. 4] Amico di buon tempo mutasi col vento. 4] Amico di ventura, molto briga e poco dura. 31] Ammogliarsi è un piacere che costa caro. 4] Amor che nasce di malattia, quando si guarisce passa via. 8] Amor di nostra vita ultimo inganno.[8] 32] Amor, dispetto, rabbia e gelosia, sul cuore della donna han signoria. 8] Amor nuovo va e viene, amor vecchio si mantiene. 8] Amor regge il suo regno senza spada. 32] Amore con amor si paga. 2] Amore di parentato, amore interessato. 4] Amore di villeggiatura poco vale e poco dura. 2] Amore di fratello, amore di coltello. 8] Amore è il vero prezzo con che si compra amore. 33] Amore non si compra né si vende. 33] Amore onorato, né vergogna né peccato. 8] Amore scaccia amore. 4] Anche fra le spine nascono le rose. 34] Anche i fanciulli diventano uomini. 4] Anche il più verde diventa fieno. 4] Anche il sole ha le sue macchie. 4] Anche l'abate fu prima frate. 4] Anche l'ambizione è una fame. 4] Anche la legna storta dà il fuoco diritto. 4] Anche la regina Margherita mangia il pollo con le dita. 35] Anche le bestie le ha fatte il Signore. 8] Anche le colombe hanno il fiele. 4] Anche le pulci hanno la tosse. 2] Anche le uova della gallina nera sono bianche; ma staremo a vedere se anche i suoi pulcini sono bianchi. 4] Anche un giogo dorato pesa. 8] Andar presto a dormire e alzarsi presto chiude la porta a molte malattie. 8] Andar bestia, e tornar bestia, dice il moro. 36] Anno nevoso anno fruttuoso. 16] Anno nuovo vita nuova. 1] Approfitta degli errori degli altri, piuttosto che censurarli. 4] Aprile dolce dormire.[9] 2] Aprile e maggio sono la chiave di tutto l'anno. 4] Aprile ogni goccia un barile.[10] 2] Aprile piovoso, maggio ventoso, anno fruttuoso. 4] Ara nel mare e nella rena semina, chi crede alle parole della femmina. 8] Arcobaleno porta il sereno. 2] Aria rossa o piscia o soffia. 2] Asino che ha fame mangia d'ogni strame. 2] Assai bene balla a chi fortuna suona. 4] Assai digiuna chi mal mangia. 8] Assai domanda chi ben serve e tace. 37] Assai domanda chi si lamenta. 8] Assalto francese e ritirata spagnola. 2] Attacca l'asino dove vuole il padrone e, se si rompe il collo, suo danno. 1] Avuta la grazia, gabbato lo santo. 8] B Bacco, tabacco e Venere riducon l'uomo in cenere. 2] Ballaremo secondo che voi suonerete. 4] Bandiera rotta onor di capitano. Bandiera vecchia onor di capitano. 2] Basta un matto per casa. 8] Batti il ferro finché è caldo. Batti il ferro quando è caldo. 1] Bei gatti e grossi letamai mostrano il buon agricoltore. 38] Bella cosa presto è rapita. 4] Bella in vista, dentro è trista. 4] Bella ostessa, conti traditori. 2] Bella ostessa, brutti conti. 39] Bell'ostessa, conto caro. 40] Bella vigna poca uva. 2] Bellezza di corpo non è eredità. 4] Bellezza e follia vanno spesso in compagnia. 41] Bello in fasce brutto in piazza. 1] Ben sa la botte di qual vino è piena. 4] Ben si caccia il diavolo, ma Satana ritorna. 4] Bene per male è carità, male per bene è crudeltà. 8] Bene educato, non mentì mai. 4] Bene perduto è conosciuto. 4] Beni di fortuna passano come la luna. 2] Bevi il vino e lascia andar l'acqua al mulino. 8] Bisogna dire pane al pane e vino al vino. 2] Bisogna far buon viso a cattivo gioco. 1] Bisogna fare di necessità virtù. 2] Bisogna fare il pane con la farina che si ha. 4] Bisogna fare la festa quando cade, e prendere il tempo come viene. 4] Bisogna fare la festa quando è il santo. 4] Bisogna mangiare per vivere e non vivere per mangiare. 2] Bisogna prendere gli avvenimenti quando Dio li manda. 4] Bocca che tace nessuno l'aiuta. 2] Bocca che tace mal si può aiutare. 42] Bocca chiusa ed occhio aperto non fecero mai male a nessuno. 4] Botte buona fa buon vino. 2] Brutta cosa è il povero superbo e il ricco avaro. 8] Brutta di viso ha sotto il paradiso. 2] Brutto in fasce bello in piazza. 1] Buca il marmo fin d'acqua una goccia. 8] Bue sciolto lecca per tutto. 8] Bue fiacco stampa più forte il piede in terra. 4] Bue vecchio, solco diritto. 4] Buon fuoco e buon vino, scaldano il mio camino. 8] Buon sangue non mente. 2] Buon tempo e mal tempo non dura tutto il tempo. 1] Buon vino e bravura, poco dura. 8] Buon vino fa buon sangue. 1] 8] Buon vino, favola lunga. 8] Buona fama presto è perduta. 4] Buona greppia, buona bestia. 8] Buona guardia giova a molte cose. 4] Buona la forza, migliore l'ingegno. 4] Buone parole e pere marce non rompono la testa a nessuno. 31] Burlando si dice il vero. 4] C Cader non può, chi ha la virtù per guida. 4] Cambiano i suonatori ma la musica è sempre quella. 1] Cambiare e migliorare sono due cose; molto si cambia nel mondo, ma poco si migliora. 4] Campa cavallo che l'erba cresce. 2] Campa, cavallo mio, che l'erba cresce. 1] Can che abbaia non morde. 1] Cane affamato non teme bastone.[11] 2] Cane e gatta tre ne porta e tre ne allatta. 8] Cane non mangia cane. 43] Cane ringhioso e non forzoso, guai alla sua pelle! 4] Capelli lunghi, cervello corto. 4] Carta canta e villan dorme. 1] Casa fatta e vigna posta, non si sa quello che costa. 44] Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia. 45] Casa mia, casa mia, benché piccola tu sia, tu mi sembri una badia. 2] Casa mia, casa mia, pur piccina che tu sia mi sembri una badia. 9] Castiga il buono e si emenderà; castiga il cattivo e peggiorerà. 4] Cattivo cominciamento, fine peggiore. 8] Cavallo da vettura, poco costa e poco dura. 46] Cavallo vecchio, tardi muta ambiatura. 47] Cavolo riscaldato non fu mai buono. 2] Cavolo riscaldato, frate sfratato e serva ritornata non furon mai buoni. 2] Cento teste, cento cappelli. 48] Certe macchie ben si possono grattare ma non togliere. 4] Cessato il guadagno, cessata l'amicizia. 49] Chi a tutti facilmente crede, ingannato si vede. 4] Chi accarezza la mula rimedia calci. 2] Chi accarezza la mula buscherà calci. 2] Chi accetta l'eredità accetti anche i debiti. 4] Chi ad altri inganni tesse, poco bene per sé ordisce. 4] Chi alza il piede per ogni paglia, si può rompere facilmente una gamba. 8] Chi ama me, ama il mio cane. 50] Chi ara terra bagnata, per tre anni l'ha dissipata. 51] Chi asino nasce, asino muore. 4] Chi balla senza suono, come asino si ritrova. 52] Chi ben coltiva il moro, coltiva nel suo campo un gran tesoro. 47] Chi ben comincia è a metà dell'opera. 53] Chi ben comincia è alla metà dell'opera. 2] Chi ben comincia è alla metà dell'opra. 1] Chi bene semina, bene raccoglie. 4] Chi beve vin, campa cent'anni. 54] Chi beve birra campa cent'anni.[12] 2] Chi biasima il suo prossimo che è morto, dica il vero, dica il falso, ha sempre torto. 4] Chi caccia volentieri trova presto la lepre. 4] Chi cade in povertà, perde ogni amico. 4] Chi cava e non mette, le possessioni si disfanno. 55] Chi cavalca o trotta alla china, o non è sua la bestia, o non la stima. 8] Chi cento ne fa una ne aspetta. 1] Chi cerca di sapere ciò che bolle nella pentola d'altri, ha leccate le sue. 8] Chi cerca lealtà e fedeltà nel mondo, non trova che ipocrisia. 4] Chi cerca, trova.[13] 2] Chi cerca trova e chi domanda intende. 2] Chi coglie acerbo il senno, maturo ha sempre d'ignoranza il frutto. 8] Chi comincia in alto, finisce in basso. 8] Chi compra il superfluo, si prepara a vendere il necessario. 56] Chi compra sprezza e chi ha comprato apprezza. 2] Chi conserva per l'indomani, conserva per il cane. 8] Chi contro Dio getta la pietra, in capo gli torna. 8] Chi d'estate secca serpi, nell'inverno mangia anguille. 4] Chi d'estate vuole stare al fresco, ci starà anche d'inverno. 4] Chi da gallina nasce, convien che razzoli. 8] Chi da savio operare vuole, pensi al fine. 4] Chi dà ghiande non può riavere confetti. 4] Chi di gallina nasce convien che razzoli. 2] Chi dal lotto spera soccorso, mette il pelo come un orso. 8] Chi dà per ricevere, non dà nulla. 8] Chi del vino è amico, di se stesso è nemico. 8] Chi di spada ferisce di spada perisce.[14] 1] Chi di speranza vive disperato muore. 1] Chi di una donna brutta s'innamora, lieto con essa invecchia e l'ama ancora. 8] Chi di coltel ferisce, di coltel perisce. 4] Chi di spirito e di talenti è pieno domina su quelli che ne hanno meno. 4] Chi dice A arrivi fino alla Z. 4] Chi dice A deve dire anche B. 4] Chi dice donna dice danno. 1] Chi dice donna dice guai, chi dice uomo peggio che mai. 8] Chi dice male, l'indovina quasi sempre. 4] Chi dice quel che vuole sente quel che non vorrebbe. 1] Chi disprezza compra. 1] Chi disprezza vuol comprare e chi loda vuol lasciare. 2] Chi domanda ciò che non dovrebbe, ode quel che non vorrebbe. 2] Chi domanda non erra. 2] Chi domanda non fa errore. 57] Chi dopo la polenta beve acqua, alza la gamba e la polenta scappa. 8] Chi dorme d'agosto dorme a suo costo. 2] Chi dorme non piglia pesci.[15] 1] Chi è causa del suo mal pianga se stesso.[16] 1] Chi è bugiardo è ladro. 4] Chi è destinato alla forca non annega. 58] Chi è generoso con la bocca, è avaro col sacco. 4] Chi è in difetto è in sospetto. 1] Chi è mandato dai farisei è ingannato dai farisei. 4] Chi è morso dalla serpe, teme la lucertola. 8] Chi non è savio, paziente e forte si lamenti di sé, non della sorte. 8] Chi è schiavo delle ambizioni ha mille padroni. 4] Chi è stato trovato una volta in frode, si presume vi sia sempre. 4] Chi è svelto a mangiare è svelto a lavorare. 1] Chi è tosato da un usuraio, non mette più pelo. 8] Chi è uso all'impiccare, non teme la forca. 4] Chi fa da sé fa per tre.[17] 1] Chi fa come il prete dice, va in Paradiso: ma chi fa come il prete fa, a casa del diavolo se ne va.[18] Chi fa del bene agli ingrati, Dio lo considera per male. 4] Chi fa il male odia la luce. 4] Chi fa l'altrui mestiere, fa la zuppa nel paniere. 59] Chi fa la legge, deve conservarla. 4] Chi fa una legge, deve anche preoccuparsi che sia eseguita. 4] Chi fa le fave senza concime le raccoglie senza baccelli. 2] Chi fa falla e chi non fa sfarfalla. 1] Chi fa un'ingiustizia, la dimentica; chi la riceve, se ne ricorda. 4] Chi fosse indovino, sarebbe ricco. 4] Chi fugge il giudizio, si condanna. 4] Chi fugge un matto, ha fatto buona giornata. 8] Chi getta un seme lo deve coltivare, se vuol vederlo con il tempo germogliare. 60] Chi gioca al lotto, è un gran merlotto. 8] Chi gioca al lotto, in rovina va di botto. 8] Chi gioca al lotto, in rovina va di trotto. 8] Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. 16]. Chi ha avuto il beneficio, se lo dimentica. 4] Chi ha da far con un incostante, tien l'anguilla per la coda. 4] Chi ha denti non ha pane e chi ha pane non ha denti. 1] Chi ha farina non ha la sacca. 1] Chi ha fatto ingiuria ad altri, da altri convien che la sopporti. 4] Chi ha il capo di cera, non vada al sole. 61] Chi ha imbarcato il diavolo, deve stare in sua compagnia. 4] Chi ha ingegno, lo mostri. 62] Chi ha per letto la terra, deve coprirsi col cielo. 8] Chi ha polvere spara. 1] Chi ha portato la tonaca puzza sempre di frate. 2] Chi ha prete, o parente in corte, fontana gli risorge. 63] Chi ha tempo, ha vita. 64] Chi ha tempo non aspetti tempo. 1] Chi ha terra, ha guerra. 56] Chi ha tutto il suo in un loco l'ha nel fuoco. 2] Chi ha un mestiere in mano, dappertutto trova pane. 4] Chi il vasto mare intrepido ha solcato, talvolta in piccol rio muore annegato. 65] Chi la dura la vince. 1] Chi la fa l'aspetti. 1] Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova. 1] Chi lascia la via vecchia per la nuova peggio si trova. 16] Chi lavora con diligenza, prega due volte. 4] Chi lavora, Dio gli dona. 4] Chi mal semina mal raccoglie. 1] Chi male una volta si marita, ne risente tutta la vita. 4] Chi male vive, male muore. 2] Chi maltratta le bestie, non la fa mai bene. 8] Chi mangia sempre pan bianco, spesso desidera il nero. 8] Chi mangia sempre torta se ne sazia. 8] Chi mena per primo mena due volte.Chi molto parla, spesso falla. Chi mordere non può non mostri i denti. 40] Chi muore giace e chi vive si dà pace. 1] Chi nasce afflitto muore sconsolato. 1] Chi nasce è bello, chi si sposa è buono e chi muore è santo. 1] Chi nasce matto non guarisce mai. 8] Chi nasce tondo non può morir quadrato. 57] Chi non ama le bestie, non ama i cristiani. 8] Chi non apre la bocca, non le piove dentro. 4] Chi non beve in compagnia o è un ladro o è una spia. 1] Chi non caccia non prende. 4] Chi non comincia non finisce. 1] Chi non crede di esser matto, è matto davvero. 8] Chi non crede in Dio, non crede nel diavolo. 67] Chi non dà a Cristo, dà al fisco. 8] Chi non è con me è contro di me. 2] Chi non è volpe, dal lupo si guardi, perché ne sarà preda presto o tardi. 4] Chi non fu buon soldato, non sarà buon capitano. 68] Chi non ha fede, non ne può dare. 8] Chi non ha il gatto mantiene i topi e chi ce l'ha li mantiene tutti e due. 8] Chi non ha imparato a ubbidire, non saprà mai comandare. 8] Chi non ha testa abbia gambe. 57] Chi non lavora non mangia. 2] Chi non mangia ha già mangiato. 2] Chi non muore si rivede. 2] Chi non naufragò in mare, può naufragare in porto. 8] Chi non può bastonare il cavallo, bastona la sella. 4] Chi non risica, non rosica. 1] Chi non sa adulare non sa regnare. 4] Chi non sa fare non sa comandare. 68] Chi non sa leggere la sua scrittura è asino di natura. 69] Chi non sa niente non è buono a niente. 4] Chi non sa tacere non sa parlare. 2] Chi non sa ubbidire, non sa comandare. 68] Chi non segue il consiglio dei genitori, tardi se ne pente. 4] Chi non semina non raccoglie. 2] Chi non si innamora da giovane, si innamora da vecchio. 8] Chi non trovò ombra nell'estate, la troverà nell'inverno. 4] Chi non vuol essere consigliato, non può essere aiutato. 4] Chi parla due lingue è doppio uomo. 70] Chi pecca in segreto fa la penitenza pubblica. 8] Chi pecora si fa, il lupo se la mangia. 1] Chi per grazia prega, non ha mai bene. 4] Chi perde ha sempre torto. 1] Chi perdona senza dimenticare, non perdona che metà. 4] Chi pesca con l'amo d'oro, qualcosa piglia sempr e. 8] Chi piglia leone in assenza, teme la talpa in presenza. 8] Chi più ha più vuole. 1] Chi più ha più ne vorrebbe. 2] Chi più lavora, meno mangia. 4] Chi più ne fa è fatto papa. 4] Chi più ne ha più ne metta. 2] Chi più sa meno crede. 1] Chi più spende meno spende. 2] Chi poco sa presto parla. 2] Chi porta fiori, porta amore. 8] Chi predica al deserto, perde il sermone. 71] Chi prende l'anguilla per la coda, può dire di non tenere nulla. 4] Chi prima arriva meglio alloggia. 2] Chi prima nasce prima pasce. 1] Chi prima non pensa dopo sospira. 2] Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura. 8] Chi ricorda un beneficio, lo rinfaccia. 4] Chi ride il venerdì piange la domenica. 1] Chi rimane in umile stato, non ha da temer caduta. 8] Chi ringrazia non vuol obblighi. 8] Chi ringrazia per una spiga, riceve una manna. 8] Chi Roma non vede, nulla crede. 8] Chi ruba poco, ruba assai. 72] Chi rompe paga e i cocci sono suoi. 1] Chi ruba un regno è un ladro glorificato, e chi un fazzoletto, un ladro castigato. 4] Chi ruba una volta è sempre ladro. 4] Chi s'accapiglia si piglia.[19] Chi s'aiuta Iddio l'aiuta. 1] Chi sa fa e chi non sa insegna. 1] Chi sa fare fa e chi non sa fare insegna.[20] Chi sa il gioco non l'insegni. 1] Chi sa il trucco non l'insegni. 1] Chi sa senza Cristo non sa nulla. 8] Chi scopre il segreto perde la fede. 1] Chi semina buon grano avrà buon pane; chi semina lupino non avrà né pan né vino. 2] Chi semina con l'acqua raccoglie col paniere. 2] Chi semina raccoglie. 2] Chi semina vento raccoglie tempesta.[21][22] 1] Chi serba serba al gatto. 1] Chi si contenta gode. 1] Chi si diletta di frodare gli altri, non si deve lamentare se gli altri lo ingannano. 4] Chi si fa i fatti suoi campa cent'anni. 57] Chi si fa un idolo del suo interesse, si fa un martire della sua integrità. 73] Chi si fida nel lotto, non mangia di cotto. 8] Chi si fida di greco, non ha il cervel seco. 74] Chi si guarda dal calcio della mosca, gli tocca quello del cavallo. 4] Chi si immagina di essere più di quello che è, si guardi nello specchio. 4] Chi si loda si sbroda. 4] Chi si prende d'amore, si lascia di rabbia. 8] Chi si scusa si accusa. 1] Chi si somiglia si piglia. 2] Chi si sposa in fretta, stenta adagio. 75] Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato. 8] Chi si vanta da solo non vale un fagiolo. 2] Chi si vanta del delitto è due volte delinquente. 4] Chi siede in basso, siede bene. 8] Chi sta tra due selle si trova col culo in terra. 2] Chi tace acconsente. 1][23] Chi tace davanti alla forza, perde il suo diritto. 4] Chi tanto e chi niente. 1] Chi troppo e chi niente. 1] Chi tardi arriva male alloggia. 1] Chi ti dà un osso non ti vorrebbe morto. 4] Chi ti vuol male, ti liscia il pelo. 8] Chi tiene il letame nel suo letamaio, fa triste il suo pagliaio. 8] Chi tiene la scala non è meno reo del ladro. 76] Chi troppo comincia, poco finisce. 77] Chi troppo vuole nulla stringe.[24] 1] Chi trova un amico trova un tesoro. 1] Chi uccide i gatti fa male i suoi fatti. 38] Chi va a caccia non deve lasciare a casa il fucile. 4] Chi va a Roma perde la poltrona. 2] Chi va all'acqua d'agosto, non beve o non vuol bere il mosto. 8] Chi va all'osto, perde il posto. 78] Chi va al mulino s'infarina. 1] Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare. 79] Chi va piano va sano e va lontano. Chi va forte va alla morte.[25] 80] Chi ha più fretta, più tardi finisce. 4] Chi fa in fretta fa due volte. 4] Chi pesca e ha fretta, spesse volte prende dei granchi. 4] Chi va via perde il posto all'osteria. 81] Chi vanta se stesso e abbassa gli altri, gli altri abbasseranno lui. 4] Chi vende a credenza spaccia assai: perde gli amici e i quattrin non ha mai.[26] 2] Chi dà a credito spaccia assai perde gli amici e danar non ha mai. 2] Chi va alla festa e non è invitato, ben gli sta se ne è scacciato. 4] Chi vien di raro, gli si fa festa. 8] Chi vince ha sempre ragione. 82] Chi vive in libertà non tenti il fato. 4] Chi vive sei giorni nell'oasi, il settimo anela il deserto. 8] Chi vivrà vedrà. 2] Chi vuol d'avena un granaio la semini di febbraio. 2] Chi vuol dell'acqua chiara vada alla fonte. 4] Chi vuol udir novelle, dal barbier si dicon belle. 8] Chi vuol esser libero, non metta il collo sotto il giogo. 8] Chi vuol essere pagato, non dev'essere ringraziato. 8] Chi vuol guarire deve soffrire. 4] Chi vuol impetrare, la vergogna ha da levare. 83] Chi vuol lavoro degno assai ferro e poco legno. 2] Chi vuol pane, meni letame. 84] Chi vuol presto impoverire, chieda prestito all'usuraio. 8] Chi vuol provar le pene dell'inferno, la stia in Puglia e all'Aquila d'inverno. 8] Chi vuol saper cos'è l'inferno faccia il cuoco d'estate e il carrettiere d'inverno. 8] Chi vuol un bel pagliaio lo pianti di febbraio. 8] Chi vuol vedere Pisa vada a Genova. 85] Chi vuole arricchire in un anno, è impiccato in sei mesi. 4] Chi vuole assai, non domandi poco. 86] Chi vuole essere amato, divenga amabile. 9] Chi vuole essere sicuro della sua farina, deve portare egli stesso il sacco al mulino. 4] Chi vuole i santi se li preghi. 1] Chi vuole la figlia accarezzi la madre. 4] Chi vuole vada e chi non vuole mandi. 1] Chiara notte di capodanno, dà slancio a un buon anno. 8] Chiodo scaccia chiodo. 2] Chiodo schiaccia chiodo. 9] Chitarra e schioppo fanno andare la casa a galoppo. 8] Ci vuole altro che un'accozzaglia di gente per fare un esercito. 4] Ci vuole ingegno per governare i pazzi. 4] Ciascuno è artefice della sua fortuna. 2][27] Ciascuno è artefice della propria fortuna. 2] Ciascuno porta il suo ingegno al mercato. 4] Cielo a pecorelle acqua a catinelle. 1] Ciò che è male per uno, è bene per un altro. 4] Ciò che lo stolto fa in fine, il savio fa in principio. 87] Ciò che non si può cambiare bisogna saperlo sopportare. 4] Col fuoco non si scherza. 1] Col latino, con un ronzino e con un fiorino si gira il mondo. 4] Col nulla non si fa nulla. 1] Col pane tutti i guai sono dolci. 1] Col tempo e con la paglia maturano le nespole.[28] 2] Col tempo e con la paglia maturano le sorbe e la canaglia. 2] Colla sola lealtà, non si pagano i merletti della cuffia. 4] Come farai, così avrai. 4] Come i piedi portano il corpo, così la benevolenza porta l'anima. 4] Comincia, che Dio provvede al resto. 4] Compar di Puglia, l'un tiene e l'altro spoglia. 8] Comun servizio ingratitudine rende. 8] Con arte e con ingegno, si acquista mezzo regno; e con ingegno ed arte, si acquista l'altra parte. 4] Con gli anni crescono gli affanni. 8] Con i matti non ci son patti. 8] Con l'inchiostro, una mano può innalzare un furfante ed abbassare un galantuomo. 8] Con la pazienza la foglia di gelso diventa seta. 88] Con la pietra si prova l'oro, con l'oro la donna e con la donna l'uomo. 8] Con la più alta libertà, abita la più bassa servitù. 4] Con le buone maniere si ottiene tutto. 89] Con un bicchier di vino si fa un amico. 8] Con un occhio si frigge il pesce e con l'altro si guarda il gatto. 8] Conchiuder lega è facile, difficile il mantenerla. 4] Confidenza toglie riverenza. 4] Conserva le monete bianche per le giornate nere. 8] Contadini, scarpe grosse e cervelli fini. 1] Contano più i fatti che le parole. 90] Contro due donne neanche il diavolo può metterci il becco. 8] Contro due non la potrebbe Orlando. 91] Contro la forza la ragion non vale. 1] Contro la nebbia forza no vale. 4] Coricarsi presto, alzarsi presto, danno salute, ricchezza e sapienza. 8] Corpo satollo anima consolata. 1] Corpo sazio non crede a digiuno. 1] Cortesia schietta, domanda non aspetta. 92] Corre un pezzo la lepre, un pezzo il cane; così s'alternano le vicende umane. 8] Cosa fatta capo ha.[29] 2] Cosa di rado veduta, più cara è tenuta. 8] Cosa rara, cosa cara. 8] Cucina grassa, magra eredità. 4] Cuor contento gran talento. 93] Cuor contento il ciel l'aiuta. 94] Cuor contento il ciel lo guarda. 2] Cuor contento non sente stento. 2] D D'aprile ogni goccia val mille lire. 2] D'aquila non nasce colomba. 4] Da colpa nasce colpa. 4] Da cosa nasce cosa. 95] Da falsa lingua, cattiva arringa. 8] Da Lodi, tutti passan volentieri. 8] Da un disordine nasce un ordine. 8] Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io. 2] Dàgli, dàgli, le cipolle diventano agli. 96] Riferito alle insidie che l'amore riserva alle virtù delle fanciulle. Dai giudici siciliani, vacci coi polli nelle mani. 8] Dall'asino non cercar lana. 4] Dall'opera si conosce il maestro. 4] Dall'immagine si conosce il pittore. 4] Dalla mano si riconosce l'artista. 4] Dal canto si conosce l'uccello. 4] Dal passato è facile predire il futuro. 4] Dalla casa si conosce il padrone. 4] Danaro e santità, metà della metà. 8] Denari e santità metà della metà. 97] Date a Cesare quel che è di Cesare.[30] 2] Davanti al cameriere non vi è Eccellenza. 4] Davanti l'abisso e dietro i denti di un lupo. 4] Debole catena muover può gran peso. 8] Dei vizi è regina l'avarizia. 98] Del senno di poi son piene le fosse. 1] Delle calende non me ne curo purché a san Paolo non faccia scuro.[31] 2] Detto senza fatto, ad ognuno pare un misfatto. 4] Di buone intenzioni è lastricato l'inferno. 99] Di chi è l'asino, lo pigli per la coda. 4] Di dolore non si muore, ma d'allegrezza sì. 8] Di maggio si dorme per assaggio.[32] 2] Di malerba non si fa buon fieno. 4] Di notte si ritirano i galantuomini ed escono i birbanti. 8] Di quello che non ti interessa, non dire né bene né male. 4] Di tutte le arti maestro è l'amore. 8] Dice la serpe: non mi toccar che non ti tocco. 8] Dicembre favaio. 16] Dicono che è mercante anche chi perde, ma questo presto ridurrassi al verde. 100] Dieci ne pensa il topo e cento il gatto. 101] Dietro il monte c'è la china. 2] Dietro il riso viene il pianto. 8] Dimmi con chi vai, e ti dirò che fai. 73] Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. 102] Dio aiuti il povero, perché il ricco può aiutar se stesso. 8] Dio dà la piaga e dà anche la medicina. 4] Dio guarisce e il medico è ringraziato. 4] Dio li fa e poi li accoppia. 1] Dio manda il freddo secondo i panni. 1] Dio mi guardi da chi studia un libro solo. 4] Dio misura il vento all'agnello tosato. 4] Dio vede e provvede. 2] Disse la volpe ai figli: "Quando a tordi, quando a grilli". 4] Dolore comunicato è subito scemato. 4] Domandando si va a Roma. 2] Domandare è lecito, rispondere è cortesia. 2] Donna al volante, pericolo costante. 103] Donna adorna, tardi esce e tardi torna. 8] Donna baffuta sempre piaciuta. 2] Donna barbuta, sempre piaciuta. 103] Donna barbuta coi sassi si saluta. 2] Donna bianca, poco gli manca. 8] Donna rossa coscia grossa. 8] Donna che canti dolcemente in scena, pei giovani inesperti è una sirena. 8] Donna che dona, di rado è buona. 8] Donna che piange, ovver che dolce canti, son due diversi, ambo possenti incanti. 8] Donna che sa il latino è rara cosa, ma guardati dal prenderla in isposa. 8] Donna e fuoco, toccali poco. 8] Donne e motori gioie e dolori. 104] Donna e vino ubriaca il grande e il piccolino. 8] Donna giovane e uomo anziano possono riempire la casa di figli. 8] Donna io conosco, ch'è una santa a messa e che in casa è un'orribil diavolessa. 8] Donna nana tutta tana. 2] Donna nobil per natura è un tesor cheonna savia e bella è preziosa ancsempre dura. 8] Donna pelosa, donna virtuosa. 2] Donna pregata nega, trascurata prega. 8] Donna prudente, gioia eccellente. 8] Dhe in gonnella. 8] Donna si lagna, donna si duole, donna s'ammala quando lo vuole. 8] Donne e sardine, son buone piccoline. 8] Donne, danno, fanno gli uomini e li disfanno. 8] Dopo desinare non camminare; dopo cena, con dolce lena. 4] Dopo e poi son parenti del mai. 2] Dopo il dolce vien l'amaro. 8] Dopo il fatto il consiglio non vale. 4] Dopo il fatto viene troppo tardi il pentimento. 4] Dopo il giorno vien la notte. 8] Dopo la grazia di Dio, la miglior cosa è la libertà. 8] Dopo la tempesta, il sole. 8] Dopo le fosche nuvole il sol splende più fulgido. 8] Dopo vendemmia, imbuto. 105] Non bisogna lasciarsi sfuggire le occasioni favorevoli, chi ha tempo non aspetti tempo. Dove c'è l'amore, la gamba trascina il piede. 8] Dove è castigo è disciplina, dove è pace è gioia. 4] Dove entra la fortuna, esce l'umiltà. 8] Dove l'accidia attecchisce ogni cosa deperisce. 4] Dove la fedeltà mette le radici, Dio fa crescere un albero. 4] Dove non c'è amore, non c'è umanità. 8] Dove non c'è fieno, i cavalli mangiano paglia. 8] Dove non c'è ordine, c'è disordine. 8] Dove non si crede né all'inferno né al paradiso, il diavolo intasca tutte le entrate. 8] Dove non vi è educazione, non vi è onore. 4] Dove non vi sono capelli, male si pettina. 4] Dove può il vino non può il silenzio. 8] Dove regna Bacco e Amore, Minerva non si lascia vedere. 4] Dove regna il vino, non regna il silenzio. 8] Dove son carogne son corvi. 8] Dove sono i pulcini, ivi è l'occhio della chioccia. 8] Dove vola il cuore, striscia la ragione. 8] Due cani che un solo osso hanno, difficilmente in pace stanno. 4] Due noci in un sacco e due donne in casa fanno un bel fracasso. 8] Due polente insieme non furon mai viste. 8] Dura più un carro rotto che uno nuovo. 4] Duro con duro non fa buon muro. 106] E È cattivo sparviero quel che non torna al richiamo. 8] È difficile far diventare bianco un moro. 4] È difficile guardarsi dai ladri di casa. 4] È difficile piegare un albero vecchio. 4] È difficile zoppicare bene davanti allo sciancato. 8] È facile lamentarsi quando c'è chi ascolta. 8] È impossibile come cavalcare un raggio di sole. 4] È impossibile volare senza ali. 4] È inutile piangere sul latte versato. 98] [truismo] È l'acqua che fa l'orto. 98] L'acqua fa l'orto. 98] È la donna che fa l'uomo. 57] È lieve astuzia ingannar gelosia, che tutto crede quando è in frenesia. 4] È meglio avere la cura di un sacco di pulci che una donna. 4] È meglio contentarsi che lamentarsi. 8] È meglio correggere i propri difetti, che riprendere quelli degli altri. 4] È meglio esser digiuno fuori, che satollo in prigione. 8] È meglio essere testa d'anguilla che coda di storione. 8] È meglio essere uccel di bosco, che uccel di gabbia. 8] È meglio essere umile a cavallo, che orgoglioso a piedi. 8] È meglio gelare nella nuda cameretta della verità, che crogiolarsi nella pelliccia della menzogna. 4] È meglio mangiarsi l'eredità, che conservarla per il convento. 4] È meglio meritar la lode che ottenerla. 4] È meglio sentir cantare l'usignolo, che rodere il topo. 8] È meglio testa di lucertola che coda di drago. 8] È meglio un esercito di cervi sotto il comando di un leone, che un esercito di leoni sotto il comando di un cervo. 4] È meglio un leone che mille mosche. 8] È più facile biasimare, che migliorare. 4] È più facile lagnarsi, che rimuovere gl'impedimenti. 8] È più facile prevenire una malattia che guarirla. 8] È più facile trovar dolce l'assenzio, che in mezzo a poche donne il silenzio. 8] È un bel predicare il digiuno a corpo pieno. 4] È una bella risposta quella che si attaglia ad ogni domanda. 8] Ebrei e rigattieri, spendono poco e gabbano volentieri. 4] Ecco il rimedio per l'ipocondria: mangiare e bere in buona compagnia. 8] Errare è umano, perseverare è diabolico. 107] Errare è umano, perseverare diabolico. 2] Sbagliare è umano, perseverare è diabolico. 108] Errore non è inganno. 4] Errore non paga debito. 4] Errore riconosciuto conduce alla verità. 4] Esser dotto poco vale, quando gli altri non lo sanno. 8] Èssere più torbo che non è l'acqua dei maccheroni. 8] F Fa quel che il prete dice, non quel che il prete fa. 1] Fa quello che fanno gli altri, e nessuno si farà beffe di te. 4] Faccia bella, anima bella. 4] Facile è criticare, difficile è l'arte.[33] 109] Fare debiti non è vergogna, ma pagarli è questione d'onore. 4] Fare e disfare, è tutto un lavorare. 110] Fare l'amore fa bene all'amore. 111] Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male. 8] Fatta la legge trovato l'inganno.[34] 1] Fatti asino e tutti ti metteranno la soma. 4] Fatti di miele e ti mangieranno le mosche. 4] Fatti le ali e poi vola. 4] Febbraio, febbraietto mese corto e maledetto.[35] 2] Felice non è, chi d'esserlo non sa. 64] Femmine e galline, se giran troppo si perdono. 8] Ferita d'amore non uccide. 8] Finché c'è vita c'è speranza. 1] Fino alla morte non si sa qual è la sorte. 8] Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. 1] Fidati dell'arte, ma non dell'artigiano. 4] Fino alla bara sempre s'impara. 112] Fortezza che parlamenta, è prossima ad arrendersi. 4] Fortuna cieca, i suoi acceca. 4] Fortuna instupidisce colui ch'ella favorisce. 4] Fortunato al gioco, sfortunato in amore. 4] Fra Modesto non fu mai priore. 8] Fra sepolto tesoro e occulta scienza, non vi conosco alcuna differenza. 8] Fra un usuraio e un assassino poco ci corre. 8] Frutto precoce facilmente si guasta. Fuggire l'acqua sotto la grondaia. 4] Funghi e poeti: per uno buono dieci cattivi. 8] G Gallina che non razzola ha già razzolato. 113] Gallina vecchia fa buon brodo. 114] Gallo senza cresta è un cappone, uomo senza barba è un minchione. Gatta inguantata non prese mai topo. 8] Gattini sventati, fanno gatti posati. 115] Gatto e donna in casa, cane e uomo fuori. 38] Gatto rinchiuso diventa leone. 8] Gatto scottato dall'acqua calda, ha paura della fredda. 4] Gelosia non mette ruga.  Gioco di mano gioco di villano. 1] Gioia e sciagura sempre non dura. 8] Giovani di buon cuore, indoli buone, crescono cattivi per poca educazione. 4] Giugno la falce in pugno.[36] 2] Gli abiti e gli uomini presto invecchiano. Gli abiti e i costumi sono mutabili. 4] Gli abiti sono freddi, ma ricevono il calore da chi li porta. 4] Gli amori nuovi fanno dimenticare i vecchi. 4] Gli eredi dell'avaro sono onnipotenti, perché possono risuscitare i morti. 4] Gli eretici rubano la parola di Dio. 4] Gli errori degli altri sono i nostri migliori maestri. 4] Gli errori non si conoscono finché non siano commessi. 4] Gli errori si pagano. 8] Gli estremi si toccano. 4] Gli idoli separano papa e imperatore. 4] Gli occhi s'hanno a toccare con le gomita. 91] Gli stolti fanno le feste e gli accorti se le godono. 116] Gli uccelli dalle stesse piume devono stare nello stesso nido. 8] Gli uomini onesti non temono né la luce, né il buio. 8] Gobba a ponente luna crescente, gobba a levante luna calante. 2] Gola degli adulatori, sepolcro aperto. 117] Gotta inossota, mai fi sanata. 118] Gran giustizia, grande offesa. 4] Grande amore, gran dolore. 8] Greco in mare, Greco in tavola, Greco non aver a far seco. 74] Gru e donne fan volentieri il nido in alto. 8] Guardalo, figlia, guardalo tutto, l'uomo senza denari com'è brutto. 4] Guardare e non toccare è una cosa da imparare. 2] Guardati da chi accende il fuoco e grida poi contro le fiamme. 4] Guardati da cane rabbioso e da uomo sospettoso. 8] Guardati da chi giura in coscienza. 8] Guardati da chi non ha cura della sua reputazione. 8] Guardati da chi ride e guarda da un'altra parte. 8] Guardati da tre cose: da cavallo focoso, da uomo infido e da donna svergognata. 8] Guardati da tutte quelle cose che possono nuocere all'anima e al corpo. 8] Guardati dai fanciulli che ascoltano: anche i piccoli vasi hanno orecchie. 8] Guardati dai matti, dagli ubriachi, dagli ipocriti e dai minchioni. 8] Guardati dai tumulti, e non sarai né testimonio né parte. 8] Guardati dal diffamare, perché le prove sono difficili. 8] Guardati dal vecchio turco e dal giovane serbo. 119] Guardati dall'ipocrisia, perché è una cattiva malattia. 8] Guardati dalla primavera di gennaio. 8] Guardati in tua vita di non dare a niun smentita. 8] Guerra, peste e carestia, vanno sempre in compagnia. 120] H Ha cento volte un uomo flemma e giudizio, alla centuna corre al precipizio. 65] Ha bel mentir chi vien da lontano. 76] Ha la giustizia in mano bilancia e spada, perché il giusto s'innalza e l'empio cada. 4] Ha più il ricco in un angolo, che il povero in tutta la casa. 8] Ha un buon sapore l'odore del guadagno. 4] Ha un coraggio da leone, quello che non fa violenza ai deboli. 8] Ho veduto assai volte un piccol male non rispettato, divenir mortale. 65] I I baci sono come le ciliegie: uno tira l'altro. 2] I cani abbaiano come sono nutriti. 4] I capponi sono buoni in tutte le stagioni. 8] I cattivi esempi si imitano facilmente, meno i buoni. 4] I debiti sono gli eredi più prossimi. 4] I denari del lotto se ne van di galoppo. 8] I denari servono al povero di beneficio, ed all'avaro di gran supplizio. 4] I desideri non riempiono il sacco. 4] I docili non hanno bisogno della verga. 8] I doni dei nemici sono pericolosi. 4] I fanciulli diventano uomini e le ragazze spose. 4] I fanciulli e gli ubriachi cadono nelle mani di Dio. 4] I figli dei gatti mangiano i topi. 8] I figli sono la ricchezza dei poveri. 18] I figli sono pezzi di cuore. 2] I fiori tanto profumano per i poveri come per i ricchi. 8] I frati non s'inchinano all'abate, ma al mazzo delle sue chiavi. 4] I gamberi son buoni nei mesi della erre. 8] I gatti e i veri uomini cadono sempre in piedi. 121] I genii si incontrano. 4] I genitori amano i figli, più che i figli i genitori. 4] I genovesi risparmiano anche sui numeri: li usano due volte.[37] 122] I giovani vogliono essere più accorti dei vecchi. 4] I giuramenti degli innamorati sono come quelli dei marinai. 4] I granchi son pieni quando la luna è tonda. 8] I guai della pentola li sa il mestolo che li rimescola. 8] I ladri grandi fanno impiccare i piccoli. 4] I loquaci e i vantatori son mal veduti da tutti. 8] I matti ed i fanciulli hanno un angelo dalla loro. 8] I matti fanno le feste ed i savi le godono. 4] I medici vogliono essere vecchi, i farmacisti ricchi ed i barbieri giovani. 4] "I miei datteri sono più dolci", dice il vischio che cresce sulla palma. 8] [wellerismo] I panni sporchi si lavano in casa. 123] I paperi vogliono portare a bere le oche. 4] I parenti sono come le scarpe: più sono stretti, più fanno male. 2] I pazzi crescono senza innaffiarli. 8] I pazzi e i fanciulli possono dire quello che vogliono. 8] I pazzi per lettera sono i maggiori pazzi. 124] I pazzi si conoscono dai gesti. 8] I peccati di gioventù si piangono in vecchiaia. 8] I poeti nascono, e gli oratori si formano. 8] I poveri cercano il mangiare per lo stomaco; e i ricchi lo stomaco per mangiare. 8] I poveri hanno la salute e i ricchi le medicine. 8] I pulci di vendemmia li tiene l'uomo e non le femmine. 125] I ricchi devono consolare i poveri. 8] I rimproveri del padre fanno più che le legnate della madre. 8] I soldi non fanno la felicità. 2] I veri amici sono come le mosche bianche. 4] Il bel tempo non viene mai a noia. 9] Il ben di un anno se ne va in una bestemmia. 4] Il ben fare non è mai tardo. 4] Il bisognino fa trottar la vecchia. 2] Il bue dice cornuto all'asino. 126] Il bue mangia il fieno perché si ricorda che è stato erba. 2] Il buon ordine è figlio del disordine. 8] Il buon nocchiero muta vela, ma non tramontana. 8] Il caffè deve essere caldo come l'inferno, nero come il diavolo, puro come un angelo e dolce come l'amore.[38] 127] Il caldo delle lenzuola non fa bollire la pentola. 128] Il cane che ho nutrito è quel che mi morde. 8] Il cane è il miglior amico dell'uomo. 2] Il cane pauroso abbaia più forte. 4] Il cane rode l'osso perché non può inghiottirlo. 4] Il coccodrillo mangia l'uomo e poi lo piange. 8] Il colombo che rimane in colombaia è al sicuro dal falco. 8] Il colore più caro agli ebrei è il giallo. 4] Il coraggio copre l'eroe meglio che lo scudo il codardo. 8] Il corpo e l'anima ridono a chi si alza di buon mattino. 8] Il corvo piange la pecora e poi la mangia. 117] Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio. 8] Il cuor magnanimo si piglia con poco amore, e il cuore dello stolto con poca adulazione. 8] Il cuore ha le sue ragioni e non intende ragione.[39] 129] Il dare è onore, il chiedere è dolore. 8] Il delitto non si deve tollerare, ma anche meno si deve approvare. 4] Il denaro è il nervo della guerra. 4] Il denaro può molto, ma l'amore può tutto. 4] Il diavolo ben si lascia pigliare per la coda, ma non se la lascia strappare. 4] Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. 1] Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge. 130] Il diavolo vuol farsi cappuccino. 2] Il diavolo vuol farsi santo. 2] Il domandare è senno, il rispondere è obbligo. 8] Il dono del cattivo è simile al suo padrone. 56] Il dubbio è padre del sapere. 4] Il fare insegna a fare. 4] Il fatto non si può disfare. 4] Il ferro di cavallo che risuona, ha bisogno di un chiodo. 8] Il ferro è duro, ma il fuoco lo rende morbido. 4] Il figlio al padre s'assomiglia, alla madre la figlia. 4] Il filo sottile facilmente si strappa. 4] Il fuoco che non mi scalda, non voglio che mi scotti. 4] Il fuoco che non mi brucia, non lo spengo. 4] Il gatto ama i pesci, ma non vuole bagnarsi le zampe. 131] Il gatto brontola sempre, anche quando gode. 8] Il gatto che si è bruciato, ha paura anche dell'acqua fredda. 121] Il gatto è una tigre domestica. 8] Il gatto lecca oggi, domani graffia. 132] Il gatto non è gatto se non è ladro. 133] Il gatto non ti accarezza, si accarezza vicino a te. 134] Il generoso non ha mai abbastanza denaro. 4] Il gentiluomo chiede solo il miele, ma la gentildonna vuol anche la cera. 8] Il gioco è bello quando dura poco. 2] Il gioco, il lotto, la donna e il fuoco non si contentan mai di poco. 8] Il giudizio è opera di Dio. 4] Il grano rado non fa vergogna all'aia. 135] Il Greco dice la verità solo una volta all'anno. 4] Il lamentarsi non riempie camera vuota. 8] Il lavorare senza pregare, è una botte senza vino, e oro senza splendore. 4] Il lavoro nobilita l'uomo. 136] Il letto si chiama rosa, se non si dorme si riposa. 137] Il lotto è la tassa degli imbecilli. 8] Il lotto è un inganno continuo. 8] Il lupo non caca agnelli. 2] Il lupo perde il pelo ma non il vizio.[40] 1] Il lupo quando acciuffa una pecora, ne guarda già un'altra. 4] Il magnanimo è superiore all'ingiuria, all'ingiustizia, al dolore. 8] Il magnanimo non ricorre all'astuzia. 8] Il male che non ha riparo è bene tenerlo nascosto. 4] Il male peggiore dei mali è il timore. 8] Il male viene in grandi quantità, e se ne va via a poco a poco. 4] Il matrimonio è la tomba dell'amore. 2] Il mattino ha l'oro in bocca. 138] Le ore del mattino hanno l'oro in bocca. 139] Il medico pietoso fa la piaga puzzolente. 140] Il medico pietoso fa la piaga verminosa. 140] Il meglio è nemico del bene. 1] Il merlo ingrassa in gabbia, il leone muore di rabbia. 8] Il miele non è fatto per gli asini. 4] Il miglior tiro ai dadi è non giocarli. 4] Il molto ringraziare significa chieder dell'altro. 8] Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone. 8] Il mulino di Dio macina piano ma sottile. 141] Il nano è piccolo anche se è sul campanile. 8] Il passato deve essere maestro dell'oggi. 4] Il passato non deve prendere a prestito dall'oggi. 4] Il peggior passo è quello dell'uscio. 2] Il pesce puzza dalla testa. 1] Il Piemonte è la sepoltura dei francesi. 8] Il poeta ben trova le palme, ma non i datteri. 8] Il politico bacia con la bocca, e tira calci con i piedi. 8] Il Portogallo[41] è piccolo, ma è un pezzo di zucchero. 8] Il povero non può e il ricco non vuole. 8] Il prete, dove mangia, vi canta. 142] Il prete vien cantando e va via zufolando. 143] Il prete vive ancor un anno dopo morte. 142] I suoi familiari continuano ad incassar per un anno i suoi redditi.[42] Il primo amore non si arrugginisce. 8] Il primo amore non si scorda mai. 8] Il primo anno ci si abbraccia, il secondo si fascia, il terzo anno si ha la malattia e la cattiva Pasqua. 4] Il puledro non va all'ambio, se la cavalla trotta. 144] Il ramo assomiglia al tronco. 4] Il ricco ha tanto bisogno del povero, quanto il povero del ricco. 8] Il ricco vive, il povero vivacchia. 8] Il ringraziare non fa male alla bocca. 8] Il ringraziare non paga debito. 8] Il riso abbonda sulla bocca degli stolti. 2] Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi. 145] Il riso nasce nell'acqua ma deve morire nel vino. 8] Il sapere è di tutti. 2] Il «se» e il «ma» sono due corbellerie da Adamo in qua. 4] Il silenzio è d'oro e la parola d'argento. 1] Il sospirar non vale. 8] Il superfluo del ricco è il necessario del povero. 8] Il tatto è tattica. 8] Il tatto è tutto. 8] Il tempo è denaro. 146] Il tempo è un gran medico. 147] Il tempo scopre tutto, perché è galantuomo. 147] Il tempo vola. 147] Il termine della notte è l'inizio del giorno. 8] Il timore fa trottare anche lo zoppo. 8] Il troppo gestire è da pazzi. 8] Il troppo tirare, l'arco fa spezzare. 4] Il turco ben può divenir un dotto, ma un uomo giammai. 119] Il ventre non ha orecchie. 2] Il vero infermo è quello che non vuol esser guarito. 8] Il vino al sapore, il pane al colore. 8] Il vino è buono per chi lo sa bere. 8] Il vino è forte ma il sonno lo vince, ma più forte d'ogni cosa è la donna. 8] Il vino è il latte dei vecchi. 8] Il vino è mezzo vitto. 8] Il vino fa ballare i vecchi. 8] Il vino la mattina è piombo, a mezzodì argento, la sera oro. 8] Impara a vivere lo sciocco a sue spese, il savio a quelle altrui. 4] Impara l'arte e mettila da parte. 1] In amore e in guerra niente regole. 8] In bocca chiusa non entran mosche. 2] In Campania si inganna persino il diavolo. 8] In casa del calzolaio non si hanno scarpe. 4] In cento libbre di legge, non v'è un'oncia di amore. 148] In chiesa coi santi e in taverna coi ghiottoni. 1] In compagnia prese moglie un frate. 1] In febbraio la beccaccia fa il nido. 8] In Lazio si nasce coi sassi in mano. 8] In lunghi viaggi anche la paglia pesa. 8] In paradiso non ci si va in carrozza. 141] In Sardegna non vi son serpenti, né in Piemonte bestemmie. 8] In tanta incostanza e quantità delle cose umane, nulla, se non quello che è passato, è sicuro. 4] In terra di ciechi, beato chi ha un occhio. 36] In terra di ladri, la valigia dinanzi. 8] In vaso mal lavato, il vino è tosto guastato. 8] Ingegno e capelli, crescono soltanto con gli anni. 4] Insieme non vanno la pudicizia e la beltà. 4] Inventare è poco, diffondere l'invenzione è tutto. 4] L L'abbaiare dei cani non arriva in cielo. 4] L'abbondanza non lascia dormire il ricco. 4] L'abete che fa ombra crede di fare frutti. 4] L'abete cresce in altezza, ma la felce cresce in larghezza. 4] L'abito non fa il monaco.[43] 2] L'abuso insegna il vero uso. 4] L'acqua cheta rovina i ponti. 2] L'acqua corre al mare. 149] L'acqua e il fuoco sono buoni servitori, ma cattivi padroni. 4] L'acqua fa male e il vino fa cantare. 8] L'acqua fa marcire i pali. 5] L'acqua fa venire i ranocchi in corpo. 150] L'acqua di maggio inganna il villano: par che non piova e si bagna il gabbano[44]. 2] L'acqua non è fatta per sposarsi. 9] L'allegria dei cattivi dura poco. 8] L'allegria è di ogni male il rimedio universale. 4] L'allegria è il balsamo della vita. 8] L'allegria fa campare, la passione fa crepare. 8] L'allegria piace anche a Dio. 8] L'allegria scaccia ogni male. 8] L'allodola vola in alto, ma fa il suo nido in terra. 8] L'altezza è mezza bellezza.[45] 2] L'ambizione e la vendetta muoiono sempre di fame. 4] L'ambizione è nemica della ragione. 4] L'amore di carnevale muore in quaresima. 8] L'amore è cieco. 2] L'amore è cieco, ma vede lontano. 8] L'amore fa passare il tempo e il tempo fa passare l'amore. 8] L'amore non è bello se non è litigarello. 103] L'amore non si misura a metri. 8] L'amore passa dentro la cruna di un ago. 8] L'amore quanto più è bestia, tanto più sublime. 32] L'amore scalda il cuore e l'ira fa il poeta. 8] L'amore senza baci è pane senza sale. 8] L'animo fa il nobile e non il sangue. 8] L'anno produce il raccolto, non il campo. 4] L'apparenza inganna. 1] L'appetito non vuol salsa. 151] L'appetito vien mangiando. 1] L'arancia la mattina è oro, il giorno argento, la sera è piombo. 2] Con riferimento a chi fa fatica a digerire le arance. L'arcobaleno la mattina bagna il becco della gallina; l'arcobaleno la sera buon tempo mena. 1] L'arte non ha maggior nemico dell'ignorante. 4] L'asino e il mulattiere non hanno lo stesso pensiero. 4] L'asino non conosce la coda, se non quando non l'ha più. 4] L'assai basta e il troppo guasta. 1] L'avaro in punto di morte rimpiange i soldi spesi per la bara. 8] L'avaro lascia eredi ridenti. 4] L'avaro non dorme. 4] L'avaro non vive, vegeta. 4] L'avversità che fiacca i cuori deboli, ingagliardisce le anime forti. 8] L'eccesso degli obblighi può fare perdere un amico. 4] L'eccesso della gioia divien tristezza, e l'eccesso del vino ubriachezza. 8] L'eccezione conferma la regola.[46] 1] L'eclissi di sole avviene di giorno e non di notte. 4] L'edera taciturna si arrampica in cima alla quercia. 4] L'elefante non cura il morso delle pulci. 8] L'elemosina non fa impoverire. 4] L'eloquenza del cattivo è falso acume. 8] L'Epifania tutte le feste porta via.[47] 1] L'erba del vicino è sempre più verde.[48] 152] L'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re. 2] L'erba che non voglio, cresce nell'orto. 4] L'erba non cresce sulla strada maestra. 4] L'eredità paterna ai paterni, la materna ai materni. 4] L'errore che si confessa è mezzo rimediato. 4] L'errore è un cocchiere che conduce sopra una falsa strada. 4] L'errore è umano, il perdono divino. 153] L'esercizio è buon maestro. 4] L'esperienza nel mondo conduce alla diffidenza, la diffidenza conduce al sospetto, il sospetto all'astuzia, l'astuzia alla malvagità e la malvagità a tutto. L'esperienza senza il sapere è meglio che il sapere senza sapienza. 70] L'estate ce la porta sant'Urbano e l'autunno san Bartolomeo. 4] L'estate davanti e l'inverno dietro. 4] L'estate di San Martino dura tre giorni e un pochinino.[49] 2] L'estate per chi lavora, l'inverno per chi dorme. 4] L'estate è una schiava, l'inverno un padrone. 4] L'estate per il povero è migliore dell'inverno. 4] L'eternità è una compera lunga. 4] L'eternità non ha capelli grigi. 4] L'eterno parlatore né ode né impara. 4] L'idolo si adora finché non è infranto. 4] L'ignorante ha le ali di un'aquila e gli occhi di un gufo. 4] L'inchiostro è il mio campo, su cui posso scrivere valorosamente; la penna, il mio aratro; le parole, la mia semente. 8] L'inchiostro è nero, e tinge le dita e la reputazione. 8] L'inferno e i tribunali son sempre aperti. 4] L'ingegno viene con gli anni, e se ne va con gli anni. 4] L'ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue. 8] L'ingratitudine è la mano sinistra dell'egoismo. 8] L'ingratitudine è un'amara radice da cui crescono amari frutti. 8] L'ingratitudine nuoce anche a chi non è reo. 8] L'ingratitudine taglia i nervi al beneficio. 8] L'intelletto è nella testa e non negli anni. 4] L'intelletto non viene mai prima degli anni. 4] L'interesse acceca anche i galantuomini. 8] L'inverno al fuoco e l'estate all'ombra. 4] L'invidia è annessa alla felicità. 4] L'invidia è un gufo che non può sopportare la luce della prosperità degli altri. 4] L'invidia è una bestia che rode le proprie gambe, quando non ha altro da rodere. 4] L'invidia somiglia alla gramigna, che mai non muore, e da per tutto alligna. 4] L'ipocrisia intasca il denaro, e la verità va mendica. 4] L'ira senza forza, non vale una scorza. 4] L'ira turba la mente e acceca la ragione. 4] L'Italia è il paese dove corre latte e miele. 4] L'Italia è un paradiso abitato da demoni. 4] L'Italia per nascervi, la Francia per viverci e la Spagna per morirvi. 4] L'occasione fa l'uomo ladro. 1] L'occhio del padrone ingrassa il cavallo. 1] L'oggi non deve calunniare il passato. 4] L'olivo benedetto vuol trovar pulito e netto.L'ombra di un principe dev'essere la liberalità. 4] L'ordine caccia il disordine. 8] L'ordine è pane, il disordine è fame. 8] L'orgoglio crede che il suo uovo abbia due tuorli. 8] L'orgoglio è stoltezza, l'umiltà è saviezza. 8] L'orgoglio fa colazione con l'abbondanza, pranza con la povertà e cena con la vergogna. 154] L'orologio dell'amore ritarda sempre. 8] L'ospite è come il pesce: dopo tre giorni puzza. 2] L'ospite e il pesce dopo tre dì rincresce. 1] L'ozio è il padre di tutti i vizi. 1] L'ozio in gioventù non è la via della virtù. 4] L'uguaglianza e misurar tutti con la stessa spanna, è la legge della morte. 8] L'umiliarsi è da saggio, l'avvilirsi è da bestia. 8] L'umiliazione va dietro al superbo. 8] L'umiltà è il miglior modo di evitare l'umiliazione. 8] L'umiltà è la corona di tutte le virtù. 8] L'umiltà è la madre dell'onore. 8] L'umiltà è una virtù che adorna tanto la vecchiaia, quanto la gioventù. 8] L'umiltà ottiene spesso più dell'alterigia. 8] L'umiltà sta bene a tutti. 8] L'umiltà sta bene con la castità. 8] L'unione fa la forza. 1] L'uomo avaro e l'occhio sono insaziabili. 4] L'uomo deve tenere aperta la bocca a lungo prima che c'entri un colombo arrostito. 4] L'uomo fu creato per lavorare, come l'uccello per volare. 4] L'uomo ordisce e la fortuna tesse. 1] L'uomo politico accende una candela a Dio e un'altra al diavolo. 8] L'uomo per la parola e il bue per le corna. 1] L'uomo propone e Dio dispone. 1] L'uomo propone e la donna dispone. 2] L'uomo si conosce al bicchiere. 4] L'uomo si giudica male dall'aspetto. 4] L'usura arricchisce, ma non dura. 8] L'usura è il miglior apostolo del diavolo. 8] L'usura è la figlia primogenita dell'avarizia. 8] L'usura è un assassinio. 8] L'usura è vietata da Dio. 8] L'usura veglia quando l'uomo dorme. 8] L'usuraio arricchisce col sudor dei poveri. 8] L'usuraio ha un torchio a sangue. 8] L'usuraio ingrassa andando a spasso. 8] La bestemmia gira gira torna addosso a chi la tira. 4] La buona cantina fa il buon vino. 8] La buona mamma fa la buona figlia. 4] La buona sorte ogni vile cuore fa forte. 8] La calma è la virtù dei forti. 2] La capacità si vede nelle difficoltà. 4] La carestia è il pane dell'usuraio. 4] La carne migliore è quella intorno all'osso. 4] La carne senz'osso non fa brodo. 4] La carrucola non frulla, se non è unta. 4] La cattiva sorte porta spesso buona sorte. 8] La cicala prima canta e poi muore. 8] La coda è la più lunga da scorticare. 1] La comodità fa l'uomo cattivo. 8] La compassione è la figlia dell'amore. 4] La concordia rende forti i deboli. 8] La contentezza viene dalle budella. 1] La corda troppo tesa si spezza. 1] La cupidigia rompe il sacco. 4] La dieta ogni mal quieta. 155] La difficoltà sta nell'iniziare. 4] La diffidenza aguzza gli occhi. La diffidenza è la morte dell'amore. 4] La diffidenza porta più avanti della fiducia. 4] La donna a 15 anni scherza, a 20 brilla, a 25 ama, a 30 brama, a 35 sente, a 40 vuole e a 50 paga. 8] La donna bisogna praticarla un giorno, un mese e un'estate per sapere che odore sa. 8] La donna buona vale una corona. 8] La donna deve avere tre m: matrona in strada, modesta in chiesa, massaia in casa. 8] La donna e l'orto vogliono un sol padrone. 8] La donna ha più capricci che ricci. 8] La donna oziosa non può essere virtuosa. 8] La donna per piccola che sia, vince il diavolo in furberia. 8] La donna più sciocca vale due uomini. 8] La donna troppo in vista, è di facile conquista. 8] La fame caccia il lupo dal bosco. 1] La fame caccia il lupo dalla tana. 4] La fame spinge il lupo nel villaggio. 4] La fame condisce tutte le vivande. 4] La fame non vede la muffa nel pane. 4] La fame è cattiva consigliera. 1] La fame, gran maestra, anche le bestie addestra. 4] La fame muta le fave in mandorle. 4] La farina del diavolo va tutta in crusca. 1] La fedeltà non è mai rimeritata abbastanza, e l'infedeltà mai abbastanza. 4] La femmina è cosa mobile per natura. 4] La fine della passione è il principio del pentimento. 129] La fortuna aiuta gli audaci. 2] La fortuna del savio ha per figliola la modestia. 8] La fortuna è cieca. 2] La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo. 108] La fretta fa rompere la pentola. 8] La fretta è una cattiva consigliera. 108] La furia non fu mai buona. 4] La gallina del vicino sembra un fagiano. 152] La gatta frettolosa fece i gattini ciechi. 1] La gatta grassa fa onore alla casa. 121] La gatta, mette il piede davanti alla vacca. 156] La gatta non s'accosta alla pentola che bolle. 38] La gatta vorrebbe mangiar pesci, ma non pescare. 157] La gelosia della moglie è la via al suo divorzio. 4] La gelosia è il peggiore di tutti i mali. 4] La gelosia è una passione che cerca avidamente quel che tormenta. 4] La generosità è un muro che non si può alzare più alto di quello che arrivano i materiali.La gente ricca alleva male i suoi cani, e la gente povera i suoi figlioli. La gente savia non si cura di quel che non può avere. 87] La gioventù fugge, e la bellezza sfiorisce. 4] La gioventù vuol fare il suo corso. 4] La lealtà se ne è andata dal mondo e la dirittura si è messa a dormire. 4] La lega fa forte i deboli. 4] La liberalità è un muro che non si deve rizzare più alto di quello che comportino i materiali. 4] La liberalità non sta nel dare molto, ma saggiamente. 4] La libertà del povero è di lasciarlo mendicare. 4] La libertà è da Dio; le libertà, dal diavolo. 4] La libertà è più cara degli occhi e della vita. 4] La libertà fila con le sue mani il filo della sua tenda. 4] La lingua batte dove il dente duole. 1] La lingua non ha osso e sa rompere il dosso. 4] La lingua spagnola è la più amabile; quando il diavolo tentò Eva, le parlo in spagnolo. 8] La lode propria puzza, quella degli amici zoppica. 4] La luna di gennaio è la luna del vino. 2] La luna è bugiarda: quando fa la C diminuisce, e quando fa la D cresce 158] La luna non cura l'abbaiar dei cani. 2] La luna regge il lume ai ladri. 158] La luna, se non riscalda, illumina. 158] La Lombardia è il giardino del mondo. 8] La madre del peggio è sempre incinta. 159] La madre degli imbecilli è sempre incinta. 160] La madre dei fessi è sempre incinta. 160] La magnificenza spesso copre la povertà. 4] La mala erba non muore mai. 1] La mala nuova la porta il vento. 1] La malerba cresce presto. 2] La malinconia e le cure fanno invecchiare anzitempo. 4] La mercanzia rara è meglio che buona. 8] La miglior difesa è l'attacco. 1] La minestra lunga sa di fumo. 8] La modestia è il dattero che matura raramente sull'albero della ricchezza. 8] La modestia è madre d'ogni creanza. 8] La moglie è la chiave di casa. 8] La morte ci rende uguali nella sepoltura, disuguali nell'eternità. 8] La necessità aguzza l'ingegno. 2] La necessità fa più ladri che galantuomini. 8] La notte è fatta per gli allocchi. 8] La notte porta consiglio. 1] La novella non è bella, se non c'è la giuntarella. 8] La pancia del buongustaio è il cimitero dei cibi buoni. 8] La parola del ricco è simile al sole, e quella del povero è simile al vapore. 8] La pazienza è la virtù dei forti. 9] La pazienza è una buon'erba, ma non nasce in tutti gli orti. 88] La pecora che se ne va sola, il lupo la mangia. 91] La peggio ruota è quella che stride. 8] La peggior carne da conoscere è quella dell'uomo. 4] La penitenza corre dietro al peccato. 8] La pentola vuota è quella che suona. 8] La pianta si conosce dal frutto. 1] La pigrizia e l'impudicizia sono sorelle. 8] La pittura è una poesia tacita, e la poesia una pittura loquace. 8] La più bell'ora per il mangiare è quella in cui si ha fame. 8] La polenta è utile per quattro cose: serve da minestra, serve da pane, sazia e scalda le mani. 8] La povertà è priva di molte cose, l'avarizia è priva di tutto. 56] La prima acqua è quella che bagna. 1] La prima gallina che canta ha fatto l'uovo. 108] La prima eredità al primo figlio, l'ultima eredità all'ultimo figlio. 4] La provvidenza quel che toglie rende. 4] La pulce che esce di dietro l'orecchio con il diavolo si consiglia. 8] La puttana e la lattuga una stagione dura. 8] La rana è usa ai pantani, se non ci va oggi ci andrà domani. 8] La rana non morde, perché non ha denti. 8] La rana, o salta o piscia, ma mai non sbrana. 8] La razza comincia dalla bocca. 8] La roba dei pazzi è la prima ad andarsene. 8] La ruota della fortuna gira. 4] La ruota della fortuna non è sempre una. 4] La scorza fa bella la castagna. 4] La scimmia è sempre scimmia, anche vestita di seta. 8] La semplicità senza accortezza è pura pazzia. 8] La sera leoni e la mattina coglioni. 2] La sorte è come ognuno se la fa. 8] La speranza è cattivo denaro. 161] La speranza è il pane dei poveri. 2] La speranza è il patrimonio dei poveri. 2] La speranza è il sogno dell'uomo desto. 2] La speranza è l'ultima a morire. 2] La speranza è la miglior consolazione nella miseria. 161] La speranza è la miglior musica del dolore. 161] La speranza è la ricchezza dei poveri. 2] La speranza è sempre verde. 2] La speranza è un balsamo per i cuor piagati. 161] La speranza è un sogno nella veglia. 2] La speranza infonde coraggio anche al codardo. 161] La speranza ingrandisce, l'esperienza rimpicciolisce. 57] La superbia è figlia dell'ignoranza. 1] La superbia mostra l'ignoranza. 162] La superbia va a cavallo e torna a piedi. 1] La terra è madre di tutti gli uomini ed anche sepoltura. 8] La troppa umiltà vien dalla superbia. 8] La vanagloria è un fiore che mai non porta frutta. 163] La vera libertà è non servire al vizio. 4] La verità è nel vino. 8] La verità viene sempre a galla. 2] La veste copre gran difetti. 55] La via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni. 1] La vipera morta non morde seno, ma pure fa male coll'odor del veleno. 8] La virtù sta nel mezzo.[51] 164] La vita è breve e l'arte è lunga.[52] 55] La vita è già mezzo trascorsa anziché si sappia che cosa sia. 165] La volpe si conosce dalla coda. 4] Lamentarsi, supplicare e bere acqua è lecito a tutti. 8] Latte e vino, tossico fino. 8] Lavora come se avessi a campare ognora, adora come avessi a morire allora. 4] Lavoro non ingrassò mai bue. 4] Le allegrezze non durano. 8] Le belle penne rendono bello l'uccello. 4] Le bellezze durano fino alle porte, la bontà fino alla morte. 4] Le braccia e le mani del povero appartengono al ricco. 8] Le bugie hanno le gambe corte. 1] Le bugie sono lo scudo degli uomini dappoco. 4] Le chiacchiere non fanno farina. 1] Le colombe che rimangono in colombaia, sono sicure dal nibbio. 8] Le cose lunghe diventano serpi. 1] Le cose lunghe prendono vizio. 1] Le dita della mano sono disuguali. 8] Le donne hanno lunghi i capelli e corti i cervelli. 4] Le donne hanno quattro malattie all'anno, e tre mesi dura ogni malanno. 8] Le bestie vanno trattate da bestie. 8] Le cattive nuove sono le prime ad arrivare. 8] Le cattive nuove volano. 1] Le chiavi ed i lucchetti non si fanno per le dita fidate. 8] Le disgrazie non vengono mai sole. 1] Le disgrazie sono come le ciliegie: una tira l'altra.[53] Le donne hanno lunghi i capelli e corti i cervelli. 166] Le donne hanno sette anime... e mezza. 8] Le donne ne sanno una più del diavolo. 2] Le donne piglian bene le pulci. 8] Le lacrime sono le armi delle donne. 4] Le leghe e le corde fradice non durano a lungo. 4] Le malattie ci dicono quel che siamo. 88] Le montagne stanno ferme, gli uomini s'incontrano. 167] Le ore del mattino hanno l'oro in bocca. 1] Le parole sono femmine e i fatti sono maschi. 1] Le piante che fruttano troppo presto, si seccano. 8] Le querce non fanno limoni. 2] Le ragazze sono d'oro, le sposate d'argento, le vedove di rame e le vecchie di latta. 8] Le rane han perso la coda perché non seppero chiedere aiuto. 8] Le rose cascano, le spine restano. 168] Le teste di legno fan sempre del chiasso. 55] Le Trentine vengono giù pollastre e se ne vanno sù galline. 8] Le vie della provvidenza sono infinite. 1] Le vie del Signore sono infinite. 1] Leggi, rileggi e pondera. 8] Lingua cheta e fatti parlanti. 4] Lo sbadiglio non vuol mentire: o che ha sonno o che vorrebbe dormire, o che ha qualche cosa che non può dire. 8] Lo scarafaggio corre sempre allo sterco. 8] Lo scimunito parla col dito. 8] Lo scorpione dorme sotto ogni lastra. 8] Lo smargiasso ciancia in guerra, il valente combatte muto. 8] Loda il gran campo e il piccolo coltiva. 169] Loda il monte e tieniti al piano. 2] Loda il pazzo e fallo saltare, se non è pazzo lo farai diventare. 8] Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. 170] Lontan dagli occhi, lontan dal cuore. 2] Luna di grappoli a gennaio luna di racimoli a febbraio.[54] 2] Lunga lingua, corta mano. 8] Lungo come la quaresima.[55] 2] Luglio dal gran caldo, bevi bene e batti saldo. 16] Lungo digiuno caccia la fame. 4] Lupo non mangia lupo. 2] M Ma in premio d'amore amor si rende. 33] Maggio ortolano, molta paglia e poco grano. 16] Maggiore il santo, maggiore la sua umiltà. 8] Mai gli uomini sanno essere abbastanza riconoscenti verso gli inventori. 4] Mal comune mezzo gaudio. 2] Mal può rendere ragion del proprio fatto chi lardo o pesce lascia in guardia al gatto. 65] Mal si giudica il cavallo dalla sella. 3] Male che si vuole non duole. 9] Male ignoto si teme doppiamente. 8] Male non fare, paura non avere. 2] Male voluto non fu mai troppo. 57] Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente. 8] Manca tanto la pazienza ai poveri, quanto la compassione ai ricchi. 8] Mangiar molto e far buona digestione, è un privilegio che han poche persone. 8] Mano dritta e bocca monda possono andare per tutto il mondo. 4] Marinaio genovese, mercante fiorentino. 8] Martello d'oro non rompe le porte del cielo. 47] Marzo è pazzo. 16] Marzo pazzerello guarda il sole e prendi l'ombrello. 2] Marzo molle, gran per le zolle. 16] Mazza e pane fanno i figli belli; pane senza mazza fa i figli pazzi. 171] Medico vecchio e chirurgo giovane. 172] Medico vecchio e medicina nuova. 2] Chirurgo giovane e medico anziano.[56] Mediocre bestiame ben pasciuto è di maggior vantaggio che molto bestiame mal mantenuto. 173] Meglio andare a letto senza cena, che alzarsi con debiti. 4] Meglio aperto rimprovero, che odio segreto. 8] Meglio dietro agli uccelli, che dietro ai signori. 8] Meglio essere ben educato, che nascere nobile. 4] Meglio essere invidiati che compatiti. 174] Meglio fare la serva in casa propria, che la padrona in casa altrui. 4] Meglio fave in libertà, che capponi in schiavitù. 8] Meglio fringuello in man che tordo in frasca. 2] Meglio fringuello in tasca che tordo in frasca. 2] Meglio il marito senz'amore, che con gelosia. 75] Meglio l'uovo oggi che la gallina domani. 1] Meglio mangiar carote in pace che molte pietanze in disunione. 8] Meglio mendicante che ignorante. 124] Meglio pane con amore, che gallina con dolore. 4] Meglio poco che niente. 1] Meglio soli che male accompagnati. 1] Meglio tardi che mai. 1] Meglio un asino vivo che un dottore morto. 1] Meglio un fiorino guadagnato, che cento ereditati. 4] Meglio un magro accordo che una grassa sentenza. 2] Meglio un morto in casa che un pisano all'uscio. 2] Meglio una festa che cento festicciole. 1] Meglio una volta arrossire che mille impallidire. 8] Meglio vivere ben che vivere a lungo. 64] Meno siamo meglio stiamo. 57] Mente lieta, vita quieta e moderata dieta. 2] Merito non conosciuto poco vale. 8] Milan può far, Milan può dir, ma non può far dell'acqua vin. 8] Mille errori sono più facilmente pronunciati che una verità. 4] Moglie e buoi dei paesi tuoi. 1] Donne e buoi dei paesi tuoi. 2] Mogli che non contraddicono e galline che facciano le uova d'oro, sono uccelli rari. 8] Moglie maglio. 1] Molte cose si giudicano impossibili a farsi prima che siano fatte. Molte mani fanno l'opera leggera. Molte paglie unite possono legare un elefante. 8] Molte volte la belleza più adorabile si unisce alla stupidaggine più insopportabile. Molte volte si perde per negligenza quello che si è guadagnato con giustizia. 4] Molti hanno buone carte in mano, ma non le sanno giocare. 4] Molti inventano oro con la bocca ed hanno piombo alle mani e ai piedi. 4] Molti parlano d'Orlando anche se non videro mai il suo brando. 8] Molti sfuggono alla pena, ma non ai rimorsi della coscienza. 8] Molti si immaginano di avere il pulcino, che non hanno ancora l'uovo. 4] Molti si lamentano del buon tempo. 8] Molti sono i verseggiatori, pochi i poeti. 8] Molti squartano un gatto e giurano che era un leone. 8] Molti voti fanno l'abate. 4] Molto denaro, molti amici. 4] Molto fumo e poco arrosto. 1] Molto può nuocere una piccola negligenza. 8] Morire di fame in una madia di pane. 4] Morta la serpe, spento il veleno. 8] Morto un papa se ne fa un altro. 1] Mulo buon mulo, ma cattiva bestia. 8] Muore il ricco, gli fanno il funerale; muore il povero, nessuno gli dice: vale. 8] Muove la coda il cane non per te, ma per il pane. 4] N Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Né col capretto né con l'agnello, si adopera il coltello. 8] Né di venere, né di marte non si sposa né si parte, né si dà principio all'arte. 2] Né donna né tela al lume di candela. 8] Ne uccide più la lingua che la spada. 2] Ne uccide più la gola che la spada. 2] Necessità fa legge e tribunale. 2] Negli ordini pari, i pareri sono dispari. 8] Nel bere e nel camminare si conoscono le donne. 8] Nel bosco tagliato non ci stanno assassini. 8] Nel dubbio astieniti. 2] Nel monte di Brianza, senza vin non si danza. 8] Nel paese degli zoppi, zoppicar non è vergogna. 8] Nel regno dei ciechi anche un orbo è re. 175] Nel regno dei ciechi anche un guercio è re. 175] Nel regno di Dio, poveri e ricchi sono uguali. 8] Nell'autunno non bisogna più sognare di rose e tulipani. 4] Nell'estate si deve pensare all'inverno, e nella gioventù alla vecchiaia. 4] Nell'eternità si arriva sempre in tempo. Nell'inverno il pazzo sogna rose, e nell'estate il savio le raccoglie. 4] Nella botte piccola c'è il buon vino. 8] Nella felicità ragione, nell'infelicità pazienza. 8] Nella gotta, il medico non vede gotta. 176] Nelle sventure si conosce l'amico. 1] Nessuna corona è più bella di quella dell'umiltà. 8] Nessuna fortezza è così salda che non si lasci conquistare dall'oro. 4] Nessuna ingiustizia rimane impunita. 4] Nessuna mela è così bella che non abbia qualche difetto. 4] Nessuna nuova, buona nuova. Nessuno è profeta in patria. Nessuno può dare quello che non ha. 4] Nessuno può difendersi dalla beffa. 4] Ne uccide più Bacco che Marte. 4] Neve di Dicembre dura fin che dura la brina. 8] Niente è più bello di una faccia allegra. 8] Niuna guardia è migliore di quella che una donna fa a se stessa. 4] Non accettare i rimproveri o consigli da chi educare non seppe i propri figli. Non aspettar che l'abete porti pomi. 4] Non basta esser galantuomo, bisogna anche esser conosciuto per tale. 8] Non bisogna fare il diavolo più nero di quello che è. 8] Non bisogna fasciarsi il capo prima di romperselo. 8] Non bisogna mai usare due pesi e due misure. 8] Non bisogna scuotere l'orzo dal sacco prima di avere il frumento. Non c'è alcuno così povero che non possa aiutare, né alcuno così ricco che non abbia bisogno d'aiuto. 8] Non c'è cosa più triste sulla terra dell'uomo ingrato.Non si muove foglia che Dio non voglia. Non c'è affanno senza danno. 4] Non c'è Carnevale senza luna di febbraio. Non c'è due senza tre. 1] Non c'è due senza tre e il quarto vien da sé. 2] Non c'è cosa così cattiva che non sia buona a qualche cosa. 4] Non c'è eretico che non abbia la sua credenza. 4] Non c'è fumo senza arrosto. 1] Non c'è gallina né gallinaccia che di gennaio l'uova non faccia. 2] Non c'è intoppo per avere, più che chiedere e temere. 178] Non c'è male senza bene. 4] Non c'è miglior cieco di quello che non vuole vedere. 4] Non c'è pane senza pena. 1] Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. 2] Non c'è regola senza eccezioni. 1] Non c'è rosa senza spine.Non cade foglia che Dio non voglia. 1] Non ci fu mai frettoloso che non fosse pazzo. 8] Non ci rimane nessuna vigna da vendemmiare, e né meno nessuna donna da maritare. 179] Non credere a donna, quand'anche sia morta. 4] Non destare il can che dorme. 1] Non dire quattro se non l'hai nel sacco. 2] Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco. 180] Non è arte il giocare, ma lo smettere. 4] Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace. 181] Non è bene esser poeta nel villaggio. 8] Non è bene riporre denaro in una cassa di cui non si ha la chiave. 4] Non è col dire "miel, miel," che la dolcezza viene in bocca. 117] Non è contento quel che si lamenta. 8] Non è in nessun luogo chi è in ogni luogo. 4] Non è mai gran gagliardia, senza un ramo di pazzia. 8] Non è povero, se non chi si crede tale. 8] Non è sempre savio chi non sa esser qualche volta pazzo. 8] Non è sì tristo cane, che non meni la coda. 182] Non è tutto oro quel che luccica. 183] Non è tutto oro quel che riluce. 183] Non esiste amore senza gelosia. 8] Non fa la stessa viva sensazione il solletico a tutte le persone. 8] Non facendo niente, più pena si sente. 4] Non far mai bene, non avrai mai male. 8] Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.[58] 2] Non fare il male ch'è peccato, non fare il bene ch'è sprecato. 1] Non fare il passo più lungo della gamba. 2] Non gira il corvo che non sia vicina la carogna. 8] Non lodare il bel giorno prima di sera. 4] Non mettere il carro davanti ai buoi. 184] Non mettere il rasoio in mano a un pazzo. 8] Non mettere un rasoio in mano a un pazzo. 185] Non mi morse mai scorpione, ch'io non mi medicassi col suo olio. 8] Non nominar la corda in casa dell'impiccato. 1] Non ogni abisso ha un parapetto. 4] Non ogni lettera va alla posta, non ogni domanda vuole risposta. 8] Non pensa il cuore quel che dice la bocca. 4] Non perde il cervello se non chi l'ha. 8] Non rimandare a domani quello che puoi fare oggi. 1] Non sempre va d'accordo la campana dell'orologio con la meridiana. 8] Non serve dire «Di tal acqua non berrò». 4] Non si campa d'aria. 4] Non si comincia bene se non dal cielo. 4] Non si dà fumo senza fuoco. 4] Non si entra in Paradiso a dispetto dei Santi. 1] Non si fa niente per niente. 1] Non si fan nozze coi fichi secchi. 186] Non si finisce mai di imparare. 4] Non si insegna a nuotare ai pesci. 4] Non si legge mai libro senza imparare qualcosa. 4] Non si possono cavar le castagne dal fuoco colla zampa del gatto. 187] Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. 1] Non si può bere e fischiare. 77] Non si sa mai per chi si lavora. 4] Non si sta mai tanto bene che non si possa star meglio, né tanto male che non si possa star meglio. 8] Non sono cacciatori tutti quelli che portano il fucile. 4] Non sono uguali tutti i giorni. 4] Non ti far povero a chi non ha da farti ricco. 8] Non ti fidar d'un tratto, di grazia o di bontà. 8] Non ti vantar farfalla, tuo padre era un bruco. 8] Non tutte le ciambelle riescono col buco. 1] Non tutte le lacrime vengono dal cuor. 4] Non tutti i matti rompono i piatti. 8] Non tutti i pazzi stanno al manicomio. 8] Non tutti possiamo abitare in piazza. 8] Non tutti sono ammalati quelli che sono in letto. 8] Non tutti sono infelici come credono. 8] Non tutti sono infermi quelli che gridano ahi! 8] Non tutti vedono la serpe che sta nascosta sotto l'erba. 4] Non tutto il male vien per nuocere. 2] Non v'è mai tanta pace in convento, come quando i frati portano tonache uguali. 8] Non vi è donna senza amore. 8] Non vi è inganno che non si vinca con l'inganno. 4] Non vi è lino senza resca, né donna senza pecca. 4] Non vi è nulla che ricercando non si possa penetrare. 4] Non vi è peggior burla che la vera. 4] Non vi fu mai gatta che non corresse ai topi. 8] Non vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso. 1] Non vo' dormire né fare la guardia. 4] Notte, amore e vino fanno spesso l'uomo meschino. 8] Novembre vinaio. 16] Nulla è così buono che a lungo andare non venga a noia. 8] Nuovo padrone, nuova legge. 58] Nutri il corvo e ti caverà gli occhi. 8] Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno. 8] O O taci, o di' cosa migliore del silenzio.[59] 8] Occhio che piange cuore che duole. 2] Occhio che piange cuore che sente. 2] Occhio non vede, cuore non duole. 2] Occhio per occhio, dente per dente.[60] 2] Olio di lucerna ogni mal governa. 2] Oggi a me domani a te. 2] Oggi allegria, domani malinconia. 8] Oggi creditore, domani debitore. 8] Oggi fresco e forte, domani nella morte. 8] Oggi in figura, domani in sepoltura. 8] Oggi in pace, domani in guerra. 8] Oggi mercante, domani mendicante. 8] Oggi pioggia e doman vento, tutto cambia in un momento. 8] Ogni Abele ha il suo Caino. 4] Ogni animale per non morir s'aiuta. 188] Ogni bel gioco dura poco. 1] Ogni bella scarpa diventa ciabatta, ogni bella donna diventa nonna. 8] Ogni bene infine svanisce, ma la fama non perisce. 4] Ogni cosa ch'è rara, suol essere più cara. 8] Ogni disuguaglianza, l'amore uguaglia. 4] Ogni erba si conosce dal seme. 4] Ogni fatica merita ricompensa. 4] Ogni gatta ha il suo febbraio. 8] Ogni giorno non è festa. 4] Ogni giorno non si fanno nozze. 4] Ogni grillo si crede cavallo. 8] Ogni lasciata è persa. 1] Ogni legno ha il suo tarlo. 1] Ogni lucciola non è un fuoco. 8] Ogni lumaca vede le corna delle altre. 189] Ogni matto fa il suo atto. 8] Ogni medaglia ha il suo rovescio. 1] Ogni pazzo vuol dar consiglio. 8] Ogni pelo ha la sua ombra. 4] Ogni popolo ha il governo che si merita. 190] Ogni promessa è debito. 1] Ogni rana si crede gran dama. 8] Ogni rana si crede una Diana. 8] Ogni scimmia trova belli i suoi scimmiotti. 8] Ogni serpe ha il suo veleno. 8] Ogni simile ama il suo simile. 1] Ogni uccello fa il suo verso. 8] Ogni uccello canta il suo verso. 191] Ognun patisce del suo mestiere. 192] Ognuno trascura per sé i godimenti dell'arte sua, quasi venutigli a noia perché ci ha guardato dentro: il cuoco non è mai ghiotto, il calzolaio va colle scarpe rotte. Ognun per sé e Dio per tutti. 1] Ognun vede le proprie oche come cigni. 8] Ognuno all'arte sua e il lupo alle pecore. 2] Ognuno ama sentirsi lodare. 4] Ognuno che ha un gran coltello, non è un boia. 4] Ognuno fa degli errori. 4] Ognuno faccia il suo mestiere. 2] Ognuno ha i suoi gusti. 193] Ognuno ha il suo affanno. 8] Ognuno ha la sua croce. 1] Ognuno tira l'acqua al suo mulino. 2] Orto, uomo morto. 169] Orzo e paglia fanno il caval da battaglia. 8] Ospite raro ospite caro. 1] Ottobre mostaio. 16] P Paese che vai usanza che trovi. 1] Paga il giusto per il peccatore. 1] Pancia affamata, vita disperata. 4] Pancia piena non crede a digiuno. 1] Pancia vuota non sente ragioni. 1] Parla all'amico come se ti avesse a diventar nemico. 8] Pane finché dura, vino con misura. 194] Parenti, amici, pioggia, dopo tre giorni vengono a noia. 8] Parenti serpenti. 1] Parenti serpenti, cugini assassini, fratelli coltelli. 2] Parere e non essere è come filare e non tessere. 2] Parlare francese come una vacca spagnola. 4] Passata la festa gabbato lo santo. 1] Passato il fiume scordato il santo. 4] Patti chiari, amici cari. 2] Patti chiari amicizia lunga. 2] Pazzi e buffoni hanno pari libertà. 8] Pazzo è colui che bada ai fatti altrui. 8] Pazzo è quel prete che biasima le sue reliquie. 195] Pazzo per natura, savio per scrittura. 8] Peccati vecchi, penitenza nuova. 8] Peccato celato è mezzo perdonato.[61] 196] Peccato confessato è mezzo perdonato. 8] Per amore anche una donna onesta, può perdere la testa. 8] Per chi vuol esser libero, non c'è catena che tenga. 8] Per essere amabili, bisogna amare. 9] Per fare l'elemosina non manca mai la borsa. 4] Per il galantuomo non ci sono leggi. 8] Per il saggio le lacrime delle donne sono come gocce salate. 4] Per imparare qualche cosa, non è mai troppo tardi. 4] Per l'abbondanza del cuore la bocca parla. 4] Per l'oro, l'abate vende il convento. 4] Per la santa Candelora[62] dell'inverno siamo fora, ma se piove o tira vento, dell'inverno siamo dentro. 2] Per la santa Candelora se tempesta o se gragnola dell'inverno siamo fora; ma se è sole o solicello siamo solo a mezzo inverno. 2] Per natura tutti gli uomini sono simili; per l'educazione diventano interamente diversi. 4] Per ogni civetta che si sente cantare sul tetto, non bisogna metter lutto. 8] Per quanto alletti la bellezza di un fiore, nessuno lo coglie se ha cattivo odore. 4] Per san Lorenzo la noce è fatta. 2] Per San Lorenzo la noce si spacca nel mezzo. 197] Per san Lorenzo piove dal cielo carbone ardente. 2] Per Santa Caterina [25 novembre], le bestie fuori dalla cascina. 198] Per trovare ingiustizie non occorrono lanterne. 4] Per un chiodo si perde un ferro, e per un ferro un cavallo. 8] Per un punto Martin perse la cappa.[63] 2] Per una scopa formano un mercato tre donne e assordan tutto il vicinato. 8] Perde le lacrime chi piange davanti al giudice. 4] Perdona a tutti, ma non a te. 199] Perdonare è da uomini, scordare è da bestie. 199] Pesce che va all'amo, cerca d'esser gramo. 8] Pianta a cui spesso si muta luogo, non prende vigore. 4] Piccola fiamma non fa gran luce. 8] Piccola pietra rovesciar può il carro. 8] Piccola scintilla può bruciar la villa. 8] Piccole ruote portano gran pesi. 8] Piccolo ago scioglie stretto nodo. 8] Piglia il bene quando viene, ed il male quando conviene. 8] Piove sempre sul bagnato. 2] Pisa, pesa per chi posa. 8] Più alta la condizione, più si deve essere umili. 8] Più briccone, più fortunato. 4] Più il fiume è profondo, più scorre il silenzio. 4] Più si chiacchiera, meno si ama. 8] Piuttosto un asino che porti, che un cavallo che butti in terra. 87] Poca brigata vita beata. 1] Poeta si nasce, oratori si diventa. 200] Poeti e Santi campano tutti quanti. 201] Poeti, pittori e pellegrini a fare e a dire sono indovini. 8] Polenta e latte bollito, in quattro salti è digerito. 8] Portare frasconi a Vallombrosa. 4] Prendi la bruna per amante e la bionda per moglie. 8] Preghiera di gatto e brontolio di pulce non arrivano in cielo. 131] Preghiera umile entra in cielo. 8] Presto e bene, raro avviene. 8] Prete spretato e cavolo riscaldato, non fu mai buono.[64] Prevedere per provvedere e prevenire. 202] Prima della morte non chiamare nessuno felice. 4] Prima di ammogliarsi bisogna fare il nido. 4] Prima di andare alla pesca esamina ben bene la tua rete. 8] Prima di domandare, pensa alla risposta. 203] Prima lusingare e poi graffiare, è arte dei gatti. 8] Prodigo e bevitor di vino, non fa né forno né mulino. 8] Pugliesi, cento per forca e un per paese. 8] Puoi ben drizzare il tenero virgulto, non l'albero già fatto adulto. 4] Putto in vino e donna in latino non fecero mai buon fine. 4] Q Qual proposta tal risposta. 1] Qualche intervallo il pazzo ha di saviezza, qualche intervallo il savio ha di stoltezza. 8] Qualche volta anche Omero sonnecchia. 204] Quale uccello, tale il nido. 205] Quand'anche si trapiantassero in paradiso, i cardi non porterebbero mai rose. 8] Quando arriva la gloria svanisce la memoria. 2] Quando c'è l'esercito, si trova anche il generale. 4] Quando c'è la salute c'è tutto. 57] Quando canta la rana, la pioggia non è lontana. 8] Quando ci sono molti galli a cantare non si fa mai giorno. 16] Quando è alta la passione, è bassa la ragione. 206] Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma. 8] Quando fischia l'orecchio dritto, il cuore è afflitto; quando il manco, il cuore è franco. 8] Quando gli eretici si accapigliano, la chiesa ha pace. 4] Quando il colombo ha il gozzo pieno, le vecce gli sembrano amare. 8] Quando il culo è avvezzo al peto non si può tenerlo cheto. 2] Quando il fanciullo è satollo anche il miele non ha più gusto. 4] Quando il fanciullo ha sette anni, la ragione spunta in lui. 207] Quando il gatto lecca il pelo viene acqua giù dal cielo. 38] Quando il gatto non c'è i topi ballano. 1] Quando il gatto non può arrivare al lardo dice che è rancido. 8] Quando il gatto si lecca e si sfrega le orecchie con la zampina, pioverà prima che sia mattina. 8] Quando il gozzo è pieno, le ciliegie sono acerbe. 8] Quando il grano ricasca, il contadino si rizza. 57] Quando il grano va a male, bisogna ringraziare Dio per la paglia. 8] Quando il lardo è divorato, poco val cacciare il gatto. 8] Quando il mandorlo non frutta, la semente ci va tutta. 8] Quando il padrone zoppica, il servo non va diritto. 8] Quando il sole splende, non ti curar della luna. 8] Quando il tempo è chiaro in autunno, vento nell'inverno. 4] Quando in autunno sono grassi i tassi e le lepri, l'inverno è rigoroso. 4] Quando l'amore è a pezzi non c'è alcuna colla che lo riappiccichi. 8] Quando l'angelo diventa diavolo, non c'è peggior diavolo. 4] Quando l'avaro muore, il danaro respira. 4] Quando l'Italia suona la chitarra, la Spagna le nacchere, la Francia il liuto, l'Irlanda l'arpa, la Germania la tromba, l'Inghilterra il violino, l'Olanda il tamburo, nulla è uguale ad esse. 8] Quando la barba fa bianchino, lascia la donna e tienti al vino. 208] Quando la cicala canta in settembre, non comprare gran da vendere. 8] Quando la fame entra dalla porta, l'amore esce dalla finestra. 8] Quando la grazia di Dio è nel cuore, gli occhi nuotano nell'allegria. 4] Quando la guerra comincia s'apre l'inferno. 4] Quando la neve si scioglie si scopre la mondezza. 1] Quando la pera è matura casca da sé. 1] Quando la pera è matura bisogna che caschi. 16] Quando la radice è tagliata, le foglie se ne vanno. 8] Quando la ragione dorme, il cuore scappuccia. 8] Quando la luna è bianca il tempo è bello; se è rossa, vuole dire vento; se pallida, pioggia. 4] Quando la rana canta il tempo cambia. 8] Quando non dice niente, non è dal savio il pazzo differente. 8] Quando non sai, frequenta in domandare. 209] Quando piove col sole le vecchie fanno l'amore. 1] Quando piove col sole il diavolo fa l'amore. 1] Quando piove col sole le streghe fanno l'amore. 2] Quando piove col sole si marita la volpe.[65] 2] Quando piove d'agosto, piove miele e mosto. 8] Quando si è in ballo bisogna ballare. 1] Quando si è patito si è inclini a compatire. 4] Quando si mangia non si parla. 57] Quando sono fidanzate hanno sette mani e una lingua, quando sono sposate hanno sette lingue e una mano. Quando un amico chiede, non v'è domani. 210] Quando un povero dà al ricco, Dio ride in cielo. 8] Quando una cosa è accaduta, poco vale lamentarsi. 8] Quando viene la forza, il diritto è morto. 4] Quanto più è alto il monte, tanto più profonda la valle. 4] Quanto più la rana si gonfia, più presto crepa. Quanto più se n'ha, tanto più se ne vorrebbe. 4] Quattro lumi non s'accendono. 2] Quattro nuove invenzioni vanta il mondo: scorticare senza coltello, arrostire senza fuoco, lavare senza sapone, e invece degli occhiali vedere attraverso le dita. 4] Quel ch'è innato per natura, si porta alla sepoltura. Quel ch'è raro, è stimato. 8] Quel che con l'acqua mischia e guasta il vino, merita di bere il mare a capo chino. 8] Quel che è disposto in cielo, conviene che sia. 4] Quel, che è fatto, è fatto, e non si può fare, che fatto non sia. 211] Quel che è fatto è reso. 2] Quel che non può l'ìngegno, può spesso la fortuna. Quel che non puoi pagare col denaro, pagalo almeno col ringraziamento. 8] Quel che è gioco per il forte per il debole è morte. 8] Quel che si dà al ricco, si ruba al povero. 8] Quel che si fa a fin di bene, non dispiace mai a Dio. 4] Quel che si fa all'oscuro, appare al sole. 4] Quel che supera il mio intelletto, lo lascio stare. 4] Quella bellezza l'uomo saggio apprezza che dura sempre, fino alla vecchiaia. 4] Quelli che hanno meno ingegno, ne hanno da vendere più degli altri. 4] Quello che abbaia è il cane sdentato. 4] Quello che deve durare per l'eternità non si deve scrivere con l'acqua. 4] Quello che è accaduto ieri, può accadere oggi. 4] Quello che è passato, è scordato. 4] Quello che ha da essere, sarà. 4] Quello che non avviene oggi, può avvenire domani. 4] Quello che non è stato può essere. 4] Quello che non può l'intelletto, può spesso il caso. 4] Quello che puoi fare oggi, non rimandarlo a domani. Quello che si dice all'eco nel bosco, il bosco lo ripete. 4] Quello che si impara in gioventù, non si dimentica mai più. 4] Quello che si usa non si scusa. 212] Quello è mio zio, che vuole il bene mio. 4] Quello è un fanciullo accorto che conosce suo padre. 4] Questo devi sapere che la gelosia di un Arabo è la stessa gelosia. 4] Quieta non muovere. 16] R Raglio d'asino non giunse mai al cielo. 2] Rana di palude sempre si salva. 8] Rane, malsane. 8] Render nuovi benefici all'ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi. 8] Ricchezza mal disposta a povertà s'accosta. 8] Ricchezze nell'India, sapere in Europa, e pompa fra gli ottomani. 8] Ricchi e poveri non portano che un lenzuolo all'altro mondo. 8] Ricco e grande fortuna potrà farti, ma mai il comune senso potrà darti. 4] Ricorda che il nemico può diventarti amico. 8] Ride ben chi ride ultimo. 2] Ride ben chi ride l'ultimo. 2] Roba calda il corpo non salda. 213] Roba d'altri, tutti scaltri. 4] Roma, a chi nulla in cent'anni, a chi molto in tre dì. 8] Roma non fu fatta in un giorno. 2] Roma santa, Aquila bella, Napoli galante. 214] Rosso di mattina, pioggia vicina. 215] Rosso di sera bel tempo si spera; rosso di mattina acqua vicina. 2] Rosso di sera, buon tempo si spera; rosso di mattina mal tempo si avvicina. 1] Rosso e giallaccio pare bello ad ogni faccia, verde e turchino si deve essere più che bellino. 216] Rovo, in buona terra covo. 169] S Salta chi può. 1] San Benedetto[66] la rondine sotto il tetto. 2] San Lorenzo dalla gran calura. 2] San Pietro abbracciato, Cristo negato. 4] San Silvestro [31 dicembre] l'oliva nel canestro. 2] Sangue giovane sempre spavaldo. 8] Sasso che rotola non fa muschio. 47] Pietra che rotola non fa muschio. 2] Sbagliando s'impara. 1] Scalda più l'amore che mille fuochi. 8] Scherza coi fanti e lascia stare i Santi. 1] Scherzando intorno al lume che t'invita, farfalla perderai l'ali e la vita. 65] Scherzo di mano, scherzo di villano. 1] Gioco di mano, gioco di villano. 1] Schiena di mulo, corso di barca, buon per chi n'accatta. 8] Scusa non richiesta, accusa manifesta.[67] 217] Se ari male, peggio mieterai. 47] Se fossero buoni i nipoti non si leverebbero dalla vigna. 218] Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse. 167] Se i gatti sapessero volare, le beccacce sarebbero rare. 131] Se il coltivatore non è più forte della su' terra questa finisce per divorarlo. 47] Se il ladro lasciasse il suo rubare, non ci sarebbero più forche. 4] Se il giovane sapesse di quanto ha bisogno la vecchiaia, chiuderebbe spesso la borsa. 4] Se il padre di famiglia è miope, i servi sono ciechi. 8] Se il piede destro è zoppo, Dio rafforza il sinistro. 8] Se il poeta s'erige a oratore predicherà agli orecchi e non al cuore. 8] Se il primo bottone hai fatto essere secondo, tutti sbagliati saranno da cima a fondo. 4] Se il re sputa sopra un abete si chiama subito abete reale. 4] Se il ricco conoscesse la fame del povero, gli darebbe del suo pane. 8] Se il ringraziare costasse denaro, molti se lo terrebbero in tasca. 8] Se il tuo gatto è ladro non scacciarlo di casa. 8] Se il virtuoso è povero, il lodarlo non basta; il dovere primo è d'aiutarlo. 8] Se la pazzia fosse dolore, in ogni casa si sentirebbe stridere. 8] Se le lattughe lasci in guardia alle oche, al ritorno ne troverai ben poche. 219] Se ne vanno gli amori e restano i dolori. 4] Se nessuno sa quel che sai, a nulla serve il tuo sapere. 8] Se non è zuppa è pan bagnato. 1] Se non hai mai rubato, la parola ladro non è per te un'ingiuria. 4] Se occhio non mira, cuor non sospira. 8] Se ognun spazzasse da casa sua, tutta la città sarebbe netta. 220] Se piovesse oro, la gente si stancherebbe a raccoglierlo. 8] Se son rose fioriranno. 1] Se ti vuoi nutrire bene, fai ballare i trentadue. 8] Se un fratello compie un omicidio, gli altri non sono responsabili. 4] Se vuoi che t'ami, fa' che ti brami. 8] Se vuoi portare l'uomo a incretinire, fallo ingelosire. 4] Segui il filo e troverai il gomitolo. 4] Senza denari non canta un cieco. 1] Senza denari non si canta messa. 1] Senza umiltà tutte le virtù sono vizi. 8] Sempre ti graffierà chi nacque gatto. 8] Senza umanità non vi è né virtù, né vero coraggio, né gloria durevole. 8] Seren d'inverno e nuvolo d'estate, non ti fidare. 4] Sette in un colpo! disse quel sarto che aveva ammazzato sette mosche. 8] [wellerismo] Settembre, l'uva è fatta e il fico pende. 16] Si bacia il fanciullo a causa della madre, e la madre a causa del fanciullo. 4] Si deve alzare di buon'ora chi vuol contentare i suoi vicini. 8] Si dice il peccato, ma non il peccatore. 2] Si mantiene un esercito per mille giorni, e non se ne fa uso che per un momento. 4] Si parla del diavolo e spuntano le corna. 130] Si può conoscere la tua opinione dal tuo sbadigliare. 8] Si può vivere senza fratelli ma non senza amici.[68] Si stava meglio quando si stava peggio.[69] 2] Sia l'astrologo che l'indovina ti portano alla rovina. 4] Sicuro come il pane. 4] Sin che si vive, s'impara sempre. 4] Sol gente di mal'affare, bestie e botte, van fuori di notte. 221] Son padrone del mondo oggi le donne e cedon toghe e spade a cuffie e gonne. 8] Sono meglio cento beffe che un danno. 4] Sono sempre gli stracci che vanno all'aria. 1] Sopra l'albero caduto ognuno corre a fare legna. 4] Sopra ogni vino, il greco è divino. 8] Sotto la neve pane, sotto l'acqua fame. 1] Spesso a chiaro mattino, v'è torbida sera. 222] Spesso chi commette un'ingiustizia, ne subisce una peggiore. 4] Spesso vince più l'umiltà che il ferro. 8] Sposa bagnata sposa fortunata. 223] Stretta la foglia, larga la via dite la vostra che ho detto la mia. 2] Larga la foglia, stretta la via dite la vostra che ho detto la mia. 2] Stringe più la camicia che la gonnella. 4] Studia non per sapere di più, ma per sapere meglio degli altri. 224] Studio in gioventù, onore alla vecchiaia. 4] Sulla pelle della serpe nessuno guarda alle macchie. 8] Superbia povera spiace anche al diavolo; umiltà ricca piace anche a Dio. 8] T T'annoia il tuo vicino? Prestagli uno zecchino. 4] Tagliare i capelli con la pentola. 225] Tagliarli male. Tal lascia l'arrosto che poi brama il fumo. 4] Tale padre, tale figlio.[70] 2] Tanti galli a cantar non fa mai giorno. 1] Tanti idoli, tanti templi. 4] Tanti pochi fanno un assai. 226] Tanto fumo e poco arrosto. 2] Tanto l'amore quanto il fuoco devono essere attizzati. 8] Tanto l'amore quanto la minestra di fagioli vogliono uno sfogo. 8] Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. 1] Tempo chiaro e dolce a capodanno, assicura bel tempo tutto l'anno. 8] Tenga bene a mente un bugiardo quando mente. 4] Tentar non nuoce. 1] Terra assai, terra poca. 169] Terra bianca, tosto stanca. 227] Terra coltivata raccolta sperata. 2] Terra nera buon grano mena. 2] Testa di lucertola, collo di gru, gambe di ragno, pancia di vacca, groppa di baldracca. 8] Testa di pazzo non incanutisce mai. 8] Tinca di maggio e luccio di settembre. 8] Tinca in camicia, luccio in pelliccia. 8] Tira più un pelo di fica che cento paia di buoi. 2] Tira più un capello di donna che cento paia di buoi. 8] Tolta la causa, cessato l'effetto. 8] Tondi l'agnello e lascia il porcello. 8] Torinesi e Monferrini, pane, vino e tamburini. 8] Tra cani non si mordono. 1] Tra i due litiganti il terzo gode. 1] Tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. 1] Tra l'incudine e il martello, mano non metta chi ha cervello. 4] Tra moglie e marito non mettere il dito. 1] Tradimento piace assai, traditor non piace mai. 148] Trattar male il povero è il disonor del ricco. 8] Tre cose cacciano l'uomo di casa: fumo, goccia e femmina arrabbiata. 4] Tre cose fanno l'uomo ammalato: amore, vino e bagno. 8] Tre cose simili: prete, avvocato e morte. Il prete toglie dal vivo e dal morto; l'avvocato vuol del diritto e del torto; e la morte vuole il debole e il forte. 142] Tre cose sono rare: un buon melone, un buon amico e una buona moglie. 8] Tre sono le meraviglie, Napoli, Roma e la faccia tua. 228] Trenta monaci e un abate non farebbero bere un asino per forza. 4] Triste e guai, chi crede troppo e chi non crede mai. 8] Triste quel cane che si lascia prendere la coda in mano. 8] Triste quell'estate, che ha saggina e rape. 8] Tromba di culo, sanità di corpo. 213] Troppa manna, nausea. 8] Troppa modestia è orgoglio mascherato. 8] Troppe soddisfazioni tolgono ogni voglia. 8] Troppi cuochi guastano la cucina. 1] Troppo povero e troppo ricco fa ugual disgrazia. 8] Tu scherzi col tuo gatto e l'accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi. 8] Turchi e Tartari, flagelli dei popoli. 229] Tutta la strada non fallisce il saggio che, accortosi a metà, corregge il viaggio. 4] Tutte le cose sono difficili prima di diventar facili. 70] Tutte le strade portano a Roma. 1] Tutte le volpi si ritrovano in pellicceria. 2] Tutte le volpi si rivedono in pellicceria. 2] Tutte le volte che si ride si toglie un chiodo dalla cassa. 230] Tutti del pazzo tronco abbiamo un ramo. 8] Tutti i fiumi vanno al mare. 1] Tutti i giorni sono buoni per andare a caccia. ma non per prendere uccelli. 4] Tutti i guai son guai, ma il guaio senza pane è il più grosso. 1] Tutti i gusti son gusti. 1] Tutti i mestieri danno il pane. 231] Tutti i nodi vengono al pettine. 1] Tutti i peccati mortali sono femmine. 8] Tutti i salmi finiscono in gloria. 1] Tutti siamo figli di Adamo ed Eva. 190] Tutto ciò che dura a lungo annoia. 8] Tutto è bene quel che finisce bene.[71] 1] Tutto il cervello non è in una testa. 4] Tutto il mondo è paese. Tutto quello che è bianco non è farina. 4] Tutto s'accomoda fuorché l'osso del collo. 31] U Uccellin che mette coda vuol mangiare a tutte l'ore. 2] Uccello raro ha nido raro. 8] Ucci ucci, sento odor di cristianucci. 2] Umiltà e cortesia adornano più di una veste tessuta d'oro. 8] Un bel tacer non fu mai scritto.[73] 2] Un'anima magnanima consulta le altre; un'anima volgare disprezza i consigli. 8] Un'oncia di allegria vale più di una libbra di tristezza. 232] Un'ora di contento sconta cent'anni di tormento. 233] Un abete non fa foresta. 4] Un bell'abito è una lettera di raccomandazione. 4] Un buon abate loda sempre il suo convento. 4] Un buon principio va sempre a buon fine. 4] Un cattivo libro ha spesso un buon titolo, ed una fronte onesta, un cervello ribaldo. 4] Un cuor magnanimo vuol sempre il bene, anche se il premio mai non ottiene. 8] Un esercito senza generale è come un corpo senz'anima. 4] Un fido amico, e ricchezze ben acquistate son due cose rare. 8] Un fratello aiuta l'altro. 4] Un granello fa traboccare la bilancia. 4] Un granello di polvere fa scoppiare tutta la bomba. 4] Un ladro non ruba sempre, ma bisogna guardarsi da lui. 4] Un lume è più presto spento che acceso. 4] Un male tira l'altro. 4] Un padre campa cento figli e cento figli non campano un padre. 2] Un pazzo ne fa cento. 8] Un piccolo buco fa affondare un gran bastimento. Un povero virtuoso val più di un ricco vizioso. 8] Una bella barba e un cuor valente adornano l'uomo. 4] Una bella giornata non fa estate. 4] Una bella lacrima trova facilmente un fazzoletto che la asciughi. 4] Una bugia ha bisogno di sette bugie. 4] Una buona risata si trasforma tutta in buon sangue. 232] Una ciliegia tira l'altra. 2] Una cosa tira l'altra. 16] Una estate vale più di dieci inverni. 4] Una parola tira l'altra. 2] Una e buona. 16] Una ma buona. 16] Una fa, due stentano, ma a tre ci vuol la serva. 8] Una Fenice fra le donne è quella, che altra donna confessa essere bella. 8] Una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso. 1] Una mela al giorno leva il medico di torno. 2] Una ne paga cento. 1] Una ne paga tutte. 1] Una rondine non fa primavera. 1] Un fiore non fa giardino. 4] Un fiore non fa primavera. 4] Una volta corre il cane e una volta la lepre. 1] Una volta per uno non fa male a nessuno. 1] Uno semina, l'altro raccoglie. 72] Uno si fa la sorte da sé, l'altro la riceve bell'e fatta. 8] Uomo a cavallo, sepoltura aperta. 2] Uomo avvisato mezzo salvato. 1] Uomo da nessuno invidiato, è uomo non fortunato. 4] Uomo di vino, non vale un quattrino. 8] Uomo morto non fa più guerra. 234] Uomo senza quattrini è un morto che cammina. 2] Uomo solitario, o angelo o demone. 235] Uomo zelante, uomo amante. 4] L'uomo misero è un morto che cammina. 2] Uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, donna di quindici e amici di trent'anni. 8] V Va' in piazza vedi e odi, torna a casa bevi e godi. 236] Va più di un asino al mercato. 4] Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti. 8] Val più una messa in vita che cento in morte. 4] Vale più la pratica che la grammatica. 1] Vale più un fatto che cento parole. 237] Vale più un gusto che un casale. 1] Vale più un testimone di vista che cento d'udito. 2] Vale più uno a fare. 16] Vanga e zappa non vuol digiuno. 47] Vanga piatta poco attacca, vanga ritta terra ricca, vanga sotto ricca il doppio. 2] Vecchi doni vogliono nuovi ringraziamenti. 8] Vecchiaia d'aquila, giovinezza d'allodola. 4] Vedere e non toccare è una cosa da crepare. 2] Vedere per credere. 238] Vento fresco mare crespo. 239] Ventre pieno non crede a digiuno. 16] Ventre vuoto non sente ragioni. 16] Vesti un legno, pare un regno. 41] Vi sono dei matti savi, e dei savi matti. 8] Vicino alla chiesa lontano da Dio. 2] Vicino alla serpe c'è il biacco. 8] Vigna nel sasso e orto in terren grasso. 240] Vincere un ambo al lotto è un malefizio, che più accresce la speranza al vizio. 8] Vino amaro, tienilo caro. 8] Vino battezzato non vale un fiato. 8] Vino battezzato, non va al palato. 8] Vino dentro, senno fuori. 8] Vino di fiasco la sera buono e la mattina guasto. 8] Vino e sdegno fan palese ogni disegno. 8] Vino non è buono che non rallegra l'uomo. 8] Violenza non dura a lungo. 241] Vivi e lascia vivere. 1] Vizio di natura fino alla fossa dura. 2] Vizio di natura, fino alla morte dura. 242] Voglia di lavorar saltami addosso, lavora tu per me che io non posso. 243] Voglio piuttosto un asino che mi porti, che un cavallo che mi getti in terra. 4] Volpe che dorme, ebreo che giura, donna che piange, malizie sopraffine colle frange. 4] Note  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Matteo, 6, 34.  La locuzione latina gutta cavat lapidem (letteralmente "la goccia perfora la pietra") venne utilizzata da Tito Lucrezio Caro, Publio Ovidio Nasone e Albio Tibullo. Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Titolo di un'opera di Achille Campanile del 1930, passato a proverbio e modo di dire comune.  Cfr. Petrarca: «La vita el fin, e 'l dí loda la sera».  Cfr. Giacomo Leopardi: «Amore, | amor, di nostra vita ultimo inganno, | t'abbandonava».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Giovanni Verga, I Malavoglia.  Slogan pubblicitario degli anni Ottanta.  Cfr. Gesù, Discorso della Montagna: «Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova».  Cfr. Gesù, Vangelo secondo Matteo: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Citato in Giovanni Battista Rossi, Conferenze popolari per gli uomini nel tempo degli esercizi spirituali, Tappi, Torino, Citato nel film Riso amaro.  Citato in Dizionario Italiano Olivetti, dizionario-italiano.it.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Libro di Osea: «E poiché hanno seminato vento | raccoglieranno tempesta».  Cfr. attribuite a Papa Bonifacio VIII: «Qui tacet, consentire videtur».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata.  Cfr. Cristoforo Poggiali, Proverbj, motti e sentenze ad uso ed istruzione del popolo: Chi dà a credenza, molte merci spaccia; | Ma un presto fallimento si procaccia».  Cfr. Appio Claudio Cieco, Sententiae: «Quisque faber fortunae suae.»  Cfr. voce dedicata.  La frase è attribuita (MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda0, Istorie fiorentine, II, 3; Giovanni Villani, Nuova Cronica, VI, 38) a Mosca dei Lamberti che a Firenze, convinse così gli Amidei a uccidere Buondelmonte de' Buondelmonti; dal delitto nacquero le fazioni dei guelfi e dei ghibellini. Citato anche nella Divina Commedia di Dante Alighieri (Inferno): Gridò: "Ricordera' ti anche del Mosca, | che disse, lasso!, 'Capo ha cosa fatta', | che fu mal seme per la gente tosca". È possibile che Mosca dei Lamberti adattò al momento un proverbio già noto ai suoi tempi (Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921); secondo l'Accademia della Crusca (Dizionario della lingua italiana) corrisponderebbe al latino «Factum infectum fieri nequit».  Cfr. Gesù, Vangelo secondo Matteo: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».  Cfr. voce dedicata.  Cfr. voce dedicata.  Cfr. Philippe Néricault Destouches, Le Glorieux, atto II, scena V: «La critique est aisée, et l'art est difficile.».  Cfr. «Facta lex inventa fraus.»  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Riferito all'uso di numeri civici di colore nero per le abitazioni e rosso per gli esercizi commerciali.  Cfr. Michail Aleksandrovič Bakunin: «Il caffè, per esser buono, deve essere nero come la notte, dolce come l'amore e caldo come l'inferno».  Cfr. Blaise Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Nei dialetti siciliani e nel napoletano l'arancia viene chiamata portogallo.  La spiegazione è in Strafforello.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Veste da lavoro usata, specialmente in Toscana, da contadini e operai.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata.  Cfr. voce dedicata.  Cfr. Ippocrate: «La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione è fugace, l'esperienza è fallace, il giudizio è difficile».  Citato in Dizionario Italiano, dizionario-italiano.it.  Cfr. voce dedicata Cfr. voce dedicata.  itato in Dizionario Italiano Olivetti.  Cfr. Gesù, Vangelo secondo Luca: «Nessun profeta è ben accetto in patria».  Cfr. Etica della reciprocità.  Cfr. anche Salvator Rosa, iscrizione riportato su un autoritratto: «Aut tace | aut loquere meliora | silentio.».  Questo detto, ripreso dal Libro dell'Esodo («occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido»), è chiamato Legge del taglione.  Il proverbio compare in una novella del Decameron di Giovanni Boccaccio (la quarta della prima giornata). Cfr. Focus storia in tale giorno la Chiesa cattolica celebra la presentazione al Tempio di Gesù (Luca), popolarmente chiamata festa della Candelora, perché in questo giorno si benedicono le candele, simbolo di Cristo. La festa è anche detta della Purificazione di Maria, perché, secondo l'usanza ebraica, una donna era considerata impura del sangue mestruale per un periodo di 40 giorni dopo il parto di un maschio e doveva andare al Tempio per purificarsi: il 2 febbraio cade appunto 40 giorni dopo il 25 dicembre.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Citato in Vocabolario degli accademici della Crusca, Tipografia Galileiana di M. Cellini e c., Firenze, Una leggenda simile esiste anche in Giappone: i demoni-volpe (le kitsune) preferirebbero celebrare i loro matrimoni sotto la pioggia mentre splende il sole; il regista Akira Kurosawa ne prese spunto per il primo episodio (Raggi di sole nella pioggia) del film Sogni prima della riforma del calendario liturgico Cfr. Proverbio latino medievale: Excusatio non petita, accusatio manifesta.  Citato in Macfarlane, Attribuita a Francesco Domenico Guerrazzi.  Cfr. Libro di Ezechiele: «Ecco, ogni esperto di proverbi dovrà dire questo proverbio a tuo riguardo: Quale la madre, tale la figlia».  Titolo di una commedia di Shakespeare.  Cfr. Petronio Arbitro, Satyricon, Cfr. Badoer: «Un bel tacer | mai scritto fu». Fonti  Citato ne Il nuovo Zingarelli.  Citato in Lapucci.  Citato in Carlo Volpini, proverbi sul cavallo, Cisalpino-Goliardica, Citato in Donato.  Citato in Max Pfister, Lessico etimologico italiano, Reichert, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Selene.  Citato in Marino Ferrini, I proverbi dei nonni, Il Leccio, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Vocabolario della lingua italiana.  Citato in Schwamenthal, Citato in Macfarlane, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, § 235.  Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Castagna Citato in Schwamenthal, Citato in Vezio Melegari, Manuale della barzelletta, Mondadori, Milano, Citato in Macfarlane, p. 352.  Citato in Francesco Protonotari, Nuova antologia di scienze, lettere ed arti, volume settimo, Direzione della nuova antologia, Firenze, Citato in Grisi, Citato in Daniela Schembri Volpe, 101 perché sulla storia di Torino che non puoi non sapere, Newton Compton Editori, Citato in Pescetti, Citato in Grisi, Citato in Paronuzzi, Citato in Schwamenthal, Citato in Giulio Franceschi, Proverbi e modi proverbiali italiani, Hoepli, Citato in Macfarlane, Citato in Grisi, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Schwamenthal, Citato in Volpini, Citato in Francesco Picchianti, Proverbi italiani, A. 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Massimo Baldini. Keywords: linguaggio, Campanellese, lingua utopica, fantaparola – phanta-parabola, il proverbio italiano, amici, implicatura proverbiale, proverbi romani, proverbi italiani, lezioni di filosofia del linguaggio, con D. Antiseri, indice, grice – filosofia analica, parte I: filosofia analitica Austin e Grice, parte II tipi di linguaggio.  baldini — implicatura proverbiale — i amici — das mystisch — filosofia italiana della moda maschile italiana — haircuts — journalese — journal of the Royal Association of Philosophy — lingua utopica — Campanellese — Empedocle filosofo poeta — Lucrezio filosofo poeta — Parmenide filosofo poeta — Eraclito l’oscuro — vallisneri — fantaparola — gargarismo — trabocchetta — rumore — ingorgo — aforismo — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baldini” – The Swimming-Pool Library. Baldini.

 

Luigi Speranza -- Grice e Baldinotti: all’isola – la scuola di Palermo -- filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Palermo). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Palermo, Sicilia. Grice: “I like Baldinotti; Speranza thinks he is a Griceian, just to oppose to the Italian received view that he is Lockeian! But I say, he is MORE than either! Baldinotti can quote from  Rousseau, and the French authors that Locke never cared about! And most importantly, he can SIMPLIFY and need not appeal to Anglo-Saxonisms as Locke does (what does it mean that a ‘word’ STANDS for ‘an idea’?” --.” Grice: “In fact, as Speranza showed at Oxford, one can organize a tutorial on the philosophy of language (he won’t though – he hardly organises!)  just using Balidonotti’s rough Latin of first chapter of ‘De vocibus’!”  “All the material I rely on in my Oxford 1948 talk on ‘meaning’ for the Philosophical Society can be found there: ‘vox’ significat affectus animae artificialiter, lachrymal significat affectum animae naturaliter --.” Grice: “Unless she is a crocodile, as Speranza remarks!” Tutore di metafisica nel ginnasio di Mantova, pavia, padova. Altre saggi: “De recta humanae mentis institutione”;  Historiae philosphica prima, et expeditissima adumbratio, Operationum mentis analysis . De elementis humanarum cognitionum -- de perceptione et ideas, earumque adnexis -- de idearum affectionibus, et in primis de realitate, abstractione, universalitate earumdem -- de simplicitate, compositione, relatione idearum -- de idearum clartitate, et distinctione, veritate, et perfectione, DE VOCIBUS, DE SYNONIMIS, ET INVERSIONIBUS, DE VARIETATE LINGUARUM, ET DE MUTUO VOCUM, ET IDEARUM IFLUXU, DE USU, ET ABUSU VERBORUM, DE VERBORUM INTERPRETATIONE, DE MULTIPLICITI SCRIBENDI RATIONE. De humana cognition. Humana cognitionis analysis, de PROPOSITIONIBUS -- de gradibus humana cognitionis -- De cognitione probabili -- De cognitionum realitate -- De extensione humanarum cognitionum -- De impedimentis humanarum cognitionum -- de humanarum cognitionum instrumentis --  De mentis magnitudine, et perspicacitate augenda -- De analysi, et definitione -- de ratiocinio et demonstratione -- De nonnullis argumentorum generibus -- De inductione et analogia -- De methodo generatim -- De methodo analytica -- De methodo synthetica -- De principiis -- De hypothesibus -- De ratione coniectandi probabilia -- De fontibus humanarum cognitionum -- de conscientia -- de ratione -- De concursu rationis, et revelationis -- De sensibus, deque recto eorum usu -- De cognitionibus, et erroribus sensuum -- De observatione, et experientia -- de auctoritate -- De testibus oculatis, et auritis -- De traditione et monumentis -- De historia -- De librorum authenticitate,sinceritate, suppositione, interpolatione, corruptione, et de interpretationibus -- de arte hermeneutica -- “Tentamen”; “De metaphysca generali liber unicum” De existente et possibili, et deiis, quae qua tenus tale est, ad utrumque pertinent -- De identitate, similitudine, distinctione -- De composito, simplici, uno -- De infinito. De spatio. De tempore. De causa. De non nullis impropriis causarum generibus. De Kantii philosophandi ratione et placitis, ut ad metaphysicam generalem referuntur. S. Gori Savellini, Cesare B. in "Dizionario Biografico degli Italiani", Istituto dell'Enciclpopedia Italiana, Roma. Troilo, Un maestro di Rosmini a Padova, Cesare B. in: "Memorie e documenti per la storia della Padova", Padova. Cesare B., Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. DE VOCIBUS. Voces nostrum studium,et operam expostulare,fuit iam suo loco observatum.Quae cum sint idearum nostrarum signa, horum tradenda prima divisio est', qua in naturalia, et artifi cialia distinguuntur. Signum naturale cum re significata habet nexum ex eius natura derivatum; artificiale vero ex hominum institutione, et arbitrio aliquam rem significat: lacrymae sunt doloris signum naturale, voces signum idearum artificiale. Non erit porro alienum de naturalibus signis advertere, homines non raro ad errorem trahi, dum ex illisrem significatam inferunt: sunt enim haec signa, vel effectus, qui caussas, vel caussae quae effectus indicant,ut in signis rerum futurarum. Iidem autem effectus nunc ab una,nunc ab alia caussa oriun tur;neceadem caussa eosdem semper effectusgignit; sed multa sunt, quae causarum actionem determinant, suspendunt, et etiam omnino mutant. Non igitur necessario, et semper SIGNUM NATURALE rem certam innuit; sed a multi spendet, quod eo una potius,quam alia ostendatur. SIGNA AFFECTUUM ANIMI SUNT NATURALIA. Eos tamen non semper denotant,et ille in perpetuo errore versaretur, qui de affectibus ex eorum signis statueret. Sed ad voces revertamur, quarum origo, indoles, vis, in ideas et mentis operationes, influxus, usus, abusus, interpretatio leviter attingenda. Quin imo Reid Rech. sur. l'Entend. arbitratur, eas, quas dicimus causas, esse tantum RERUM SIGNA.Videmus dumtaxat, quae dam hunc inter se nexum habere, ut si unum praecedat, aliud illico subsequatur. Id tantum statuere possumus; non vero in eo, quod prae cedit respectu illius, quod subsequitur, causalitatem, ut aiunt, inesse, cum haec nullaratione ostendatur. Inter eas quae non prorsus inutiliter attinguntur, commemorari possunt potissimum nominum divisiones, ad quarum normam nomen in enunciatione, vel est subiectum de quo aliquid effertur, vel est praedicatum quod effertur, vel est concretum, remque significat cum sua forma, vel est ab. Voces INSTITUTIONIS esse signa nempe ARTIFICIALIA, nec necessarium habere NEXUM CUM REBUS, ad evidentiam probantmuti, et linguarum varietas. Nam si haberent, organo tantum vocis impedito, sermonis nullus esset usus, et quae apud omnes eadem sunt, iis demetiam nominibus appellarentum. Mira autem est non rerum, sed verborum diversitas; et muti sunt ii, qui surditat elaborant. Nunc vero videamus, an facultates humanae vocibus AD RES SIGNIFICANDAS INSTITUENDIS sint pares. An videlicet possint homines linguam aliquam condere. Animi affectus, sensusque vividi doloris et voluptatis naturalibus quibusdam signis coniunguntur, iisdemque manifestantur: homines haec facile possunt artificialia reddere, sinempe observent affectus, quos indicant, nec ea tantum edant impellente natura, sed consulto, ut quae experiuntur, ceteris manifestent. Quae signa clamoribus non articulatis, habitu vultus, et gestibus continentur, atque actionis, quam vocant, linguam conficiunt. Usu autem constat facilem, expeditam secretam idearum COMMUNICATIONEM hac lingua non obtineri, distantia, et interposito corpore impediri. Sensim igitur ab ea recedere coguntur homines, ad eamque feruntur, quae vocis distinctionibus pititur. Hanc ut instituant clamores naturales in primis pro stractum solamque formam exprimit, vel est categorematicum quod solum et per se aliquid notat, vel est syncatagorematicum quod ab alio avulsum nihil certi repraesentat, vel categoricum quod rem categoria comprehensam obiicit. Sed de his satis, sapiens est non qui multa, sed qui utilia novit. Negat Lamy in Trat. de Ar. log.; et Rousseau disc. sur. l’ineg. parmi les Hom. parum abesse censet, quin demonstratum sit, fieri numquam posse, ut lingua ulla suam ab hominibus originem habeat. Ita etiam A. Encycl. A. lang. His e diametro se se oppouunt Epicurei, quorum hac super re doctrinam LUCREZIO (si veda) de Nat. rerum exposuit. Diodorus Siculus Bibl. quod nobis possibile, et hypotheticum est, factum habet, omnesque linguas humanum fuisse inventum putat. Nuperrime in Diss. de ling. orig. ab A. Berol. an. praemio donata Herder contendit linguas in universum non divinae, sed humanae prorsus esse institutionis. De hac lingua V. Condil. Gram. Sinensium lingua hanc videtur originem habuisse, ea constat ex monosyllabis., quae pronunciationo variata otficiunt SIGNA, (V. Condil. -- trahunt, et simul iungunt, rerum etiam externarum sonos referunt, et imitantur, unde voces oriuntur, quae elevatione et depressione multum distantes aliquo modo gestuum et clamorum vim exprimunt. Atque ita verborum dstinctioni consultum, quantum patitur vocis et auditus organum rude adhuc et inexercitatum. Subtilius, qui haec disputant, quorum etiam aures delicatiores, similitudinem quamdam inveniunt inter impressionem a rebus, et a verbis excitatam. Eamque prolatis ex. gr. vocibus "crux", "mel",  "vepres", "furens", "turbidus", "languidus" distincte sentiunt. Hinc multae voces. Multae etiam facultate, qua pollemus, per metaphoras sive transferentiam omnia explicandi, et associandi insensibiles ideas sensibilibus. Revera verba, quae res insensibiles referunt, metaphorica sive transrelata omnino sunt. Perpetuo autem usu nomina propria evasere, et vetustate multorum etymologia sensibilis ita evanuit, ut res pror sus in sua SPIRITUALITATE relinquant. Quin immo eadem verba solum confugiendo ad metaphoras sive transferentiam poterant fabricari. Externa namque forma carent, etsono res insensibiles, unde earum no mina desumantur. Ac certe per imagines solum et similitudines id, quod experimur, aliis, qui illud ipsum non experiuntur, possumus explicare. Traité des connois. hum.) Alii monosyllaba Sinensium numerant. Freret sur la lang, des Chin., et signa inde componunt 54509. et 80000. Haec loquendi ratio supponit iudicium aurium subtilissimum. SOAVE (si veda), Compendio di Lock. Ap. al c.I. Hoc facile sibi suadeat quisquis rerum, quae sonorae sunt, nomina advertat ex gr. "ululare", "hinnire", "sibilus", "tonitrus", "stridor", "murmur". Observat Warburthon Ess. sus les Hierogl. actionis lingua, inventis iam vocibus, homines usos fuisse, Orientales praesertim, quorum alacritas, et imaginatio vehemens hunc exitum etiam requirit. Atque exempla permulta ex historia tum sacra, tum profana hanc in rem profert. Ut recte nomina rebus IMPOSITA sint, quamdam esse debere rerum, et nominum convenientiam ex ipsa earumdem rerum natura ortam in Cratylo contendit Plato. Sunt enim, ait ipse, nomina IMITAMENTUM, quemadmodum etiam pictura, et qui rei speciem in litieras, ac syllabas referre nonnovit, is ineptus nominum opifexest. Erecentioribus Ioannes Baptista Vico, principii d'una scienza ec., de similitudine verborum cum forma rerum multis disseruit. Horum nominum exempla sint cogitatio, voluntas, desiderium, aliaque huiusmodi. V. Traité de la Formation mechan. etc. Ch.XII.  Quod vero homines, ut boc aliisque modis ad sermonem formandum aptisutantur, fortius incitat, indigentia est, maxima rerum omnium magistra. Sermonis etiam utilitas, atque necessitas vix paucis inventis vocibus sub oculos posita. Hinc multi conatus, ut verborum numerus augeatur, quos felices reddit cognitionum, et idearum COMMERCIUM homines inter initum. Haec enim se mutuo fovent, et,ut verba commercium illud amplificant, ita ex commercio novae vires additae, et nova suppeditata istrumenta, quibus ars faciendorum et deligendorum verborum perficiatur. Nec vero sunt verba hominum opus, in quo ipsi nihil aliud, quam arbitrium recte sequantur. Est enim illa analogia im pressionis, et soni imitatio, quam pulcherrime in fingendis vocibus sequimur. Est forma, et affectio orgaai vo eis, a qua earumdem elementa, literae praesertim vocales determinantnr. Sunt denique derivata, et voces artium, et technicae in hominum libertate haud repositae, cum illae derivationis naturam imitentur. Hac vero vim, et EFFECTUS RERUM SIGNIFICENT significent. Duo sunt, quae videntur iam asserta impugnare. Primum scilicet sermonis institutionem requirere, ut de significatu verborum conveniatur. Conveniri autem inter eos non posse, qui omni sermone destituti sunt. Quasi vero nulla alia praeter voces ratio suppetat. Qua explicetur quid ipsae SIGNIFICENT Percipi enim id. Modum transferendi verba necessitas genuit inopia coactaet augustiis, post autem delectatio iucunditasque celebravit. Cic. de Orat. III. 38. Notat et illuminat marime orationem tamquem stellis qui. busdam verbum translatum Idem ib. 48. Huc faciunt quae de linguarum analogia subtiliter disserunt Valcke naerius in observatt. academicis, Lennep inpraelett. academicis et Scheidius in orat. de linguarum analogia ex analogicis mentis actionibus probata. Sed est etiam unde moveantur homines ad res alias per multas metaphorice appellandas, eas scilicet quas primum obscure, et confuse percipiunt. Et enim has meditando earum quamdam similitudinem cum aliis distincte perceptis intelligunt, quorum proinde nomina ad illa transferunt. Atque in hoc mirifice dele ctantur luce, quae ex rebus claris, et distinctis in alias obscuras, et confusas diffunditur. potest ex circumstantiis, in quibus adhibentur, et ex gestibus, qui pronunciatis nominibus res indicarent. In eamdem etiam rem conferet illa imitatio, atque similitudo. Aliud vero erat huiusmodi. Summis viris difficultas maxima se semper obiecit in linguis ornandis, et perficiendis. Qui ergo fieri potuit, ut homines plane rudes, atque ferini, communione scilicet cum aliis non exculti ex integro sermonem con dant? Fieri istud quidem non posset, si de perfecto sermone contenderetur, in quo non tantum apte expressa, quae ad necessitatem pertinent, sed etiam, quae ad cultum vitae, et oblectationem. In quo multae orationis partes, multae leges syntaxis, et inflexionum, multa denique, ut numerus, et varietas obtineatur. Haec sermoni non absolute necessaria sunt, et vix nomina, utaiunt, substantiva, et signum aliquod numquam variatum ad verbum auxiliare sum exprimendum. Quae quidem hominis licet sylvestris facultates non superant. Multa in qualibet lingua videntur esse synonima, voces scilicet, quae unam, eamdemque ideam referunt. Dubitari autem iure potest, an revera sint. Quin potius statuerem ea, quae di cuntur synonima, eamdem ideam principalem reddere, accessoria vero differre plerumque. Atque hoc modo inter se differunt "amo", et "diligo"; "peto", et "postulo", "timeo", et "vereor" Condill. Gram. Traité de la form. mechan. du langage; Condillac Traité des connois. hum.; Grammaire, Maupertuis Diss.sur les moyens etc. pour exprimer leurs idées; Sulzer de l'influence recipr. de la raison, etc. extat in Ac. Ber. et Vol. IV. opusc. Select. Mediol. Soave Comp. etc. Ap. al C.I. Receptum apud logicos novimus, ut nomina tribuant in synonima, quae secundum unam eamdem que rationem de pluribus usurpantur, et in homonyma quae rationem naturamque diversam in iis SIGNIFICANT, de quibus adhibentur, Iam vero homonyma alia dicuntur casu et citra rationem ac temere im. Synonima stricto sensu accepta, quae nulla idea accessoria differrent, linguae vitium indicarent. D'Alemb. Elem. de Phil. XIII. Hac de re notandum est, vocibus duplicem illam ideam  subesse. Et, ut praeteream exempla, quis est, qui non noverit, vocabula quaeque loco, et tempori, et generi s u scepto orationis non convenire? Quod profecto maxime oritur ex idea accessoria, quae non solum verba eamdem principalem exprimentia distinguit, sed eorum etiam opportunitatem deter minat. Quae ergo synonima habentur, ea profecto non iure; namque discrepant accessoriis illis ideis, quae rerum diversos aspectus, gradus, et relationes, et adiuncta exprimunt. Imperiti haec apprime synonima reputant, quorum levia discrimina lin guarum cultores notant. In eo frequenter peccant ex lexicis pene omnia, quae adolescentes, misere decipiunt. Duplex distinguitur ordo verborum, et conformatio, naturalis, et artificialis; seu inversa. Porro quem ordinem habent ideae, idem etiam verborum est: ordo autem idearum, fertur ad modum, quo in mente sibi succedunt, vel ad earum dependentiam mutuam,ex qua fit, utaliaealias regant, et explicent, aliae explicentur, atque regantur. Si primum, ordo, quo exprimuntur ideae, naturalis erit, quando idem, ac ille, qui in earum successione servatur. Qui quidem in singulis diversus est. Si secundum, ut ordo sit naturalis, quae alias regunt, vel ab aliis explicantur praemittendae sunt. Quae reguntur, et alias explicant postponendae. Secus erit artificialis, seu inversus. Sed unde oritur, quod ordo inversus orationi vim addat,et siteius quasi lumen quoddam nosque voluptate perfundat? Scilicet posita, et alia dicuntur ratione, quod rebus tribuantur aliqua inter se similitudine cohaerentibus. Posteriora haec aptius vocantur analoga, sive attributionis, quum uni quidem rei primario conveniunt, reliquis secun dario,sive proportionis,quae pluribus rebus propter proportionem aliquam accommodantur. Ex  hoc fonte methaphorae pleraeque omnesdimanant. Nonnullarum rerum, atque actionum voces quaedam ex ideis hisce accessoriis inhonestae, et turpes evadunt; quae ideae si in aliis vocibus omittantur, vel mutentur,nulla amplius est turpitudo. Unde fit, quod eae. dem res, etverecunde, etobscoene dicifpossint,etquod ea,quae turpia re non sunt, nominibus, ac verbis flagitiosa ducamus. vel re. D'Alembert loc. cit. Traité de la form. mech. du lang. ch. IX n.161.  quia eum, quem Rethores MODUM appellant, et numerum parit; quia imaginationem exercet;quia ideas nimis disiunctas coniungit. Revera voces ordine inverso positas ad se mutuo referi m u s, ut postulat idearum ratio. Atque si in periodo multae sint ideae, quae a quadam principalipendeant, et exiis aliquaehuic praeponantur, postponantur vero aliae, arctius omnes cum ea coniunguntur. In quo nexu illud praesertim admirabile,quod uno verbo ad integram sententiam animus revocetur. ET IDEARUM INFLUXU. Varietatem linguarum,et nos ad confusionem Babylonicam referimus: simul autem liceat statuere,ex diverso hominum ingenio, et indole,eorumque externis circumstantiis oriri potuisse, et magna ex parte ortum esse,ut singulae suum -co lorem habeant. Ac ex confusione illa vocum origines potius, quam ipsaelinguae;quae perfici sensim debuerunt,etaugeri verborum copia, atque syntaxi, et inflexionibus moderari. Non una autem in hoc fuit omnium gentium ratio, quod multis causis tum physicis, cum moralibus tribuendum est. Atque inter eas recenserem caeli temperiem, non eamdem ubique faciem naturae, rerum aspectus multiplices, diversas opiniones sive ad civitatem sive ad religionem pertinentes, regiminis formam, educationem, mores denique et studia. Revera sermonis vis, copia,et harmonia, et inflexio nationum exprimit characterem,ingenium,atque culturam;ac eadem linguarum, et gentium fuere semper fata, et vicissitu dines. QUOD IN ROMANI IMPERII, ET LINGUAE LATINAE ORTU, progressu, et occasu velut sub oculos positum est. Iunctam, cohaerentem, levem, et aequabiliter fluentem orationem facit verborum collocatio. de Orat. D'Alembert Eclair cis. Condill. Gram.; Art.d'Ecrire; Traité de la form. mechan. etc.  INSTITUTIONE DE VARIETATE LINGUARUM, ET DE MUTUO VOCUM. Sed ex iisdem quoque caussis fit, ut nationes singulae suas habeant idearum compositiones, et vocibus, quibus aliae carent, utantur. Inde in interpretando necessitas verborum circuitum saepius adhibendi, cum non semper verbum e verbo exprimi possit. Indeadeo difficile, libros ex una in aliam linguam convertere. Atque in hoc lice tomnis cura, et studium ponatur, adeo singulis linguis suum quoddam inest ingenium, ut nullae fere sint interpretationes, quae authographi vim, et elegantiam, et nativum splendorem nequaquam desiderent. Quae quidem eo nos adducunt, ut intelligamus, quem dam esse posse sermonem, edisci, et percipi omnino facilem. Quem si universalem veluti linguam cunctae gentes amplecterentur, eo possent mutuum idearum, et cognitionum commercium inire. Ac difficultas, qua ab hoc impediuntur, ex lin guarum varietate, et multitudine orta, alia etiam ratione vinci posset, characteristicam nempe aliquam linguam adhibendo, quae res ipsas, non rerum voces exprimeret. De bac sermo erit inferius. Interim cum nullus ex hisce modis adhuc suppetat. Nec ulla spes sit, ut in unum, V. Clericum Art. Crit. Linguarum varietas non leve incommodum affert societati, et progressui scientiarum. Nec enim consultum, ut facile edisci possent, sed casu magna ex parte conditae, et procurata copia, et ornatus. Sublatis declinationibus, coniugationibus, et generibus, si substantiva unam immutabilem terminationem haberent, suam adiectiva, et verba pariter, quae adverbiorum ope temporibus, et modis distinguerentur. Pullae superessent regulae grammaticorum, et solius lexici auxilio linguam quam libet perciperemus. Cumque insuper esset prima illa lingua absurda, et egestate, atque uniformitatis squalore sordesceret. Maxime erit optandum, ut LATINI SERMONIS USU conservetur. Locupletissimus namque est hic sermo, electissimis, et praeclaris verbis abundat, communis hactenus fere fuit omnium eruditorum; qui eo abiecto, si suam singuli linguam in scribendo usurparent, iam, vel aliena omnia nescirent, vel in omnium gentium, quae doctrinae laude vel alium conveniant omnes. Splendescunt, perdiscendis linguis curam, et operam compellerentur insumere, quam ad rerum cognitionem adipiscendam con tulissent. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, satis ostendunt, easabideis, et cogitandi modo non parum pendere. Sed magnus etiam est verborum in ideas, et mentis operationes influxus. Atque in psychologia, si fortasse ad veritatem plane non sua detur, nullas fere absque verborum usu nos exequi posse. Illud profecto demonstratur, eo foveri multum, et perfici. Quod probari nunc potest exemplo mutorum. Earum etiam gentium, quibus signa numerica pro maioribus quantitatibus deficiant, cetera sint nimis composita. Illi quidem multis omnino ideis destituuntur, mentisque facultates obtusas habent, nec ad operandum faciles et expeditas. Hae vero gentes in rebus ARITHMETICIS ne vix quidem progressæ sunt. Tantum signa valent ad humanas cognitiones promovendas vel impediendas. Equidem arbitror, a veritate abesse longius, qui crederet verba communicationi cum aliis tantum inservire. Ea menti sistunt obiecta. Nimis composita dividunt. Si magnifica sint et nobilia, res amplificant, et extollunt. Si humilia, imminuunt, et deprimunt. Mosheim DISSERT. DE LINGUÆ LATINÆ CVLTVRA ET NECESSITATE V. etiam quæ nuperrime Ferrius, et Tiraboschius, Gorius, et VANNETTI (si veda) in eam habent Alamberti sententiam, Melang., statuentem bene LATINE scribi non posse, et LATINITATE abiecta studium omne ad patriam linguam transferentem. Refert Condaminius, quosdam Americæ populos, cum ocesnume rorum supra ternarium non habeant, in hoc arithmeticam eorum consistere: certevix paucis huiusmodi signis utuntur, iisque ad modum compositis, ex quofit, ut maiores numeros mente haud comprehendant, et quem libet ultra vicesimu in indefinite concipiant, atque capillorum numero comparent.V. De la Condamine Voy. Paw Rech. sur les Americ. Cogitatio, ait ACCADEMIA in Theæteto, est sermo,quem mens apud se volvit circa illa, quæ considerat. Cum enim cogitat, secum ipsa disserit adeo, ut cogitatio sit sine strepitu vocis oratio, aut interior collocutio. Verba sunt veluti signa algebrica idearum. Brevitati proinde consulunt, multarum idearum comparationem faciliorem reddunt, mentenique sublevant in consideratione multarum rerum, atque compositarum: quæ verborum utilitates maxime elucentin modorum mixtorum ideis, quas in nullo exemplari iunctas videmus, sed verbis exhibentur et comprehenduntur. Verba denique nexus inter ideas augent, eas facilius, et promptius exsuscitant, distinguunt, quæ vix confuse percipe rentur. Sic technicæ in arte pingendi voces omnia alicuius tabulæ vitia, omnemque præstantiam indicant. Quæ eos prorsus fugerent, qui illas voces nequaquam callerent. Quare scientiæ, omnesque artes multum debent verborum inventoribus, ut Linnæo Botanica; et Ontologia, licet nomenclatione tantum contineretur, non esset penitus contemnenda. De verborum usu, et abusu hæc fere a Lokio, aliisque melioris notæ Logicis accepimus. In primis duplicem esse usum verborum. Vel enim eo cogitationes nobiscum cooferimus, vel aliis exprimimus. Illum jam attigimus capite superiore, in quo osten debam, maximas utilitates ex hoc interno sermone profluere. Cum aliis autem utimur verbis,aut in vitæ civilis consuetudine,vel in studio Scientiarum. Inquo præsertim distinctioni, et perspicuitati. Ideæ in primis connexæ inter se sunt ex analogia rerum, et ex circumstantiis, in quibus acquiruntur. Sed insuper verbis etiam unæ cum aliis colligantur. Quot ideas unum verbum sæpius excitat? Atque ex verbis hæc alia utilitas provenit, ut in ideiş revocandis, et disponendis ordini, quo a nobis comparatæ fuere,non adstringamur, sed illum qui magis placeat, magisque conveniat iisdem tribuimus. Bonnet Ess. Analyt. Sulzer. Micheælis de l'influ. des opin. sur le lang. etc. Condil. Art. de penser; STELLINI OSSERVAZIONE SULLE LINGUE; Soave Comp. di Locke Iap. al cap. XI.  Scilicet, si circa ideas maxime compositas,  sertim versemus, iisdem nomina, quibus appellantur, substituimus. Nimis enimesset operosum, eetiam impossibile, omnes ideas simplices illas componentes mente revolvere. Quod etiam confusionem afferret, et, ne idearum relationes viderentur, obstaret. Hæc habitualis, non actualis distincta perceptio est idea coeca, et symbolica Leibnitii. circa notiones præ 1 litandum est, ne per se difficilia reddantur difficiliora. Et ne rerum INVESTIGATIONES in æternas quæstiones de nomine abeant. Locutionis perspicuitas, atque distinctio maxime optanda idearum claritatem, et distinctionem desiderat: quomodo enim, quæ confuse percipimus, aliis distincte explicarentur? ad eam confert brevitas, in qua tamen habendus modus;nam ut nimia verborum copia res obruit, ita eorum egestas tenebras rebus offundit. Denique cum iis, qui loquuntur confuse, vitanda fa miliaritas est,qua nihil fortius ad idem vitium contrahendum. Ita autem verbis utamur, ut unicuique idea determinata re spondeat;dequo,sinobiscum tantum colloquimur, nos ipsos debemus interrogare; si vero cum aliis,et dubium sit, an verba ideas claras,etdistinctas in aliorum mentem immittant, tunc ea dilucide explicanda sunt. Id quidem de nominibus idea rum simplicium præstari potest (vix autem erit necesse), si observanda proponantur obiecta,quæ significant,etmodus,et circumstantiæ indicentur, in quibus eorum ideæ acquiruntur. Nomina vero idearum, quæ sint compositæ, decla rantur earum obiectis exhibitis, et addita ipsorum definitione; nec enim omnia attributa patent sensibus, et multa indolem potentiæ habent. Quod si hæc obiecta non existant.Verborum universalium magnus est usus, et maxima utilitas; innumera enim individua una tantum voce comprehendi mus, quæ esset impossibile omnia suis nominibus distinguere. Esset etiam inutile, quia necii, quibus cum loquimur, multoque minus illi, quibus aliquid scriptum relinquimus, eadem indivi dua agnoscunt.  ergo. Sed quæ circa rectum verborum usum,et eorum inter pretationem, de qua inferius, præcipienda sunt, separari vix possunt ab idearum doctrina iam tradita; utrisque enim idem finis, avocationempe ab erroribus. Inter eætiam intimus nexus, quantus inter voces, et ideas. Nunc lum, quæ propius ad verba pertinent, quæque eo loci explicata non sunt. ne actum agam, so meratio idearum, quas simul reflexione, aut pro arbitrio con iunximus. fiat enu Vocibus demum abutimur, si quæ incertam significa tionem habent, non definiantur; si definitus sensus mPombaur. Si in rebus scientiarum artes consectemur oratorias. Namque delectant, et movent, mentemque avertunt a philosophico rerum examine,quas non accurate,sed ad similitudinem exprimunt. In verborum sensu commutando peccarunt vehementer scholastici. V. Gassendum in Exerc. Arist. Exerc. Hic cum Logicis fere omnibus non præcipio, abstinendum esse a tropis atque figuris:rebus enim permultis vocabula metaphorica necessario imposita sunt, aliis utiliter, cum ex iis orationi splen dor accedere videatur. Condil. Art. d' écrire. Translationes propter similitudinem transferunt animos,etre. Neque vero minor utilitas ex verbis notionum;.harum nullum archetypum extra nos invenitur iunctas exhibens ideas, ex quibus componuntur. Id vero præstant nomina, quæ illas comprehendunt. Sunt denique voces, quas particulas appellant Grammatici; his utimur, ut ideas, et periodi membra, et periodos ipsas interse coniungamus. Quisaneusus mirificus est, et ex eo maxime vis tota orationis derivat. Rectus erit,si m u tuam rerumdependentiam, et relationes diligenter consideremus.  Hæcdeusu. Nunc de abusu,quirestat,dicendumest. Iam vero abutimur verbis, si iis, nullam ideam, aut obscuram associemus, adeo ut inania sint, et ambigua: in quo non rarum estlabi;etmaxime verba notionum virtutis,honoris,et simi lium multo pluribus sunt meri soni; obiectum namque non referunt, quod sensus moveat, nec illud quod referunt in in fantia, percipimus. Hinc ea absque ulla significatione usurpandi longam consuetudinem iam contraximus, a qua ut reMilanius, reflexione vehementer nitendum est. Sed abusus verborum etiam ex ignorantia, et malitia. Scilicet, qui partium studio, vel anticipata opinione moventur. Qui vulgo avent imponere. Qui difficultatum pondere hærent et idearum defectu impediuntur. Tunc enim vero ii obscuritatem affectant, verbis inanibus se se involvunt, nova etiam fundunt, atque sesquipedalia. Optimum ergo erit, mentem parumper a verbis abstrabere, eamque in ideas intendere, ne verborum so nitu hallucinemur. Ut verba recte interpretemur, advertendum in primis, notiones eius, a quo adhibentur,'significare. Non igitur suppo natur, omnes iisdem verbis adnectere easdem ideas, et ipsis rerum realitatem apprime respondere. Quæ qui supponunt, de rebus perperam ex verbis iudicant, et ex propriis aliorum ideas non bene copiiciunt. Hisce per summa capita indicatis, advertam in primis, duplicem distingui sensum verborum, proprium scilicet,et tran slatum;namque verba,aut illam rem exprimunt,cui primum fuere assignata. Vel ex quadam similitudine cum re ipsis propria eadem verba ad aliam significandam transferimus. Quod si fiat, sensum habent translatum, secus autem proprium. Nisi quis sensum proprium alicuius vocabuli accurate perceperit, numquam fieri poterit, ut translatum assequatur; hic siquidem ad illum refertur. Rerum præterea conditionem inspiciet,ex qua oritur, ut quædam voces potius, quam aliæ, ad res sensu translato exprimendas, electæ fuerint. Inde clarius is sensus patebit ferunt, ac movent huc, et illuc, qui motus cogitationis celeriter agi tatus per se ipse delectat. de Orat. Translatio est, cum verbum in quamdam rem transfertur ex alia; quod propter similitudinem recte videturposse transferri. Cic. ad Heren.; Alembert Eclaircis., sur les Elém. de phil. Quam vero quisque vocibus notionem subiicit, arguere tuto possumus, si multa nobis nota sint, eaque invicem conferamus; loquentis scilicet ingenium,et characterem; affectus, oris habitum; linguæ, quautitur, vim, etindolem; rem,quam tractat; circumstantias, in quibus versatur; opiniones, religionem, quam sequitur;demum popularium eiusmores, ritus, consuetudines. Haac enim omnia efficiunt, ut licet verba sint eadem, non tamen eumdem significatum, eamdemque vim habeant. Nunc vero singula verborum genera persequar, deque  Difficilius assequimur sensum verborum, quæ notionibus respondent; siquidem præter caussas nominibus rerum existentium communes, peculiares etiam concurrunt, ex quibus efficitur, ut singuli fere has ideas diverso modo componant. Nec eadem semper significatio est vocibus orationis par ticulas exprimentibus; loquentium igitur, vel scribentium affe ctus, et præcipue contextus consulatur,cum ex iis sit dedu cenda. De nominibus relativis, quid advertendum in præsen tiarum,ut recte explicentur? Porro id muneris iam explevi dum agebam de eiusdem generis ideis. Quid de nominibus uni versalibus,quod paritereoloci, traditum non sit? Illud subiungam,voces particulares,aliquis,quidem etc. obscuras esse et indeterminatas, nec denotare, quæ, et quanta subiecta sint; universales vero aliquando particulariter esse sumendas, aliquando non omnia individua generum,sed individuorum omnia  siores esse, iisnonnulla admoneam,ad quæ semper in eorum interpretatione spectemus. Qualitatum sensibilium nomina, colorum nempe, saporum, aliarumque huiuscemodi, sensationum etiam doloris, et voluptatis, non ita accipienda sunt, quasi explicent id, quod est in rebus extranos positis. Nostras affectiones, sensationesque upice indicant, nec vero vim,et quantitatem earumdem. Hanc experimur, non autem accurate possumus efferre. Fit autem sæ pius,ut in singulis maior,vel minor multiplici gradu sit. Dubitari quidem potest,quin ipsæ sensationes apud aliquos prorsus differant, licet omnes iisdem verbis utantur. Omnes arborum folia viridia appellant; sed adhuc videndum, utrum hæc vox eamdem omnibus ideam excitet. Quam dubitationem ingerit di versa corporis temperies, et habitus, nec eadem omnino fabrica sensuum;unde certo oritur,affectiones easdem aliquibus inten aliis languidiores. Nomina idearum compositarum non idem apud omnes. Maxime si veteres cum recentioribus confe rantur.Ne eas igitur ex nostris notionibus interpretemur, sed ex illis quæ ampliores fortasse, vel angustiores. Nominibus substantiarum easdem qualitates non omnes complectimur. Nulli essentiam primariam,a qua eæ nascuntur,et quam nemo novit.   genera significare. Quæ quidem ex circumstantiis, linguarum indole, ingenio, loquendi consuetudine patent dilucide. His fere,quæ adhuc de vocibus disserebam, continentur potiora,ex quibus Grammatica philosophica conficitur: linguarum singulæ suam habent, eaque particularis Grammatica dicitur. Est vero etiam Grammatica universalis,quæ principia constituit omnibus linguis communia. Notandum superest,syntaxim totam legibus concordantiæ, et regiminis moderari. Illæ principio identitatis, hæ principio diversitatis innituntur. Verborum disputatio manca videretur, si de scribendi rationibus haudquaquam dissererem. Non igitur una fuit hæc ratio apud omnes,nec omnibus temporibus;tamen in eo con veniebant, quod signis non ore,sed manu expressis,quæ mente revolvimus, manifestarent. Ac, quæ fuere adhibitæ, pictura, symbolis allegoricis, denique signis arbitrariis continentur. Pictura, aut unam figuram, aut plures exhibet, signa arbitraria, aut ideas,aut syllabas,aut litteras verborum significant. Scripturæ, licet ab ea, qua nunc omnes fere gentes utuntur, longe dissimilis,specimen aliquod hominibus innotuit per imagines, quæ sui res exhibent, et quas conamur exprimere gestibus, et clamoribus, ut iis longinqua designemus. Ad has imagines adumbrandas urgebat necessitas communicandi cum absentibus, et præsentibus explicandi id, quod verbis efferri non poterat. Inde scripturæ origo potius, quam ex cura committendi nostras cognitiones posteritati. Ac homines ex rerumimaginibusidconsiliicepisse,ut illas ad suos cogitationes enuntiandas delinearent, omnium pene De usu, abusu, interpretatione verborum videantur Locke Ess, etc. Leibnitz Nouv. Ess, etc. Clericus art.crit., Du Marsais princip. de gram. Condillac gram. D'Alembert Elem.de Phil. et Eclaircis. sur les Elem. etc, Hinc sensim crescere CONVENTIONIS SIGNA, etomniatan. dem huiusmodi evadere. Quae sola notiones reflexione perceptas possunt exprimere;quae ob multos rerum aspectus sunt neces saria. Namque notiones illae nullam imaginem praeseferunt, nec ulla imago diversas relationes comprehendit, sub quibus res, ut lubet, consideramus. Signa autem, quae ex CONVENTIONES sunt, optime quidem ab eo constituta fuissent, qui singula singulis ideis simplicibus destinasset, suaideis universalibus, aliademum determinationibus individua constituentibus. Enim vero simul iungendo, et apte componendo haec signa, res omnes possent distincte explicari. Hoc scribendi modo philosophus tantum uti potest, nempe ille solus, qui probe noverit, quaenam ideae simplices illas substantiarum, et notionum componant. Quique etiam adeo individua observaverit, ut ea possit plane describere. Illum Paw Recher. sur les Americ. Quemadmodum artis typographicae occasio fuit ars caelatoria et sculptoria, ita occasio scripturae non inepte ex pictura derivatur. Praesertim quum non aliter pictura sit obiectorum in oculos incurrentium scriptura, quam scriptură sit obiectorum quae aures feriunt pictura. Videsis Augustum Heumannum in conspectu reipublicae literariae Signa huiusmodi spectant ad linguae universalis institutionem. Alia ratio, qua ad eamdem possumus pervenire, indicata, vix est N. LXXII., LXXXII. V. Soave Comp. di Locke, qui etiam celebriores scriptores recenset, a quibus ea institutio suscepta fuit. Leibnitii historiam, et commend. characteristicae linguae univers. Traité de la Form. etc. Mémoires de l'Acad.de Berl., ibi Thiebault videtur succensere Michaelis, et non ita difficilem, nec vero inutilem, et multo minus perniciosam, quemadmodum ille, censet linguae universalis institutionem, quae primo illo modo conti. neretur. Sepositis iis,quae de universali lingua instituenda excogitari subti.  vetustarum nationum monumenta, et gentium sylvestrium usus confirmant. Quae scribendi ratio picturae affinis, cum auctis cogni tionibus, relationibus, et indigentiis ad omnia exprimenda non non satis esset apta, paulatim a signis discessum est rerum i m a ginem referentibus, et huius pars tantum depicta, et plures ideae uno signo manifestatae. nenses adhibent; proindeque mirum non est, si tanti apud illos sit literas scire. Quae difficultas effecit, ut nationes pene omnes eum scribendi m o d u m probaverint, quo non obiecta, non ideas, sed sonos verborum reddunt; ad quem duplici via perveniri posse declarabam liter possent, splendideque proponi; multo fuerit satius consilio adquie scere Ludovici Vivis, cuius haec sunt (De tradendis disciplinis lib.III. verba. Sacrarium est eruditionis lingua,et sive quid recondendum est,sive promendum velut proma quaedam conda.Et quando aerarium est eruditionis, ac instrumentum societatis hominum,e re esset generis humani unam esse linguam, qua omnes nationes communiter ute rentur: si perfici hoc non posset, saltem qua gentes ac nationes plurimae, certe qua nos christiani initiati eisdem sacris, et ad commercia et ad peritiam rerumpropagandam. Peccati enim poenaesttot esse linguas. Eam vero ipsam linguam oporteret esse cum suavem, tum etiam doctam et facundam. Suavitas est in sono sivé simplicium verborum ac separatorum, sive coniunctorum. Doctrina est in apta proprietate appellandarum rerum. Facundia in verborum et formularum varietate ac copia. Quae omnia effi cerent, ut libenter ea loquerentur homines,et aptissime possent explicare quae sentirent, multumque per eam accresceret iudicii. Talis videtur mihi latina lingua ex iis certe quas homines usurpant, quaeque nobis sunt cognitae. Quod continuo diligenter, ostendit, eaque tradit quae merito cum disputatione componantur ab Aloisio Lanzio libris inscriptionum et carminum praefixa. Sinensium alphabetum Typographicum ex 50000. signis constat. V. Mémoir, concernant l'histoire etc. des Chinois parles mission. tom.X1., Mopertuis ius auget ad 80000. Iaponenses, licetomnino diversa linguautan tur, quae tamen Sinenses literis consignant,probe intelligunt; adeo verum est haec signa non rerum voces, sed earum conceptus delineare. V. Marpertuis loc. Iam. cit. Cesare Baldinotti. Keywords: signum, genere, segno, genere, segno naturale, lacrima, segno artificiale, ‘homo’, conventione, imposizione, idea, ideazionismo, ‘Locki’ – enciclopedismo, illuminismo, ‘discorso sulle lingue’, propositione, articulazione, logica, grammatica, forma logica, modus significandi, imitatmento, il Cratilo di Platone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baldinotti” – The Swimming-Pool Library.  

 

Luigi Speranza -- Grice e Balduino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del vestigio dell’angelo al  Campidoglio – la scuola di Montesardo – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library  (Montesardo). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Montesardo, Alessano, Lecce, Puglia. Grice: “It is amusing that when we were lecturing with Sir Peter at Oxford on ‘Categoriae’ and ‘De Interpretatione,’ Girolamo Balduino had done precisely that – AGES before, in a beautiful beach town of Italy! ‘vir Montesardis,’ –“ Grice: “Strawson and I, following an advice by Paulello, drew a lot from Balduino’s commentary – especially of the Peri Hermeneias, the section on the ‘oratio,’ since we were looking for ordinary-language ways to render all the modal distinctions (indicative, imperative, optative, interrogative, vocative, …) that Balduino finds so easy to digest – but our Oxonian tutees didn’t!” --  Girolamo Balduino (Montesardo), filosofo.  Studiò all'Padova sotto Marco Antonio Passeri (detto il Genua) e Sperone Speroni, formandosi nell'eclettismo aristotelico proprio di quella scuola. Insegna sofistica in quello Studio; passò poi all'Salerno e all'Napoli.  Nella seconda metà del Cinquecento le sue opere furono occasione di vivaci dibattiti. Alle sue dottrine si oppose, in particolare, il filosofo padovano Jacopo Zabarella. Altre opere: “Perì hermeneias”, “De interpretation, “Dell’interpretazione”; “Quaesita tum naturalia, tum logicalia”.  Studi Giovanni Papuli, B.: ricerche sulla logica della Scuola di Padova nel Rinascimento, Manduria, Lacaita, Papuli, B. e la logica scotistica, in Acta Congressus Scotistici, Roma, Papuli, Da B. allo Zabarella e al giovane Galilei: scienza e dimostrazioni, in « Bollettino di storia e filosofia », Raffaele Colapietra, recensione di Ricerche sulla logica della scuola di Padova nel Rinascimento, Emeroteca della Provincia di Brindisi. B.. “De signis”. It. segnare, notare, segnificare, notificare. Primum oportet ponere quid sit nomen et quiddam in proæmio, ut propositum suæ considerationis ante quid verbum cognovit et infra ab orationibus rethoricis et poeticis, atque his quæ affectus explicant, illam se legit. Item tes cum iste liber cum tota logicae undem modum cong ordine lint considerandæ quo, ex processu resolvente com, siderandi participet, qui ut ante monstrani est instrumen monstrat cum inquit primum bum etc. vers tum seu organum notificandi. Quid inter hunc librum quid nomen quid alios differt? Respondetur. Id interesse et, inter diversos primum, non intentione, cum libros eandem rem eodem. Sed quod primo exequi instituimus dicit opor versa prædicata propria, de illa cognoscantur. Q dis eaq. præs cipia quæ ut deus, et prima in omni tempore, loco, et subiecto dicata ex fine libri facile inveniri possunt demostrationis prin sunt nes mus, extremum nam ut posuis cellaria. Sed suppositione in hoc libro et finis, rum conceptarum res et secundum quid. nam tuimus dicata quinq vocem SIGNIficativam stag are, ut toto, necessario tra verlrum etc. Hæc verbi, orationis, enunciationis nominis, nis quibus eædem libro poeticorum est præceptionem tradere finiendo considerant alterum ut aspernetur et um metrum formandum, bi etc. ponere ergo sumetur non tanquam res dubia inquirendum sum, verum et constans ponendum primo mento magno exemplo explicatur artificum idem ligna ut lignum, sit sed ut per seno post incos unus artifex statua malter, referet tæ, cum suo proprio monius inquiens est, ad metria positi oest. Ita que non nisi ut enunciativa. Sed de subiecto do post secund infine. Regulem logicem ponuntur ut notæ orator et  poeta enunciativa orationis codem modo ista des:ante et SIGNIficativas intendit idenim definitionem nomini suer, sitione SIGNIficantes tionis tantum urilitatem declarat apo demonstra, ad impossibile primo prior de tione simplici et hæc porest. Sed demonstratio viriali cuius, extranea autem quod licer hæc omnia demonstrationis Postremo scientiarum. ne viam atrium et iuxtaponitur uerbo. Magentinus positionis modos modo considerantes est interpretario posis ab instituto, nomen, aim. Ponere seu constituere. Ammonius has tres particulas legit cum ergo sunt prædicata propria, affirmationis et negatio mum ponendum constituat, alterum appetendum explicaretur oportet definire et fugiat. Poeta ad cocinnum orator vero adornatum. Id, quasi istorum quid nominis ad efficiendam. Huic quam retuli rei confidera Averrois, definitio enim inquit Aristotele ingeo navem, alteradarcham considerandi modo, assentit, Amonius definitiones positiones in arte dicuntur. Metafisicae in hoc libro confiderari de oratione, in magno com cuiusratio est primopoft. quam per voces clariores mo prior primo, syllogismus est positis et concessis et concesso, pri oratio in quaquibusdam attingit. Magentinus syllogism ducente hac tenus. Paul e re niam fiunt. Quos cis nunc. De utilitate dicimus ab anima, quæ facile opus suum inquitex proposito patet: ad de et ex inscriptione cepit ergo tertium  modorum quos Ammonius attulit. Su subiceti interpretationem refertur. Quam mitur enim gratia quæri retulimus nam enunciatio ad ins ponere, primo prosupposito tendatur tet non simpliciter sic enunciatio in to, propositum quas per voces clariores NOTIFICARE nostrum esse, de oratione enunciativa. Hic autem finis haberino potest, nisi per hæc præ tertio ait igitur de partibus tractandum est, quid nomen et quid verbum inquiens et Aristotele verba conne fit ita res tractatæ alibi differunt. Requires et ens quia propositum Aristotele quam, necessario. Quona igitur modo sei ungi simplicium essential cognoscenda differentia locus, tamen hic nomen quid ferme omnis explicatur ex proprio fine quoniam et uerbum. Juult ergo cum cæteris ista considerat utg syllogism parte sefficiantur logicus bus ponere sumendum fore pro definire et definit, ut verum strationi deseruiant, grammaticus vero voces tis compositas incongruum sermonem ex elemen, ut congruum, siue oportet ponere, id est definire et falsum declarant. Et novissime ut demons dissentio latina ac sensum accedens ab Aristotele sidiceret. Sed ab his ad Aristotele verba græca et. nam committeretur nugatio possunt? ideo dixit primum est erfide hoc infra fit proprius considerandi oportet ponere  id est definire, magis ut iudico. Hæc ut bene Ammonius cognoscit. Ac.p fine propositis nullo modo tamen, ut omnia moveri commune commodum est id muniter posito primo top. nono.Tertio et concello quomodo sumitur procom de mente Ammonii attulimus gratia explicentur omnibus Aristotele. Quarto pro ea fine ratiocina, pro proprium est. Locis quos adverbio quod nibuscarentibus pro definitio positione fieri ex Heracliti sententia via relinquenda non est docentes, fine via eius contemplationem medio. Secundo poster incommens damus, tenebrisan; circumsusi more feramur, est igitur enumerat: tray in incertum imperitorum via, illa quam toti logicæ Aristotele to magno est. coniung nomine et verbo. Pris. primo post secundo post. et ratiocinatione ex hypothesi. Secundo supra retulimus et hic accepit sed quem modum Aristotele hic fert. Ex hisitaque patet. Arit, resconsiderandas acceperit, verbum nullum proj ea considerantur. Quod si orationem ante etiam posuit et tractavit, non nisi ut genus commune enunciationis, ad verbum. OD rum ordinem pofuisse) tanquam subiecta et tertio prædi num triplex potestelle consideratio: primo ut absolute Cara, quideorum, scilicet ponere sive constituere. Sed SIGNIificant simplices CONCEPTUS. Ita in prædicamentis cons citorcum primo post in parva commentatione: scieny fiderantur. aliomodo secundum orationem, ut partes tiasitunius generis fubieéti, quçcúq; exprimis componitur, sunt enunciationis: sica dhuc librum spectabunt, propter et partes et PASSIONES horú sunt pse. igitur duo sunt per reaenim inquit traduntur sub rationem nominis: uet er se predicata, substantia sive essentia quæ per definitione, et biut SIGNIficant cum tempore aut sine tempore, intulit accidens proprium, quod per demonlirarionem concluditur. etiam. et traduntur alia huius modi, quæ ad dictionum secundo post. Inmagno commento cur tantum pertinentrationem, ut enunciationem conftituunt sed quid istorum proposuit? Ad hoc dicendum mihi uiden quam vistant iuiri ingenium et iudicium semper cum sum tur: ex primo post res quarueif ecf timperfectum, et quasi in mente, non habentuere definitiones. Secundo ponendum quod supra documus, res logicas ut intrumen ta et organa artium  et scientiarum, ad proprios fines et quod satis probatum est supra cum a nobis Ammonius notitiam explicandam referri. His datis patet ad petitios est reprehensus. Præter eaut diximus nome et verbum nem responsio: namdum Aristotele quid prædi et orumponen simplicior asunt decem vocum conceptibus. Amplius dumpropofuit, et propriosfinesquiipsorumpropriafer rationoininis et ucrbi et fi ut materia adorationemenun rendicuntur accidentia, anteposuille dicetur sic enim ora, ciatiuam pertineant: tamen corum rationes sunt commu cionem definiens enunciatilia inquiet non omnis: sed in nes, non ad orationem tantum contra et æ. ut prædicari de qua verum et falsum explicatur et nomen quod vox fit si vocibus simplicibus prædicamentorum non possint, licet SIGNIificatrix. Requirit secundo Ammonius a quo Aquinas cum divo Thomas in ultimo suo dicto contra Ammonii opis mas accepit. Side simplicium vocum essentia in prædica; nionem consentiam: nomina et verba in hoc libro tracta mentistra et auit: cur hic iterum repetits respondet Ammonius. ri,ut cum tempore aut sine tempore SIGNIficant, et non solu unum quod supra tanquam falsum reiecimus. Nam et fi hæc SIGNIificare dicuntur, sed et alia huius modi quæ perlig verum dicat. Ut robique easdem res subicto, rationetas nent ad rationem dictionum. Licet ipse sub inferat, utes men differentes finiri: nihilo minus differentia quamaddu nunciationem constituunt. Non solum affirmatigam enun cit est falsa. Dum inquitin prædicamentis voces simplis ciationem, ut Ammonius afferebat. Si autem ista verba, ces considerariut indicativæ sunt rerum simplicium quæ Aquinas referret addi et tasuperius ut diceret qiftain hoc quando cum temporis mensura SIGNIficant, verba: quando libro traduntur sub ratione nominis et verbi et alia huius, sine tempore cum articulis explicant, nomina sunt dicen modi, scilicet traduntur quem  ad rationem pertinent diction da. Quando pars affirmationis uel negationis, dictio: cum num, tunc inter nomen, et verbum et dicionem distingue autem pars syllogismi, terminus. Sed primum inas SIGNA y ret. Sed primum de mente sua verius credo. nam alii ta differentia dubito: quarationeun quam fiet: ut substan teridemdi et umforet contrasequodin, Ammonium die sia per le existens SIGNIficari possit cum motu? maxime ximus. Postular Ammonius et AQUINO curaliisoras cum prædicamentares sint completæina et tu. Nam quinto tionis partibus missis, solum nominis et verbi considen metaph. septimom et septimo primo physic. ens rationem præposuit? addituretiam. quia libro poetico, quod est, aut existere dicitur, in decem primasres, seu voces partitur: quo ergo SIGNIficari possunt cum tempore! nisi diceres ut sunt imperfe et cres, et in motu cum actione, et passione et generatione lubstantiæ alteratione qualitatis augumento quantitates et ex accidente mutatione eorum quem ut uo referuntur. Seundo nec dubium solve revidetur quod dicit. Sed falsum etiam est in prædicamentis rum orationis partes enumerans, inquit septem elle. Elementum, syllabam, coniunctionem, nomen, uerbum, articulum, orationem. Ad hoc breviter respondent alig qui Aristotele omifisse quediximus, tanquam inutilia et ad rectum poetarum metrum spectancia hic solum mentioq nem fecisse nominis et verbi: pista sunt necessariæ parstes enunciativæ orationis, inquo, Ammonio non aduery voces considerari, ut ad simplicium rerum cognitionem dedu satur nec diuo AQUINAS et fi oratio enunciativa quando que cunt. Sed inftan taliqui. In prædicamentis, Aristotele fini ens in conftetexaliis, non necessario, simpliciter, omnitempore, quit. Substatia dicitur. sed quam uanère spondeantex Aril. Quinto meta et Alexandro Aphrodiseo exponente cognoscant, secundum se inquit vero dicuntur quæcunq; predicamenti figuras SIGNIficant aut secundum Boethium quæcunque figuras predicationis significant. Itaq. Per Aphrodiseus quod a nomine, vel uerbo deducitur:lig verbum hoc dici et significare res simplices, prædicamen ca ad metaph. Non logicum pertinent: sed ut decemu ces, res mediis CONCEPTIBUS A POSITIONE SIGNIFICANT logie corum considerationi convenient. Tertio dubito et tan cuti et legendum, et navigandum alegere et navigare verbo originem ducunt. Similia dici possunt de explicatione Alexandri. Quautitur Ammonius dum de verbo consin dcrans Aristotele inquit. Verba autem secundum se dicta nomina sunt id est simplex habent SIGNIficatum nominis eius simplicibus partibus simile, ex quibus constatoratio. Ita pro Alexandro dicendum. Adverbia plurima ex parte quam vanam explicationem existimo, dictionem, scilicet affirmationis partem vocari. Nam quid interest dicere nomen et verbum vocem esse SIGNIFICATRICEM A PLACITO et afferere nomen et verbum dictionem esse ihuius may de ducia vero nomine aut a parte orationis simpliciquæ nifestum indicium ex Aristotele sumitur. Qui ipsam orationem definiensait oratio est vox SIGNIficatrix, cuius ex partibus aliqua separata SIGNIficat ut dictio, verum non ut affirmatio ergo idem est dictio, quod nomen. Ut habet translatio Magentini. Et verbum. Ergo dictio, orationis communis pars erit, non affirmatione stantum. Nisi per appropriationem dicat illud sed AQUINO vidensuocesalo, gico consideratas non posse decem simplicissimas resnis fime diis conceptibus explicare itaenim secundo intely uim habeat nominis. Et ita si quando goriatura verbo, nihil Alexandri et Aristotele sententiæ officit. Sed cur particispium, quoquam se pissime in demonstrativis scientiarum sermonibus utitur, tam hicquam poeticorum libro relis quit? Ammonius dicit, quia ad nomen et verbum reduciy tur. Alii vero quod idem sft dicunt quia pars comporis ta non simplex orationis dicitur. Quæ responsio magis perspicua et evidens iudicio meo est. Nam primo pos ter, secundo, præposuit dupliciter præ cognoscere oportere, leda sive secundæ intentiones dicentur, nonu tres linere alia namgquia sunt prius opinari necesse est alia vero quid lationibus denotant ad philosophiam naturalem spe et an est quod dicitur intelligere oportet sed cum duas propos tes et metaph. A literalseric, simplicium inquit diction ne rettrese numeravit et ad hoc respondet Aver, optertia ma veneratione sanctitatis probarim: in hactamenre' sponsione dissentio: cum decem voces non solum simplices conceptus sed res mediis conceptibus explicent: loco et subiecto et non nisirespe et uhorum ut pronomen loco proprii nominis. Adverbium tam hic, quam in libro poeticorum relinquitur, uel quiaut Ammonius ait, modum dicit quo prædicatum incit subiecto. aut ut  sрее   species composita est ex his dicas etiam o duas præposuit neccessarias signum est q Aristotele dixit dupliciter præcognoscere oportet et quia lunt, opinari necesse est et quid intelligere oportet ad tertiam vero præcognitionem der scendens, fineullo necessitates verbo additoait quædam autem ut rag nam compositaquæ esse et am tertiam naturam non dicunt distinctama componentibus, explicatis necessariis partibus, coniunctim ex his explicari intelliguntur verum quicquid sit de Arist. textu et ratione quamdi xi: sufficiens ref ponfiofit: qhicde simplicibus partibus Aristotele loquitur, quale non est participium. Coniunctionem omisit, nonquia inutilis, quoniam. infra quod ipseconfirmat hic, et supra contra Boethii opinionem adduxit Arist. dividet orationem enunciatiuam in unam simpliciter et coniunctione unam: quæ necessario coniuctionem expostulat. Nec exomisit ut Ammonius et Aquinas quia pars orationis non est sed pars conne et ensatque coniungens. quoniam Aristotele coniunctionem poeticæ locutio nian numeravit, tanquam orationis elementum. Item in cap.quarto Aver dicet, q syllogismus conditionalis est unus per unam copulativam. Gifoloritur ergo dies est sicut predicativus est unus per medium terminum sed hic medius terminus necessaria est pars prædicatiui sive CATHEGORICI syllogismi. Ergoconiunétio syllogismiexpofis tionefiuehypothetici.Hinc etiam contra eos fequetur inutilemconiun et ionemnonesse: sed hypotethico fyllor gisino necessariam: ut medium terminum prædicativo syllogismo. Alii sentiunt propterea coniunctionem omiy filfe de enuntiatione una simpliciter demonstrationi servienti, non coniun et ione una considerat sed hanc reo sponsionem suprareiecimus: ea rationeq hic liber etiam ad librum priorum dirigitur, proximam syllogismo hypothetico positionem seu præmis lamelargiens. Itemin hoc libro, capit.quarto, propofitam enunciationem ab aliis oratoriisac poeticis seligens, in has duas partitur. itidemq; definite oratione in libro poeticorum eam in hasdistribuit feudi uisit species. Dicendum igitur nobis videtur, proptereahic relictam coniunctionem esse, quia facilis, et Aristoteles sufficiens erat ea parva cognitioquam tradidit in libro poeticorum. Aut secondo dicasquor demonstrativa scientia. Et secundo poft. iuxta ordi niamhic propofitum est de vocibus necessario SIGNIFICATRICI nemquem compositiuum aut componentem appellant, pri bus agere ad interpretationem per voces clariores efficieendam: quem oém orationem efficient nam hic libercom munia principia explicat. Dic secondo q in libro poeticorum cap. septimo, coniunctio significationis est expers: qua de causa definitioni, quæ perfecta oratio est, nond eses Post ea quid est negatio, o affirmatio et enunciatio, u oratio, deinde quid sit negatio, a affirmatio, o enunciatio, oratio. mo genus, quid syllogismus, inde speciem, demonstrationem collegit. Premponens igitur hic ista duo tangfinem unum in tegrūperse ex genere et specie constitutum, primo ait enunciationem, deinde oratione, non ita per se intenta: nobis innato aminus communi ad communiora. Sed hæc responsio improbatur quia. Si ordinen obis innato, seu aminus communi et im per se et oincipiendum est, cur latus ordo ex accidente euenit, ut quando gab imperfer et o furnatinitium quia in libro de anima secundo, textura Magentino cum universe res quas universalia dicunt singulis præferantur, cur hic non primum de oratione et genere, deindede enunciatione affirmatione et negatione ex orsus fit Aristoteles sed primum a nomine et uerbo: nam auta nobilior iincho an dumerat, aut are magiscõi, ut ordone ceffarius servaretur, non anobiliori, cum negationem affirmationi prætulerit non acommuniori, quia oratio fuif setante ponenda. Responder ipse. Solere quandoq; Arist. Hocfacere et are communiori quæ ad singulasres spes et antincipere quomodo hic dicita nominee SIGNIficante substantiam sive eflentiam et a verbo SIGNIficante actionem seu passionem, Aristoteles inchoare sed quare istum secundum necessarium ordinem inter negationem et affirmationem, enunciationem et orationem non seruauerit, ut Gbioccultumomi fit. Præter ca enunciatio ut finishorum materialium principiorum prenstantior est, ergo antepor nendafuisset. Amplius nomen et uerbum, non ideo communiora esse dicimus, q subtantiam aut accidens SIGNISFICARE dicuntur, sed q voces SIGNIficative apositionelunt, non substantiæ aut accidentis, ut naturæ terminatæ, sed communiter omnium ratio ergo est sumpta a processu resolvente finem in causas et principia prima intra rem itas quecum orationem non omnem, sed inqua est verum et falsum, id est enunciativam, ut finems peculetur, et hæc ex nomine et verbo, ut materiis, constituatur necessario ergo primum dehis ponendum quidf snt: deinde complebit reliquas partes processus resolutiui sed subiectum, ut totum potential primas species continens, cognosci non potest finesuis speciebus, sicut totum constare non potnifiex suis constituentibus principiis materialibus: ergo deinde de his quæ ad finem proprium diriguntur, dicendum, quid oratio et enunciatio, ut completes finisele et us habeatur: quiahec in affirmationem et negationem dividitur ut pris mophy intelligere et scire, id est intelligere scientificum: quod Auer. Finem rerum naturalium pofuit. Item genuscum principali sua specie unum finé constituit, acea uno proce mio proponuntur et epilogo colliguntur: ut primoprio rumde syllogismo tradaturus, resoluentem processum efficiens a principali fine inchoauit: de demonftratione et  Propositis communibus, ut materia, principiis, quæ per se SIGNIficant ia omnem orationem conftituunt: nunc de coniumctis ex his principiis et conftitutis proponit. pri mumq; ait Deinde, ut diximus ex Ammonio, ordinem et urum proponit de rebus omnibus: deinde de elementis, denotata principiorum constituen tiu madres constitutas. Et de omni anima prius quam hac autilla animaratio pof t e a inquit quid ne a t i o affirmati o et c Hic quæris igitur et causa ordinis a dnoscelatiesta notioribus nobis Diiii gationem affirmationi prætulerit. Ammonius ait prius nomen perfectius posuit? Item in situs, et ad nosre asenfuuisus incepit ut Auer. aitineodem libro. de anima de intellectu prius quamdesecuny. dum locum motiva potentia. Similiter secundum accidens est ut a comunioribus five minus comunibus pro Milanius. Nam de generatione considerans de ea generatim sedin ruit: et fi per se non SIGNIficat ut ait Aristotele licet SIGNIfica, demonftratio intenditur quam syllogifmus. Et primophy. tionem non impediat perfead hunc librumnon per primo finem proponens rerum naturalium primum, dixit. Et at, quietiam per se SIGNIFICANTIA principia ut materias spe quoniam intelligere et scire contingit, id est rationem ellen culari conftituit. Quarenon inutilis quidem coniun&tioerit: tiam ac naturam ipsarum, inde scientiam per demonstras sednec necessaria pars SIGNIficans, orationi per se, id est, tionem acquisitam ratione et eflentia posita et explicata omni conveniens oratio autem divisa in species duas, per definitionem, in fine explicando, nobilius explicavit, quas monstravimus, conjunctionem a poetica, ut eius parti ac magis intentum. Sed ad huc dubium remanet curnes utilem, mutuo accipit sed ad enunciationem relatam ut primo priorum, prius TEX. BOEZIO. ordine ad nos relato, ab imperfecto ad perfectum procedit et   tum negatio enim diuisionem continet, affirmatio autem in compositione consistit negationem igitur affirmationi præposuit, et magis ad partes accedir, compositioautem ad totum. Sed ueniat anti uiri fit dictum negation magis composita dicitur quam affirmatio, cum additione negan cis particulæ, affirmatio efficiatur negatio. Ad rationem orationem quatenus ex luis materialibus principiis cons harum alter utra præferatur. Sed contra dicimus, pris mo hic liberad demonstrationem dirigitur, ut ipse fal dem, fic nece ædem voces. Quarum autem hæ primum NOTAE sunt, eædem omnibus PASSIONES ANIMAE sunt et quas rum hæ similitudines, res etiam eædem. Sunt quidem ergo hæc in voce, earum in anima passios ad modum necliter et omnibus cædem, fic nec eædem voces. sentiens cum Magentino reprehenditura Sueffa. adiu mentum seu commodumin proæmio, nointractatupræ do secondo phy.tertio.natura est principium motus et quietis, per se et non secundum accidens ita que ex his positis sequitur negationem instrumentum explicans con fitione formam eflentiam q; cognoscimus hoceft agen rium et dirigentium ad ipsas. Oportet igiturante cogno! Scereea exquibus est definitio: propter eaq ifta præcogni tetur, quææternorum est non autem ad eaquæ possunt ponitur. Diceret enim ille utilitatem totius libri et subiecti esse et non esse. Amplius et fiinuno, quod de potens anteponenda, non utilitatem cognitionis, perquampro tiaadactume ducitur, non esse prius fit eo, quod est: pofitad eclarari, ac definiri possunt. meæ etiam rationi nontamen simpliciter in omni natura: cumea, quem poten responderet. In sequenti textu commodum quale fitex tia continentur, non nisiaba et tu, ac eo quod uere eft in plicari: sed quam in ordinate ac fine arte id faciat, uides actume dantur præterea cap.quarto enunciationem in rintalii, retamen idem cum Ammonio sentit quiait Ari. has duas species diuidensinquit. Prima autem oratio docere uelle nomen et verbum quorum finitiones promi enunciatiua est affirmatio, deinde negatio ergo analoga, fit, voces SIGNIficativas esse, quod ifferata vocibus nonli aut per rationem ad aliud nonç que diuisa participatur ab SIGNIficantibus, ut scindapfus docetom quæ inprimis, ac utrii: fedde hoc fuo loco dicemus. sicut Ammonius di proxime ab ipfis vocibus in dicentur. conceptus, scilicet durum promittit: Mihi quod uerius probatur iftud est, primo: quorum interuentures explicantur.quæ omnia, hic affirmationem et negationem numerariut plures species enunciationis, id est oppositionem contradictoriam erficientes. Quæ infine fectionis fecundæ, in hoc conssistit. ut aliquas edeiiciant, deftruant, abiiciant, atque ne gent; in hoc autem efficiendo potissimam et inprimis vim habet negatio. Quade causa ibi primum ab Arift .numeratur, ut secondo de anima cum species subiecti fint plures, ex enumeratione ipsarum precognoscitur esse, id verum in demostratione, iti demin definitionem ons quod anteponendum est, prius quam tractatus cognitioaut definitiohabeatur. Secundo sciendum primo topic. ofta  Opposita secundum contradictionem protenfa alterum oppositum explicare.Et primo post. octauo. In antiqua commentatione, de omni eft quod non inquodam quidem fic, in quodam autem non nec aliquando quisdem sic, aliquando quidem non. Jitidem et tex. Quinto scire autem simpliciter opinamur: sed non sophistico monitionis: qua simplici conceptu fine assertione seu compo iun et a et  divisa, notio rem esse quam affirmationem nam ta, ad eam habendam nos dirigunt at qzillamex præno attendere folemus diligentius ad contraria, ut nobis ads uerlancia, quam eaquæ sunt nobisi nnata. hæc autem affirmatio, illa negatio explicat per externa, explicantia ti sefficiunt. Arif. igitur quoniam dixit oportet nos constituere, siue ponere quid nomen, et uerbum etc et com muniter hæc erunt voces SIGNIificatiuæ positione aliem fine quodam modo alterum sed cum iple species ex propriis very explicatione, aliem cum vero. iccircoiftatria antemani principiis internis definiuntur, I uxta ipsarum naturam, feftat: nesue definitiones fineratione et fineea quam ipse proprietatem et ut ad commune genus proportionale tradidit arte ponantur, at constituantur. In hoc textu eu analogum referuntur, finienda sunt primo, modo hic in proæmio negatio præposita numeratur, ut instrumeng voces esse SIGNIficatiuas: quod Ammonilis exponens cum tum est habens ellenorius: secondo autem modo infra in Magentino ait quattuor ad ho cutilia effe: rem, conceptum, tra et tatu et propria definition subsequitur itainfra intely vocem, et literas. Amm. autemait Aril. inchoare, nona lectus quando plineuero est et falso: circa composition rebus, quæ perse, nec simplices sunt nec compofitr: id nem enim est falsum et uerum. Querunt novissime curuo enim habent conceptus sed a vocibus, tr"fine quibus dis cem omiserit. Sed Aris . infri ad hoc respondebit ut supra sciplina et præceptio fieri non potest aitam; nullam facere etiam a nobis fatis est dictum. Propter ea ad alia contendamus. Aristotele de literis mentionem g nullius ui funt ad proporto et fiuerafint, dimin Pombaamen ponunturcum aliammay gis intentam differentiam SIGNIFICARE SCILICET A POSITIONE, NON NATURA relinquat, quamtamen Alex. et Pfellius prosequuntur et in expositione tex. Ammonius A uer. ato alii non omittunt unum ergo et idem cum hissentiens, eorum veritatem confirmo. Cum nominis doctrina et dissciplina ex ante posita fiue præexistenti fiat cognitione, ftretur et testimonio Auer. confirmetur. primopost.ses cundo. et Arift. primo Metaph. et apud Alex. pri motop. quarto oportetenimait Arift. ex quibus eft de finitiopræ scire, fiue ante cognoscere et Alex. inquit definition per omnia nota et precognita procedit et Averroes primo post. secundo. fic. etiam uerisimile eft effe dispositionem specierum prænotionum conceptionis id est defiunumeorum quæ diximus explicatur, nomen et verbum  primo secundo. hec autem quandog imperfctiora, TEX. BOETHIL. Suntergoea, quæ funt in voce earum, que sunt inanie quandoy perfectiora, minus communia autcomiora. Ma ma, passionum not&,o eaquæ scribuntur, corum, que gentinusaitq cum evidentia dixerit, abhistanquam abdi tis et occultis abstinuit. Aquinas dicit gquia Aril. cępitapar sunt in uoce. Et quem ad modum nec literæ omnibuse et s tibuse numerare: ideo nunc procedit a partibus ad tol adducam dicitur. aliud effe dicere num note: O quæ scribuntur eorum IN VOCE. Et queme procedere, quia magis sensate sunt de anima instrumentum, seu Atat, esse magis minusu e compositam aliud finem habes PASSIONES ANIME SUNT, o quarumbæ similitudines, res quoquecedem. re ut alterum coniungicum altero, aut feiungi ab altero enunciet. secundum concedimus: sed exillo affirmationis naturam magis compositam esse, sequi negamus sed Magentinus dicit q enumeratis nominee et verbo et aliis eorum definitiones tradendæ erant, quas ponere constistuerat. Sed hoc Aril. non facit: sed caput proponit quod nobis ad iumento erit sed quod fit ad iumentum non exiplicat, nec increpandus ame eritut Herminius idem negationis potius. Secundo respondet p in hisquę possunt efle X non efle, prius eft non effe quod SIGNIficant negatio, quamefle, quod explicat affirmatio sed ut species sunt æque genus diuidentes, sunt fimulnatura, nihil grefert Quorum tamen hæc primum notæ funt, eædem omnibus i ta con    la contemplanda. Quod fi ita est. Cur ergo iftorum quat PASSIONES SEU CONCEPTIONES esse omnibus easdem:id est tuor meminic? Et si infra longioribus, nunc tamen quod ellea natura: Expolitores non explicant qua de causa, ad rem pertinent dicamus et brcuiter: finem huius libri interpretationem esseut fupra pofuimus hæc autem ut lov gicum instrumentum et organum cognoscendi, ad explicationem rerum dirigitur, ac tanqua multimum et perfe netemere et fineulla ratione iddrift pofuiffe dicamus. notandum, sexto topi. In explicandis partibus defini tionis oppositorum, non tantum opus effe oppoftiscum negation præpofita, sed etiam rebus huius modi, quiz intentum finem refertur interpretatio uero rerum non busdefinitio feu definitionis pars tanquam habitui conue fit nisi per voces clariores SIGNIficantes A POSITIONE, aut perl iteras cum voces defuerint propter eanecresomi lit, sed tanquam fine multimum et in primis intentum por fuit tertio enim mera meta nemo define consuls nit: nam per se habitus per privations noscuntur: licet quodammodo id est ut commentator primo pofter, in magna commentauone et primorheto. cap. quin toinepitomatibus logicalibus explicet alicui generi ha minum privatio, atque oppositum cum negatione praeposita, alterum manifestet. quam obrem topica loca constituunt. Qomnibus, aut pluribus ita uidentur. Cum igitur supra explicasset, li voces SIGNA ESSE A POSITIONE, ex appo fat: fed ftatuitatq; ponit: sed quomodo et per quæis finis eueniat deliberat. nam primo ethico septimo, fifinem tanquam exemplar habuerimus, magis intelligemus quæ nobis sunt bona et septim opoli. in principio: duo funt inquibus omnis commendation bene agendiconsiy fito cum negatione præmissa, nunc eadem explicat pary ftit. unum ut propositum ac finis recte agenda subjaceat: alterum ut eas quæ in illum sinem ferant actiones inueniamus, resigitur hic non relinquuntur sed tanquam fines explicanda ponuntur. Nec literæ fruftra ab Arift. nume rantur cum vocum fungantur officio: hisq; principibus explicatis,& quæ scribuntur aperiri intelligimus huius enim caula quæ sunt in voce conscribimus, ut absentisbus uocibus, res concepta scertius, uberius et firmius teneremus quæ enim uox, tot philosophorum, a nobis absentium, sententias unquam aperuit ad quas eorum libri nostam facile deduxerunt, ut possemus aliquando quid ticulamex opposite positiuo passiones enim et respros prereaq eædem sunt omnibus, NATURA SUNT, NON EX ARBITRIO ET POSITIONE ex opposito voces, ac scripiuræ quia non sunt eædem, A POSITIONE, NO NATURA SIGNIFICANT. aHinc etiam differentia vocum A POSITIONE ET PASSIONUM sive conceptionum et rerum colligitur et approbationem intelligat, ex græca particular aperitur. quæ diciti quorum quidem. Quæ particula causam propofiti explicat, non controversiam. Quioaduerba, Ammonius primum obseruat.q cumde uocibus et literis diceret Arist. ait. quorum ex SIGNA sunt sed passions similitudines re senserint eorum scripta fæpius repetentes a gnoscere: No rum uocauit. Quia simulacra rerum naturas, quoadlicet igiturut Ammonius dico nihilo pusesse scriptis. Sed dico, representant ut inpi et uristidetur inquibus mutarefor magis fuisse conveniens Arift. nomen et verbum et c des mas præsentatas non licet. litin Socrate pitto calvo, fi finire per uoces quæ in disciplinis quasalio certo duce mo, oculis prominentibus SIGNA vero et NOTAE totumha per discimusfacile primas tulerunt: quam perscripta: bent ab impositione et cogitatione nostra, ut in militum quibus periti occulta cognoscunt et percepta declarant, SIGNIS ET NOTIS diversis a; institutis conspicitur. Sed cong Nunc ad litera mueniamus ea quæ in uoce sunt, cons traquia secondo priorum. de enthimema te tractans. fi stunt, aut continentur, sunt SIGNA se unorem ounebonor enim duo hæc significat earum passionum i.eorum conceptuum: quos patitur, id est, ut formis perficitur phantasia, mens, seu anima, ut Prelliusait et quem scribuntur SIGNA ac NOTAE funt eorum quæ in uoce consistunt. Etquemadmo gnificans.quiaidemuerbum,lignum,&notauocatur. dum necliteræomnibusexdem ficneceædem uoces.} Explicata prima definitionis particula, núc ad secundam accedit q uoces A POSITIONE SIGNIFICANT. Id que approbat Arifto. ratione fumpta ex opposite cum negation prol tensa. Quodquodam modo notius, alterum palam facit. primo topico et auo, hinc facile confirmatut experimen Arist. quod supra de negatione ante posita affirmationi docuimus ratione sed oppositum ei quod est A POSITIONE elle, estelle A NATURA: quæ eadem omnibus in est ex opsposito igitur ratio in hunc modum formetur ad conclusionem ex similinotiori in litteris innuendam, id natura esse dicetur quod eftomnibus idem; natura enim princiy pium est perse& deomni: quæ igitur non sunt omnibus eadem, non natura sunt aut significant. A negatione proy Prætereasi hæc differentia uera esset, acillam Aristot. ex his uerbis intenderet, his tantum nominibus pofitis suffincienter explicasset, dum diceret. Propterea quod uoces et literæ SIGNA ac NOTAE sunt, A POSITIONE SIGNIFICANT. PASSIONES vero et RES quia SIMILITUDINES SUNT A NATURA. Ita in finiendo nomine et uerbo sufficeretsiduntaxat dixisset, nomen et uerbum es tnota non igitur addendum quog cesfint A POSITIONE SIGNIFICANTES et hic omittendum fuils set, quod voces et literæ sunt notæ fue SIGNA non eadem, neidem calu, actemere refricaret. Mihi ita sentiendum videtur. Ovuboloy superior “NOTAM” (NOTARE, NOTIFICARE), “SIGNUM” (SIGNARE, SIGNIFICARE), “VESTIGIUM” dices re quæ ita dicuntur quia ut notiora exterius NOTIFICANT, ac ut VESTIGIA pedum significant. Hoera autem, id est PASSIONES SIVE CONCEPTIONES non ita: quanuis interius priæ definitionis ad negationem definiti henc propositio, similitudines rerum vocentur: rem tamen et fiinterius, quia perspicua, approbanda non est: sed lumiper senoi exterius non aperiunt propterea igitur voces et literas fi, tam oportet, alibi quodam modo declarandam: Allumy SIGNA ET NOTAS vocauit et  PASSIONES SIMILITUDINES quia ille prio, id eft minor propositio in textu ex oppofito cumne exterius, hæc interius manifestant. Secundo ex dicti sfaz gatione præposita notiori in literis et quemadmo! cile reprehenditur syllogismus quem Suella formauitex dum neque literæ omnibus eædem: fic nec eædemuol litera dum afferit Arifto. uelle probare voces et literas ces conclusio consequetur. Igitur nec voces A NATURA SIGNIFICANT a quume uarient, A POSITIONE haberi, conceptiones ver et SIGNIFICANT et non omnibuseç demerunt. Quorum aux res, cum non euarient, natura esse. hocto tumuultelle tem.; Approbata minori propofitione ex simili notiori præceptum et complexionem fiue conclufionem ad qua inliteris, in quibus idem prædicatum inuenitur. nunc inferenda mait Aristotele in textu ratiocinari. Quæcung sunt alia duo, conceptus scilicet, seu passions et resmanis aliorum SIGNA VEL NOTAE, positione se habent. Uult deinde fe stata natura effe et ita ead emomnibus, inquit ledpal, quom dassumptionem, id est minorem Arift.ponatibi funt Gones animæ quarum hædi et æ uoces primum nuly quidem igitur quæ sunt in uoce et c. id est sed nomina et lointeruentu, noræ sunt hæ animæ passiones sunt cæs uerba. Et scripta sunt signa et notæ aliarum, voces, Ccili demomnibus et res quarumhæ passiones sunt similitus c et conceptionum, et scripta vocum: sequitur conclusiout dines, etiam eædem funt. Sed cuius gratia manifestat putatibi qaemad modum nec literæe ædem ficnecuos Aristot. ipsum definiensait, syllogismus est imperfectus: ex signis ubieodem uerbo ut itur ad ex plicandum SIGNUM NATURALE E SIGNUM A POSITIONE uana iti demerit, assignata differentia Magentini. non fita positione ceseæd emerunt ubi sic ingræco non haberi affirmattur. Sed primær esponsionis partitio, feudiftinentio, quo quod manifefte falsum eft Toosenim sic latine significat nam modo fit uera in primo suo membro, supra longios et quem ad modum et ait et uim habere inferendi fæ ribus disservimus cetera tamquam uera probanus. Seddu pe consueuisse. Sed obiurgandus est Ammonius qui lis SIGNUM ET NOTAM ait approbationem, id est probationem bitabis Vox SIGNIficatrix est per se genus nominis et uery bi: igitur vox erit generis pars communis, per se unum constituens: duo igitur consequuntur. primum naturale,unā per se constituerecum artificiali, et ens reale cum enteratio, nis: secondo partem efle intotoniinuscommuni: signifi care,scilicetapositione,effeinuoce,quæeftmagiscomo munis. Qui modus improprius dicitur eius, quod est in esse.q nomina,& uerb auoces, et scripta a positionef SIGNIificent: cum secondo priorum In Epiromatibus logica, libus, de rhetorica persuasiua et syllogismo contradictoria SIGNA enthimematis et demonstrationis et topica etiam,  non a positione significent. lignum ergo, et NOTA, commune est ad signum, quod EX ARBITRIO ET inftituto signifiy alioelle. quartophy.Adprimum&finihilhicneceffario cat,& signumnaturaconsistens. Secundo propria eius ratiocinatio confutatur: non enim unus est syllogismus in textu quen suo arbitratu diuisit, sedduo. Vnus quonos mina Aristot. Et verba voces esse SIGNIFICATIVAS declarat: quod amedi&um est Paulo antedum primum in textum hoc modo quæ sunt in voce sunt NOTAE ET SIGNA scilicet SIGNIFICANTIA exterius earum quæ sunt in anima passionum minor siue assumptio, ut pofitio per se nota, ap Aris. dubitarem res logicas ut habentes esse imperfectum et quasi in cogitatione ut subiecto: in voce ut SIGNO,aliam naturam ullam sortitas non esse, quam eamquam anima probationis non indigens ponetur. Cum nomen et uers ex arbitrio finxit: ut ad aliud SIGNIficandum exterius refe bum definiet, sed nomen et verbum sunt SIGNA seu voces: ratur. Ficut ea, quæ artificum manuseffingunt præterna itaq; maior, ergo et c.propositio allumpta est, ut per seno turæopis, lignum, scilicetæs, aurumue, nil reliquumha ta. SIGNUM est illa græca particula quidem igitur quæ bent, nisi quod ars uera per sua inftrumenta hoc uelillo uel executionis fit nota, uel fi neulla approbatione ex propositis inferens, meam sententiam confirmabit id esse fine approbatione aliqua positum. ut communiter affertum abomnibus: Secundus syllogismus eriti bi. Etquems admodum et c ut secunda pars definitionis ponatur, SIGNIFICARE, SCILICET, A POSITIONE. Quod tanquam per se notum, non demonstrat, sed quia non omnino, cinealiy qua controversia est consessum propter eaquodam modo ex opposito cum negatione præposita manifestat. Quod in scriptis est manifestius, a positione sint; et eui dentius conttantius q; manifestent. Syllogismus igitur erit. quæ non omnibus eadem sunt illa non a natura quæ in omnibus uno modo invenitur: per se idem in omnibus similiter operans sed A POSITIONE sunt et SIGNIFICANT minor in textu. Et quem ad modum nec literæ omnibus eædem, fic nec uoces eædem. Ita que maior propositio syllogismi Suessenon est ad hanc inferendam conclufionem, quam nostra secunda ratiocinatio intulit et quæa suessa ratiocinationis conclusion et complexion dicitur, no bisminor secondi syllogismi cum eius approbatione ex simili literarum uiderur nam fine ulla controuersia ut bene animaduertit Ammonius scripturæ et literæa positione significant licet quodam modo uertaturindus biuman nomina et uerba, nátura, ut Plato uideturassere re, anaconfilio, ut Arift. sentit, significare dicantur. hinc. per se unum constituit cum voce, naturali opera anima ut fequetur eum non aduerba Arift. ne que sensum dicere. dum infecunda sua expofitione afferit, quam Alexandri et Afpafii esse confirmat, hic Aristotele velle colligere similitudi singulare opus naturæ est, fed ut indiuiduum ab arte for matum. Itaque nec primum sequetur, naturale cum arti ficialiunum per se constituere: quianon ut naturale, sed nem inter scripta et uoces. Sed q ex hoc predicato, significa ut arte effectum, formatum cum sua causa formali perl e re ut non idem, idefta pofitione: quod norius et firmiusin unum efficeredicitur: similiterres logicas et placitum scriptis uidetur. Inferti demde uocibus significatiuis, tan uementis arbitrium in uoce contineri affirmamus: non quam genere proximo nominis et uerbi et omnium alio tamen ut opus naturæ eft, per se unum genus conftituit, rum. Quærit secundo Ammonius: cur Arift. non dixer fed tantu muta positione, et confilio, et cogitatione fal cit. uoces sunt SIGNA CONCEPTIONUM. Sed eaquæ sunt in et um eft, ut vox ad hoc uel illud explicandum ponatur. Voce irespondet primum: cum triplex fit oratio, concel et ex communi imponentium consiliore feratur. Sica pra, in uoce; inscripto: de secunda hic loquitur fecuny mentis relatione, que in uoce ad significandum relinquis do respondet, voces naturae dimus ficut uidere, audire: aliud eft ergo uoces esse, ut opus naturæ, aliud nomis na et verba a positione et nostra cogitatione, quæ uoce utuntur, nam quem ad modum ianua dicitur lignum, et nummusæsue laurum ex arte, quæ imponit figuras et tur, uocem naturæ opus, artis logicæ inftrumentum et opus artificiale per leunum et ad alterum SIGNA ng dum relatum conftituitur. Ex his ad id quod secundo consequebatur patet responsio non enim in conuerniens eft minus commune, quod formam et a&umdig characteres: eodem modo et uoces dicuntur nomina, cit, contineriin alio magis communi quod  in potentia cum a locutoria imagination fingunturac formantur, fie exiftens per ficiac formariabali opossitminus commu; gna eorum,quæ inanimouoluntantur,& talem sunt formamadeptæ:utex positionefignificent.signum est uoxmutorum articulata, quæ quianon ex composito et  institutione aliorum eft, ideo nomen et uerbum non dicis ni.ut de intellectu et cogitativa Auer opinatur de anima altrice, sentiente et rationali et ex Aristotele confirmatur secundo de anima. Postremo in uoce, perfe&io placiti, seuarbitrii, confilii, &pofitionis, effet dicendum sed metaphyfico et naturali hæc quæftio difficilis relinquenda ellerbonitatis, tamen gratia, quam breuissime poterore spondebo. Sed animaduerten dum primo modo effigiantia progenuerit. Hoc,alterum comitatur, easdem res logicas, uts ecundo intellecta, ad logicam non ut scientiam sed artem spectare namearuni, mentis arbitrium, ut externa causa efficiens assignatur aquo effig ciunturea, quæartiu et scientiarum explicationi conuer niunt et in uocibus, acaliis notioribus regulis apponuntur primo post secondo poster tertio ponens dum metaph. Non eodem modo, omnium unitatis per se causam requiri. Alia nanque, quæ matelriæ conditionibu suacant, ut intelligentiæ fiue mentes, fta timens et unum persesunt. Aliaquæ ex materiis constant, unum per se fiunt q hocidem, quod ens potentia erat; idem fit et u:efficiente tantum educented epotens tiaina et um artificialia per se unum conftituunt, secundo physica secundode animao octauo, non cum subiecto ut naturæ indiuiduum est, sed ut arte formatum, viue effigia tum est: artis, ac formæ artificialis esse recipiens. causa enim propria cum sitars, et esse us artificiale quiderit. Ficut causa propria indiuidui et esse et in naturalis est forma et substantia, effe tum igitur subftantia erit, ita proportione et similitudine quadam, quæ de unitate et definitioneres rum artificialium dicta sunt: fere eadem de rebus logicis, et v ocesignificatrice a positione dicenda sunt non enim quod in uoce ex consilio et mentis arbitrio pofitumest, quibus quibu suoxipsa, quali formatur et denominatione exo trin. ecus SIGNIFICARE A POSITIONE dicitur, atque, ut aiunt, per attributionem placiti, ut formæ specialis, uoci, ut cantibus omnibus, non definite contractis ad nomen et verbum: nam uox significativa partem communits imam generis nominis et uerbi et orationis conitituit non pros materiæ sive generi magis communi ad sunt. Nec incon prie nomen et uerbum tantum. Differentiam aut eniliter ueniens modus ellendi in alio eft, minus communisinma rarum abelc mentis quam Ammonius accepita Dionysgis communi fiue formæ in materia, ut Suetreuidetur, quo fio, lumasab Arist. in libro enim poeticorum ait. Eles niam quarto physica Primus modus numerator partis in mentum uocem effe indiuuduam: ergo proprie in uoce sed toto, secundus totiusin partibus tertius specie ingenere, ad sensum patet literas partes eorum efle quæ scribuntur. Quartus generis in specie, quintus speciei, leu formem inmai Quæriturcur passiones uocauit et similitudines uelfimu feria  et c. Nec ualetfua obiectio contra Porphyrium: lacra. Ut Ammonius dicit. Sueffar espondet propter eafie sequeretur Arist. Intam paucis verbis ambigue dicere. Militudines appellari, qarederiuaniur: passiones uero, ut animum ipsum perficiunt:c onceptus, ut principilim et ratio intelligendi. Sed contra, quiarecte Ammonius interpretatur, simulacra rerum dicuntur, non quia causa, taarebus ut phantasmatibus siue sensu perceptis sed quoniam rerum naturas, quo ad licet, representant ut in picturis demonstrate in quibus mutare, ac transformare naturas representatas non licet. Præterea conceptus, nifi constituantur nouarum rerum uocabula, rem iam concer ptam et cognitam supponunt. Non igitur proprieprincis piumseuratio cognoscendi dicentur: nisi ut species et phantasma, ut obiectum alumina intellectus agens, eft des puratum, uta iunt, formatum et illustratum. Item non explicatquem animum passiones perficiant. quianon mentem per se impatibile in, ut Auer. opinatur. Sed animam seu mentem phantasticam, id eft existentem in phantasia ut oprimePsellius explicauit attributiue enim mens quia dudicit eaque sunt in uoce. Sumitur ut parsminus communis in toto, id est inmagis communi. cum vero sequitur, sunt SIGNA earum passionum quæ sunt in anima nunc sumitur ut accidens et forma in subiecto. Sed constraquia æque ipsum inconveniens hoc sequetur: cum placitum, fiue consilium, uoci non hæreat denominatione interna, id est intrinsecus sed a confilio imponentium attributum, ut SIGNOf Placitum ergo fiue arbitrium, pactio et mentis cogitation eft in uoce ut SIGNO non cui extraanis mæ operationem inhæreat: sed passiones animæ rationa liconueniuntutactueamformantesacperficientesetiam dum dormimus. Item proprius modus elrendi in alio maxime dicitur ultimus,utinlocoueluale aliitrans lumptiue, id est per translationem, ut Arift et commentator afirmant. Tertio queritur quod primo loco quæren dun fuerat an per uoce, ergo aliquid ex propofitis inferat, an executionis fit nota AQUINAS ait ex præmissis concludere, hoc modo quia Arift. dixit oportet ponere quid nomen et uerbum et c Shemc sunt uoces SIGNISficatii caduca et infirmapatibilis et poftremo in homine sola mortalis. Sed hic primum quærocur solum Arift. passion num et similitudinum seu simulacrorum meminit: Respo deturcu principio intelletus fiue mens phantastica rerum qualia dumbratas intelligentias et similitudines recipit, his ut patiens i l lu f tratur u t patibilis intellectus. Hinc requistur, eas similitudines, ut animam perficiunt phantasticam, passiones vocari, perficientes, ac illustrantes eamnuilo contrario ante corrupro. Hemec similitudines dicuntur ut o intendimus ex Ammonio jur rerum naturas quo ad licet representant et conceptus, ut abintelle et tu patibili seu possibili concipiuntur, autiam sunt conceptæ. Secundo ponendum intellectum patibilem, idest possibilem ad passiones et similitudines cum eas primum concipit conferri, ut poteftate eft omnia illa, tertio de anima quem ad modum TABVLA RASA in qua nihil esta scriptum siue fir et um. Indeetiam sequitur tertio intellectum semper esse uerum. tertio de anima id eft non errare. sed intelles Etu ssecundo progressus ultra componit illas passiones, ut simplicial intelle et a: et hoc quando ßuerequandog false compræhendit ut infra sectione quinta datur opisnio falsa ac apositione, confilio, fiue arbitrio opinatur. Buntur sunt notæ eorum quæ sunt in voce, non autemdi dequibus Alexander forteait dee isdem rebus fæpe uæ: ergo oportet uocum SIGNIficationem exponere, seu rectius ponere. Contra placet Sueffecum græcis omnibus notam elle executionis. Sed nec ipse quicontradicit diffi cilere fellitur, non enimdiuus AQUINAS afirmat ergo aliquid supra  tra et tatum, seu, ut ipsia iunt, colligere supra execustum, sed ex prædicatis ac præceptis inferre, infra confidei randaspræ cognitiones ut nosetiam diximus et itaes xecutionis est nota propter eanon uniuersatim eft uerrum quidem igitur notam efle executionis, quæexan te positis no ntr a haturnam nomen definiens, nomen in quitquid emigitur eft uox et c. definition autem nominis exante cognitis partibus sequitur similiter secondo priorum deenthimemate tractans, declarator et posito quidfis gnumdicatur, intulit Enthimema qudem igitur est syllorgismus imperfectus sed alii arbitrantur, ornatus causa a græcis poni.fica NOSTRIS LATINIS quidem enim adexory nandam orationem ponuntur: Mihi Arift. uerba et pro cellum consideranci, quando que epilogi, quando q exer cutionis, siue ornatus ellenota uidetur: quod facileex fuperiore et inferior scriptura, ne ambigua estimentur, perspicuum fiet. Quærit Ammonius cur dixerit. quçscri nos diuersos sensus habere in quo Magentinus fruftraconatur, Alexandrum arguere. itaphi sensusuarii quos exueris simplicibus cognitis et eifdem, acanaturacon di non sunt literem et elementa sed horum partes i secundo fiftentibus intellectus coniungit non omnibus iidem Xerit .literæ et elementa sunt SIGNA eorum, quæ in uoce: duobus modis respondet, primo hic Arif. de nomine et uerbo, acaliis propositis in proæmio speculari, cuiusmo aitq si'uerbum Aris ad omnem dictionem extenditur litteræ proprie sub his continentur quem scribuntur, elemens taueroquæ proprie in prolatione consistunt, subhisquem in  oce. Sed Arift. generatim loquitur de vocibus SIGNIficatiuis ut pars definitionis eft omnium, quæ in proæmio definire proposuit. Sed in libro poeticorum elementum definitur, a uox fit indiuidua: non omnis, scilicet per se significans sed ex qua intelligibilis vox fieri poteft.hic uero dixit eaquæ sunt in uoce.i.arbitrium, confilium, an passiones simplices quas de ipsis habemus, easdem res cognitio, intelligentia sunt SIGNA SIGNIFICANTIA et intelli SIGNIFICARE dicantur: cum semper fint distinguen deutdie gentiam conceptuun explicantia, non igitur hic eft fers uerfas res continentes Responde as aliudeile dicere paso mo proprie de elementis ex literis, quæ eadem sun tre, li fiones primas effe similitudines easdem, id eft a natura cetratione quam diximus differant, ledde uocibus SIGNIFICANTES fignifi constantes, aliud passionesesse naturales fimilitudines rem patibilem affirmamus primo de anima tery tio de anima ratione phantasiæ fiue cogitatiue quæ funt,l icet a positione et opinantium consili opendeant. His positis, patethorum duntaxat Arist. meminiffe, quia hæc sola sint uere omnibus eadem, adquæ anima cons paratur ut potestate recipiens quam obrem passiones Arift. appellauit alii autem conceptus, aut non iidemdi cuntur, autadillas, quas diximus passiones et similitudines, reducuntur hæc dehisha et enus quæ tunc docenda erunt cum de anima dicemus. De æquiuocis ambigunt. id est natura consistentes habebunt: quibus plura cognosscunt et representant, acreferunt licet voces quarum proprie ambiguitas dicitur, non naturas inteædem feda positione SIGNIficent: æquoca enim rem unam cominus nemnon habent: fed tantum uocem et hoc responsio, diz ui AQUINAS dictis, eft fuita. Sed obiicies ut Suella contra Porphyrium ubi voces funt eædema consilio, pofitæ, easdem primas conceptiones fine erroreaut falso SIGNIficant; non ergo ambigue loqui contingeret, ne quedifting bis. ubinamin Ari. patet, similitudines in primis esseres rum simulacra et naturalia ficutresnatura eædem omnis bus sunt? Respondeasextertiode anima animam, quodammodo efficiomnia,cum omnium formas,aut sensu, aut mentes uscipiat et quia singulorum formæ per animam cognoscuntur, LAPIS autem NON EST IN ANIMA,sed species et forma eius primum lapidem representans. Primum ergo similitudines et species rem et DURAM LAPIDEM ESSE repre reautillic Arist.dicit. Ad phantasmata intellectus confers tur, ut sensus ad SENSIBILIA a quibus natura mouemur: atque impossibile dicitur, qui nuis istangamur. Itemne celle Arilair, intelligentem phantasmara, id eft eorum SIMILITUDINES, specularit ex res autem o narura constent, tanquam omnibus perspicuum omittatur. Amnionius di de anima ad poftremo relatum dixit cæterum prodig tum de hiseflein libris de anima, scilicet tertio de anir TEX. BOETHIT. De his uero dictum – LAPIS EST DURA – est inijs, qui sunt de anima, alte rius enim est negocij. Eius demrei uel diuerfarum nam analoga, ut primum offensioad arteriam, fideconsulto et composito siat, illac concipiuntur, diuersa continent, ordine, comparatione qua commeat spiritus uox eft: tussisuero, non eft ea uox: seu proportione adunum collata. tamen eorum prime intelligentiæ fcuconceptiones eædem dicuntur, id eft naturra non arbitrio uariæ ficut voces: qux comparatione, reu proportione dicta A POSITIONE SIGNIFICANT simili ratione ambigua, id eft æquiuoca, primas conceptiones easdem, nus, quicum SIGNIficatione aliquaemittitur. Sed postula quamuis per eadem loca, machinamenta proueniat. quia, scilicet non ex proposito accidit nam aitfi necogitatio ne aut consilio vox missa, non est vox nam “hocomnino” in definitione uocis collocandum eft quoniamuox eft so in  guere differentes, qui satis ex notis locibus, atque errore, conceptionibus conftituere poffent, quod fit ads sentant, nam intellectus omnium, de rebus senfibilibus primum uenit, ex quibus VISA quædam et similitudines procreat ad quasintelligens feconuertit et cum intelli uersariorum consilium,aut quid ueline Dicas his disting dioneuti opus non effe, quibus ita hæc nomina sunt perspicua et communia, ut quasidomi ab ipsorum positione nascantur. Sed his qui quasi modo nascentes de notissimis rebus atque nominibus hæsitant, nihilq; ab aliisexplicar tum nouerunt: qua de causa, diftinctio in bis nominibus fiet, quæ habentur dubia: quorum res abditæ et arbitrium consilium plurimarum rerum et conceptum non gie necesse est simul phantasma aliquod speculari. phang ialmata enim, sicut sensibilia sunt: præterquam tertiode aninia sunt sine materia. fecido natura constant similitudines: non ex arbitrio pendent: quia ad similitudines comparatur patibilis intellectus, ut natura pure potentia aut poteft ate recipiens tertio de anima in natura enim anime ef tunum natura agens, alterum natura patiens ficut in omnia lia natura monstratur tertii. Prætes perspicuuin dicitur. Ad textum nunc redeamus. Ex uerbis his collige quod supra docuimus uenforqui dem igitur quandog ad exornandam orationem ab Ari. poni, ut hic: nilenim ex supra cognitis infert, neque alia quid exequendum. seu tractandum proponit. Queresab Arift.cur istorum naturam dillerere diligentius et proprietates omittis? quibusg ab animantibus instrumentis uocalibus proueniant: pulmone et aspera arteria, aquos ma at conceptus dicit mentis primi, quid intererit quo minus fint phantasmata: Respordet an neque alii phantasmata sunt, uerum non fine phantasmate tum in rum primo, uocis materia aer præstatur. ab altero, voces graves et acutæ effigiemfumunt.& q articulate dicantur a lingua, palato labiis, ac dentibus ut animæ rationalis motioni deseruiunt curhçcitidema positionc, alteraa natura confiftant atque fimilitudines rerum sint primum fimulacra, voces uero passionum ligna, ac notæ dicans tur: Ad hæc omnia putoAristot. respondere propterea abeo essereliaa o alterius est pertra &ationis, id eft ad alium pertinent modum considerandi naturalem deani, ma: nam pertra et are quanam ratione istaabaninia, ac instrumentis eius proueniant, an a voluntate pendeant, ut operationes, ad animam, suum proprium principium res rum voces primo res generatim SIGNIificare, sedl ogicos feruntur, de quibus ut supra diximus, secundo de anima differit ubi vocem significativa mex imagination animæ uoluntaria, Conum appellat: hinc ergo patet voce sesse SIGNIificatiuas sic enim ad interpretatio rum primo conceptus quod ex definitione Platonis aquo Grammatici acceperunt confirmant nomen nem dicuntur conferretex et apositione SIGNIifica re quia ab imaginatione SIGNIficant et voluntate ut commentato at Arist. asserunt. Arist. enimait oportet animatum esse ucrberans et cum imaginatione aliqua, id eit voluntaria cuius rationem adducens, inquit sunt in aninia et quarum passionum eq voces primum gnasunt etc sed contra quia eodemmodo nomen defini, tura logico, poeta, atque grammatico id autem ut verum fit in definition nominis declarabimus secundo fin nisharumuo cum eft idem ei ad quem oratio enunciatiua refertur hicautem eft interpretation rerum conceptarum, quæ idem sunt quod conceptus: SCOTUS vero quæstione secunda respondet conceptus SIGNIficarerem, ut similitudo et speciesrei, non ut accidens animæ dicitur, Sed non quæritur hoc, sed duntaxat, an voces principaliter, seu vox enim est quidam SONUS SIGNIFICATIVUS NON NATURALITER  ut SIGNIficatiuus est sonus respirati acris sicut tussis sed ab alio libero movente hunc aerem ad arteriam. Ing quit etiam Themistius acute hunc locum perspiciens hus iusergoaeris quem spirando reddimus percussion et quibus imaginationem passivi intellctus nomine appels landamcensuit tertio de anima primo de anima ex quibus tam obscuris verbis non potest concludi aliud, nifiquod poftremo deduximus non enim video quid suadi et a sequatur, fi primi et aliia primis conceptibus non sunt phantasmata, non tamen sine phantasmate, line quo nihil intelligit animam, nisi conceptus primo phantasmata representare et necesario: ut intulimus. Mihi autem VISUM eft, sermonem Arift. adomnia supra di et a potuisse referri, cuius uerifimile argumentum poteft esse. dixit dictum eft, quidem ergo in his quæ de anima, id est libris duobus secondo et tertio: ut retulimus; non tertio solum ut Ammonius opinatur. Et ut finem tandem quærendi faciamus paucis ad hæcadditis, poftres moquæramus nomina fiue uoces an primo SIGNIficent res, an conceptus? Quidam respondent, grammaticos finientes quod substantiam vel qualitatem significet et hic Arift.quæ in voce, ligna sunt earum passionum quæ de his quidem igitur dicemus in his que de anima alterius enim estnegocij: et um hoc Arift. Dehis quidem dictum efti nhis, quæ   in primis res aut conceptiones significent. Propterea uerius ad rem et senfum accedens, respondeo et nobiscum, sinominibus non concinnat suella, re tamé idem affirmat cum Alexandro primum pono voce tanquam ultimo in? Tentumfinem et principalius, mediatetamen, SIGNIficare RES et extremum, voces, an res ipsas SIGNIficent in contrariam partem Arift. et Comment. et quæ scribuntur SIGNA et no iæ sunt eorum quæ in voce et li uoces PRIMO SIGNIFICANT CONCEPTUS, et conceptus primum res, scripturæ ergo primum uoces declarant sed contrarium, leniuum teltimonio et experimento monfiratur. Quia scriptura homini et cei terarum rerum dequibus philosophi differunt, utimur, rei cum ipsarum explicandarum causa præterea epistola in uen fecundo autem minus principaliter, sed IMMEDIATE CONCEPTUS quæ duo afferta exemplo a scie manifestant urnam ascia ut instrumentum efficit immediatum sed principale seu princeps efficiens est artificismanus quod declar ta affirmatur, ut certiores faciamus absentes, siqu id esset rans primo de anima octauoThemist ait qprincipale ac ultimo intentum cognosci et definiri, indiuiduum dicitur: fed alio intermedio cognito forma uero uniuersalis fine alio medio: ut tamen ad indiuiduum cognoscendum refertur. Hæc di et ahisrationibus approbantur. Id quod eos scire aut nostra autipsorum interesset: igiturres poftremo, ut ultimü et finis, explicari intenduntur. Item fi quæ scribuntur SIGNA sunt vocum, autearum quæ extraani mam, quod impossibile eft, aut in anima: uoces autemin anima conceptus dicuntur, quos ad rerum explicationem in primis uoces SIGNIficant, ad quod SIGNIficandum nouos referriut sinem supraretulimus. Nunc ade aquæ adducerum nominum inventorim posuit hic autem ad rem explicandam uoces consticuit id.n. de uerbo considerans Aril. et manifestans uerbum SIGNIficare, approbat, quia consftituit intellectu. sed VOX PROLATA hominis tunc conftituit, et quie cerefacit intellectum non cum ad conceptum: sed ad naturam humanam deducit ergo voces et nomina tanguls timum finem in primis intentum res explicabunt licetins ter mediis conceptibus præterea primo elenchorum pris banturex Arift. respondebo. Non solum querendum quid philosophus dicat. Sed quid convenient errationi et sententiæ suæ vere opinetur audiendum. Hunc enim in modum. Aristoteles Intelligimus quæ scribuntur, sunt notæ eorumquç in voce i. confilii et arbitrii in voce quæ secondo intellectus et conceptus res explicantes dicuntur. Sici nterpreteris quæ ex Arift. adducuntur que scribuntur sunt lignaeorü, quæ in voce i.explicant cum voces defuerint ea, quem ex plicantur per voces, quarum uice fungitur immediateer go uoces sed non tanquam ultimum et extremum, quod mo, uocum finem declarans Arist. ait: quoniam res addil serendum afferre non poffumus, utimur nominibus loco rerum ad explicationem ergo rerum, consideration uocum referturnon conceptuum, ut fine mulcimum. Amplius. Idem opus exercetcumeo, cuiusuicemgerit, utdeconsu metaph. Ratio illiusrei, cuius nomen est SIGNUM, definition eft uox igitur rei per definitionem explicatæ, SIGNUM dicetur. Item teftimonio fenfuum confirmatur:quorum clara& certaiudiciasunt, eorumquærationeetiamiudis cantur.Ad quidenimtam diu expectamus, flagitamusuo le, rege et pro-consule, siue proregein vollendiscontro uersiis perspicuum est. Scripta autem vocum uicem exercent. Idem ergoextremum significatum habebunt. explicationem, scilicet, conceptarum rerum. Amplius literarum inventor, ad rerum explicationem direxit et Auer. Ait scri cum interpretationem: nisi ueri inuenié di gratia in rebus, pturas SIGNIficare uerba, id est fine medio et SIGNIficata uer quas cognoscere cireftatuimus I denim uolumus et borum cum forte uoces defuerint, hæc dequestionibus ardemus defiderio tang extremum. Ad hæc.fi conceptus sunt inftrumenta ipsa rumuocum ut ad rerum notitian mediis conceptibus ducant nó igitur ultimum et extremum que verum adbucest. SIGNUM autem huius est, hır coce e ruus enim aliquid SIGNIficat, sed non dumuerum aliquid, vel falsum, fi non uelese, uel non esse addatur, uclfine pliciter, uel fecundum tempus. Est autem quem admodum in anima aliquando quidem o falsum. Nomina quidem igitur ipsa Q verba consimi liafuntei intelligentiæque est sine composition neo diuie suimus et rationibu sacsensibus, rationem confirmatibus fone, ut “HOMO” uel “ALBUM”, quando non aliquid additur: nes approbauimus. Pugnabis poftremo, fi uoces, mediis con queenim falsum, nequeuerumadhuc est. SIGNUM autem ceptibus explicationem rerum efficiunt: cum immediate bus ueritas et falfitas inuenitur, hæc autem conceptus sunt, non res ipsę. respondeasuerum et falsum in conceptibus, ut in rerum similitudine inueniri: quæadipfarumuerará rerum cognitionem refertur uerum in rebus est, ut in causa. In poft prædicamentis cap.de priori et in fine huius primi libri itap attributiue. i. per attributionem et collationem ad res, veritas in conceptibus erit: uere autem, ut in causa, in rebus. Dices propter quod unum quod am tale et illudma césrefertur, ueascia admanus artificum: quod suprapor SIGNIficatum non ab organo sumi oportere: sed ultimo explicare conftituunt. nam quod uicem alterius perficit, dum uerum aliquid uel falfum; si non uel esse uel non effe  fatis, ac principale SIGNIficatum vocum dicentur. Etfiobiicietati quidem intellectus fincuero, uel falso, aliquando autem cuiiam quis Arift. textum, quem retulimus voces PRIMUM SIGNIFICARE CONCEPTUS intelligas fine medio alio. non tamen,ut necessees thorum alterum in effe, fic etiam in uoce. Circa compositionem n. o divisionem, eft uerum,o falfum. No ultimum et extremum SIGNIficatun. Nam uoces dicuntur SIGNIficare conceptus, ut rerii sunt similitudines ut ab ipsis rebus conceptus uenisse ad intelletum dicamus, quas novissime, ut finem et ultimum intermedias conceptibus per voces clariores NOSCAMUS. Nec secundum eorum argumentum concludet. Voces ea in primis ut finem SIGNIficare in quis mina igitur ipsa et verba consimilia sunt ei, qui fine comegis. Si ergo voces mediis conceptibus explicantres, igitur uoces magis et inprimis conceptus, q res ipsa saperient. Dic Aristoteles locum ualere in causa principe. i. principali non iuuante tanquam instrumento, quomodo conceptus a duo intellecus et cogitation fine vero uel falso, aliquando autem cuiiam necesse est alterum horum ineses, ic, etiam inuos ce. Circa compositionem enim et divisionem estuerum conceptus, ut accidentia denotent, nunquam substantiam explicabunt. Paucis, ut supra, respondeas, tocum propria addatur, uel simpliciter uel secundum tempus et extremo fine intent. Quod quandoq substantia quando g accidens appellatur. Huic veritati Alexander et Themistius ascribunt, etc. Ammonius non dissentit. Secundo quæs ritur, an scripturæ siue quæ scribuntur, tanquam ultimum Magentinus hunc in modum Aristotelis textum cum præce denticonne et tit.cum duo sint investigata. Primiiquonam modo nominis et uerbi SIGNIfication intelligenda ellerutrum TEX. BOEZIO (si veda) Est autem, quem ad modum in anima, aliquando positione, divisione est, intellectui. Ut “HOMO”, uel, “ALBUM”, quando non aliquid additur, neque enim falsum. Ne huius est, quia “hircocervus” aliquid significat sed none E   hæc duo fineab Aristotele, posita, causam et finem curitapo ratiocinatur. Quem ad modum in anima intelle usquando fuerit, non declarant:ut.l. quid nominis partium definir tionis nominis et uerbiorationis, enunciatiuæ tang præs cognitions ponag ntur. Alterum etiam secondo dicúrey fello. Non et enim video ubi investigauerit Aristotele inquibus verum et falsum inveniretur. Quod nucquog inueftigare constituat. Item pugnantiacum Ammon. dicit. aitenim in anima eft quando querum aut falfum et ita probatio Ammonius per hæc utilitate in ad institutæ commentatio, esset minorisibi. Circaca in positionem. n.intellectus et di nis propositum tradi cum. C. verum et falsum sit in mentis uifione meftuerum aut falfum conclufio ut claratuncre concepribus et uocibus ut SIGNIficantibus et quodnumcdo linqueretur ergo itaerit in uoce sed uere arguit ex hypo cet philosophus non in his simplicibus sed compofitisue theli, non potential cathegorico syllogism nam cumpos rum et falsum spectari non nominibus nisi ut peroratio fitionem quodammodo ignotam manifestet, non syllogir n e m enunciatiuam a firmativam coniunctis, vel per negativam divisis, ita gnó in quit hæc quæ diximus Aristotele docuif m o arguit. Ex quo aliud ignotum natura concluditur, sed ex hypothesi, ut diximus et infradicemus. Prætere aut Commen et Ammonius asserunt ibi circa compofitionem enim et diuisionem non minorem sed approbationem unius partis antecedentis apponit. Aliquádo intellectus cumuero et falso fit SIGNUM est particula enim quæcau sam propositi denotat, scilicet quia verum et falsum sunt circa compositionem, id est affirmatione, quaaliquid cum falsum in compositione et divisione sequuntur intentiones se: sed nunc docere et in conceptibus et vocibus ut SIGNI? SIGNIficatiuis, falsum et uerum spe et ari,dum coniunguntur aut diuiduntur non persesumptis. Addeex Amm.hæc Aris. Nunc docere ut alteram orationis parte mante cognoscat. Dices pro Magentino illa quæ dixit, ab Amm.ferem aduer bum superiori textu sumpfife cuminquit cumhæcitaq percaquæ nunc dicunturtradentur. Iuocesesse SIGNIficati was rerum mediis conceptibus tum uel maxime quibus in rebus quocunq fuerit modo ueritatem ac falfitatem scruz tariconuenict C. inhoctex. Addés uero quem in textu supe intellectus. i. sunt in anima, sexto metaph. Ergo eruntin riori confideret ait. de quibus in præsentia nobis perpen uocibus seu uerbis significantibus ipsas conceptiones, ut fioest. Utrumin rebus anmentis conceptibus, an uocibus, Comen. animaduertit. Exhis declaratis etiam patet,q in aninquibufdam. harumduabus: anetiamin omnibus. telle et usfitali quando finc uero aut falso, idq; tangexsuo fiin uocibus qualibus his scilicet compofitis non nomine et uerbo et prædicamentis, ita incompositis conceptibus qui causa funt locum, no per le in simplicibus nec compo! Fitis rebus) Sed animaduerte quod dixerit nobis perpensio uisionez.i. line uero aut falso hæc exemplo manifeftat subs inprçsentiaeft) quod tamen inferius considerabit. neg dicitab Arifthæcquæ ipse perpendit, inveftigata nec'ait Inveftigasse Aristan SIGNIficatio nominis et uerbis olī, pen deatexuocetantum, an ex intelligentia uel rebus: sed quo cunq; fueritmodo, inhisueritas et falfita seft, ute xplicátis bus instrumétis hac enim ratione res ipfa sabiecit adquas famen ut extremum et finemultimum explicandas, uoces ter et non admittunt: ergo nec dequominus: nistuery et conceptiones animæ referuntur, q siquispiamhęcquæ bum effe affirmatum, aut non effe negatum addatur. fim eft fine uero aut falso, quando cuihorum alteruminesse necesse eft, ita et in uoce: hoc totum eft propofitio maior, affumptio et minori bi.circa compofitionem enim et diui rionemestuerum et falsum et non circa simplicia, ita ergo erit in voce. Sed contra: quiaminor hæc effe debuiflet: fed alio componi SIGNIficatur, aut diuifioné, id est negationé, qua explicatur prçdicatum a subie&to disiúgi. et uerum et opposite perspicuum utcorolarium et consfequens posuitcū ait. nomina quidemigituripsa et uerba consimiliasuntei intelligentię fiue intellectuiquiestfine compositione et di ftantię et accidétis: “HOMINIS”. C. et “ALBI” . utexhisomniaalia prædicamenta intelligatur. quando. n. his non aliquid ads ditur, fcilicet uerbum prædicatum “ALBUM” cum “HOMINE” suz biecto coniungens, neque falfum ne que uerum adhuc eft. Hoc denominehyrcoceruimanifeftat, nanquehuiusinor di compofita nomina uidentur uerum aut falsum admity  exvocetanti: m, aut sola intelligentin, an ex resolumuos ex Anmonio dicimus non probarit, inutrunq zfitdi&tum. Cesitemper animi sensus rerum elle interpretes. Secundo inquibusuerum et falum inuenireiur quòdnunequoß idoftendendti Arist. proponit. fedutrunchiltorum reiicio. non eniin fupra inuestigauit. Sed pofuit, ut persenorum, AQUINAS dicitq postquam tradiditordinem SIGNIficationis uocum, hic agitde diuersa uocum SIGNIficatione: quarum quædam uerum et falfum SIGNIficant: quædam non. Sedli cetuerumdicatur, ut de Ammonioreiulinius: tamenfine nomina et uerba SIGNIficatiua efle, cx hoc peaquæsuntin cuius gratia ista ponantur,fubricuit: Licédumigiturcum uocefunt SIGNA ET NOTAE SIGNIFICANTES PASSIONES nullomes diointerie et o, hisautem mediis, tanquam ultimui, res explicare. prçterea non uideo ubi inuestigarit, an nominis et uerb SIGNIgnificatio intelligenda esset ex uoce tantum, aut intelligentia tantum, aut ex re solum: fed hoc posuit sunt uæ, quibus etiam differebantabaliis: nuncuelleconstitue quidem ergoquę funt in uoce et c ut SIGNIficatio sumatur non ex uoce tantum, nonintelligentia, fed arbitrio,cognitione, et CONSILIO et  imponentium consensu, quem in uoce re feuante cognoscere differétiam, qua oratio differtano mine et uerbo: et quaoratio enunciatiuaaboraroriis poeticis optantibus et c.separatur et quoniamquępones reoportet et antecognoscere, ut per senota, non isialiquo facili instrument innuidebent nullo modo demonstrari. Propterea ex fimili seu hypothefi, &cóceflo, acpofitotery expaétione et confilio reliquerunt acuoci per attributio né dederunt at nullamentio eftfaéta de rebus, anabeasu mendaeflet SIGNIicatio nominis et uerbi quoniam maxiy m u m esset ignorationis, ac inscitiæ in Arift. argumentum, firem tam perspicuam, nec dubiain pro occulta quæliffet tiam definitionis partem et differentiam manifeftat.cũ inz quit. esid. ubi, ',proenim Magentinus uertit. ut causam hic assignareuelit ut Ammonius et Aquinus dixerút, acdubia. cuieniniuelrudi dubium uideretur, nomen et uerbum quod ut organum et instrumentum SIGNIficant a rebus, inftrumenti SIGNIficatiu et organi cognoscendi alte rum, SIGNIficationem habere, cum tantü SIGNIficentur, et nul lomodo SIGNIficent ine SIGNIficare et explicare,utorgas num logicum uideantur? Item ea SIGNIficatioerat nomio nis et uerbiponenda, quæ ut præcognitio partium definitionisadea cognoscendadirigeret hæcautem eftuoxa de quo nunc differemus aitergo de antecedente syllogismi exposito ficutuelquem admodu menim eft in anima intellectus cogitatio, intelligentia vóruceenim ifta SIGNIficat.) aliquando quidemsine uero uel fallo: aliquandouer rocui necesse esthorum alteruminesse. Ex hoc posito et notiori antecedente infert quodammodo ignotumin choantibus consequens ficetiam in uoce ut SIGNIS ET NOTIS CONCPTVVM erit, aliquando sine uero uel fallo ut in nominibus et uerbis, aliquando cuinecesseestiam horum alterumin effe: ut in oratione enunciatiua, Suellaueroita pofitione SIGNIficans,non res tantum SIGNIficata: a uoce ergo et intelligentia in voce relicta, Ctributa fiue attributa SIGNIficatio nominis et uerbi pident, no ar ebus. Amplius: Suela nam licet fupra male textum Arist. declararit Sucr sa, nun cueritatecoaaus idem dicit quodnosin explicans do philofopho dicebamusp ofitisduabus partibus defini tioniscómunibusnomini et uerbo et orationi enunciatis pliciter,  efle, quamartemutexemplar, adopuseffin latenus inc aliquiduocum: nec eorum quæ in voce, no ut gendumexteriusafpicit, qopusexarte notioriinmates finis: cum conceptus prior fit uoce et ueritate quem in uoce confiftit: non ut agens.quia res agens est, a qua oratioues taut falsa vocatur sed non difficileest Amm. et Aquinas. sententiam et opinionem, a Suessæ argumentis defendere. primum, absurdum affirmat. Conceptus non tangformam SIGNIficant: qui in voce tang artificiali materia relinquuntur: quo esseueriautfalliinuoce, cumnecaliquidfintvocum, nec cumuiuocessuntnotæ: Exhisrespondemus: rationem eorum quæsuntin uoce: Peroenimabeocumsupra dixe ritArift. Eaquæfuntinuoce etc.nonnifiarbitrium, et placitum, cogitatiointelligitur: ut ipse metcum locum interpretans, opinatur: ergo conceptus est aliquid existens in voce, non utopus naturaleest, sed arte.i. uoluntate: confi et um. Itemipfeconfiteturuocemsignificatiuam,communeges nusnominisuerbi& orationis enunciatiuę uocari: nõuo lessuntsimilitudinesrerum.Seddicessecundomenunc cé, utnaturaleopus. Ergouta cognitione, imaginatione pugnantiadicerecumhis, quæanteacontraAnimo.Boe uoluntaria effi&taeft: ut signum fit ad aliud extraexplican thium,& Scotum diximus: orationen dariinméte et no dum relatum: Et fecundo de anima Averroes et Themist. tioremesseea, quæinuoceconfiftit. Diximusadhçcartis fumentes ab Arift. asserunt: essentiam uocis interpretatis inuentoribu sueliaminuentam docentibus, ineodem no efle percussionem aeris anhelati, ad membrum quod cana tioremesse artem, acconceptionescūuero& falsoinani dicitur, ab ex pulfione animæ imaginatiuæ uoluntariæ: et ma, quam exterius opus effictum: ficinpropofito,excong infraqinessendo uocem necesse est ut percutiens habeat ceptibus rationem coposuit, notioribusapositione signifi animam imaginatiuam, tuoluntatem:effentiaergouol catis:quiquodammodonotiores:utindu&ionesensata cispendet abipso conceptu et placito reliéto a positione patet infraenim sectione quinta ex opposition maioriin in uoce, tangforma et uox uropus naturæ interpretans mente, explicatitae! Tein uoce: Item placitum est causa, a placito ab anima etiam, tangagente, depédet: nam secundo de anima. percussiorespiratiaerisad uocala arteriam ab anima quæinhispartibus uox eft ut efficiente causa hinc Cómen. Inprincipiocómentiait oportet igiturut percussioaerisanhelati ab anima, queestisismé præcognitionem partistertię definitionisratiocinatur:no brisadcannam, fitillud quodfacituoc a et inmediocom igitur demonftrationem effect quæadnaturaliterignos menti primum enim mouens in uoce,estanima,imagina tiua et concupiscibilis et ideouox eftsonusilliusprimi uolentis et mouentis. Etq etiam dici pof sit quodammo dofinisuocum, perspicuum est ex his,quæ fupradocuio mus: fine muocum effè eriam res conceptas: namorgal na ad eorum opera, tang finem et ultima, diriguntur.pris mo topic..cumnonpropterse, sed propte ralterum exo petantur:sed uoces SIGNA sunt ET NOTAE CONCEPTUUM adquos explicandosreferimus: finesergo medii,licetnon ultimi tumdir igitur. Secundo post.primo. necillam utperitus ad rem per se nota efficere potuit. ne ipse suampręcogni tionum artem confirmaturus experiment contrarioinfir maret. Itidemminime consecurionem ualere dicimus:ra tio ex caufis eft notioribus, ergodemóftrationempropter quid aut simpliciter constituere affirmabitur quoniam alte rum& pręcipuum demonftratiodi &arequirit.utadigno tum naturaliter dirigatur, non ad pręcognitionem ponendam, utpersenotam:nam primopofte veręetiàdefis uocabuntur: Exhisfacileeiusrationibus respondemus. nitiones, quidtantum nominis non ueræ definition suim haberedicunturab Auer. Utpræcognitiones sunt:ita et fi hæc præcognitio ex caufamonftretur, nonutdemonstras tiua, fed ut ex fimili accepta, et uisa, et alibideclarata; pros ptereatopica potius, quàmdemonftransuocanda:noto pica,o fitdubia, autfalfa, immouera, sed hic accepta alig biuisa philosopho et hic posita, utc redita:dequo latius ressecundum feeffe dicantur, nótamen apudeosquicon ceprus et res conceptas ignorant: adquarumexplication nem, utultimum, referuntur. Ad tertiam de agente dico: inquit exAmmonioait. Primo quiahæcconfi& anomina rem, agens remotum uocari: aquo intellecus phantasticus falsum significare uidentur: ut. Aquinas ait. Sedcótra.quia fimilitudiné abftrahit: sedanima, ut naturaagens,uocem ab Aristotele dicitur sed non dum uerum aut falsum signifi interpretantem tang operationem propria mefficit, &lo cant. Nifi effe aut non effe addatur: ergoutrunque signis gico tradit: cuilogicusproprium considerandi modum ficareuidentur. Item causa assignandafuiffet, curexem attribuens, utinftrumentum significandi et explicandicon pliscöpositis (que uerum dignificare potius etiá uidentur) Ad primam, utpatet, intelligentia, inuoceartecong fi et tareli&ta,eft,utaliquiduocis.i.forma. Ad secundam Q non fitfinis, nonualet, idpriuseft,ergonon finis:Deus enim eftpriormotu&creatura,quæad Deicognitionem deducunt, ut signa et effe&ta ad suumfinem cognoscenda directa: fimiliter dicatur de uocibus, et fi conceptus prio riaexternareli&um: manifeftum eft argumentum qdixit Arist. bon uoces: sedeaquæsuntinuoce, suntsignapass fionum et conceptuum,utnaturaliumsimulacrorum et res rum fimilitudinum. i.cóceptusapositione,(utratio)signi exfimilinotiori, et fuperiusab Arif. pofito, exlibrisdeani maprocessisle: ficutinanima eftaliquandointelle us fineueroautfalso, aliquandocum horum altero: ita& in uoce: et de uero et  falso loquitur utAlex. et Ammo.ac cæteriboni expositoresaffirmant)orationisenunciatiuæ, et denominibusfignificantibusaplacito,nonutnaturas quamobremuoces significant cúfiuntnotæ. Necproptes reao conceptusutcaufedicuntur.quosnomina et  uoces tanquam SIGNA et effetusimitantur, afferendúeftArif.des monftrantem rationem efficere: namhich ypotheticè ad Deoda nieprimotopic. dicemus. Quæruntcur Arift.fis &aprotulitexemplapotiusquàmuera.Sueflasumens ut  pliciter, quod præsentis efttemporis.aut secundum tome pus.i.præteritum& futurumut Com. explicauit. De Am monii expositione dicemustunc,cumaddubiaresponden bimus. Quæritprimú Suessa.qualisnam ratiocinatio Aris. fuerit(quéadmodum inanima quandoq intelligétiafine ueroautfallo, quando quehorumalterumnecetle eft in esse.respondet. Aquinas et Ammo. intex. præcedenti,nes liderat, accognoscit: Respondendum ergoest uteftdig &um Arift. exhypothefileu positione,& ex fimili notion riprocedere: quod quemadmodum particuladenotat. dum asimili: sed a causaquamimitatureffectus, proceder re. nam Ammo. ait: circa enunciatiuam orationem quæ quæsupraetiam Aril. poluit: namproptereauoxfignum exillorumcomplexuefficitur, uerum et falsum spectari. &notaexterius explicansdicitur, qapositione et intellig ante voces quoq; hæccircaconceptuscósiderari.utqui causæ uocuinlunt,aquibusconceptusfimplicesfineueris tate, et compofiticum uero et falsodefignantur et declas tantur: Responsionem improbat Suelta: quia conceptus non causaueriaut falliinuocetang formasunt:cumnuls duftioncperspicuum eft ut Amnioniusanimaduertit no tioremartem Seddices ratione inaliniilieffe& et tamex ignotis concludes re, nanieaexquibushic ratiocinatur, extertiodeanima infrasumuntur: hæcautemtanquam ardua,& inchos antibus difficilia,utphilofophus,& relinquendasupra nosmonuit: Satis huicrationi faciendum arbitror ex his, gentiaatqzarbitriopendet:ineo presertimartific equivoces impofuit: uel ab impositis et Gibi notis nominibus, regulas logicæ docet:in mente enim artificis& docétis ing E ii   quærimus, ad que causa hæc nondirigitur. Tertio dicit: ut quçinintelle&usuntfolo.sednefcioquçueritasdicipót, cuinihilextraresponderinre:cum infra& inpoftpredi camentisdicatur abeoq resest, uelnoneftoratiodicitur uerauelf alla remota aūt causa et prima radice, ceterade ftruinec effe eft. Item Aristotele de vocibus loquitur. Propterea mihi hoc libet dicere. Hac de causa fiais exemplissuasen tentianicomproballe,o fi&aamer a positione significant: et ideo magisobuia& perspicuaacconsuetafuntadexpli candum: ut quod ámodonotiora, ut magisuulgata, exars omnemueritatem haberiin compofitione& diuisione.ne excludatur ueritas apud Platonem in intelligibilibus,& in telligentiisfiuemenubus,& apudArift.desimpliciuming telligentia et abstractis: fedeam que in pronunciatiuissubs est motibus, scilicet cum discursu: seu ratiocinatione: quæ perenunciatiuam fitorationem.&inniotibuspronuna ciatiuis,non invoce solum (intelligas) exiftentibus:fices nimtextui Arift.& eiusdillisaduersantiadiceret.sedetia ne&diuifionefalsum et uerumremouerineceffeeft:pro ptereaergodixit, (circacompositionem at causam noia ret: sed ad nomina in uoce descendens ait non significare uerum, aut falsum: significare enim proprium eftnomi num, quæinuocea compositione significanteconfiftunt. PetitAmmonius quomodo uerum fit, circacomposicios innueretueritatem non in rebusreperiri:fedinhisetiam, nem et divisionenelle uerum et falsum. Responder non nonutitur: ficut utiturhis, quæ falsum significare maxime affirmantur. fecundam causam adducit: utinnueret, non solum nomina simplicia ad ueritatem explicanda indiges reuerbo sed etiam ipsa composite. Sed idem est dicendum de nominibus compositis ueris, nosautem de fictis proprie non  bitrio plurimorum: exhistamenfi&lisnominibus, aliaue ca intelligendasunt. exempla autem innotescendi gratia inuenta, exuulgatis& consuetistr ad endafunt et lificadi cantur: quibustaméuerum facilius inueniamus, autinuen tum facilius doceamus: Petit Suella cur Aristotele.dixerit conpositionem significare cum uero et falso, non autem significare uerum aut falsum i respondet, hoc differreinter significare uerum et significare cum uero:quias ignificare ueru potest uere in nomine simplici inueniri:u.g.hoc nomen uerum aut fallum, simplex verum significat.i. se ipsum: sed significare cum uero, eftfignificare cum uerbi complexu ut de uerbo dicetur, significare cum tempore, notempus: ut dies et annus sedlicethęc dubitatione relinquenda foret, cum id quærat, quodin Arift.textunoneft:tamenneaus inmotibus pronunciatiuis, ideftquicaufafuntutper enung ciatiuam orationem pronuncientur,ueritasergoquacon ditorum ingenia, obuiriau&oritatem fallantur, ponere& cipitur,aut enunciatur aliquid ineffc alicui,folum circa con pofitionem et diuifionemeft,utspeciesorationisenuncia tiuæ.dixieam ueritatem circacompofitionem elle,quæ concipiturinmente, uelexplicaturinuoce,& quaprædiy catuminesse subiectoaffirmatur:quoniam primotopic.4, loca accidentis propriè dicuntur,quibus potentes fumus concludere hæc alteriineile:& ideo locaeducentia uerum enunciative propofitionis dicuntur loca accidentis et veritatis qua aliquid alicui in esse concipitur vel explicatur:Sci scitatursecüdo Ammonius cur Aristotele dicens nomina igitur et uerba consimiliaíunteiqui sine compositione et divisione est intelleclui exempla protulittantum nommun, non uerborum dicens, ut “homo” vel “album”. Respondet per hominem nomen: per “album” verbum fumpfiffe: non eata meninquitratione, qua verbum proprie inferius definitur. Sed quia Aristotele statuit, omnemvuocem quæt erminum prædicatum facit, verbum appellanda. Sed responsio hęc improbandauidetur: primum q Arift.nondieetinfraprę refellereconstitui: non. n. Aristotele dicit compositionem cum uero aut falso significare: sed ait circa. n. compositionem et divisionem elle veritatem et falsitatem. Item de “hircoscervi” nomine afferuit. “Chircocervus” aliquid SIGNIficat, sed non dum uerum aut falsum de nominibu sergoopposiy dicatumu erbum appellandum fore: quod fictiam dices tum dicit eiquod Suellafingebat: nomina non significare ret, exemplum albiquod posueratantea, adexplicandum uerum aut falsum, sed significare sine vero aut salso: Eiusery uere uerbum, inutile videretur:Aliter igitur responden, gore sponfioin textu Aristotele.infirmatur, cum denominibus dum. His exemplis dicta inchoantibus comprobandaque compositis neget significare verum aut fallum: differentia etiam abeo assignatauerbis Aristotele, adversatur Ampliu snec potuisset Aristotele dicere, compositionem et diuisionem verum significare, na in compositio. i.affirmatio et divisio.i.negay cumuerbonominibus:tamenutnotaprædicatumcuin ciosumerenturinuoce quo infrade oratione enunciatiua dubieto connectens, dubiumfaciunt, anuerum et failum dicetur. Litoratio significans verum vel falsum, &inqua fignificent, signum est. Ammoniusetiam tanquam duy eftuerum& falfumutinfigno externo significante:nam oratio in mente, non significate positione, ut hic intelli, bium quærit de uerbis primæ et secundæ personæ “ambulO”, “ambulaAS” et in quibus tertia persona et certas statuitur. Git SIGNUM est opde nominibus fimplicibu s& compofitis, line uerbo, intulit dicens nomina igitur ipsa auteur bacó similia sunt fine compositione et divisione intellecus. lt homo et album hircocervus quæ et si aliquid simplex significent, non dum tamen uerum aut falsum hæc autem nomini in voce sunt, noninmente: quiafiutinmēte essent, ut ningit. quæ veritatis et falsitatis videntur capacia. Licet nonperfe, fedcomplexuhorumuerborum cũcertispery fonis.nonitadubium eft de nominibus, dequibusinse acceptishæstat nemo, an veritatem significant aut falsitatem: Quærit nouissime Ammonius quid intellexerit Aristotele. Per simpliciter, uel secundum tempus cum ait. (hircocery considerentur, non dicerenturno significare uerum aut falsum et q effent fimilia intellectui fine compositione& diy uifione: quia essent ipseintelle&us,seuintelligentiafineue roautfallo: Dicendum igiturin questionem potiusuerten dumcur dixerit (circac compositionem.et divisionem, ut inmentesunt, est verum et falsumj denominibus autem in uoce corolarie inferens,ait:(fineuerbonondum uerum uusenim aliquidsignificat:fednondum uerumaliquid autfalsum, finon, ueleffeuelnonesseaddatur,uelfimpli citeruel secundum tempus. respondet sermonem Arif. ad eadem referens verba, inquiens: nifi effe addatur fimplicis ter,ideftnisi effe addaturindefinite et indeterminate significans: ut “Fuit hircocervus” est, auterit. Non definiens, ac determinansan hodie, sero, anmane, perendie etc. vel aut falsum significare. Ad quod respondendum, quod fecundum tempus, ideftnifiaddatur cum aliqua determis propterea vox quando eftfineuero&fallo, quandoque natione tempori addita præsenti, præterito, uel futuro, cum his, quia circa compofitionem et divifionem intelle, sciliceterat,eft,erit,herianno superiori, hodie uel cras, et us eftuerum et falfum:ex quo intulit de nominibus in autsuccessiuotempore.quam tamenexplicationemaci uoce, gfintfine uero, X fallo ex eadem causa, pfimiliasing intellectui fine compofitione et divisione: circa quæuerum cipiens Magentinus uel in latinum vertens non intellexit: cumpereffef smpliciter et omnino, in, finitoacdetermi et falsum uersatur, ut caulam, quaposita, uerum aut falsum i ponitur. et hac remota (ut in nominibus fineaddito uery natotemporeintelligat. Ad tempus uero et in tempore infinito. tragelaphuserat, uel erit, hęc.n.infinitafunt: fed bouidetur, quæ fimiliasunt intelligentięfinecompositio eft presentist emporis, aitdefinitumelle:l iceteft, ut de Deo facilius conftitutam sententiam approbant verba aute in ut dicetur quandam compositionem significant, quam licet ex se non habeant, sed ex alio, ex compositis, scilicet dicitur infinitum significet: Idem Deus, erat, et est, sed in aliis rebus, tempore non definite uti murita. Hinc liquet, igitur erunt: quæ et fiacu et explicite verbii, prædicatum et subiectum ut nomina non contineant, illata men eximigit, ergo et hic per tempus dimpliciter, tempus præsens, 8C per secundum tempus præteritum vel futurum: quæ pros ptereanuncupantur et lunt, quere tempus prælensciry cunstant, iuxtas; ipsum ponuntur: propterea dixit, secun significat, quemadmodum in oratione quaestequus ferus. Ofitis et precognitis partibus definitionis nominis ac nunc ad definitione sponendas integras ac totas accedit: sed Ammonius querit cur primo de nomine ade verbo definis dum tempus quod non simpliciter et ina et ueft. Sed quod.tionem assignet? respondet, proptere a nomen uerbo esse præteriit uel futurum est: solum præsens simpliciter et in actuest utre et te. Aquinas exposuit. Nec Sueffe confutatio ualet et que liber differentia temporis est tempus secundu quid: quoniam per aliquid ab aliis differentiis differt: quod autemper partem est, fecundumquid, non simplicitertas antepositum, qnomen substantiả.i. naturam et vim rerum significat: verbum vero a&ionematqz affetionem, quænel Cellario naturam acuimmouentem supponit. contraarguit Sueffa. substantia non nisi per accidentia cognoscitur, prius ergo verbum definiendumq nomen: Ad instantiam, Am Icesse dicetur: primo clenchorum. Sedĝfalla hæc fit monius facile diceret substantiam cognoscifine describir improbatio patet, quiaens, cumin substantiamens simplisciter diuidatur et accidens, inaĉtum simpliciter, et potens tiam secundum quid, ne quaquam uere divideretur: quia per aliquid differ substantia ab accidente et potentia ab aétu, &fi proprie differentiam non habeant. Item ratiofal lit. lihęc species per aliquam differentiam acuprecipue differt, rrgo per partem. Igitur secundum quid. accidenti aut posteriora accidentia vero per substantias definiri, ut priores: fic Aristotele primo naturam quam motum finiuit, aquamotus, ut perseprincipio, prouenit: et materiam primo phy..g formam. phy. quæ a materia cuiu nitur& datellelustentatur, Aliteripse respndet, proptere a nomen uerbo prætulisle, onotius est. Et iterbi feconuenire Arist. affirmauit, sed enunciationitantu: erunt igitur enunciationes, cum enunciationis proprium opusef signum. sed compositionem acueritatem comsignificat quan fician. Suellanouariis Sorticularumdi et tis et improbatis sententiis, hocuisum est: literas et nomina quo ad prima eorumimpo fitionem, non significare nidi in complexum, nec cum uero et falso: sed quod quo ad nova impositio, nem, significare possunt cum vero et falso: propter eaqapo in compositione explicare fine additouer bonó possunt. Dis fitione sunt. Nung tamen erunt propositiones aut enuncia cas Querbumetsi compositionem extremorum aétu non tiones: propter eanóualereait, a, significat cum uero aut dicat, a et tionem tamen, et affectionem significat, quæ causa fallo, ergo enunciation erit. Quoniáin quit oportetinantes est, qpredicatum seu appositúsubie &ofiue suppositocon cedenteaddere. significet ex prima impositione, nonau iungatur, uerbum ergo lempereftunio comiungens apritu temex nova institutione. Sed contrahancadditam conditio dinesaltem cum in propositione non est. Sedcunsecundum nem ex proprio arbitrio. Enuciatio prima impositiones isse, acpurú accipitur: nomina uero sunt composita, seu quæ significat propriecum vero et falso. Ego ubi est proprium apta sunt pera et tumuerbi coniungi, proptere a nomina pen opus, necessario propriumerit instrumentum: neq; enima denta verbo, quasi formauniéte et verbiianoíe quasimai nova aliqua institutione propriú opus a proprio inftrosen teria, qunici habetp uerbum. Ut materiaaŭt, tempore pre iungipoteft: proptereafi. a. b. c, etc.  novis aut antiquis concedit forma, et prius, ut facilius et ordinenecessitatisnos Giliis&pofitioneimpositasunt, ad verum et falsum, seu ut menanteafiniendu. Verbum vero, quniéda funt, prçsuppo ipfi volunt cum uero et falso significandum. enunciationes nés, posterius ut ignotius et the posterius explicandú: quas quando secundū se, acpurumdicetur. Ipsum.n.sic purumi nullüueritatis et compositionis, aqua verum explicatur, est dam, nonperse, sed quam sine compofitis nominibus non est intelligere. Gi ergo hac de causa nomem præponit verbo, q notitia verbi in compositione verum explicantis, non pont, intelligi sine nominibus compositis. Ita et nomina, uerum  illud, quod Ammonius, tempus simpliciter et omnino, ponentium CONSILIO coplcctuntur. Exemplo simili Amm sus ideftindetinite et indeterminate significans, appellabat, Ma, gentinus dicit esse tempus finitum et determinatum. Et parsticula, quam Ammo. adom né temporis differentiam rer pra, cum dicimus "curro", "curris", nin git, pluit, complexuhorūuer borum cúcertis intelle&is personis, cú vero et fallof sgnificant. ferebar, Magentinus ad solum præsens direxit. falsum igir. Girolamo Balduino. Balduino. Keywords: il vestigio dell’angelo, Campidoglio Inv. # 334, donazione di papa Gregorio, logicalia, interpretatio, interpretazione, logica, signum, segno, nota, notare, notante, segnante, notificare, segnante, vestigio, il segno del’angelo, campidoglio, san michele, vestigo, etym. dub. ves-stigium, foot-print. – segno naturale – segno, genere e specie – genere: segno. Specie: segno naturale, vestigio, marca, nota.. segno artifiziae, segnar per posizione, arbitrio, a piacere, consilio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Balduino” – The Swimming-Pool Library. Balduino.

 

Luigi Speranza -- Grice e Banfi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Eurialo -- Niso; ovvero, la tradizione vichiana – la scuola di Vimercate – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice (Vimercate). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Vimercate, Monza, Lombardia. Grice: “What I like about Banfi is that he is more ‘important’ than it seems, at least to Italians! He has written bunches, but my favourite are two: his ‘l’interpretazione’ (Banfi makes a distinction between ‘esegesi,’ ‘interpretazione’ and ‘TEORIA dell’interpretazione,’ in a slightly non-Griceian use of ‘teoria’ – and his essays on ‘eros e prassi,’ for indeed the second strand (eros e prassi) is the base for the former (interpretazione): unless you CARE, why interpret – which is indeed, a performance?!” Senatore della repubblica italiana, II Gruppo parlamentare Comunista Circoscrizione Lombardia Dati generali Partito politico Partito Comunista Italiano Titolo di studio Laurea in Lettere Università Università Humboldt di Berlino Professione Docente. teorico della filosofia, traduttore, accademico e politico italiano. Sostenitore di un razionalismo aperto e anti-dogmatico in grado di attraversare i vari settori dell'animo umano. A lui è intitolato il liceo del suo comune natale, Vimercate. Nasce in un ambiente familiare formatosi su principi liberali della borghesia colta lombarda, nella quale da generazioni combaciano una positiva idea della religione e un razionale illuminismo tecnico-scientifico. La ricca e vasta biblioteca in possesso della famiglia diviene per B. grande stimolo di conoscenza nei suoi studi, quando da Mantova, dove frequenta il Liceo Virgilio, ritorna a Vimercate, dove assieme alla famiglia trascorre le vacanze estive. Frequenta i corsi universitari alla facoltà di lettere della Regia Accademia scientifico-letteraria di Milano e ottenne la laurea con lode, discutendo con il relatore NOVATI (si veda) una monografia su Francesco da BARBERINO (si veda). Insegna all'Istituto Cavalli-Conti di Milano e prosegue con grande determinazione gli studi di filosofia (con ZUCCANTE (si veda) per la storia della filosofia e MARTINETTI (si veda) per la teoretica). Prende una seconda laurea in filosofia, discutendo con MARTINETTI (si veda) una tesi intitolata "Saggi critici della filosofia della CONTINGENZA", contenente tre monografie sul pensiero di Boutroux, Renouvier e Bergson. Con la borsa di studio attribuita dall'Istituto Franchetti di Mantova ai laureati meritevoli, B. decide d’andare in Germania e iscriversi, con il suo amico Cotti, alla facoltà di filosofia della Wilhelms di Berlino, dove stringe amicizia con il socialista Caffi. Ritorna in Italia e partecipa a vari concorsi, ottenendo una supplenza di filosofia a Lanciano, e a Urbino. Assunge diversi incarichi in varie sedi scolastiche.  Durante la guerra, già riformato al servizio di leva, si dedica con senso di servizio e scrupolosa diligenza all'insegnamento e, per la penuria d’insegnanti richiamati al fronte, oltre alla sua cattedra è costretto a ricoprire altri incarichi. Solo agl’inizi dell'ultimo anno venne aggregato come soldato semplice all'ufficio annonario della prefettura di Alessandria.  Nei primi anni del dopoguerra B., pur non militando nel movimento socialista, assume in modo molto deciso posizioni di sinistra e partecipa, come iscritto alla camera del lavoro, all'organizzazione della cultura popolare, diventando in poco tempo una delle personalità più in vista del mondo culturale democratico alessandrino; venne nominato anche direttore della biblioteca di Alessandria, da cui fu in seguito allontanato dal nascente squadrismo fascista. E tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Croce. Martinetti, che era stato collocato a riposo d'autorità per aver rifiutato di giurare fedeltà al fascismo, lo propose come suo successore per l'insegnamento della Storia della Filosofia all'Università degli Studi di Milano, dove fu maestro di Rossanda.  Diresse la rivista Studi filosofici, pubblicata. Nel secondo dopoguerra, con le elezioni politiche, è eletto per le liste del Partito comunista,nel Senato della Repubblica. Il mandato fu confermato alle successive elezioni. B. può essere considerato il maestro della corrente filosofica che in Italia si è denominata Razionalismo critico e che ha avuto anche derivazioni significative nel campo della pedagogia teoretica con il Problematicismo. In sostanza, usando il concetto kantiano di ragione, Banfi la considera come la facoltà di un discernimento critico, analitico, presupposto trascendentale che sistematizza l'esperienza, i dati empirici, non pervenendo a dogmi o a sistemi di sapere chiusi e assoluti. Il principio razionale permette di cogliere e comprendere la realtà nelle sue complesse determinazioni: senza questo principio, che va assunto appunto come trascendentale, la realtà sarebbe caotica e solo contingente ed esperienziale oppure interpretata secondo la Metafisica o sistemi di pensiero chiusi e non problematici come richiesto dalla scienza e in generale dalla complessa dinamica del mondo umano e naturale. L'apertura della ragione è talmente ampia che anche le filosofie assolutizzanti vengono poste come possibilità di verità, seppur parziali ("È bene tener presente che il pensiero non pensa mai il falso in modo assoluto"). La filosofia è lo strumento indispensabile per l'analisi critica del reale, non deve tendere a un sapere assoluto, ma porsi il tema privilegiato della coscienza, purché questa coscienza sia "coscienza della relatività, della problematicità, della viva dialettica del reale". Si sfugge al relativismo possibile seguendo le orme di Socrate: l'eticità prevale quando, non potendo esistere se non come tendenza verità assoluta, le verità relative sono assunte come problema, cioè come ricerca interrogante e incessante fondante l'intero processo conoscitivo. Le conclusioni sono, come nell'ambito scientifico (la scienza è lo strumento pragmatico della ragione, la filosofia lo strumento teoretico) non false ma possibili, non solo provvisorie, ma reali. Le categorie che B. propone per sintetizzare la sua proposta filosofica, sono quelle di "sistematica" del sapere, fondata su un significato antidogmatico della ragione, una "sistematica" aperta per il rinnovamento critico di tutte le strutture razionali e di un umanesimo nuovo, radicale, che ponga l'uomo al centro dell'indagine razionale e nella sua realtà storico-effettuale, che forma la sua coscienza concreta nel mondo reale: dunque critica alla metafisica ma necessità della filosofia, il sapere costruttivo garanzia di libertà e concretezza. Il confronto che B. predilige è con gli indirizzi filosofici della prima metà del Novecento, in particolare la Fenomenologia, il neokantismo di Marburgo, il neopositivismo, l'Esistenzialismo, ma negli ultimi anni orienta sempre più il suo interesse al Marxismo, di cui condivide gli assunti fondamentali leggendoli alla luce del suo razionalismo critico, come si evince dalla raccolta postuma Saggi sul marxismo. Archivio Si segnalano tre fondi archivistici del pensatore:  "Fondo Antonio Banfi" presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. L'archivio, insieme con la biblioteca personale di Banfi, dopo la morte del pensatore venne donato alla provincia di Reggio Emilia insieme con la costituzione del "Centro studi B.”. In seguito, il Centro si trasformerà in "Istituto Banfi", con sede a Reggio Emilia. Nel, l’archivio e la biblioteca personale del filosofo sono stati depositati alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, a seguito di un accordo tra Soprintendenza Archivistica per l’Emilia-Romagna, Comune e Provincia di Reggio Emilia. La biblioteca conserva anche l'archivio di Daria Malaguzzi Valeri e l’archivio delle carte di Clelia Abate, segretaria del Fronte della Cultura e allieva di B.. Archivio B., Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Il fondo archivistico contiene diverse centinaia di documenti conservati da Daria, moglie del filosofo, e da lei usati nella stesura del libro Umanità, pubblicato per le Edizioni Franco di Reggio Emilia. I documenti del fondo coprono l'intero arco di vita di B. ma risultano particolarmente ben rappresentati gli anni giovanili; da segnalare soprattutto il ricco epistolario con la futura moglie, riferito e la corrispondenza con Piero Martinetti, durante la sua docenza presso la Regia Accademia Filosofico Letteraria di Milano e poi dal suo ritiro di Spineto. Archivio privato familiare B. conservato presso l'Università degli studi dell'Insubria. Centro Internazionale Insubrico Cattaneo e Preti, riunisce migliaia di lettere, biglietti, cartoline postali, plichi e buste, conservati in 33 raccoglitori a loro volta inseriti in 15 buste, per una consistenza di circa 1,5 mi. Gran parte dell'archivio è costituito dal carteggio tra B. e Daria, sposatisi  Il rapporto epistolare con la moglie, infatti, non si limitò alla sfera affettiva e familiare, ma affronta spesso tematiche filosofiche (ad esempio, la frequentazione di Simmel durante il giovanile soggiorno a Berlino, o la ricezione dell'opera e la personale conoscenza di E. Husserl) e di attualità, nella concretezza dei riferimenti a eventi e circostanze del presente e ai rapporti sociali coltivati da Banfi come pensatore, studioso, organizzatore culturale e uomo politico. Altre opere: “La filosofia e la vita spirituale” – lo spirito, l’animo, vita, animo vitale – (Milano, Isis); “Principi di una teoria della ragione” (Firenze, la Nuova Italia); “Pestalozzi, Firenze, Vallecchi); “Vita di BONAITUI (si veda) Galilei” (Lanciano, Carabba); “Sommario di storia della pedagogia” (Milano, Mondadori); “I classici della pedagogia: Rousseau, Pestalozzi, Capponi, Gabelli, Gentile” (Milano, Mondadori); “Studi filosofici: rivista trimestrale di filosofia contemporanea” (Milano); “Saggio sul diritto e sullo Stato, Roma, Rivista internazionale di filosofia del diritto); “Per un razionalismo critico, Como, Marzorati); “Lezioni di estetica raccolte Maria Antonietta Fraschini e Ida Vergani, Milano, Istit. Edit. Cisalpino); “Vita dell'arte, Milano, Minuziano); “Galileo Galilei” (Milano, Ambrosiana); “L'uomo copernicano, Milano, A. Mondadori); “La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Milano, Bocca);:La filosofia del settecento, Milano, La Goliardica); “La filosofia critica di Kant” (Milano, La Goliardica); “La filosofia degli ultimi cinquant'anni, Milano, La Goliardica); “La ricerca della realtà” (Firenze, Sansoni); “Saggi sul marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Filosofia dell'arte” (Roma, Riuniti).  "Perciò appunto non ho dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto che fossi tu a succedermi, In questo senso ho scritto, richiesto da Castiglioni stesso, che ora è preside, a Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la facoltà ad accaparrarsi te per la Filosofia e B. per la Storia della Filosofia"; Lettera, Martinetti a Baratono, in Martinetti Lettere, Firenze,,  Rossanda, Rossana, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi, Vedi scheda del Senato della RepubblicaI Legislatura.  Vedi scheda del Senato della RepubblicaII Legislatura.  Cit. in "Il marxismo e la libertà di pensiero", "Saggi sul marxismo", Riuniti. B., La mia prospettiva filosofica, in La ricerca della realtà, Fondo Banfi Antonio, su SIUSA Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Centro Internazionale Insubrico Cattaneo e Preti per la filosofia, l'epistemologia, le scienze cognitive e la scienza delle scienze tecniche, su dicom. uninsubria. Bertin, B., Padova, MILANI, Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza,Bertin, L'idea di ragione e il pensiero etico-pedagogico di B., Roma, Armando, Papi, Il pensiero di B., Parenti, Firenze; Papi, B., Dizionario Biografico degli Italiani,  Treccani. A. Erbetta, L'umanesimo critico di B., Milano, Marzorati, B. tre generazioni dopo. Atti del convegno della Fondazione Corrente, Milano, Il Saggiatore, Milano; Salemi,  banfiana, Parma, Pratiche, Scaramuzza, B. La ragione e l'estetico, Padova, Cleup; Eletti, Il problema della persona in B., La Nuova Italia, Firenze, Centenario della nascita di B., Reggio Emilia, Istituto B.; Sichirollo, Attualità di B., Urbino, QuattroVenti, Luciani, Incontro con B., Cosenza, Presenze Editrice, Neri, Crisi e costruzione della storia. Sviluppi del pensiero di B., Napoli, Bibliopolis, Papi, Vita e filosofia. La scuola di Milano: B., Cantoni, Paci, Preti, Milano, Guerrini; Valore, Trascendentale e idea di ragione. Studi sulla fenomenologia banfiana, Firenze, La Nuova Italia, Scaramuzza, Crisi come rinnovamento. Scritti sull'estetica della scuola di Milano, Milano, Unicopli, Luciani, Polemiche della ragione. Gramsci, Banfi, Della Volpe, Cosenza, Arti Grafiche Barbieri, 2002. Giovambattista Trebisacce, B. e la pedagogia, Cosenza, Jonia editrice, Papi, B. e la pedagogia, Cosenza, Jonia editrice, Chiodo G. Scaramuzza (a cura), Ad Antonio Banfi cinquant'anni dopo, Milano, Unicopli, Vigorelli, La nostra inquetudine. Martinetti, B., Rebora, Cantoni, Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal Pra, Segre, Capitini, Milano, B. Mondadori, Trebisacce, La pedagogia tra razionalismo critico e marxismo, Roma, Anicia, Assael, Alle origini della scuola di Milano. Martinetti, Barié, B., Milano, Guerrini, Sacaramuzza, Estetica come filosofia della musica nella scuola di Milano, Milano, CUEM, Miele, Antonio Banfi Enzo Paci. Crisi, eros, prassi, Milano, Mimesis,. M. Gisondi, Una fede filosofica. Antonio Banfi negli anni della sua formazione, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,. A. Crisanti, Banfi a Milano. L'università, l'editoria, il partito, Milano, Unicopli,.  Corti Pozzi Anceschi Rossanda Bucalossi Martinetti Scuola di Milano; B. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Antonio Banfi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. B., su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di B., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di B.; altra versione, su Senato della Repubblica.  La morte a Milano di B. articolo del quotidiano La Stampa, Archivio storico. Massimo Ferrari, Piero Martinetti e Antonio Banfi, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; Gisondi, La formazione intellettuale e politica di B.. Tesi, discussa presso l’Università Federico II di Napoli (a.a. /) "B. a Milano", sito della mostra allestita  presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano Filosofia Università  Università Filosofi Storici della filosofia italiani Traduttori italiani Vimercate Milano Accademici italiani Direttori di periodici italiani Politici italiani Professori dell'Università degli Studi di Milano Antifascisti italiani Senatori della I legislatura della Repubblica Italiana Senatori della II legislatura della Repubblica ItalianaStudenti dell'Università Humboldt di BerlinoTraduttori all'italianoTraduttori dal franceseTraduttori dal greco all'italianoTraduttori dall'inglese all'italiano Traduttori dal latino Traduttori dal tedesco all'italiano. Antonio Banfi. Banfi.  Keywords. Eurialo e Niso; ovvero, la tradizione vichiana; banfi — spirito vitale — storiografia filosofica — istituto di storia della filosofia — ragione e conversazione — criticismo — conversazione con hegel — personalismo — l’interpersonale — sovranità — lo stato italiano — lo stoicismo romano — enea e marc’aurelio — acerrima indago — diritto criminale — kantismo —Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Banfi” – The Swimming-Pool Library. Banfi.

 

Luigi Speranza -- Grice e Baratono: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale stilistica – la scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Firenze, Toscana. Grice: “I like Baratono – especially his ‘stilistica italiana’ – if I were to offer an English stylistics I would not count as a philosopher – but that’s because ‘English’ is spoken by more than Englishmen, while Italian ain’t!” Grice: “Baratono thinks he is a sensist alla ‘Giovanni Locke,’ which he possibly is.” Grice: “In the typical Italian way, instead of focusing on the classics – Roman philosophy – he read sociology and psychology and came up, in a typically Italian way, with a ‘sintessi,’ ‘la psicologia del popolo’ alla Wundt.” Grice: “If Austin punned on sense and sensibility – Baratono takes ‘sensibilia’ VERY sensibly – as the basis for ‘aesthetics,’ seeing that ‘aesthetikos’ IS Ciceronian for ‘sensibile’.” – Grice: “Baratono is Griceian in his search for what he calls the ‘elementary’ – he applies ‘elementary’ to ‘fatto psichico’: judicativo e volitivo – both based on the ‘sensibile’ – or rather on probability and desirability – credibility and desirability --. His use of ‘sense’ does not quite fit the Oxonian ‘sense datum,’ since the will is involved in the sensibile – or, in his wording, it is the anima (or psyche) that searches for the corpus -- -- The compound is something like the hylemorphism – the form is sensible – and the volitive (prattica) and judicative (teoretica) components of the soul operate on this.” Fra i maggiori esponenti del socialismo. Vive a Genova, dove compie i suoi studi. Si laurea in filosofia. Insegna a Genova, Savona, Cagliari, Milano.  B. si iscrive al PSI subito dopo la fondazione e viene eletto consigliere comunale a Savona, aderendo all'ala intransigente in forte polemica con i riformisti. Entra nella Direzione nazionale del partito. Alcune battaglie politiche lo vedono emergere come figura di primo piano del socialismo italiano, come quella che B. porta avanti capeggiando la frazione comunista unitaria al Congresso di Livorno. L'accettazione con riserva dei 21 punti dell'Internazionale comunista di Mosca determina la clamorosa scissione e l'uscita dei comunisti dal Partito Socialista. Presenta al congresso la mozione massimalista. Diviene deputato. Confermato per la terza volta membro della Direzione socialista, mentre la maggioranza massimalista si orienta per la scissione dei riformisti, al Congresso di Roma sostiene fortemente l'unità, anche per il timore dell'affermarsi delle forze fasciste. Dopo il Congresso di Roma, aderisce al Partito Socialista Unitario e diviene un assiduo collaboratore di Critica Sociale. Collabora al “Quarto Stato”. Con il consolidamento del regime fascista, si dedica esclusivamente ai suoi studi filosofici.  Torna all'attività politica all'indomani della Liberazione, con collaborazioni sull'Avanti! riprendendo i suoi studi di critica marxista. Perciò appunto non ho dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto che fossi tu a succedermi, In questo senso ho scritto, richiesto da Castiglioni stesso, che ora è preside, a Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la facoltà ad accaparrarsi te per la F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria] d.[ella] F.[ilosofia]». Lettera, Martinetti a B., in Martinetti Lettere, Firenze,, Mathieu, B.,  Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 5, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  B., in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Adelchi Baratono, su Liber Liber.  Opere di B., su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di B., B. su storia.camera, Camera dei deputati. Filosofi italiani Politici italiani Accademici italiani Professore Firenze Genova Politici del Partito Socialista Italiano Deputati della legislatura del Regno d'ItaliaStudenti dell'Università degli Studi di Genova Professori dell'Università degli Studi di Genova Professori dell'Università degli Studi di Cagliari Professori dell'Università degli Studi di Milano. Critica dei valori ed estetica metafisica. Psicologia critica dei valori e metafisica estetica. Carissimo Groppali. Nella tua pubblicazione dal titolo Psicologia sociale e psic. collettira, trovo rammentato un mio articolo (comparso nel quarto fascicolo del l'Archivio di Psic.coll.).con queste parole citato; non posso fare comequel buon figliuolo di Renzo Tramaglino, che, a sentir dire che la sua Lucia era una bella baggiana, per amor dell'epiteto lasciava passare il sostantivo. Lasciami invece un po'brontolare contro la seconda parte del tuo giudizio. E, quantunque in fatto di scoperte scientifiche nessuno si possa dire assolutamente il primo scopritore, permettimi di dare al Sighele quelch' èdi Sighele, ea me quelchesembramio.  Per il nostro caso, la scoperta piùimportante, acuisono giunti questi autori, è la semplice constatazione del fatto, che gli atti estrin secanti la emozione d'un individuo riproducono in altri individui ana loghe emozioni ed atti volontari. Ebbene: prima e più completamente di quegli scienziati, Spencer e pervenuto alla medesima legge con la sua teorica della simpatia; e per di più aveva spiegato il fatto diquella suggestione con la ragione sociale, osservando che un atto emotivo non puo suscitare nei pre senti un sentimento corrispondente se non vi fosse stata l'esperienza propria o atavica che avesse associato quell'atto all'emozione reale unitamente sofferta; trovandone perciò la genesi nella convivenza sociale, per essere gl'individui associati sottoposti alle medesime cause di piacere e dolore. Adunque io nel mio studio potevo passarmi di citare altre teorie, oltre quella spenceriana, quando ridussi il fenomeno collettivo a fenomeno simpatetico. E fin qui non ho fatto, nè ho detto di fare, nessuna scoperta: ma soltanto ho applicato la legge spenceriana a un nuovo gruppo di fatti, da Ini non considerati specialmente. Ripeto: io non ho sostenuto come mia scoperta, ma ho soltanto accettato e meglio dimostrato, che il fatto psichico del delirio collettivo ha per sostrato il giuoco delle emozioni e rappresentazioni, cioè il fatto simpatetico. A questa domanda non puo rispondere nè Sighele, che non è mai entrato nel campo della psicologia generale, nè,c ome si sa, Spencer e gli associazionisti, che si contentavano di descrivere il fatto, riducendolo a uno schema associativo,ciòche,come spiegazione, ha ilvalore di una tautologia, senza svelarne il meccanismo, cioè il rapporto fra gli elementi; né I materialisti, che ne davano una ipotetica spiegazione anatomo-fisiologica, senza entrare nella pura psicologia. Dall'altraparte, rispondere a quelle domande significa trovarele ragioni ultime e più generali del fenomeno collettivo. Vale a dire, ridurlo completamente. Questo ho tentato io di fare; di qui comincia il mio studio genuino. Me ne sono vantato? ho soltanto asserito che tentavo di muovere un  Sighele intui, che i fatti caratteristici della emozione di una folla si possono ridurre a qualcosa di più generale, ov'entri quella facoltà dell'imitazione, quella suggestione, con le quali altri avevano spiegato il contagio morale; perciò egli, se mal non ricordo, senza nulla aggiungere di proprio, si rifere alle teorie di Bordère, Ebrard, Jolly,Tarde, Sergi, Espinas ecc. ecc. Ho dunque accettata una legge, o, meglio, ladescrizione di un fatto generale, che si potrebbe enunciare cosi. In due individui associate, A e B, la percezione degl’atti corrispondenti alle emozioni di alcuno destando in altri la rappresentazione di piaceri o dolori analoghi, suscita piaceri o dolori analoghi e gliatti corrispondenti. In questo enunciato c'è qualcosa di mio. Ma non mi curo di metterlo in luce. Piuttosto ti rivolgo la domanda: osservato il fatto, Spencer ne trova la ragione sociologica. Ma vi è qualcuno che ne trova la ragione *psicologica*? Come una rappresentazione emotiva può diventare un'emozione attuale, condizione e stimolo di atti volontari? Passo nel cammino della psicologia collettiva. Tu puoi scusarmene, perché conosci il tripudio di chi lavora per la scienza, che oggi è ancor l'unica nostra ricompensa. Adunque il rimanente studio, la risposta a quella domanda è mio. Mio nelle premesse, che si riferiscono al saggio, “I fatti psichiri elementary”, dove dimostro che la legge più generale della psiche è data dalla serie dei fatti emotivo -conoscitivo -volitivo, quando si consideri questa come l'espressione di un rapporto, per cui il primo termine rappresenta l'energia determinante degli altri. Mio nell'applicazione al fenomeno collettivo, dove le multiple rappresentazioni emotive devono agire sopra ognuno degli individui come altrettante emozioni reali attenuate, ma accumulate sulla prima; onde l'esaltazione propria della folla. Tutte queste tesi sono diverse da quelle sostenute e dall'intellettualismo e dal volontarismo. Epilogando: Sighele giunse a ridurre il fenomeno collettivo a un fatto generale enunciato come legge; e Spencer da la spiegazione sociologica di questo fatto. Ma, perchè vi fosse una spiegazione *psicologica*, bisogna aver trovato non solo l'associazione, ma anche il rapporto tra gli elementi associati; il quale rapporto di dipendenza, cioè di condizione e stimolo, dove, per ridurre completamente quel fenomeno, coincidere col rapporto o legge più generale della psiche. Questo ho cercato difare: e, poi che in modo particolare avevo stabilita la serie dei fatti psichici veramente elementari e il loro rapporto, cio è la legge psicologica generale, anche particolare, dove riuscire l'inferenza al fenomeno collettivo. Non posso, egregio e carissimo amico, riassumere in poche pagine quello che, a giudizio mio ed altrui è già troppo strettamente riassunto ne'miei saggi. A te, che liconosci, e che possiedi un forte ingegno intuitivo, basta questo richiamo; e spero che ti persuaderai, che Sighele restaugualmente uno de'nostri migliori scienziati, anche senza regalare a lui, che non ne ha bisegno, quelle due o tre pagine con le quali si termina il mio saggio. Spero ancora più fervidamente, che tu non mi dia del noioso e del l'immodesto per questa mia lettera, e che sempre mi creda il tuo. Adelchi. Nacque a Firenze dove il padre, Alessandro, originario di Ivrea, si era stabilito dopo il trasferimento della capitale del regno da Torino. La madre, Ermelinda Rossi, era fiorentina. La famiglia si fissa definitivamente a Genova, e compiuti gli studi classici, frequenta l'università, addottorandosi in lettere e in filosofia. Suo principale maestro fu Asturaro, del cui indirizzo sociologico B. risentì nei suoi primi lavori (Sociologia estetica, Civitanova Marche; Sul problema religioso,in Riv. ital. di sociol.), così come, successivamente, sube l'influsso di Morselli e delle sue lezioni di psichiatria. I suoi interessi psicologici sono documentati in questo periodo da numerose pubblicazioni (I fatti psichici elementari, Torino; Sulla classificazione dei fatti psichici, Bologna; Energia e psiche, in Riv. di filos. e scienze affini). Psicologia e sociologia venivano, poi, naturalmente a fondersi in una wundtiana psicologia dei popoli (Sulla psicologia dei popoli, Genova), permeata di una filosofia scientificamente concepita. Questo movimento culmina nei Fondamenti di psicologia sperimentale (Torino), che risentono ancora dell'influsso positivistico, nella ricerca di una filosofia scientifica, ma cominciano, al tempo stesso, a rivelare la sua originalità filosofica. Contemporaneamente coltivava il proprio gusto estetico frequentando i circoli letterari, le mostre di pittura, i caffè degli artisti. Pubblica un volumetto di versi (Sparvieri,Genova, con acqueforti di Edoardo De Albertis), che sarà seguito da altre poesie (Lettera - Notturno - Congedo), articoli letterari e frammentarie commedie, comparsi generalmente in Riviera ligure.  Questo duplice interesse, psicologico, ed estetico, accompagna il filosofo per tutta la vita, ma non senza trasformarsi radicalmente, dall'originario positivismo, in una personale forma di sensismo, dove tornavano a incontrarsi il significato etimologico e il significato moderno della parola "estetica". L’anno del congresso internazionale di filosofia di Bologna, a cui B. partecipa - egli, che l'anno prima aveva celebrato I funerali del positivismo italiano (in Lavoro nuovo), pubblica la Psicologia sintetica, in cui l'aspetto filosofico e quello scientifico-sperimentale della ricerca erano nettamente divisi, e la psicologia venne assegnata al secondo.  Conseguita la libera docenza, tenne corsi e conferenze all'università di Genova - oltre che all'università popolare - prendendo a interessarsi del problema pedagogico, strettamente congiunto con quello politico. Quattro Discorsi sull'educazione furono da lui riuniti in un volumetto, e alcuni anni dopo uscì la sua opera fondamentale in materia: Critica e pedagogia dei valori (Palermo).  Dalla politica si er sentito attratto. Le sue convinzioni etiche lo indussero a militare nelle file del socialismo; tuttavia, anche nell'attività politica, egli conserva quell'atteggiamento aristocratico e leggermente distaccato che lo caratterizzava sul piano culturale, ciò che tolse mordente alla sua azione. Per le elezioni amministrative, redasse in collaborazione con Gennari un ordine del giorno, votato poi all'unanimità dal Consiglio nazionale del partito, dove si dichiara che dei comuni ci si doveva impadronire per parálizzare tutti i poteri e tutti i congegni dello Stato borghese, allo scopo di accelerare la rivoluzione proletaria. Rispetto alla rivoluzione russa, si pronuncia contro l'accettazione senza riserve delle ventuno condizioni poste da Mosca per l'adesione alla Terza Internazionale, ma e messo in minoranza nella riunione della direzione. Cerca inoltre di evitare ogni scissione a sinistra, anche a costo dell'espulsione dei riformisti, che rappresentavano l'ala destra del partito: questo suo punto di vista, sostenuto prima e durante il congresso di Livorno, trova tuttavia la via sbarrata dal successo degl’unitari. Dalla sua dirittura morale e portato all'intransigenza. Antimassone, respinge l'anticlericalismo di maniera, auspicava la libertà dell'insegnamento. Turati ha a definirlo "il filosofo della direzione del partito". Eletto deputato nella legislatura, sedette al parlamento, ma l'avvento deli fascismo lo costrinse ad abbandonare l'attività politica (nella quale rientrano anche scritti come Le due facce del marxismo italiano, Milano e Fatica senza fatica, Torino).  Più fortunata divenne, a, questo punto, la carriera universitaria. Titolare a Cagliari, si occupa, tra l'altro, di Problemi universitari (Mediterranea) e vagheggia un progetto Per la riforma della facoltà filos. (Atti della Società ital. per il progresso delle scienze), che fu combattuto dal Gentile (Giorn. crit. d. filos. Ital.). Passa a Milano, sulla cattedra di P. Martinetti (che si era ritirato per non prestare giuramento) e torna all'amata Genova, stabilendosi sulla riviera di Sant'Ilario. Qui riceve volentieri i suoi studenti e colti visitatori, attratti da una fama, che, specialmente dopo la pubblicazione di Arte e poesia (Milano), si estese oltre la cerchia dei filosofi di professione. Riprese l'attività politica negli ultimi anni, soprattutto in forma di collaborazione a giornali e di rielaborazione di vecchi scritti di critica marxista. L'ultimo articolo, L'etica dell'economia marxista, uscì sull'Avanti! alla vigilia della morte. Al suo nome è intitolato l'istituto universitario di magistero di Genova.  La sua prima formulazione pienamente matura della filosofia può essere considerata il volume Il mondo sensibile, introduzione all'estetica (Messina), preparato da alcuni degli scritti raccolti in Filosofia in margine (Roma); in esso si vuol raggiungere la "prova esistenziale" della spiritualità del contenuto sensibile. Contro l'impostazione gnoseologica che soggettivizza il mondo, propugna un'impostazione estetica che vede nel mondo sensibile, preso per se stesso, "la forma dell'esistenza". Tale dottrina fu chiamata "occasionalismo sensista", in una comunicazione alla sezione piemontese dell'Istituto di studi filosofici  (Per un occasionalismo sensista, in Concetto e programma della filosofia d'oggi, Milano). La denominazione esprime l'intento di "riflettere sulla pura forma invece di prenderla quale rappresentazione di altro (soggetto od oggetto) posto come un contenuto irreducibile a quella forma. L'esperienza estetica ci mostra che un'ide a pura esiste come forma pura, sensibilmente, e che questa forma sensibile vale per sé, in un rapporto formalmente sentito con certezza, che diciamo verità. Ciò costituisce un valore sensibile direttamente, diverso sia dal valore del sensibile (che rappresenta il valore specificamente teoretico) sia dal valore del sentimento (che rappresenta il valore pratico). L'esserci sensibile interessa il pensatore o l'uomo pratico solo come ostacolo da superare, ma riempe di meraviglia chi guarda il mondo con gli occhi spalancati sol per la gioia di vedere, e così ne può apprezzare la bellezza. Queste idee sono esposte in Arte e poesia,e messe alla prova non solo a contatto con estetiche come quelle di Burke e di Focillon, a cui iscrisse introduzioni (Milano), ma con la stessa opera poetica, per es. di un Verlaine, di cui ripubblica in Italia una raccolta di Poesie, conintroduzione (Milano). Arte e poesia si conclude con una "apologia della forma", la quale sembra a torto imprigionare lo spirito e limitare il valore solo perché, in realtà, lo determina e lo realizza. Rovesciando l'istanza idealistica, secondo cui il valore sta in un'unità spirituale che si riduce a un'esigenza puro-pratica, a una rappresentazione di ciò che non è, dichiara che l'anima cerca il corpo, non viceversa, che lo spirito cerca la forma, la filosofia la poesia. Sicché il valore non appare più la premessa indimostrabile di ogni esistenza, ma il risultato intuitivo della stessa forma sensibile.   Bibl.: F. Della Corte, A. B., in Genova, Sul B. Ipolitico: Meda. Il Partito Socialista Italiano dalla Prima alla Terza Internazionale, Milano, I deputati al Parlamento per la legislatura, Milano, M. Carrea, Per una filosofia del socialismo, in Osservatorio, Genova, Nenni, Storia di quattro anni, Roma, Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Firenze, Turati-A. Kuliscioff, Carteggio. Dopoguerra e fascismo, a cura di A. Schiavi, Torino, vedi Indice. Inoltre per alcuni scritti del B., in Critica Sociale, vedi Critica Sociale, cur. Spinella, Caracciolo, Amaduzzi, Petronio, Milano, Indici, cur. Lanza. Sul B. filosofo, oltre l'esposizione del proprio pensiero fatta da lui stesso in Il mio paradosso, in Filosofi ital. contemporanei, Como, Milano, cfr. U. Spirito, L'idealismo ital. e i suoi critici, Firenze, Volpe, Crisi dell'estetica romantica, Messina, Sciacca, Il secolo XX, Milano, Faggin, Il formalismo sensista di A. B.,in Riv. crit. di storia d. filos.,  Assunto, B. e l'estetica moderna, in L'Italia che scrive, Bertin, L'estetica di B.,in Studi filosofici, Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia, Talenti, A. B., Torino  (con bibl.). Adelchi Baratono. Baratono. Keywords: stilistica, breviario di stilistica italiana, fatto psichico elementare, i fatti psichici eleentare, psicologia filosofica, illuminismo, implicatura luminaria, implicatura escataologica, politica ed etica, la filosofia al margine: gentile, croce, natura umana, esperienza, il mondo sensibile, estetica, il bello, il sublime, criticismo, assiologia, hume a Cremona e torino, spirito, animo, forma logica, l’eneide, riviera ligure, “Rivera Ligure”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baratono” – The Swimming-Pool Library. Baratono.

 

Luigi Speranza -- Grice e Barba: la ragione conversazionale e l’impliatura conversazionale – la scuola di Gallipoli – filosofia leccese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Gallipoli). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Gallipoli, Lecce, Puglia. Grice: “I like Barba, but then I like Gallipoli – and he was born and died there, at Villa Barba. His main interest was Roman philosophy, which he studied at Naples! – The Roman occupation in Southern Italy brought ‘a breath of fresh air,’ as Barba has it, to the old “Grecia Magna” tradition --.” Grice: “Barba is very clear: ‘Epigrafia filosofica latina,’ o ‘epigrafia filosofica romana’ surely ain’t Grecian!” Conduce gli studi a Gallipoli, per poi trasferirsi a Napoli presso il zio, Tommaso Barba. Tommaso Barba e presidente della Gran Corte. Studia grammatica e materie letterarie nella scuola di Puoti. Si laurea in Filosofia. Studiare nel R. Collegio Cerusico e divenne professore di anatomia umana comparata. Insegna scienze e lettere al ginnasio di Gallipoli e fu sovrintendente scolastico ed Assessore delegato alla Pubblica Istruzione.  Fu arrestato ed esiliato a causa delle resistenze al governo. I membri dell'Associazione Democratica posero una scritta: "Nato dal popolo, Per il popolo si adoperò". A lui fu intitolato il Museo civico di Gallipoli.  Note  AnxaEmanuele Barba, su anxa. 21 aprile  13 ottobre ).  Scheda sul sito del Museo B.. Filosofi. Emanuele Barba. Barba. Keywords. epigrafia latina, iscrizione latina, iscrizione greco-romana, la iscrizione di Platone sulla porta dell’academia, ageometretos medeis eisito, Delville pittore belga (Libert), a Italia crea ‘L’ecole de Platon,’ per la Sorbonna.  I vasi di Barba – gemelli, fratelli siamesi, ecc. Monete romana, Gallipoli, colonia romana, ‘Proverbi e motti del popolo gallipolino” – poesie di Barba sulla morte del re d’Italia, risorgimento – esilato, carcere – la filosofia di Barba, barba filosofo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barba” – The Swimming-Pool Library. Barba.

 

Luigi Speranza -- Grice e Barbaro: la ragione conversazionale e  l’implicatura conversazionale del Daniele –  filosofia veneziana – scuola di Venezia – filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Venezia). Filosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Grice: “This can be confusing to Oxonians, althou we are familiar with the Hanover dynasty! Daniele Barbaro, a faitehful nephew, commented on his uncle’s, Ermolao Barbaro’s, ‘translation’ of Aristotle’s rhetoric – I shouldn’t even be saying this since it’s implicated in the title where Ermolao features as ‘interprete,’ and the ‘commentarium’ is due to Daniele.” Grice: “On top, Daniele wrote about ‘eloquenza,’ but his comments on his uncle’s vulgarization into latin of Aristotle’s vulgar-greek (koine) rhetorica – is perhaps more Griceian – since there is little conversational about Daniele Barbaro’s ‘eloquenza,’ while the rhetoric (or ‘rettorica,’ as he prefers) is ALL about ‘dialettica’ and dialogue!” --  Daniele Barbaro patriarca della Chiesa cattolica Portret van Daniele Barbaro Rijksmuseum -A-4011.jpeg Ritratto di Daniele Barbaro, opera di Veronese, presso il Rijksmuseum di Amsterdam Template-Patriarch (Latin Rite) Interwoven with gold.svg   Incarichi ricopertiPatriarca di Aquileia. Nato 8 a Venezia Nominato patriarca da Giulio III Deceduto Venezia. Ritratto da Paolo Veronese (Firenze, Palazzo Pitti)  Villa Barbaro a Maser  Pratica della perspettiva, 1569 È noto soprattutto come traduttore e commentatore del trattato De architectura di Marco Vitruvio Pollione e per il trattato La pratica della perspettiva.  Importanti furono i suoi studi sulla prospettiva e sulle applicazioni della camera oscura, dove utilizzò un diaframma per migliorare la resa dell'immagine. Uomo colto e di ampi interessi, fu amico di PALLADIO, TASSO e BEMPO. Commissionò a Palladio Villa B. a Maser e a Paolo Veronese numerose opere, tra cui due suoi ritratti. Daniele Matteo Alvise B. e figlio di Francesco di Daniele Barbaro ed Elena Pisani, figlia del banchiere Alvise Pisani e Cecilia Giustinian. Suo fratello minore fu l'ambasciatore Marcantonio Barbaro. Barbaro studiò filosofia, matematica e ottica a Padova.  E ambasciatore della Serenissima presso la corte di Edoardo VI a Londra, e come rappresentante di Venezia al Concilio di Trento.  Nipote del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, fu suo coauditore nella sede patriarcale di Aquileia. Venne promosso in concistoro a patriarca "eletto" di Aquileia (coadiutore), con diritto di futura successione, ma non assunse mai la guida del patriarcato perché morì prima dello zio. All'epoca tale carica era quasi una questione di famiglia per i Barbaro, infatti furono patriarchi di Aquileia ben 4 B.. Ermolao B. il Giovane, patriarca di Aquileia, Daniele Barbaro, patriarca di Aquileia, Francesco Barbaro, patriarca di Aquileia, Ermolao II Barbaro, patriarca di Aquileia. Fu forse nominato cardinale in pectore da papa Pio IV nel concistoro. Solo i Grimani, con cui erano imparentati, occuparono più volte il patriarcato (ben sei).  Partecipò a varie sedute del Concilio di Trento fino alla sua chiusura. Atre opere: commentarii di Aristotele Retorica del suo pro-zio Ermolao Barbaro il Giovane (Venezia); Compendium scientiae naturalis di Ermolao B. il Giovane (Venezia); Commento sull’archittetura d Vitruvio, pubblicato col titolo “Dieci libri dell'architettura di M. Vitruvio” (Venezia). Di essa pubblica anche una versione in latino intitolata M. Vitruvii de architectura, (Venezia). Le illustrazioni sono realizzate da Palladio --; un trattato sulla geometria, prospettiva e scienza della pittura, La pratica della perspettiva (Venezia); un trattato sulla costruzione delle meridiani, “De Horologiis describendis libellus” (Venice, Biblioteca Marciana, Cod. Lat.). Più tardi si scopre che il testo del B. affronta la tecnica di strumenti come l'astrolabio, il planisfero, il bacolo, il triquetrum, e olometro di Abel Foullon. Cronache, probabilmente riprese da Giovanni Bembo nella Cronaca Bemba. Aurea in quinquaginta Davidicos Psalmos doctorum graecorum catena interpretante Daniele Barbaro electo patriarcha Aquileiensi, Venetiis, apud Georgium de Caballis.  Note  La pratica della perspettiva, consultabile (testo italiano + tavole originali)  Giuseppe Trebbi, Barbaro Daniele, in Nuovo Liruti: dizionario biografico dei friulani. 2: l'età veneta. A-C, Forum editrice universitaria, Udine Eubel, Hierarchia Catholica Medii et Recentoris Aevi, III39, che cita gli Acta camerarii e gli Acta vicecancellarii 8, f 7  Cellauro, B. and VITRUVIO: the architectural theory of a Renaissance humanist and patron, Papers of the British School at Rome, Paschini, B. letterato e prelato veneziano del Cinquecento, Rivista di storia della chiesa in Italia, Władysław Tatarkiewicz, History of Aesthetics,  III: Modern Aesthetics, edited by D. Petsch, translated from the Polish by Kisiel and Besemeres, The Hague, Mouton,  B., Pratica della perspettiva, In Venetia, appresso Camillo, et Rutilio Borgominieri fratelli, al Segno di S. Giorgio, Devreesse, La chaine sur les psaumes de B., Revue Biblique,  Mercati, Il Niceforo della Catena di B. e il suo commento del Salterio, in Biblica,  Storia della fotografia Villa Barbaro. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vacca, B. in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Daniele Barbaro, su Enciclopedia Britannica, Giuseppe Alberigo, Daniele Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di B., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di B.,. David M. Cheney, B. in Catholic Hierarchy.  B., su museo galileoMuseo Galileo, Firenze. Daniele B. su mathematica.sns Edizione Nazionale Mathematica Italiana, Pisa, Centro di Ricerca Matematica Ennio De Giorgi Salvador Miranda, Barbaro, Daniele Matteo Alvise, su fiu. eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. PredecessorePatriarca di Aquileia Successore Patriarch Non Cardinal Pio M.svg Giovanni Grimani  Aloisio Giustiniani Umanisti italiani Nati Venezia Venezia Barbaro Patriarchi di Aquileia Ambasciatori italiani. DELLA ELOQUENTIA, DIALOGO. INTERLOCVTORI:  L'ARTE, LA NATVRA, ET L'ANIMA. R. IO VORREI VOLENTIERI Natura, che noi disputassimo insieme, se però l'ufficio del disputare alla tua conditione si conuenisse. NATURA.  Il disputare é cosa da te, ò arte, figliuola mia. Ma se à me stesse l'ammaestrarti, di presente direi, che tra il tuo intendimento, o il mio, alcuna differenza non fusse, da che dentro ti venija se il contender meco. ARTE. Al almeno desidero tale occasione. NATURA. Vano, o dannoso desiderio é il tuo, si perche io non sono mai ociosa, come perche tu sempre dei non mes no abbracciare il bene che cercare la verità delle cose. ARTE. Niena te più migioua che il bene ne che il vero più mi diletta. NATURA. In questo almeno tu m’assomigli che ouunque sia, ch'io mi ritrdovi, il vero sono, o il bene di ciascuna cosa. ARTE. si,  ma tu alla cieca ne vai, e io di tanto amo ogn'uno che con deliberato consiglio, o a nati veduto fine faccio, lo di far bene. NATURA. Emmi pur manifesto che la tua grandezza è di nascondere te stessa quantopuoi o di accoltarti à me. ARTE. Questo é, ma ciò a viene, perche tu prima di me al mondo venisti, o gl’uomini a tuoi piaceri adulasti, innanzi ch'io ci nascessi; o questa mia imitazione non ti accresce dignitade alcuna. Percioche, nella formica vile animaluzzo e più degna, nell’uomo meno onorato, ancor che questo quella imitando, l'estate per lo verno si proueda. La mia industria, o natura, fa maggiore il tuo povero patrimonio. NATURA. Che accrecimento farebbe ella, se io non ti lasciassi che accres cere? Tu pure, se uuoi, ben sai, che ogni opera presuppone il soggetto, senza il quale nulla si può fare. Que so da me, non da te procede. Oltra che appresso giusto giudice il secondo. A secondo luogo, non che il primo, ti faria denegato. ARTE. Giusto à tua scelta intendi colui, che te à me anteponga; ma nonſai che per la età molto ti concedo. NATURA. E mi piace di ragionare an poco tea co sopra questa materia, poi che tant'oltra proceduta ſei, che di te con buona equità midolga. Dicoti adunque, che in ordine di onoranza ne prima ſei, né ſeconda. ARTE. Chi adunque à noi soprasta? NATURA. Chi ne fece ambedue é il primo senza mezzo da lui nace qui. Tu doppo me sei. NATURA. Adunque mentono coloro che affermano, te esser madre universale, poi che tu stessa non nieghi eſſere d'altruifattura? NATURA Ad un modo io sono madre, ad un'altro figlia. ARTE Adunque di te cosa picprestante si truova? NATURA. Chi ne dubita? Ma io per essere a gli umani sentimenti vicina, tutta fiata son preferita. ARTE. Hai tu conoscimento di fine alcuno? NATURA. Certo no. Ma nel gouerno del tutto io son drizzata, e quasi addestrata dal padre mio. ARTE. In che dunque é ripoſta questa tua gloria? NATURA. Tanto potente, saggio, e buono é il mio fattore, che la sua gloria in me mirabilmente soprabonda. ARTE. Sommi più volte marauigliata di coteſta tua occulta uirtù, dalla quale tu ſei cosi gentilmente guidata jpelefiate mi è uenuto in animo di cre dere che ella forſe habbia potere di trar mead imitarti diforza; ergo però diſcorrendo,etpiù dentro penetrando, bo giudicato eſſere gran famiglianza tra quelprincipio, che ti muoue, &me, ondeper la ſea creta uirtu,non tua,io mi muouo ad operar come tu fai. Ma poi mi pare,che,ſe il diſcorrere l'ordinare,e il ridurre àfine le coſeantiue dute, è ufficio mio,io ſia inanzi di teſtata nel Cielo appreſſo il padre tuo, che egli habbia l'opera mia uſata in generarti ò produrti NAT. In altra guiſa io faccio le coſe mie tule tue, di quella del fattor noſtro, chenehafatte, et create.Però guardati dinon giudi care troppo animoſamente le coſe, figurando le inuiſibili, et occulte per le uiſibilio manifeſte. Ma perchecosi agramente mi condane ni? ſe in qualunque modo tu uuoi per le coſe già dette chiamar mi, ò madre, è figlia, o ſorella, ó amica ſeisforzatadi nominarmi? no mi tutti di congiuntione, amicitia, oſtrettezza. Egli non ſi uuol có. si correre a furia. AR. Non ti adirare ó Natura, che io non ho contra te mal uolere, né il finemio é ſtato cattiuo, anzi per lo tuo ef faltamento ho uoluto raffrenare la mia credenza, che era di ſapere con qual calamita io tirata fußi ad operare come tu fai,e mi uenu to ben fatto per lo ragionamento, che éftato fra noi, perche hauen do noi do noi ritrouata l'origine del noſtro naſcimento, ſiamoſicuré della no ftra nobiltà, come quella checon la eternità ſipareggi,o dal primo fattore d'ogni coſa proceda. Ma ben mi duole, et per queſto ti ho chiamata,cheà molte ſciagure ſia la grandezza mia ſottopoſta.Et quanto maggiore è lo stato mio, tanto àpiù pericoli mi ueggio eſſer ſoggetta. NAT. Quai ſciagure, oquai pericoliſono queſti? AR. Saper dei Natura, madre mia, che in tutte le parti delmondo mi truouo hauer molti miniſtri,de quali neſono alcuni,chemifanno una gran uergogna, a oltre à ciò miſono di danno infinito, o per lor cagione io ne ſento male. Perche non indrizzando me al debito fine, anzifieramente in abuſo ponendomi, come buona, utile, oono reuole cheio ſono,rea,dannofa, et uituperabilemifanno. Ondegli huomini per mezo mio ingannati da loro, certi de' loro danni, main certi di chi la colpaſiſia, s'accendono d'ira contra dime, à guiſa di co loro,che le ſpade,o non glihomicidi punir uoleſſero. NAT. Tu non ſei ſola nelmale di si fattioltraggi, tutto'l dime ne uengono afe ſai. Percioche producendo io ogni coſaà beneficio della vita di chi ci naſce, moltiſciagurati epieni dimal talento, maleufando l'arti ficio loro,empiono iltutto diconfuſione, auelenando, uccidendo,in, gannando, eoffendendoſenza riguardo alcuno; e chi ode o xede tali ſceleraggini, maledice ogni mia fattura. AR. Duraper certo ėlaforte noſtra,però che il uolgo cieco, &ignorante non ſa, chereo non è quello, che in bene uſar ſipuote.Maper uer direzio poco mi marauiglio, ſe il ueleno auelena,ò il ferro uccide, ma ben grandeam miratione miporge,quädo il cibo, di cuiſiuiue,cosi ſpeſſo in cattiuo umore ſi conuerte, che alla morte conduce. Et ciò dico à fine,chetu Sappia quantoiogiuſtamente mi dolga,che lapiù pretiofa parte, che tupergratia del tuo fattoreall'huomo cõcedi conla quale egli poſ fan debbia altrui eſſere d'infinito giouamento, cosi ad offeſa Sia, ex à danno preparata, che niente più. NAT. Chié quelmaluagio Oingrato,che tal coſa ardiſca di fare? AR. L'Anima, o la più diuina parte di lei. NAT. Perseguitiamola dunque, o facciamo la citare dinanzi al tribunal diuino, Voglio, che ella dica la cauſa ſua. AR. Ma prima uoglio,che infingendo noi con eſſo lei, tanto la prendiamo che ella dica à noi ogni ſuaeſcufatione. NAT. Né la giuſtitia del Giudice, né la uerità del fatto, nela tua dignità ricerca tale inganno,eſſendo quello ſincerißimo,la coſa uerißima, otu quel la,che del medeſimo errorej, del quale ſei per riprender lei, puoi eſ A 2 Ser accufatd. A R. Ben di..Ma io altrimenti non ſonouſata difure. Ma eccoti queſta ingrata,che di molte parti, et eccellenti doni da noi dotata d'alcuna gratia,che futta le habbiamo,non ſi ricorda,contre mecon me fteſa,o contra te per li beni, che dato le hai, altiera ſi lieua. Aſcoltiamola alquanto. ANIMA. Iddio vi ſalui ſorelle amantißime, delle qualiund mi rende atta l'altra mi fa gagliarda als l'operare. AR. Et te ancora ſecondo il tuo buon uolere, ma dins ne, che usi tu cercando? AN. Te ſopra tutte le coſe. ARTE. In parte difficile ti ſei riuolta, perciò che biſogna, che tu oſſeruicon di ligenzatutte le operationi, a modi di coteſta noſtra commune amis ca. AN. Hoio ad impiegare tanta fatica, innanzich'io t'imprens da? AR. Et poſponere a queſta ogni altra cura,ben che dolcißima cura ti fia, per la ſperanza dello acquiſto, che ne farai. Ma che parte di me conoſcer deſideri? AN. Indifferentemente,ſe poßibil fuſſe, tutte le uorrei, tutte le abbraccerei tutte le poſſederei. Ma ora grado mifia tant'oltre procedere, ch'ioſappia altrui paleſare i cons cetti miei. AR. Più chiaramente midi quel che uuoi,perche in molte maniere giouar ti poſſo d'intorno à cosi fatto dimoſtramento di penſieri. Vuoi tu ſapere conqual nodo di ragione ſi ſtringa ung parola con l'altra quale ſia la concordanza de' numeridelle per fone, ode' uocaboli delle coſe, et con quai regole dirittamente fifcri Me? AN. Queſta parte io la preſuppongo. AR. Forſe tu uai cer cando d'intendere con quale unione una coſa con l'altra conuengd, per poter'à tua uoglia diſcorrere, argomentare, o foſtenere le cons teſe  AN. Né ciò intendo per ora, ma di più dilette uol parte ho curd. AR. Tu uuoi tutta fiata porgere diletto col parlar ſoauiſ fimamente,à guiſa di delicata uiuanda acconciandoi numeri, il ſuono, per l'armonia delle uoci eſprimenti coſe piaceuoli, et grate à i fenfi umani? ARTE. 10 uorrei più adentro penetrare, né tanto effer folles cita di piacere alle orecchie,quanto di giouare all'animo, operò dimmiſe hai più parti, quaſi figliuole,cui ſi conuenga la cura del ras gionare. AR. Honne, o hauer ne poſſo ancora molte altre, che nonſono in luce; ma tra le altre una ue n'ba, che non è leggitima; un'altra la quale bēche leggitima ſid, pure e di tāto riſpetto, che rare Holte ſilaſcia al mondo compiutamente uedere. La prima in tanto da me é hauuta per buona, in quanto ella inſegna di conoſcere gli ingan ni del parlare, e à fuggire i ciurmatori. Laſeconda e da me coſto dita, &guardatamolto, percheio temo, che gli huomini di malaf fare non la ſuijno. Et eſſendo ella di bellezza,o di forma ſopra ogni altra eccellente gran pericolo miſoprafta Jlquale tolga lddio, ma doue non paſſa la maluagità umana: doue non penetra l'audacia? ego di queſto, poco fa, la Natura, a io ci doleuumo, et penſauamo,che tu fußi quella tu, che d'ogni male Q uergogna noſtra fußi l'apporta trice. AN. Perunared eu perfida, che ſi truoua, non crediate di gratia, che oggi di tutte ſieno tali,perche da me ui prometto,che als tro che onore non hauerete, AR. Bene, o cosine cape nell’anis mo. Che uuoi tu adunque da me ſapere?  AN. 10 cerco molto, Ò Arte, à modo mio di posſedere coteſta tua cosi bella, o riguardata figliuola,à benefitio deipopoli, o delle genti, o à gloria tua, di me,dicui altro cibo più ſoaue non truouo. AR. Prega tu prima la Natura, che à te conceda corpo ben diſpoſto, oformato, aſpetto graue, o gentile, uoce chiara, á eſpedita fianco,modo, o mouimen ti conformialla virtù, che deſideri". Appreſſo poi à me prometterai congiuramento di non ufare già mai la figliuola mia,uezzofa, inſos lente, « che tanto uagaſia delle bellezze ſue, che per farſi uaghegs giare in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni propoſito ſenza riſpetto alcuno compariſca. Et con luſinghe eadulatione dal ben fare le genti, o i popoli aſcoltanti rimuoua. AN. Se ottimo uolere, fe oneſtédimanda ritruoua luogo appreſſo di te, o Natura, con ogni af fetto ti priego, chetu mi dia quello chel'arte mi perſuade, che ti dis mandi, corpo gratiofo,formato,odotato di quelle parti, che conue nientiſono alualore della figliuola fua. Etſe bene in alcun tempo io non ti poteßi di tanto donorimeritare,pure non ceſſerò di eſſertiſem pre obligatißima. NAT. Siati la gratia, che dimandi, conceſſa. A N. Io tigiuro ó Arte,perquella diuinità, che ſi truoua maggiore, di accoſtumare la tua figliuola à giouare ouà ben far’altrui, né per modo alcuno permettere, che ella ſeguagli apperiti diſordinati, ma circoſpetta ſempre, oſempre riguardeuole compariſca. AR. CO si habbi la chiarezza del ſangue, la libertà, eccellenza della pas tria, ibeni da gli huomini defiderati, come ciò facendo,alcolmo della gloria à pochi conceſſa,peruenirai. NA. Felice patria,che di tale, e tant'huomoſaràfornita. Maqual patria le dareſti tu, ó Ar te? ARTE A'mia uogliale darei quella,in cui le leggi poteſſero piit, che gli huomini, doue la maggior parte alla commune utilità s'ina drizzaſſe; antica,nobile,illuſtre,e di quelgouerno, nel quale il bes ne di tutti glialtri gouerniſiconteneffe, qualeforſe non più che unds'e  s'è ritrouata,oſi ritruoua al mondo, oforſe tu, o Natura,conſentia ſti di prepararle il più ſicuro et comodo luogo, oil piie forte fito, cheueder ſi poſſa,nonmeno al mare che alla terra uicino,cui di gra tiaſpeciale ancora il Cielo concede priuilegio di eſſer nimica d'ogni tumulto, o ſeditione,parca,pia,oreligioſa, con inſtitutiottimi temperata: NA. Troppo di cuore commendi, o lodi queſta tua Città, eforſe à ciò fare queſto t’induce,che tu in eſſa puoi il tuo ud lore, o la tuaforza chiaramente dimoſtrare. Ma tu, ó Anima, già ricca di tanti doni, chefatti t'habbiamo, che dici? A N. Le gratie non ſonopari al uolere,io attendo quello, che attender dei, &sò lo ſtudio,che tu ſei ſolita di porre nelle coſe tue;mi& rendo certa, che tuſai ancora, che ritrouando io unatemperatißima compleßione di corpo,à quella dò la umanaperfettione, o come quella temperanza cade, cosiſopra di eſſa declina ilmio ualore. Làondeſono alcune co ſe, allequali io non degno la uita concedere. Ad altre ueramente dos no la uita,ma le operationi di quella cosi ſono occulte, che in forſe fi ftà di credere ſe in eſſe la uita ſi truoui. Altre uita,ſenſo, omouis mento da me hanno comealcune intelligēze, et amore, coſa nobile et ueramente diuina. NAT. Queſtomipare,checosi ſia map ure als cuna fiata io ueggo, che le anime uan ſeguitando le compleßioni de' corpi. Onde poiſono alcuni ſdegnoſi, alcuni manſueti, altriuanno dietro alle apparenze, altrialle fauole più che alla uerità fi danno, emolti in ogni pruoua, ſoda ex inquiſita ragione uan ricercando. A N. Et queſto èquello da me tantodeſiderato dono, che e di ſapes re in tal guiſaſpiegare i concetti miei,ch'io ſatisfaccia à tanta diuer. ſità di nature, o d'ingegni. NAT. Quando tu ſarai giunta à quel paßo,chetu ſappia per mezo dell'arte cosi ben gouernarti con ogni maniera di perſone, dotte,roze,ciuili, barbare, umane, e inumane, allora potrai à tua uoglia mitigar’anco gli adirati, fpingere i pigri, raffrenare i feroci, ingagliardire i deboli; et di uno in altro cótrario à uiua forza ogni anima tramutare. ANIMA. Coteſta é und magica eccellentiſsima. Ma tu Arte,cui è dato di ritrouare alcune uie ragio neuoli di peruenire alla cognitione di coſe non conoſciute, incomincia da quelle che facili, en eſpedite ad inuiarmi al deſiderato fine riputes rai. Ar. Cosi uoglio, o à te farò capo, ó Natura, dinuouo addis mandandoti,di che beni uuoi tu adornare queſta noſtra nouella ſpoſa? NAT. Hollo già detto, a più aperto ti diſtinguo,dar le uoglio, ol tre al corpo ben formato unauoce grata, chiara, eguale, che ogni ſuono ageuclmente ſi pieghi, e che ſe ſteſſa inſino all'eſtremo ſoſtenti. AR. Et io le dimoſtreró parole atte ad eſprimere leggia dramente ogni concetto,pure,ampie, illuftri, eleganti ſeuere,giocona de, accoſtumate, ſemplici,uere, tarde, ueloci, ofinalmente tali, che abbracceranno la uera idea di me in queſtoeſſercitio. Et di più io l'inſegnerò di collocarle si fattamente inſieme, che diletteranno ſema pre, o non falliranno già mai; or iu Anima farai ociofa? AN. Hauendo io per gratia di te Natura le coſe conuenienti, oper tud corteſia ò Arte le parole conformi, farò si, che niuno in mepotrà de fiderare ne penſamento neſtudio alcuno. NAT. 10 a' ſenſi tuoiſot toporrò tutte le coſe, dalle quaifacilmēte ti uerrà fatto di prendere argomento di ragionare. Tu fin tanto non mancherai di diligenza. AR. Paterno, oſaggio ricordo. Però che con la diligenza ogni giorno teſteſſa auanzerai, ella ti farà poßibile ogni impoßibilità, ela la é la perfettione, lalode di tutte le opere de mortalijà cui cons giunte ſono tutte queſte coſe, cura, induftria, penſamento, fatica,eſſer citio, imitatione de migliori, «il tempo padre d'ogni coſa. Credi adunque à me quelloche la lunga eſperienza mi haidimoſtrato, cioé, che niente giouano imieiprecetti,niente le regole, niente gli ammae ſtramenti,ſenza la diligenza,con la quale oltre alla inuentione, all'ordine delle coſe,otterrai di accommodar la uoce alle parole, eſpri mendo le umili con baſſo, o rimeſſo ſuono, le pure coniſchiettezza, le afpre con durezza,abbaſſando, et inalzando queſto beato inſtrué mento à que' tuoni, che ſaranno conuenienti. An. Coteſte fono leggi da eſſere oſſeruate allora che io ſarò col corpo congiunta. Pers cheben ſai chenė lingua, nė uoce habbiamo, nė però egliſi uuoldire cosi ad ogn'uno,in che maniera tra noi fauelliamo. NAT. 10 ſo be ne, chegli huomini andrannofauo leggiando di noi, come altre fiate hanno detto chele cannucce parlarono, ilche é maggior miracolo, che ſe gli Indiani uccelli eſprimono le uoci umane. A R. Se già col mio aiuto uolarono gli huomini, molte coſe inſenſate hebbero mo uimento, che marauiglia potranno oggi maiprendere del parlar nos ſtro? AN. Che debbo dir’io? partita ora dalluogo,oue il parlaa re é uiſibile, l'intendimento ſenza fauella ſi ſcuopre, muoueſi ſenza luogo,e s'impara ſenza discorso. AR. Coteſti miracoli, che tu ci narri,ſono ſegno, che tu non habbia biſogno dell'opera noſtra. AN. Tu di vero, ſeio nella mia primiera ſimplicità mi rimaneßi. Ma diſcendendo dalpuro o purgato eſſere, o venendo quaſi ad un'aria infettata e corrotta,molto mi ſento dal mio primo ſtato ria moſſa. NAT. Peggio ti auerrà meſcolandoti con la masſa matea riile del corpo. A N. Ad ogni modo mi biſogna ſtar ſottopoſta. AR. Non uſciamo di ſtrada,macome buoni mercatanti accontiamo inſieme. Haßi dunquefin'ora promeſſa di uoce eſpedita, di copia di parole, di modo conueniente di accomodar la uoce alle parole;oraci reſta di affettare le parole alle coſe. Cheditu Natura? NAT. Die co, ch'egli è più che neceſſario queſto affettamento,ſenzail quale le parole ſarebbon uane et ſenza frutto, però accreſcendo le doti, che io intendo dare à coſtei, promettole di dimoſtrarle nelle coſe mie us na certa uerità, alla quale accoſtandoſi, potrà ſeco tirare ogniforte di gente, o di tale ueritàſenza dubbioti affermo eſſerne ogn'uno capace. A'R. Già tre corde di queſto liuto ſono accordate, uoci, parole, a coſe. Reſta, che nelle coſeſi ueda una certa conuenienza con eſſo teco,ò Anima, e con le parti tue; che ne riſulti la perfetta e compiutafoauità della deſiderata armonia. Però aiutamia ritros uare le tue più ſecrete parti, epiù occulte uirtù, acciò cheſi ſappia qual parte di te, con quai coſe, « con che parole, et con che attione ſi debba muovere. A n. Piacemi queſta diſpoſitione mirabilmene te ofappi,che auenga;ch'io nonſia ſtata col corpo già mai, nientes dimeno come nouella ſpoſa nella caſa del padre molte coſe hoſapute, che mi aueranno quando ciſarò legata. A R. Ora incomincia à dir mene alcune. AN. Hogià inteſo,che quando io ſarò con eſſo il cor po, molte mie forze emoltemie uirtù ſi ſcoprirāno,le qualiora non ſi conoſcono. Et prima ne gli occhi io ſarò il uedere, nell'orecchie l’u dire, nel palato il guſto, per ogni luogo oparti del corpo faró ſentimento, nel cuore principio diuita,di ſenſo,etdi mouimento. Ben che ad altra intentione altri riguardando,la origine di tai coſe ad al tre parti aſſegnerano. In un luogo ſarò fantaſia,in altro memoriain altro ingegno,et per tutto ſarò anima.Et ſe il corpo fuſſe di tal tem pra, chegli fuſſe diffoſto à riceuere ogni mis uirtù, farei nelle orecs chie la uiſte, o ne gli occhi l'udito, quantunque per molti accia denti, che uengono à i corpi, l'animepouerelle uſar non poſſano le forzeloro, da che nacque l'opinione di coloro, che dicono "credos no che noi moriamo inſieme col corpo.Ma io ti giuro per quell'onnis potente maeſtro, che mi fece che noiſiamo immortali, oſe ora io fo noſenza il corpo,perche non ſi dee credere che io reſtar poſlı dapoi, che'l corpoſarà disfatto? AR. Tutto chemolte ragioni aſſai pro Babiliper l'und ei per l'altra parte mi muouano,pureal modo,che io Sonoſolita di cercare la uerità delle coſe,io non ſono puntoſicura del la voſtra immortalità, però rimettendomi à qualche maggior ſapien za, che la mia non é, mi gioua di credere che noi uiuiate eternaměte. A N. Più oltraiſe fenza il corpo conoſco,fo ueggio, econoſco di conoſcere,miapropria operatione, che dirai tu poſcia dello eſſer mio? AR, Ritorniamo al cominciato ragionamento. An. Ben ti dico ora delle forze mie, perche io conoſco di dentro, e di fuori, dentro con la fantaſia, col diſcorſo, o con l'intelletto, o ciò si dia mandavolontà, come quello del ſenſo appetito, il quale hauirtù di porſiinanzialle coſe diletteuoli, o di fuggire le diſpiaceuoli.La no lontà è Regind. AR. A'me pare, che tu mi hábbiposto inanzia gli occhi la forma di una ben'ordinata Republica, nella quale ui ſia il Principe, iCoſiglieri,i Guardiani, et gli Artefici. Mainfinitamentemi doglio d'alcuni, che per molti ſecreti auenimenti, de' quali non fan renderealtramente ragione, corrono à fabricar nomi, che nonſono, et con quegli impauriſcono le genti,aguiſa delle nutrici,che ſpauenta, no ifanciulli con le fauole, quindi è nato il nome della Fortuna,cui ca pital nimica io ſempreſonoſtata, nõ percheio creda,che à quel nome alcuna coſariſponda, maperche mimoleſtalafalſa opinione di colo ro, che non ſolamente uogliono, che ella ſia una coſa come le altre, che ſono, ma le attribuiſcono la diuinità. NAT. 10fo bene, che la for tuna non è fattura mia. ART. Né di me'ancora. An. Molto mea no dimeauezza à coſe stabili e impermutabili. ART. Laſcida mola dunque andare, o ueggiamo ſe io ti bo ben’inteſa, due ſono i conſiglieri,per quanto io comprendo,ragione, &appetito, daiquali commoſſo e perſuaſo,s’induce à fare, eoperare il tutto, perche ora nė difortuna,nédi uiolenza alcuna ragiono. A N. Senza dub bio, ſe riguardi al nome, maſaper dei, che ſotto queſto nome di appea tito ſi comprendono due conſiglieri,l'uno, nel quale è poſto l'iracons dia,che è come difenſore dell'altro,nelquale è posta la cõcupiſcenza. AR. O diquantimali, e di quante conteſe l'uno e l'altro de gli appetiti ſuoleſſer ſemenza. An. Queſto non già auiene pur il dritto gouerno in tirannia non ſi tramuti. Diritto gouer è quel lo,nel quale,chi deue ubidire, ubidiſce, ochi dee comandare, cos manda". La ragione adunque di queſta piccola città preceder deue allo appetito, e non permettere, che egli ad abandonate redini cors sendo, ſeco dietro la tiri. AR. Moltomipidce quello che tu di,eso B per che 1 jo per ricompenſa di tal piacere voglioti ſcopriremoltiſecreti, che io bo d'intorno alle predette coſe.Ma dimmi tu prima queſta una parte, nella quale é riposta la ragione,diche hai tu inteſo cheella eſſer deb bia adornata? NAT. Diſcienza o di buona opinione ART, Vero é, per che la ſcienza é ilpiù bello adornamento, che s'habs bia, al qualeſe s’auicina la buona opinione,ò che gentileabito é que ſto,diche l'animaſiueſte apparando le ſcienze. Alora ella acquiſta laſua perfettione,allora ella é pronta à conſeguire il deſiderato fine, et quaſi ſeſopraſeinnalzando auanza ogni coſa mortale, o ſi cons giungecon la diuinità.Ma come di coſa precioſa,orara, difficile,or non da noi ora cercata,non ne ragioniamo, ma ritorniamo alla buong opinione, la quale si come la ſcienza è una certa cognitione delle cofe occulte, nata da uere og manifeſte cagioni, cosi eſſa opinione è una incerta notitia,nata da alcune dubbioſe cagioni, alle quali l'anis ma con timore difallire, odi errare, s'inchina. Per uoler'adunque ottenere l'intento fuo,é biſogno conoſcere il modo,col quale dapia gliareſi hanno,o, comeſidice, farſi beneuoli i detti conſiglieri,ac cio che acquiſtata lagratia loro, l'animaſi muoua àfareleuoglie di chi parla.Muoueſiadunque la ragioneuol parte,che è nell'anima, că lepruoue, ocon le ragioni; et tal mouimento s'addimanda inſegna re. Etperche la ragione è uno de' conſiglieri, prudente,etſuegliato, perd nell'ufficio deŪ'inſegnare é di mestiere diacuto epronto inten: dimento, mal'appetito in altro modoſimuoue.Il primo, che è detto Concupiſcibile,richiede una certa piaceuolezzaet cõciliatione. Pero ciòche cosi di dentro i petti umaniſono da quello tirati. Ilſecondo gli fpigneàforza, operò cõ eſo egliſiuuole uſare uno impeto, a cui più propriamente queſto nomedimouimento ſi conuiene, che à gli al tri; e comedebito è lo inſegnare,cioè il dimoſtrare con ueriſimil pruoua le propoſte coſe, cosi è onoreuole il conciliare, o neceſſario il muouere. Ma da ogni afficio di queſti tre peruiene lapropria dileto tatione. An. Io ſo almeno,che altro diletto non ho che lo apparda re. AR. Et tu prouerai appreſo quanto piacere naſca negliapa petiti. An. 10 pure ſono auifata cheeſſendo in eßi ripoſte le umaa ne affettioni, nonpuò eſſere che ſenza riſentimento di dolore ſimuou wano. ARTE. In ogni affetto, et mouimento d'animo, dolore, o piso cere ſono compagni.Oruedi quáto sfrenataſia l'iracondia, oquana to doloroſo ſia l'adirato,et pure conoſcerai, che lo appetito,et la ime ginatione della vendettaglie piùfoane che il mele. Ho duucrtito, che nc ELOQVENZA. ii negli eſtremi dolori gl’uomini hauuto hanno piacere di dolerſi, ayo il non poter ciò fare, èſtato loro di doppia doglia cagione, non cbe à loro elettion ehaueſſero uoluto l'occaſione di dolerſi,ma poſti neldo lore; dolce coſa il poter'à lor uoglia ramaricarſi hāno riputato. Dilet ta ueramente la SPERANZA, ma il deſiderio la tormenta. Peßima coſa è la diſperatione tra tuttigli affetti umani, maſola è ſicura contra la morte. Mauannetu diſcorrendo nelle altre perturbationi,che trouca rai nella allegrezza ſteſſa un mancamento diſpiriti, ounatenerez xa, che al pianto ti condurrà fpele fiate.Però io tiſcuopriròintorno à tai coſe bellißimiſecreti. ANIMA. sidigratia; percioche queſte mi paiono leuere, epotentifuni, con le quai ſi tirano l'altrui ate nos ſtre uoglie. A R. 10 ho inſegnato a' mieifedeli,che non fieno fema pre folleciti d'intorno ad unoaffetto, per fuggire la noia con la uda rietà dellecoſe, imitando la Natura, la qualeama ſopra modo il udm riare,o il mutare le coſe ſue. NAT. Vero è, perche chiaramente dei vedere la diuerſità delle ſtagioniedei tempi, la grandezza co l'ornamento de i cieli, la moltitudine delle coſe e delle apparenze, ch'io ſonouſata di dare alle coſe mie. AR. O'quanto io leggo fo pra il tuo libro è Natura;ma non abandoniamo l'impreſa. Deiaduna que fapereè Animà un'altro ſecreto, non meno delſopra detto bello, degno da eſſere apprezzato. Jo ti dico che tu auuertiſca bene di nõ ſollecitare con tutte le forze ad unoſteſſo tempo i detti conſiglieri, perche l'anima trauiata in molti mouimenti, non attende comeſi dee ad un ſolo.L'eſperienza ti moſtrerà, che ad un'bora né gliocchi, di belißime pitture,né l'orecchie di ſoauißime confonanze potrai pies: namenteſatiarejma compartendole opere, meglio aſſai per guſtare i diletti,e i piaceri delſenſo,uederai quanto può queſtaſeparata pers ſuaſione. Inſegna adunque. Inſegnato che hauerai, muoui, apporta le facelle, et eccita con gli ſtimolide gli affetti l'animo de gliaſcoltanti. AN. O' Arte tu ſarai ſempre arte. A n. Et tu anima ſaraiſempre anima. ANIMA. Eſſendo io anima, o da te ammueſtrata,diuentero Ar te, o tu eſſendo in me Arte, Anima diventerai. A R. Nuouo miracolo, didue coſe farne una; ma digratia non ci laſciamo ſuiare dalle occaſioni,che in uero alcuna uolta épiùdifficile la ſcelta, che la inuentione. Ora foniamo a raccolta, o quaſi ſotto uno ſtendardo ria duciamo le tue;uirtù, dalle quali fin’ora habbiamo iregali aßiſtenti ragione, concupiſcenza,oira. Reſta, che andiamo alle altre parti.; AN. Cosi faremo, o da eſſa memoria ſidarà principio. AR..O B quanto tiſon tenuta in nomeſuo,che mi giouerebbe duuertiré un'afa fetto di Natura, ſe altra fiata in quello abbattendomi, la memoris preſta nõ mi diceſse, Eccoti,ò Arte,quello che ancora uedeſti. Che es ſperienza ſitruouain meſenza di eſſa? chis'accorgerebbe, che in al. cuna di uoi, ó Anine, io miritrouaßi, ſe non fuſe la memoria come guardiana, teſoriera ditutte le parti dello ingegno? onde con ues rità ſidice, Che tanto fa l'huomo, quäto ſiricorda Naſce la memoria dal bene ordinare, l'ordine dello intendere, odal penſamento, però poſſo io con le imagini in alcuni luoghi riposte artificioſaméte indura rela memoriadelle coſe. NAT. A lungo andare tu le ſeipiù toſto di danno, che di prò alcuno, però non mipiace altro che uno eſſercitio, di eſſa memoria,cheſi fa mandando motte coſe à mente. A R. Che fai tu di eſſercitio • Natura, l'ordine della quale è ſempre conforme? il tuo fuoco ſempre tiraall'insù, la tua terra per lo dritto all'ingiù di fcende, o cot ſuo giuſto peſo al centro rouinando à modo alcuno non fi può uſare alla ſalita.volgeſiilcielo tutta fiata raggirandoſi in ſe medeſimo, ogni tua legge e impermutabile, o tutto che i tuoi mona ftri, le tue ſconciature alcuna volta ci diano da marauigliare, pus ge ſono tue fatture,néſono alla tua generale intentione repugnanti, mal'Anime da uno in altro cõtrario trapaſſando, buone di ree,et ree di buonediuengono. NAT. Io conoſco il biſogno in quel modo che gli occhi comprendono la notte, che é priuatione di luce, ma ben ti dico, chela memoria da me con molta cura é guardata nella compoſiz tione dell'huomo. A R. Io l'ho auuertito nel tagliare di eſſo, egomi fono marauigliata con quanta cura difeſo hai quella parte,nella quale éla memoria collocata, hauendole dato nella parte di dietro della tes ſta un'oſſo fermo, e rileuato,che da ogniſtraniera forza nella difens da. Tui in temperata umidità e la impreſione, e in ſecco proportios nato la ritentione delle coſe. Ma tu Arima,la cui nobiltà fi fa manife ſta per tante et tali operationi, di ciò il tuo fattore ne ringratierai, regolando con la ragione i tuoi appetiti, penſa,ordina, ocon lo eſa fercitio conſerua la memoria quanto puoi,percheciò facendo,tale di senterai, quale deſideri, e conoſcendo te ſteſſa, conoſcerai l'altre tue forelle, et come della più onorata di eſſe la tua ragione ſopraſta alla loro, il tuo dritto deſiderio ſarà lor freno, onde infinita riputatione acquiſterai,perche di leggieriſicrede à colui, in chiſifida, et facilmen te ſi fida in chi ſi truoua autorità, w credito, il qual naſce dalla inte grità,o bontà de' coſtumi, o queſto é,ch'io deſideroſa, fe altra ſi truoua del bene,temo aſſai non abbattermiin perſone ma lungie. AN: In che potranno ufare la loro malu agità, non eſſendo lor data ſede? ART. Come io non ti niego,che il uiuer bene, es accoſtumatamente non ſia di gran giouamento à farſi luogo nel coſpetto degli huomini, e acquiſtarlagratia de gli aſcoltanti,cosi non ti conſento che l'has uergli dalla ſua,per uirtù, oforza di parole non ſi poſſa fare. A N. Perche inſegni tu coteſti incanteſimi? A R. Il mio ualore e tale, che io poſſi in parti contrarie e repugnanti, ſenza che io deſidero ſcoprire in altruiſimili inganni, e però biſogna conoſcergli, cosila uerità ſtadi ſopra, ola bugia cade'uinta in terra,cosiſiponfine alle conteſe, cosi ſi terminano le liti, cosi ſi ammolliſce le durezze degli adirati, s'attura le rabbie de’ ſeditioſi, ſi ſollieua l'autorità delle leggi caduta contra il uolere di quegli, che ſtimando l'oro, l'argento, più cheil douere, et à prezzoſeruendo, poſpongono la ſalute coma mune alla utilità priuata.o quanto nei publici mali,e nei tempi pe ricoloſi compenſo pigliarſi ſuole dal parlare digraue et onorato cit. tadino,le cui parole condite diſenno,ſeco hanno l'alleggiamento d'o gnimalinconia,che gliafflige. An. E dunquegran difetto d'huos mini da bene? AR. Senza dubbio, o ciò auiene perche la uia dis ritta è una,male torteſono infinite, però di raro ſi vede tra mortali, chi per la ſola camini. Ma tuſcordata ti ſei d’un'altrauirtù, la quale per mettere le coſe dinanzi a gli occhi (il che éſommamente richies ſto)non ha pari.Di queſta uirtù, perche ella ha grande amicitia co i ſenſi corporali,o é molto confuſa,come quella, che é lo ſpecchio ges nerale di tuttii ſentimenti umani, o perciò è detta imaginatione; di queſta uirtù dico, non hauendola tu ancora eſſercitata, non ne haifin ora alcuna parola mosſa. Io odo dire che nella imaginationeſirifere bano le imagini, e le apparenze da ſenſi riceuute,et beneppeſſo in lei cosi ſtranamente tramutarſi che i ſogni non ſono cosi turbati, et con fuſi, là onde molti ſono detti, o riputati fantaſtici, altri ſi fanno Re O signori,o talmente par loro eſſere que'tali, che ſi credono di eſ ſere,che riſo eg compaßione mouono a chigli vede. Alcuni uanno, come ſi dice,in aria fábricando, et tanto ſi ſtanno nel lor penſiero fißi, che forſennati,e pazzi da tutti creduti ſono. A R. Quanto piùe uanamente ſpender ſi ſuole tal uirtù, tanto à maggior prò li deue ue farla,& adoperarla. Per queſta l'huomo prima taleſi fa, qual uuole che altri ſieno. Perche egli prima dentro diſe ſi propone la coſa, che egli cerca dare ad intendere altrui, con quel migliore e più eccelslente modo cheſi può, auolendo egli metter’altri a pianto, non tera rà mai gli occhi aſciutti. Simile forza nella pittura ſi dimoſtra, lo ar tefice della quale, ogni forma, che egli cerca di far uederenelle ſue tele, primanella imaginatione fermamente ſi dipinze, o quanto più belli,o gagliarda è la ſua imaginatione, tantopiù illuſtre, o loda. ta e la ſua pittura. Molte forme, oſembianze ſono de gli adirati,ma una più eſprimela forza dell'iracondia; queſta una deue inanzi alle altre eſſer poſta nella fantaſia, o à quela il pennello e la linguafi deue indrizzare; en cosi tutta fiata il più efficace modo o di moues re, o di dilettare, ò d'inſegnare por ſi dee chiragiona, inanzi,accioche egli ſi habbia l'aſcoltatore come deſidera.Et queſta è la utilità grans de di coteſta tuapericoloſa potenza,pericoloſa dico, perchemolti no ſanno ufarla à feruigidello intelletto, ocredono, che lo imaginarſi ſia intendere odiſcorrere. Ma laſciamo queſto da parte;o racco: gliamo le tue uirtù. Che mi hai tu dato fin'ora? An. Mente,uolons tà, appetito, memoria, imaginatione. A RT. Molto mi piace.Nella mente, che uiporremo altro, ſenon buona opinione, con l'ufficio dello inſegnare? Làonde la uolontà ſi muoua ad abbracciar le coſe. Et nel lo appetito,che ui ſtarà ſenongli affetti, eccitaticol muouere, &col dilettare, Là onde l'animo ſia uiolentato à bene eſſequire? Della me. moria non dico altro, né della imaginatione, percheſono ambedue di ſopra aſſai bene ſtate de noi diſtinte. Ora bella coſa udirai, oda non eſſer à dietro laſciata. A N. Che mi dirai tu? ART. Dicoti,che doppo la eſpedita dimoſtratione di tutte le tue parti, fa di meſtiere di ſapere in qual maniera elleſieno dipoſte à riceuere la impreſione dei loro oggetti. Perche uana, ofriuolafatica quella ſarebbe, di chi af fettaſſe in parte al pianto diſpoſta ſenza alcun mezo porre il piacere. Credi tu che eguale prontezza hauerai allo imparare,et allo adirars ti? Indrizza adunque i tuoi penſieri à gli ammaeſtramenti, che io ti uoglio dare, oſaperai comedeueeſſer' apparecchiato l'animo dico. lui che ricerca la pruoua, edi colui che è pronto all'affettione, imis tando i buoni medici, i quali prima uannoinueſtigado quai partiſieno guaſte, o quaiſane,eappreſſo, le guaſte uanno disponendo à rices uere i rimedij conuenienti; e prima leniſcono, e ammolliſcono, poi apportano la medicina. L'anima adunque, nella quale la ragione fi dee porre, acciò che dia luogo alle pruoue, et accettar poſſa la buona opinione, e iſcacciare la contraria,deue eſſere ripoſata, e quieta,et non in modo niuno affettionata, et trauagliata. Perche eſſendo il piancere,cheha l'anima, quando impara, foauißima coſa, biſognofache ellaſia lontana da ogniturbatione, operò molto male è conſigliato colui chenel conſigliar'altrui uſa la forza, o la violenza degli aps petiti, &degli affetti, laſciando il ripoſo della verità daparte; qual contento può riportar colui, che partito dal Senato dica, per qual ragione ho io aſſentito?perche ho io cosi deliberato? Buona coſa è l'hauer’alla uerità conſentito,mamiglior'e, ciò hauerfatto ragion neuolmente più toſto che à forza, perche in tal caſo non pure ſifabe ne,maſiſa di far bene; di che non è coſa più diletteuole w gioconda. Habbiaſi dunque l'animo ripoſato di colui cheattende la ragione; queſto ageuolmenteſi può fare, ponendoſiprima di mezo trail si o il no,come chiſta in dubbio.Però che più prontamëte ſi prende para tito,et ſi ammette il uero dubitando, che portando ſeco alcuna opinio ne. Macome diſpoſto ſia lo appetitoalle coſeſueattendi,che loſaprai con una bella diuiſione degli affetti. Perciò che in eſſo appetito gliaf fetti ripoſti ſtanno,comet'ho detto. Ogni affetto e d'intorno al male, ò d'intornoal bene, truouiſi pure lo affetto in qualunque parteſi uos glia. Ecco nel tuo generoſo ſoldato,cui é conceſſo l'adirarſi, opren. der l’armi quando biſogna dico dello appetito iraſcibile, D’INTORNO AL BENE VISTA LA SPERANZA, E LA DISPERATIONE. LA SPERANZA È UNO ASPETTARE IL BENE; LA DISPERATIONE È UN CADIMENTO DA QUELLO ASPETTARE. D'in = torno al maleuiſta l'ira, la manſuetudine, il timore, ol'audacia. Ira é appetito diuendetta euidente per riceuuto oltraggio Mania ſuetudine èraffrenamento dell'ira, oambedue queſti affettiſono in torno almale,difficile,etpreſente.Il timore é un aſpettatione di noia, ouero un ſoſpetto di eſſere diſonorato.Et queſta ſichiamauergogna. Il primo,ouero é temperato,ouero eccede la miſura. Dal temperato neuieneil conſiglio,dall'altro la inconſideratione,il tremore, et altri ſtrani accidenti.Laconfidenza, «audacia, é contrario affetto. Et queſte perturbationi tutte ſono d'intorno almale che dee uenire.Nel L'altro appetito, in cui è poſta la concupiſcenza, d'intorno al bene ui ſta l’amore,il deſiderio, a l'allegrezza. D'intorno al male l'odio, o l'abominatione, di cui ſegno infelice e la triſtezza, dalla quale naſce l'inuidia, la emulatione, lo ſdegno, o la compaßione,quando auiene che la triſtezza detta ſia de i maliouero de i beni altrui. Ma nelle co fe proprie affligendoſi l'huomo tre alleggiamenti ritruoua. Il primo ė ripoſto nel proprio ualore, perche niuno ſcelerato é compiutamente aüegro.L'altro è meſſo nel conſiderare il dritto della ragione, werita 16 D ' Ε ι ι Α fuerità delle coſe, da che naſce la ſofferenza figliuoladella fortezza. L'ultimo é la conuerſatione di alcuno amico, perche ne gli amici e ripoſta la ſoauità della uita. Ritornando adunque allo amore, ti dico, che Amore è uoglia del bene altrui,eu ſe é mouimento d'animo a far bene, li dimanda gratis. Senon ſopporta concorrenza, geloſia, lela ſopporta ad onefto fine, amicitia. L'inuidia non uorrebbe, che altri haueſſe bene,ſe benuifuſſe il merito. Lo ſdegno non lo uorreb be, non ui eſſendo il merito La emulatione il uorrebbe anche per ſe. La compaßione ſi duole del male altrui, temendo il ſimilenon da uengu á lei. Etciò ti puòbaſtare in quanto ad una brieue dichiaraz tiore di tutti gli umani affetti. Ora econueniente, che tu ſappia in che modo à ciaſcuno d'eſſi tu ſia diſpoſta, acciò che tu ſappia poi als truiſimigliantemente diſporre. Eſſendo adunque l'appetito uarias mente affettionato, quandoſi ſdegna,quandoinuidia, quando aborris ſcequando ama, quando teme, quandofpera, equando in altro mo. do é trauagliato,acommoſſo, aſcolta un bellißimo ſecreto, ilquale non ſolamente à diſporre gli animi à qualunque affetto è buono, ma in ogni operatione é neceſſario, et benche oggi mai per uero ammies ſtramento della uita da ogn'uno ſi dica, RIGVARDA AL F13NE, non é però d'ogn’uno l'applicare alle attioni o opere de' mortali, cosi belle ſentenza. Laſcerò da canto le coſe, che non ſpettano alla noſtra intentione,ſolo dirotti quanto io deſidero, che ſia negli af fetti oſſeruato. Deiſapere che egli ſi truoua una maniera diparlare, la quale in molte, manifeſte parole effrime la forzı, ey la natura delle coſe; e quelle molte, omanifeſte parole altro non ſono, che le parti della coſa eſpreſſa. Queſtamanieradi parlare é detta Diffie nitione. Ora dunque io ti ammoniſco, che nel muouere gli effetti pri ma tu habbia à riguardare alla diffinitione di ciaſcuno,come al deſide rato fine. Però cheſe la diffinitione rinchiude in certi termini la nas turi della coſa propoſta, ſenza dubbio querrà, che il conoſcitoredel la natura, o delle parti deltutto diffinito, oeſpreſſo, indrizzerà tutte le forze dello ingegno ſuo, à ciò fare,et tale aiuto preſterà abon dantißima copia di ragionare, o diſciogliere ogni occorrente diffi cultà, e durezzé. Eccotiſe ſai, che l'ira é deſiderio di uendetta per riceuuto oltraggio, o ſe mirerai in queſto fine, non anderai tu dia ſcorrendo, in qual modo eſſer debbia diſpoſto all'ira colui, che tu uora rai hauere ſcorucciato? o conchi, oper qualicagione, et quanti modiſieno di oltraggiare altrui? Et ciòin ogni affetto facendo,non ti farai ſignore, et poſſeditore dello animo di ciaſcheduno? Et rans to più dimoſtrerai con la uoce, et co i mouimenti del corpo, te tale. effere, quale uorrai,che altri ſia, certamente si. La diffinitione adun queé il ſegno,al quale ſi deue attentamente guardare. Ora inbrieue ti dico dell'ira, che eſſendo ella uoglia di uendetta,è neceſſario,che lo adirato ſi dolga, o dolendoſi appetiſca alcuna coſa, dalche naſce,che repugnando altri à gli umani deſiderij, ouero à quelli alcuno impedi mento ponendo, ouero in qualunquemodo ritardande le uoglie al trui, porga cigione di adirarſi, cioé di deſiderare uendetta,ilperche nella ſtanchezza nell'amore, nella pouertà, e ne i biſogni ſonodiſpoſti i petti umani agramente al dolore cagionato dall'ira, epiù cheſono ideſiderijmaggiori, più apparecchiati, oprontiſono all'ira, o al furore. Lo hauer male di chi s'attende ilbene, lo eſſere in poco pre gio tenuto, ò diſubidito, o prezzato, o per ingratitudine, ò per ingiuria ſenza prò dello ingiuriatore, ſono tutte diſpoſitioni al predet to mouimento. Giouamolto, oin queſto, et in altri affetti ſaper. la natura,ilpaeſe, la fortuna, ela conſuetudine di ciaſcheduno. Se adunque ſi accende nell'ira in tal modo, chië diſonorato, o iſcordas to,ſenza dubbio acqueterai colui cheſarà onorato, riuerito,ubidito, ammeſſo, et riputato; ouero, chiſiſarà uendicato,a cuiſarà dimandato perdono con la confeßione del fallo, incolpando la violenza, enon la uolontà. Deueſi dare molto al tempo, oalla occaſionein ognicoſa, operò ne' conuiti, ne i diletti, one igiuochigli umani appetitifoa no più alla manfuetudine inchinati Dell'amorealtro non tidico, le non che eſſendo eſo soglia del bene altrui, l'eſſere cagione, mezano, interceſſore, aiutore al bene altrui,diſpone ageuolmente à tale affets to ciaſcuno. Et perche Amore appreſſo, é una ſimiglianza, w unios ne di uolere, però coluiſarà più amato, ocon l'animo più abbrace ciato, il quale dimoſtrerà d'eſſere d'un'animo, o d'una uoglia steſſa con noi. Ilche nelle allegrezze, one i dolori ſi conoſce, o neį biſoa gni ancora; non ſolo nelle perſone amate, ma ancora negli amici de gli amici. Allo Amore riferiſco la Benuoglienza, e l'Amicitia, las quale, ben che affetto non ſia, pure è nata da eſſo amore, che è uno de gli umani affetti. Qui non é luogo di più diſtintamente ragionare dell'amicitia; de gli oggetti, delle parti, e delſine ſuo. Perciò che altroue nei graui ragionamenti di filoſofia ciò ſi conuiene. Baftiti d'hauere per ora la ſuperficie, el'apparenza. Ritorno adunque e ti dico,che ipiaceuoli,coloro, cheſidimenticano dell'ingiurie i с faceti, imanſueti, gli officiofi uerſo i lontani, atti ſono ad eſſer'amati. Peril cótrario ſapersi chedire intorno all'odio,il quale è ira inſatia: bile, da uendetta, da tempo, daruina alcuna non mitigato; occulto ine ſidiatore, ymortale, nato da in giurie o ſoſpetti. Al quale diſpoſte ſono altre nature più, altre meno, o à megliodiſporle,biſogna ams plificare le ingiurie, « iſospetti,acciò che nonſoloſi brami una ſema plice uendetta, ma la diſtruttione della perſona odista. Del timore, odella confidenza, che ne attendi più, ſe di queſta, ed'ogni altra perturbatione ne i uolumi degliſcrittori, et nelle pratiche umane'ne Jei per uedere aſſai? Timore e turbation d'animo, nata da ſoſpetto di futura noia. Et però chi temeſa ó penſa dipotere ageuolmente eſſer’offeſo, eda chiſpecialmente, ſopraſtando il tempo,es la occas: fione. Etchiciò non ſoſpetta,non é al timore diſpoſto comeé chi ſem pre éſtato fortunato, chi ſempre miſero, chi è copioſo d'amici, di ros 64,09di potere,chi é fuggitoſpeſo dalle ſciag ure, ode pericoli,ego altriſimiglianti;o que'taliſono confidenti, &audaci. Euui altra maniera di timore, non didanno,madi biaſimo; alla quale diſpoſtiſos no i giouanetti,i riſpettoſi, oriuerenti, quelli cheuoglionoeſſer' ha uutiper buoni da ' più uecchi, o da ſimili, opari. Et però aûa loro preſenzaſonopronti ad arroſire. Non cosi ſono i vecchi,perche non credono,che di loro altri ſoſpettino quelle coſe, che ſono ne' giouani, come laſciuie,amori, euanità. Etperche il diſonore è coſa, cheuies n'altronde, però gli ſpiritidalſangue à quellaparte, che più lo ricer inuiati ſono.Ladoueil uiſo ſi tignediquel roſſore, cheſi vede. il contrario nei timidi, nel cuore dei quali il ſangue ſi riſtringe, per ſoccorſo di quella parte, che teme la offenſione. Nella uergogna ſi abbaſſano gli occhi, come che tolerar nonſi posſa la preſenza dicos lui, che è giudice de i difetti umani. Queſto è ne' giouani aſſai buon ſegno di gentil natura. Però che pare, cheuergognandoſi conoſcas no idifetti, ey habbiano cura di quelli. Non uogliopire diſcorrer’ina torno all'audacia, allo ſdegno, alla compaßione, alla emulatione, « al la inuidia. Però che molto ne uedraiſcritto, eragionato da altri. Ben non ti poſſo tacere del male acerbo, mortale, ch'io uoglio à quella fiera indomita, eabomineuole dell'inuidia, che all'udir ſolo il nomeſuo, ſtranamentemi muouo. Lafigura,i modi, ai coſtumi di eſſa ſono da gran poetadeſcritti. Di queſta mi dolgo, per eſſer quels la, che più regnaneimiei seguaci. Là doue il fabro al fabro, il mes dico al medico,l'uno artefice all'altro, inuidia portano ſempremai. M4 ca, Md tacciamoora di queſto, e poicheragionatohabbiamo di te, delo le parti tue, delle quali taci, che in eſſeſi ſtanno,e delle loro difpofia tioni, addimandiamo la Natura quaicoſe a’quai parti di te conuena gono, acciò che accordando la foauißima armonia della umana elo quenza con piacere, og utiledegli aſcoltanti uditi ſiamo apieno por polo raccontare i miracoli della Natura. ' AN. lo ueggio ben oggia mai' ' Arte, che tuſei quella chefai l'acume, ò la ſottilezzadell’oca chio mortale nel ſecreto della diuinamentetrapaſſare. AN. Anzi per te, ó Anima,coteſto mirabile ufficio s'acquiſta, la cui cognitione tanto apporta di lume, e chiarezzaad ogniprofeßione, o scienza, che ucramenteſi può dire chetuſia ilprincipio d'ogni conoſcimento Etperò chiunqueſtima; ola uſanza di uno leggieri eſſercitio, o il ca fo tanto potere quanto tu, o io.uagliamo, grandamente s'allontana dal uero. Tu t'abbatterai in un ſecolo impazzito, d'huomini, i quali s'accoſteranno ad imitare più uno, che l'altro, olo imitar loro non faràſenon manifeſto rubamento, ſciocchi,oferui imitatori, che non Sapendo, perche altri s'habbiano acquiſtato il nome, tutta via in ciò s'affaticano. Altri perche hanno unaſcelta di belle, &ornate pde role uogliono ad uno ſteſſo tempo fcoprirle accomodando à quelle i concetti loro; ma che poi ſono cosi rozi, a inetti, cheſenza ordine, Ofuor di tempo le metteranno, e diranno, Io cosi dißi,perche cosi ha detto alcuno de' più preſtanti. Queſtiſono gli incomodi delfecom lo. Nat. O`quanto m’increſce perciò eſſere ſtimatapouera «biſo gnoſa, come che à me manchi alcunafiata,che donare, o che nel cer care l'altrui teſoro l'huomo perda,ò non conoſca il ſuo. AR. Chi ſempre ſegue, ſempre ſta di dietro, chi nonua dipari,nõ puòauan zare. Male hauerebbonofatto i primi inuentori delle coſe, fehae veſſero aſpettato,chiloro douea farla ſtrada. Et troppo pigro écoe lui, cheſi contenta del ritrouato. Ionon porgo già mai la mano a chi laſcia, oabandona la naturale inclinatione, come bene ho ueduto que' ali non conſeguire il deſiderato fine. NAT. Mi turbano apa preſſo quelli, ò Arte, che tanto di me ſi fidano, che te laſciano à dies tro". AR. Non ti dißi da principio, chenoi erauamo unite, e che ciò che appare di uarietà, e diſomiglianza tra noi,e in un principio ricongiunto? Che miditu? Chiunque opera alcuna coſa da me drizzato, uſa una regola commune, et uniuerſale, che à molte, diuerſe nature feruendo,quelle uniſce, o lega in uno artifi cio medeſimo, perche io ſono la conformità,o la ſimiglianza;altri acutifono, eſuegliati, altriſeueri,& graui,altri piaceuoli, &eles ganti per natura. Vnaperò e l'arte,una éla uia, che ciaſcuno al ſuo ſegno conduce. Quando adunque l'arte precede, facile e lo imitare; lodeuole il rubare, et aperta la ſtrada alſuperare altrui. Et in tal guiſa bene ſilpendeſenza lo auantarſi di eſſer ricco, a fenza dar ſos: spittione di uergognoſo furto. Accompagnifi dunque nelle ciuili con teſe il core, ola ſcrima,cioè la natura, el'arte, ogſi uederanno poi que’miracoli, ch'io ſo fare. Ma laſciamo tai coſe, e incomincia o Natura, o dimmi, in che modo le coſe tue fiſtanno, che di eſſe cosi dileggieri gli huomini ſi uanno ingannando NAT. Sappi ò Arte, che ogn'uno che ci naſce, ſeco porta dal naſcimento ſuo unacerta ins clinatione alla uerità, donde auiene, che inſieme con glianni creſcens do ella in parteſuole il uero congetturare, laqual congetturi opis nione più toſtocheſcienza uferai di chiamare. Laſcio la uſanza mia imitatrice,chefino da primiannirecarſuole molte opinioni, che poi dipenacon l'altra certezzaſileuano, parlerò di quella ſembianza più toſto, che ſembiante di uero,cheé atta nata à muouere l'umane mentia far giudicio delle coſe. Dico adunque, alcune coſeeſſer da ſe ſteſſe manifeſte, chiare, altre, niente da ſe hanno di lume, edi fplendore,mailluminate da quelleche ſeco hanno la luce, ſi fannoa? fenſi umanipaleſi; nel primo gradoé il Sole, o tutti que' corpi, che ſon chiamati luminoſi. Nel ſecondo ſono i corpi coloriti, i quali non hannoin ſe ſcintilla di chiarezza, ma d'altronde ſono illuminati. Il fimigliante ſi ritruoua nello intelletto. Iljaale riceuendo alcune coſe diſubito quelle apprende, og ritiene. Però che quelle ſeco hannoil lume loro, ſe à me ſteſſe il fabricare de' nomi, io le chiamerei Noti tie, ouero Intendimenti primi. Ma poi altre ſono, che non hannoda ſe lume, ó uiuezza alcuna,&però di quelle ſifa giudicio con ſoſpetto di errare, fe da altro luogo la loro intelligenza non uiene; quinci ė nata la opinione, la quale come opinione, che ella é, né uera ſitruoua, ne falfa. Il difetto naſce daquelli uirtù,chepoco dianzi diceſte.Pero che le coſe mie fono, come ſono,mariceuute nell'anima, e da' ſenſi al la fantaſia per alcune debili ſembianze traportate, ſtranamente meſcolate, fannodiuerſe opinioni. Ben’é uero, ch'io non faccio una co ſa tanto diuerſa da un'altra, che l'huomo dueduto non poſſa alcuna Somiglianza tra eſſe ritrouare. AR. Molto mi piace che l'animadi ciò nonſia fatta capace, perche accadendoleſpeſo mutare le opinioni umine, e da uno in altro contrario traportarle, molto deſtramente biſogna adoperarſi,et diſimiglianza, in ſimiglianzaà poco a poco pas fando,perchelo errore in eſe ſimiglianze ſinaſconde, tirar le menti, che no s'aueggono di una in altra ſentenza. An. Et chi può queſto ageuolmente fare? AR. Chi con diligenza inueftiga la natura dela le coſe ſottilmente, uedrà in che l'una con l'altra ſi conuenga, ma non chiamiamo però la opinione incerta,cognitione à queſto ſenſo,checo lui, che ha opinione ſappiaſempre quella eſſer’incerta, o dubbioſt conoſcenza, ma bene che in ſe conſiderata, come opinione da chiuna que hauerà il uero ſapere,ſarà riputataincerta. NAT. O quans to mi nuoce in questo caſo,la uſanza inſieme con la età creſciuta, lds quale à guiſadimeſtesſa, ferma talmente le coſe nelle menti umane, che bene ſpeſſo la bugia, più che la uerità in eſi ritruoua luogo. Et peròcredono molte coſe che nonſono, ouerofe ſono, ad altro modo di quello, che ſono, uengono giudicate. Etfe pure dirittamente appreſe ſono, altre cagioni lor danno,che le uere, e quelle ch'io so eſſere in mediati o continuate à gli effetti. Et queſto auiene quando la ragio ne inchina più al ſenſo che all'intelletto, « più all'apparenza, che al l'eſſenza. AR. Tu hai più dell'Arte,o Natura,che di te ſteſſa,cos si bene uai diſtinguendo i tuoi ragionamenti. NAT. Non te ne ma rauigliare, ò Arte,perche io qual ſono,tale mi dimoſtro, oſe di me medeſima parlo, cometu uedi io lo faccio in quel modo, chetu altre uolté hai confeſſato, che io ragionereiſe io fußite. AR. Quello che io dico, lo dico per amınaeſtramento di coſtei, laqualanche non ſi dee marduegliare di queſta apparenza del uero. Perciò che è aſſai als l'huomo ſaggio, che le buoneragioni gliſieno ſemprequelle ſtelle, da quelle ne prenda la ſimiglianza del uero, che per lo più muoue le umane menti, oin eſſe ageuolmente ſi pone, al che fare, opportuna, ocomoda coſa é ricordarſi, in che maniera per lo pulſato l'huomo ſe ſteſſo habbia ingannato, o in qual modo ancora, e per qual cagione altri ingannatiſi fieno da loro medeſimi, in uero te ne riderui, uedens do alcuni che penſano, ogni coſa, che precede un'altra, cffer di quella cigione, ò che lo eſſer fimile ſia il medeſimo. Ne per ciò direi che l'os pinione fuſe ignoranza,comenon dico, eſſa eſſere ſcienza, perche la ſcienza e stabilità,o fermata da uero, e infallibile argomento, en la ignoranza non è di coſe uere. Onde naſce,chela opinione è un abi to mezano tra il uero intendimento, o l'ignoranza, differente dal dia bitare in queſto che la opinione piega più in una, che in un'altra par te, il dubitare tiene in egual bilancia la mente tra l'affermare, o il negare, eye però biſogna riuocare in dubbio le coſegià ammeſſe,e di mojtrare quäto pericolo ſia il giudicare. Da queſtone naſcerà la que ſtione, e la dimanda, la quale diſponendo le menti alle ragioni; quan to leuerà della prima opinione, tanto porrà di quella, che tu uorrai, o à ciò fare uia non é appreſſo quella che ua per le ſimiglianze delle coſe.Partipoco,ò Anima, cotesti uirtu? penſi tu,che ſia cosi facile il perſuadere? ó credi tù chegià biſogni con dritto giudicio, o con ſal do intendimento penetrare dalla ſuperficie alla profondità delle coſe? A N. Da che occulta radice l'apparente bellezza dicoteſta tua figli uola,nel cuiadornameiito la Natura ſola non baſta. NAT, Ora ogniſentimento mi ſi ſcuopre, ó Anima, da costei, emanifeſta uedo eſſermifatta la cagione,per la quale molti miei amiciſono diſonorati. ART. Quai ſono coteſti amicituoi? NAT. Quei, che inueftis gando uanno iſecretimiei, le ripoſte cagioni delle coſe,i movimenti, le alterationi, &i naſcimenti d'ogni coſa, o che non ſicontentano di ſtare par pari de gli altri huomini,manobilitando la ſpecie loro con le dottrine traſcendono i cieli. AR. Che ſtrano accidente può ueni re à perſone cosi pregiate, come ſono iſeguaci tuoi, ogli amatori della Sapienza,i quali comerettori delmondo, felicißimi,er beatißis mi eſſer deono riputati? NAT. Queſti fedeli miei à punto ſonoquel li, che più de gli altri ſono diſonorati. An. In che coſa? ART. Aſcolta digratia; mentre che gli ſtudioſidi meſi ſtannoſoli, ein par te ripoſta comeſchiui dell'umano confortio,non é loda • grido onora to, che con ammiratione delle gentinon gli eſſalti o inalzi infino al cielo. Mapoi che compareno, et uěgono alla luce,ſono prima da ogn'u no guardati, si per la eſpettatione già conceputa della virtù loro, si an cora per la nouità dell'abito, o dell'aſpetto,et del portamento,ogn's no lor tiene gli occhi addoſſo, a attentamente ſi dimoſtra di uolergli udire. Io non ti potrei eſprimere con che grauità poi aprono la boca ca, e con che tardezza poimandano fuori le parole, etquanta ſia la dimora de i loro ragionamenti, i quali poi che da principio nonſono in teſi dalle genti,comecoſe lontane dalla umana conuerſatione, non cosi toto uiene lor tolta la credenza, per che purſiattende coſa miglios respire conforme alla opinionede’uolgari,iquali dalla prima eſpets tatione inuiati danno i ſeſteßi la colpa del non capire la profondità de' concetti loro. Mapoi che nel ſeguete ragionare s'accorgono pur in tutto di non poter’alcuna coſa da que'beati ritrarre, et che ogn'os ra più le coſe intricate, ar le parole aſcoſe ogni lume d'intelligenza Hanno lor togliendo, quanto ſcherno, Dio buono, jego quanto riſo ſe ne fanno. AR. Jo grauemente miſdegno, ó Natura, et mi dolgo di ſimili auenimenti, poi chegli infelici non fanno drittamente ſtimar le coſe, benchefino al fondodi eſſe paſarſi credono,maforſe è, cheſtan do eßiſemprein altro, quando poi allo in giù riguardando ueggono l'altezza loro, a la profondità delle coſe terrene, uanno uaccillando con gli occhi; ocomparando il cielo alla terra, ſtimano ld terra un minimo punto, o una bella città un niente che nobiltà, che chiaa rezza diſangue può eſſere appreſſo coloro, che ſeſteßicon la eterni tà miſurando, tutti da uno ſteſſo principio uenuti affermano? Che rica chezzaſarà grande appreſocoloro, che ſi ſtimano poſſeditori del cie. lo? qual prouiſione daſoſtentare i popoli farà colui il quale quaſipa ſciuto del cibo de i Dei,altro non guſta, altronon ſente,altronon din fia,cheſempre ſtare alla ſteſſa menſa? ne credono, che altriſieno in bi sogno? Queſte coſe io direi in loro efcuſatione. Ma che midiraitu di quelli che ſono ſtudioſi della vita ciuile, o che fanno le cagioni de’mu. tamenti de i Regni, e delle Rep.le conditioni de principi, gli ufficij di ciaſcuno,le uirti, gli abiti uirtuoſi? Non credi tu, che queſti ſie no più auenturati de gli altri? NAT. Peggio, percioche il ſapere ciaſcuna delle dette coſe,hauer le diffinitionid'ogni uirti, ocoa noſcere diſtintamente ogni buona qualità,non é aſſai, ma egli biſogna uſar tanto teſoro al governoaltrui per ſalute, ocomodo uniuerſaa le, e oltre all'uſo hauer parole al preſente maneggio oalla ciuile uſanza accomodate. ART. Dondeprocede coteſta loro cosi ſot tile ignoranza: forſe cosi eleggono penſando di eſſer' hauutiper dot tiæ intelligenti parlando in cotalguiſa?Ma questa é una groſſezza infinita,perche non é piacere, che s'agguagli à quelloche prende ľa ſcoltatore quando impara &intende ciò che uien detto.Sai tu duns que la cagione di cosi fatto errore? NAT. Forſe è,perche non ha uendo eſsi alcuna eſperienza della conuerfatione cittadineſca, fanno quelguidicio dimolti cheſonoſoliti di far d'alcuni pochi, loro come pagni,co i quali tutto’l giorno con uarie diſputationi argomentando trapaſſano,ne mai ſono riſoluti. ART. Et io ancora cosi credo, pe rò guardati ó Anima, di non entrare nel loro no conoſciuto collegio, ò ſe pure ui uorrai entrare tanto iui dimora,quanto alcun giouamen to ne puoi ritrarreper la ciuile amminiſtratione. Nel resto pronta, et ſuegliata nel coſpetto degli huomininon meno alla ſcuola eall'acas demia,che alla piazza,alla corte, o alſenato intentafarai, o uſans do.doistiche le gi,con mozeme uoci raptorersi, percbe riund coſa é få mots, creudire ripublicico:lizále uanie dig esioni, o le Haitat parole di moint, i quali razlo" 2r.do le ébloro per la Città frendere unsguerra,realize, ne: i mezi di efl: u21 riguardando, riaprindo le ſcuole de presa deguono, di 7: oro, oargos:ht::opia ficcrente del mondo, o cercano chifu il primo ins kantore deli'arxi chifrino in ROMA trionfale, cbisitrouo le naui, chui brizla i czasu, et ilere ciance si fatte,cbenc irfegn2":0,ne dis last250,14.1widojiore della prostione de' daruri, delle genti, o del *010, col quale s bubbis a fartal guerra. Il percbelo. To poi auies fie, cbei nero perini,çia deguamente di loro parlando, ſono con grue de 11ratione acoltati. NAT. Cotto e mio dono,percbe ditus to potere affreuz! cusi mi truono,che wina forzaglimetto irrar ci i tuoi ſegussi. AR. Et forſe corne sfrenati causlii, gli fai tel mezo del coro pericolare; pero sili eccellente natura,che ta lorda, sorrei che mi falje l'aiuto rio.percbe meglio, o çik ficuri aadribs 6290 per lefiziglianze dre coſe. An. Bisogna dunque pik skatie rigliz- guardare, cbe al wero? A R. Cosi biſcgna; o quedo porriaz slitacels il facesi, sı il donerci tu fare, o ciaſcuno, che * pis airtai perjuadere, accio cbe fiso aſcoltato, o inteſo dude geri, lezasli barefeito -Is bagis nga 14.0, får cbe in ejja las casicae spetto dd zero. Queto per fo cjjere, cbei şià f- 931 babe bis 10 c50 surorit: b4xx.: predoi popoli cbei nácti inges gs. An. Dizni gratis, çusio é cbegli buozi idaro fede: cazzo, cbe apps uto, nos lo faze0 percbeloro piace il nero? Ar.. As. Paepiuere già saco: 507 co:cf-:: ta? Forzz aidake,che il sero lis és glicucuitico? Ax Pacte danese giàceil serezos bruszni P -T271? AR Perikliois tragises filer cxz. AX. Aja -- 22:04 ks:0 600leri: del bero. Às. SostraTrao Adira.secte lazaratsie sesi tid: acts indiscrezi !4.cezecklacteae fepie regiaze, o lomatto; c (72.0: 1, o Resmitironine. cedriersdieedia 2.3 " To Rossir adizioro Boricitis 32 2 ciasto nigirisececeáciless Aires22:22: carte.ro 2,cheſe la opinione con la ragione ſarà legata, per modo niuno potrà fuggire,anzifuori dell’eſſerſuo leggiadramente uſcita nõ più opinio ne, maſcienza ſi potrà nominare. A N. Dimmi, ſe'l uerifimile e tale ad ogn'unoegualmente. AR. Nó. An. Che differenza ci fai tu? A R. Grande. Ben'è uero,che quando io dico ueriſimile, io intendo ciò che pare alla più parte. Ma diſtinguendo dico, la più parte però effere ode gli huomini ſenza dottrina,o degli huomini letterati. Et altro ſarà il ueriſimile, che parerà à gli Idioti, altro à iperiti. AN. Inſegnami à conoſcere queſto uerifimile. AR. Il ſegno della ſimia glianza alcuna fiata ſi ritruoua in eſſaſuperficie delle coſe, cheſenza diſcorſo di ragione ſono riceuute,o appreſe daiſenſi umani; da ciò naſce il veriſimile, che pare egualmente a tutti, come auienedimolte miſture, che's'aſſomigliano à l'oro, cheſe il giudicio filaſciaſſe al ſenſo ſolo,per oro da ogn’uno ſarebbono hauute. Alcune uolte il detto fe gno emeſcolato con alcuna ragione,accompagnata col ſenſo, oque sto é quello, che pare àmo!ti. Speſſo più di ragione, che di ſenſo ſi mette, e ciò è quello,che pare à i piùſaggi; o quarto più dalſenſo s'allontana,o s'accoſta la ragione all'intelletto, tanto de' più saggi, edi pochi ſarà l'apparenza del uero. Ma laſciando coteſte più ina terneſomiglianzedel uero, bauendo tu àfare. con la moltitudine, quelle attendi,che a tutti,ò alla partemaggiore appariranno; &co: si ogniforza di proponimento nelle altrui menti rompendo, farai la uoglia tud. AN. Queſto mipiace. Ma uorrei, che tu m'inſegnaſi à congetturar quello chepuò eſſere. Dimmi, ſe n'hai ammaeſtramen to alcuno. A R. Dimandane pur la Natura. AN. Non n'hai tu ancora poter’alcuno? A r. sibene; ma la Natura operando, Sa meglio dime,quello che èpoßibile. An. Dimmi tu dunqueò Naz tura,quai coſeeſſer poſſono? NAT. Tutte quelle il principio delle quali ſi ritruoua. An. Adunque ui ſarà l'arte deldire, poi che'l prin cipio di lei ſi truoua? ilquale nõ é altro, che l'ojferuatione,che fu l'Ar te di te ó Nitura. Ar. Che uai tu mettendo in dubbio quello che fie qui habbiamo fermato? ſegui. NAT. Se quello chepiù importa, ò che piie uale, ò che ha più difficultà, fiuede, ſenza dubbio il meno importante, il più debile, il più facile ejer potri. A n. Adunque ſe l'arte puòridurre gli huomini rozialla uita ciuile, meglio potrà gli ammaeſtrati inalzare algouerno della Città? ART4 pur uti argomentando. AN. Mercé tua, che giàmiſei fatta familiare. A R. Queſto ſo io, che poſſeduta che io ſono dalle anime, dimoſtro il. Α ualore, il piacere, o la facilità dell'operare. NAT. se può eſſer la cagione, chivieta che lo effetto non posſa eſſere? et ſe queſtoé, quel la di neceßità ſi haue. Quello che ſegue dimoſtra,che può eſſere quel lo che antecede. In ſomma ogni coſa può offere, di cui naturale appeti toſi uegga, o dalla poſibilità delle parti naſce quella del tutto. Dals l’uniuerſale il particolare, o dal meno quello che più comprendeſi congettura. Vna metà, il ſimile, il pare ricerca l'altra metà, l'altro Simile, o l'altro pare. Etſeſenza arteſi puòfar’una coſa molto me glio ſi farà con artificio, ſe chi meno può opra, chi più può non opes rera egli ancora? Chene attendi più,ſe queſto ti può eſſere à baſtan za à farti aprire gli occhi è ritrouare il fonte della eloquenza? AR. Et io già mitruouoſatisfatta in queſta parte,che alle coſe appar tenenti all'intelletto ſi conuiene; però aquelle io uorrei,che paſſaßi, lequaliſono da eſſere ne gli appetiti collocate.Et attendo,che tu quel le brieuemente mi dimoſtri,etdiffiniſca, acciò che l'anima oggimaicõ. tenta dellaſeconda promeſſa,alla terza,et ultima ſi riuolga. A N. Per qual cagione, ò Arte, dimanditu le diffinitioni della Natura? ejendo ſuo carico il diffinire. A R. Perche ora io non attendo le eſquiſite, Oregolate diffinitioni,maquelle che dalla più parte delle gentiſono ammeſſe, delle quaiquaſiſenz'artificio ſe ne può formare un numero infinito. An. Tu ſei molto circoſpetta. AR. Seguiò Natura, féle coſe àgli umaniappetitidi lor natura piacere, o dispiacere posſo no apportare,òpur l'Anima ne li fa tali. NAT. Senza dubbio non folo elaAnimaha uirtidi apprendere, ofuggire le coſe, ma in effe ancora e nonſo cheda eſſer fuggito,ouero abbracciato. Quädo adun que tra la coſa, o l'animaſi truouaalcuna conformità, allora lo appe tito ſi muoue ad abbracciarla, o queſto mouimento,ſi può dire, no minar defiderio,ilquale è appetito di coſa che nõ ſi poßiede,cõforme però à quella uirtù ò parte dell'anima, che l'appetiſce; ma quando no ui é queſta conformità,tra gli oggetti, o l'anima,ella gli aborre, o fugge, né ſolamente oue o anima,oſentimento ſi truoua cotefti ab bracciamenti,e fugheſiueggono,ma doue occultamente io ſonoſoli ta di operare, doue non éſenſo, ociò faccio con un ſemplice inſtinto, ilquale al mio poteree tale, quale al tuo é la conoſcenza. Coteſto in ſtinto ogni coſa conduce alla conſeruatione, o albene; et dalmale et dalla morte il tutto ritragge quanto può. Maper dirti de gli huo mini, ſappi, che eſſendo tra le coſe oppoſte, ole parti de gli animi lo ro,conuenienza,quando auiene,che quelli ſíenopreſenti,oche laſcia no impreſſa la loro qualità,in quellapartechegli appetiſie, allora ſi genera ildiletto, e l'allegrezzanata dalla morte delprimo deſides rio, perche poſſedendo la coſa deſiderata, il diſio è già conuertito in piacere. Ilqualpiacere altro non é,cheadempimento di uoglie. Tu conoſcerai, cheil guſto tuo bauerà conformità con le coſe dolci; da queſta nenafcerà l'appetito,auenendo poi,chele coſe dolci uicine fica no à quella parte,doue il detto ſenſo dimora, eche in eſſa laſcino la lor qualitàimpreſſa, che é la dolcezza, nonha dubbio,che quella par te nonſia per bauer diletto, egiocondità. Il ſimigliante uedrai in ogni tua parte, Et per lo contrario ſi ſente noia, e diſpiacereo nella priuatione delle coſe deſiderate, o nell'hauere le difformi, oaborrite, ecome il principio di ottenere il bene era il deſiderio dalla ſperanza accompagnato, cosi il principio di hauere la noia, era la fuga dal timore commoffa. Etcome nella prima impreſione la ſperanza in gio is fi conuertiua, cosi nella ſeconda la paura ſi tramutaua in dolore. Eccoti adunque i quattro principali affetti diuoianime. AN. Vor reiſaperè,o Natura, in cheſia poſta la conueneuolezza, che é trale coſe, ole parti mie. NAT. Percheioſono tale in ciaſcuna coſa, quale io mi truouo, però nelle coſe eſaéripoſta per me; maperche poi auenga,che io tale mi truoui in ciaſcuna coſa,dimandane chi cos si ab eterno prouid. AR. Or l'anima tipare troppo curioſa? ma dimmi quai coſe,à qual parte dell'anima ſono conformi. NÁT. In fomma il uero é il bene, &per tal cagione, quello che è uero,uien giu dicato bene. Ar. Che intendi tù bene? NAT. Ciò che daogn'u no,e da ogni coſa uien deſiderato, &uoluto. A R. Qual bene Ć cercato daữ’intelletto? NA T. Dimandane coſtei  AN. il ſapee re, la dritta opinione. NAT. Dalla uolontà? AR. Ogniabis to di uirti. NAT. Da gli appetiti. AR. Ogniutilità e dilets to AR. Che naſcerà poi, ò Natura, dal deſiderio ditai coſe? NAT. Lo sforzo, o lo ſtudio de'mortali per conſeguirle. An. Buui alcuno inganno de gli appetiti intorno al bene, come ui é l'ingan no dell'intelletto intorno al uero? NAT. Grandissimo. AN. Et come ſe il bene e cosi conforme all'anima? NAT. Non hai tu udito poco di ſopra, come l'anima era d'intorno al uero, opure anco il ue to le era molto conueneuole, et proportionato? AN. Ben'inteſi, che la cognitione del uero era molto confuſa, riſpetto alla fantaſia. ARTE Cosi é. Et di nuouo ti dico, afferino,che ogn'uno confufae mente apprende un bene,nelquale par che l'animo s’acqueti, et quels lo deſideri,mapoi da gli appetiti traportato (come prima era l'intele letto dalla fantaſia ) e aquegli rivolto ſmarriſce la uera strada di quel bene, al quale ciaſcuno digiugner contende, moſſo dalla interna forza della Natura. Et in quella ſtrada,orapiù lentamente, ora più. velocemente camina, troppo è meno amando, et deſiderando quello, che con miſura dourebbe amare,ò defiderare. Indië nata la ingorda uoglia delle ricchezze, lo sfrenato appetito dei piaceri, vtalbora la pigritia, om negligenza dell'ocio; &deſiderando altrilapropria con ſeruatione, s'inganna, credendo,che il bene altrui,ſia la ruina ſua,oue ro temendo di perder’i ſuoibeni, fauori,gratie,amiſtà,onori,o lodi, ſi muoue alla ingiuria,alla inuidis,alla uendetta. Et di qui naſce quello di che tutto di ſi contende fra' mortali, il giuſto, lo ingiufto, ildouere, l'equità, l'utile, oaltre coſe, che ſono cagioni di liti, o di conteſe Per il diletto adunque, et per il comodo, ciaſcuno ſi muoue à fare. Et benefarà quello, alquale ogni coſaſi riferiſce, ouero ſiriferirebbe, per ragione, o per appetito, o per natura.    Et ciò cheopera, difende, conſerua,accreſce,accompagna, ſegue,ordina,et ſignifica il bene, bene ſi chiama, operò la felicità, o tutte le parti ſueſarannobuone, a le uirtie ſopra tutto ſono benidiſua natura degni,bencheàmoltinon ſono cosi apparenti. Ilpró,l’utile, il piacere ebene, perche l'utile ė mezo di conſeguire il deſiderio, oil piacereè moltoalla natura cona forme. ANIMA. Fermati un poco, et dimmi,come non eſſendo beni cosi apparenti le uirtù de coſtumi,gli huominiſieno uenuti in cognis tione di quelle: AR. Credi, ó Anima,che ogni maniera di bene, che appare à gli huomini, éſimiglianza di quel bene, che non appare,e chi uuole drittamente giudicare da coteſti apparenti beni, potrà ris trouare la uia di peruenire alla cognitione di quegli, cheſono in ſebe ni, o che fanno la uera, es ſola felicità,più deſiderata,che conoſciu taima non ſta bene ora difiloſofare intorno a tal coſa. Baſtiti, ch'io ti ritruoui la uia, per la quale gli huomini ſono andati a ritrovare i beni dell'animo, o le uirti interiori. Dicoti adunque, che uedendo i mortali nel corpo umano molte buone conditioni, hanno congetturas to, ancora nell'animo ritrouarſi alcune ottime qualità, à quelle del cor po in qualche parte conuenienti. Dimandane la Natura, quali ſieno le doti del corpo,che tu ſaprai da me poſcia quali ſienogli ornamenti tuoi. AN. Dimmi ò Natura, fe egli ti piace, diche beni adorni tu i corpi umani? NAT. Prima diſanità, o di forza, poi di bellezza, O d'integrità diſenſi. An. In checonſiſte la ſanità? Nat. Nels la. la proportionata meſcolanza degliumori principali, enell'uſo di ej 14,6 queſta proportionata meſcolanza, ueramente ſipuò chiamare una egualità ragioneuole. ART. Credi tu, o Anima,di eſſer’al corpo inferiore? AN. Non già. ART. Credi adunque, che in te eſſer deue una certa egualità. Il cui ualore conſiſte nell'uſo. A N. Quale uuoi tu che ella ſia? AR. Quella che Giustitia ſi chiamna,fers ma, o coſtante volontà di render a ciaſcuno ilſuo. Ma che dici tu delle forze? NÅT. Dico, la gagliardezzaeſſer’una uirtù del cor po,poſta nel potere à ſua uoglia abbattere,atterrare,et uolgere ogni alieno impeto con leggiadria. AR. Bella, aneceſſaris uirtù neli aa nimo. Perqueſto giudicarono ifaggi,eſſer la fortezza, laquale reſis ſtendo à gli impetidella fortuna,ſola nė"ſuperbanel bene,ne uile nelle auuerſità ſi dimoſtra, &fola guida nella militia della uita mortale uin cendo, glorioſamente trionfa. NAT. Che dirai tu della bellezza del corpo, laquale è una proportione di membra, o di parti tra ſe ſteſ fe, o col tutto conuenienti dauiuacità di colori, et gentil gratia acs compagnata? AR. Tumi dipingila temperanza dell'animo,laqua le in ſe ſteſſa raccolta, ecompoſta,inuera, o proportionata miſura conſiſte, tanto può di dentro, che di fuorinel corpo il ripoſato, o quieto penſiero uedi, dolce, ogratioſa maniera ſi conoſce, et quafie una conſonanza di tutte le conſonanze. NAT. Che coſa trouerai tu nell'anima,conformealla integrità dei ſenſi, come alla bontà della uiſta, alla perfettione dell'udito, « al uigored'ogni ſentimento? ART. La prudenza, la quale consiste in saldo, o sincero conoſcia mento delle attioni umane: A N. Egli mi pare, che io ſia da Dio creata à fine, che le coſe mie fieno ſcala all'altezza di quello. AR. Che penſitu altro, ò Natura? NAT. Nulla, ſenon che conchiudo frame, che gli huominiſi ſieno aueduti delle uirtú interiori per le qua lità eſteriori. AR. Senza dubbio, a molti anche ſi ſono ingannas ti, oper una ſimiglianza, che hanno le uirtù con alcuni uitij, se lo Cangiando il nome hanno detto chela tardezza ſia moderata pruten za,la liberalità ſia la larghezzaſenzamiſura; e cosi all'incontro il prodigo ſia liberale. Et non hanno conſiderato, eſſergran differenza tra il ſaper dare, er il non ſaper conſeruare.Et queſto è quel ueriſimi le nei beni, che muoue ſpeſſo lementi, ogli appetiti umani. Orain brieue l'ordine, l'ornamento, e la coſtanza delle coſe handimoſtra to le uirtù, ou appreſſo la concordanza di tutte le operationi, o la grandezza, che le ſopra feſteſſa inalzają si come in ogni arte, com in ogni scienza biſogna hauer’alcuna coſa manifesta, e chiara, dalla quale da prima ella naſca, o s'augumenti,cosinella felicità, bed ta uitaſi richiede, euidente fondamento, preſo dui benimanifeſti à i ſen ſi umani,dalquale s'argomenti il uero, ottimo fine, operò dalle predette coſe ſiſtima, quella eſſer felicità, che con proſpero corſo tracorre,tutta diſeſteſsa, tutta di ſua uoglia, tutta piena,tutta d'ogni parte abondeuole, ocopioſa, eyd'intorno à tai coſe ricordati ſeme pre della diffinitione, da unaparte conſiderando, che coſa é bene,di! l'altra diſtinguendo quello che é del corpo, da quello, che é del’ani mo, e come ciaſcuno in molte parti ſi diuide.perciò che cosi ne trar: rai quella abondanza di coſe che tuuorrai,doue meritamente la pres detta parteſi può dar tutta alla inuentione, laquale e il fondamento della noſtra fábrica. Partidoadunque tutto quello cheſotto il nome di bene, ò uero, ò apparente ſi conciene, trouerai la felicità con tutte le ſue parti,o trouerai, che'l fuggire dal maggior male,ſia bene, et l'acquiſto delmaggior bene, « il contrario delmale; et queſto, pera che molti s'affaticano, e che i nimici lodano alcuna fiata.Et che ſifa ſenza incomodo, feſa, fatica, ò tempo, ſe é diſiderato; ofinalmente tutto è bene,uero, apparente, v dubbio, quello che uiene deſiderato. AN. Che dirai tu del piacere? AR. Grande ueramente è la fore za del piacere, et del dipiacere, percheſin da fanciulli ſi uede, che il tuttoſi fa per tai contrarietà. Et s'io uoleßi pienamente ragionarti, io non finirei cosi toſto, però di eſſo alcune brieui ſentenze io ti pros pongo,dalle quaiſe ne ritrarrà quella ſimigliäza di uero, che in tai be niſi può trarre. Dicotiadunque,che quelle coſe grate ſono, dipid= cere,che ſono alla natura conformi,come hai diſopra ſentito; pero à ciaſcheduno grato ſarà quello,à che eglidi natura ſua ſaràinchinas toje per la medeſima ragione,foaue,et gioconda coſa é la conſuetudi ne, come quella chemolto alla natura ſi confaccia. Perche quello, che speſſo,et per lo più ſifa, è molto uicino a quello che ſempre ſi ſuolfa re. Caro e quello,che non ſi trde per forza,perche la forza é contra natura, onde i trauagli,lecure, e ogni maniera diſtudio, odi pens ſiero,che turbi la quiete dell'animo, perche é uiolēto,arrecca moleſtia o diſpiacere. Seforſe la conſuetudine non l'ammolliſce. Cosi per con trario il diletto, il giuoco, il ripoſo,la ſicurezza ilſuono, et la rimeßio ne, come coſe di ogni neceßitá lotane. Néſolo col ſenſo uicino ſiprende piacere delle coſepreſenti, ma con la memoria,con la ſperanza,del lequali una riguarda le paſſate, l'altra le future. Lepaſſate apportano nella ricordatione aſſai diletto,perche la imaginatione le fa quaſi pres ſeriti, e ſe erano graui, o noioſe, con lieto, o piaceuol fine fatte ſos no dolci, eſoauile coſe buoneche hanno à uenire nello ſferare con fortano, comele preſenti nel goderle,ouero nel imaginarle, ilche ſuos le à gliamantiuenire, iquali non hanno ripoſo ſenon quanto penſano alle coſe diſiderate. Lauittoria ė foauißima coſa, ó lo auanzare il compagno, or però ogni maniera digiuoco ſuol dilettare la caccia, l'uccelare, la peſcagione, et appreſſo l'onore,ogni gratitudine, ogniri uerenza,inſin l'adulatione piace infinitamente. Lo imparare ancora é coſa piaceuole, onde la imitatione delle coſe è giocondiſſima, tutto che le coſe imitate non dilettino, perche nõ la coſa eſpreſſa,malo sfor zo, e il contraſto dell'arte ſuol dilettare. Indi è nato, che la pittura, le statue,o l'opre finte aggradano chi li mira. Ne più ti uoglio af faticare,o Anima,in dimoſtrarti,quello cheda te, et in te prouerai ef ſendo con eſſo il corpo.o quanto ti fia dipiacere il dominar’ultrui il comandare il ridurre à compimento le coſe incominciate, il veder riu ſcire ogni tua deliberatione, e finalmente tutto quello, che al bene t’indrizzerà,ò dal male ti ritrarrà. AN. Se queste coſe ſono buo ne, come tu di, per qual cagione ſipuò errare nel deſiderarle, nel cercarle? A R. Due mouimenti,ò Anima in te conoſcerai, l'uno de' quali da eſſa Natura riceuerai, e l'altro riporterai teco. Nel primo niuno errore puoi commettere,perche non è colpa tua, che alcuna co ſa ſi truoui,che ti diletti; ma nelſecondo ageuolmente puoi cadere, eſſendo in tua mano il freno di non conſentire cosi à pieno à quella prima voglia&, non riguardare alla ragione, che con certo conſiglio al gouerno de'primi appetiti guidar tidee. Maperche per lo primo, O naturalemouimento gli huominifanno il più delle loro operatio ni però debbono eſſer ueriſimilmente guidati,o é creduto per lo più, che ciaſcuno faccia con deliberatione quello cheegli fa, ſeguendo il primo inſtinto; néſi conſidera che in teſi truoua uirtá libera, o po tente,dalla quale ognilode, o ogni biaſimo procede. Etacciò che el la ſiapiù drittamentegouernata, eccoti l'autorità delle ſacre leggi, nella quale è poſta la ſalute, e la correttione d'ogniumano errore. Contra le quaichiunquepreſume di opporſi, dal proprio conſiglio abandonato, è dato in preda alle ſue proprie uoglie,e ſottoposto ale la pend, come quello cheiniquo, o ingiuſto ſia. Ora in brieue ti dico, che eſſendo eſſe leggi nelle rep. àgli animi quaſi medicine delle loro infirmità, o rimedijà i loro errori, biſogna ſapere ogni maniera di gouerno,  gouerno, in che eglipiù fermo fia,da che uegna il cadimento di quels lo, et quanti ſienoi contrarij ſuoi,per poteralla cõmune utilità con le Sante inſtitutioni liberamente prouedere. NAT. Matu non dimo ſtri, ò Arte, che alcune leggi ſono eterne, er immutabili, non da gli huomini ſecondo gli ſtati loro ordinate, ma dallo editto diuino, o da me inuiolabili ſtatuite, communi,& uniuerſali à tutte le genti, lequai non più allo Indiano,cheallo Ethiope,eguali, in ogniſecolo, in ogni luogo ſi Sogliono ritrouare, non ne igrandiuolumiſpiunati da' morta li,manel libro della eternità impreſſe,et ſigillate in ciaſcuno che ci na ſce. AR. Coteſte leggi,ó Natura,non ſono ritrouamenti umani, né ſecondo le occaſioniformate, ma eterne, econtinuate ad un modo in permutabile, del quale non tocca à me il ragionare, «pint é quella ch'io non dico di eſſe, o forſe quella equità,dichefpeſoſi ragiona, al tro nonė, che la leggeſcritta nel cuore d'ogn'uno per correttione di quella cheè poſta per commune uolere di ciaſcun popolo. An. Dun que nelle umane leggiſi truoua errore? AR. Nongià, ma ben può eſſereche ilfondatoredi eſſe al tutto non proueda,et chenon conſide ri molte coſe, le quai per alcuno accidente, come, che molti ne ſieno fanno uariare i giudicij, e in queſto caſo la equità, et l'oneſtà può aſſai, operò molto prudente, oqueduto biſogna cheſia, chiunque forma le fante leggi, « che il più che può tolga il potere à gli huos mini di giudicare da ſe ſteßi. Però cheben ſai, quantopericoloſopra ſtà nel giudicio, riſpetto allo amore, all'odio, e ognialtra perturbae tione umana. Matempo è, cheſi dia fine à queſta parte, perche aſſai sé detto d'intorno alle uirtù dell'anima,e d'intorno alle coſe appars tenenti ad eſſa, si di quelle che allo intelletto, come di quelle, che ape partengono allo appetito. In quanto che elle hanno ſimiglianza del uero, delbene, dj appartengono alla inuentione. A N. Tutto che ó Arte, inanzi à gli occhimiſieno le coſe, che tu m'hai dimoſtras te, hauendole tu ſopra la Natura delle coſe ſtabilite,pur uorrei ſapes re alcunſecreto, come diſopra molti me n'hai ſcoperti, quando tra noi ſi ragionaua delle parti mie. AR. Io non per naſconderti alcu na coſa miſon taciuta, maperche eglimipare, cheda te ſteſſa potrai ogni ripoſte bellezza conſiderare, uedere, che da que' beni che di ſopra habbiamo diſtinti, naſcono treparti principali dello artificio no ſtro. Però che ſe il bene é utile,nenaſce quella parte, che é posta nel conſigliare, laquale ſi uſa neiſenati. Se'l fine è giuſto, quell'altrapare te, che delle ingiurie ciuili,ò criminalitra i popoli fa mentione, felfie ne 1 1 ne é honeſto, allora ampia, o magnifica materia ſipreſta di lodare nelle pompe, et ne i trionfi le opere glorioſe, ma il ualore delgraue, o riputato Cittadino,primanel ben fare,poi nel ben conſigliareſi di moſtra. AN. Diche coſa più ſi conſiglia? AR. Di quello, che: più abbraccia l'utile uniuerſale. Etprima d'intorno al corpo delle uettouaglie, odel uiuere per ſoſtenimento di ogn'uno, odella difen fione per ſicurtà de i popoli, delle ricchezze perſoſtenere la difes Ja. Dapoi delle ſacre leggi, e della religione per ottenere l'ultis mo, o deſiderato fine. ANI. Che ſi ricerca nel conſigliare? ART. Prudenza, beneuolenza, animo, ſecretezza, e celeris, tà nello eſſequire. A N. Gli ineſperti adunque,imaligni, i timis di, i uani, i pigri huomini, non ſono atti al conſigliare: ART. Non già. Necoloro, che non ſanno conſigliare ſe ſteßi. Ma odi: alcuni ſecretidi queſta parte, forſe non uditi fin'ora. Vuoi tu ſapere un modo mirabile di conoſcere glianimi de' mortali? AN. Queſto eil tutto. A R. Sappi,checiò, che ſecreto nell’hkomo ſi truoua, forza cheſia in alcun ſentimento di eſſo,ò di dentro, o difuori.Sentis, mento chiamo ora ogniparte di te ó Anima. Et però uolendo tu ri trouar coteſto ſecreto, tenterai ogni ſentimento, perche quando es toccherai quella parte,nella qualee ripoſto il ſecreto di alcuno, o pia ceuole, ò noioſo,che egli fi fia,ſenza dubbio manderà fuorialcuniſea gni,comemeſſaggieridelle uoglie ſue,ocon alcuneſimiglianze dimo ſtrerà quello,che egli ſipenſa di haueredétro diſe naſcoſo; aguiſa di una corda chealſegno tirata di un'altra; quandoritruoua la conſon: nanza, ſimuque, a ſuona di pari armoniacon quella.Da queſta reues, latione dipende la uittoria, eu l'onore di chi parla nel coſpetto degli huomini.Etqueſto è un ſecreto ripoſto aſſai, wodegno di penſamento.. L'altro è, che a conoſcereil giuſto, e lo ingiuſto,biſogna riguardas re al fire,alquale ciaſcuna coſa deueeſſer meritamente riferita, pera, che quando ſia, che dal debito fine alcuna coſa ſi rimuoua, allora ne ng ſce la ingiuria,la quale éuna eſpreſſa maniera di ingiuſtitia. Aqueſta ingiuria altri ſono più diſpoſti a farla, che à patirla,altri per lo cons, trario. Et questo biſogna conſiderare per potere in quella parte uas lere, ii cuifinalgiudicio rizuarda il giuſto, o l'ingiuſto. Altri ſes creti ui ſono, ma io mi riſeruo là doue della applicatione ragiones remo, cioè quandoſi dirà il mododi porre le coſe nell'anima. Ma che marauiglia è queſta? doue é gita l'Anima, ò Natura? Perche te ne ridi tu? come ſono ingannata? come tolto mi viene il poter ſeguire E l'incominciato ragionamento? NAT. Aſpetta ó Arte, non titurs bare, toſto merrà, con chi tu habbi à ragionare. Ora uoglio che noi ci tramutiamo, o che cifacciamopalpabili, o viſibili. AR. Che mutationi mi usi predicando? NAT. Taci, attendi. Eccomi qui di corpo,e di formaumana. AR, Guardami ancora tu, ch'io ſo no trafigurata,à chimiſomigli tu o Natura? NAT. Io non ſaprei à coſa alcuna ſimigliartijmubene io uedo, che tu hai molto del graue nell'aſpetto, e nello andare, onel uestire,et à pena io ardiſcofiſarti. gliocchi à doſſo. Et mi viene una certa tenerezza di lagrimare. A R. Coteſto é ſegno,che tu mi ami et riueriſci;et tanto più ch'io ti ſcorgo un certo roſſore nel uolto, e ti odo ſopirare. Ma che ti pare de gli occhi miei? NAT. Tu haideldiuinoin eßi, come cheſieno di coloa re celeſte, o di luce penetrante. A R. Et de capelli,chedi tu? delle ciglia? NAT. Quelli ſono neri, a queſte rare, e di oneſta grandezza. ART. Saitu di cheſieno ſegni le predette coſe? NAT. Non già,ma bene ſtimo, che tu t'habbifigurata in quel mo do difuori,che tuſei di dentro, cioè piena d'intelletto, edi capacità ftudiofa delbene,folerte,er ſuegliata comeſei. A R. Tudi il ues ro, e dipiù il naſo aquilino, le orecchie egualiil collo brieue, il pete tolargo, le ſpalle große, le braccia, le palme, ø i diti lunghi, tuttiſou no ſogni euidenti dello eſſer mio. NAT. Ma tunonſei peròtroppo grande,bencheiltuo mouimento ſia tardo, elo ſtarediritto, chedie moſtrino te manſueta, umana, a piaceuole. Ar. Se non fuſſe il mio continuo penſamento, mi uedreſti ancora più allegra. Ma guarda quantiſtrumentiadoperar mi conuiene perporre in opra quello che io nella mente diſegno. NAT. 10 ſono dite più ſemplice, o piis ſchietta comeuedi. AR. Tu mifai ridere con tante mammelle. NAT. A punto io fo ridere ogni coſa per tante mie mammelle, pero che credi tu, chelefemine, noni maſchi habbiano tai parti? AR: Perche le femine ſono quelle chepartoriſcono, però biſo gna, che come eſſe danno la uita, cosi diano il notrimento,etperò han no le dette parti come iſtrumenti della nodritione. NAT. Quans te adunque nedebbo hauer’io, eſſendo madre dituttele coſe? AR. Tu hairagione,ma chi é quel giouane cosi bello, che incontro ne uie ne? NAT. L'anima,che poco dianzi era ſola,ora è accompagnata col corpo. AR. Chemiracoli fai tu ò Natura? NAT. Credi tu Arte ſapere ogni coſa? AR. 10 fo bene quello, che credo, ſo che le genti non crederanno queſte mutationi, che tu o io facciamo. NAT. Pochi ſono i ueri Sauij., però non diamo orecchie al uolgo. Eccoti il deſiderato aſpetto, conſidera o miſura le parti fue, che ria trouerai bella,o proportionata compoſitione. Ar. Che carne gen tile, odelicata, non però troppo molle, guarda chedignità,che maa niera chefronte allegra, « ſignorile,chipotrà dire che egli nonhab bia ad eſſere pieno di coſtumi, o d'ingegno? NAT. Ben ſai,che io gli ho la promeſſa ſeruata in tutto. ART. Rallegromi ueramen. te, o mi pare, che tu ſeimolto miglior maeſtra di me, ma che nome gli daremo?.NAT. Quello che conuengaà chi lo fece. ART. Io ne ho poco che fare. NAT. Anzi tugli hai dato, et darai il miglior'eſſere;ben’è uero,ch'io ne ho la parte mia, o il mie fattore la ſua. ART. Chiamiamolo dunque DINARDO. NAT. Perche? AR. Perche Dio, Natura, et Arte il donarono. NAT. Tu mi allegri con tal fabrica di nomi. A R. In molte lingue io ho queſto potere, il quale e poco da gli huomini conoſciuto. NAT. Mipiace, ma perche non l'hai tu dacapo a piedi minutamente miſurato? AR. Micuſui lo hauerglidimoſtrato, che la oratione eſſer dee.comeil corpo umano, o hauere principio,mezo, et fine. Etche le partiſue deono corriſpondere à ſejteſe, al tutto con dignità,e decoro? Et si comenel capo ſono tutti i ſentimenti del corpo, cosi nel principio eller deono ripoſti i ſentimentidella oratione. A lui pofciaſtarà di ore dinar la predetta materiafecondo il biſogno, facédolo auuertito, che i teftimonij delle opere de’ mortaliſono le coſe che ſtanno d'intorno à quelli. Et però mi gioua di nominarle circostanze, percioche fa cendo,o operando l'huomo alcuna coſa, ha ſempre inanzi,ò apprefe ſo il tempo,il luogo,le perſone, il modo, ilfine, le quaicoſe fanno fede ſe l'operaſua è buona, orea. Da coteſta conſideratione, ſi ſtima chi ragiond, e con chi,ſe è la occaſione di dire ſe in questo, o in quel luo, goſtarà bene di parlareſe ilfine è buono,et altre coſe,alle opere ap pertenēti. Ma tu gratioſißimo Giouane, che con tăto fauore delcielo ſeinato,ti ricorderai tu quelle coſe che dette habbiamo fin'ora? Non titurbure,cheio ſono l'Arte, e queſta è la Natura,con la quale tu, eſſendo Anima ragionaſti. Din. In che maniera ſono le coſe ſchiette, oignude, oin che forma ſono le compoſte,che cosi uiſiete mutate, piacemi di hauerui riconoſciute, o cosi uiaffermo di ricordarmi di quanto s'è detto. ART. 1o non mipoſſo ſatiare di guardarti. NAT. Che giouanezze ſono queſte? ART. Non ti dolere, o Natura, che la bellezza delle opere tue ſia da me riguardata con E 2 marauiglia. NAT. Poi che io à tale fon uenuta, che pienas mente ho ſatisfatto al deſiderio tuo, e chef Anima pronta s'è die moſtrata, comincia tu ancora ò Arte ad inſegnarci ilmodo, col quale applichiamo le coſe all'Anima. Et perché non più aſtratte ſiamo,ma compoſte,però voglio,che con le eſperienze degli ingegni altrui, eo con glieſempi, cheſono oſtaggi della verità, e con l'uſo quotidiano, tu ti rivolga à darci ad intendere la forza di L’ELOQUENZA UMANA. ARTE. Cosi farò. Ma tu, ò Dinardo, presteraimi udienza, e non lasciare à dietro cosa, ch'io ti dica. Marauiglioſa e ueramente la forza o la virti di LA FAVELLA UMANA. Perciò che oltre alla intenzione dei concetti e delle voglie di voi mortali, che per essa si suole con besneficio universale e evidente diletto appalesare, non é in voi sentismento alcuno, l'appettito del quale non sia da quella fieramente eccia tato, e commosso; a chi volesse di ciò prender debito argomento ogn'ora, che venisse bene, riguardando à i modi, che si usano tra  voi, ritroverebbe le cose à i sensi sottoposte alcuna volta essere di minor virtù in muovere ciascuna il senso suo, che IL PARLARE, quall’ora egli sia con bello, efficace, es maestrevole modo formato o fabricato o appreso doppo alcuna più profonda considerazione, conoscerebbe essere QUASI INFINITO IL VALORE DI ESSO PARLARE, come che solo allo intelletto dimostri la sostanza, e la ragione delle cose, it che à niuno altro sentimento, quantunque la Natura sempre a tutti liberalissima stata sia, né é, në fu, nef arà concesso già mai. Quante cose del cielo, quante delle intelligenze, quante del divino PER MEZZO DELLA LINGUA, senza l'aiuto degli’occh iò d'altro sentimento si fanno? IL PARLARE è solo dimostrastore della sostanza, IL PARLARE E SOLO PER UNIVERSALE MINISTRO DELL’ANIMA, IL PARLARE E SOLO STRUMENTO DELLA RAGIONE, ma onde é, o Dinardo, che negli que ni menti, et ne gl’atti degl’uomini tanta forza discens da NELLE PAROLE? DINARDO. Credo veramente, che essendoci dato da essa Natura IL PARLARE, come tu dici, affine, che LE NOSTRE BISOGNE, I NOSTRI PENSIERI ALTRUI MANIFESTIAMO, gran potere in quella FAVELLA debeba essere, la quale da vero, et ſaldo intendimento, e da sforzes uole disiderio procedendo, tale di fuori apparirà, quale di dentro nele l'animo dimorando ſtarasi. ARTE. Ben di. Essendo adunque le parole come ostaggi delle voglie o de concetti, bisogna, come tra’ signori aviene, dare gl’ostaggi alle persone convenienti, e però prensdendo noi DINTORNO AL PARLARE quel miglior partito che si conviene, soglio che picde inanzipie mettendo or gentilmente più oltre pafé fando ritroviamo le maniere, e gl’ASPETTI DELL’ORATIONE, o confiaderiamo quale PARLAMENTO à qual cosa, et à qual persona si conuenga. DINARDO. Di, ch'io t'ascolto. ARTE. Non è dubbio, che riportando IL PARLARE per gl’orrecchi alle anime de gl’ascoltanti, la forza dello intendere o del volere, bisogna in questo viaggio dar mouimento, et modo ad eso PARLARE. Perciòche lo intendimento ó la voglia nell'anima si riposano, o iui come nel suo caro nido dimorano, ne si potreba bono da quello senza ragione, et artificio, di partire. Al che fare accoa ciamente uoglio in prima che in ciaſcuna forma, o maniera di L’ORATIONE si truovi IL CONCETTO DELLE COSE INTESE, ca DESIDERATE, il quale par orasia detto, e nominato SENTENZA. Appresso uoglio, che ci sia lo artificio di levare LA SENTENZA dal luogo suo e là doue farà biſoagno, leggiadramente portarla, perche SIMIGLIANDO LA SENTENZA AL RISPOSO E ALL’ANIMA, diremo, che l'artificio sia la machina, il modo conveniente di levare il peso della SENTENZA dalla MENTE umana. Ma perche si vede che l'anima usa le forze sue, o adopra il corpo come strumento, però à ciascuna forma di LA ORATIONE appresso l'artificio, Ry LA SENTENZA, le ſidarà PAROLE, e voci, per mezzo delle quali puo l’anima delle sentenze la sua virtù, le forze sue gentilmente ad opearare. Ma per che aspetto alcuno non si potrà vedere, oueſieno le pare ti, la compositione di eſſe, IL COLORE, i contorni, oifinimenti del tutta, desidero condonar alle parole i suoi COLORI, il sito, o le parti qua si membra, o i suoi termini, accioche altri all’aspetto, o alla forma conosca quali oſtaggi ſieno dati dall'anima DEI I SUOI RIPOSTI E SECRETI INTENDIMENTI. Chiameremo dunque il colore LA FIGURA, la parte IL MEMBRO, il sito LA COMPOSIZIONE, il finimento chiusa o TERMINE dell’orazione. Et perche van a fatica sarebbe la nostra, le hauessimo solamente formato si bella creatura affine che ella si stesse, ne punto si movesse, pero come vivo s'intende quel corpo cui movimento e concesso, cosi daremo AL NOSTRO PARLARE il suo passo, o vero il suo corso, il quale si farà col riposo di alcune parti e col movimento di alcune altre, come farsi vede ne gl’animali, o perche con altro mouimento si muove uno adirata, con altro un mansueto, o altro é il passo d'uomo grave e atteme pato, altro d'un leggiero però nello spazio per lo quale ha da correre o caminare LA ORATIONE voglio che si conosca ogni interna qualità delle cose per lo movimento e per lo riposo di LE PARTI DEL SERMONE, e we per che di sopra habbiamo dato à ciasscuna parte il nome che à formar UNA MANIERA DI PARLAMENTO si richiede deremo ancora à questa ultima il nome suo si veramente che il riposo, o il movimento delle parti sotto uno stesso vocabolo si rinchiuda, poi chiamato sia o Numero, o numeroso componimento. DINARDO. Qual De dato puo cosi belle figure a fare, adornare, come fai tu, o Arte. Raccolgo fin tanto quelloche io ho da te sentito fin’ora, o dico che tu uuoi, che LA ORATIONE ha una qualità che conuenne alla cosa, o alle persona soggetto, o questa istessa qualità, forma á maa inierazò guisa dimandi. ARTE. Cosi e, DINARDO. Tuu uoi appresso che ciascuna forma primieramente ha la sua SENTENZA che altro non è che il CONCETTO della cosa, da poi l'artificio, che é il modo di les uarla dal luogo suo, ne questo ti basta, a però uuoi ire grandamente si consideri con quai PAROLE si puo pixi acconciamente RAGIONARE, a esprimere la OCCULTA virtù della SENTENZA, disponendo le PAROLE e dando a la parola i suo COLORE, e finalmente rinchiudendola in alcuni termini accio che sieno alla SENTENZA eguali, come l'anima à tutto il corpo, o a ciascuna parte dare il suo numeroso o MISURATO movimento, che col riposo, o con la velocità del tempo presente si misura. ARTE Cosi u'ho detto DINARDO: Ogni cosa mi pare d'intendere ragionevolmente, solo che tu voglia dichiararmi al quanto d'intorno a questo numeroso componimento, che “NUMERO” hai nominato. Et io son dispoſta à farlo, sueramente, ch'io voglio prima partitamente ragionare, ego distinguere la maniera, e la forme predetta, de cioche tu sappia il numero di ciascuna determinazione. Dico adunque, la prissma guisa, es la prima forma dover essere la LA CHIAREZZA, la quale sotto di se contiene la PURITA, o l’ELEGANZA del DIRE, anzi più presto da questa maniera ne risulta la cagione che nel primo luogo si riponga questa forma perche niuna cosa più si ricerca ò si disidera [cf. H. P. GRICE, DESIDERATA --] dachi jagiond, che il lasciarsi intendere, il che altramente non si può fare senzá LA PURITA DEL DIRE, la mondezza, la quale oggi voglio, che ELEGANZA si chiami da noi. Ma perche spesso aviene che sforzansdosi alcuni di esser inteſi, cadono in forma umile, ego dimessa molto les cuando, otogliendo della dignità, della grandezza del PARLARE, però appresso la predetta forma, si dirà della grandezza o GRAVITA DELLA ORATIONE, quale da molte altre fori ne procede, che sono quesste, muestd,  comprensione, asprezza; eemenza, splendore, viva cie tà i boppo LA CHIAREZZA e la grandezza del DIRE a me pare che si convenne conoscer’un’altra forma; ta quate tutto il corpo della orarzione con la convenienza delle parti, ornamento, os gratia recando, bella, en misurata si mostra, v però mi giova di NOMINARLE BELLEZZI, alla quale un'altra formaſi darà, volubile, presta, perche tèggia a dramente si muova, leggiadramente dico a fine, che ne troppo sciolta, né troppo legtta ſiueggia. Et ſe la chiara, a la grande, e la bella, o la veloce forma sono tanto richieste, quanto previdá te stesso considerare che diremo noi di quella, nella qual si dimostrano i modi, i costumi delle persone. Et di quell'altra, che fa credere ogni cosa che si dice esser verissima? Certo non meno queste che quelle esserticare deuriano, quando in queſte sta ripoſta ogni riputatione di CHI PARLA; et ogni credenza delle cose, cosi voglio nominar quella forma la quae le secondo le nature, e gl’abiti delle genti va ragionando sotto della quale è la simplicità, la giocondità, o l'acutezza; e quell'altra ancora, che verità si dimanda, sono forme, senza le quali morta e spenta sarebbe l’orazione. Ed in questo numero sono chiuse le maniere, o le guise, delle quali alcune hanno la sua sentenza, &i loro artificii, e l'altre parti distinte, es separate dall’altre; alcune comunicando insieme, si confarànno, o nella sentenza, ò nello artificio, ò nella parola, ò nella figura; o nel resto, cos me chiaramente uedrai. Queſte uoglio, chetu da feſteſe, come ſemplici forme riguardi diſtinte l'una dall'altra. Perciò che non quel lo che si truoua, ma quello che può essere, voglio che tra te medesimo rivolgendo consideri, e ciascuna forma, come tale, ew tale conoschi. DINARDO. Io t'intendo, Tu vuoi ch'io sappia considerare ogni guisa d’ORAZIONE in se stessa, onde poi a scelta mia io possa questa con quella, e quella con altra mescolando, di più semplici formarne una bella coinin posizione. ARTE. Che credi tu, che vaglia poi cotesta MESCOLANZA che nella purità ritenga grandezza, a peso, nella semplicità, forzkiego splendore, e ha nella grandezza del bello, e dilettevole, ma che afþramente piacevole, e piacevolmente aspra si dimostri, pungendo; gungendo, come si dice, ad un'horafteli e facendo che quello che è nella sentenza ampio o ripieno sia nello artificio ampio ad leggidadro. E in tal modo accompagnando la FIGURA d'una forma con la PAROLA d'un'altra, di più contrario -- cosa alla natura medesima riputata impossibile -- farne una amore uole fratellanza, onde poi questo generoso accozzamento di cose REPUGNANTI empia ogn’uno di maraviglia. DINARDO: Non mi accender pir di grazia, di quello che io sono, cominciami oggi mai à formare ciascheduna delle maniere, accionche io veda il fine della desiderata catena dell'anima delle cose, e del PARLARE. DE Ï Ï A parlare. ARTE Bendi. DEI DUNQUE sapere che come nell'anima, altra parte è quella che apprende la ragione, alfra quella che é da gl’effetti commossi, come dicemmo, o nella natura altre sono le cose allo IN-SEGNARE altre al muovere appartenenti cosi alcune forme dell’orazione e le quali converranno alle cose dell’intelletto, als cune alle cose della voglia, o dell’appetito o quando questo non e  né via, nė ragione alcuna e di poter acconciamente INDURRE OPNIONE E AFFEZZIONE con la forza della favella. Però auuertisci, che nel trattamento della forma da te stesso puo intendere qual forma a qual cosa si confaccia. DINARDO. Ricorditi di farmi ogni cosa chiara con gli essempi di CONVERSAZIONI DIADICHE e io mi obligo di interpretarli secondo la PARTICOLARE occasione in qualunque libro di questi che tu vorrai. Ma prima desidero saper alcuna cosa d'intorno al NUMERO o numeroso componimento, O QUANTITA O FORZA. ARTE. Lasciati à me guidare che il tutto saperai secondo il bisogno. Sappi adunque, o Dinardo, che qual’hora alcuno si rivolga à considerare il modo, e la ragione del medicare, che ritrovando alcuna bella cosa nella medicina, voglia giudiciosamente applicarla all’arte del dire, non è dubbio, che egli non sia per vedere tra la medicina, o l'arte di che si ragiona, grandiſsima simiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre sanità, oue ella non ė, ò di conseruarla doue ella si truoua. Il simile fa quest'arte, d'intorno alla buona opinione, perche conogni studio s'affitica di metterla, ò di mantenerla oue sia bisogno. La medicina conosce qual parte del corpo con qual rimedio esser debbia risanata, o preservata, cosi queſt'arte opra con l'anima e con le parti sue con la forma del parlare o conversare. La medicina quanto più può fugge la noia che puo alcuno medicamento recar'atl'infermo, con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il pessimo sapore, ego l'odore delle medicine, ne da questa gentilezza si parte la mia figliuola, cercandodi non offendere quel sentimento che prende i suoi rimedij, il qual sentimento é negl’orrecchi riposto, per le quali sotto la soauità del suono fa trapassar’inſino all'anima la opinione, quantun que sia di cosa dalla natura aborrita. E finalmente la medicina nelle sue composizioni alcune cose vi mette, non tanto gioue uoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle virtù dell'altre cose al luogo infermo, il che quamto ſi conuenga all'artificio fa FAVELLA, non ti posso in poca hora dichiarare perche troppo grande é la forza del suo numeroso componimento; il quale portando ſeco agevolissimamente il valor della parola e della sentenza, pasa, e penetra per ogni parte dell'anima, deerosa di questa soauità, e benche gl’orecchi del volgo ne sentano assai, non è però da dimandare alcuno IDIOTA, onde ella proceda, ò come si faccia, perche QESTO GIUDIZIO E PIU PROPRIO DELL’INTELLETTO CHE DEL SENTIMENTO UMANO. Giudicando adunque, o considerando L’INTENDENTE UOMO quale sia la cagione che la parola più ad un modo che ad un'altro disposta e diletta uolio numerose, ritruova il tutto essere alla Natura, quanto al ſuo principio, conveniente, ma quanto alla perfezione non cosi; però che io ne ho grandssima parte. E perche tu sappia quello che la Natura, a quello che io ti possiamo prestare, dico che la Natura ha posto alls cor nell’orecchie il suo piacere e diletto, vuole che quelle affaticate si folleuino con la soauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna cosa è più potente nel vostro ragionare che il NUMERO o la fosnità della parola. Il qual NUMERO bisogna che di sua voglia vegna nell’orazoone, si perche FA ORAZIONE E NON MUSICA (come la poesia),si per fuggir la sospitione dell’artificio, la quae le con luſinghe uole INGANNO pare che VOGLIA ABBAGLIAR L’AMINO DELL’ASCOLANTE opera leua loro ogni PERSUASIONE o fede. Ma quando con ine certo, o non conosciuto numero, dolce però, e soaue, si compone il parla-mento, o si lega insieme il fascio della sentenza e dell’intendimento, senza dubbio il tutto con credenza, o diletto si riceue. Fuggasi dunque il ucrſo, ogni regola continouata del uerso; continouata dico, peroche lo stesso numero più volte replicato facilmente si riconosce, o fa che gl’orecchi aspettanti l'ordinato, consueto ritorno, più al suono che al sentimento si diano cosa assai chiara, o attesa ne i versi, il NUMERO de’ quali usato, e conosciuto, più dall'arte che dalla natura procedente. Ma perche senza legge di NUMERO alcuno, o sciolta del tutto non dee restare l'orazione, che oscura, cu piaccuole ne rimarrebbe, però numerosa o composta ella si disidera grandemente. Ora da che nasca, o per qual cagione diverſamente offer convenga numerosa l'orazione quanto à me s'appartiene dirò brieuemente, dichiarando prima, che cosa sia NVMERO, ò numeroso come ponimento. DINARDO. Questo ordine à me sommamente diletta, però di cuore ti priego, che più distintamente che puoi, me lo dimostri. ARTE. La necessità vuole che le parole sieno pari alla sentenza, perche à questo fine si ragion e conversa, come si è detto, accioche quanto habbiamo di dene troſi dimostri di fuori, doue mancando o accrescendo parole, o il concetto interno non e espresso, come nella mente dimora, ò il parlar e OCIOSO – Grice, otiose -- ò mancheuole. Ma perche la sentenza nell'anima è finita O terminata, però debbon’esser finite, o terminate in QUANTITÀ le parole, che la sentenza dimostrano. La qual QUANTITÀ insieme ragunata, GIRO O CIRCUITO nomineremo il quale altro non e che pieno o perfetto abbracciamento della sentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la virtù di ef la sentenza, può hauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, secondo le parti della sentenza; e ciascuna parte é composta di parole, o si chiama MEMBRO O NODO o si come ogni parte del corpo ha il suo principio, il suo FINE, e il suo MEZZO, o il corpo medesimo e terminato e finito cosi le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento e finito o terminato. In tutto questo spazio adunque che è tra il principio, il fine di ciascuna parte, e tra il cominciamento, es la chiusa, che s'è detto chiamarsi gia ro, ė forza, che la lingua alcuna volta s'adagi, o si riposi secondo il bisogno,o si muoua più ueloce, ò piu tarda secondo la QUALITÀ del concetto. Et questo riposo, o questo movimento, misurato col tempo del proferire, para torisce il numero, del qual ragioniamo vero figliuolo della composizione, o de i termini del parlare, o molto piu nel fine, che nel cominciamento e più apparente ne gl’estremi che nel mezzo. E perche di esso NUMERO gl’orecchi fanno giudicio in quanto al sentimento del piacere o del dispiacere, per esser naturale à ciaſcuno la dilettatione de sensi, o l'intelletto fos lo come ti dissi, ne cerca la cagione però, hauendosi fin'ora in parte dimostrato quello che all'intelletto s'appartiene, in parte dico, perciò che l'intelletto in questo caso molto all’orecchie deferisce, o diverse maniere hanno diverso NUMERO. Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciascheduno il suo numeroso componimento, o con essempi DI CONVERSAZIONI DIADICHE ancora ritroueremo quello che con ragione e dimostrato. DINARDO. Molto bene auif di farmi capace di questa magnifica o illusſtre composizione; però segui che con maggior desiderio, che prima, fono apparecchiato d’ascoltarti perche mi pare, che ora tu facci di me pruoua marauigliosa. ARTE. La prima forma e nominata CHIAREZZA – la qual nasce da purità, o da eleganza. Pero essendo ella quasi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti, si dirà delle parti fue, et prima della mondezza o pilerità, poi della scelta o eleganza. Deefl dunque dare alla purità del dire quella sentenza la quale e di piana intelligenza e non ha bisogno di piu conſideratione, come per lo pia sono, o esser deono le narrationi delle cose, come qui. DINARDO. Tancredi, principe di Salerno, e signore assai umano, di benigno aspetto. ARTE Eccoti, che ſenza alcuna fatica di discorſo ogni mediocre ingigno gegro può capire il sentimento della sentenza già pronunciata, come ancora in questa sentenza. DINARDO. Io son Manfredi, nipote di Costanza imperatrice. ARTE. Et molti essempi sono della purità nelle novelle, la sentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenza fottopo sta, pur che partitamenteſa ciascheduna in ſe conſiderata, percio che pua re non ſarebbono quando ad alcun fineſi riguardasse, o uero altro attendessero per fornir il sentimento loro, come se in questa guifa si dicesse. Essendo “Tancredi principe di Salerno signore assai umano”, perche questa sentenza non e TERMINATA O FINITA dovendo attendere a quello, che segue, o però più presto oscura e che monda enetta. Non aspetti adunque altro intendimento chi vuolessr puro nella sentenza, la quale stando nell'anima, dee esser con tal'artificio levata, che sola si tiri suo riga come di dentro dimostra il concetto, cosi di fuori fa fatto palese, senza alcun accidente che quella accompagni o consegua. E però da questa forma e bandita ogni circostanza di tempo di luogo, di persona, o di modo, ò d'altro avenimento. Vedi questa parte quanto é pura nella sentenza: DINARDO. La quale percioche egli, si come i mercatanti fanno, anda molto in torno a poco con lei dimora, s'inamora d’un uomo chiamato Roberto. ARTE. Non lascia esser pura cotesta sentenza quel trammezamento che dice percioche egli, si come i mercatanti fanno, andaua molto intorno, o questo adiviene, perche SOSPESO SI TIENE L’ANIMO DI CHI ODE. Fuggi adunque ogni raccoglimento se vuoi essere nel tuo dir mondo, et neto; et narra le cose partitamente come stanno, ma de i raccoglimenti quanti o quali sono, dirà poi. Delle parole veramente con le quali si dee uestire la purità breve ammaestramento si darà perche, tutte le parole, piane, facili, usitate, bricui, O communi sono all'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate, le straniere, le lunghe, e quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capire sono dalla purità lontane, però purissime sono queste. DINARDO. Che à me pareva esser’in una bella, dilettevole selua, e in quella andar cacciando e haver preso una cauriola, parcami, che ella e piu che la neue bianca,or in brieue spazio diucnisse si mia domestica che punto da me non si partiva, tuttavia a me pareva haverla si cara, cbe accio che da me non partisse, le mi pareva nella gola haver messo un cola no d'oro e quella con una catena d'oro tener con le mani. ARTE Non è poco haver giudicio di ritrovar le parole ad ogni maniera conformii, ma molto più wi deue avvertir' nel disporle, o COLORIRLE, onde ne nasce il desiderato aspetto. E però sappi che la figura della parola, alla purità sottoposte, é il dritto, ecco. DINARDO. Nicolò Cornacchini e nostro cittadino, o ricco huomo. ARTE. E quiancora DINARDO. A solo adunque vago, piaceuole castello postto ne gl’estremi gioghi delle nostre Alpi sopra il Trivigiano ecsi come ogn’uno dee sapere arnese della reina di Cipri. ARTE. Non cosi puro e se dagli’obliqui casi ha cominciato, Dicendo, Di Asolo, vago e piaceuole castello posseditrice e la Reina di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, avenne che secondo quella parola puro non sia, doue si dice Arnese, voce straniera, ancora nello aretificio non é puro per quello tramezamento che dice, si come ogn’uno dee sapere, o per quelle circostanze del castello vago piaceuole pera che RITARDA IL SENTIMENTO DLL’ASCOLTANT, ovi mette le circonstanze del luogo. DINARDO. Dunque erra chi volendo esser puro usa una parole non pura, artificio, o figura d'altra maniera della orazione? ÁRTE. Errerebbe se egli crede, otenta d'essre in ogni parte puro, e netto, e non usa quello che si conviene ma non erra volendo alla purità del dire porgere grandezza o dignità. Ma ancora voglio che ogni maniera e in se stessa considerata e però la purità del dire ha  le parti sue distinte, o separate dalle altre nė solamente il dritto è figura di questa forma o manierq ma anche ogni altro COLORE che e contrario alla comprensione. Ora trattiamo del sito, o della composizione della sentenza, Dico nella purità, o mondezza del dire doversi mettere le parole insieme con quel modo che piu vicino e al favellare, usita e cosenza molta cura, caffettazione semplicemente quanto si può. E si cos me in ciascheduna parola di queſta forma bisognaua levar ogni durezza, Cogni difficultà di lettere, o di sillabe, accioche la voce di suono e quale, temperato, non impedito usce fuori cosi nella composizione bisosgna guardare d’acconciare talmente che pine tosto nate, che fabricate appariscano, come nell’esempio del sogno si conosceud. Considera tu poi la forza e lo spirito di ciascuna lettera e di ciascuna sillaba, come la natura in tutte ha posto la sua piaceuolezza, durezza, e tifa rai questo giudice del suono delle parole, della loro disposizione, ucdi che la “A” si forma nella più profonda parte del petto, o esce poi fuori con alta voce, risonante, onde lo spirito di essa grande, o sonoro essente, odi la seguente -- ch'é la consonsante “B/” La “B” é purasnella, despedita -- come è aspra la sequente, che e la consonante “C” quando è fine della sillaba, ISA C, órauca quando è posta inanzi la “A” à la “V” come per lo contrario e di dolce, spesso, o pieno suono, precedendo alla “I”. Alla “E” come qui. Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosi come la mia persona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me si può fare al comando tuo. Considera poi da te stesso il restante delle lettere, in che maniera essa natura di sua propria qualità ha ciascuna dotata e vederai onde nde sce più questa che quella composizione. Le parti e le membra, della purirità esser deono breui, et ciascuna dee terminar il suo sentimento, non ritardando con lunghezza del giro, o di raccoglimenti la intelligenza del popolo, come qui, D. Suol’essere a' naviganti caro qualhora da oscuro o fortunevole nemboso spinti errano, o travagliano la lor via, col segno della indiana pietra, ritrovare la trammontana in modo che qual ventosossi conoscendo, non Ria lor tolto il potere, e vela, o governo, là doue essi di giugner procacaciano, o almeno dove più la loro salvezza veggiono indirizzare. Bisogna parimente in minore spazio raccogliere il sentimento di ciaccuna parte ouest vuole esser puro, o fare in questo modo benche le parole sono a le quanto dure. DINARDO. Chino di Tacco piglia l'abbate di Clugni a medicalo del male di stomaco, poi il lascia l'abbate ritorna, in corte di Roma, o il ricomcilia con Bonifacio Papa, o fallofriere dell'ospedale. ARTE. E nel uerso ancora esser dee la predetta norma osseruata. DINARDO. Pace non trovo, e non ho da far guerra, e temo, espero, e ardo, e for’un ghiaccio. Il che non quiene in questa altra parte. DINARDO. Voi, ch'ascoltate in rime sparse il suono, perciò che IL SENSO E TROPPO RITARDATO o con lunghssime parti rattenuto. Ha si dunque della purità quello che bisogna d'intorno alla sentenza, all’artificio, alle parole, alla figura, alla composizione, e alle parti di esa. Resta che si tratti del numero, e del finimento, cioè della chiusa, o del termine della sentenza, o delle parti sue. Dico adunque che nello andare, ego nello spazio di questa forma non si dee essere ne veloce ne tardo ma temperato e ne i riposi, ne i movimenti, perche il numero nasce dalla composizione, co dal fine, però sapendo quale esser dee la composizione delle parole quale il fine tutto quello che sotto di queste parti contiene darà ad intender quello che si è detto, perche quanto si ricerca alla composizione si é dichiarito resta che si dica del finimento.ogni sentenza, ogni giro può finire, ò in alcuna parola tronca, o in parola piena, sieno queste parole, ò di II, ò di III, ò di piu silabe, o ancora di una. La parola piena, e compiuta ò e sdrucciolosa,  e volubile, o salda, o ferma, o perche non solo Ridce considerar l'estrema parola di tutta la chiusa, ma anco la vicina, o prossima, però partitamente si dice di ciascun finimento al luogo suo. Come adunque voglia la purità terminare le chiuse sue, assai chiaro ofer dee. prciò cheassimigliandosi elle al dire cotidiano, fuggirà il fine della parola tronca, come e quelle anda, corfuftarà, o C. perche le medesime dee nella disposizione fuggire, come ramarico, o render florido. Ed a contenterà di quel fine, che per lo più la natura a volgari dimostra, ma io non voglio, che con tanta religione si finisca in parole piene, et perfetete, fuggendo le tronche, o le fdrucciolose, che alcuna volta non si metta sie ne altrimenti al suo parlare, perche quello che si dice, si dice per la magegior parte dei finimenti, e delle chiuse della purità. Da questi adunque o dalla disposizione risorge quella MISURA – moderato --, che noi NUMERO addimandiamo. Essendo adunque la chiusa simile alla disposizione, la disposizione non isforzevole, ma temperata e naturale, seguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuolo e, a quelle somigliante. Ben'è vero, che la forza di ciascuna maniera e riposta piu tosto nelle altre parti che nel numero, eccetto che nella bellezza, douc l'ornamento e il numero grandemente scerca, as molto piùè ne i versi, nella poesia che altrove, o questo dico, acciò che fu non metta piu studio dove non bsſogna riportandoti a gl’orecchi, il giudicio delle quali da essa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo, quanto giova la mondezza, o purità del dire alla chiarezza. Ma perche questa semplice forma non può da se sola si chiaramente parlare che non visi a qualche impedimento, però bisogna ouunque le sia di aiuato mestieri, con l’eleganza aiutarla come con maniera che più un modo che un'altr piu questo ordine che quello secondo il bisogno adoprando elegge et fo uegna alla semplice purità del dire, il qual'aiuto è più presto nell'artificio che nelle sentenze riposto. Però che ella si sforza far ogni sentenza chiara e aperta, non che le pure già dichiarite di sopra. Parliamo aduneque dell’eleganza,o prima dello artificio, colquale ella lcuar suole ogni sentenza nella mente riposta. ARTE. L’eleganza e maniera che porta chiarezza à tutte le maniere della orazione, o però non tanto alla purità, douc ella manca soccorre, quanto à ciascaduna forma opra intelligenza, o facilità, da queſto nasce, che l’eleganza dalla purità del dire in alcuna cosa é differente. Perciò che la purità da se stessa è chiara, o aperta, ma l’eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire e come un sole che ogni oscurità che per quella potesse venire, leua, o disgombra, o però in ogni sentenza ella può molto, si con l'artificio suo, si con COLORE, le figure. L'artificio adunque di les vare ogni sentenza dall’intelletto, acciò che ella sia intesa, cogni avvertimento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare o conversare. DINARDO. Canto com’io vssi in libertade Mentre amor nel mio albergo a sdegno s'ha poi seguirò si come à luim'in crebbe rroppo altamente: ARTE. Il simigliante R fa nella prosa. DINARDO. Mi piace à condiscendere a consigli d'uomini de' quai dicendo mi conuerrà far due cose molto a miei costumi contrarie, l'una sia al qua to me comendare, et l'altra il biasimare alquanto altrui, ma prioche dal ucro nė dall'una ne dall'altra non intendo partirmi il pur farò. ARTE. Vedi quanto gentilmente | sbriga l’intelletto dello ascoltare con tali avvertimenti. Appresso i quali assai bello artificio s'intende quela to, che per chiarezza di alcune cose altre ne narra senza le quali non si intende ageuolmente il restante. DINARDO. Ma per trattar del ben ch'io vi trovai, dico de l'altre cose ch'io vi ho scorte. ARTE. Se il poeta qui non dove dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegl che sono in disgrazia di Dio, non haurebbe potuto dare ad intendere facilmente il bene che ne riusci poi per hauer lo inferno cercato. Ecco qui dalla medesima necessità costretto quest'altro descrive la pestifera mortalità pervenuta nella egregia città di Firenze, avvertendo pri ma chi legge, in questo modo. DINARDO. Ma percioche quale e la cagione, perche le cose che appresso Rileggeranno, avenisseno, non si puo senza questa rammemorazione dimostrare quasi di necessità costretto a scriverla mi conduco. ARTE. Ecco qui ancora un'altra bella preparazione di cose, fatta per levare ogni impedimento, che puo offendere il rimanente. DINARDO. Ma io mi ti voglio un poco scusare che di que' tempi, che tu te n'andasti alcune volte ci volesti venire, e non potesti, alcune ci venisti, o non fosti cosi lietamente veduto, come sole vi e oltre a questo di ciòche io al termine promesso, non ti rendei gli tuoi danari, ARTE. In fine ogni precedente aviso, e ogni ordine di cose, e secondo, che este son fatte, narrandole, ė artificio scelto, e elegante, però tutte le proposizoni de' poeti sono elegantissime. DINARDO. Veramente quant’io del regno santo me la mia mente potei far tesoro e ora materia del mio canto, e canto di quel secondo regno que l'umano spirito si purga e di salir’al ciel diventa degno. ARTE. I simigliante modo è osseruato ne i principij di ogni nouella come da te stesso vedi. Suole ancora l’eleganza porre artificiosamente le opposizioni con le risposte partitamente. DINARDO. Saranno per aventura alcuni di voi che diranno ch'io habbia nello scriuere queste novelle troppo licenza usata. ARTE. Eccola dimanda seguita la soluzione. DINARDO. La qual cosa io niego, percioche ni una cosa e si disonesta che con oneste parole dicendola si disdica ad alcuno. ARTE. E cosi di paripasso alle obiettioni risponde benche altre fide te insieme posto habbia ogni accusa di se fatta, o poi s'habbia scusato, ma quel modo non ha dello elegante, come il predetto pose prima le opposizioni tutte insieme allora quando disse. DINARDO. Sono adunque, discrete donne, stati alcuni, che queste novelle leggendo hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non ė che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi. Et alcuni han dete to peggio, di coinmendarvi, come io so. Altri più maturamente mostrando di voler dire, hanno detto chenon stà bene l'andar'omai dietro queste cose, cice à ragionare o conversare  di donne, o à compiacer loro. E molti molto te neri della mia fama mostrandosi dicono ch'io farei più saviamente,à starmi con le muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi. E son di quegli ancora che più dispettosamente che sauiamente parlando, hanno detto, ch’io farei più discrettamente a pensare donde io puo haver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento. Et certi altri, in altra guisa essere state le cose da me raccontatevi, che come io le vi porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. ARTE. In queſto luogo molte accuse contra dello autore si mettono. Prima che ad alcunaſi risponda, il che non è cosi elegante, come il primo artificio, ben che in tanta confusione egli studia di esser chiaro, cinteso, eso avisa qui sasse AVANTI L’ASCOLTANTE, come fa doue dice, roppo al quanto dalle predette opposizioni, perche non di subito risponde il che ancora é dall’eleganza lontano. DINARDO. Ma quanti ch'io vegna à far la risposta ad alcuno mi piace in favore di me raccontare non una nouella intera ma parte di una. ARTE E ne poeti ancora si osserva secondo che meglio lor ben viene di fare cosi fatti partimenti. DINARDO. Tu argomenti, se'lbuon voler dura, la violenza altrui, per qual cagione di meritar mi scema la misura. ARTE. Questa é una proposta alla quale secondo l'arte della eleganza ſ doueá prinia rispondere ma si è posta ancora la seconda, dove seguita. DINARDO. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarsi l'anima àle stesse secondo la sententia di PLATONE. ARTE. Ben che tu veda qui le proposte esser insieme collocate, non è perrò senza eleganza quella parte, per quello che segue. DINARDO. Queste son le question, che nel tuo velle Pontano egualemente, e però pria tratto quella che più badi selle. ART. In questo luogo non tanto l’eleganza dimostra l’artificio suo per lo avvertimento fatto di quello che si dee dire quanto per l’elezione di rispondere prima ad una domanda che ad un'altra. Evvi ancora un'altro artificio della sceltezza, il quale è quando si ripiglia quello che si è detto e si dimostra di che poi si bada dire, come in questi luoghi segnati. DINARDO. Ma hauere in ſino à qui detto della presente novella, voglio che mi basti,o à coloro rivolgermi, a quali ho la nouella raccontata. Il qual luogo acciò che meglio quello che è detto, e quello che segue, come stesse vi mostro. ARTE Asai si è detto fin qui, con che arte l’eleganza leva dato per sostegno la grandezza o magnificenza del dire cosi nella grandezza è pericolo di uscire in forma che non habbis ornamento, proporzione, o però se le darà per misura, o bellezza sua una forma diligente, accurata, o ben composta, la quale in termini conuvenienti richiudendo l'ampiezza della orazione, o SANGUE  o COLORE amabile en grazioso le dona, onde il tutto misurato e temperato maravigliosamente si puo uedere.Questa forma nė sentenza, ne artificio separato dal l'altre forme ritiene, ma ogni sua forza nelle parole, nel sito di osse, ne i luo mi, o nelle altre parti e riposta. Se però dare non le vogliamo quelle sentenze che acuti sono, o di sottile intendimento.  Le parole adunque di questa forma sono le soaui, leggiadre, bricui, di facile intelligenza, ischiette, o con gran circospezione traportate. Perciò che le traslazioni – o META-FORE -- in questa forma esser deono rarssime, o le figure di questa misurata. O ben composta maniera e la repetizione. DINARDO. Per meſ ua nella città dolente, per me vi ua ne l'eterno dolore, Per me si ua tra la perduta gente. ARTE.  E molto bella eornata questa figura, os tanto più ha di ornde mento, quanto quello che si replica, augumenta, o cresce. Come qui. Amor, che à cor gentil ratto s'apprende, Preſe costui de la bella persona che mifu tolta, e'l modo ancor m'offende. Amor che a nullo amato amar perdona, Mi preſe del coſtui piacer si forte Che, come vedi ancor non m'abbandona. amor condusse noi ad una morte. ARTE. Se alla REPETIZIONE aggiugnerai l’INTERROGAZIONE, senza dubbio tu entrerai nella maniera forte ucemente. DINARDO. Qual'amore qual ricchezza qual parentado baurebbe le lagrime, o i K sospiri pospiri di Tito con tanta efficacia fatti à Gilppo nel cuor sentire che egli perciò la bella sposa, gentil e amata da lui haue fatta divenir di Tito,  se non costei? Quai mi nacce?  ARTE. Tu da te stesso poi quanto ornata sa ducemente questa parte considerando vedi tanto più se appreso le dette figure ancora vi porrai la conversione della quale di sopra s'è detto. Nė ti maravigliarefe( una me desima figura sia da altre figure ornata illustrata. Pero che la lingua di questiornamenti é capacssima. Lascia che à fuo modo altri ragioni, tu ne ſarai giudice, o la cosa istessa te lo dimostra. La conversione adunque è figura di queſta idea, a R suol fare quando in quella stessa parola pii membri ſ lasciano terminare. Bella è ancora la ritornata che si fa quando la parola che segue comincia da quella in che la precedente finisce. DINARDO. Di me medesmo meco mi vergogno. E qui, E consoauepasso a campi discesa, per l'ampia pianura super le rua giadoſe erbe in fine à tanto che, etc. ARTE. O vero in questo modo. Infiammò contra megli animi tutti, egli infiammati infiammar si AUGUSTO OTTAVIANO, che lieti onor tornaro in tristi lutti. ARTE. Et ancora il Bifquizzo come nell'uno poeta si dicra ch'io fui per ritornar più volte volto, Et l'altro. Il fiorir queste innanzi tempo tempio. Da poi la predetta vi sono anco altre ornatissime figure, come è il loro ascendimento alla tradottione o altre. Lo ascendimento si fa quando le parti che seguono cominciano dalle parole medesime nelle quali van terminando le parti precedenti, con questa conditione: che si mutino le cadenze di esse parole. Nel dir l'andar, ne l'andar lui più lento. ARTE. Overo in quest'altromodo. Lusca, io non posso credere che queste parole vengano dalla mia donna, e perciò guarda quello che tu di. Et se pure da lei venissono, non credo che con l'animo fermo dire le ti faccia. E se pure con l'animo le dicesse, il mio Rignore mi fa più onorecheio non merito: ARTE. La traduzione e ė figura che replicando la stessa parola, non foldemente DIMOSTRA L’INTENZIONE DI CHI PARLA ma mirabil'ornamento accresce ove ellasſtruoud Laurd che’l verde lauro e l'aureo crine. ARTE. Molto diligente as accurata figura e quella che si fa quando due più parti fra se congiuntesi sogliono proferire E utile consiglio potranno pigliare e conoscere quello che fa da fuggire o che sia similmente da seguitare.  ARTE. E qui, A cui grandi ey rade,o à cui minute pelje. ARTE. Forza ė che onunque in una bella e adornata figura s'abbatta un bel giudizio, egli conosca es senta dentro di se alcuna dolcezza; com mese uno udirà in questo modo ragionare. Risposemi non huomo, huomo giàfui, E li parentimiei furon Lombardi, Mantovani per patri ambe dui, Nacqui sub Iulio ancor che fosse tardi, E vissi A ROMA sotto il buon AUGUSTO OTTAVIANO al tempo de gli dei falſie bugiardi poeta fui e CANTAI DI QUEL GIUSTO FIGLIUOL D’ANCHISE CHE VENNE DA TROIA poi che'l superbo Ilion e combusto. ARTE. Non sentirai tu per questa disgiunzione, per la quale ogni parte sotto il suo verbo è rinchiusa, una diligenza gentile del poeta: si come là, do we dice, Io son Beatrice, che ti faccio andare, vegno dal loco, oue tornar disso, amor mi molle, che mi fa parlare. E molto più se nella prosa detto ritrovasi a que' tempi che i nostri maggiori haueano l'occhio al governo di questa REPUBBLICA, eta riconosciuta la virtù de'buoni, davansi compensi dei danni ricevuti per la patria, chi robava il publico, era castigato; fiori ua dia na giouentù dedita alla mercantia, oucro alle lettere, lasciasasi il facer dos: tio, la militia da' nostri questa, per che i cittadini non pigliaſſero l'arme contra se stossi, quello, accio che fussero più finceri i parenti a far giudicio delle cose importanti. ARTE. Vedi, che narrando partitamente, o senza congiugnimeneto alcuno, il parlareè spedito, la figura ornata, o dilettevole sopramo do il suono di essa oratione. Al cui ornamento il traportar delle parti di ossa giova mirabilmente, come quando si dice, Al costei foco, alcolei grido. K 2 Giouin Giouinetto poss'io nel costui regno. Et qui. Vſate le colei bellezze. In questo caso nonf dee di tanto levar dall'ordine loro le parole, che la sentenza oscura deventi, come disse, che i belli, onde mi struggo, occhi mico la, di che è qual piena quella canzone. Verdi panni, sanguigni, oscuri, operſ. Bello al quanto è quel transportamento che dice. Or non odio per lei, per me pieta de cerco che quel non vo, questo non posso. Concedes però a’ poeti maggior licenza per rispetto della necessità del verso nel quale ancora più ampio luogo fanno gl’ornamenti che nella prosa pure non è che del bello non habbiano assai QUELLA FIGURA CHE PER LA NEGAZIONE AFFERMA,come s'egli si dicesse, io nol niego cioè io il confesso. E quella, non è alcuno,che nol creda, cioè ogn’uno il crede. Poi non taca que, cioè parlò, e disse. Suole ancora chi scriue a maggior bellezza circoscrivendo le cose con più parole quello che conuna può esprimere come qui, Era giàl'hora, che volge il deſio, a’ naviganti, e intenerisce il core, Il di, che han detto à i dolci amici,A Dio, ARTE. E cosi A chiama il sole Pianeta, che distingué l'hore, e dicest. LA PRUDENZA DI MARIO, LA SAPIENZA DI CATONE, IN LUOGO DI DIRE MARIO PRUDENTE O CATONE SAGGIO. E é appresso bella figura la innovazione i come qui, Parte preſ in battaglia, e parte ucciſt. Et quia Taciti ſolie senza compagnia, N'andavan l'un dinanzi e l'altro dopo. ARTE. Ecco come la bellezza ogni forma abbelifce, ne per tanto avenga che ella molte figure, molti lumi dimostre di quelle solament est contenuta, ma studiosa del diletto sforza di ragionare o conversare variamente. Là onde per fuggir la fatietà con mirabile artificio è usata di variare l’orazione. E questo suol fare primieramente doppo molte voci di piene sonore lettere ponendo ne alcune di basse U rimesse. Da poi fuggendo la continuata giaciatura de gl’accenti sopra una medesima sillaba, ora nelle ultime, ora in quet le che uanno innanzi adesse gli sopramette, o di più in mezo delle lunghe le corte parole fra mettendo grazia e adornamento le giunge. Bella cosa ė si come tra cittadini vedere gli stranieri, cosi tra le nostre parole alcuna adirai che alicna fa, o mescolare le isquisite con alcuna dette popolari, le BMOWE huone con le usate, finalmente la elezione in questa parte può asai, la quale ritrovandosi in saldo w ſottil giudicio, dimostra in un'essere tutto quello che col consiglio di molti eletto a ricolto esser potrebbe però non degna le vili sſcaccia le brutte, fugge l’aspre, abbraccia l’eleganti SCEGLIE LE SIGNIFICANTI o con copia maravigliosa varia la disposizione, i të pi, il NUMERO e i finimenti; nė di pari lunghezza formerà le  parti del parlare, nė ripiglierà una stessa figura, un tempo medesimo, un modo amile, una persona pari, ma quasi un'adorno pratola orazione di molta varietà formando, diletto, o gioia, recherà sempre mai. Leggi prima qui, come il Poeta i medesimi nomi non ridice in uno stesso luogo. Io credo che ci credette, ch'io credessi, che tante voci usisse da quei bronchi, da genti che per noi si nascondesse, però disse il maeſtro se tu tronchi cualche frafchetta d'una deste piante, penster c'hai ffaran tutti monchi. Allor porfi la mano un poco duante, E colfi un ramufcel da un gran pruno, E'l tronco fuo gridò perche miſchiante. Da che fatto fupoi diſanguebruno, Rincominciò à gridar, per che mi ſterpiš Non hai tu spirto di pietade alcuno? Huomini fummo, oorfemfatti sterpi, ben doverebbe la tua man più pia, seſtate fossim'anime di serpi? Comed'un sstizzo uerde, che arfo Ria, Dal'un de lati che da l'altro geme, Bi cigola per vento che va via. Cosi di quella scheggia usciua insteme, parole,e SANGUE, ond'io lasciai la cima cadere, e dette come l'huom che teme. ARTE Tu puoi uedere in quanti modi il Poeta ha voluto variar le parole con quanta felicità egli lo habbia ottenuto. Il che in molti luoghi può in e lo vedere.si come là, dove parlando del lago gelato, lo chiama ora ghiaccio, era vetro, ora gelozora grosso, o duro vello, ora ghiaccio, ora geld ti guazzi, ora eterno uzzo,ora gelata, ora cristallo orafaſcia gelata, ora fredda crostázora lagrime inuetriate, e simili altre parole usa variando il poema. Il simigliante hanno fatto, fono perfare tutti gli scrittori di non D B 1 L me. Leggerai mirabili essempi della varietà in tanti principij di giornar Odi novelle che sono in quell'autore, o leggerai anco l'ultima parte del secondo libro di quest'altro che comincia. Che andiamo noi pure tutta via di molti amanti et diletti ragionando e conversando. Ma ė tempo di ritornar’omai all’altre parti della forma predetta, o peró d'intorno alle membra dei sapere che la lunghezza di esse in questa forma è piu desiderata chela brevità o cortezza, non però voglio che si lo stremo ti fermi, ma con più distese parti che nell’eleganza vorrei che le sue sentenze li portassero che le parole di esse in tal guisa si collocassero, e si terminasse queüa orazione che variate alſo pradetto modo il fastidio o la satietà si fuggisse, o in grado ogni sprezzata cosa ci uenisse. Il numero al uerso vicino in questa forma ci vuole, il qual numero prima e di quella maniera che di sopra ti ho detto, cioè riposo o mouimento, ovvero tempo di proferire, ò da poi di un'altra che ora io ti dimostrerò. Perciò che molto bene all'orazione può dar forma numerosa e bella, la quale sia nata da ue na certa necessità delle cose ben composte, o considerate, come il contraporre i contrarij o le cose discordi l'una all'altra con misura corrisponedenti, ritrovare i similiipari, o altre cose somiglianti à queste, delle quali partitamente e con essempio ne dirò, Sono alcune membra o nodi della orazione, i quali hanno le lor sentenze opposte ma con una corrispondenza tra loro mirabile temperate. Il primo essempio e di quello che si chiama pare, il quale si fa quando le parti che Äihanno à corrispondere sono quasi di pare numero di silabe o di tempi quasi dico però che questa parità di sillabe, o di tempi con saldo intendimento o giudizio deve essere stimata, e nõ del tutto pari.L'essempio di que ſta forma e questo. Dou’ella disonestamente amica ti fu ch'ella onestamente tua moglie divenga. ARTE Nel predetto essempio in due modi si vede esser fatta numero, ſa la orazione prima per la parità delle sillabe la quale nelle parti si vede poi per la contrarietà corrispondente perche “amica” o “moglie” sono contrarij, onestamente o disonestamente sono contrarij, opposti, solo di pari ud questo.Qui vi à niunoſi cerca inganno, a niunoſifa ingiuria. ARTE. I contrarij adunque fanno la orazione osser numerosa, come ancora. Et di gran lunga é da eleggerpiù tosto il poco osaporito, che il molato o insipido. ART. tornare. 2 ! TAR. Ne i simili ancora cade il numeroso concento in modo che quando in simil suono la chiusa finisce, ne rinsulta il numero. Quel rossore, che in altri ha creduto gittare, sopra di se l'ha sentito ARTE. Spesso auiene che per fuggire il sospetto di cotesto artificio, la simiglianza dei finimenti delle parole in mezo delle parti si ponga, com me qui, Poi veggendo che questo suo consumamento, più tosto che emendamento della cattività del marito potrebbe essere. Che più dispettosamente che sauiamente parlando. Molti esempi ritrouerai da te stesso di queste numerose maniere, nate dalla corrispondenza delle parti. Ora vorrei, che bene aucrtssi di non replicare più volte cotesti adornamenti, di non affettar tanto la consonana delle parti, CHE CADESI IN FASTIDIO OVVERO IN SOSPETTO DELL’ASCOLANTE. E per questa reggerai medesimamente il verfo nel quale caduto in più luoghi Ruede l'autore delle nouelle, il quale à me pare che di ciò molto curato non habbia. Bene uero che con mirabile perfettione riempie le parti e le membra della sua favella quando divide i nodi de’ suoi giri in III parti, come qui Percioche niun'altro diletto, niun'altro diporto, niun'altra consolatione lasciata ti ha la tua eſtrema fortuna. E qui, Et se qualunque di quelle fuſſe in Salomone, ò in Aristotile, ò in Seneca,'haurebbe forzadi guastar ogni lorſenno, ogni lor uirtů, ogni lor santità. Et qui. Ma quanto sensante, quanto poderose, di quanto ben cagion le forze d'amore, etc.. Considera la distintione de’ membri in quella novella,  dove introduce to scolare, la vedova, perche cosi richiedeua la dotta persona dello scolare. ARTE. E degno di consideratione il numero delle sillabe che nelle parti, che hanno a rispondere l'una all'altra, si mette. Perciò che quando una pare te di troppo l'altra avanzasse, non ne seguiterebbe alcuna numerosa compo Rtione, però buone o numerose appaiono esser queste. Accioche come per nobiltà d'animo dall'altre diuise siete, cosi ancora per eccelentia di costumi spartite dall'altre vi dimostriate. ART. Ma qui appare al quanto lunghetta la rispondenza, e la die fagguaglianza de membri. Quanto più si parla de' fatti della fortuna tanto più à chi vuole le eue cose ben riguardare, ne resta da poter dire, ARTE. Può esser ancora che non si gusti il numero per la lunghezza delle sue parti, benche sieno quasi pari come qui, Egli auiene spesso, che sicome la fortuna sotto vili art ialcuna volta grandi tsſori di virtù nasconde, cosi ancora sotto turpissime forme d'huo. Ministruo wa marauiglioſ ingegni dalla natura essere stati riposti. AR. S'io ti uolessi ogni cosa mostrare d'intorno alla bellezza del dire, troppo ritarderei gli ſtudij che hai afare, o pocoti laſcerei da eſercia tarti d'intorno all’eloquenza umana. Però p trapassare alle altre forme, parlo della veloce e pronta maniera dell’orazione; la forza della quale è nello artificio, più tosto, o nelle seguenti parti che nelle sentenze riposta. L'artificio adunque della prestezza e a brievi dimande brievemente rispondere. S'amor non èche è dunque quel ch'ioſento? Ma s'egliè amor, per Dio che cosa è quale? Se buona, ond'ċ l'effetto aspro e mortale? Se ria, ondési dolce ogni tormento? ART. Overo il fare molte dimande, con forze di spirito obrer uits: Non era egli nobile giouane? Non era egli tra gli altri ſuoi cittadini bello? Non era egli valoroso in quelle cose che d' giouani s'appartengono? Non amato? Non bauuto caro? Non uolentieri veduto da ogni huomo? AR. Le membra, quaſ parole eſſer deono bricui uolubili, oche pa ia che in eſſe fa il monimento del parlar noſtro, OLTRE ALLA SIGNIFICAZIONE DELLE PAROLE nelle quali ė ripoſta la forza dela espressione di ogni forma. Soli bastano, accompagnati creſcono, und mille nefå, o delle mille in brieve tempo mille ne naſcono, per ciaſcuna sono aspettate giocondissime, no aspettate venturose, sono cari ageuoli, ma diſageuolivia più care inquanto le uittorie acquiſtate con alcuna fatica fanno il trionfo maggiore, donare, rubbare, guadagnare, guiderdonare, ragionare, ſoſpirare, lagrimare, rotte, reintegrate, prime ſeconde, falje,o uere, lunghe bricui, tutte fono diletteuoli tutte ſono gratiofe. AR. Vedi che mouimento apporti ſeco questo parlamento, il quale quando l'huomo è riſcaldato s'aſcolta con marauiglia delle genti. Confia Ate anco nella forza delle parole, o nelſuono, onella compoſitione come qui. E già uenia sì per le torbid onde, Vn fracaſſo d'un ſuon pien difpauento, Per cui tremauan' amendue le sponde, Non altramente fatti,che d'un uento: Impetuofo per gli auuerſardori, Chefier la ſeluaſenza alcun rattento Gli ramiſchianta, abbatte, e porta i fiori Dinanzi polucroſo ua superbo e fa fuggir lefiere e gli pastori. ART. Tanto voglio che tu sappia della prsſtezza del dire. Perciò che date medesimo puoi comprendere quanto ilconcorso delle cocali, ore forezza delle aillabe pa lontana da questa forma, esfapere che ogni ina dugio di proferire, ogni raccoglimento, ogni giro, impediſce il mouimento fuo. Resta adunque a dire della forma accostumata, o delle fue parti, la. quale e, che ſi conuiene alle cocoalle persone in tal modo che QUELLO CHE SI CHIAMA DECORO, molJa chiaramente si ueda Et però la detta forma ſota to di ſe IV maniere principali si uede contenere. La I ė la unilta u baſſezza. L'altra II é la piaceuolezza o il diletto. La III e l'acutezza Uprontezza. Et l'ultima IV la moderatezza della oration. Delle quai fore menecessariamente in questa forma si ragiona o convresa, perche cosi porta la natua rade gli huomini,i quali sono ó vili, o riputati, è piaceuoli, o moderati. La bajezze dangue e forma infima, e dimessa del dire, alle roze, o idiote persone convenicnte, à femine, fanciulli non diſdiceuole: da Comici, rie chieſta ouſata pia toſto che da Oratori, o eloquenti buomini,o piu tom Ho nelle cause de priuati, che ne i communiconſigli ricercata, quando uor rai attribuire il parlar a quella persona, cui non sidifdice la baffizza. Cá dono in queſta simplicita di dire i pastori, a quelli che le coſe boſcarecce Man deſcriuendo,o però le sentenze di queſta forma ſono piu baſſe Qumi li, opiùfacili che quelle della purità oſcioltezza del dire. Là onde ala cuni giuramenti ſciocchi à qneſtamaniera ſi confanno. O Calandrino mio dolce, culor del corpo mio, quanto tempo t'ho defide Tatob’dauerti edi poterti tenere a mio fenno.Tu m'hai con le piaccuoa lezza tuațratto il filo delacamicia, tu m'hai aggrattigliato il cuore con la tua ribecca. Può egli eſſer che io titenga? Leggeraila tutta, otutto che in questa formauiſa baſſezza, non è però ela ſenza artificio, percioche per dimoſlrarla pulefe,fi fuole alcuna fista minutamente ogni coſa deſcriuere,u ogni particolarità chia rire, introdurre alcune ſcioccheriſpoſte, ò ſemplici contentioni di coſe, che non rileuano con detti, le ſentenze de quali ſono grandi, ma le parole ſciocche, at rozze. L Cominciò à dire ch'egli era gentilhuomo per procuratore, roy. Begli bauea diſcudi più di milantanouefenza quellich'egli hauea àdarealtri che erano anzi piùche meno e che egliſapeus tale coſe fare; ct dire che domine pure unquanche. ART.. A tuo agio nie leggerai ilrestante,mauedi la contentione: Guatatala un poco in cagneſco per amoreuolezza la riniorchiaua '; ege ella cotale ſaluatichetta, facédo uiſtadi non auederſene andaua pure oltra in contengo. Seguita che tutta ëbaſſa per li giuramenti, per le beffe, con per alcuni rabbuffi, come qui. Vedi bestial buomo che ardiſce, là doue io Pid, parlar prima di me, laſcia dir à me, Et alla reina riuolta diſſe, Madonna, costui mi uuol far. conoſcer la moglie di Sicofanta, ne più ne meno come scio con lei ufata nor, fußi, che mi uuol dar' à uedere chela notte prima che Sicofanta giacque con lei meſſer Mazza entraffe in monte nero per forza,e con ſpargie mento di fangue oio vi dicoche non é ucro,anzi u’entró pacificamente: La deſcrittione del fante di fracipolld;& della fante,ėbaſſa,er propria di queſta formaa alcuni lameti cô parole ufitate et popolari. Dime,oimė Giãnel mio io fon morta,ecco ilmarito mio,chetri fto il faccia Dio,che ſi tornò, « non ſo che queſto ſi uoglia dire. ART. Et alcuni prouerbiemodiſono dimeßi. Et cosi al mododeluillan matto doppo il danno fece il patto, muoia. foldo, oniua amore, e tutta la brigata. ARTE. Dalle fentenze di queſta forma ſipuò far congettura quai parole, ochenumero, oquaichiuſe ad effali conuengonc, Però cheari tificioſamente da ogni artificio lontana offer deue ogni ſua parte, et imie tare la ſemplicità, ogroſſezza delle perſone. Io non uorrci queſtaforma in unpocma grande, o genoroſo; o dubito che per questa ragione da ale cuni ripreſo noſia uno de i piùcarifigliuoli ch'io habbia,ilqualefpeſo per dire ognicoſaminutamente cade in parole baßißime,come quando dife. Vn’amme non faria potuto dirſt, Quero. Etmentre che la giù con l'occhio cerco, o quello che ſegue Trale gambe pendeuan le minuggia La corata parea, e il tristo ſacco. Et il reſto. E non uidi già mai menare ſtregghia A ragazzo aſpettato daſignorfo, Et la doue diſſe che Tencuan bor done alle ſue rime. Md ora al diletto paſſando, dirò, che per diletto de gli aſcoltanti ale cuna uolta l'oratione ad una forma s'inchina la quale tutta e riposta nellä, bautentione delpoeta,però gioconda diletteuole maniera s'addimanda ĝrellache la ſemplice edimeſſa alquanto più rileua ealla fauola, ó fala uoloſa narratione ſi uolge. Là onde leſentenze di questa formafaranno contrarie alla forma della dignità del dire; &però diletteuoli o gior conde ſono quelle, doue ragionano inſieme la Diſcordia, o Gioue, o in quel dialogo d'Amore, oue R dimostra in che guiſa difcendeſſe fra more tali Amore.Sonoanco grate,ga dolci quelle ſentenze chehanno quelle coſe ntinutamente deſcritte, lequali per natura loro hanno onde piacere difense timenti umani, es però la deſcrittione dell'amenißima valle delle Donne a molto grata ad udire. Conſidererai di quanta dolcezzaſia ſtato amaeſtro Simone il ragionaméto di Bruno, quando egli deſcriſſe la brigata, che giudi in corſo,og de i loro follazzi, opiaceri,e delle altre coſe diletteuoli che egli uedeus in udiua. Ma è bene che tu ſappia, come di quelle coſe, che a ſenſi ſono ſottoposte, alcune fono oneste, alcune diſoneste. Le diſor Heiste ſe paleſamentesi ſcuoprono co iloroproprij uocaboli, offender for gliono le caſte orecchie;benche non offendano quelliche nė di dirle, ne di farle R logliono tergognare,maſe con diſcretomodoleggiadramente cura prono la bruttezza loro,non pure non perdono il diletto quando ſono inteſe, ma molto più di ſoauird ſeco recano à gli aſcoltanti: Narra lo amore di due cognatiil poeta ALIGHIERI, o uolendo il finedieſſo quantopiù poteua onestan mente ſcoprir diffe. Quel giorno pia non ui legemmo auante, cioé attena demmo ad altro che à legger quello, che fu cagione del nostro amore, o cosi quá lo l'altro poeta diſſe, Con lei fuß'io da cheparte il ſole. E non ci Medeß'altri che le ſtelle.Ocosi in mille modi ó per le coſe antecedenti, per quelle cheſeguono, eſſendo meno diſoneste,le difoneſtißimèappalefar ft poſſono ne è pocalode dichi ſcriuezin tale occaſione abbattědofi,ſenza offen fione anzi con diletto delle oneſte perſone deſcriuer le coſe meno che oneſte. Intělaſi adunque la coſa, ofuggaſi la bruttezza delle parole,o in queſto modo ſarà foaue, et diletteuole il parlar uoſtro. Alquale gli amori, le bele lezze de i luoghi,igiardinizi prati,i fiori le fontane, la prima uera, le pite ture, o altre coſe piaceuoli aggiungendoſi, ſenzadubbio ſi dimoſtrerà la predetta forma,della quale anco di ſopras é detto aſſai, quando del diletto, della gioia tiragionxi, che naturalinēte inuouc ogni coſa creata. Et cosi ſecondo l'affettione di ciaſcuno ſi porge ſolazzo opiacere col ragionare. L'artificio,et le parole della giocõdità tolteſono dalla primaformadel dire chiamata purità, onettezza. Voglio bene in queſto paſſo,che co più licen zoufigli aggiunti, ſegno e che i pocti loſtudio de' quali è proprio il dilet? tare, allora più dilettano quando più belli; e acconiodatiaggiunti- fono? wfati di porre ne' verſi loro, ecco Leggi. L et Giace nella fommità di Partenio, non'umile monte della pastorale Arct. dia,un diletteuolepiano di ampiezza non molto patioſo,peròche'l ſito del luogo nol conſente ma,di minuta, o uerdisſima, crbetta si ripieno, cbe fe: le lafciue pecorelle congli auidi morſi non uipa fceffero,ui ſi potrebbe dom gni tempo ritrouar merdura. ART. Tutti i principii delle giornateſono à proua fatti per dileta tarc, eperò inshi 13 ziunti uiſono meſcolati come tu potrai uedere. Egli lliſuole anchora interporre de i ucrſi per. dilettare, ma con destro modo, Perciò che non mipareche bence ſtia, che la compoſitionc babbia del uer fo come qui. Cofi detto, et riſposto,e contentato, doppo, un brieue.filentio di ciaſcuno. ART. Ecco che nella proſa ui è il uerlo, ſenza quel propoſito che: io ti diceua, però, biſogna rompere i ucrſi con alcuna parola,eccoti uer: foc, Postbaueafine alſuo ragionamento, madicendo. Pofthauca fine Lau, retta.al ſuo.ragionamento non è più verſo, benche queſto.autore altrowe: non foſſeſchifato dal uerfo, come quando diſſe. Poſcia che molto commendata l'hebbe, Disleale, o spregiuro, e traditore, Etpoi con un ſospir aſſai penſoſo, Luogo moltoſolingo, ofuor. dimano.. Et questi uerſi quanto ſono migliori,tanto più ſono da.cſfer fuggiti nel fic lo della oratione, fenon quando,o per eſſempio, o per autoritade, o per di: letto ſono tolti da poeti. Ora delle figure di questa faperai, che alla gioconda forma, oltra le fi gure che alla purità, Q umiltà. conuengono quelle ancora non disd.cono, che alla bellezza ſi danno, o però le membra pari di ſimili cadimenti le rime, i biſguizzi, itramutamenti; i circoli, le uoci.ſimiglianti, il fingeri: de i nomi ſonofigure di questaforma. Leggi i ſimili cadimenti. Tranquilla lite de'giudicanti ristora.le fettche gucrreggianti, in quel le con le ſeuereleggi de gli huomini, la pisceuolezza della natura,meſcoa. lando a queſti nel mezo de gli nocentisſimi guerreggiantipure, ø inno.. centisfime paci recando. Nellefſempio letto ui troucrai anco la bellezza di contrari, la parità de'membri, perche niente ci uicta,che una ſtela figura da molti lumi ancora illuminata, fi poffa fare illuſtre e luminoſa. Laura, che il ucrde lauro,c l'aurco crine.. Eſcherzo di upci ſimiglianti. Il mormorar dett'onde, bisbiglio, ſpruzza.. reribombo,gracidare, fonoparolefinte,cha con diletto cfprimeno il fatto,  ecco quando colui diffe,Filli, Filli,fonando tutti i calami, parue ueram mente che i calami fuſſono tocchi col fiato di dettopaftore, o quello ſem zafar motto alcuno. Rimafu quella di coſtui che diſſe. Tanto d'intorno à quel più bello, quanto pià de Thumido fenting di quello, Et perpiù adornamento et diletto, diſſe anco. L'acqua laquale alla ſua capacità ſoprabondaua. Et comei falli meritano punitione, Cosi i beneficii meritano guidero: done. Nella rima è pofta. la dolcezza de' Poeti di questa lingua, dallaqual.rima chi ardiſſe ò tentaſje per alcun mododidipartirf, toſto ſi pentirebbe. Le rime più vicine sono più dolci. Qucta licenza del rimare moderatamente Bplglia de prosatori, purche di affettata dilettatione: disoneſto SEGNO non porga. Voglio bene la compositione di questa forma, numerosa e più al verso vicina che l'altre, ma il verso per ogni modo le tolgo. Guarda con che facilità si puo coteſta prosa alla dolcezza del verso ridurre. Leg. Vna fede medeſimatraloro per le menti una fermezza, uno amore in agni faſo, in: ogni tronco, in ogni rina, uede L’AMANTE la faccia dolce delld. Fua belladonna, o ella quella del ſuo ſignore. Ma ora non: voglio che tanto ti piaccia la forma predetta che TRALASCIANDO la dignità, o grandezza del dire, procuri con ogni studio il diletto piacere cheda quella sola procede, Perciò che io non uorrei che alcuna. parte del tuo ragionamento ſenza piacer s’udisse, di che l'ascolta, il qual piacere nasce ancora dalla idea dell'altre forme, o dalle orecchie allo animo, trapassando ogni parte di esso sparge di diletto maraiglioso, perche movendo diletta, o dilettando li movc, INSEGNANDO similmente si moue, o diletta in quanto che lo INSEGNARE il moere, o il dilettare, sono operationi non distinte l'una dall'altra. Mi laſciamo questa quistione ad altro, tempo, o ancora non stiamo troppo in questa forma tutta di altra confladeratione, come quella cbe al Posta grandemente conuenga, al quale pocta. i giuochi, po le cose ridicole ſi confanno, operò di. cße ora non te ne dia 60, e tanto piu adietro di buon cuore ti lascerà questa matcria, quanto di: ſacopioſamente da molti ne è stato scritto, et ragionato. La rifponfione: ad ogni parte è anco figura di diletto. Leggi. La quale ciiba fattinc i corpi delicate, o morbide, negl’animi timide o paurofe, ne le menti benignc, o pietoſe, obacci dute le corporalifora ze leggieri, le uoci piacsuoli, o i mouimenti dei membrifoaui.. Ms or a passiamo all'acutezza del dire, forma inucro egregia e piùalto pensamento che altra meriteuple. Peroche ella contiene le SENTENZA fic, del tuttocontrarioalla umiltà, baffezza dell’ORAZIONE, ej in uero altro dicendo, altro intende. Percioche è dicoſeche hanno in ſeforza,et uds Forela onde lo artificiaė proferire le alte o difficili intentioni pianaměte, o con facilità, e le umili &abictte che paianoalte, o degne: onde i primo modo é, quando fi piglia una parola IN ALTRA SIGNIFICAZIONE CHE NELLA USATA CONSUETA MANIERA ne pcro e meno conuencuole et propriafe gli wiguarda alla forza della voce, che la uſala, conſucta, come qui. Non creda donna Berta oſer Martino Prueden un furar altro offerine. 9. Wedergli dentro al conſiglio diuino. Che quel puo furger,oquel può cadere. C: il  secondo modo e quello cheſi fa non mettendo la parola, douee la berie Starebbe, ilche abufione s'addimanda; come ė à dire allegrezza inſanabile, in luogo di dire allegrezza grandißima. Seguita il terzo modo di porre. una þarola pia uolte'., ma che ſempre ſia ad un modo istefjo pigliata, come dicendo, ſecglimuore, morirà tutto, perche uiuendo non uiue. Vſaſi ancora biquestaforma un altro artificio aljai degno di conſideratione il quale ft fa quando il parlare ſi fa pieno ditraslationi, o per la moltitudine di quelle lifa ogn'horpiùmanifesto. Ee leggi fon, ma chiponmanoad eſſe Nullo, percheil paſtor, che precede i Ruminar può,manon ha l'ugne. foffe, Perche la gente che ſua guida uede Pur à quel bel ferir on fella é ghiotta Di quelfi paſce, opiù oltre non chiede. ART. Et in queſto altro loco ancora Nel mezo del camin di noſtra uita Mi ritrouai in unaſelua oſcura Che la diritta uia craſinarita. ART. Acuti ſono ancora quei rimedij, che uanno quafi medicando le dile rezte delle Tralationi con alcune altre piu chiare, ecco dire il fiato della morte é duratralatione. Ma dire della morte, e ſpigne col ſuo fiato il noe ſtro lume, e acutamente raddolcita la aſprezza fua. O qui.Con altezza di: animo propoſe di calcar la miſeria della fori una.Voglio ancora,che acuto fa ilporre inanzi yliocchi le coſe con bella colligatione di SIGNIFICANTI ßia me parole, Vuoi tu ucdere la celerità del tempo. a Delaurco albergo con l'aurora istanzi E to 1vs K $ siratto ufciua it ſol cinto di raggi, Che detto baureſt',.Apur corcò dianzi. Jo uidi il ghiaccio, e li preſſo la rofa, Quaſi in un tempo il granfreddo, e ilgran caldo. Che pure udendo par mirabil cofa Veggo la fuga del miouiuerpresta. Anzi di tutti, et nel fuggir delſole, La ruina del mondo manifesta Voi tu uedere dipinta la oſcurità. Buio d'inferno, o di notte priuata D'ogni pianeta ſotto pouer ciclo Quant'eſſer puo di nuuol tenebrata: ART. No ſolaměte leparolefanno l'effetto,ma te fllabe, et le lettere steffe Vedi quáte fiate uie replicata la quinta lettera come lēte baſſa,co oſcura. Sotto queſtaforma i beidetti ſi coprendono, et quei mottiurbani, che co dimeſe parole dicono altißime coſe. Là onde alcune ſentēze, la ragione delle quali in effe ſi conticnejacute ſono, o di ſuegliato ingegno ſegnimanifesti. come à dire, le minacce fon arme del minacciato. sēdotu huomo penſa alle coſe humane o offendo mortale nõ hauerl'odio immortale, o quello. Rade volte è ſenza effetto quello che uuole ciaſcuna delle parti. Queſte ſono le parti principali dellaforma ſublime; et acuta,nellealtre haida ſeguitare la purità o eleganza del dire. Ma della Modestia, o Circonfpettione del parlare nel quale conſiſte quanta gratia tuti puoi con gli aſcoltanti acqui Atare,dirò,pregandoti caraméte,che tu uoglia questa ſopra tutte l'altre ele gere, abbracciare,et fauorire in ogni tuo ragionamēto. Modesta è adunque quella forma del dire che le proprie coſe abbaſſando innalza le altrui, o quaſi cede e toglierſi laſcia del ſuo, il che opinione acquista di grābone tade appreſſo chi ode.Le ſentezedi quellafono quelle che dimostrano l'ani mo di chi parla alieno dalle contētioni, il deſiderio di fuggire, o terminar le coteſe, il diſpiacere d'accufar altrui, il poter dimoſtrar maggior peccati dell'auuerfario, nõfarlo,et quello che ſi fafarlo sforzatamēté, ė astretto dalla uerità,o p no laſciar opprimere gl'innocēti,uerfo de'quali, chi dice, A deue dimostrare cõ queſta formaofficiofo, et benigne,comefece coſtui. Leggi. Mi piace condiſcendere a' conſigli de gli huomini, de quai die cendo mi conuerrà far due coſe molto a' miei coſtumi contrarie;luna fia al quanto me commendare o l'altra il biaſmar alquanto altrui,o auilire. ART. Molti huomini eccellenti nelle lodi, che date hanno a i loro cittadini uſati ſono di dire, uoi faceſte, uoi uinceste, mánel dimoſtrare alcana coſa meno che oneſta de' fatti loro,hanno detto per modeftia.Noi perdesſimo, noi malefi portasſimo, noialquanto imprudentemente to gließimo la guerra. A questeſentenzeſi aggiugne l'artificio, ilquale con Rate nel dire di fero delle proprie coſe modeſtamente, con dubitatione facendolegrditamente minori di quello cheſono; eſcuſando per lo contras rio gli auuerfarii,oucro con ragione, conalquanto di timore accufando li, permettendoli alcuna coſa a fuomodoin loro diffeſa pronuntiare,acció sonſi dia ſoſpetto al giudice dioffer contentiofo, et amicodelle liti, in que ſto caſo voglio,che tu uſ parole baſſe, et pure, oquelle che hanno manco forza nelle tue lodijonel biaſimo de gli auuerfari, però quelle figure a questa formaſono accomodate,nellequali con deliberato conſiglio alcuna coſaſ pretermette,quiſando però l'aſcoltante di tale deliberationc. Inbrie ue ti dico, cbe la DISSIMULAZIONE, che ironia s'addimanda, quenga, che ale cuna volta morda cu pungasėperò artificio, o figura di queſta materia,nel laqual alcuni Greci riuſcirono mirabilmente. Lacorrettione, oil giudi cio con timore ſonocolori di questa idea. Come quando ſi dice, S'io nca sn'inganno, s’io non erro, cosi mipare, o fimiglianti modi, i quali quanto più banno del leggiadro, tanto più dilettano, o fanno l'effetto, che ſi ricer 14. La correttione e in quel luogo. Si come prima cagione di queſto peccato, fe peccato é, perciò che io t'accerto. ART. Et la disſimulatione iui. Godi Firenze, poi che ſei si grande. ART. Belmodo e modešto é quando o il biaſimo, o la lote ſi fa dar da una terza perſona, perche meno ha d'innidia il teſtimonio altrui, che'l noftro, operò in queſto Poeta nel dire la origine fua, uedrai modestia ma rauiglioft, Leggi ancora qui. Nobilisfime giouuni, à confolatione delle quai io mi ſono meſſo à cosi lunga fatica io mi creda aiutandomi la diuina gratis ſi come io auiſo, per gli uostri pictofi preghi non gia per i mei mcriti quello compiutamente ha Herfornito, che io nel principio della preſente opera promiſi di douer far. ART. Et il principio della quarta giornata i ripieno di queſti modi. Ma tempo è di ucnire all'ultima forma di queſto ordine, ma prima in die gnità o perfettione,comequella, ſenza la quale niuna delle altre può nel l'animo entrare de gli aſcoltanti, dico della uerità, a laquale benche la moc desta e dimeſſaforma piu che l'altre s'auicinano, niente di meno non è da di Te,che ella debbia dall'altre offer abbandonata, imperoche non è opinione,  òaffetto, che ſenza eſſa indurre ſi poſſa, queſta fa credere che cofiſia, come Adice, questa moſtra l'animo di chiragions, queſta èfrutto diquella uir ta che tùche noi chiamiamo imaginatione, cosi potente nel porre le coſe dinanzid gli occhi,et cosi efficace ad ottenere ogni nostra intenţione. Dimoftrafl adia que l'aniino di chi parla in questo modo, cioè ſenza mezo alcuno rompendo in uno effetto, perche la natura in queſta guiſa ui diſpone chequandoſiete iņuno affetto ſenza altra ragione in quello entrando le dimoſtrate, cosi l'a ra, lo ſdegno, il diſo, il dolore,o ogniaccidente ſi fa paleſe. In ſommaſe je fidate,o diffidate, c teneteſperanza d'alcuna coſa ſe allegrezza uimuoue 'ò noia alcuna, ueracißimi pareranno gli affetti uoftri, ſe da quello che defe derateſenza porui tempo di mezo cominciante. Leggi. Fiamma del ciel si le tue trecce pioua Equi doue il Poeta dimanda aiuto Quando uidi costui nel gran diferto. Miferere di me cridai à lui. A R. Come qui è uitiofo, doue un nụncio corre al palazzo à dan nog ua alla Regina della preſa della città, es ardere etſaccheggiare ogni coſa, o incomincia con lunga narratione,dicendo, id ui dirò diffuſamente il tutto. Ma ritorniamo, hauendo il Porta di mandato aiuto à VIRGILIO più bricue che può gli da notitia diſco perche l'affetto lo pronaua à chiedergli pohc cagione egli ſi trouaſje in quel luo. soſeluaggio,dice. Ma tu perche ritorni à tanta noia? Etfa maggiore il ſuo affetto replia çando, perche non fali il dilettoſo monte. Là onde poiil Poeta pien di mara uiglia di ueder VIRGILIO, non gli riſponde, ma dà loco allo affetto,et dicca Leggi. orſe tu quel VIRGILIO, equella fonte, Che parge di parlar si largo fiume, Ripoſi lui con uergognofa fronte, Et piu ritornando all'effetto di primajo de gli altri poeti onor',e tume. AR. Vedi comele Discordia con Giove adirata in tal modo comincia. Parti Giove,che io, la qualeprodußi, et conſeruo il mondo,degna fia di doc uer’eßer biaſmata da ciaſcaduno. AR. Serbati in questo caſo à dimostrare che inte più uaglia la natur ra,che l'arte, o otterrai la credenza del uero che tu uuoi. Dire con uolubi li parolc é ſegno di uerità, l'infigner d'hauerſi ſcordato, il dimostrare die ſere dall'artificio lontario, o lo ejer dulla ucrità commoſſo, il correggerſ daſeſteſſo, lo cſclamare in alcune parti quafi rapito dal uero, o finalmene, te una diligente traſcuragine, et una traſcurata diligentia può far’apparenza diuero. Ecco quanto bene appare,ola modeftia, ola verità ufar la Discordia, doue dice, Etſel mio eſſere pien di miſeria mi ci rende in diſpetto l'effer Dea (coa me tuſei ) onata al gentilißimo modo delfangue two pieghi il tuo anis mo ad aſcoltarmi benignamente. oRati' stato ilmio minacciare più tos fto fegno di diſperatione, che cagion d'odio è di ſdegno che tu mi debbi portare. AR. Et poco dipoi. Io parlerò Gioueaffine di farti pietoſo alla mia miſeria, non con animo d'effer lodatacome eloquente;muoue il dolor la mia lingua, parte,et diſpone a fuo modo le mie parole, o quale id'l ſento nel core tale,à te uegnia allos recchie, cheſenza offer altramente artificioſa, Oornata, affai ti perſuaderà l'oration mia à dolerti di me,la qualedi tanto nonſon conformeallo affan nocleoue quello continuamente m’afflige,queſta toſto fi finirà, o ad ogni richiesta tua s'interromperà,però che qualunque uolta cofa dirò, che mena zogna ti paia ſon contenta di dichiararla,accioche picciolo error nel prin cipio nonſi faccia grande alla fine: AR. Vedi quanto efficaci ſtenote eſclamationi. O‘Amor quanti, o quali ſono le tue forze: AR. Et là doue dice, o felici anime,alle quali in unmedeſimo di auer re il feruente amore o la mortal uita terminare,o piú felicife inſieme ad uno medeſimoluogo n'antaſte, o felicissimi fe nell'altra uitaſi ama.com toi vi amate; come di qua faceste. Questa eſclamationefa parere la cofa uera, ilfalimento bella, la ſentent za degna,o grande,le parole aſpra, o acerba, oil numero fplendida,o generoſa.Al predetto artificio s'aggiungono le parole conuenienti alle cos feale appre nell'ira, le pure, o le fimplici nella comuniſeratione. Leggi. Ahi dolcißimo albergo di tutti imiei piaceri, maledetta fia la crudeltà di colui checon gli occhi della fronte or mi tifa uedcre. Affai m'ora con quelli dellu mēteriguardarti à ciaſcun’hora.Tu hai il tuo corſo finito, et di tale,come la fortuna tel concedette tiſe ſpacciato.Venuto ſe alla fine,alla quale ciaſcun corre, lasciate hai le miſerie del mondo, o le fatiche. ARTE. Conſidera le parti, le parole, o le figure di questa forma nella effempio ora letto, ote ſimili uſorai nelle occaſioni che ti ucrranno, et uce derai uſcirne opora maraniglioſa. Vodi che cömiferatione ſi truoua in que fe parole. Caro mio signore, fe la tua anima oralcmiclagrimc uede, oniuno i conoſcimento ó sentimento doppo la partita di quella rimane a corpi, rice. dei benignemoute l'ultimo dono di colei, laquale tu uiuendo cotato amasti. Vedi ancora qui la ſomiglianza del ucro grandemente adopraſi in rio fpondere alle coſe,che potriano eſſer dimandate. Andreuccio,io ſuno molto certa, che tu ti marauigli, et delle carezze, le qualiiori.fo.a delle mie lagrime;si come colui chenon miconoſci, o per quentura mai ricordar nonm'udisti, matu udirai toſto coſa, la quale più tifarà forſe marauigliare, si come è ch'io ſia tua ſorella. AR. Eccoti,che con una coſa più incredibile fa parere il falſo eſer aero. Vſafi questo modo nel raccontare,nello amplificar le lodi, ouero i uituperii delle genti,ouero in narrare le coſe fuori dell'ordine naturali, e rare.Con una antiucduta escusatio e,come qui, Carissime Donne à me ſipara dinanzi a doucrmifi far raccontare una uerità, che ba troppopiù di quello che ella fu, dimenzogna ſembianza. ARTE. Vera in ſoiamaè quella formadel dire, nella quale confiderata la natura delle coſe la uarietà de gli affetri, la uſanza del uiucre, con prue denza, riguardo dimostra le coſe fuggendo il coſpetto dello artificio, et però molto leggiadramente fidce procedere nell'accurata, obella forme del dire nella quale più vale il numero etl'artificio, che nell'altre.Sicno dun que gli ſpirtidi questa forma partiper tutto il corpo, accompagnati dal sangue della bellezza, o dal mouimento della celerità del dire, che facila mente si otterrà IL DESIDERATO FINE. Ne gl'affetti grandi, bricui ficno le membra, uiusci le parole, nel resto il giudizio di chi parla habbia luogo. Et qui Na il fine delle formc o maniere del dire in quanto che di ciaſcuna partie samente si può dire. Ma non sarà il fine di esse in quanto bisogna sapere il modo di usarle, ed accomodarle NELLA IVILE ORAZIONE. Perciò che colui ne oratore, ne erudito parcrebbe il quale come nouel cfſercitaßcle predette maniere da ſe steſſe ignude, o inconipote, onde l'artefuafi manifestasse, oegli di abomincus de fatietà, e fastidio ricmpicſſe l’orecchie o l’ANIMO dell’ascoltante,  Bella cosa é adunque il meſcolare inſieme le predette forme, o farne una ortima miſtura,dalla quale n'uſcirà l'ottima,o uniuerſale idea della oratio nc; appreſſo la qualeſarà quellà, che mancherà al quanto da quella ottima meſcolanza,cosi di grado in gradofcemundo il terzo,il quarto, o l'ul timo luogo occuperà l'oratore. Della prima operfetta compofitione dela leformeio non ti trouerei per ls uerità chi in questa lingua potefje, pere che gli ſcrittori di efla hanno hauuta ALTRA INTENZIONE, che formarela città M dincica dineſca minicra, ben che per quello ch'io ſtimo, non anderà molto, che alcu noci naſcerà atto a questa grandezza,alla quale più tosto manca la fatie ča,che il modo. Ora in quale forma debbia abondarc L’ELOQUENZA fa peraiz per che la chiarezza, LA VERITA, quella che accostumata ſi chiama, fono le forme principali di tutta la manicra ciuile. Dapoi appresso io amerei la celerità del dire con quelle forme poi,che alla grandezzafi danno, tra le quali io eleggerei la comprenſione. Le altre ueramente ſecondo il tempo; er la occafione reggendomi abbraccerei con quella ſcelta, con quella di fcretione che uolentieri,ut non isforzate păreſſero ucnire riel parlar mio Ben'è uero, che molte ſono le intentioni de gli huomini, e quelle con dilia genza offer dcono confiderate. Chi uuole de i ſecreti di natura parlare, bo delle cose morali dee abondare in grandezza senza alcuno volubile movimeto. Chi veramente cerca narrare i fatti de mortali, come si fa nella storia, elleggerà la schiettezza, o eleganza, nella quale è riposto l'ordine delle co fe,cu dei tempi, a riguarderà primai conſigli, ale deliberationi, poi le attioni, o i fatti, o finalmente gli auenimentio fucceßi. Nei conſigli di moſtrerà quelloche deue cffer lodato,o quello che merita biaſimo nelle at tioni,i fatti,ole parole, il modo, il fine. Et ne ifucceßi dimostrerà ció the alla uirtù,o ciò che alla fortunafi deve attribuire. Chi ne ifenati uud l'esprimere la forza dell’eloquenza, perche il peſo delle cose sară poſto fore. pra lepalle di chiragiona, biſogna abondare in grandezza,o dignità, di mostrar cura openſamento, il che non uale ne i giudicij, ſe non ſono di coi. Le graui, aimportanti, perche in eſſe più fimplicità, baſſezzaſi ricerca, eſſendo quegli per lo più di coſe edi buomini priuati. Nel difendere, ale fai uale la forma accoſtumata, obalfa, ſe non quando arditamente il fatto Rinega. Poco ancora ui ſi vedrà di uolubile, o presto mouimento. Ma non. cosi nello accuſare,douc oajpro, uecmente,o uiuo cſer dee l'accusatore. Chi lola. fi dee dare alla bellezza, o al diletto, o apprezzare lo fplene dore fenza ucсmenza, o celerità. Et in brieuc, biſogna aprir gli occhi; eje nello imitare i dotti,o eccclenti uomini si richiede conſiderare; di che for ma eßt ſieno più abondanti,o di che meno; accioche ſapendoper qual caz glorie eß istatilicno tali,ancora non ſia tolto il potere à gli studioſi di ace coſtarſi loro, o aguagliarli,o le poßibilc é, che pureé paßibile al modo già detto di ſuperargli. Et chi.pure non uoleſſe la fatica,poteße almeno giudicare i loro fecreti. Molti, o minuti ſono i precetti d'intorno a questo offercitio,maio non uoglio più affaticarmi, effendo quegli in molti,o gran di uolumi ordinatamente riposti, oltra che il nostro dicorso à niuno può parere terc imperfitto, quando egli voglia la nostra INTENZIONE riguardare, la quale è stata di fare i fondamenti dell’ELOQUENZA, avvertire di quanta cognizione esser debbia chi à quella si dona; sopra i quali fondamenti sono fordate l'articelle de' maestri, o gl’esercitij de' giovanetti. Baſtiti, oDinardo, che tu sia giunto là, doue di giugnere desideravi, o che tu habbi veduto un circolo della tanto desiderata cognizione. Però che dalle parti dell'ANIMA incominciasti,o in esse sei ritornato, havendo il corso tuo sopra di natura, ci sopra di me fornito, come sopra due rote di quel carro, che per lo aperto cielo ti condurrà vittorioso, o trionfante. Daniele Matteo Alvise Barbaro. Daniele Barbaro. Keywords: archittetura, palladio, prospettiva, retorica, ordine cronologico: Ermolao Barbaro il vecchio – Ermolao Barbaro il giovane – Daniele Barbaro – Temisto, index nominorum, interpretazione e commentario di Barbaro sul commentario di Tesmisto sull’analitica posteriora – manoscritto, Bologna. Manoscritto delle ‘Adnotationes ad analyticos priores’ – commentario diretto su Aristoele e no via Temisto – Villa Barbaro – lezione privati di Barbaro sull’organon di Aristotele – analytica priora e analytica posteriora, non al studio GENERALE, ma alla sua propria villa!. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library. Barbaro.

 

Luigi Speranza -- Grice e Barbaro:la ragione cnversazionale e l’implicatura convresazionale del vecchio – scuola di Venezia – filosofia veneziana – filosofia veneta -- filosofia italiana – filosofia veneziana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Umanista --. Grice: “As much as Speranza LOVES Daniele Barbaro, I prefer Ermolao Barbaro; after all, he was his uncle – I mean, Ermolao was Daniele’s uncle – and therefore HE taught HIM; I mean, Ermolao, as a good philosophical uncle, taught the ‘minor’ (literally, since he was his junior) Barbaro.”  "Some like Barbaro, but Barbaro's MY man." Ermolao Barbaro detto il Vecchio. Umanista e vescovo cattolico italiano.  Sendo stato uomo degnissimo, m'è paruto farne alcuna menzione nel numero di tanti singulari uomini, acciocché la fama di sì degno uomo non perisca (Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV). Ancora bambino comincia a studiare lettere conVeronese, e il successo di quest'accoppiata allievo-maestro fu tale che tradusse in latino le favole d’Esopo. Fece poi i suoi studi universitari a Padova dove si laurea. Successivamente si trasfee a Roma dove entrò al servizio della cancelleria papale. La sua carriera nella curia romana fu così fulminea che Eugenio IV lo nomina protonotario apostolico e gli concesse la diocesi di Treviso. Il rapporto con il pontefice, però, si interruppe bruscamente quando, dopo che gli era stata promessa la nomina a vescovo di Bergamo, il papa assegna il posto a Foscari.  Lascia Roma e viaggiò per l'Italia ma, dopo una serie di peregrinazioni, tornò a lavorare in curia. Si trasfere poi a Verona dove Niccolò V lo designa vescovo e dove si sistemò in pianta stabile, tranne una breve parentesi a Perugia come governatore. Messer Ermolao Barbaro, gentiluomo viniziano, fu fatto vescovo di Verona da papa Eugenio, per le sue virtù. Ebbe notizia di ragione canonica e civile, ed ebbe universale perizia di teologia, e di questi istudi d'umanità; ed ebbe nello scrivere ottimo stile. Fu di buonissimi costumi, e nel tempo di papa Eugenio si ritornò a Verona al suo vescovado, e attese con ogni diligenza alla cura, e vi accrebbe assai e onorò e multiplicò il culto divino. Era umanissimo con ognuno. Ridusse nel suo tempo il vescovado in buonissimo ordine, così nello spirituale come nel temporale. Aveva in casa sua alcuni dotti uomini, in modo che sempre vi si disputava o ragionava di lettere; ed era la sua casa governata, come si richiede una casa d'uno degno prelato. S'egli compose (che credo di sì) non ho notizia alcuna. Compose. Nulla se ne ha alle stampe trattane qualche lettera, ma più opuscoli manoscritti se ne hanno in alcune biblioteche, e fra essi la traduzione della Vita di S. Anastasio scritta da Eusebio di Cesarea. Note  Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed. Barbera-Bianchi, Firenze. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, ed. Firenze, Società storica lombarda, Archivio storico lombardo, ser.4:v.7, L'Umanesimo umbro: Atti del IX Convegno di studi umbri. Gubbio, 2Perugia, Vespasiano da Bisticci, Tiraboschi, cit. pag. 808 Opere (alcune moderne edizioni italiane)  Ermolao Barbaro il Vecchio. Orationes contra poetas. Epistolae. Edizione critica a cura di Giorgio Ronconi.Firenze: Sansoni, Facolta di Magistero dell'Universita di Padova Ermolao Barbaro il Vecchio. Aesopi Fabulae. A cura di Cristina Cocco. Genova: D. AR.FI.CL.ET., Trad. italiana a fronte Hermolao Barbaro seniore interprete. Aesopi fabulae. A cura di Cristina Cocco, Firenze: Sismel-Edizioni del Galluzzo, Il ritorno dei classici nell'umanesimo. Edizione nazionale delle traduzioni dei testi greci in eta umanistica e rinascimentale. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, ed. Firenze, Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri, ed. Barbera-Bianchi, Firenze, 1859. Pio Paschini, Tre illustri prelati del Rinascimento: Ermolao Barbaro, Adriano Castellesi, Giovanni Grimani, Roma, Facultas Theologica Pontificii Athenaei Lateranensis, Emilio Bigi, Ermolao Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 6 luglio 2018. Voci correlate Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti esterniDavid M. Cheney, Ermolao Barbaro il Vecchio, in Catholic Hierarchy. Predecessore Vescovo di Treviso Successore Bishop CoA PioM.svg Lodovico Barbo Marino ContariniPredecessoreVescovo di VeronaSuccessoreBishopCoA PioM.svg Francesco CondulmerGiovanni Michiel · Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Treviso Portale Treviso Venezia Portale Venezia Categorie: Umanisti italianiVescovi cattolici italiani Nati a Venezia Morti a Venezia BarbaroVescovi di TrevisoVescovi di VeronaTraduttori dal greco al latino. Ermolao Barbaro, il vecchio. Keywords: eloquenza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library. Barbaro.

 

Luigi Speranza -- Grice e Barbaro: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazinale del giovane – scuola di Venezia -- filosofia veneziana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Grice; “Very good.”, ermolao – the younger – il giovane, non il vecchio --  "Speranza likes Ermolao Barbaro the Younger, but Ermolao Barbaro The Elder is MY man." -- H.G. Ermolao Barbaro il Giovane. Avea profondamente meditato sopra i doveri che impone il carattere di legato a chi lo sostiene e sopra le avvertenze che devono servirgli di norma nella pratica degli affari, ónde servir con vantaggio il proprio governo e riportare onore anche da quello presso di cui risiede. Ei ne ha indicate le tracce in un pregevolissimo opuscolo  in cui la prudenza apparisce compagna della onestà del candore, ed è venuto a delineare in certa guisa il suo ritratto. Ma lo stesso suo merito fu a lui cagione di grave calamità. Cardinale di Santa Romana Chiesa Hermolaus Barbarus Ritratto di Ermolao Barbaro, opera di Theodor de Bry. Patriarca di Aquileia. Ordinato presbitero. Nominato patriarca da papa Alessandro VI. Consacrato patriarca. Creato cardinal da papa Innocenzo VIII. Ermolao Barbaro detto "Il giovane" -- è stato un umanista, patriarca cattolico e diplomatico italiano, al servizio della Repubblica di Venezia. Comincia l'educazione elementare con il padre Zaccaria Barbaro, politico e diplomatico veneziano, poi in tenerissima età e mandato a Verona dal pro-zio Ermolao Barbaro, vescovo della città e umanista di fama, per studiare lettere latine con Bosso. Per perfezionarsi passa a Roma dove ha come insegnanti prima Leto e poi Gaza. Un cursus studiorum concluso con successo. E laureato poeta, a Verona, da Federico III. Segue a Napoli il padre, titolare dell'ambasciata veneziana, e proprio nella città partenopea scrive la sua prima opera ovvero il “De Caelibatu”.  Traduce tutto Temistio, pubblicato poi, in parafrasi. Tornato in Veneto consegue a Padova il dottorato in arti e quello in diritto civile e canonico. Subito dopo fu nominato titolare della cattedra di etica. Come professore insegna soprattutto sulla Nicomachea di Aristotele, mettendo in guardia i suoi studenti dalle traduzioni in latino di Aristotele e predicando il ritorno alla traduzione diretta dal greco, proprio come face lui. Sono infatti di quegli anni i commentari all'Etica e alla Politica e la traduzione della Retorica. Abbandonato l'insegnamento  accompagna nuovamente il padre in missione diplomatica a Roma. E promosso senatore della Repubblica di Venezia e ma stavolta in veste ufficiale, si reca a Milano con il padre per una nuova ambasceria. Il primo incarico diplomatico arriva quando, insieme a Trevisano, rappresenta a Bruges la Serenissima in occasione dei festeggiamenti per l'incoronazione a ‘re dei romani’ di Massimiliano d'Asburgo e nell'occasione fu investito cavaliere. Dopo un'esperienza come savio di terraferma, e finalmente nominato ambasciatore residente a Milano dove si accredita e rimane in carica. Venne creato cardinale in pectore d’Innocenzo VIII nel concistoro, ma non venne mai pubblicato. L'ottima gestione della legazione veneziana a Milano, in tempi davvero turbolenti come quelli della reggenza di Ludovico il Moro, gli vale un anno dopo la nomina ad ambasciatore a Roma alla corte d’Innocenzo VIII. Ed e qui che avvenne la catastrofe.  Il giorno dopo la morte del patriarca di Aquileia Marco Barbo, Ermolao erasi recato all'udienza del papa, per fare istanza acciocché fosse differita la nomina del patriarca successore, finché il senato non gli e ne avesse presentato, secondo il consueto, la nomina. Ma il papa, senza punto badare a cotesta istanza, nomina lui appunto in patriarca di Aquileja; aggiungendogli, essere questa grazia una giusta ricompensa al suo sapere ed alla sua virtù. Il Barbaro in sulle prime si rifiutò dall'accettare la dignità, che il pontefice conferivagli; ma quando Innocenzo gli e lo comandò in virtù di santa ubbidienza, si vide costretto a sottomettervisi ed obbedire. Allora il papa sull'istante lo vestì del rocchetto, di cui, per darglielo, si spogliò uno dei cardinali colà presenti; e poscia in pieno concistoro fu preconizzato patriarca di questa Chiesa. La procedura era rigorosamente contraria alle leggi della repubblica che vietavano ai propri ambasciatori, senza la previa autorizzazione del senato, di ricevere incarichi o nomine dai principi presso i quali erano accreditati. Allora, per giustificare la violazione procedurale, il Papa scrisse una lettera al Doge chiedendogli di confermare la nomina, ma il Consiglio dei Dieci, competente in materia, delibera comunque che Barbaro deve rinunciare al patriarcato. Cosa che, dopo un po' di tira e molla, prontamente fa. Scelse, per farla più solenne, la circostanza del giovedì santo alla presenza del papa e di tutto il sacro collegio. Ma il papa non la volle accettare. Né l'obbedienza sua agli ordini del senato basta per anco a giustificarlo. Poco avveduto, non pensa di spedirne a Venezia la stessa sua dimissione al senato, ad onta dell'opposizione del pontefice; mostrandosi dal canto suo per tal guisa fedele ed obbediente alle leggi del suo governo. Più avrebbe inoltre dovuto lasciar Roma e ritornare a Venezia. Ov'egli si fosse regolato così, l'affare avrebbe cangiato di aspetto, e sarebbesi ridotta ad una semplice controversia di giurisdizione tra la corte di Roma e la Repubblica di Venezia. Ma essendo rimasto in quella capitale, ad onta della fatta rinunzia, né avendone dato avviso al senato, egli fu riputato veramente colpevole in faccia alla legge, e perciò costrinse il senato ad usare verso di lui ogni misura di rigore. Come risultato di questo pasticcio fu bandito perennemente dalla repubblica e interdetto da qualsiasi ufficio pubblico e privato. Quanto al patriarcato di Aquileia, tecnicamente, ne rimase titolare ma il senato oltre ad avergli impedito, con l'esilio, di recarvisi fisicamente, ne congelò le rendite patriarcali e nomina Donato in suo vece, anche se la nomina non fu ratificata dal papa. Ne deriva una situazione di stallo, durante la quale la diocesi patriarcale fu amministrata da Valaresso (anche Valleresso), vescovo di Capodistria, con il titolo di Governatore generale. B. rimase a Roma dove decise di dedicarsi a tempo pieno ai suoi studi. Pparticolarmente importanti, oltre alla composizione di Orationes et Carmina in latino e alla pubblicazione delle “Castigationes Plinianae, disputazioni scientifiche sulle imprecisioni e sulle invenzioni della Naturalis historia di PLINIO,  sono l’epistolario filosofico che si scambiò con Poliziano e Pico, che, insieme, costituirono un vero e proprio triumvirato, a que' giorni potente e celebratissimo nelle scienze e nelle lettere. E sventuratamente colto dalla pestilenza che serpeggia nell'agro romano. Giunta a Firenze la nuova del suo pericolo trafisse altamente il cuore dei due suoi celebri amici Poliziano e Pico. Si lagnavano essi che la sua perdita seco involge il destino delle buone lettere, sembrando loro che in un sol uomo pericolasse l'onere delle cose romane. Pico anzi volle tentar di soccorrerlo, inviandogli col mezzo di suo corriere un antidoto ch'ei medesimo componeva e che credeva atto a domare il morbo pestilenziale. Ma quando arriva a Roma l'espresso, era di già passato tra gli estinti. Note  De Legato, recuperato dal cardinal Quirini da un codice della Vaticana e stampato per la prima volta nelle annotazioni alla Deca II della sua Thiara et purpura veneta  Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, Contemporaries of Erasmus, op. cit.91  Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il Trattatista: B. Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida Editori, Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, Bettinelli, cit.219  Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988,67  Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze, Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Venezia, Cappelletti, Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851,12  I secoli della letteratura italiana, Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze  Giuseppe Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Vol. VIII, Venezia  Jacopo Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, 1855 Vittore Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988 Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida Editori, 1999 Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, 2001Thomas Brian Deutscher, Contemporaries of Erasmus: A Biographical Register of the Renaissance and Reformation, University of Toronto Press, 2003 Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Ermolao Barbaro il Giovane Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ermolao Barbaro il Giovane B., su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Ermolao Barbaro il Giovane, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Opere di Ermolao Barbaro il Giovane, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Ermolao Barbaro il Giovane, su Open Library, Internet Archive.David M. Cheney, Ermolao Barbaro il Giovane, in Catholic Hierarchy.Salvador Miranda, BARBARO, iuniore, Ermolao, su fiu.edu – The Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. Ermolao Barbaro, in Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Emilio Bigi, B., in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, PredecessorePatriarca di Aquileia Successore Patriarch Non Cardinal Pio M.svg Marco Barbo Nicolò Donà Biografie Portale Biografie: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biografie Categorie: Umanisti italianiPatriarchi cattolici italiani Diplomatici italiani Nati a Venezia Morti a RomaBarbaroAmbasciatori italianiPatriarchi di AquileiaTraduttori dal greco al latino[altre] Ermolao Barbaro. Keywords: il celibato, lettera a Pico, lettera a Poliziano, traduzione della retorica, commentario all’etica nicomachea, comentario alla politica, retorica ed eloquenza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library. Barbaro.

 

Luigi Speranza -- Grice e Barcellona: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei soggeti e le norme – scuola di Catania -- filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Catania, Sicilia. Grice: “Perhaps my favourite by Barcellona is “I soggetti e le norme” – vide my conversational norms – and ‘soggeto’ of course relates to ‘intersoggetivita,’ a pet concept of Italian phenomenology!” Grice: “Of course, for us British subjects (to the Queen), the idea of ‘soggeti’ cannot quite make sense! But Barcellona’s point is fascinating: the Romans did have the concept of a sub-iectum and an ob-iectum: they like a symmetrical expression formation, too! Barcellona shows that we have to speak of ‘soggetti’ to get intersoggetivita – and then the norma – a very Roman concept, which as J. L. Austin said (following John Austin), does not quite translate as ‘norm’ – “We don’t use ‘norm’ in ordinary language.””  Barcellona shows that it is ‘I soggetti’ i. e. at least a dyad that makes ‘the noi trascendentale’ adding up ‘l’io trascendentale’ with ‘il tu trascendentale’ and ‘l’altro trascendentale’ that we get the norm. Barcellona got to the idea after seeing the French film, ‘l’un et l’autre’!” --  Pietro Barcellona, deputato della Repubblica Italiana LegislatureVIII Gruppo parlamentarePCI Dati generali Partito politicoPartito Comunista Italiano Titolo di studioLaurea in giurisprudenza ProfessioneDocente universitario Pietro Barcellona (Catania ),  filosofo. È stato docente di diritto privato e di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza dell'Catania. È stato membro del Consiglio superiore della magistratura.  Si laurea in Giurisprudenza nel 1959. Nel 1963 consegue la libera docenza in Diritto Civile e insegna a Messina. Dal 1976 al 1979 è componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ha diretto il Centro per la Riforma dello Stato, fondato con Pietro Ingrao.  Nel 1979 è stato eletto deputato nelle file del Partito Comunista Italiano ed è stato membro della commissione giustizia della Camera. A causa della sua formazione teorica materialista, ha suscitato nel  molto scalpore la sua conversione raccontata nel libro Incontro con Gesù. Docente emerito di filosofia del diritto all'Catania. Altre opere: “Diritto privato e processo economico” (Jovene Editore); “L'uso alternativo del diritto, Laterza); “Stato e giuristi tra crisi e riforma, De Donato, Bari); “Stato e mercato tra monopolio e democrazia, De Donato); “La Repubblica in trasformazione. Problemi istituzionali del caso italiano, De Donato); “Oltre lo Stato sociale: economia e politica nella crisi dello Stato keynesiano, De Donato); “I soggetti e l’intersoggetivo della norma” (Giuffrè); “L'individualismo proprietario, Bollati Boringhieri); “L'egoismo maturo e la follia del capitale, Bollati Boringhieri); “Il Capitale come puro spirito: un fantasma si aggira per il mondo, Editori Riuniti); “Il ritorno del legame sociale, Bollati Boringhieri); “Lo spazio della politica. Tecnica e democrazia, Editori Riuniti); “Dallo Stato sociale allo Stato immaginario. Critica della ragione funzionalista (Bollati Boringhieri); “Laicità. Una sfida per il terzo millennio, Argo); “Diritto privato società moderna, Jovene); L'individuo sociale, Costa et Nolan); “Politica e passioni. Proposte per un dibattito, Bollati Boringhieri); “Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Ed. Dedalo); “Quale politica per il Terzo millennio?, Ed. Dedalo); “L'individuo e la comunità” (Edizioni Lavoro); “Le passioni negate. Globalismo e diritti umani, Città Aperta); “Le istituzioni del diritto privato contemporaneo, Jovene); “Tensioni metropolitane, Città Aperta); “I diritti umani tra politica, filosofia e storia, A. Guida); “La strategia dell'anima, Città Aperta); “Diritto senza società. Dal disincanto all'indifferenza, Ed. Dedalo); “Fine della storia e mondo come sistema. Tesi sulla post-modernità, Ed. Dedalo, “Il suicidio dell'Europa. Dalla coscienza infelice all'edonismo cognitivo, Ed. Dedalo); “Critica della ragion laica, Città Aperta); “Diagnosi del presente, Bonanno); “La parola perduta. Tra polis greca e cyberspazio, Ed. Dedalo); “L'epoca del postumano, Città Aperta); “La lotta tra diritto e giustizia, Marietti); “Il furto dell'anima. La narrazione post-umana, Ed. Dedalo); “L'ineludibile questione di Dio, Marietti); “L'oracolo di Delfi e L'isola delle capre, Marietti,  Elogio del discorso inutile. La parola gratuita, Ed. Dedalo); “Viaggio nel Bel Paese. Tra nostalgia e speranza, Città Aperta); “Incontro con Gesù, Marietti); “Declinazioni futuro/passato. Poesie, Prova d'autore, Il sapere affettivo, Diabasis); “Il desiderio impossibile, Prova d'autore”; “Passaggio d'epoca. L'Italia al tempo della crisi, Marietti); La speranza contro la paura, Marietti); “L'occidente tra libertà e tecnica, Saletta dell'Uva); “Parole potere, Castelvecchi,. Sottopelle. La storia, gli affetti, Castelvecchi);  La sfida della modernità, La Scuola,.Barcellona e la pittura Una delle più grandi passioni di B., è stata senza ombra di dubbio la pittura. Comincia a dipingere all'età di 20 anni. Due sue opere si trovano in esposizione permanente presso il "Museo dei Castelli Romani". Un suo quadro fa parte della collezione permanente della Salerniana, Galleria Civica d'Arte Contemporanea "Giuseppe Perricone". Vanta diverse personali:  1959"Mostra Città di Catania"; "Galleria Arte Club" di Catania, con testi critici di Manlio Sgalambro e Salvo Di Stefano; "Galleria Arte Club" di Catania. Espone un nucleo di ventiquattro opere sul tema "La città della donna" con testo critico di Giuseppe Frazzetto; 2002"Tensioni metropolitane" presso "Fondazione Luigi Di Sarro" di Roma; 2002"Galleria Quadrifoglio" di Siracusa; "Fondazione Filiberto Menna" di Salerno; 2003"Mitologia del quotidiano" presso "Galleria La Borgognona" di Roma, con testi in catalogo di Simonetta Lux e Domenico Guzzi; "Contrasti" presso "Galleria Tornabuoni" di Firenze, con testo in catalogo di Fabio Fornaciai e dello stesso Barcellona; 2004"Museo dell'Infiorata" di Genzano; "L'impossibile completezza" presso il "Museo Laboratorio di Arte Contemporanea" di Roma, Patrizia Ferri e Mario de Candia; "Il desiderio impossibile" presso "Le Ciminiere", Sala C2, di Catania, con testo critico di Mario Grasso. Saggi sull'opera di B.  Su B., ovvero, riverberi del meno, Atti del Convegno di Studi su alcune opere di Pietro Barcellona, Mario Grasso. Prova d'Autore,.  154-4 W. Magnoni, Persona e società: linee di etica sociale a partire da alcune provocazioni di Norberto Bobbio, Glossa Edizioni, Milano,  M. De CandiaFerri, B. raccontato dai suoi amici, Gangemi, Greco, Modernità, diritto e legame sociale, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», Pegorin, Emergenza Antropologica. Pietro Barcellona e la lotta in difesa dell’umano Riconoscimenti Il 29 marzo, il Comune di Misterbianco (CT) gli intitola una piazza.  Note  Pietro Barcellona, su Camera VIII legislatura, Parlamento italiano.  "Barcellona: Mi converto, dal Partito Comunista a Gesù. Ragusa News.  l'Unità,  "Pietro Barcellona, Il Piacere di Dipingere"//archiviostorico.unita/cgi-bin/ highlightPdf.cgi?t=ebook& file=/golpdf/uni__05.pdf/ 11CUL31A.PDF&query= Andrea%20 carugati Corriere della Sera. Omaggio a Pietro Barcellona pittore, giurista e filosofo.//archivio storico.corriere/ ebbraio/01/ Omaggio_B._ pittore_giurista .shtml  Inaugurata la piazza intitolata al prof. Pietro Barcellona | Misterbianco. COM. Napolitano: B. fu un protagonista in Italia. Messaggio del Colle ai funerali del giurista, ex parlamentare Pci e membro laico del Csm[collegamento interrotto] articolo pubblicato da La Sicilia, 9 settembre, sito lasicilia. Filosofi italiani del XX secolo Filosofi. Pietro Barcellona. Keywords: i soggeti e le norme, filosofia siciliana, Barcellona, comune di Messina. Conte di Barcellona, lo stato imaginario, i soggeti, l’intersoggetivo della norma, communita intersoggetiva, discorso futilitario, societas, communitas, socius, seguire, ‘follow’, Toennies, communitario, stato keynesiano, stato imaginario, anima smartita, conflitto e cooperazione sociale, anima smarrita, communitas, immunitas, sociale, societas, discorso inutile, Grice, end of conversation, goal of conversation, deutero-esperanto, linguaggio privato, i soggeti, l’intersoggetivo. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barcellona” – The Swimming-Pool Library. Barcellona.

 

Luigi Speranza -- Grice e Barié: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Enea – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “”My favourite of Barié’s is his parody of Apel: “il noi trascendentale”!” -- I like Barié; he commited suicide, which is not that rare among philosophers – same percentage than the general population – cf. Durkheim, “Le suicide: a sociological enquiry,””. Grice: “Barié tried to play with the idea of the transcendental, and he did – he applied it first to “I” (‘l’io trascendentale’). When I wrote my thing on personal identity, I preferred the pronoun ‘someone,’ to stand for ‘I’, ‘thou,’ and the allegedy THIRD ‘person,’ ‘he.’ – Barié has also edited Vico’’scienza nuova,’ and provided a ‘compendium’ of the SYSTEMATIC kind, favoured by some, of the history of philosophy, with sections on ‘roman’ philosophy (“l’epicureanismo romano,” “lo stoicism romano,”) --.”  Grice: “Perhaps the closes Barié  comes to me is in his ‘The concept of the ‘transcendental,’ since I struggled with that in “Prejudices and predilections,” where I feign to think that perhaps ‘transcendental’ is too transcendental an expression and should be replaced by ‘metaphysical,’ but my tutee, Sir Peter, being more of a Bariéian, disagreed wholeheartedly!” – Grice: “I cherish Apel’s comment on Barié: “Surely, if we are going to have ‘l’io trascendentale,’ we need at least ‘l’altro trascendentale,’ or as I prefer ‘il tu trascendentale.’” Partendo da posizioni kantiane pervenne a una posizione da lui stesso definita neotrascendentalismo, scuola di pensiero di cui fu il fondatore. Si avviò agli studi di diritto che concluse solo a seguito del primo conflitto mondiale, che lo vide impegnato inizialmente come ufficiale di cavalleria e poi come aviatore. Ottenne la laurea in filosofia.  Inizialmente attestato su posizioni kantiane (La dottrina matematica di Kant nell'interpretazione dei matematici moderni, e La posizione gnoseologica della matematica), nel corso del suo progredire intellettuale Barié perviene a una posizione filosofica critica nei confronti della dottrina kantiana. Di questo passaggio è emblematica l'opera Oltre la Critica, che mette in luce le difficoltà della dottrina precedentemente sostenuta.  Il periodo metafisico Oltre la critica segna il punto di svolta dell'attività filosofico-intellettuale di B., che comincia a sviluppare un interesse metafisico, forse dovuto all'influenza di Piero Martinetti, del quale era stato allievo. In questo senso il filosofo, nel suo primo approccio alla metafisica, si pone su un binario che era già stato di Spinoza, salvo poi rendersi conto del fatto che anche la posizione spinoziana è in realtà insufficiente per tentare di risolvere il dilemma della relazione essere-pensiero. Si ha quindi l'approdo di B. al pensiero leibniziano, testimoniato di La spiritualità dell'essere e Leibniz.  L'approdo al neotrascendentalismo e Il Pensiero Libero docente, ottiene la cattedra universitaria, spostandosi di conseguenza a Genova, Roma e infine Milano, nella cui università succede al suo maestro Martinetti nella cattedra di filosofia teoretica. Consapevole del fatto che, per quanto superata, la lezione antidogmatica di Kant non poteva essere completamente ignorata, Barié inizia una profonda revisione del proprio sistema teoretico che lo porta a diminuire drasticamente le sue pubblicazioni (di questo periodo sono il Compendio sistematico di storia della filosofia, e Descartes) e che culmina con la pubblicazione de L'io trascendentale. Fonda l'istituto di filosofia dell'Milano con lo scopo di renderlo centro propulsivo di una discussione filosofico-culturale con le realtà filosofiche del tempo che si sarebbero confrontate con la nuova visione di B., adesso orientato verso una concezione di filosofia come metafisica, ossia di metafisica quale causa della realtà sensibile e del pensiero. Con lo stesso scopo nacque la rivista Il Pensiero. Altre opere: “La posizione gnoseologica della matematica – e dell’arimmetica in particolare” 7 + 5 = 12” (Torino, Bocca); “Oltre la critica della ragione e del giudizio, il criticismo (Milano, Libreria editrice lombarda); “Spirito e anima: La spiritualità dell'essere e Leibniz” (Padova, MILANI); “Compendio sistematico di storia della filosofia con particolare attenzione alla filosofia romana sino Cicerone” (Torino, Paravia); “L'io trascendentale non-psicologico” (Milano-Messina, G. Principato); “Il concetto trascendentale” “Il trascendentale” (Milano, Veronelli. Atti del Congresso Internazionale di Filosofia, Napoli, riproduzione fotografica (da Opa lLibri antichi  riproduzione fotografica. Assael, Giovanni Emanuele Bariè, Milano, CUEM, Assael, "Il neotrascendentalismo di B.", in Rivista di Storia della Filosofia; Assael, Alle origini della scuola di Milano: Martinetti, B., Banfi, Guerini e associati, Milano, Milano Accademia scientifico-letteraria di Milano Università degli Studi di Milano Scuola di Milano  Giovanni Emanuele Barié, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Emanuele Barié, su sapere, De Agostini.B., in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere  B., su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Filosofia Università  Università. Giovanni Emanuele Barié. Keywords: Enea, lo stoicism romano, Enea, eroe romano, eroe stoico, Catone, il noi trascendentale, vico, storia vichiana, arimmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barié” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Baricelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di San Marco dei Cavoti – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (San Marco dei Cavoti). Filosofo italiano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. San Marco dei Cavoti, Benevento, Campania. Grice: “Italian philosophers can be eccentric; Baricelli started commenting Plato but his masterpiece is a philosophical tract on sweat, as experienced by the athletes Plato was familiar with!” Filosofo, medico, e chimico, di fama italiana ed europea, Giulio Cesare B. è da molti, pure erroneamente, ritenuto originario di Benevento o di San Marco Argentano in Calabria.  Erudito e studioso di poliedriche attitudini e capacità, studia medicina. S’interessa di filosofia tanto che è autore di commenti alle opere dell’ACCADEMIA. Publica De hydronosa natura sive de sudore umani corporis, sulla natura e la terapia della sudorazione umana, e scrive l’Hortulus genialis, edito a Colonia e Ginevra, ove raccolse antidoti e sudi sulle intossicazioni. Da alle stampe il Thesaurus secretorum, in cui sono elencate le cure ed i rimedi per svariate malattie e problematiche quotidiane. Pubblica un trattato sull'uso del siero del latte e del burro come medicamento, intitolato De lactis, seri, butyri facultatibus et usu. Gl’è conferita la cittadinanza beneventana. Cultore di studi umanistici B. scrive anche alcuni epigrammi latini. Muore in Benevento. A San Marco dei Cavoti, gli venneno intitolati un circolo ricreativo, la scuola, ed la strada ove si trova l'abitazione in cui vive, già denominata Via Pastocchia, che ospita anche un monumento in suo onore, opera di Calandro A proposito dell'intitolazione della scuola, su espressa richiesta dell'allora commissario prefettizio Jelardi, l'insigne storico Zazo propone la seguente epigrafe che ne riassume le doti i meriti:  A B. CHE DEL RINASCIMENTO HA LO SPRITO INFORMATORE E LA VASTA ATTIVITÀ PROFUSE NELLE SPECULAZIONI FILOSOFICHE IL COMUNE DI SAN MARCO DEI CAVOTI A RICORDO ED INCITAMENTO PER LE GENERAZIONI CHE IN QUESTA SCUOLA SI EDUCANO NEL FERVORE E NELLA FEDE DEI NUOVI GRANDI, AUSPICATI DESTINI DELLA PATRIA. Zazo, Dizionario bio-bibliografico del Sannio, Napoli, Fuschetto, B., Jelardi, Dizionario biografico dei Sammarchesi, Benevento. nis Hortuli Genialise RERVM MEMORABILIVM, QVÆ IN HORTVLO Geniali continentur elenchus. A Beſton accenfus, perpetuòarder. A cos. poribus effe &tus procreari. Admirandumauxiliuin advefica calculum, qwo abſque inciſione diffoluitur de expurgator Alapides renum vefica frangendos mirabile remedium Ammantium lac ab alimentis recipere qualita tem. Agricola nonſemel tempeftates e Serenitates pre dicunt. Abſyntbiumroborat ventry Abfynthij Romani mira Abſalonformararus. Acorescapitis bufonefanartit Achatis lapidismirabilis Acetum ad i &tus venenosov Acetiſcyllitici miraoperato Adam eratſapiennriſsimus Aegyptiſ in annimenfura Aegyptiorum opinio de elementis. Isbe Aepyptij in morborum -Chrafacileadiguem recara Aemorrhagia (electumprefidiuna Aegypti hierogliphicis vacabant Aegyptiorumarcana ait quartanam Aegyptijregesopera magnifica do admiranda an. Liquitus conftruxiffe.zi. Aegye MONACENSIS. REGLA BIBLIOTHECA Tunt. Aegyptiorum in condiendis corporibus obferuatio. Levis ſalubritatem ad vite produktionem maxå moperè videmusconducere Aegyptiorum Auditim ir lapidis á vefsica extra Sione Aegyptij quomodoignea prefidia component Aerisnatura quomodo nofcatur Afflictionem tribuere intellettum. Agricolafilicibus in horreis cur vtantur Agricola cwufdam interitus. Alexandri mors.quo veneno fuexit caufata Alexandri ſudoredolens. Alexandri uder.fanguineus. Alexandri magnanimitas in ftudiofos Amazones mammas dextras ſecabant. Amoris originis controuerfia Amantes surfacile irafcantur Ambarum vi ebrietatemfaciat Animalia quadam Arni tempora pradicero. An transformatio realis detur. An animal in igne viuere poſsie Anni computum diuerfimode fa &tum Animalia ex putri materia non ſemper extitiffe. Anicularum quarundam facinona. Antimony in vitrum redu et io. Anuli Bubali ad gramphum vtiles Anularis digitus cordi amicus Antora napello inimiciſsima Anginaprafocatina vt compefcatur Animalia a vteerikus Dis dicata, Anguil Anguillarum cum Aquilone affe &tus Animantiumcobur à cominé oritur. Anni climacterici quales. Annibalisſtratagema in boftes. Anniprefagia à quercus galiis: Ancitodorum aliquor obferuationes A priteftium virtus mirabilis Apri ægrotantes hederam quarunt. Api efum infauftum veteribus Apri dentes adanginan dompleuritidem vtiles Apes imminente pluuia adalucaria redeunt Apiumri usherbafcelerata; Apum mirabilisſagacitasdan officium Aqua mirabilis ad viſusdefectum Aquilinumlapidem partum accelerare, 126 Aquafrigidaqualiter apparetur. Arcades qualiter annum computabant Archelai Regis in populos immanitasi go Arboris ficusmirabilisnatura: Arietislingualantium ostendit. Araneorum reła in medicina vfurpata Arbores quandoquein lapides mutate Artemiſia quando in radicibus carbonem producati Articulares dolores quomodo curentur. Archelaus Rexaſtronomie ignarus Ariſtotelis opinio demularum ortu. Ariftotelis rerum indagator, Ariſtolochia piſces ftupidosfacit. Archelaus turrim incombuſtibilem fecit: Aſphaltirisla 'usmirabilis natura, Apronomia medicis neceſaria Ararum vomitu humores expurgat. Aparagor um 2u corporis nitorem producit. Afphespropè halico ibum fiupidi Aſparagi vi mirabiliter erefcant Ap.dum natura qualis. Athenien esfacerdotes cicutam comedebant Atrila canis instarlatrabat Athenienfium ura erga fiicos Aues vfu Taxi nigra fiunt. Auri vfus in medicina Aufonij locus de mecha uxore Afilici odor vermesgignis Bafilijanhabitat pelicudinibm Aphrice Ibid. Bafilifcum haudàgallo excludi. Bardana mira vis in affe& u uteri. Bituminis vis in hiſterica paſs. Braſsica, dorura fimul fatahereunt. Bruta aliquot lafciuiffe in fominas, Bryonia mira virtus in affe&tu-matricis. Braſsica fuccus contra ibrietatem. Britânnurum præfidium in furiofos. Bubuloftercore colicam,anari. Bufonis lapis cóntra vinena. Bufonis.mira propriet as in Aſcite. Arnes dura utfiant teneriores. Canes.obmutefcunt vmbra Hyena. Capramaximè epilepſia tentatur, Capillorum defluussm laudano curare Cani Canicula exortum à veteribus previſum, Carnes cocta,quomodo crude videantur Canes fabrorum exiguos habent lienes Cancri vini quomodo co &tifimulentur Capre in luftinis montibuseuomunt Capilli noftri plantis affimilantur Caftratilienem, dan vitella ouorum deglutire ne. queunt. Cauſtica remedia,qualia adftrumas Caryophillgte vis adcorporismacular Caftorei teftespropèrenes adeffe Caminus quo fumum non emittet, Calphurnius beftia uxores dormientes necabat.Catelli membrorum dolores confopiunt, Cacodamonem mali nnncijpraſagiumattuliffe Calendula folis amica.  Capiuacceiopinio de menftruofanguine Cantharidum mira vis nocendi Carthaginienfium prefidium ad deftillationes in. fantium. Cati.cerebrum hominesdementat. Cornilacrymaſworesſuſcitat, Corui renouantnr eſos ferpenris Cervi carnes ad vita produftionen Cepamab Hyppocrate deteftari Ceruorum vita longiſsima Cerius Alatus Francorum inſignie Cerninum penem.conceptum facere. Ceraforum aqua epilecticis vtiliſsima Chamedrij mira vis ad lienofos Chalcanti vfus quidoperetur Chymici forebantapud veteres: Cibm Chuslapidus quomodo apparetur. Cicutam uterinum furorem domare Cicuta virginum mammas detumat Cynorrhodi radix ad hydrophobiam Cyminum hominibupallorem inducere. Cyprinorum vfuspodlagricis infeftus Cyprini officulü caluarisad spilefiä mirabile Clarorum virorumexitus. Lorui morientiúm fæditatem fentiunt Colicu dolor quomodofanetur  Collegium veterum pro tuendaſanitate Cotoneorumfeminaadcombufta Confedtio fenibuspraftantiſſima Corpusutglabrum reddipofit Corpora venenatá vtnofcantur. Coralline vis adlumbricos Corniplanta hydrophobiam ſuſcitat Consensus de disensus animantium Corneliu Celji valetudinis precepta. Creationis mundi opiniones. 10 Croci metallorum.compofitio.:  Crinesmulierum qua via denfiores fiant Cupreff folia Strumas auferre. Cur fit vtquis clauos vomere videatur. Cucumeres oleum abborrent. Cur quiti impronisè moriantur. D. Ature flores Defunium capillorum ab hydrargiro, Demoris afturia apud indos. IS Democrittfedulitas in olei caritare. Demofthenes quomodocuraffet lingue impedimen Denti Dentium dolores bufonis tibia janari:  Dentium ftupor àportulacaremouetur Dentium dolores paſtinaca marina radio conquieſterr Defipientia mulieribus familiaris, Digiti annularis ſympathia. E. EBura quoartificiocolorentur. Ebriy variafufcipiunt deliria Echini ſagacitas in ventorum mutationibus Elephantte in fæminam mirusamor Empiricorumremedi4periculofa Epistola quomodo in ouo celetur Equam grauidam marem admittere. Equagrauida fomas occiditur,abortit Equorum teftes ad ſecundas depellendas praftan. tiſsimi. Equusphaleris accinctus acrior. fot. Asies rugata quomodo emendentur. Faciem hominis diuerfimode alterari Familia in Creta mire faſcinatrices Faces ardentes ex Betula corticibus Fætor extin &ta lucerna grauidisperniciofu Febricitantium fitis qualiter compefcatur Febrem à quodum pifceillico exitari. Fæmina aliquot inrares mutate,, Fæmina pruritu corripiuntur in pudendis in prima menftriornm eruptione. -Fæcula Brionie in affecte vteri Feniculorum femina aliquando exitialia Filij Filij â parentibus figna recipiunt. Ficorum efumfudoremparerefætidum  Filices ab agris qualiter exterminentur. Flores in Aegypto fine odore. Flamma quomodo in aqua excitetur. Fluuij aliquot mirabilis natura. Fructum vinearum, iumentorumg interitus pre ſagium Ferarum natura in hominibus mirum in modum deft. 8a Fons mirabilis apud Garamantes. Frigida post pharmacü exhihita, felici fucceffu Fraxinum ferpentibus inimicum: Furiofi in pleniluno,magis infaniunt. Futi vulnera quomodo curentur. Fungi ubi in lapides mutentur.  fumus hydrargiri quid efficiat Galenu,Medicorum princeps Aline appenfo milui capite furisunt. Galega, defcordij vis contra peftem. Gallinarum.stercus adfungorum viru.  Gallinarum adeps quomodo diu ſeruetw Gallina quomodofæcunda fiant. Gentium.don populorum ingenia. Germanorum mos circa coitum. Gigantes quando in orbe fuerint, Gymnofophifta apud Indos mirabiles. Grauidationis muliersus affertio.Grauida mulieres marein admittunt. Grauida conceptü quomodo valeant occisltare. Grauidaaliquando fætupariuntfine vnguibus. Gra  Greuide mulieres curpallida. Greci de Iudeorum monumentis nihiladduxe  H. Auftulus aqua matutinus falubris. Heclaignis aqua nutritur Hemicrania Gagate fubmouetur.  Homicrania à carduo benedi&to fanythr. Herfetes ceroro tabacci coufanari. Hellebori nigti ele&tio in Anticris. Hederam cumvino habere diſcordiam Hemorrboidailisherbe mira virtus, Hellebori nigriextra et nm.  Hybernie miraaerisſalubritas, Hidropsà viridi lacerto confanata Hydrophobosè poto catuli congulo aquam illico ap petere. Hippocratis opinio de balbisdefe&tiua, Hydrargiri minera quomodo reperiatur. Hyppiatriquo studioftellas albas in equorum fu cis confingant Hydrophobia rara dicuffion  Hydrargiri mira natura..Hydrargirum remedium eft advermes. Hydrargirum utilead celidolorem Hydrargirumremedium in pofte. Hydrargirum defluuium capillorum facere. Hominis vite longitudinis breuitatis figna, Homo repertus mira vaftitatis. Hominumcur aliquotfubtilioris, vel graffiorisin. genijfiant.  Homines Principis vitam imitantur. Horai. Homines inuenti miragracilitatis.  Hominis compofitionismirabilia Hominesquomodo fiant abfemy.  Hominum corpora olim vafta Ibis in degyptofolum moratur, Ignispraſidra admorbos fele &ta.  Infantes à quibusnutricibm ladandi. Infantis inumbilicum animaduerfio. Indi ante Hiſpanorum tranfitum variolas baud paffi funt. 88 Infania ex folano fyluatico quomodo emondetur Indus quidam longiffime vite. Infantes eiulareautoladein mammillu, Infantium ruptura ut curentur.  Infantes vipreferuentur ab epilepfie. Infantes ànutricibus mores recipere  Infantis umbilicum conceptum facere.  Inser Lupum eAgnum diſcordia. Inter brafficam, de vitesfympathis.  Iumenta clitellaria fibilo, cantu á laboribus fubleuari Aminas aris& vitrileo extrahi Lapidis ignem redensis compofitio. Lapathiam camas duras,teneruofacit, Lacerta apudIndosmira magnitudinis, Lu,fanguisaliquandopluers viſs. Lepusannis decemviueredicitur. Letargicos à Satureia vigiles fieri. Leonardi vatri de partu opinio.  Leones Leones aftatttertianam patiuntur.  Leporumnonomnes hermaphrodui, Leo timet Gallung. ISO Linteaapud Indos igne depurari, Littera aurei coloris quomodofiant: Lignum èviſco Latum diſcutita Lienem adcorporis turpitudinem valere Lolium praun inducit ſyptomata.  Lolij nocumenta Aceto fanari. Ibid. Lups afpe&tu homines obmuteſcunt. Irupi pauci reperiuntur,ones autem multa Zapi quomodo ouibus nacere nequeant., Lumaca lapispartum accelerat Ludi in conuinijsfeftiuiquales, Lupi,canes, doFeles ut curentur,  Lupi in fenio ſerpentesin renibus generant.  Luna confinusad inferiora, mirabilis.  Lue gallica canis infeftus Lumbricosquandoquegenerari virulentos  MAmirimum vitulum àfulmine non ladi, izg Aris yubri admiranda: Maleficas artesir Septentr. exerceri  Mascitius, quàm fæmina animatur, Maritimarumtempestatumprafagia Maculanigre in morbisquid portendant. Mădragoravitibus infundit vim ſoporiferam: Mares in mammillisſapè Lachabent.. Marina pallinace radiusad dentiumdelores yti lis. Mommarum sum vtero ſympathis Medicinepraktamsia quanta fit.. Menftrualisfanguinis immanita, Medea an fuerit venefica.  Memoriaquo prafidio augeatur. Mercury pojisura in hominūnatiuitatibus, quan tum valeat. Mergorum i anferum proprietas contraHydropho biam.. Mellis vfu vita vtiliffimus. Medicina multa abanimalibus capta. Meſpulilignum ab ab ortu preferuat. Menftrua plerifqs fæminis in fenio. Mirabiles in hominibusproprietates dari. Mithridates inculpatè venena bibebat. Mithridatis antidotum ad venena. Mirafontis inEpgroproprietas, Mille pedum preparatio adcalculos.  Mille folium aduulnera conſolidanda. Morborum prauorum natura, Morus planta prudentiffima. Morfusquidam à cane rabido latrauit.  Mors inArthritide quandofuccedat.  Mures futurorum praſcj. Muftela cur rutam comedat. Multa prafidia ab animalibus homines accepije.Mulierum capilli quomodo in vermes mutentur.zo Monftruofa Dæmonis apparitio. Mulieres pregnantes vt nofcantur. Muftella fanguisadepilepfiam. Mundi creatio.ornatus. Mullus sterilisatem producit. Mulierum pinguedoſuamis. Mutin  Mulieresrarò inebriantur. Mulorumgenuspropagare nequit. Mulieresin. Ponto animalibus.nocentes. N: Natura presidentia in brutis.. Natsuitates.hominum quando ob'eruende Natura arcanaprovira producenda. Neronis crudelitas quoque pads a nutrice wiginem fumpfit. Nero Tapfiam magnificauit. Nereides, Sirene lepe vifa fust: Nili proprietu admiranda Niues rubentes in Armenie. Nodi in vmbilico infantis quid sotentas Nuxairiftica quomodofiat vigore for O Learum fterilitatis preſagium: olei, vini,fegetumquefterilitatis prefagium. olei balneumproconkulfis laudatum. aleun amigdalarum dulcinm advariolarum veftigia probibendu. olea Minerka a yeteribu dicata:  slei cinemani raracampofis.  elina olinarum oleum adunguium pannas. tur. Par Oleum latris colicum affe& um domato  Oleum lixiuio miftum albeſcit. Opthalmia aliquando.folo afpe et u communicar  @ris ulceraquomodofanemtur: Oryalus viſu auriginoſos.sanat.. Orestis cadauer odto cubitorum. fa de corde Cersui.corina uznena.. Oxes capite mouentpluuialmininente. Quesalba ubi nigrefiant.  P Arimdi difficultasquandoqueà curto umbi lco prouenit. Paracelfafalſa opinio dehomunculipartu.Panaritiumqualiter illico fanetur. Parthi, Scytheque quo venenofagittas linjrent.Pestilentitemporeinter precipua præfidia.neris  Aifcatio fummum iudicatur. Papauer agreſte contra pleuritidem, Papauer ſolisfpheraminfequitur, Perfa.aliis coquinas replebant: Pediculicorpora morientium relinquunt Beftem ex occulta antipashia oriti. Penna Ibidis ſerpentes-terret,  Perniones:quomodo fanentur: Phalangii'ueneni opera. Phrensuci cur fortiſsimifint, Phrenetidem exnigro-corallio quiefcere Bhreneticialiquando mirabilia loqui. Pharmacum dare, quando periculofum.  Philomenaà vipera deuoratut. Pifa  Piſces marinifalubres, japidi, Pifiesfrixi quomodo in venenum tranfeunt. Pici mirandulani ingenium;  Picem cum oleo habere colligantiam Pici opinio de fcientiarum varietate  Portulæca foment contra lumbricosa Plurimamèterra furfum rapi iterumque deorfumi cumpluuiis precipitarz.  Polypodijmira viscontra cancrosa Porri caputquomodo augeri pofsit: Potentia imaginatiua in conceptu mirabilis. Planta fimileseffe&tu fimiles, vinute... Pluvia imminentisprofagia. Plumburglans in coli dolorepraffans. Prognoftica tempestatis pluusoſa. Prafodiam mirabile ad calculos Preſedia admiranda inangina. Pfli, do Marfi ferpentibus amici. Pulchritudo, deformitas afpeétuo quid portono. dat. Pulchritudo corporis quo termino confitna. $. Euella à teneris veneno odusara. Pulſus deficientes anfemper mali, Queen Vanium profit neris puritasin peffe.  Wartanarii improuifo rimore fananiky. Mr. Qua via volucrumpennacolorentur. Quartana quomododebellerur. Quibuscorpusflorsfcit,his lien decrefcit. Quo artificio es aduratur.  QuorumdamiAnimalium vitalongitado Quorumdam animalium naturl. Quorumdam homină virtutes, et ornamenta.  quo artificio mares ab. uxoribus. [tyfcipere vales Quo Artificio duriſsimafaxa frangerevaleamus. Quomodo in urdieriſomasexcitari valeamus. mks. R Aneterreftris oleum aditrumas ! Rexbarbarumcidoniatum gravidisfummum medicamentum.  Rerum Sympathiam in aliquot brutis Admirabi. lem effe;. Rută inter alexiteria medicaméta cõnumerari, Rores marini virtus miranda, Ruta mira. vis contra venenum. S jabbarici junijmiraproprietas, Sanguis menftruus quandoque ex oculis velgingi uis excluditur, Salis prunelle virtus,de compofitio. Sartyriam carnofum venerems excitat,flaccidum vero extinguat. Sanguis menstrualisexucis, ſcarabais venenū. Sanguis caninus hydrophobis vtilis. Saliua bominisfcorpionesnecat. Scarabei miraproprietas. Scarabai cornuti vis in febre ciendo. Sciffure laborum.usmanuum remed. Scythe quomodo diuabfque cibo vivant: Berpentesquibus fufficibusarceantur. Sene&tutisincommodah Sepermusinter mafculos meră retinet virtutã. Serpeniums ona, velgenitura in pornfumptaSerpenting gignunt. Singulis quopatto cohibeatar, Socij Diomedis in volucres conneri. Solis confuxm ad inferiora maximus. Solatri potencia contra parafitos.  fomniorsuspreſagia à Deoconcedi. Sodami -Gomorrbi fruétus vari. Solis defe et us quomodo comprehendatur. Spurij robuftiores legitimis fuus Spe& acula veterum vbi celebratamagis. Spuweis epilepticis non femper filo Spatiuwvil e fecundum Acryptias. Stygis Arcadiemortifera natura. Sirumarum mirum remediusa. Strumaper vrisano quandoquepurgalai Sterilituin bomine ytdiriwratur SAMIremedium temporepeffu. Succinum parium mulieris accelerare, Syrupus fpinæ infeftorie ad temelusume. SS SwimeisterSidera calidißima. T. sbacci vw apud Iudos. Talpeoleum ad Aruma. Taurifanguis inter VEREBANwerari. Taurilapillu veſice contracalcules. Taum Philoſopbw famen cabiberet. Ferro lenonia contra ventna. Tbagfia mira vis in facillasi. SO Thappa Thapſia veſsicas, do ademata excitat. Torpedinismira vis in capitis dolores. Trauli,cobalbi,do femilingues unde finns. Tuberum efufrequenti hominescadunt. Aleriane vis contra epilepfiam, V Variola,morbilli affe&tmnoni,  Verruce quomodo extirpentur. Verbena vis in capitis doloresi Verbena virtus contra frumas Vermium in corporibus hominum varia figura 18 periuntur Vermes rubei in cerebro adnati.  Verbafci florss Sole aecedente decidunt, Veterum fepulchra mitèconftrudia Veterum ruditasdo, in foribendovarietas. Vena ſarustella ſpleneticis auxiliatrix Veterum in nuptiisconfuetudo. Veteres equoram lacrymas admirabantur. Venenumà diſsimili extinguigecontra Vermes in cordis.capſula exorti Ventorum mutationes ab Echmo previderi. Vifusacies,in quibus fueritadmiranda. Víres collapſa odoribus reſarciri poffunt. Vitrioli, com fulphurisoleumad vermes. Vipera catellosfuosparit,utnutrit Vipera inter ſerpentes fola parit animal vinã.ibe Viperamorſus Hellebori nigri radicibus fanan. Vinum pro Afthmate ſele&tum Vito longena quomodo apparemme zur. Vina Vina alba quomodo rubra fant, Virginitatismulierum figna. Vitrum quo modo diuidarur. Vinum venenatumquibus profuerit. Vinum à veteribus feminis interdi et um. Vifcum quercinum epilepticis falutare Vitri puluerem calculus comminuere.Vimivſus elephanticis falutaris.Vlcera formicantia quomodo breui fanentur. Vricornu proprietas, bet cognitio. Volatilium, piſciumque fecunditatispreſagia. Vrtica folia ſalutem, vel mortem informi in lotio prefagiunf.  De Medicine praftantia. Edicina decçio demiſla eft: ita Mercurius Trifmegiftus apud Aegyptios ſapientiſsi. profectoad fluxilis natura goltre remedium Deus altiſsimus ho minibus conceſſit; vt fanitatem conſer. uare, &perditam recuperare commodè valeamus. lofa autemà vitæ conftituto termino, et à morte nequaquam viuen. sia omninoliberare; ſedcorpora à cor suptione, et feftinadiſſolutione præfer uarepotius iudicatur. Amazonescur mammasdextras refecauerint. Mazones illæ, tantum à ſcriptori bus celebratæ,propterea fibi má. mas dextras refecari curabant, vt magis A armis gerendis aptæ fierent; vel potius Demannum, et brachiorum impedire tur motus. Mihi zutem Galeni opinio 7. Aphor. 43.ex fententia Hippoc. admo dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua detet.Hocautem à ratione alienum mi. nimèeft, quippe nutrimentum,quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in manum, et brachium immittebatur. Strab. Olearum fterilitatis prefagium. Ergiliarum occultatio, et emerso Sucularum tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeftatémouerit, et vitis, &olei germinationé fuffocabit.Ex hac cauſa Democritus olei præuifa caricate, magna vilitate oliuas in toto co tractu coemit, mirantibus, quipaupertatem, do et rinam, et quietem homini oble et a. mento cffeſciebant: at vt apparuit cau. fa, et ingens dinitiarum acceffio,reftituis mercedem, contentusleita probaffe, 0. pes fibi in promptu eflc cum vellet. Ex Fran, luncino in Sphæra. Do&oris Medici, et Philofophi, Hortulus Genialis. DeMedicinepraffantia. Edicina decçio demifla eft: ita Mercurius Triſmegiſtus apud Aegyptios ſapientiſsi musfcriptum reliquit. Hát profecto ad fluxilis natura noltre remèdium Deus altiſsimus ho minibus conceffit; vt fanitatem confere uare, et perditam recuperare commodè valeamus. lofa autem à vitæ conftituto termino, et à morte nequaquam viuen. sia omnino liberare; fed corpora à cor ruptionc, &feftina diſſolutionepræfer uarepotius iudicatur. Amazones cur mammasdextras refecauerint. AMiszonesilla, tantum àfcriptori.. mas dextras reſccaricurabant,vt magis armis gerendis aptæ fierent; vel potius De manuum, et brachiorum impedire tur motus.Mihi autem Galeni opinio 7. Aphor. 43.exfententia Hippoc. admo. dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua deret.Hocautem à ratione alienum mi. nimé eft, quippe nutrimentum, quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in manum, et brachium immittebatur. Strab. lib.11. Olearum fterilitatis præfagius. Ergiliarum occultatio, et emerGo Sucularum tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeſtatemouerit, et vitis, et olei germinationé fuffocabit. Ex bas cauſa Democritusolei præuifa caritate, magna vilitate oliuas in toto co tracta coemit, mirantibus, quipaupertatem, do et rinam, et quietem homini oble et a mento effe ſciebant: at vt apparuit cau. $ a, et ingens dinitiarum acceffio, reftituit mercedem, contentusleita probaffe, o pes Sbi in promptu effe cumi vellet. Ex Frap, lundino in Sphæra. V  O aqua Nili, Nilifluminisproprietas uædam aquæ reperiuntur, quæ fæ. cunditatem proprietate quadam inducere celebrantur: ita eſt quæ ſua vi nitroſa, vt voluit Seneca 3. Natur. quæſt. natura. fæpè vteros per petua fterilitate occluſos aperuit, et conceptumfecit: Vnde mulieres in AE gypto,vtfcripfit Ariſtot.quinos, et qua ternos frequenrer fætus edunt; ratio non alteri tribuitur, quàm Nili aquæ, quæ illis in potu familiariſlima eſt. De Mundicreatione. N qua Anni parte Müdus à Deo crea tusfuiflet,diſcordes interſe ſcriptores funt, vt Hebræi, Iſmaelitæ, Chaldæi, Arabes,Aegyptij,Græci, et Latini.Mula ti enim in Aeftate, nonnulli in vere,alij verò in Autumno conditum fuifle con tendunt. Moyles fuiſſe in Autumno affe. rere videtur, cum in Geneli dicat, Ger minet terra berbam virentem, &facientem emen, Glignum pomifera faciens fru &tung iuxtágenusfuum.Ex Aegyptijs nonnulli A eſtate creatum afferunt. Inter Latinos Cardinalis Aliacenfis vere nouo condi tum voluit.Inſuper variant,quia Plane tas aliquot afferunt in mundi principio fuiſſe creatos in fuis domibus: Solem ſci licet in Leone, Lunam in Cancro, Martē in Scorpione, Saturnum in Capricorno, Venerem in Libra,Mercurium in Virgi ne, Iouem in Sagittario. Alij, Planetas volunt, in fuis altitudinibus, præter Mercuriú, omnes fuiffe collocatos. Que autem opinio fit verior, D.Thomas 4 fons dif. 2. artic. 8. videnduseft. Murium fagacias. Vres ex ônibus animalbusquo dám do cognofcuntur. Cum enim domus aliqua conſenuit, &ruinam aliquam iamcom minatur, primi ſentiunt; et reli et is fuis cauernis, priſtiniſque fiabitationibus, domum relinquunt, properè fugientes, aliudque domiciliú quærunt. Aelianus de var, hift.lib.z.& Leuisius Lempius do fest. nat. Pluuja Mamodofuturorum præcij effe Pluuioſa tempeftatis Prognoſtics. ' Ergiliarum occafus matutinus, lo nubile Coelo accidat, hyené plu. uiofam denunciat,fi fermo Cælo,alpe ram.Sic Veneris,aut Martis per Pleiades tranfitus aliquot dicbus pluuioſam ciet tempeftarem.Saturnus inſuper cum cor pore, aut radijs ad a &turum accedit, i dem minatur.Ex Plinio,óobferuat.Stadi. Agricola non femel tempeftates, et f renitates predicant. Vltos profe et o cognoui pafto res, plerofquc agricolas, quiin prædicédislerenitatibus, et tépeftatib. magnæ mihi erant admirationi, quare tanquamcnriofus fciſcitabar, qua via, &ordinc hęcſcirent?ratus forfan fimpli ces, &idiotas non poflc tanta certitudi. ne futura prænoſcerc;nifi vel Dei mu. nere, vel Demonisa et uid fieret. Exre latu diuerfas ftellarum conftellationes abijs experientia cognitas, no et u, ani. maduerti:quarüobferuatione vera pre M dicunt. Experti enim ſupt Pleiades in Autumno, quæ in principio no&is ori. untur cum Marte, velVenere mouere tempeftatem. Aréturum non fine gran dine emergere. Hadorum ortum et oc. cafum tempeftatem pluvioſam in regio. nibus noftris prænunciare; et alia, quæ in promptu tales habent, licet alijs no minibus hæc fidera nominent. Quare mirum non eft, priores ftellarum per fcrutatores circa carum prædi& iones multa nobis reliquiffe,cum id ſapientia, et obferuatione perfecerint, quod iam idiotæ fine magiftro facere valent. Valeriana miraviscótra epilephan. leriana ſylueftris, quęlpontènal. citur,præter innumeras, quæ ab au et oribus ei tribuuntur virtutes, hancia diù, in multis, atque in fe ipfo Fabius Columna in bifter, plant. expertam ape suit,vt ſemel,velbis radicis puluerisco chlearij dimidium cumvino,aqualadte, aut alio quouis decétifucco et proggro sicómcditate, et ætate fumptü,epilep Valeri Ga correptos liberet. Extirpatur ante quam caulem edat, et puerisexhibetur, et preſertim infantibus, qui morbo hoc facilè laborant. Retulit auctor ſe multis puerulis lac propinafle; multiſ“; amicis donodediffe: qui deinde diuino prius numine glorificato, puluerehuiusplan tæ illis reftitutá fanitatem affirmarunt. Transformationes hominumin beſtia as noneffe reales. Vædá monſtruoſæ hominü tranſ formationes in beſtias à multis au Storibus fcribuntur; et inter alias, de il la Maga famoſiffima Circe, quæ ſocios Vlysis in deftiasfertur mutaffe: de Ar codibus, qui forte ducti tranſnatabant quoddam ftagnum atq; ibi conuerteba tur in Lupos: de Diomedis ſocijs, qui in voluitres conuerſi ſunt, plurima'addu cunt. Hoc non fabuloſo mendacio,fed hiftorica affirmatione multi confirmat, vt in fpec. natut. Gib. Vincentius Beluacenſis retulit. Aflerunt enim (vt ajtSolinus )velmagiciscantibus, vel her barum veneficio in feras corpora tranſ formari. Dicunt in experimento Neuros populos Aeftatis tempore in lupos mu tari, deinde fpatio, quod his attributun eft exacto, inpriſtinam faciem reuerti, Anautem huiuſmodi trasformatiorea. lis ſit vel illufivè facta àDemone,D.Au guft.lib. 18. de ciuit. Dei ita nodum enu. cleauit: Quod transformationes homi numinbruta animalia,quæ dicuntur ar te Dæmonum faétę,non fuerint fecun dum veritatem; fed folum fecundum apparentiam. Quippe opus hoc tantum Deieft; vt in Concil, lacro A Acyrano fancitum eft. Demonis aftutia apud Indos. Erba, quam Tabacchum appella mus, apud Occidentales Iodos in magno cratpretio.Cum eniminter hos dere graui agebatur, ad Sacerdotemil. lico accedebat,quitotuoegotiúexpone bát. Sacerdos auté corá illis fronde, vel furculum Tabacchiſumebat, qua carbo. nibus inic et ta, fumum peros, et nares ex. cipiebat, et inftar mortuiin terrá cade bat. Paulo poſt conſumptis fumivirto bus in cerebro, reſponsa, ſed ambigua, prout Dæmones perilluſiones, et fimu Jachra fuggefferant, populo dabat;qua tanquam religioſa, et veriſsima cunati recipiebant. Ita profi eto hominum ini. micus Gentiles decipere confueuerat. Monardes de rebus Indicis. Quid Picusdefcientiarum varietate fentiret. CH *Vm quodam die Ioannes Picus Mi Urandula de fcientiarum varierate diſſereret,in Hebrçorú, inquii, Philofo phia, omnia funtveluti quodam numi ne facra, et in maieftate veritatisabdita Ceu prodigia quædam, et arcana myfte sia. In Græcorum veròdifciplinis, in genium, acumen, et omnigena eruditio apparet, vt nulla vnquam gens fuerit, quæ dicendi copia, et ingenij elegancia cam illis poffitconferri.InRomanaved sò Academia, ca ferè omnia, quæad ci. witaté, et vitæ morespertinent, &graui. *, et copiosè funt explicata,ac magni fica ficè diđa. Sic ve grauitas maximè Roo manis, et imperijmaieftas, Grçcisinge nium, &acumen; Hebræis do et rina fe. cretior, et quaſi diuinitasaſiribi poſsit, Crinitus da honeft. diſcipl. lib.g. Subditos, Principis vitam vtpluri. mumimitari Rincipis vitam fubditi maximopere imitantur. Hinc fa et um eft,vt ex Philofophica vita Marci Imperatoris, magnum virorum doctorum prouentu ærasilla tulerit. Solent enim plerumque homines vitam Principis æmulari iux. ta illud Platonis à Tullio in epift.ad Lé tulum reperitü: Quales fum in Republica Principes,sales folers effe cines.Quapropter ex bonitate Principis Marci, plurimila philoſophari finxerunr,vt abeo ditarë. tur. Ex Herodiano, et Xiphilino. Rutam allium ferpentibuset werfari. Vtä odor,allija; ferpentibus max ex teftimonio Ariſtotelis 9.de.biſtor. animal.c. 6. habemus muſtelam, cum dimicatura eft cum ſerpentibus, rutam comedere. Hac etiam ratione ducti Perfæ(auctore Simone Sethi ) coquinas allijs replebāt, vt ipfasà ferpentiú contagio tuerentur. Animaliaoriri, et viuere poſſe in ig ne compertum eft. Agna admiratione dignum eſt illud, quod ab Ariſt. s.de hiftor. animal adducitur; animalia ſcilicet oriri, et viuere in igne,cum elementum hoc omnia comburat: et nullatenus pu treſcat. In Cypro, inquit, infulaærarijs fornacibusvbi, Calcites lapis ingeftus compluribus diebus crematur,beſtiola in medio igne naſcuntur pennatæ,paulo mufcisgrandibus maiores, quæ per igne Saliant, et ambulent. Equidem fià tanto viro hocnon aperiretur; vix credere homincs auderent, cum totum rationi aduerſetur; fed hæc, et alia maiora à po fentiſlimanatura fieri poſſunt, 10 Lacus Lachs Affhaltitis mirabilis natura. Yommemoratione dignum puto Alphaltitis lacus naturam expo nere.Salfus ille quidem,ac ſterilis eft,fed tanta leuitate, vt etiam, quæ grauiſſima ſunt,in eum iacta fluitent:nec quiſquam demergi in profundum ne de induſtria quidemfacilè poſſit.Denique Veſpaſia mus, qui eius viſendica uſa illucaccelle sat, iuſfit quoſdam natandi infcios, vin &is poſt terga manibus, in altum deijci, et euenit omnibus, vt tanquam vi fpiri. tus farſum repulfi, deluper Auitarent. Joſepbas lib. 5.de bello Iudaicri.9. Piſces marinos falubriores, et fapidi. ores efe fluminum piſcibus. lices, tum pidiores, tum falubriores ſunt ijs, qui in fuminibus, ftagnis, lacubus, auc riuulis viuunt.Salfedo enim duriorem facit carnem, et fubtilioris fubftantiæ. Contra in piſcibus, qui ſunt in fiumini bus, &perinde eorú caro excrementitia eſt muccoſa, et infuauis. Vndeapud Co. lumellam extat lepidum didū. Philip pus cum ad Numidam hofpitem deue niſlet, et fibi è vicino fluminelupi for moſum appofitúdeguftaffet,ex puiſſet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ſerpentes, da in vermesmutantMr. ulierum capilli, quibustantopere gaudent, et pro quorum ſtructu ra in exornandis multum conſumunt te. poris,cremáei, ferpentes abigere vifi sūt: fin autem in aquam inijciantur, in ver mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines aqui per tenebras, de per lucem vidiffe. Erum natura opulentiſsima admi ſus aciem,oculoſgue ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè,ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in lomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucer via debat, vtiplede ſe fidem facit Hip port. Go Platon, plac.6.4. At mirabilior erat TiberijCeſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat;de qua re adeo admiratur Tranquillus, vt id pro mira culo ſcribat. Cibus fapidiſsimus quomodo apparetur. Viſapidissimum cibum habere de liderat, Gallinaceos pullos, qui la &te et panis micis laginati lipt, in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque cum palate ineunt gratiam. Andereriam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tum ad gula faporem eſt optimus, et piçlertim iccur. Vnde non mirum L in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ, ſapiditatis, et bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigan eft muccofa, et infuauis.Vndeapud Co. lumellam extat lepidum di& ú. Philip puis cum ad Numidam hofpitem deuc niſlet, et fibi è vicino flumine lupi for mo ſum appofitú deguftafſet,exfpuillet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque,adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ferpentes, do in vermes mutantur. ulierum capilli,quibustantopere gaudent, et pro quorum ſtructu rain exornandis multum confumunt té poris,cremári,ſerpentesabigere vifi sūt: fin autem in aquaminijciantur, in ver. mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines aqui per tenebras, acper lucem vidiffe. REErum natura opulentilsima admi randam fæpiſsimè hominibus vi. ſus aciem,oculoſque ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè, ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in fomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucern vi. debat, vtipfe de ſe fidem facit lib. 7.Hip porr. Platon. plac.6. 4. At mirabilior erat Tiberij Ceſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat; dequa re adeo admiratur Tranquillus, void pro mira culo fcribat. Cibusſapidiſsimus quomodo apparetur. QlideraGallinaceos, pullos,quila &e et panismicis laginatiſipt, in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque cum palato ineunt gratiam. Anderetiam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tumad gulæ faporem eſt optimus, et pięlertim iecur. Vnde non mirum G in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ, ſapiditatis, et bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigantes in orbequando fuerint? G. Igantum foboles paulo ante Dilu (uium apparuit, patet hoc in Geneſi c.6.quando ingreſſi ſunt blijDei ad fili as hominum: poſt autem Diluuium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis c. 3: Deuteronomij) in cibis, et afpectu cæli ad terran habitatam remen humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, et ftaturæ homines ætas illa produ. ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium múdus ifte decli. nauit, et humana corpora cum viribus minorata funt. Adfacies mulierü rugatas ſelectum præfidium. (N gratiam rugatarum mulierum, et quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei abfcondere valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, et cum recentis oui albumine agitatum,ſi dein de ferbuerit in olla,& { patula ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti ſpiſfitudi nem tranſit. Hoc f biduo, vel triduo facies mane et vefperi collinitur, non modò emaculari et erugari, verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani maduertent. Maxima eft folis excellentia, do in hec inferiorainfluxus. Am maximè Homerus Solis natura, et excellentiam admirabatur, vt illú Deorú patré,hominūá; vocauerit. Ipfe enimomniú aftrorú Rex eft, et tempora cuncta moderatur: annos,menfes, et di os diſtinguit, et efficit; nos fua luce læti ficamur, et eiuscalore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, et terræ nafcentia germi. narefacit, et flores redolere. Ipſefruges, producit, fructusmaturat, aerem puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus ex terræ viſceribus mira virtute spitøre facit, Hominųm ipſe, cum ho mine Gigantes in orbequandofuerint? Glucos Igantum foboles paulo ante Dilu (uium apparuit, patet hoc in Genefi c.6.quando ingreſſi funt alij Deiad fili as hominum: poſt autem Diluvium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis 6. 3. Deuteronomy )in cibis, et aſpectu cæliad terran habitatam femen humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, et ftaturæ homines ætas illa produ ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium müdus iſte decli. nauit, et humana corpora cum viribus minorata ſunt. Adfacies mulierürugat asſeleétum præfidium. Ngratiam rugatarum mulierum, et quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei abſcondere valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, et cum recentis oui albumine agitatum, fi dein de ferbuerit in olla, et ſpacula ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti fpiffitudi nem tranfit. Hoc ſi biduo, vel triduo facies mane et vefperi collinitur, non modò emaculæri et erugari, verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani. maduertent. Maxima eft folis excellentia, din hec inferior ainfluxus TO Am maximè Homerus Solis natura, et excellentiam admirabatur, vtillu Deorú patré, hominúý; vocauerit. Ipſe enim omniú aftrorú Rex eft, et tempora cunctamoderatur: annos,menſes, et di es diftinguit, et efficit; nos fua luce læti. ficamur, et eius calore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, et terræ nafcentia germi. nare facit, et flores redolere. Ipſe fruges producit, fructus maturat, aerem puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus ex terræ vifceribus mira virtute qpicere facit, Hominum ipſe, çum ho minegenerat,& tandem quicquid in ter ra oritur, et occidit, corrumpitur &ge neratur, in eius poteftate eft:fic ait Ari ſtot.z.degener.d corrupt. quod propter acceſsú, &receffum Solis in circulo ob liquo,fiuntgenerationes, &corruptio pes. Hæc, et alia tali lideri Creator om. pium largituseft. Falfißimum eft Salamandramin igne viuere pole. B Ariftotelc, et Aeliano,Salaman dram non modò in igne viuere, verum etiam illum extinguere proditú eſt. His ſuffragatur Plinius lib.io.c. 67. qui tantum alleruit Salamandræ rigore elle,vt igné glaciei ad inſtar extinguat, Hi autem famigeratiſſimi viri dormi. tare videntur, cum omnia et comburi, et conſumi ab igne poſle iudicentur, Falſum ergo axioma eſt;breuique fpatio animalillud, antequã comburatur, licet rigidiffimú foret, in igne viuere verifia mile eft.Totú hocexperientia innotuit. Narrat enim Matthiolusin Dia foridisin agro Tridentino,Veris,& Au. Tumpi tempore,maximam Salamandra rum copiam reperiri, fe autem,vtexpe rimentum caperet eius, quodde Sala mandra vulgo fertur, plurimas in igne conieciſſe, fed eas prorſus exarſifle,bre uique penitus eſſeconſumptas. Sabbaticifluuj admirada proprietas. I Nter Arcas, et Raphandas ciuitates (teſtimonio Iofephi.7.de bel. Iudaico ) regni Agrippę, Sabbaticus fluuius repe ritur, ita à leptimo die, quem ludzire ligiosè colunt, appellatus. Hic copiofus fluit, nec meatu ſegniseſt, mirabilemg; naturam obtinuit, liquidem interpofitis lex diebusà fonte luo deficit,audumq; et ficcum alueum relinquit. Quod auté mirabilius eft, nulla mutatione facta ſeptimo die fimilis exoritur, talemque continuo ordinem obferuare pro certo ab omnibus cognitum eft. Quam fitexitiofumpro lattandisine Fantibus vitioſas eligerenutrices. Vtrices pro lactádis puerulis ma lis moribus imbutas, vitiofas, in. B eptas, crudeles vel ſuperbas reijciendas exiſtimo: mites autem, benè moratas, fine vitio, et prudentes cligendas. Pueri enim ex ijs educati ob acceptum nutri mentum à parentum natura recedunt, et 1 ad nutricisvitia, vel prudentiam aliquá inclinationem habent. Indelegitur Ne Pi ronem crudeliffimum à fuis progenito ribus longè degeneraffe(quamuis pravá inclinationem vincerepotuiſſer) ijenim benigniffimi fuerant: ipſe autem à crue delillima nutrice lactatus, et connutri tus, propriam matrem interfecit. Menſtrualisfanguinis mulierum immanitas. Aximum contagium in mulieris i ei F credidit.Refert enim nouellas vites eius pernecari contactu,rutam, et hederam illico mori, apesta et is aluearijs fugere, lina nigrefcere, aciem in cultris tonſor rum hebetari, æs graue virus et ærugi nem contrahere: equas, li lint grauidæ, ta &tas abortire,multaque alia pernicio famala ex illius contactw fieri tradidit. Sed longe à veritate diftar hic auctor: cuiuslibet enimmulierisfanguinēmen i ftruum virulentum effe falfamum eſt, quippe in ſana muliere, non differt et Yanguis à fanguine vitiumque illius in i quantitate tantum perliftit,vtbenè Ca piuacceusin fua Praxi recenſuit, fecus eft in morboſa muliere, ex menftruali enim iſtius fanguine nõmodopericula, quæà Plinio adducuntur, eueniunt, ve - rum etiam alia. Equidem canes epoto · menſtruo in rabiem vertuntur. Homi nes in he et icā, et phthiſim, fià veneficis, eis in potu tribuitur, deueniunt: Oleze contacte ſterili fcunt. Alia ctiam ex il lius virulentia contingunt, quæ reticere melius eſt. Frigidumpotumpoſt pharmacum af fumptum magnæ vtilitatis afue tis fuiſſe. Egrotabat oliin in Sicilia Prorex Ioannes à Vega: ſumptoque Phar maco ſegniter purgationem habebat. Medicusfamiliaris, vtaluum irritaret, juris pulli ſine ſale pararú cyathum co B 2 A ram Principe habebat; illumque nau. ſeantem, et tale brodium abhor. rentem, vtebiberet exorabat. Super ueniens autem Philippus Ingraſsia, iua ris vice, libram aquæ frigidæ cum vn cia zuccarimediocris albedinis propi. mauit. Erat enim ille frigidæ potioni af fuetus,atqueiecore percalidus. At frigi. da cpota, deſtructa eft confeſtim naufea fedatilque nonnullis in ore ventriculi morſibus, talem è veftigio purgationé feliciter perfecit, vt gratias referre In graffiæ pro tali frigidæ potione,cupiens, argenteum illud vas,in quo repofita fri gida fuerat, pretij aureorum nummo. rum quinquaginta, gratiſsimo animo donauerit. Ingraff. de.frig.por.poft medic. Verrucas cuiufdam animalculi liquo reperfanari. Eferam quod mihi in Apuliæ quo dam loco, circa verrucas fucceflit. Expetebat à me quidá nobilis, qui ma. nusà verrucis nimis deturbatas habebat aliquod pro illis abigendis præſidium. Ego coram nonnullis multa,quæ aliàs RII veriſſimaefle comprobaueram,illicon it'o fulebam.Inter hosrufticusquidam ino to pináter,fe ele &tiffimum habere remedia pro ijs penitus dirimendis non rogatus I. faſſus eſt. Sciſcitor quale fit, animalcu Di lum eſſe dixit: ad experimentum veni Before mus, ægro confentiente. Ruſticus ani. i malculum inuenit. Hoc'in floribns 1. Eringij, et Cichorez æftiuo tempore uk moratur,eft coloris calaſsini, cum ma of culis rubeis, et quodammodo aſsimila tur proportionecorporiscantharidiyli y cet paruulum ſit. Acceperat aliquot 12 i- fticus, et ſingula in ſingulis verrucis digitis exprexit: exibat liquor quidam, o manus intumuit, et doluit,fed cum mo. derantia: intra tres dies detumuit, et fana facta eſt, nec verrucę ampliusviſę ſunt. Tauriſanguinem inter lethalia vene na connumerari. Nter atrociſsima, et fuffocantia ve nena Tauriſanguinem recenter epo tum connumeramus; congelatur enim 2. in ventriculo, reſpirationemqueimpe s diens, hominem fuffocat. Themiſtocles B 3 Athe Inesta Athenienfis tanti veneni tentauit expen rimentum. Hic enim ciuium inuidia à Patria relegatus,ad Artaxerxem confu git, à quo diues factus eſt.Dum autem in patriam ingratiam Artaxerxis pugnare cogeretur,in Dianæ téplo,hauſto Tauri fanguine, vitam cum morte commuta uit.Ex Plutarcbe. Quo artificio duriſsim afaxafrangen re valeamus. Aris ſaxa non alia re frangendag quam larido accenfo retulit Ola us.Hoc equidem rationi conſentaneum efle ducimus, cum pinguehumidum,fax lique commiftum illud fit, ob id enim flamma potens et acris eſt diùque ma net. Annibal verò dum Alpium rupes, ingreſſurus Italiam, comminuereopta ret, faxa potentiſsimo igne concalefacta; acerrimo aceto humectabat;: ita enim ea molliebãtur,& in fruſta cædebátur, fra ctioniq; facilior erat locus.ex Tiro Liuip. De lapidis Asbeſti mirabilivirtutes LAsbeſtos lapis,qué Arabia, et Arcadia producit, fi verus et probus fuerit, femel accenſus perpetuam flammam retinere videtur.ExhocGentilestemplorú cane delabra conficere folebant, clarè ani maduertentes fortiſsimam flammam et i * inextinguibilem elucere, quęnecabima bribus,nec tempeſtatibus extingueba tur. D. Auguſtinus lib.21.deCiuit.Deiz. Athenis Veneris Phanum fuiſſe referty in quo de di&to lapide lucernæ conſtru Etæfuerant,quæ aliqua intemperie ex tingui minimè poterant. Aegypti Reges opera magnifica, &admirane da Antiquitus conftruxiſle. Pera ab Aegypti Regibus conſtria et a omni admiratione digna ſem per exiſtimaui. Hi porrò Labyrinthoi rum,Pyramidümqueprimifuerunt au et tores, et Mauſolea fepulchra, et Obe. Hifcos erexerunt, Ferunt admiffo faci: nore, Pheronem Regem è veftigio vi-, Cum amififfe,decennioquecæcum -fúiſle. Vndecimo autem anno ab vrbe Buci, accepto Oraculo, quod viſum reci peret, fi oculos mulieris, quæ tantum B 4 lui ſui viri amplexibus contenta fuiſſet, cum terorumque virorum expers, lotio ab luiſet. Hic ante omnia vxoris lotiura tentauit, cum autem nihil cerneret in. finitarum mulierum vrinam experiri voluit; viſuque recuperato, præter eam (vxorem enim eandem duxit )cuius lo tio vilum accepit, omnes concremauit. 'Abea autem calamitate liberatus, cup alia in alijs templis donaria pofuit, om nia egregia ad memorię diuturnitatem, tum maximè memorabilia, ac fpe &tacu lo dignain templo Solis gemina faxa, quosobelos vocant à figuraverucēzenam cubitorum longitudinis,octonum lati tudinis. Pelõdor. Virg.ex Herod. lib.z. Cacodamonem malinuncijpræfagium aliquando attuliffe. Arcus Brutus cumexercitu ex A Gia nocte media et profunda dum fplendidum erat lumen, et filentium vndique caftra tenebat, multa fecum memoria recolebat. Cum autem ad fe venire aliquem præſentiret, intentus MarcusBrutus cumexercituex A  intentus ad introitum afpiciens,horren dam, et monſtruolam corporis feri et terribilis ſibi aſliſtere imaginem reſpex it.Quis (inquit)interrogans erutus,ho minum, aut Deorum es,quid tibi vis? quidad nos veniſti?Murmurans ille,tu. us Ô Brute(dixit)malus genius ſum, in Philippis me videbis. Tum brufus nihil perterritus, Videbo, reſpondit,cogita. bundusqueaccubuit. Verum Caſsiana cognita clade deinde, cogitationeſque fuas videns, et fpes fallaces ſublapſas re tro referrifin Philippis fibiipfi mortem coniciuit.Ex Plutarcbo. olei, vini,ſegetumgſterilitatis prafagia. Irij vefpertinus occaſus, fi biduoana teuertat, vel fequatur Plenilunium, fegeti rubiginem,&foreftentibus vre. dinem pronunciat. Procionis occafus veſpertinus,fi interlunio eueniat, flores ti yiti, et oleu germinanti iniuriam ex vredine adfert.Aquilæ verfpertinus ex. ortus, et Arduri occalus, in Pleniluniú B S incidit, et olei& vivi ſterilitatem, vtros quetum florente denunciat Ex Iunitino - deris falubritatem advitæproduction anem maximopere videmuscon: ducere.. N Hybernia quaſdam Infulas, ir quia bus homines longiſsimæ vitæ funt, re periri compertum eſt,tanta eft enim ibi: aeris ſalubritas,vtvita humanalongiſsi me producatur, Cum autem ad maxia. mam ſenectutem homines deueniunt, deficiente pauliſper humido radicali, caloris naturalis opera, quia anima pro-. pter complexionis bonitatem recedere: nequit, in corpore magni ſuſcitantur dolores: Idcirco illius regionis homie nes poft diuturnos labores, vitam aber forrétes, longèà propria regione fede portari procurant; præſertimque ad lo. cum minus falubrem, vbifaciliter mon n'antur. Abulenfis in Genef.c.2.6. Anania: in Vnis.Fabrica. Linica.magna proprietatisapud! indos fiering 1 Maximi valoris lintea ex Asbeſti. no lino,& Amiancho lapide con texere Indiani fo !ent. Hæc in ignem; proie et a flammam quidem concipiunt, detrimentumautem nullum recipiunto Cum autem vſu commaculata Indi hæc lintea depurare coguntur, (ſpreto more noſtro )non aqua,non cinere, vel ſmege mate vtuntur; fed in ignem proijciunt:: certiſsimoexperimento perdocti ab eo non cóluni modò; ſed potius-exempta. fplendeſcere,nihilqueillis deperire. Ta.. le Carolum V..Imperatorem nonnulli habuiffe ferunt. Mizaldus. Hominibus àgraui valetudine opa preffis varias hominum figuras appa: rnilleſepißime, expertum oft. Ignum ſpeculatione illud fempers primuntur valetudine ex affe &to cere. bro, an actu Demonis figare diuerſçapa pareant? Quippèno ſemel audiui, non. mullos. Dæmanes,alios verò fæminas. B 6 vidiſſe, vt inter cæteros Alexander ab Alexandro de ſe teſtatur. Cum (inquit) Romæ ægravaletudine oppreffus eſſem iaceremque in lectulo,fpeciem mulieris eleganti formamibiplanè vigilanti ap paruiſſe confiteor, quam cum infpicerem diù cogitabundus,&tacitus fui, repu tans nunquid ego falfà imagine captus, aliter,atque res eſſetafpicerem,cumque meos ſenſus. vigere, et figuram illam pufquam à me dilabi viderem, quæ nam illa effet interrogaui, quæ tum fubridens et ea quæ acceperat verba reſpondens, quaſi me planè derideret, cum diù me fuiſſet intuita diſceſlit. Quomodo au hæcfiani in lib. 1. de pita hominis difa fusè enucleamus. Hydropes lethales multoties ab occul. tis,abditiſq præfidiisdifparuiſſe. Vltiequidem morbinon à me dicorum remedijs, fed à caufis abditis curati funt.Refert Schenkius l.be 3.obferuat. Medicinal, Chriſtophorum quendamin deſperata hyeme, ab hs drope lethali hac via fanatum fuifle. Illi dormienti in Sole aprico lacertus viri. dis occurrit in laxatumque eius finum irrepfit, et toto cotempore, quo dormi. it,per tumentem,nudatumqueventrem oberrauit. Poft horam expergefa et us lacertum in ſinu ſubfultare animaduer tit, quem veluci homini amicum et in noxium dimilit. Huic ab eo tempore hydropicus tumoromnis,citra alia re media intra paucosdies ſubſedit, et diſ paruit. Quicafus mirabilis eft: et non minori admiratione dignus, Bufonis fylueftris, quam fit proprietas. Hoc e nim animal fi per ventrem fcinditur, et fuper renes hidropici ligatur, aquofita tem per vias vrina, quæ in Aſcitelupet abundat,mirabiliter educit.Hoc VVie rus expertuseft,Napaulli ſecreto rema dio hydropicorum aquas Colubri a quatici lapide ventriapplicato ſenfim abfumunt. Infuper vituli marini pelle aquam corpori fuffulam Hermolaus Barbarustolli prodidit. Cæca igitur,& abdita via multos hoc morbo ſanari comperimus. B7 Mediana  II Medeamà veneficiorum calumnia a Diogene fuilevindicatam., moriæ ſcriptoresmandarunt,Meo. deam illam concelebratam magicis arti bus, maximam dediffe operam, ijſque latiſsime fúille inſtructam.Hic.n.apud Srobæum dicebat,Medeam fapientem, non veneficam fuifle, que acceptis mole libus, et effæminatishominum corpo, ribus confirmabat ipfa gymnaſijs,acex ercitationibus, et robulta vigentiaque reddebat.Hinc, vt veriſimile eft,faina emanauit, quod illa coquendo carnes hominibus ivuentutem reftitueret, Si. enim ad ea, quæ de ipfa dicuntur, quod nocturnis horis coram Luna proftrata maleficia fuo nudato corpore pararet, refpicimus, vt patet per Seneca in Tras gæd.7.Quod vero alia attinet de quie bus ipſam accuſent, neſcio quomodo. ab infamia eam liberare valeamus. ImPlenilunio vtplurimum furioſos: vehementius infanire Luna dum Soli opponitur, vehementius furiofos infanire obſerua-: mus: tunc enim ex. fuperabundantium humortin copia-cerebrum ad cranium vique intumeſcit,eofque ad furiam du.. cit.Hac (vt reor) caufa, furioſos Britan. ni luna quarta decimaverberibus affli., gunt, conſiderantes ſailicet ſanguinem, et fpiritum tunc temporis efferuefcere.. Verbera.autem non fine ratione ad talie um ſalutem conferre videntur; vt enim larga proſperitas ad inſaniam homines, ducere potenseft:ſic dolor, et calamitas, prudentiam inducere conſueuit: quod, fapientiæPrinceps perbellè fignificauit: dum dixit, affli &tionem tribuere intele lectum.Bodinus in tbeat.net, Annicomputumdimē ſuramàquin bufdamnationibus ru diordine fuiffeconstructiuni Noi.certus modusapud felos Ar gyptiosfemper fuit, eorum enim Sacerdotes ab Abrahamoedocti,& verá anni-menſura, et Solis curſumcogno., frese fcere valuerunt. Apud alias nationes di ípari numero, parique errore annus no tatus eft:fiquidem Arcades trium men. fium annum faciebát. Lauinij tredecim. Acananes fex.Gręci reliqui .diebus. Romulus annum decem menſibus, qui 304.dicbus conficiebatur ordinauit.Hic å Martio incipiebat,eo quod Marti fuo genitori credito, menſem hunc dicaue rat.Numa poft Romulum quinquagin. ta dies computo huic addidit, annum. que conſtituit 354.diebus. At. C.Cæſar Aegyptios imitatus, ad curſum Solis, quidiebus et quadrante conſtituie tur,annum dirigereftuduit. Céſorinus, et Suetonius. Solatri maioris, e Serpent arie mio norispotentiacontraparafitos mirabilis eft. Irabilis profecto Solatri maio. ris, fiue herbæ Bella donna radicis potentia eft: fi enim contrita, et exiccata vnius ſcrupuli pondere per horas ſex vino infunditur,illudque facacolatura uno homini potui datur,vt illecibum guftare nequeat,efficiet. Hoc paraſitis idoneum eft remedium,hi'enim aperto ore,tanquãomnia deuoraturi,in menſa cófident;fed hac via pænas luent, quip pè alios vidcbunt comedentes, ipſi ta men inſtar Tantaliin menſa fameſcent. Vnde apud conuiuas ridiculi, et confuſi apparebunt.Sanantur hiconfeftim ace to bibito.Idem facit radix Aron, fiuc -minoris Serpentariæ in acetarijs recens contrita;qui enim guſtauerit, apparebit Suffocari cibumque relinquet. Sanatur hie allio comefto. Ventorum ortum,occafumque terre Arem Echinuinmira fagacitatehomi nibuspraſagire. Erreftris Echini, quiautumnalitě. pore in vineis, dumoſilque fpinis verfari præcipuè conſueuit, in ortu oc cafuque ventorum præfagiendo mira l'eft fagacitas.Horum porrò latibula du obusconftru &ta foraminibus, quorum alterum Boream, alterum verò Auftrú reſpiciat,conſtructa reperiuntur. Pre fentientes autem Boream Auſtrum,ali umve ventum fufHaturum, longè abe orum ortu, vnum vel alterum cauernæ meatum obturant; ventorum enim cog nitio-ijs innata eft, vtab ipſisſe tueri va Jeant.Hoc ordine Venatores Echinorú Jatibula, eorumque fagacitatem cond derantes, nulla ſtellarum obferuatione habita, fed folum ex cauernarum mea. tibus clauſis,velapertisVentorú indagia nem cófequentur. Ex Plutarcho in Dialog. Animi pudorem, timoremque hu. manorumcorporum diuerfimoda faciem alterare. agna inter animi pudorem, et ti morem cum vtrumque fit triſti. riæ foboles, videturdiſparitas:quippe in pudorehomines facie rubefcunt,timen tes verò pallefcunt. Natura(vt inquit Macrobius 7. Saturn. ), cum quid ei oc currit honeſto pudore dignum, imum petendo penetrat ſanguinem,quo conto moto diffuſoque cutis tingitur,rubora; saluitur, Thelelius auté (vt ex Taſſone citatur M  citatur) faciem in pudore,voluit affe &iū recipere, et proinde erubeſcere. Hocà ratione alienum haud eft, fiquidem vo lunt Philoſophi naturam pudoretacta, fanguinem,inftar velamenti ante fe ten dere.Experientia infuperhoc docet, e rubeſcentes enim manum fibi ante faci. em frequenter opponunt. At timentes palleſcunt,quia natura cũ quid extrinſe. teoccurrens metuit, in profundum de. mergitur: ita &noscum timemus,late bras quærimus, et loca occulta, Natura itaque defcendens,vt lateat,fanguinem fecum trahit, quo demerſo dilutior cuti. humor remanet,pallorqueſuccedit. Animaliaex putrigenita materit inmundi primordio minimè fuiffe. Væ ex putri materia generantur, ſex animalium genera communi ter exiſtunt. Quædam enim, vt bibio nes, quæ ſunt minutifsima animalia,ex vini exhalationibus fiunt,vt papiliones ex aqua.Quædã ex humorú corruptio pibus proueniunt: vt vermes in fter core,velciſternis. Quædam ex cadaue ribus, vt apes ex iumentis:crabrones,fi ue muſcægrandes,quæ volando ſonant. Scarabæi liue mufcæ virides ex equis, vel canibus mortuis: fcorpius de caucti mortui carnibus:ſerpens de medulla ſpi næ humanæ. Quædam ex lignorum pu tredine, vt teredines, qui lunt vermek intra ligna, quando non abſcinduntur tempore debito, exorti. Quædam ex fructuum corruptione, vt girguliones ex fabis. Quædam ex herbarum corrup tela, vttinex.Hçc autem in mundiprin cipio immediatè à Deo creata fuiſſe, nulla ratio confiteri cogit,cum ipſa na turaliter ex corruptione procedant;poſt autem mundi exordium huiuſmodi ex corruptelis generationes eueniſſe verili mile eft;Deus tamen feminarias cauſas horum materijs indidit, fine quibusori. ri non potuiſſent.Abulenfis in Genefi 6.2. Defygis Arcadia mortifera natura, Alexandrimorte. Circa  Gerialis. ferunt, ille, CircaNonacrinin Arcadia,fons quidá teperitur è petraexoriés, quęStyx ab in colis appellatur, tantæ mortiferæ natu rę, vt ſumma celeritate corrúpat corpo ra. Equidemprotinus hauſta (Seneca teſtimonio 3 quaft.natur.)induratur,in Itarque gypſi ſub humore conftringitur, et ligat viſcera.Quia autem, nec odore, nec fapore notabilis eft,fæpè fallit, nec ea epota,amplius remedio locus eft.Fe runt nonære,non ferro, non teſta aquí huiuſmodi continere,necaliter quam in equi vngula ferri poſſe. Huius vemeni potu,magnumAlexandrum in Babylo. nia fuiſſeextin et um multi ſcriptoresre medico,ob aquę feritatem in media po tione repentè veluti telo confixusinge muit; elatuſque (vt ait Iuſtinus) è conui yio ſemianimis, tanto dolore cruciatus eft,vt ferrum in remedia poſceret, et è tałtu hominum velut vulnere indole. fceret. Achores tineafque capitis,ex bufonis oleofeliciter fanari. Dum 46 prope Luceriam Apuliæ ſemel me dicinam faceren, ibi quendam achori bus,tineiſque per multos annos turpi. ter affe et um,cui varia fuerant applicata temedia,omnia tamen inutiliter, prop termorbi reſiſtentiam repperi. Tande noſtro conſilio hicele &tè ex pharmaco purgatus, folum linimento ex oleo in quo ad exactam co &tionem Bufo fue Rana terreſtris ebullierat, optime cura tus eft, quippe fimplici hoc remedio per paucosdies in capitevtens, fanus, et capillatus fa et us eſt; durante autem lini mento piliersortui,vulſellis à chirurgo extirpabantur. De Cerui lachryma, eiuſque in ciendo fudore potentia. Antæ creditur elle efficaciæ Cerui lachryma in Tudoreciendo, vt' li grana quinque vel ſex potui dětur, totü corpus fere folui iudicemus.De hac lo quens.Abinzoar lib. I.tra &. 13.6.6. le tria grana Azir filio Regij magiſtri equitum in lacte, vel aqua cucurbitæ, vel.roſatæ exhibuiſle:retulit,illumque à virulento ictero liberaffe.Hæcautem in Ceruis ante ceptelmum annum (teſti monio Scaligeri)nulla eft,temporis au tem proceſſu generatur, et in iuglandis molemaccreſcit.Dicitur magnam habe read venenum efficaciam, vt in Afia fe Hiciſsimo fucceflu fæpè experiuntur. Vires infirmorum collapſas, odoribus refarciripoffe. Nfirmorum deperditas vires non potionibus modò, verum atqueodo, ribus reftaurari pofſe obſesuatum eft. Aiunt enim Democritú in dies aliquot, amicorumgratia pomi odore vitam fic bi prorogalle. Hinc multi panem cali dum vino odorifero immerfum nari busadmouentægrorum, quem a tem. poribus, et coſtis cataplafmatis more imponimus,vtique vires egrigie reſti tuimus. ConciliatorApponenſis mori. búdá vitá, ex croco, et caſtoreo cótuſis, vinoq; cómiſtis producere fecófueuifle tefta.  teftatur,ſenibuſque eam compofitioné exhibuiſſe, nullatenus olfa et u magis quam potu profuiſſe. Ferreriuslib.2.Me thod. De olei Balnei mirifica in morbis præftantia. O Lei Balneum, vt Herodotus anti quiſsimusmedicus prodidit, quià diuturnis affliguntur febribus, à laſsitu dine, vel neruoſarum partium dolori bus oppreſsis, conuulfis, et vrinæ, fup preſsis laudatiſsimum, ac ſalutare efic remedium experimur. Vidit huius pre ſidij experientiam Heurnius in quoda extenuato, ac ferè exhauſto, dumeflet Patauij:illum enim validiſsima occupa uerat conuulfio, at tepidi olei pleno vafe immerſus,ac fotus fanuseuafit.In lib.no ftro de Hydron.nat. Adam et fuos contemporaneos, perfc. etiſsimamrerumnaturalium ha buiffe cognitionem. Nter aliasrationes, quas Abulenſis in Genef.in c.f.de longiſsima vitæ pri. morum parentum,quiannum ferè mila Jeſimum ateingebant,retulit,hácaddux it;quod'Adam'rerum naturalium perfe Etamà Deo cognitionem habuit.Intele lexit enimfru et uum, herbarum, lapidú, lignorum, animalium, mineraliumque virtutes, et do&rinam, quibus vita hv mana diutius conſeruari poterat; quæ omnia contemporaneos,(vt ipfi etiam vitam producerent longiſsimèJedocuit. Hæc autem cognitio, et ex diluuio, et gérium diuifione perdita eft. Reperiun turtamenin præfentiarum multa mira bilia,naturęque ſecretiſsima apud ſapi entes, à temporuminiuria foslitan vin dicata; quæ aliquando hominesvidentes aut audientes, tanquam lupernaturalia opera admirantur Rutaminter alexiteria medicamenta connumerari: Nteralexipharmaca præſidia, Rutam minimęconditionis haud efſc perhia bent,fiquidem ieiuno ftomacho come fta multos à veneņiviçulentia liberaſſe C. degi  legitur. Dehac Athenæus in 3.Deipn.la. quens, Archelaum Ponti Regem fuos populos veneno interimete confue uifie fcribit, illos autem à quibufdam edo &tos, ob id antequam è domibus ea grederentur, quotidieRutam cdere fo litos à Tyrannicrudelitate.le.defendiffe. Solaſuſpenſione, capitiscruciatus verbenam mitigare. Trabilis eft Verbenæ proprietas M.in dolore capitis mitigando; 'fi quidem à Petro Foreſto traditur hoc folo præſidio quendam fuifle perſana tum.Ille netlis remedijs, quamuis opti mis curari potuerat,non venæ ſectione, non ſcrupis digerentibus, neque steco &tis pilulis, cucurbitulis, nec alijs topic cis auxilijs. Cum autem nulla iuuarent semedia,ad collum Verbenaviridisafe penſa eſt, et fanus fa et us eft,lib.9.ebſer.3. Detkapſie virtute in fugillatis faci nandis, Neronisquecalle. ditate. Nero Imperator in ſui Imperij ex 36 ordio Thapfiam, eiuſque excellé to tiam magnificauit; Ille quidem dumno. et u incederet incognitus, et in multos impetus faceret,nå ſemel facies fugitla Do ta,cutifq;livida,piftula; ab illis fuerat. L. Confeftim hic,ex Thapfia,thure, et cem ra commiſta,linimento ljuentem vifum collinibat,quopræſidio antelucem à fe da ſugillationeliberabatur; dum autem die in populiconſpectu, faciem fanam oftenderet,facinoris ſui famam, et igno. miniam occultabat. Ex Durante in Her. 25 g. barie. I je obſtétricibus animaduerfio. præcidendo diligentia adhibenda eft;quippefi ni mium curtè vmbilicus religatur,ætatis progreſſu pariédi conatumreftringere, imminenti vitę periculo,poteſt. Ex M46 mbia Cornace. De arboris ficusmirabili natura. I coctu faciles habere deſideramus, in arbore ficus eas ſuſpendemus, ita votum noftrum procul dubio aſſeque mur: credo forſitan ob acutum, et incil: uú odorem, quem arbor Ipirat id cauſa ri;velforſitan occulta cæcaque proprie tate.At quod mirabiliusin huius arbo. ris natura eft, Taurum indomitum, fe rumque in eodem alligatum manfuef cere tradunt. Neſcio autem annaturali via propter-odorem,an aliqua antipa thia, quæ inter talia exiftat hoc eueniat. Audiui tamenà multis vtrumqueexpe rientia fuille confirmatum. Quomodoà vitriolo arislaminas.ex. trahere valeamus. Lui momenti illa cognitio, quomodo à vitrioloæris lamellę extrahantur,ape riam modum, qua facilitate id affequi valeamus.Bulliatur Romanumvitrio. lum in olla cú aquafontis: in eaque cha lybis lamina per horæ quaternionem demergatur: extrahito demum chaly bem, ipſumenim lamellis æris inftar suginis colligatum habebis, quęculcro radende fút, vt alias chalybem immera. gere pofsisznouaſquelamellas extrahe.. re. fiquidem tamdiù corradi poterunt, quouſq; Vätrioli portio in aqua fuerit. Arrigat aures ingeniofus; quia ex hoc: minimo principio multa, precipuèinre: medica, yrilia aſſequetur. oléum vitrioli,&fulphuris rostris: lumbricos plurimumvalere. NITlfi magnis experimentis præſtana tiſsimum remedium ad puerors i lumbricoscomprobalſem,haud audia. rem hic inter arcana ſele &tà fóre repezia nendum confiteri: quippe tanta eft eiuss virtus,& potentia, vt mortuos ferè pur erosè vermibus ad vitam trahat. Hic: induſtria paratur,In libris ſingulis aque fontis oleifulphuris, vel vitrioli chimi.. cè extractorum, aliquotguttulaadden dæ funt,ita vt aqua acidula frat, quæ pu eris,natuque maioribus danda eft diù noctuque ad placitum,.e et enim præſtaa tiſsimæ virtutis 0 T! 10 Da De Caraba mirabili virtute invuula cafum,Amygdalaruamque tu. mores ArtinusRulandusvirin chimicis M celeberrimus in Amygdalarum inflāmatiene, et tumore, vuulæquecaſu ex humoribus à capite fluentibus exci tatis ſola Carabâ mirabiliaparauit-Prie mo fuffimétum cófuebat,hoc modo ex. ceptü.Accipiebat Carabæ albiff. drach. 7.qua redacta in puluerem craſsiorem, et carbonibus impofita,fumus per infa dibulum,ore excipiebatur ab ægro mar. ne,meridie, et veſperi, multa vtilitate, Accipiebatetiam fermenti veteris vnc.. et quam moreemplaftri linteolo indu cebat, afperfoque Carabæ albæ pul uere vertici imponebat per diem,per noctem vero fequétem recens applica bat. Quibus paucis remedijs, &ex fola: quaſi Carabayquam plurimos à fauci um tumoribus, vuulæque cafu,Amyg dalarumque inflámationibus oppreſlos perſanauit. Ex eiusCurationibus. Spina HorTvivs GENIALIS Spine infeftoriæ Baccas" ad. Tenaf mumexfalfapituita expertiſsimum verumque ad illum exiftere remedium. St mihi remedium pro Tenafmodo quadam fortafle mille kominum, qui endemiali fere morbo hic ſugebant per fanafle quam citiſsime. Syrupum ex Baccis fpinæ ceruinæ, fiue infectorice: Aromatario parariiufferam. Hæinfine: O et obris, cum bene maturuerint, collie guntur, exprefloque fucco cum melle vel Zuccaro ad formamfyrupi ducitur: additurque in fine maſticis, velzinzibes sis, anih, vel cinamomiad drach.j.vet? in maiori dofi, fi libuerit.Datur hic fy rup.ab vnce vſque ad duas cumpauco vino dilutus,abitemijs datur cum aqua cinamomi:epoto, cibatur eger,parceta men, et ieiuno ftomacho, præcipiturque ne dormiat.Equidem vna die fanaturę ger, foluitur enim aluus,abfque mole tia, et excretis féroſis.viſcidilg; humorib. Tolo hoc preſidio integrè liberatur C Ariet  mo Arietis linguam futurum in ouibus milanitium, commonftrare.. M Irantur multi Virgilium in 3.. nere, vt linguam paftores conſpicere debeant, deſinant autem admirari, cau ſam enim adducimus ex Plinio, quipro pterea Arietum ora introſpici à pafto ribus voluit, quia cuius coloris ijlin guam habuerint, tále in fætibus gene randis forelanitium. Audiui à multis, hocyeriſsimum reperiri. Ouis enim e. tam cum vterum gerit, fi linguam habueritnigram nigrum pariet agnum, fi albam album, et fic de aliis coloribus. Ridiculüm eft quod fertur; Bafilifcum àGalliouoexclwdi.. On modo à plebeiis verum atq;: à nonnullis ftudiofis, Bafilifcum: abouo galli veteris connaſci perhibe tur. Fingunthi ex aliquorum fcriptorú teſtimonio, quos eriam ego perlegia: Gallo decrepito, quiſeptimum, aut no.. olm, vel ad fummum decimum quar.. Na tum annum agat, ex putrefacto ſemine, aut humorum illuuie altiuo tempore, ouum conflári, ex quo ab eodemfoto (vt à Gallinis alia fouentur oua ) Bafi... liſcusoriatur.Sed hoc animal nemo vio dit,habitat enim (auctóre Plinio ) in Aphricæ folitudinibus: proinde hæc creo dere difficile eſt. Inſuper ſi hanc fpecie em mafculinam poſſe fætare conceſſum. eflet, contingeret etiam inalijs, quod minimèobſeruamus. Mihi aliquotoua: in experimentum à mulierculis allata fünt, dicentibusGallum peperiſſe: erát oblonga,& in caudam ſerpentis quibuſ dá nodulis terminabátur:at hæc à Gallie nisex plurium ouorum minutorů col ligatura (cu kuperfætatione,non autem a Gallis fieri dixi. Homines ex impromiſo Lupi afpects: veluti mutosdo; attonitos fieri. Vlgatiſsimum illud eft, hominesex improuiſo Lupi aſpectuadeo mutos et attonitos fieri,vt nec fari, nec vociferari valeant. A Lupiquadá prietate id fieri aſlerunt, contenderse tes Lupum,fiprior obuium quempiam conſpexeritillico vocem adimere, can demque illum luere pænarn,ſiab homis ne prius videatur. Ad hænugæ ſuot.Si quidem ex terribilişimprouiloqueLu.. pi aſpe &tu,homines terreri, timoteque concutiqveriſimile eft: ex timore autem: valido mébra frigefieri ex raptu ad in teriora fpirituum,inde corporis, et ar.. tuum fieri impedimentu, vociſque pri uationem mirum non eft.Alijalia fin gunt, mihi autem hęc omnia ad folum timorem,tanquamad caufam proporti Onatam reducere viſum eſt.. Multa facinoraàMagisanicalis perpetrari pole. Etulit Leonardus Vairus lib.1.de: Faſcino multas hac noftra tempe fate exiſtere aniculas, quarum impurie tate, nonpaucos effaſcinari pueros illofa quenonmodoin grauiſsimum incidere diſcrimen,verum etiam acerbam fæpiſe fimè ſubire mortem. Pecudes inſuper: partuqalacte priuari,equospacreſcene R Falcin Cquote et emorislegetes abſque fructu colligi, arbores arefcere;ac denique omnia per ſum ire quandoque videri, AFucovulnera illata,Muſcis contri tisbreuifpatio perſanari.. " Vm quadam die apud amicos alie, quot cómorarer,& læti in měla de more varia confabularemur; ecce vous ex ijs in ſuperiori labro à Fuco animali vulneratur,quo morſu ſtatim intumuit vulnus,cum maximo patientis dolore, Amici in riſum ſoli, patientismedelam minimeprocurabant.Ego quidem alias morfus hos curafle recordabar; quare confeftim, vt nonnullas muſcas feruus meus caperet, iulli, quas contritas, dum fupermorfū impofuiſset,breuidolorie datuseſt;.tumorq, cúmaximapatientis lætitia;aliorúg, admiratione detumuit, Quafacilitate vlcera formicantia dan cacoëthica fanarivaleant. Vidam amicus meus, cumir Hya pochondrijs,vicera formicátia,pra maque, quæ à nonnullis vermes dicun Q  tur,paffus eſſet, ſauitatcm,poftmultat do et ifsimis medicis tētạta remedia, ac. quirere non potuit:ylcera enim licet fac pari viderentur;renouationem tamen continuo recipiebanta,Vltimò poftan.. nos,& menfes in empiricum chirurgum incidit:quipaucorum dierum ſpatioita hominem perſänauit. Abluebat primo vlcera albo vino,tum ex - patellis -mari-. nis puluerem, fiue cinerem Ex Corici bus (exemptis interioribus) couſperge-. bat,vltimoherba marina vlcera coope riebat; faſciaque premebat, femel in die hoc vſus remedio vigintidierum fpatio, ægerconualuit. Procurauit arcanum a.. micus, et mihi fideliter communicauit, Fallſsimumeft, quod fertur Viperă o coitu mafculumoccidere, ipfamque asfuis.catultsinpartunecarie LAG Grauiſsimis au et oribusaffirma, mine) maſculi caput'abſcindere (ille.n.. infæminæ os caput inferit ) et fic củoca. sidere, ſed poenam täti facti illam luere. ſiquia fiquidem Viperinicaruliconcepti, gra-. Jiores facti vifceramatris cofrodunt,e am que occidunt. Sic voluit Plinius lib. 10.&Nicander in Thoriacis, quare Vipe. ram aiunt diciab co, quod vi pereat,aut vipariat.vtrumque autem falfifsimum effe, et experientia, et grauiſsimorum e. tiam ſcriptorum auctoritate cognitum eſt.Apollonius apud Philoftratum Vi... peram aliquando viſam fuiffe catulos ſuos; quos peperiſſet lambere, et expolire aſſeruit. Bodinus in nat.theatr. in Gallia,ad Clapum Pictauorú flumen, vbi Viperæfrequentiores ſunt, vtriuſq. fexus viperas lagenis vitreis inclufas fu iffe reculit; illafque peperife, et conce piſle vtroq; parente fuperſtite, Matthi olurs ex. Obferuatione FerdinandiIm perati Neapol.Pharmacopolæ Viperam parere catulos ſuos, et non occidiafts-, ruit;catuloſque-non viſcera matris,led membranas quibns incladuntur diſrúa pere. Quarerectiusſentimus,fi Vipera non à vi parere,vel perire dicimus,fed quafit quaſ Viuiparam, quod non oua, vtcæ.. teri ſerpentes, ſed viuum animal pariat. Iraulos, balbos, et femilingues fieri ob nimiam cerebri bumiditatem, VA communiseft fententia ab expe rientiaalienumreperitur. Rauli, et Balbi non ob cerebri hus midam intemperiem fiunt, vt ferè omnes autumant; inueniuntur enim hi' modo calidi,modo frigidi,modo humi di,vel ficci, vt et reliqui, qui nec Traus li,nec Balbi funt;imò et hi modo (putis " abundant; modo ijs carent:quare non ob bumiditatem nimiam cerebri buiure modi Traulos-& Balbos fieri, fed obt varietatem mearuum, in intrimentis; pertinentibusad locutionem exiftenti um, docuit experientia.Porrò Trauli, qui literam R.exprimere nequcunt, in media palatiregione, vbi quartum eſt osfuperiorismaxilta, duo inueniuntur foramina, quæ nullo modo adeo aperta et obuia sút, vt ijs, qui optime loquútur, Balbis veròiuxta dentes maioraobſer. samus foramina,per quæ ſtillans pitui ta,linguamque irrigans in parte illa an. teriori,bleſam locutionem facit;; vnde bleſi, et ſemilingues fiunt: quod fi hæc non eflent haud balbutarent, licet à ca pite copiofa defcéderet pituita, vtmul tis contingit, quiex hac tamné balbi non fiunt.Quare fententiaHippocratis 2.A phor.32.malè verificatur, cum afferit, balbos ob frigidam, humidamque ca pitis intemperiem fluxu tentari: Auxio. enim talis et Balbis, et non Balbis fuc cedit: concurrit tamen hæc fluxio, vt caufa remota, qua aliquando cum pro zima,dicitur affe &tum facere poffe, fi. iunctatuerit:: fola autem facere nequit. vemale Hippocrates,& alijopinati ſunt ExSanctorio Sander.de pit.en.lib.3. Morbosperniciofos; velmortem, veb affectus longitudineminducere. Jana ciuitate, et in circum vicinis propè Neapolim perniciofifsimi orto funtmorbi,vbiſectis aliquibus corpo, tibus, eorum Ventriculus bilis copiaz, vitellinæ plenus inuentuseft, eiuſque: tunicæ, et inteſtina eodem colore per tincta viſa ſunt. Meatusqui ad fellis; chiftim protendit, ab humoribuscraf fis, viſcoſis, et tenacibus obftru et us ea. rat. Fellis veſica diſſecta, bilis flaua haud inuenta eſt; fed eius vice atra, et inſtar atramenti nigerrima.Hepar quo ad externam partem album erat, in in terna autem nigrum, &atrum, veluti carbo accenſus, et extindus. Langueno tes,in febrium initio,vomitu, &nauſea, moleftabantur. Eorum lotia craſla icte. rica, et fubrubra ſemper erant. Omnes. ferè erant icterici, et longo tempore,ſi: qui euadebant,indigebant, vt fanitatem acquirerent, Ex -Io. Bapt:Cauallario deMore bo Nolano, ſeu demorbo epidemiali Lupicur paucireperiantur, ouess autem multa Tidetur quafi abftrufum illud quxar, aucs autem multæ?'profecto in partu plures lupaedit catulos,quamouis,quæ vnicum, vt plurimum parit; Inſuper o. ues, et agni in hominú alimoniam con tinuo occiduntur; luporum autem caro eſui apta non probatur; nihilominus Q. ues-agni, et arietes ſemper in maioriny mero reperiuntur, quă lupi.Huius cau fa, prima eft Dei bonitas, qui tam imma ne animal in eius ſpecie excrefcere non permittit, in facra enim Gen. c. 7.Noe, vt ex omnibus animantibusnūdis fepa, tena, et feptenamaſculum, et foeminam in arcam tolleret monituseft:ex immu dis vero duo, et duomaſculum, et foe minam. Secunda cauſa luporum eft faga citas, et in propriam ſpeciemimmanitas. Hi enim;cum rationesviuedi deficiunt, ob cibi inopiam in multo numero con ueniunt:atque in circulo vnus poft aliú currit;vt apud vulgum á villicisparatur ludus,diciturque Řotalupo;primusau tem,qui viribus deſtirutus, currere ne. quit &in terram cadit,fit aliorum cibus, renouaturque ludus ad omnium faturi taté.Hæceſt poitísimaratio huius ſpeci Vhelin ei decremen i, alius enim comedit alii um. Ex Aeliano vt reor, Antimonij in vitrum reductio, eiuſ quevires in medicina. 7ltri ſtibium,quod in longis, et dif ficilibus morbis propinatur, in e. pilepfia fcilicet,melarcholia,podagra, elephanticis, reſolutione, in febribus quotidianis,tertianis, et quartanis,peſti fentia correptis, venenatis, hydropicis, tæphaleis, ictericis, et fimilibus; robu ſtis tamen corporibus, ita præparatur. Stibiū, quod ex auri fodinis colligitur, in puluerem tenuiflimum contunditur, teriturq; et fupra ignem in fi &tilio, rude ferrea,aut cochleari continuo agitando vritur, vſquedum omnis humor, ac fu mus euaneſcat, quod in ſex,aut octo ho rarum fpatio expeditur:deinde calx có teritur, carilloque impoſita,in fornacē inter candentes carbones collocatur, et igne luculentiſsimo vrgetur,dū liqueſ. cat picisiftar, poftea ſuper marnorfun ditur,atq; fic ex Stibij vncirs duodecim, vitri ipfius hyacinthi modo pellucidi, wacja M vncias quinque coliges. Andernacus Co ment-z.Dialog.7.de nou. vet.med. Solo Metronchita auxilio mulieres offepragnantes (omiſsis ceterisindio cys)experimur. Vlta apud fcriptores, quibusin primis menfibus mulieré præge nantem comprehendere valeamus, inu. dicia reperiuntur.Dienntmulti,lorij tab. fpe &tione grauidas nofci;fillud album, clarumque fuerit,in eoque atomi afcen dentes, et defcendentesapparuerint. Alt ex ſuppreſsis menſibus,deie &to appeti. tu,vomitu, et nauſea ante prandiumid conſequuntur.Nonnulliex la et te in.ma millis,ex arterijs gulæ fi plus iuſto pul fant,ex lentiginibus,fi in mulieris facie oriútur,ex tumefa et is mámillis, et a ful co earú capitú colore pregnátes venatur. Cæteri tú ex his, tú ex pódese circa pe dé,ex: vmbilici egreſſu, ſiin dies fit ma ior, ex tumefa &tis venis, quæ vidétur in nariú angulis iuxta lachrimalia. Obfte trices.digitisexperiútur an vteriorificiáfue-fat claufum, vel apertum, ex claufo te nim grauidationem patefaciunt. Non défunt alij, qui Hippocratis Aphorifs mis confiſi hydromel, et fuffumigia e x periuntur,epoto enim hydromelle poſt cenam, fi tormina fequentur arguunt prægnantem eſſe mulierem.-Siilia fuf fumigio acuta per pudenda vfa fuerit, fiadnaresodores non perueniunt ', in dicant vtero eſſe gerentem.Hæc autem figna, quia pathognomica non funt ve lúti futilia reijcimus,& tanquam abſurdaad meros Empiricos committimus. Nonenim ex lótij afpe et u vere mulie rem efle prægnantem diuinare poſlumus,nam meatus vrinarius cum vtero: nihilcommunehabet, lotijque claritasy; albedo,& bulloſa granula in eo,poflunt morbosetiam ſignificare, vtin cachochimo corpore ſæpius obſeruamus; hoc itaque indicium prægnantium verum non eſt:Nonexmenſibus ſuppreſsis,nó ex vomita, &nauſea, ſiue appetitus de iectione hoc conſequimur: quia affc et i oneshęc ex multiscaufis, in m ulieribus, quæ pregnantes non funt, affe &tiones e uenirepoffunt. Non ex lacte in mam millis; quia id etiá virgines habere pof Lunt,vt voluit Hippocr. Inſuper inult mulieresin primis menfibuslacinon ha bent: lacergo non eſt grauidationis ved irum indicium Pulſatio arteriarum gule, ſolito crebrior conceptum peculiariter haud arguit,quia ex retentismenfibus, {plenis et ventris tumore et ex pituita in -pe &tore colle &ta etiam fieri poteft.Len tigenes non in folo conceptuapparent,:: quippeſignumihoc, neque omnibus,nes queſemper competit, et in nonprægnā. tibusetiamifta fiunt.Mammillæ tumes fa &tæ,earumque capitum fuſcus color, communiafignafunt &retentis menfi bus,& prægnantibus.Pondus circa pe et en,non in grauidismodò fed, in rete tis menfibus, in mola, et veficæ calculo obſeruatur, Ymbilici egreffusex mul 6 tis caufis præter naturam fieripoteſt,nó ergo peculiare grauidarú indicium eft, Yenæ tumefadęin nariú angulis iuxta lachrimalia, non in grauidis.modo ap 7 parent, fed in quolibet abdomin's et fplenis tumore, et in occlulis menfi bus. Obſtetrices anatomiæ ignaræ de queunt intimum Vteri orificium tange sc,licetmanibuscontractent,illud enim valdeà labijs matricis diftás eft,ipfe au té externá Vteri tantummodo orifici um tractare poffunt, quod femper, et grauidis, et non grauidis apertum ma net, experimentum Hippocratisde hy dromelle, et acuto luftumigio non æter næveritatis eft, vtGalenus et Auicenna comprobarunt. His itaque indicijs vere conceptum explorari non pofle expla natumeft.cognoſcimus tamen ſigno e uidenti et infallibili indicio prægnan tes mulieresin primismenfibusMitren chitæ fue Specilli, quo liquores in Vte rum inijciuntur,auxilio.hoc apud vete. resin magno vſu erat. Profecto;li illius in foramen Vteriexternum apicemin. mittimus, quod fumma cum dexterita te finiftræ manusdigito indice inuenie. mus non enim quilibet inexpertus in yenirefciet, eft ſiquidem externum V. çeri foramé in vuluæ apice particula obe longa, et duriuſcula, quæ exigui penis puerorum exprimit imaginem)ſi ex pice ſpecilli liquor aliquis fuauiſsimus ficut efle vini tenuiſsimi pauxillumine forte exiſtente coneep'u fequatur:abt ortus) exprimitur, breui tractu votum I affequemur, Sienim obturatum eſt in timum vteri foramen, quod fit concep tu pera et o liquor Vterum non ingredi gur,& mulier faftidij njhil perfentiet. Sin autem ex intromiſlo liquore velli, cationem paruam pertulerit mulier: quod facile fiet ex maximo ſenſu parti um vteri,vưiquegrauida non erit; et V teri intimum foramenapertum reperiea tür, vt experientia liquoris oftendet. Sand.Sanctor.lib.1.de vitand error. Periculofum eft pifces frixesin humido locarefor matos fomedere; Nter magna venena piſciú frixorú, quireſeruantur inhumido, vel qui Aeterint cooperti calido vaſculo, eſus eft;bi enim in lethiferú cómutantur ver nenú, &fymptomata pernicioforú fun gorum corporibus inferút, quæ quan doq; non ftatim,ſed poft diem, vel bi duum eueniunt: oportet igitur frixos pifces in loco aperto,vtfrigeant, demita tere, fi venenimalitiam cupimus euita re.Ex ArnoldoVittan.lib.de venenis, 10. Lałtis balneum procorporis decoratie onemultum præftare. Pud veteres lactis Balneum max A idve vu, illiusfiquidem lotione,corpora, et candore, et venuſta te vigebant. Hinc memoriæ proditum eſt Poppeiam Neronis vxorem quin gentas ſecum aſellas ducere conſueuifle, quarü lacte,vt candefieret, totü corpus balneabatur. Mercurialis de Decoratione. Germantantiquitùs corporis firmi tadinimaximèvacabant. M Agna profe &to faude Germano rum conſuetudo, digna iudicatur in corporum hominum vigore confir mando:ijenim legem habuerunt,neant te ætatis vigelimum annum, quiſpianti Venereis amplexibus commiſceretur, recte exiftimantes corporum viresà nim mis tempeſtivo coitu eneruari.Cefar 6. de belloGalico. Fæminas vtero gerentes, libenter: marem admittere:bruta autem grauida nequaquam. ! Olie Vam diſsideatmulier à brutis gra uidationis tempore, bene nouit A rift.7.de biſt. animal. cap. 4. Hæc enim ſigrauida clt, marem admittit,brutoru vero omniumſola equa coitum patitur à conceptų, reliqua autemminime. Ma nifeftifsimum eſthoc in ſpeciehumana mulierem grauidam coitum pati, et ap petere. Cicutam, vterinum furoremex ": tinguere. Icet cicuta inter frigida connume. retur venena, præcipuè quæ in quis, &lacubus inuenitur,furoris tamen vterini, fiue Satyriaſis remedium it. Hic affectus Veneris eſt immoderatus appetitus, cum vteriardore, et delirio, Narrat Diuus Baſilius quaſdam vidifle fæminas, quæ Cicutæ potione rabioſas capiditates extinxerunt.Hoc legiturs. Liebe Homil.fup.Hexaemeron,cuiusverbanotr nulli intelligunt de ciborum appetitu, ego tamen potiusadfurorem vterinum, &ad renereos incentiuosappetitus de ducerem, cuius auxilio compefcuntur: quippe Athenienſes facerdotes cicutæ vfu,libidinisincendia extinguere con ſueuiſſeproditum eſt. Variolas &morbillosmorbos effe no yos, et hereditaria, &paterna prom prietate vagari. Agna eft difcordia inter feripto, origine. Aflerunt multi, hos fub nomi neexanthematum, veteres intellexiſſe, cauſaſque illorum reliquias efle excre mentifanguinis menftrui, quo nutriun fur fætusin vtero, et naturam, fiue calo. remnaturalem, ita exprimunt materiá, et efficientem. Alij minimeà veteribus fuille cognitos volunt, digladiantur que:num vitio.coli,vel ab internis cor. poris principijs apparuerint: quippe Arabes, quorú tempore cæpiffe hic mor buscreditur, eos peftem efle, fierique in pefte, et à corrupto cælo contendunt. de Equidem ante Arabum tempora nul lus-reperitur au et or, à quo morbos hos LT aut generatos, aut clare explicatos ha beamus.Proptereamulti latini, &non nulli inter ipſos Arabes, propter labem menſtrualem, lactis corruptionem, vi &tus rationem, et alias cauſas fieri fcrip ferunt.In tanta rerú difficultate, et ob > fcuritate.Hieronymus Mercurialis vir d octiſsimus, hosefle morbos hæridita o rios,ortúqueà cæli vitio temporeſcrip e torum Arabum, et proinde à veteribus haud fuifle cognitos enucleauit. Adhu ius viri opinionem libenter deuenie, quippęſi à menftruivitio, homines in ficerentur, quia hocab Euæ peccato à mundiorigine fempiternum fuit,debu iffent homines hac menftruorum labe conta&i ſemper Variolas, et Morbillos pari,tamcn vec inprimaætate, nec poſt Noe,nec ante ſcriptores Arabes quem piam hos habuiſle, apertè legitur. Aperiunt iſtorú fundamentum efleiro walidú bruta fanguinea,hæc enim (teſti monio Arift.6.de hiſtor.animal. 18. ) mé ſtruas purgationes habent, et inter cæte. ra Equus,Canis, et Alinus,tamen hæc à Variolis, et Morbillis non tentantur. At quodhuius reimagis negotium conua lidat,eft,Indosante Hifpanorútranſitú nequaquã Variolas paſſos, dirco non à reliquiis nutrimentià menſtruo fangui ne,velab iſtius excremento ortú ducunt Morbilli; quia ſià tali fuifsét variolarú, morbillorúq; origines,vtiq;ij hos mor bos experti fuiſſent. Legitur apud Ra mufiúIndiæ incolas,vitioCęliplurimos Variolis fuiffe extinctos, eoq;tempore, quo noftriáb illis gallicam luem accepe runt, cordemmet viciſsim à noftris Va riolas, et Morbillos recepiſſe.Suntergo hi morbi noui à Cælo productiprimò, cuius vitio adco homines fædati funt, vtin pofterosper hæreditatem maliſée minarias cauſas tranſmittant, proinde morbi hæreditarij dici merentur, quia paterna proprietate vagantur. Ex Mer. caridi. A1 th Dearaneorum telis,earumque ufuo inmedicina. Iro artificio Araneus telas ordi M tur, quibusmufcaspro vi&u ta. piat, hasad Tertianę febris circuitusde pellendos,multi præftantes, et celébres tempeftatis noſtremedici,non fine feli ci fucceflu in vfum præſtitere:fiquidem exiis, et populeo vnguento pilulas pam rant,corporiſque locis, horisaliquot an, - te acceſsionem,in quibus arteriariume uidens deprehenditur pulfátio, colligātas &relinquunt; indė votum conſequun. tur. Ioannes Moibanus. - Natur& cautela inmenftrualimulier rum fanguine purgandomaxi-, ma eft, MalenAgna eſt, in depurandis femina rum corporibus à menſtruali luc, naturæ fagacitas; quippe fi oculos habuerit meatus, quibus lingulis men fibus illam deponere conſueuerit,nouas adi illius expulfionem vias molitur. Proptera.multæ, ex oculis cruentas, laie. chrymas,aliæ ex narium venis farguinis profluuium emisêre,nonnullæ ſputa ru bentia pafſæ ſuntin menftruorum cefla tione.Ipfein quadam ancilla noſtra, cui menſtrua occlufa erant, ex gingiuisſan guinem profundere obferuati.Atquod magnam infert admirationem, multæ per minimum manusdigitum,& per an nularem fingulis menfibusfanguinis fu. fionem habuerunt,vt in religiofa qua dama foeminanon menſtruante ter in fin niſtra manu Ludouicus Mercatus fami. geratus medicus obferuauit. Inter rutam do braſsicam nullam imao effe antipathiam. Xſèriptoribus in re ruſtica malti, fi. fecus rutam feratur, braſsicam illico arefcere tradunt. Aliam von adducant cauſam, et rationem, quam antipathiam, et diſparitatem quandam inter talium naturam.F utile autem eſt hotum argua. mentum, nulla enim inter rutam, et braſsicam.contrarietas eft, quia tamen alte. Elec  NO altera prope alteram areſcit, id in cauſam eſle poteft,quiavtraque calida, et ficca - eft, inde facile euenire poteft, vt ob humiditátis inopiam altera, vel amba i ariditate perdantur. Pediculos morientium corpora miris Jagacitate relinquere. on leue à Medicis præfagium à pediculis in grauibus hominum valetudinibusſumitur. Hi profe &to in moritüris; quandờadeo intenfà eft huis morum corruptela, ve calor innaus re foluatur, vel putreſcat, circaventricule regionem, vel fub-mento, vbi maior eft " ealiditas congregantur,parteſque extrbó mas, tanquam calore proprio orbatasderelinquunt. Quodcalorem proprium penitus exſolui cognouerint, ab infirmi corpore mira celeritate longius abeſle: confpiciuntur. Lemnius. De Achatis lapidismirabili. natura A Chates lapis, qui ex India fertur, tum coloribus diuerſis, tum ve D4 piss TA m  nis variari confpicitur, ex quorum in.. terſectione diuerlæ imagines multoties, fabricamtur.Quod autem mirabilius eft, nuncferarum genera, flores, aut nemo ra,nuncvolucres, autRegum naturales, hic lapis portendir effigies: quippe fer tur in Achate Pyrrhi Regis, et capuri, et feptem arbores in quadam planitie ap parentes extitiſſe, Ex Camillo Leonardo de. lapidib. Ferarum natura in hominibus mie rum in modum deteftanda.. On eſt à ratione alienum, quod de Attila circumfertur, quod Canis more latraſſet: quippe Ioannes; Langius clari nominis medicus ab equi-. tibusComitis Palatini feaudiuifle retu lit, quod in Auftria homine, qui latra. tu,ac curlus pernicitatecumcanibus co tenderet, et cũillisin ſyluis illæfus ve naretur,vidiffent. Hæcauténaturaabfq; dubio deteſtanda eft, quippe tales. im manes ſunt, et in hominum occiſiones procliues, vtAttila crudeliſsimus fuit, NRege in es Ees et in viuentium cædes pronus, à quo tot Vrbes, et populi vaſtati ſunt.. Non modòinfæminaslaſcinire homi: nesverum, etiam brutacernuntur. Omines laſciuire in fæminas, nec nouum, nec inauditum eft cum anebo fub humana fpecie contineantur. Quod autem bruta in eafdem laſciuiant, mirabile eft,Plutarchus in Dialog. Ele phantem in Alexandria fæminam qua- - dam,quæ coronas ſutiles componebat, fuiffeque Ariſtophano Grammatico rio ualem, adamaſſe retulit: A micę,per pla team tranſiens Elephas,&poma, et frum et us donabat, multiſque indicijs, et a morem, et ad fervitutem promptitudi nem declarabat,læpeque à latereafside bat, et laſciuè mammarum loca tange bat,Serpens etiam quidam (teſtimonio eiuſdem ) puellam ardentiſsimè adama uit,no et u ad illam accedebat, placide. - que amplectebatur, &à latere dormie bat, luce autem aduentante nulla illata kelione diſcedebat.Parentes,ne à ſerpé tele. t n itas te læderetur, aliò puellam afportarunt: Ille autem ad amicam vltimo peruenit, quá nonmorefolito'amplexa,ſed qui dam amantium ira in illam irruit, ma nuſquepuellæ nodis vinciens,caudæ exe tremitate amicæ tibias verberebat, profecto præreritę fügæ,atqueablentiæ: iniuriam vlcifci videbatur: Quomodofamine vterogerentes: conceptumvaleantoccultare. Aximam Sabini cuiuſdam Roe mani vxoris in occultando conceptu referam ſagacitatem, quo præfi dioaliæ confimiliter,fi optabuntfæmiö. næ à conceptionis.indicijs faciliter oe cultabuntur.Illa quidé dû aliæ mulieres; fecum lauabantur ventris tumorem ce.. Jare cupiens, vnguento, quo ruffas, et aureascomas.reddebat,ab vtero corpus vniuerſumlinire folebat. Illius erat vis pinguitudinem, ſiue carnis inffationem, aut laxitatem efficere, propterea com. Go: lange in corporis particulis vtebatur, Hlud tumeftumrepletumque redde MA bat, ventriſque tumorem ' occultabat. Parabatur(vt' puto )'vnguentum ex res bus rubificairtibus,& puftulas inducend tibus,calcefcilicet,auripigmento, tiap s. fia, et lulphure, hæc enim alijs rebus co --- mifta veteres ad capillorum cultum cad 1 piebát,ſin a.in aliqua corporisparticula applicantur ex magna caloris vijaut hu mores ex alto ad fummum:trahuntur; aut ipfis fuſis.gignuntur:flatus cutis, et extima corporisſuperficies attollitur, et in maiorem molem ducitur.Ex Plutarc... inlib - epwTikā. Fructuum, vinearum,iumentorumga interitus praſagium. Agnun à mori germinatione ca Lpiturpræſagium, mörus enim. ideo à Theophraſto prudentiſsima vocatur, quia omnium nouiſsima gera minat, et pruinis non tangitur: Idcirco fructus, et Vineæ à mori germia minationeà pruinis liberi fünt. Ea tam menquando à pruina lædi contingit(fia: D G quidemosi M Ty et fiquidem læſam in Aegypto, vt in pſala mo77 legimusMoyfis, tempore prodia tur fuiſſe )Colimaximamarguitintema periem,& proinde fructuum, vinearum. que interitum declarat.Atmaius ab vl. mo &perſicopræfagium capimus, quip pèvlmi, et perfici, folia, præter tempus decidentia,peftem inomniiumentorű,. &pecuino genere præfagiűt. Ex Cardano., Fætoremextinéta, lucerna vteroge Trentibus,infeftumeffe,& ini. micuin... Dor extinctæ lucernægrauis,adeo tur, vt in abortum faciliter conducat. Id: alleruit Ariſtot.8.de hiſt. animal.c.24. vbi non modo mulierés grauidas,,verú. didit.Profecto malus odor fi odor. fi prægnana. tjú corpora ingreditur, quia fætus im becilliseft, et à quolibet alteråtur,facili negotio inficitur, eius caro tenerrima, et ſpiritus inde abortusſequitur.. At no Kemelextinctalucernæ fætor perniciē. quoque Ila He 4 i quoquc hominibus attulit, vt carbones in cameris teſtudinatis facere accenficó. fueuerunt. Duos monachos retulit Pe. trus Foreftus in obferunt. medicin..cum nodu cellam ceruiliariamintrașent, vt fæcem cbullientem exportarent,(fortè candela extincta )cum exitum non inue nirent,ſuffocatosfuiffe,ac mancmortu. os effe inuentos. Infania,& furori àfolanofluatico contrattis vinum potentiſsimnmfora gulare eſe prafidium. Olamur. fyluaticum, quodà multis Belladonna dicitur,tantæ eft immani tatis,vtinlaniam, &furorem hominibus eiusacinos.comedentibusinducat, AC cidit cuidam (referente. Hieron. Trago dib.i.hiftor. ftirp.) quiin fylua plantam vi. derat talis calus: hicmultos decerpfit acinos, et deuorauit: altera verò die in tantam inſaniam,& furorem deuenit, vt plerique illum à Dæmone obſeſlú cre derent.Intellecto tamenmorbo, vinum fortiſsimumà. Trago illi propinatum Spelaria D? esto)  eft, quo facto conſopitus,paulòpoft con ualuit, et abfquelslione vixit, Lolium tritico", alýſque cerealibus: commiftum varia hominibusfymptom mata attulille. Anis,in quo- lolium fuerit, ſtuporem quendam,ac veluti temulentiam efi tantibusparit cum fòmno inexpugna. bili.Id Gatenus afferuit lib.1.de Aliment: facult.Etenim (inquit )cum anni confti tutio praua afiquando fuiffet, lolium tritico affatim ispaſci contigit, quo haud feparato, quod paucus effet tritici prouentus ftatim quidem multis caput dolere cæpit ineunte æſtate in cutemula torum,qui comederant vlcera; et alia fymptomatafunt fubfequuta, quæ fuc corum.prauitatem indicabant, Lolijta. mennocumento acetum efle præſenta Deum remedium iudicatur. Quare tum Htritico,tum abalijs feminibus cerealio busdiligenterloliumfeparandum eſt. Scorpio Scorpioidem herbam Scorpionum: iltus feliciter fanara. Irabilis eft herbæ Scorpioidis in: M Scorpiones potentia,illi quidem huius tactu,exocculta diſcordia exani. mantur, &intermoriuntur, tantam in ter eosanthiphatiam natura indidit.As' quodmirabilius eſt exanimati Scorpi. ones,fi Hellebori albi radice tanguntur; ad vitamreuocantur. Propterea.Scorpi oides,Scorpionum ictibus impoſita fe liciter et citilsimè illorum virus mor, - tificat,viculque perſanat ex, cuius prz. tentancain illos virtute à Scorpione now. men fumpfit, et Scorpioidesdi&ta eft. Mirabilesin biomiwibus proprietatesquase doger adfuiffe. Dmiranda profe &to in homini bus quandoque vifa funt. Regem Pyrrhum aiuntpollicemindextro pede natura habuifle, cuius, taču lies nelis medebatur: bunc cremari eum religae A réliquo corpore haud potuifle perhibet.. De Samplone legitur infacrisLitteris, quod in capillitio mirabilem contineret virtutem, qua aduerfis quibuslibet re fiftere audebat. Veſpaſianūtactu.& fali ua, et fine his quandoquenon paucis af feátibusmedicatumeffe tradunt.Ego e. quidem idiotam cognoui hominē, qui Ipuitione ſola in osinfirmi ranulas per fanabat, &licet primoafpe et u a&u De Monisid perfeciffe dubitauerim, quieui tamen,cum fimpliciter curamagere illú: cognouerim. Dolorem colicum Bubulo ftercore per Sanari. Agnam Bubulo ſtercori" dolorem colicum fanandi indidit efficaciamquippè apud fcriptores legi, et à fide dignis audiuiffe viris afferit Geſnerus, illius potu complures ruſti.. cos fuiſſe liberatos,qui enim ftercus ari dú in iuſculo bibit, ftatim fanatur. Hinc apud multos mosortus eft,vt nonnulli nonmodo ipſum excremét aridum,ve rum.  1 E1 uum recens, et expreflum iufculis ebi bant, et melius habeant. Ego quidéru fticis tantummodo remedium præbe rem, nobilibus vero, ne nausean indu cerem,non auderem,cum nobiliora pro ijs habeamus præfidia, ſufficerent tali.. bus ex eodem ftercore cataplafmata, vt enim reor,ex proprietate tale auxilium colico dolore vexatis,ſubire confueuit. Epilepſiamfrumafqueverbena ako xilio evaneſcere. Aturalis Magiæ profeſſoresverbes: nam (Sole Arietemi ) colle et am graniſque pæoniæ fociatam, contritam, et ex vino albo hauftam per colato, epilepticosinftar miraculi fana. re prodidere.Hoc exHermetetraditur. Nop.minoreft ejuſdem radicis efficacia, quippe collo eius appenfa, qui ſtrumas, patitur,mirū,ac infperatum adfert pra fidiumReferunt Aſtrologi hanc Vene ri effe dicatú, ffrumaſque delere,quod Veneri ancilletur, quæ collo præeft, propter Taurum eius domicilium.. Ex. Durante inHerb. N1111 i Arbores quandoque in lapides commutantur: N Danico mari, iuxta Lubecenfem vrbem Alberti Magni'ætate, arboris ramus inkientus eft cum Nido, et pullis, qui cum in lapidem omnes, cum arboré et nido eflent conuerfi,purpureum ta = men,(vtipfe retulit Jadhuc colorem fa um retinebant. Georgius Agricola eti am memoriæ tradidit,in Elpogano tra étu, iuxta oppidum à Falconibus cog nominatum, Abietes integras cum cor tice in lapides verſås elle,atque, quod maius eft, in rimisetiam porphyritidem Japidem continuifle, quod maximè foc Tertiſsimæ naturæ operibus tribuen dum eſt. Bardanamaiorcum mulieris piero magnam baber ſympathiami quæ MPerfomatia diciturinmulieris yra rum, magnaque eft cum illo eius fym. pathia, quippe illius foliun lämmo ca. pite geftatum matricem furſum tollit, fub planta pedis deorſum. Propterea huiufmodipræfidium aduerſus matri cis ſuffocationes,præcipitationes, ac tiſo locationes præſtantiſsimum à multis iudicatur. Ex Mizaldo, Quomodo literas axrei colorispinger. valeanks. VI T literas aurei coloris habere pole fimus,auri ſolia quot libuerit, eli gemus quibns mellis tres vel quatuor guttas miſcebimus, hæc infimul conte renda funt. ad vnguenti fpiſsitudinem, in ofleoque vaſculo conferuanda, Cum autem ad ſcribendum.huiuſmodi mir ftura vti volumus,aquæ gemmaræ ali quid addendum eſt; vt operi liquorap tior exiftat:ita profe et ò litteras habebi. musincomparabiles. Ex Alex. Pedemono Lano. Qyomodoveftigia; et défórmitates vario lis,&morbillis bomines poſsint. euitari. Ne 92  E morbillos. in facie, corporeque hominum remaneant, expertifsimum apud me, quod in publicam vtilitatem placuit aperire,eftpreſidium,quo vten tes pueri puella quedeformidate, quæ ab ijs relinquitur, carebunt. Cum va riolæ, fiuemorbillimartruerint, et in medio oculi quafi albicantes enricu erint, quod eft fignum bonæ matura tionis,omni die bis oleo amygdalarum dulcium recers. expreffo plura leuiter oblinire oportet, donecexſiccentur, ita profe et ò, vt fæpius experiri libuit, ve Itigia non remanebunt; et quod melius eft,oleum hoc'excoriatas variolasmira. bilíter ad fanitatem perducit. Quantum in hominibus: vfus vene norum valeat. Ithridates fæpè veneno epoto, adeo venenorum tis auxilijs corpus diſpoſuit,vtcitra of fenfam venena ebiberet. Cum autem à Pompeio profiigatus eſſet,atque in ex trema:I trema fortunæ miſeria conſtitutus, è vi e taillæſus diſcedere feſtinabat, quaprop ter venenum hauſit, et pluſquam fatis eſſet,nectamen emori potuit,cum con tinuus venenorum vſus in hominum naturam pertranſeat.Ex Plinio. Inhominibus vermes figura maximè differunt. V 23 5 admodum funt differentes, quippe in quodam Antoniano CanonicoMon tanus obſeruauit.Hiccolico dolore tor quebatur, cuius moleftia Hierameram deuorauit,vermemque deiecit.Erat ille viridis, figura lacerti, ſed craſsior, hirfu. tusq;, et pedibus quatuor innexus.Breui tempore à fera propulſa, canonicus obia ic:contra illa in vitrea phiala aql a plena, per menſes aliquot viua ſuperſtitit. Ex codemMontano lib.4.6.19. Calculusrenum, veficæque in homi mibus, quopacto confumi valeat. Lapil  t Apillus, qui in Tauri veſica,men {e Maio reperitur, magnam habet in conſumendo calculo efficacia. Hic fi vino imponitur, mutato paululum ſa pore, colorem croceum contrahit. De hocvino quotidierecens effufo, donec lapis vino impofitusomnino conſum peus lit, à calculo infirmos bibere opor. tet. Hac enim ratione, nó modo calculú comminui, verum etiam conſumi mul. tos experientia edocuit. Ex Quercetane. Filiosà parentibusfignum aliquod recipere, vulgatifsimumet. " Ilii omnes patrium aliquid, aut aui tum ad vnguema retinere folent,ver Tucam ſcilicet, vel cicatricem, vel effi giem,velmores, autmanuum lineas.In domo noftra omnes à parentibus verru cam in brachio habuimus, et Marcellus filius meus ex me confimiliter. Proue niunt hæc à feminum miſcela, ſpiritu umquevtriuſq; parentis ſeminaliú,auo rumq; effuſione. Proptera etiá ſuccedit, File (fire fi feminain filiorum generatione benc mifcentur,atque in minimas partesiun guntur) vt fætus robuſti euadant. Hac enim rationefpurij robuftiores exiſtunt quoniam ob amoris vehementiam, ve triuſque ſemina multum, beneque.co. ráiſcentur:Ex Cardano de subtit. go D: Marerubrùm in plantisproducendis terre vigorem obtinuiffe videtur, to Adel D mare rubrum afbos nulla in terra prouenit,præter fpinam, quç dipras vocatur. hęc autem propter fer uores, &aquę penuriam rara etiam eſt, quippe non nifi quarto, quintoue anno pluit, et tuncquidem impetuoſe, breai quam te?mpore. At- in mariexeunt plantz, cat quelaurum et oleam appellant.Läu rus arię fimilis in toto eft, olea folio ta tum fru et um oleę proximuin his noftris oliuis parit, et lachrymam -emittit,ex qua medici, Irftendo fanguini medica Hentủ compopunt: Cú auteaquỵ plures inceflerit,fúgi iuxta mare quodãin loco crum HM erumpunt,qui Sole tacti, in lapidem co mutantur. Ex Tbeophr.in 4. de hift.plan. Incapillorum defluuio ex Hydrargynı lac epotum peculiare iudicatur auxilium.. rifabris capillorum defluuium in ducere conſueuit, aliaque ſymptomata; quæ tales in mortis pericula conducunt. Pro huius immanitate, vtiin potu capri no lacte, illudque cum pane commede re,fingulare et expertum eft remedium; quippe ſedata illius vi,atque potentia,à veneni morte liberanturægri, et piliite rum nafcuntur. Ex Foreſto in obſeruat.med. Inter Lupum, Agnum maximam effe antipathiam. Tantralis difcordia,vt ipfisemor., tuis in eorum chordis id etiä eluceſcat. Si enim ex Lupi, Agnique inteſtinis, chordæ conficiuntur, in inftrumentis muſicis applicatas minime concentum vocefque lonoras reddere,fed continuo tadas Bo ta &tas dillonare obſeruatum eft:at quod mirabilius eſt, agninas chordas à Lupi funiculis corrodi, et confumi, fi fimul n repofitæ fuerint,comprobatum eſt. I demde Aquilæ, &anſerum plumis fer tur, Aquilæ enim pluma naturali antia pathia anſerinas poſitæ interplamas, vt docuit experientia eas conlumunt et corrodunt, Quadam pro Epilepſia admiranda reperiun. RiaabHoratio Augenio ioluiscá. (ult.pro epilepfia curanda magne efficacię proponuntur remedia. Primo lococarbo eftille odoratus, qui fub Ar timiſiç radicibusęſtiuo folftitio colligi tur, quiper dies40.infirmis,aliquocon ucnienti liquore exhibendus eft mane ieiuno ſtomacho.confircor ego cuidam, epileptico huiuſmodi remedium ada modumprofuiſſeSecundo loco,Mufte lę fanguis adducitur, hic pręſtantiſsi. mus proepilepfia ſananda cenſetur,au. joris experimento, vidit enim fanatum E epilep probauit, fanari confueuit. Colligitur epilepticum fupra 25.annum,ſolo huius fanguinis vfu potati ſcilicet ftatim at queè venis exiſtadvoc.ij. cum vnaacer. ti:Vltimo loco tefticuli Apri,aut faltem Verris fiueSuis domeſtici-Venere vtéris; &tefticuliGalliexiccati in furno mira biles cenfentur;hi in puluerem tenuiſsi. mèredađi, cum zuccaro mifcentur, et decem continuis diebus epilepticis ad drach.tres,cum aqualettonicæfelici cũ fuccefsu.exhibent. Flatuofam inmembrisconuulfionem lignoce peſcoperfanari, Onoulſio illa, quęà flatu in mufcus lis, et membrisoritur cum dolore, Chanc noftrirampham,ſiue gramphum.yo cát)nodis ligneis à viſco, quod in quer. cubus'adnafcitur, vt experientia com С. viſcuin aftiuo tempore,Sole in Lepois fickere commorante,tunc enim perfectia onis complementumadeptum eft, Dc. bent nodi ligneiillius, loco patienti fu perponi, vtitarimfiatus: diffugiat,pio gui ficco, renuiq; prædirum eftlignum, * aut occulta ratione, vtvoluirCardanus Confiteor,multis taleprælidium ad pre feruationem meconfuluiſie,votumque $ fuiſſe aſſequutosſola iſtius ligni tuſpen y fone. Annult ex bubalorum cornibus | huiufmodi etiam dolores prohibere multa experientia, ex eodem Cardano i obferuati ſunt. Quomodo nonnullorum animalium vent num corpora vostra ingrediatur. Pedido Halangium cum aliquem momor. dit, quamuisparuum fit animal,ex. - iftimare tamen debemus, venenum ex ipſius ore, primo quidem in ſuperfici em,deinde vero in totum corpus defer ri, Præterea marina turturis, ficuti, et terreni Scorpionis aculeus, quamuis ir extremam illam acutiſsimamque par temfiniatur, vbi nullum foramen eft, per quod venenum deijci pofsit,neceffe en eft vt excogitemus ſúbftantiá quianda ineſſe illi,aut fpirituale,autAgidam,qnz E vt mole minima, ita facultate eft quam maxima.Siquidécú nuper fuiſſet quida ict Scorpione, videormihi eſle(inquit) percuſſus grandine:eratque omninofri gidus,frigidoq;fudore perfufus.Quip pe vbi exicta parte,pertotam iplamce leriter diſtributa fuerit venenivis,con tingiteam, endemrurſus.contactu,in fingulas ſubiectarumei partium recipi: mox ex illis inalias continuas, done: in aliquam peruenerit principe:quo tem forémortis periculum inftar. Ad hanc remin primis conferunt vincula parti bus fupernis inie et a, abſciſsioque pare tium venenatarum. Noui equidem ru fticum,quiepoto è viperis medicamen to, reſciſlo priusdigito euafit, ficut, et alium quendamqui ſola ſectione circa medicamen eſt liberatus. Hac Galat. 3. deloc. aff. Mirabile ad Strumas gurturis, ramicem, Adem44 Yemedium. Dmirandum remedium ad ſtru. A mas. Cupreſsi foljaneque teneri. ora,neque duriora in puluerem com di minties, tortiuo vino confperges, atque ita volutabis, dum in fæcis corpus coe TH ant, inde fruma, velramex indecitur, pe tertio primum die foluitur medicamen tum, contractum locum inuenies, quidie o gitis-exprimidebec rurfus ad tres dies idem pharmacum applicabis,eodemque modofolues, &exprimes; feptimodie, vel ad fummum pono, ſtrumæ velut miraculo abolebuntur. Valet etiam ada ramicégutturis, parotidas,omnemdur se ritiem, et ædemata. Hie tollerininhere fit.Chirurg.6... Peftilenti tempore in:er pracipua-prafidia: aeris re&tificatio fummum iudicatur. Mnilaudedignus, omniq; decore admirandus Hippocratesiudican dus eft,qui peſtem illam ex AEthiopia ad Græciam venientem, non aliorepu lit auxilio, quá aeris purificatione.Præ cepit enim,vt per totam ciuitatem ignes accenderétur; qui non è fimplici folum materia,fed etiã beneolenti conftarent. Qua propter, et coronas odoriferas, florefquearomata,vnguenta pinguiſsi magrati odoris, et alia iucundosodores fpirantia, ciues igniſpargebant, quo paa Eto aer purusfa et useft,& ijà peſte tuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno. Portaldara fenuinis contra lumbricas: magna estefficacia. Nlumbricis necandis nonmodòPon tulacz aqua ftillatitia aptiſsima iudi.. catur,verum etiam illius femen.Narrat enin: Arnaldus Villanoua, quendam puerum, dum effet in mortis periculo Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum lacte fumpfiffe,atque lumbricas multos emiſiſke,fuiffequeliberatum. Quorundam animalium vita terminus con. ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, et Catus totidem. Capra o et o. Afinus triginta.Quisdecem: fed vir gregisfæpè quindecim. Canis quatuordecim, et quandoque vigintiTaurus. quindecim. Bos,quia caftratus,viginţi. Sus, et Pauo viginti quinque.Equus-vigioti,&non punquam triginta, inuenti funt, quiad quinquageſimum peruenerint.Colum biodo, vti etiam Turtures. Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui non nunquam ad quadrageſimumperuenit. Ex Alberto Låddoloresarticulares electuariano mirabile. Periam electuarium illud mirabia le, quo ego in doloribusiun &tura rum, et in arthritide cum felici fucceffua nor femel vfus fum. Huius auctor Pem trus Bayrus eft,licetipfe Galenicompofitionem efle dicat in -lib.18: fuæ Praski. Confiteor fubito ſoluere finemoleſtia, ignitum caloré extinguere, et membra patientis adeo contemperare, vtmultas viderim, endédie, qua pharmacum acce. perant, à ſella ad locú propriúſine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermos Qua propter, et coronas odoriferas į floreſquearomata, vnguenta pinguiſsi magrati odoris, et alia iucundosodores fpirantia, ciues igni ſpargebant,quo paa cro aer purus fa et useft, &ijà peftetuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno.. Portulara feminis contra lumbricos. magna est efficacia. Nlumbricis necandis nonmoddPon tulacæ aqua ftillatitia aptiſsima iudim. catur,verum etiam illius femen. Narrat enin: Arnaldus Villanoua, quendam puerum, dum eſſet in mortis periculo! Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum lacte ſumpfiffe,atque lumbricas multos emifiſke,fuifíeque liberatum. * Quorundam animalium vita terminus.com ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, et Catus totidem. Capraodo. Alinus triginta.Quisdecem: fed virgregis læpè. quin io rabia quindecim. Canis quatuordecim, et quandoqueviginti.Taurus quindecim. Bos,quia caſtratus,viginti. Sus, et Pauo viginti quinque.Equus-viginti, et non punquam triginta, inuentiſuật, qui ad quinquagefimum peruenerint.Colum biodo, veietiam Turtures, Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui nons nunquam ad quadrageſimum peruenit. Ex Alberto Laddolores articulares electisarianos mirabile. le,quo ego in doloribus iun et tura rum, et in arthritide cum felici fucceffu non femel vfus fum. Huius auctor Pew trus Bayrus eft, licetipſe Galenicompo fitionem efle dicat in lib.18. fuæ Brasti. Confiteor ſubito ſoluere ſinemoleſtia, ignitum caloré extinguere, et membra patientis adeo contemperare,vtmultos viderim, eadédie, quapharmacum acce perant, àſella ad locú propriú fine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermodactylorum alborum à cordis fuperiorimundatorum, et Diagridii an.. drach.ij.cofti,cymini,zinziberis,cario phyllorum an.dracij.trita, et cribellata conficianturcum fyrupo fa et o exmelle, et vinoalbo inuicem coctis,donec ſyru. pi bene codi formam recipiant. Dofis eſtà drach. ij.ad drac. iiij.fecundum in firmi tolerantiam. Auctorconfitetur ter ab huiuſmodi doloribus fuiffe correp tum,& femperinaurora huiusele et uarij (quod Diacoftum vocat )vnc.ſem, acces piſſe, et in vna die conualuiffe. Ego dia-. gridium in minoridofi,exhibuifemper et beneſucceſsit. Periculofumeft Bafilicum continues adorari. Vantį ſit periculi, herbæ Baſilica frequens odoratus plenus,ex Hol Jerij exacta obferuationeperfpicitur. Quidam enim Italus ex continuo eius odoratuin vehementes, &longos inci-. dit dolores capitis ex Scorpionein cere bro epato,cuius caufa morsconfequuta eft ck Ratio apud aliquot huius euentus,ea potiſsima eft, quod Bafilici folia ſub te. ftafi et ili putrefaéta in Scorpiones mu tentur, ex quo arguunt, frequentem o. doratum animalcula quædam Scorpio onuminftàr, in cerebro geocrare. Vte cumque tamen fit, Bafilici odoratus ad Syncopim, et animi hominum deliquia, mirumin modum prodelle compertum cfts Piſcem Torpedinem, dolores capitis àcaufa calida feliciter fanare. Nter fele et a, et quae dolores capitis à caula calida auferunt remedia,Tor. pedo piſcis eft. Aitenim Celfus, quem ſequutus eft Seribonius Largus, huius Puciscapiti affricatu,adeo tales dolores remoueri vtin pofteru redire nequeant. Cauſa torpedinis qualitas eft,ipfa enim viua in mari, et procul, et à longin $ quo velfi haftá; virgaveattingatur,tor porem piſcatoris mébrisinduceredici. tur, vt Plinius lib.23.prodidit. Idcirco etMatthiolus dixit) mirum non eft huiuſmodi affe& us, quodam ftupore: feliciter ſola confricatione fanare. Queex occulta natura proprietate fiunt, mirabilia videri. Aturæ arcana femper hominibus, admirationem præſticere:ratio eſt,, quia caufas ignoramusproprias, et pro.. pterea in ſpeculandis his ce pitamus, necaliud nobisreftat, quam føla admi. ratio. Quis enim non admiratur, cur: Hyænæ vmbræ conta et u, canesobmya. teſcant?Cur Eryngium ore Capræſum. ptum totum gregem fiftat? CurGallina, appenfo miluicapite nunquam quiefcea. re valeant? Curappenſo allij flueſtris capite in ouis collo, quz in grege omnes antecedat, Lupi ouibus nocere neque.. ant? Profe &to hæc mirabilia funt, et in refum fympathias, et antipathias, et na-. turæ arcana reducuntur. Nonnulla animaliareiuuenefcere: proditur. Agnum natura quibuſdam anie. inalibus pro fene&tute euitandai, COA conceſsit releuamer, Ceruus enim elu, ſerpentum renouari dicitur, quippès dum fentit fene&tute fe grauari, ſpiritu, per nares è cauernis ſerpentes extrahit, fuperataque veneni pernicie,illorum: pabuloreparatur.Colubri quoque alijq; ferpentes quoniamper hybernas latebras. vifum obſcurari ſentiunt, primo vere, maratro, feu feniculo feſe affricát,illud, que comedunt, ita vifum recuperant, &, exacuunt, et vetuſta tunica depoſitag pelleque priori reiuuenelcere dicuntur.. Qgorandam animalium carnes ad vitæ lorem. gitudinem palere. Longifsima vita aliquorum ami.. malium vel eorum proprietate, multi fapientés vitæ longitudinem in hominibusinuenire conati funt,volunt enim carnium efu longæ vitæ animali um,vită poffe produci, re& ecenſulen. tes ſolidá nutrimentă,multú,diùq nutri R, et à morbis defendere. Hac ratione Ceruicarnesprecipuè iuuenisadlógitu L6 dinem vitæ valere autumant, Reculit Plinius quafdam nouifle principes fæ minas,omnibus diebus Cerui carnes de paſtas, et longo ævo febribus, caruiffe.. Dioſcorides lib.z.longam ſençđuter cos agere dixit, qui Viperę carnibus, veſcuntur.Propterea Pliniuslib.13»An tonium Muſam Cæſaris Augufti medi cum dicebat, Viperas in cibis ijs dediffen qui ab vlceribus incurabilibus affligea bantur,ratus hoc auxilium, vitam illis, producere,atque omnesſanafle.Exlib.3; Conuiuij noftilitterarij. Abfürdan, ridiculain effe Paracelli opic. nionem,de homunculi inpbialia vitrea g !.. meratione, de partu. NPara Onmodo ridicula,ledinfanda eft: Paracelfi, damnatæ memoriæ opi-. niode homymauliconceptione, et partu.. Scripſitenimex feminehumano in ama pulla vitrea. conie et o:;: et aliquandiù: fub cquino, fuma, Itabulato, homun-. Cului culum gencrari. Vt autem hanc hypo.. thefimfaliam ille impiusdoceret, exo uo fumpfit conie &turam,quod cum op ſeruaret in loco calido concludipofle, et ex eo tandem pulliim excludi, perſuaſit hoc idem in humano ſemine in vitreo vaſculo reclufo poffe contingere. Sed vana, et fabulofa ſunt eius figmenta, fi-. quidem ex putrefa& o femine, in an. pulla fub fimo recondita talis homun.. culi partus fieri nequit, qualis enim eft cauſa,çaliseffe et us conſequitur,proinde ex putrefacto nihil,piſi corruptum ori.. tur. Infuper in fetusconceptu,vt ex fa. ais:diuiniverbidecretis capitur,ſemen virumque viri: &mulieris concurrere opuseft, præterhęę conceptio haud ori turniſi. fuerit vterus benetemperatus, tanquam hortulus à Deo deftinatus ad hanc prolem, cui fanguis maternns fi mulaffluar: quippè fi.materni- fanguinis deficeretappulfus,necfemenaugeri,nec ali planıę inftar, necpartes conformari pollenr,, vt omnium philofophorum E. 7 conſenlus eft. Ad hæc inter fætum, et vtero gerentem fympathia quædami requiritur, vr calorem, et nutrimená. tum à matre recipiat, et à fætu viuena te inatsis calor augeatur: et abia' ad cona coctionem, et produ &tionem feliciter fuccedant. Quæ omnia fallain effe Pas tacelfi coniecturam atgtrunt: ille enim non perfpexit in ouofemen, exquo puls dus fit, fimulcum alimento vernaculo conferri, et in teſta per fe porracea tans quam invteroquidemconcludi; ex qua pullus ali, et refpirare pofsit Semen vero humanum caloris, et fpiritus Cu iuſdam viuifici particeps, &conforss quorum vi, et beneficio fir generatio, antequam in vitream ampullam per funderetur, eodem temporis veſtigio exhalaret, et conceptio euanefceret: Hue aceedit, quod deeſt fanguis, quo femen nutritur, et augetur. Adde quod per ampullam vitream, fub fimo recon ditam tetas fpirare nequiret confuta.. maergofunt Paracelfiftarum fomnia,& fabula fabulofa eorum magiftri conie et ura; et vana de homunculi partu affertio. Ex. Georgio Bertino Campano. In Armenia nines rúbentes fieri. Iues omnes(fublata philofophand tium ratione)albæ funt, et ita ius d cat fenſus, vtnon immcrito Plinius lib. 17. capite z: niuem vocaverit cæle ftiumaquarum ſpumam. Nihilominus Euftachius Homeri interpres, in Ara menia niues rubentes confpici retulit. Harumcolorçm multi fapientes rummi Aantes, non natura niues rubentes fieri, fed accidentaliter illic voluere. Illa enim loca minio luxuriant, cuius colo re ex halātiones, è quibus in Armenia ninesgenerantur, pallutæ, rubedincm. acquirunti. Pro quartana febrejſalitaremedia. A Rnaldus Villanoua pra fecreto ha. buit in febrequarrapaexhibere taxi barbaſsi radicem ex vino per dúashoras. mote acceſsioné, et Dominus osdecorde: Ceruiad drach. Itidemex vino alterator di& amocretico, ſaluta, chamedrio, chamæpithio, &myrrha ex fucco abfynthit ad ſcrup.ij.caftorei eriam, et bituminis anſcrup. ij. ex vino: Alij,vt quartanam excutiant, infirmis dum in acceſsione affliguntur, timorem ex improuifo incu tiunt. Proptera Titus Liuius fcripfit, Quin et umFabiuin Maximum in con fictu febre quartana fuille liberatum... Terra Lemonia contra venena miram: babet efficaciam. Nterpræſtantiſsima auxilia contra venena,terra Lemniaconnumeratur, quæ ad Cantharides,& adLeporem ma rinú adeò pręſtat, vt quadam proprie. tate, deuorata, omnevenenum per vomitum expellat, quemadmodum mul tis experimentis hæc omnia didicifle. Galenusconfitetur, Lumacalapidem,partümulierum facilitati. Icitur Lumaca, lapidem nobiliſsi.. me virtutis in capitcretinere, qué fi trio I tritum ftranguriofis liquore aliquo conuenienti dederis, vrinam foluere, i breuiterq; fanare comprobatum eft. AL mirabilem baberingrauidamulierecó. Senfum:quippe appenfam fi ſecum por tauerit,in abortum minimè incidet, fin autem tempore partus tritam,cum vino capiet,multa facilitate pariet: fiquidem lapides himeatusmuèaperiunt, è qui-. bus fætui facilior datur tranfitus. Ex: Ifidoro.. Kamum fympathian in aliquet bruto mirabilem. elle Izaldus lib. 1. arcan: &Podinus: lib.3,theat.nat.obſeruatű,exper tumque audiuiſſe aiunt,Vaccam,Quem Equam, Afellam, Canem Suem, Felem; fimiliaq, foeminei generis animalia do meſtica, et manfueta, dum vtero gerunt, autinterire, autabortum parere, fi mas ex quo conceperunt,ma&tetur autocci.. datur,tam valida eft,ac vehemens-illo rum inter fe fympathia. Hoc autem an verum fit,confiteor, menondum fuiffe expertum.. oletno Oleam -arborem puritatis virginitate of amantifsimam. Liva fimanuvirginea plantatur, et educatur,,vberiores fructus præbe redicitur:, vſque adeo puritatis eſtamā tiſsima, et labis nefcia. Hacde cauſa, ve Teor,abantiquis ſapientibus olea, Mi neruæ dicata, et confecrata füit. Audiui equidem àmultis, alearum à laſciuis mulieribus non femel fuifle collectas fructus,calq; fequenti amo parum fru et ificaſſe,ExCarolo Stephanointideraruftia Aftronomiam Medicis effe neceffariam. PRudens Phyſicus Aftronomiam in telligere debet, aliter perfe& usMe dicus effe nequit.Cum autem ægros -Cųe rare intendet, Lunam afpicereoporte bit, fi enim plena cſt,crefcitfanguis, et humiditas in homine, et beftiis, et me dulla in plantis, ita voluit Hippocr.inl. dediſciplina Mahemas: qui apud Galore peritur.Cum ergo quis in morbum in ciderit,fi Luna è combuſtione exit,tunc iei creſcit infirmitas vfque ad oppofitio bis gradum, quo tempore per a &to cceli themateaſpicienda Luna eſt,an cum alia quo planetarum ſocietur fortunato, vel et infortunato;numin malovelbonofue. titalpe et u; et an dominúdomus mortis. afpexerit; ita enim de morte, et vita; de morbi longitudine, et breuitate infire morum accuratiusconie &turarepoterit.. Ex Hippers. 10ak. Ganjucto. Saturni,Martiſque coniun tionem inTauro, Bobuspeftilentiam pradicere futuram. A. Strologorum ex multaobſeruan tia decretum eft, cum Saturnus. Hupiter,& Mars, vel iftorum duo fimul iun &ti fuerint ſub humano figno, cona. currenti ad eam ftellarum fixarun vea Denoforum animalium afpe et u,morbos peftilentes hominibus effc futuros. Ex diuerſitate autem Zodiaci brutis quan doque contagium appariturum, faluis hominibus. Vnde notat Auguftinus Sueſſanus in comment.Apotelaſmatum Pro. Lomai,non multis ante annis,obferualle, cum SaturniMartiſque coniun et io in Tauro horrendiſsima frigora'excitallet, magnam Bobus calamitatem eueniffe. Ques autem licet imbecilliores, füper tites tamen fuiffe. In Boues tamen pe ffis illa defçuit propter cceleſte fignum, ad quod terreftris Bos refertur. Quæfi fuiffet in Ariete, forfitam in Oues graf fata effet. Anno 1479. in figno humano Martis, et Saturni fuit coniunctio (tefti monio Ficini ) et peftis crudeliſsima ho mines inuafit,,vt& prius anno1408. et omnium peſsimaanno 1345. ex trium Planetarium infimul conjun et ione. suffiiu bituminismulieres ab byfterice '. 3 Vltis experimentis comproba audio,, lieres ab vtero ſuffocatas lubitòad ſanie. tatem reuocari, et quod mirabiliuseft, Hyſterică extemplobituméacceſsionen corrigere, fiue crudum, fiue vſtum mu. licrum naribus admoueatur. Propterea mulieres,quętali pafsioni obnoxięfunt lans paſsione liberari. CA lana exceptum, fiue goſsipiocolloap penſum,Medicorum conflio (Mizaldo · auctore ) in romullis locis habent, vt e, crebo olfactu paroxyſmum arceant. Cantharides quandoque ſolo olfa et u fangui. nens, veltactuècorpore euacuajſe. Antharidumvis, et venenú in fane guine purgando per vrinam, apud paucos incognita eft, quippe in potui ex ceptas non modò veſicam exulcerare, verumatque fuffocationes, et horrenda ſymtomatainducerecomprobatum eft. Imò tantæ feritatis funt, vt quandoqué et tactu,vel olfactu hec efficiant,vt cui damchirurgo Mediolani ſucceſsit, qui bis fanguinisprofluuio correptus fuit per vrinam,folum portando cauterium ex cantharidibus in Byrfa. Ex Micbarle Rafraljo. Podeortum fit adagium, Naniga Anticres. } MXneotericisMedicis,nigrum Vlta obſertatione &à prioribus, et neotericis, helleborum ad infanos, et mente captos peculiare auxilium eſſe, probatum eſt. Huiuspotio licet periculoſa fit, cú cau telatamen fumpta, mirabiliter ijs pro deffevidetur. Hellebori virtutem De. moſthenes innuere volebat, dum acti. onem mouens Aeſchini, vt ſeſe pur. garet helleboro dicebat.Hoc in Anti. cyris duabus ele&tiſsimum, et magniva. loris naſcitur, quo nauigare oportere a dagium, quiab intania Canari cupit vt Strabo lib.9.Geograph,loquitur. Hinc Stephanus deHelleboro loquens addit, Anticorenſem quempiã fuiſſe, quiHer çulem dato Helleboro infania libera uerit, Grauidas simio fale prentes, parerifetus fine vnguibus. Noneftàratione aliepum, quodab Ariſtot.dicitur 7 de biftor.animal.c.4 mulieresgrauidas, fi nimio ſale in cibis vſæ fuerint,fætusparere finc vnguibus vngues enim,vt dixit Hipporc.in lib.de care FOS. 1 Carnibusex glutinoſa, et viſcida materia geperátør, hincaecedente Galitorum v. Tu,materia illa viſcida adeo attenuatur, &adimitur, vtfacilè illorum ortusde. ficiat.Comprobatur hocetiam in ladá, tibus, quibusex aſsiduo, et nimio ſali torum vſu,lacomne, paulatim deficere conſueuit. Oui badiin conuiuijsiucundi, feftiuiquelas beantur. N conuiuijs profecto,vt hilariter'iu: Du { 11 X G 3 epulétur,tron femel ludi aliquotper io cum apparantur qui omnes in iftanti um riſus, &cathihnos mutantur. Inter multoshi erunt Feftiui:Si lintea;& map pæ calchanti puluere confricantur, qui foti fe deterſerint ea parte nigrifient;li ceti lintea prius candidiſsima apparue. sint.Si cultri fuccocolocynthidis, vela fòe ta et ifuerit,amara oíaex ijs incita le tiétur:ex afla fætida autem cuncta fæti da audientur:Si fuperpaſtillos nuper e fixos inſtrumétorü chordas minutim in difasproieceris inftar vermium à calore V contracte apparebunt, naufeamque rei inſcijs mouebunt. quibus vinum potui dabitur,cui caftancarum cruftæſubtili ter tritæ fuerint inie et xà ventris «crepi tibusſollicitabuntur. De amorisorigine aliquet controuerfia. OlentesPhyfici amoris originem, velpotius furoris amatorijreperi te indaginem,ex correſpondenti homi num complexione, leu verius ex con formi ipfius fanguinis qualitate,nempe calida proficiſcivolunt, hancenim como plexionem valde amorem gignere af firmarunt, Aſtrologi inter eos amorem exiſtere aiunt, qui in codem aftrorum gradu conſiſtunt,vel qui in aliqua con Itellatione ex æquo participant, et con formes ſunt,tunc enim fe redamare có. fingunt. Alij Philoſophi amorem naſci afferuerút, quoties noftra luminainde. fideratumobic&um conijcimus,voluat cnim quoſdam fpiritus ex ſubtiliſsimo, puriſsimoque fanguine cordis noftri in rem concupitam exhalare, acque ocyſsi * IN me ad mè ad oculos noſtros recurrere, ibique a in vapores'& 'humores refolui,quifen. fim ad correlapſi, diffuſiq;per corpus, in oculis, rei dilectæ quandam idem, inſtar fimulachri, et imaginis,non aliter, quam in fpeculo macula permanet ve nenofi oculi, vel menſtruatæ,auriginoſi, aut fimili aliquo morbo infecti, impri munt.Hacde caufa miſerum amafium, hiſce nouisille &tum fpiritibus,qui natu ralem fuam fedem repetunt, et ad cor permeant, perditam libertatem fuam dolere, lamentarique cogi affirma. Nonnulli autem naturalis fcientiæ ad. 'modum ftudiofi,cum multa de amoris fcaturigine eſſent imaginati;nec veram tam furiofi morbi originem inuenif. fent: in hæcproruperunt:Amorem effe neſcio quid,natum neſcio vnde, qui vee wit neſcio quomodo, &accendit nefcio quo pa&to,certam aliquam rem, &per ſonam. Hominem apud Indos longiſsimam pitam babuiſſe. F Apud Lufitanicæhiſtoricæ fecènti ores ſcriptores(interquos eft Fer din. Caſtanneda:)fidei probatiſsimę, longa narratione, et certa, cuidam nobia li,apud Indosannorū, quibus vixit tre. to centorum, et quadraginta fpatio,iuuenis tæ florem ter exaruiffe, et ter refloruiffe: inuenimus:atque ex cuiuſdam Epifcopi relatu nouiterpercurrimus.(Hocprofe to mirabile eft, et paucifsimis à Deo conceſſum. At non minori admiratione illud dignum eft,quod à Langio de Or benouoproditur,inſulam quádam fu. ifle repertam, Bonicam nomine,in qua fontis reperiatur ſcaturigo cuius aqua vino preciofior fenium epota in iuuen tutem cómPomba. Ex lib. 1.debominis vita, vbi de Priorifla anu facta, et reiuueneſs eente fcribitur. Hydrargyriminer aquomodo inueniatur. Ńter metallica ônia,hydrargyro ex cellétius vix inueniri aliud cryditur, cum ad infinita tale accómodetur.Soler tiinduftria opus eſt, vt vbi eius mineræ fit ſcaturigo coniectores deprehendant; propterea menſbus Aprilis, et Maiiſub aurora, ſereno autem cælo afcendétes, vapores in montibus fpe et ant; ſi enim inftar nebulæ fuerint, non altius feat tollentis,fed humillimæ, ac quaſi terrae ad hærentis, argenti viuiibi ſedem eſſe allequuntur. Ex Cardanode Subtil. Aqua mirabilis pro viſus obfuritate. Periam aquam, quam ſcribuntre ſtituiſſe viſum cęco nouem anno. rum.R.ſucci apij,feniculi, verbenæ,cha medryos, pimpinellæ, Garyophilatæ, Caluię,chelidonię,rutę,centinodię,mor { usgallinæ,garyophyllorum, farinæ vo. latilisan.vnc.j. piperis craſsiuſculètrití, nucis muſchatę,ligni aloes an.drach. iij. Omnia imergătur in vrina pueri, et lex: ta partevini maluatici. Bulliátbreuite pore, tú exprime,& percola.Repone va le vitreo benè obturato.Hora sóni fingu. las guttas ſingulis oculis inftilla. Holler. Roris marinipraftantiſstma'virtutes, Lanta illa, quam Romani, et Itali Roſmarinum dicunt, inter plantas: nobiliſsima eft, magiſque quam ex F 2 iſtimetur excellens, quamuis mulcitu. dine, et frequétia vilefcat.Eftenim fem per virens,nulli nocens, et multis infir mitatibus inimica maximè comitiali morbo, quiferè dæmoniacuseſt. Radix eius cum melle purgatvlcera, tormini. bus medetur, et medendis ferpentum i et ibus cum vino bibitur.Prodeſt etiam contra morbum Regium in vino cum pipere. Et tanto contra maiora mala præualet, quanto maiori gaudet tutela, et fauore cæleſti, à quo omnis virtus confouetur. Naturefagacitas in difficillimis morbus fac mandis magna ift. Agna eft naturæ fagacitas in ali quot morbis ſanandis,qui medi. corum auxilijs perdifficilc eft,vt ad fa nitatem perducantur. Ketulit Alexan. der Veronenſis lib.2. Anatem.c.9.tr ulie rem Venetam,acum crinalem, qua cirri capillorum intorquentur, quatuor die gitorum longitudine ore detinuiſle, dú obdormiſceret, fomnoque ſopitam de M glutif Etv ghuiuifle: decimo autem menſe, quod m mirabile eſt, per vrinam eminxiffe.Lan. Er gius etiá in alia iuuencula,quæ aciculam deuorauerat, id etiam eueniffe fcribit, e Naturæigitur induſtria maxima eſt. * Lapidis compofitio ignē fricationereddernisi. Ricatione cuiuſdam lapidis facilli meignem excutere poterimus. Hæc eius eft compoſitio. Capimus ſkyracis, calamitæ, ſulphuris, calcis viue, picise an.drach. iij. Camphorædrach.j,Alpalit. dre iij critahæc pobanturinvalesce Teoroptimèconcoctecca Hapidécouertátur.Hic panno fricatusu ceditur,fputo veròemoritur.ExRole! Naturam beftis,ad corporis t ütelammulta remedia indicaffe. PlurimaşürNaturæ beneficiaquebê ftiis fuiffe conceffa legimus.Hæcpro fectoruminans Plutarchus, præadmi. rationeinextaſin raptus,Maturan mulo.. to plura in pecudes, quam in hominem contuliffe dixit. Quippefibeſtijs Fors bus accidit.Naturamoxantidotum in F dicauit. Hinc Palumbes, monedula, merulę,perdices, Lauri folijs deguftatis humores fuperfluos expurgant. Lupi, Canes,Feles ſięgrotant,vel li excreme torum colluuie ftomachum, vel viſcera oppleta fentiunt, gramina comedunt ra, re perfufa,herbam frumenti, &rapiſtru decerpunt:quibus ſtomachum, aluumg; exonerant.Columbæ,turtures,pullique gallinacei in morbis heliofelinum degu far. Teſtudincs morſus ſibi in flictos ci cuta perfạnant.Cerui volnerati dictami paſtufagittas, excutiunt.Ivuiteladůmu res venatur, ruta ſe munire confueuit,. vc validiuseosoppugnet. Vrlimandra-. * goram quærunt in mala valetudine. A. priauté egrotanteshedera ſe colligunt., Ceteraverò animalia pro virę tutela di uerfa alia retinent auxilia.Ex Arifter.pl njo,Nipho,&aliis. Lapidem Aetitem mulierum partus. accelerare. Maison Agnam intulitnatura Aetitilapi. diin partu prægnantium accele rando efficaciam: quippefiearum coxis argento cóuolutus partu inſtante fuerit ligatus, miram ytero generabit láxitam tem,ex qua prægnantesfacilius parient. Ab Aquilis pręlidium hoc'captum reorg illa enim dum arctiores ſe ſentiunt et oua cum difficultate pariunt, Ae titem quærunt, ex quo laxiori matricis orificio facto,leniusoua excernūt.Hinc Aeritis S-apis, Aquilinus di et us eft, quiaz Aquilă hos in nidum portant,ibiq;verii reperiuntur. Intellexi ex feminis, pria marias aliquot hos lapides in vſu,& pre cio habere,beneratas partuslaboresfu Bleuare. Hellebori nigriradićem, Viperemorfus in bon Aysſanare. (N magna æſtimatione apud multosis Helleborinigri radix habetur, ipſa enim inter carnem, et pellem iumentià Vipera demorfiinſerta proculdubio faa - mat.Confiteor profe &to fubulcum qué dam porcorú numerüigne perfico, fiue cryſipelate peftilenti pollutum (hunc morbum vulgares, eo quod porcorum caput in excreſcentiamagná deuenit,apo pellap (męobſeruante adfanitatéducti funt.. pellant Capoatto.) fola huius radice om.. nes incolumes feruaffe.In porcorum au. ribus cultello circulum ad viuum fane guinem formabat,deindecentro,ex ſtye. lo ferro perforato,radicisfruſtulum éfo. fingebat, ad paftumý;porcosmittebat, ita equidemſolo học auxilio, omnes Hippiatros in equorum faciepitorum euul, maculas albasfacere. N hominum canitie frequentescapil. larum euulfiones, vt nonnulliin viu habent,vituperantur, eo quod illorum cuulſa niaior generaturcmitics:Hippia atri enim cum maculas albas in equo-... tum facie fingere intendunt, frequeno tiſsime pilosextirpant, qua continuata euulſione,pilos excreſcere albos exper tum eft. Queapud Veteresmagis erantcelebrata: pectaculam Nterorbis terręcelebrata {pe& aculag, Mauſolæum, hoceft: 9.Maufoli ſepul chrum  ES Noun ehrum;Coloſſus folis apudRhodiosios uisOlympici fimulachturm,quodPhidias -fecitex ebore:MuriBabylonis,quos ex. citauit Regina Semiramis; Pyramides in Aegypto; Obeliſcus in via nobiliſsima Babylone à Regina ſupradicta erectus, Rodigingso Marinum Vitulum à Cåeli fulmine non mo leftari. O pauci ſunt ſcriptores,quiMaria num Vitulum, (multa obferuatiu. one peracta) à fulmine incolumem effe perhibent.Propterea Seuerum Imperaitorem Lecticam fuam Vitulimarinico riocontégi voluiſſe legimus,hoc enim animal ex marinis, à Cæli fulminemio nimè percuti audiuerat. Inde fa &tum elte vt veteres, pauidi,pefulmine ferirena tur, tabernacula ex iftiuspellibus con-.. tecta retinerent,ita profecto àCæli fula. mine præſeruari poflcputabant. ExPline. Captaminter bruta maxima Epilepsia tentari: Ippocratesin lib. de facro -morbou: H Fs (si liber ille genuinus eius est) vt ab ' Èpilepſia homines præferuari valeant monet, neque in caprina pelle decum. bendum effe,neq; eandemgeſtare opor tere,beneratus tale animal; maximè ab Epilepſia tentari. Hocetiam Plutarchus rerum naturalium perfcrutator indefef ſusaſleruit:propterea veteresSacerdotes ab eius carne,ve morbida,abftinuiffe fe runtur, neguitantibus aut tangențibus. modo, aliquid eiusmorbi induceretur.. Dinum in Asthmatisçura ſele &tiſsimim.". V TInum pro fanando Aſthmate ab, mo, quo pater eius cum fælici ſemper: fucceflu vſus eſt,adducitur. Habet yie. ni dulcis, quaie potiſsimùm Verpacia eft,non craſsi,ſedtepuis,mellicraticoctii an, lib.decem:puluer. Foliorum Tabe. bacciexicc.in vmbra vnc.j radicum polypodii quercini recentis,acminutiſ.. fimeconcili ync.iij.radicum hellenij re.. motomcditullio,& inciſarum unc. iij..:? macerentur horis 48.poftea verocolentur per manicam Hippocratis vocatam, conſeruetur vinum inloco frigido. Dá - tur vnc. vj. pro vice; ſingulis diebus,; horis ante prandium quinque. Homines a phrenttide correptos sania fortiores fierii On pauci admirantur, cur homi. nesphreneticiflicet in ſanitate debiles fuerint prius ) ipfis fanis fortiores: euadant?Equidem à morbi naturato- · tum procedere verendum non eft: cum autem in phrenitide magis, ob exficcationem lædantur nerui fenſitui, quam motiui, nulli dubium eft, tales quo ad motum ipſis ſanis fortiores, et debilio. res, quo ad virtutem fenfitiuam fieri;: ratio omnium eft,quia operationes,ner uorum fenfitiuorum humiditate magis perficiuntur: fecusmotiui. Huicadiun gitur, quod phrenetici (mente læſa ). doloremnon fentiunt,idcirco fortiores.com Ek Arculano. Tuberum efufrequenti, bomines in epile Pliam incidere. 2 M2Aximopere (ve valuit Simeon Zethus) ſuberum continuattis v fus vituperatur: adeo enim hornines crebro eorú eſu afticiuntur, vtepilepti ci;vel apoplectici fiant. Apud veteres autem in pretio habebantur,illifq; cum Colo quandam affinitatem,nec niſi to. nante loue nafai, credidit antiquitas.. Vnde Iuuenalis: Facient optat atonitrus CHAS - Offri de corde Cerui à morfibus venenofas; hos minespreferu476. Irabilis eſt profecto oſsiculorum, proprietas, quæ in Ceruorum; corde reperiuntur;geſtata enim ad præ feruandiim à beftiarum venenofarum morſibus, et i et ibusmaximeproſunt. In officinis tanquam præſtantiſsimum an.. ridotum contra venenum, et febres pe tulentes,hxc eſſa conſeruatur, &cum feelicifucceffu mediciindiesad hæc valere experiuntur:: multi tamen pre. ofic.cordis ceruipi, os.bubulum tradunt in magnam languentium perniciem, et ped.com M propi eterمه 27 that medicorum afamiam.Ex Alexan.fro Be Pedido. Hemicranian lapide Gegatisſummoueri. MW Vleo experimento Democritus: Hemicranian, lapidis Gagatis ſo'a ad collum appenfione tolli com.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geftatum ſeinperniagis ponderare, quam antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo. rem,à quo dolor in parte cranij fufcitam. tar proprietasreperiatur.Mercurialis. Epilepritof non perpetuoconcidere nee quefpumam facere. Vicomitiali morbo laborátnánili in magoa ventrico !orum cerebriz cralo s humoribus obftru et ione conci dere, et fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs cauſis, vtin quadapu.. ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam, tamen neque concidebat,pequeexorefpumam emito. tebat. Sedſtanscaput hinc indecücere wice  uice, ac fi quid infpicere vellet mous bat; nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur, inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Cauſam Beniuenius exiſtimauit, quod non caderet quod contra et io, et tenfio ad cerebrum non ferretur,cumfolus va por ſurſum aſcenderet: ex quonullor gore cerebrum ipfum intentum, abot dinatis motibus-reliqua membra pre feruare potuit. Vermes rubros in hominum cerebro, in qua dam epidemia natos effe. y Beneuenti,cum multi ignoto morbo decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt, et in huius cerebro vermem cubeum breuem inuenerunt, quem cum mulrismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino-maluatico vltimo decoxerunt,quo vermis occilus eft,atque hoc eodem remedio deinde - mili morbo, quali epidemico affe et i omness. Omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne tỷ Roterodam. Capillorum defluuium ex Laudano curari. TOn femel morboacuto egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur è capite capillos decidere expertumelt. His facilliinè fuccurritur huiufmodilia nimento, quo 'capillorum defluuium non folum amouetur verú etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, et oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput v niuerfum linitur; breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis tradararemedia,mortem ! non paucis:attulije.. ftrum baudelt, remedia, quæ ab Kempricis adhibentur, morté aliquádo hominibus attulife, ij a. nulla ra. tione, nullaq; methodofuffulti, fed fola experiméti indagine,nec caufasmorbo Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicare poſiúnt.Proptereamilesquida inmorboinueteratoluinepotis,quicapi. Member Aximopere (ve valuit Simeon MZethus) ſuberum.continuattis V.. fus vituperatur: adeo enim, hornines crebro eorú cſuafticiuntur,vtepilepti ci;vel apoplectici fiatt. Apud veteres autem in pretio habebantur, illiſq; cum Colo quandam affinicatem, necniſi toe. nante loue nafai, credidit antiquitas.. Vinde Iuuenalis: Facient opfataronitrua, Cen45 -offi de corde Ceuiàmorfibus venenofisshos minespreferuatge -Irabilis eſt protecto oſsiculorum, proprietas, quæin Ceruorum corde reperiuntur;geſtata enimadpræ • Tóruandum à beſtiárum venenofarum I morſibus, et i& ibusmaximeproſunt.In officinis tanquam præſtantiſsimum an-. ridotum contra venenum, et febres pe.. bilentes, hæcoſſa conſeruatur, et cum. foelici fucceffumcdiciindiesad hæc va lere experiuntur:: (multi tamen pro. ofic.cordis ceruidi, osbubulumtradunt in magnam languentium perniciem, et M pedice medicorum afamiam.Ex Alz xan.fro Bem nedido. Hemicranian laide Gagatia ummoueri. Viro experimento Democritus Hemicraniam, lapidisGagatis fola ad collum appenfione tolli com.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geſtatum ſempernagisponderare, quam antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo rem,à quodolor in parte cranij ſuſcita.. tar proprietasreperiatur.Mercurialis. -Epileptites nonperpetuo concidere nee que fpumam facere, Vicomitiali morbo laborát nánili in magoa ventricolorum cerebria crais humoribus obftruatione eonci dere, et fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs caufis, vt in quadá pu ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam, tamen neque concidebat,pequeexore fpumam emit tebat. Sed ftans caput hinc inde cucere vice, ac fi quid inſpicere vellet mout bat;nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur,inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Caufam Beniucnius exiſtimauit, quod non caderet quod contra et io, et tenfio ad cerebrum non ferretur, cum folusva por ſurſum aſcenderet: ex quo nullori gorecerebrum ipfum intentum, ab of dinatis motibussreliqua membra præ feruare potuit, Vermes rubros in hominum cerebro, in quae dam epidemia natos effe., Beneuenti, cum multi ignoto morbo; decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt, et in huius cerebro vermem rubeum breuem inuenerunt, quem cum multismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino maluatico vltimo decoxerunt, quo vermis occiſus eft,atque hoc eodem remedio deinde se smili.morbo, quali epidemico affe et ij, omnes Nous ) omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne-, i Roterodam. Capillorum defluuium ex Laudano curari. "Onfemel morboacuto egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur ) è capite capillos decidere expertumelt. His facillimèfuccurritur huiufmodilia nimento, quo capillorum defluuium non ſolum amouetur verű etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, et oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput y niuerfum linitur, breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis tradararemedia,mortem ! non paucis:attulife: ftrum baudelt, remedia, quæ ab tempricis adhibentur, mortéali quádo hominibusattulife,ijn. nulla ra. tione, nullaq; methodo fuffulti, fed fola experiméti-indagine,neccaulas morbo. Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicarepoflunt.Propterea miles quidā. igjorbo inueteratoluinepotis,quicapi N + 136 tis achoribus erat fædatus, finecautio. os,more empiricorum,nec ætate obfer uata, vnguentum ex arſenico, ſulphure viridiæris, femine ſinapis confe&tum capiti appofuit;ita enim ex quodam lio bro remedium collegerat, et mane ſee quenti puer ille, qui erat duodecim an norum, in lecto mortuus inuentus eſt. Hi profe& o fru et us empiricorum ſunt. ExValefio.. Triplici auxilio homines longauam vitam Af quirerepofle. Ifi hominum frequens luxus exo NA vita songior,ſaniorquevideretur,hi ay tem in luxum,epulas, et otia effuli, vix trigefimum exceduntannum, abſque. fene et utis aliquo veftigio,vita enim los. gæua,non luxu,& profufione nimia, fed triplici tantum remediocomparatur;fie quidem pareitas cibi, et potus, bonus cibus,& moderatum exercitiummorta - lium vitam, ex Philoſophorum decre to,producere valebunt.Bartholom.Males ** Dino Gagorio.  Nmin Quo paéto fingultum cohibere valeamus. Onleui angaſtia angultum ho• mines cruciare quandoque vide mus adeò quod multiin longiſsimā via. giliam huiuſmodi affe et u ducti funt, Multi funt, quieximprouifo timorem ſingultientibus incuitientes,votum alle quumtur: alij verò auricularidigito ito bentintus aures diu confricari;Lyfimam chus tamen apud Platonem, fternuta. mento afperfione aquæ frigidæ, et re {pirationis coñibitionefingultum cxčke ti propalauit. Quopado plebrios, tincios en admiration nem -dustus. Plebeiprofe &to qui populi parsfino plicior eft,ex leuifsima occaſione fa. cilè in admirationé ducuntur. Si optas autem vt adftantes credantvel magico Çarmine, vel quodammiraculo te open. rari, manècum Verbaſcum flores aperit æſtiuo tempore, iispræſentibus leniter moueto plantam: flores enim paulatim decidunt, et exiccatur, cum magno ile. lorum ftupore, fiquidem illius plantæ hæceſt proprietas, vt (Sole accedente ) flores decidant. Quod fi magis irridere velis inutiliter aliquid murmurabis, vt admiratio excrefcat, vltimòtandemor mpia in rifum finiantur. Ex Porta. Memoriam è thure epoto maximè Augeri. Maximo hominibusadiumento eſt firma memoria, triftitiæ verò, et Jabori, imbecillitas, iis præſertim, qui bonarum litterarum ftudio incúberec ptant. Ita autem cófirmatur.Thus albife Gmuin in pollinem attritum,& cú vino, li hyemsfuerit,velaqua deco et ionis paſ fularü, fięſtas;epotum,inLunęaugmen. to,oriente Sole, necnonmeridie, et oC- t caſu, mirum in modum memoriam aya gere fertur. Ex Rafi. Quo pačtofamis importunitascohibeatur: Vis Taurum Philoſophum, eiufq; mendo famisimpetu? profe& o dumfa. maemaximèmoleſtabatur, eius importurnitatem, compreſsis hypochondriis et ventris ſtri et ione compefcebat. Apud. Aulum Gellium. Mulierem grauidationis tempore pallefcere., debilioremque effe. TOnlinerationemulieres, quoté pore vterum gerunt, virore pallia dæ fiunt, purus enim illarú fanguiscono tinuò ex corpore deftillat, et in vterum à natura demittitur, vtfætú tú nutriat; tú eius procuret augmentü.Cum autem ipfis paucior in corpore-refideat fanguis neceſſe eſt fieri pallidas, atq; alienos ci Bos appetere.In ſuper exco,quia fanguis folitusipfis minuitur,debiliores fieri ne celle eſt. ExHippocr. lib. 1. de morb.mulier.. Myrifticam nucem à vira geftat am, vigo rofiorem fieri. MIrabilis eft nucismyriſtice, quava cant muſcatam, cum homine fym pathia: ſi enim à viro.geftatur, nomodò vigore proprium cóferuare, verù etiam turgere,magifq;fucculentam, et ſpecio ſam ficrialkunāt, pręfertim fiiuuenilis adultæque ætatis homines circumferát Ex Liuinio Lem. Hepaticos, Gtienoſos decodochamading fanari. INter præſtantiſsima remedia, quæ I hepaticis, et lienofis adhibentur pri mum Chaniædrium locum retinet: fie nim ex aceto deco et a,per pluresdies ex. hibetur,hepaticos,atquelienoſos pro. culdubio fanat: multisequidem experi mentis comprobatum eft tale decoctí viſceraab infar &tu liberare:propterea ini febribus chronicis, eo quod obitruction tres mire abigat, fdelici fùcceffo à multis: pro fingulari ſecreto audio vſurpari. Pulfus deficientes,&intermittentes in ix. uenibus mortem prædicere, O Vanti timoris in languentibus,pul sus deficientes, vermiculantes, et formicantes exiſtant,apud Medicos notiſsimum eſt: ij enim ex proſtrata natura exorti,exitiú efle in foribus aftédūt. In. termittentes autem duorúpulfuum ſpa tie tio,non modò in omnibus fufpe et i ha bentur, verum etiam omnibus maxime iuuenibus exitiofifunt; diſséticGalenus, qui in pueris, &fenibus non ita fore ti mendos afleruit.Huius rei habuitexse. rimentum Proſper Alpinus in Iacobo Antonio Cortulo octuagenario,pleuri. tiro, et febreardente vexato, cui pulfus fuerunt cùm intermittentcs, tum defi cientes; tamen ille citò conualuit.lib.s. de med. method. Mitbridatis Regis, ad venena maximum Antidotum. D Euico Mithridato Rege maximo, in eiusArcanis Pompeius inuenifle in peculiari commentario ipfius manu exarato compofitionem antidoti dici Inr.Cóftabat ex duabus nucibus ficcis ite ficis totidem, et ruræ folijs viginti fimul tritis, addito falisgrano.Si aliquis hoc iciunus allumeret, rullum ei venenum nociturum illa die affirmabat, Ex Plinio. ONO Slidera Quo artificio offa, velebora colorari valeant. I offa,vel ebora coloratahabere de lideramus,ca in primis oportet abim munditiis purgare; deinde in aluminis aquadecoquere,tum demumin vrină, vel calcis aquam in qua diffolutum fit verzioum, rubrica, aut cæruleus color, fiue alius quem volumus immittere, et vna iterum coquere.Cum autem perfri gerata in eodem etiam liquore fuerint, extrahenda ſunt; et pulchra, et bellè tin eta habebimus. Alexius Pedemont. BRICA Bryonieradicio è vinoalbo decoctum, hyfte. ricam paſsiorem reprimere. Ryonia in fedandamulierum hyſte rica paſsione,egregiam habere vir tutem multis experimentis dicitur.Ex multis obſeruationibus in quadam mu liere, quæ quotidie ferè per multos an nos hocaffectu laborauerat, à Matthio lo experta eft. Hæccum ſemelper heb. domadam, cius confilio, ſub fccti ingressum, vinum album, in quo ip fius radicis vncia efferbuerat, hauſſet ex illa paſsione optimè conualuit. Ne tamen amplius in fuffocationes deueni ret vteri,perannum integrum hoc me dicamento vía eſt, nec morbus iterum recidiuauit. Quo fuffitu Serpentes venenati à domibus, velpradiis arceantur. Vlta equidem reperiuntur, quo rum ſuffitus adco o diolus eſt, vtà loco, vbi is. fiat,penitus arçeantur. Scribit Florentinus in Geo pon. Venenatam feram numquam accef luram, vbi adepsceruinus, aut radix Centaurij maioris, autLapisGagates aurDictamus creticus,aut Aquilæ, vel Milui fimus cú ftyrace miftus fuffatur. Ex Gal. autem habemus in lib.de med. fac. parab.ad Solonem.Pyretrum, ful phur,cornu ceruinum, pinguedinem,& pulmonem Afini accenfum,ac fuffitum, cuncta animalia venenoſa efficaciter fu - gare compertum elle. Herpetes exedentesTabucoicereto felicitors Sanuri. Terorymus Aquapenders inl.:.de Tumoy prenat.6.20.5xedcotes her petes teſtatur curaſſe quoad totum cor pus, ex ſero Caprino expurgatione con fecta,fæpèautem cum fa !fæ parille de co et ione:partes affectas aquis therma lbus D.Petri lauabat,vltimoiis, felici cum fucceſfu ſequens admouitCeratú. R.Succi Tabacci, ſeu herbæ Reginæ vnc. iij.Ceræ citrinæ nouiſsime.vnc. ij.Refie næpinivnc.j. Rofinz Tyerebintinæ vnc.j.Oleimyrtini quantum fuffic. pro formando Ceroto. Vina alba, qua induſtrie inrubramu tentur. A Lba vina abſque vllo detrimento in rubra(auctore Mizaldo ) tatim Conuertuntur,lipuluerem mellisad du rilsimă conliltentiam deco&i, et ficcati in vinum albuin proiecerimus, et tran Suaſandomiſcuerimus,Idautem minori faſtidio efficier lapathorum radix, fi re cens, vel ficca in vinum mittitur. Flores in Aegyptoprope Nilum inode tar os exiftere. O Dorin ficco fundatur, eidemq; in nititur;hinceuenit(auctore Theop. 6.de cauf.plantar.) vt fru et us agreſtesvro - banis ſui generis odoratiores,eo quod - ficciores exiſtant vrbanis,habeátur.Heç quoq; caufa eft,quod in Aegypto mini mèodorati flores naſcantur;vt n. Plini - us prodidit, Aegypti aer à Aumine Nile tum nebulofus, tum roſciduseſt: cuius cauſa odor in foribusadimitur. Abfynthium ventriculum roborare ſo lum adftri& ione. Vantam Abſynthium in roboran do ventriculo vim retineat,in mul. tis locis à Galeno exprimitur:bancau tem virtutem non ab amaritudinem fed propter adftri et tionem abfynthio inefle verfimilc eſt. Conſtat hoc totum ab eius fucci natura, qui corroborandi facultate deſtituitur, ex eo, quod ter rez partes, in quibus adſtringendi vis poſita eſt, ab ipſo feparantur. Succus itaque folum amarulentiamhabet, quz tantum abeft, vt ventriculum roboret, fed vt potius illum infeſter. Ex epote Chalcantho, albos pilos è capi te decidere. Icet Chalcanthi, fiuc vitrioli vſus, e reſumpti, apudGalenum ſuſpeatus habeatur: à multis tamen audio maximè commendari. Inter graues fcriptores, Rbaſes eft,qui 29. Continentis, 6.24. ſe habuifle amicum quendam ſcribit; qui potata vitrioli drachma, propènoctem pilos omnes, quos in capite habebatal bos, abiecit.Res profe &to mira eft, pbrenitidem ex nigro Coralio felicitar Sanari. Oralium nigrum, quod Antipallas, fiue Antipatkes dicitur,inPhrenitide morbo corrigendo, et fanando perquá Airam habere facultatem exiſtimatur. Hoc nigerrimi.coloris eft, et ob varie. tatem in magno precio tenetur, et cótra huiuſ HORTvĆvs G et NI ALIS. 14h ** Merete huiuſmodi affectum tanquam præftan tiſsimům remedium vſurpatur. Ex Ense lio de Gemmis lib. 3: Lethargicosà Satureia capiti admota excitari. Vltis experimentis obſeruatum reperio,Satureiam cumfloribus vino incoctam, et calentem occipitiad. #motam, Lethargicosdifficili ac pertina E ci sono oppreſlos, ac veluti raptos exci tare, et reuocare.Vt autem curæ folici $, or fit exitushuius decoctiguttæ aliquot fe infirmiauribus inftillandæ funt. Hana diſchius. I peftilentias quasdam occulta anispat hia ho minum corpora depafcere. M Vlta reperiuntur,quæ occulta qua dam antipathia, cun &tis hominis bus aduerfantur. Huiuſmodi fuit aura illa peſtilens, quæ ex arcula aurea in quá miles forte quidam inciderát (referente Iulio Capitolino ) in Babylonia orta eft, Ex hac nata fertur peſtilentia, quæ in - de Parthos orbemý; compleuit. Huic haud abfimilis, vel prauior vtique fuit G peſtisilla, quæ anno 1348.ab oriente in cipiens (teſte Guidone Cauliacenſi ) vniucrlum fere orbem peruagata eſt, tảntaq; lauitie peragrabat, vt vix quar ta hominum pars ſuperſtes euaferit. Bra M. Infantes eiulare quoties lar, nutricum mammas papillas pangit. Slidua experientia comperimus f A mammasnutricum, et papillas lancinat, et pungit,quippead infanculos tunc nu trices redire videntur ftatim; cum pa pillarum mordicationem, ſiue vellica. tionem ſentiunt. Duplici autem id fieri caufa credendum eft; vel quia quo tem porecoctionem infantulus perfecit, eo dem momento nutricis vbera complen. tur, vel quia tutela Angeli Cuftodisin fantis nutricem ad officium, leuiſsima vellicatione follicitat.Hoc verius vide. tur eo,quod modo citiusmodo tardin fanteseiulant: et vtriuſq; ſtatus non lem per idem eft. Ex Bodino lib.3.Theanatu. Sales Han 7 Salis Prunella virtus, &compofitio. al prunella,ob fingularem vim do lores mitigandià quauiscaufacalida &inflammatione excitatos, quam reti-, net, a nodynum minerale à chymicis apo pellatur. Eius compoſitio talis eſt:Para tur ex,nitro optimo; quod in cruſibulo. funditur, paulatim ſuperinijciendo flom res ſulphuris,quieiuspingaedinem tole Junt, idqueadeo pellucidum, purum que reddunt; vt fi luper lapidemmar moreum effundas; omninò clarum, et dlaphanuin appareat vitri inſtar: quod? đšinde Sal ſjuelapis prunelle.dicitur,Sa lutare eit remediú ad ardentiſsimills febrem Hungaris familiaré extinguento - dam, et edomandam:cuius ferocia tana' ta eſt, vt ægrotantium linguas prorſus nigras, et prunis ardentibusfimiles ef ficiat. Cum autem tanti ſymptomatislę. vitia extinguatarhuius vlu,leniatur, et opprimatur: Sal prunellæ apellatus eft. Eft præterea idem remedium magnum diureticum,& diaphoreticum. Querceta mus in Pharmacopes. 63 Hy ilico appetere. 1 adduxeram: qui Leonem, Gallum ve.. Hydrophobos è poto Catuli coagulo aquami Iris laudibusCatuli coagulum in Aetio, ex tollitur: Illud enim fi femel tantum ex aceto Hydrophobici guftauerint;ſta rim eos,aquæ pofus cupiditatem capere: ob id medicamentum hoc præftantiſsi muth iudicamus, in huiuſmodi enim afa fe et u, nulla falus ſalubrior iudicatur, quam aquæ potus: quo deficiente,mors in foribus ſemper eſte Cur Leo Gallum timeat abfolutaz " izquifitio. CVVmquodam die Cercelliani gra tia apud Carolum Cifellum luriſ conſult. clariſsimum, meique amiciſsi. mum effem, forteinter nosde Gallina tura orta fuir diſputatio; illa preſertim, cur Leo illum timeret? Pro dubii folu. tione Ficinú inlib. z. de vit a celit. compar: reri ſcripfit, eo quod in ordine Phoebeo, Gallus eſt Leone ſuperior. Hoc etiá ex Proclo confirmare volui, qui, Apollinca Dæmonem;qui alias fub Leonis figura apparuerat, ftatim obiecoGallo diſpa ruiffe prodidit. Ifle-autem quia bonarú Jiteraum citra legalem fcientiam admo dumftudiofus et contraria rationeLeo i. nis timorem euenire contendebat. Ada ducebat Leonardum Vairum in lib. 1. de Fafcino, quiex Gallorum oculis ſemina i quædam, ac fpiritus exire profitetur gr I quibus Leonib'dolor,acmeror incredia bilis inčuciatur, inde veluti effafciñatas ritere.Ego quidem licera Lucretio hac etiam opinionem fuftentari viditlemi tamen poft,pleraque vltro, cirroque inter nios de re hac ventilata;confeſſus füi apud me neutram opinionem vide ti validam. Vbienim naturales rationes præualēt,nec ad Aftrologicas,nec adoc cultascófugiendium eft.Leonesquoniá bile faya, et copiacaloris abundant,faci le fit,vt ex fonoraGalli voce comoucka tur:ita profecto Canesex leui etiam al 2, G4 terius 30 II terius latratu faciunt. Infuperrubicun da Galli criſta,flammæinftar rutilantis, primo afpectu,colorisratione,bilem in Leonibus celeri motu excitat, vt panni rubri armenta quædam fugare, et mo uerefolent,inde fit, vt quodammodo Leones &afpe&tum, et Gallivocem ti meant. Haud tamen credendum eft in iis (ledato primo impetu ) perpetuotimo. rem ex hac beftiola durare, et induci poffe. Corues, morientium feditatem ſentire, ob id fuperte&um infirmorum crocitare. Orui, quia hominibus meliorem habent odoratum, vt voluitÀrift, corporis morituri fætidum odorem de longe fentiunt: fecus eft in hominibus, licet prope maneant. Propterea ſuper te et um infirmiCorui volitant, &cro. citant, quando eius corruptio, &fædi tas magna eft, vt ea paſcantur: huiufmo dienim animalium genusrerum foeti darummaximeauidum eſt; quibus pa fcitur: Charlie [ citur: idcirco in bellis, &in peftilenti tempore, cum corpora mortuorum vel hominum velarimaliū humi ia&a funt; Coruorucopiaprcualet.Homines vulga tes, et quiparú prudétes funt;dů Coruos crocitantes fuper te &tum infirmiaſpici unt, illum moridebere afferunt:hoc au. tem falfum eft: ii enim tantum fæditaté inſequuntur. Sæpè tamen Déus permit tit Dæmonesin Coruorum, et aliorum animalium forma ſuper domos: vel in domibusmorientiúapparere, quando be ftialiter vixerút. Et Bernardino de Buftis. Quo artificio es aduratur, ut cinnaba. ricolorem acquiraté Iæsvífum colore cinnabari, et ad ru bedinem verlum habere volueris, o quemadmodum vult Diofcorides; AC i cipe æristaminascuttricoftę profundas: non ſint autemęris alias fufi, quia in hoc ſemper ſtannum commiſtum eſt, Has e ſuper ignitos carbones apta, cum autem i illæ rubeſcere incipient,ſulphurispul.. uerem tenuiſsimum leniter deſuper có iicito, Sleepin ijáto', videbisenim (cellante fulphuris Máma) Pris (quamu'as euidenter extra hi,& euelli.Tumodol.perfe et e nó pol. Te cuelli cognoueris, addito ſulphur. remtoties, quouſque lamulæ eradicari videantur:caue tamen nevrantur, et ad nigredinem vergant. Extinéta tandem Sulphuris flamma, et refrigeratis lami. nis;æris rubei ſquamulas habebis magni valoris,quasloco Hydrargyri præcipi-. tati in medicamentis recipies alias aut tem huius vires apudGalen. et Dioſco videto. Theodorus Ga4, quedinfelicitertex Arist,', deHydrophobia conuerterit, à crimine abfoluitur. Heodorus Gaza vir do et iffimus, dumArift.tex.8.de hiftor,animal.c. 22 traduceret,omnia animantia voluit à Cane rabidodemorfa, ip - rabiem ági,. ac mori, excepto homine. Hoc autem qqantum ſit falfum,quotidianademon Strát obferuantia. Homines n. demor fi; in rabiem aguntur, et pereunt; niſi Tectè curentur, vtcuidam (pauci sunt menses) hic iuueni accidit, quià Canc rabido in manu demorfus, nullo adhibi, to to medico, fed folum circulatoribus com fiſus, in 40.die in furorem deuenit; quo temporelicetme parentes vocaffent,fas s &o tamen preſagio,quodbreuimorere I retur, tanquam deploratū reliqui. Hęc igiturTheodoritradu et io pleroſq; in vi rioslabyrinthos deduxit:multin.,tum i vtGazá defenderent,tum iavtArifto telem ab erroris ſuſpicione vindicarent, textum ita acceperunt animantia omnia à cane rabido correpta interire, hominē 3 verò folum abſque periculo non ferua. rizita expoſuitIulius Pollux. Alii verès inter quos eft Leonicenus, textum malè fuifle conuerfum, veleſle depra suatum contendunt, et fic loco a pocos i legendum mpirs afferunt, quafi ho mocorreptus, &in rabiem, et mortem deueniret, fed non ita citiùs, vt ceteris animalibuscontingit.Hic fenfus quoad - negotij veritaté ver eſt,quiahômo pro i pter oprimú téperamétum, tardius, qua: cætera violatur:tamen Ariſtotelisinten. 2 tio neutiquam eſt ipfe enim ex profeſſo hominem à rabie, et morte ſeruari fcri pſit,cuius textů Gaza fideliter traduxit, neque deprauatum, neque commutan dum exiſtimo, quia mens Philoſophi peruerteretur. Vtauté Ariftopinjoom nibus innoceľçat; hydrophobiamin ho minemorbum elle nouum, illiuſq;tem peftateincognitum proponimus,ex quo iure expofuit animantia omnia é: Canis rabie emori, homine excepto,quia hæc lues in homine nondú innotuerat. Con-. firmat opinionem noftram Plutarchus 8. Sympoſiacorum, in probl.9. dum exfen tentia AthenodoriMedici ſcripfit, hy drophobiam eſſe morbum nouum, atq; apparuiſſe tempore Aſclepiadis, qui Sub Pompeio Romæ claruit. Confir mant etiam hoc Scriptores ante Aſcle piadem, quideHydrophobia mentio. nem aliquam haud faciunt:e od lima. nifeſtum fuiffet, non video cur lub fie lentio tantum morbum occultaſſent, E go quidem Hydrophobiam antiquitus haud extitiſſe,perſuaderemihi nonpof fum:innotuiſſe autem veriſimile eft, nó ob aliud, niſi quia morbushic non ſtaa tim à vulnereaperitur: Siquidem multi in 40.die rabiunt, aliqui poft fextum, autoctauum menfem,vel etiam poſtane num, vt fcribit Gal. Auicenna adnota - uitpoftfeptimum; Albertus poft duo decim.Propterea antiquitus,&precipue Ariſtotelis tempeftate,huius morbi cau fa nóaduertebatur à Medicis innoteſce bat quidem aquę timor taméàcanisvul nere et tabiem, et illa praua ſymptoma ta oriri imaginabantur: idcirco Ariſto teles etiam, interillos, hominem com morſum à canerabido,necrabidum fi eri,nec emori ſcripfit. Alai radicem pro expurg andis vomitu te nacibushumoribus à ventriculo,effico cißimum eleremedium. Vanta Git Affari radicis non modo in ciendo yon: itu,verum etiam in expurgandis àventriculo. et ab eius par tibus, humoribus craſsis et tenacibus ef ficacia,fapientum aliquot edocuit obler: uatio: fiquidem multinon folum in vis tiis ventriculi, ſed etiam in quartanafea bre, aliisque longis affectibushac eua cuationefeliciſsimo cũfucceflu va funt.. Præparatur è fcrup.ij.aut Drach.j.radio cis Affari, quæ in hydromelite, aut para fularum decocto fit diſſoluta, cuitan - tillum cinamomi, &firupi violar. ade iicitur. Ex Fernelio. In conftruendis ſepulebris veteresfuiffeadu! modum diligentes... Xáca Veteres in conftruendis fer Epulchris, webantur diligentia:id circo admiratione maxima dignum eft illud, quodà Ludouico Vluenarratur memoria patrum fuorum fepulhrim fuifleerutum, in quo ardens lucerna inuenta eft.Hæcibidem (vt infcriptio ata * teftabatur Jante Ann.M.D.condita'erat, - et poſita: manibusautēcontreccata, ex templo in puluerécóuerſa eſt.Ex Langit. Ganicula exortum à veteribus maxime fuiße obferuatum. Canis cAničulæ exortus antiquitus à prifcis ex eius colore, deami ſtatu côtecturam capiebant. Illan, fiobfcurior, et veluti: caliginofa oriebatur, graui, et peftilenté foreannu;ficlara et pellucida ſalubre ac proſperu predicebant.Heraclides Põticubi. Aegyptiorum de'quatuor elementis opinio. Vatuor elementa feceruntAegy, et fæmiam conftituunt. Aerem marem iudicant,quà ventus eft, feminā, quà ne bulofus, &iners. A quam virilevocant mare,mulieréómnem aliam.Ignévocát maſculum;qya arder fáma; et fæminami quà luct;& innoxius eft tactu. Terram fortioré marem vocent;faxiscautibusq; fæminçnomen aſsignant, tractabili ad culturam. L: Senecakb.z.Natur. Quaft. Pbreneticos aliquandomirabilia loqui. Mirabile eft, quod aliquádoin Phre« neticisobfcruamus,isturum enim, aliquot(benè inflammato cerebro )}in guaLatinaloqui vel carmina cóponere cum prius fuerint eorum igna viſ funt, fed quod mirabilius eſt, Nicolaus Flo rentinus refert, fe fratrem phrenericum habuiffe, qui futura pradixit, quæ euer nerunt, ita vt eius prædictiones magna ex parte poftea veræ inuentæ fuerint:de quibus tamen fanusexiftens,nullam ha: bebat cognitionem. Infantium rupturn; qua via Sanare: valeamus. Vltis obferuationibus, nullum remedium; Salubrius infantium rnpturis inueniri expertum eſt, quam extritis cochleis, thure, &oui albumine emplaftrum confectum. Hoc enim fi pare in affi &tæ apponitur,& infantes eo temporinlecto detinétur miram in fa nando' affectu retinet efficaciam. Ex Matthiolo. Digitum anularem, maximam cum cords retinere ſympathiam. Valem anularis digituscum corde habeat confenfum, in animi defe et ibus, et in fyncope experimur. Qui e. nim à talibus paſsionibus vexantur,vel. licato articulo anularis digiti,feu medi. ci, vel attritu auri ad eundem cum croci momento eriguntur. Per hunc prefecto vis quædamrefocillatrix ad cor perue nit,ex qua ab animidefe et u collapſi vi gorantur, et in priftinam valetudinem redeunt. Ex Lennio. Carnes code quomodo cruda vje deantur. N lautis conuitiis,nevoraces gulofi que carnes coctas comedant, ticarti ficium parabimus.Excipitur:leporis,aut agni ſanguis, quem congelatum, et fico. catum in puluerem comminuemus,hic: fi fuper carnes coetas fpargitur ftatim foluitur, illæq; colorem proprium mu tantes ſanguinofæ videbuntur, venau feabundus, reijcias. In comeffationi.. bus contra paraſitoshoc eſt ele &tumra medium. Ex Vuerckero... Adoris plcera, labiorumque fciffuras exper HomasThomaiusin Idea fuivirida rij, Nicolaum Zannonem Chirur. gum guim Rauennæ retulit, mirabili fucceffu: et artificio,oris, gingiuarum linguæ,&: palari, nulla alia re, quam radicis penta phyon, fiue quinque foliorum decocto vlcera fanare,atque labiorum fciffuras linimento,ex oleoamygdalarum dulci-, um, cera, &maſtice, quam breuiſsimè adianitatem perducere. Exapri tefticulis,fterilitatem in bomi nibus remoueri. MA Agnaeft vxoratis inquietudo, et Gerileſque exiſtere: propterea.vt à xan to infortunio liberentur, prolemq; ha beant,peraliquot dies ieiuno ſtamacho vir, et vxor cum iure galli veteristeſti culorumapri,que verrisin vmbra exico catorum puluerem capiant:ita profectò. breui tempore optatumadipiſcentur, vt in multisfterilibus ex quacunq; cau « fa non ſemel expertum eft.Ex Democrito. Bufonistibiisdentium doloreseuanefcere.'. Nter maximos cruciatus à quibus; dolores perniciofiſsimiexiſtimătur,ad? cò quod multi et in animideliquia,& in manias deuenerint, multi etiam in vitę deſperationem.Huius doloris remedio. um in odioſo et abominabili animali natura repoſuit. Aperiam hoc arcanum maximum. Tibiæ Bufonis, fiue' ranz terreſtris à carnibus mundatæ, fi fuper dentes condolences fricabuntur,imme diatè dolorem remonent; adeoque cru ciatus ceffabit, vt quafi in dentium ſum perficie dolor collocatusvideatur. Ex. perire modo, et fruere tanti arcani theo fauro. Ex Florauanté. Cepam ab Hippocratemaximèdeteftario ' £pam Hippocrates afpeétu inagis, quam efú coinmendauit, viſu bonā, elu malam elle dicens. Idcirco lucubram tionibus, et litterarum ftuţiis addi& is fùmmècauenda eft: oculos enim vitiati &viſum obtenebrat,bilemque exacuit.. Villicis, et folloribus, qui literis non ind. cumbunt huius eſús maximè collauda tur: eius enim calore vires ad opera exercitanda magnopere excitantur.Ex Plinio.. C Anima 164 B1: 1 c: L L /, Animalibus naturam non modo terra, perum etiam fi um pra termino conftituiffe. Agna fuit conftituendis terrarum terminis, et fitu quibufdam animalibus: ne simul vbique viuentia, et hominibus et fibi ipfis perpetuo effent nocumento. Pro pterea animalium pleraque in diuersű à proprio addu &ta fitum vtplurimum ægrotant, et moriuntur. Hinccolligi musin Meda, Sylva Italia, non niſiin: parte repeririglires. In OlympoMaceo doniæ monte Lupi minimè habitant, nec in Creta Infüla. In Africa nec Vrfig. nec Apri, nec Cerui, necCapreæ viden tur: In Illyria, Thracia, et Epiro Afini paruigenerantur: In Scythica terraa.. tem, &Celtica neclunti Alini, nec vio. uunt Leones in Europa, Pantheræ in Aſia, Ibisin Aegypto lolum commora tur. In Creta: nec Vulpes, nec Vrfifunt, necaliud animal maleficum pręter Pha langium. In Ebulo Cuniculi non funt, catent in Hiſpania, et Balearibus, In Seripho inſula Ranæ ſuntmutæ,illæ au tem fialiò transferuntur, vocales fiunt. In Italia mures aranei venenati ſunt hos tamé regio vltcrior Apenninohaud generat. Ceruiin Hellesponto ad alie nos fines non commeant. In Ithaca illati lepores no viuunt. Sunt et alia animalia quæ in determinatis locis, &non vbiqi viuunt, et generantur. Apjefum in menfis apud Veteres infauftum extitiffe. X veteribus maiores nullum A pij genus in cibis admittere folebant defun &torum enim epulis feralibus ab ipſis erat dicatum, vtex Chryfippo Pli nius retulit. Multiautem non folum ex hoc, quia ſepulchra coronabantur,Api umà veteribus fuiſle damnatum à men ſis, fed etiam quia eius eſu viſus dimis nuitur, et Epilepſia generatur autumát: vnde à Mcdicis nutrices moneri conſue lo, (frequenti enim huius vſu, lactum decrementum, tum malam recipit qua titatem ECO 9. i > Samen litatem )vt ab Apio abſtineant,ne lacté tes in morbum comitialem proni fiant. Dicunt in eorum caulibus nonnulli cru diti ſcriptores vermiculos naſci, eoſque fterilefcere, qui comederint in vtroque fexu: Satyri teſticulum carnofiorem Veneris in. cendia excitæreflaccidum vero extinguere. Atyrium; quod Canis teſticulos vo cant,magnæ apud fapientes eſt conſi derationis:in hoc enim,tum Venerem excitandi,tum reprimendi à natura vi. detur eſſe remedium collocatum. Quip pè maior planta bubulus, quiplenior, et mollior eft,ex ſuperflua &ventola eius humiditate, in potu aſſumptus Veneris incendia excitate cóſueuit: minor verò, qui flaccidior, et aridior eft illa reprime re,Veneremque extinguerevidetur. Ob id(vt aiunt) in Theſſalia mulieres molle teſticulum in la &te caprino ad ſtimulan. doscoitus,& bibere,& hominibus inpo tu;præparare ſolent.Quod autem in Sa tyrio mirabilius eft,aiunt, alterú alterius in poo  Sier o in potu ſumptų potentiam et efficaciam refoluerezlı vterque teſticulusvpà exhi betur. Sterilitatem hominibus,à fterilibus animali " bespoffe prouenire. I verum eſt, quod ab Athenæo pro dicur,Malluin ter in vita parere,relis quoque tempore fterilem efle, quod in eius vtero naſcantur vermiculi, à quibus femendeuoratur non abfque rationeex iftius naturahomines pofle fterileſcere. Terpſicles apud eundem dicebat.Mul lus enim fi viuusin vino fuerit fuffoca. arus,atque id vir biberitçrei venerea -o peram darenon poffe creditur, quod ex 3 Plinio etiam confirmatur, qui veneris incendia extinguere fcripſit. Cynorhodiradicem ad Hydropbobiam pluri mum valere. Dmorſum canis rabidi vnicum " A Pemedii,quodá oraculoroperti proponit Pliniuslib.8.cap.41. Hæc radix Hlueftris roſæ eft, quæ Cynorhoda apl pellatur.NarratB.Fulgofius de quadam s fæmina quæ per ſomniú admonita eft, vt 12 Hvide vtradicem Cynorhodi filio à cane ra. bido demorſo, et aquas iam metuenti præberet, quæ ftatim ex Hifpania affer ri curauit radice qua Hydrophobicus ce, lerrimè fanitati fuit reftitutus. Ex Gem. m4Cofmacrit. lib.1. ap 6. Hominis vitam quibusfignis long am,velbres nem metiamur. Ominis vita pomo perfimilis effe videtur; quod aut maturum,deci. dit Spóte,aut ante iniuria tempeſtatum, ventorumue impetu deijcitur. Vitae breuis figna colligimus, raros dentes, prelongos digitos,ac plumbeum habere colorem. Contra longæ, incuruos hu meros, nares amplas, et tria ſigna primis contraria, multos ſcilicet dentes, breues digitos, craſfosque atque clarum reti. nere colorein Forcius. Extra£tum Hellebori nigri ad morbos inue ter atosmagnaeffe praftantia. N thrities atqueaffectibus inueteratis, iiſque potiſsimum, qui ex atro, et meo lancho T! ta ļ lancholico humore excitantur, extra Ecü migriHellebori,remedium praſtancil efimum femper clle inueni.Capianturnie gr Hellebori radices à fordibus purga tæ, et in pila terantur groſſo modo: in fundantur vino albo,& in vafe terreo e bulliantur quousquc radices benè emol liantur, quo facto prælo exprimantur,& iterum in vaſe terreo leniter ebulliat (deic et is tamen radicibs) quod fucrit expreſsum. Acquiret fuccus (piſsitudi nem inftar picis, quicum modico cinna. somo,& pulucre aniſorum miſcendus eft. Dofis in grandioribuseft fcrup.ſem. in minoribusà granis quatuor vſque ad ſex. Datur cum zuccaro in forma pilalar. Confiteor in obſtructionibus, in c pilepticis, retentione menftruorum ex cralforum humorum infarctu, et in alijs inueteratis affectibus, mirabiles huius remedij fucceflus vid.Conficitur eti, am extra et um fine expreſsionc, et cffi. - Cacifsimum cſt. AdLejenem induratum ejufqueobfrationen efficacifsimaprafidia TE 3 Inte Nter ea remedia, quelienem, &fple. neticos ab obſtru &tionibus liberare reperta sút,mihi femper ex voto fuccef GtAbſinthijRomanideco &tum,ieiuno ftomacho epocú,quod à Cornelio Cel fo fummècoromendatur:Vt autem eura felicior ſuccedat poft cibum,aqua Fabri ferrarij; in qua pluries ignitum ferrum extindum fit, Lienoſis præbenda eft. Experientia id totum manifeftauit, ani Talia enim apud huiulmodi fabrose nutrita, ob eiuspotum, exiguos habere lienes obferuatur. Beniuenius, ciuem Florentinum per feptennium ſplenis fcirro malè affe et um curaffe gloriatur, atque ſolo eſucapparorum, et aqua per lanalle.Debenttamé hæc remedia mul to tempore vfurpari,vtfcopú attingat. Hominem quendam fuiffe repertum, mira vaftitatis,&ingluuiei. NdixeratMaximilianusCæſar Ann, MDX I.apud Auguſtú comitia: quã. do illi vir quidam, prodigiofæ vaftita tis, et craſsitudinis oblatus eft;at in illo incredibilis, et inſatiabilis erat ingluuies itavt integrű virtulü crudun,vel ouem UN It incođá vna vice deuoraret, nec taméfa. mem expleta diceret. Ferunt(vt Surius) hominēBorealibus regionibus ortú fuiſ fe, vbiob locorú frigora folent homines elleedaciores.Hoc taménon folú in Scp tentrionalibus partibus,verú etiam alibi bi repertú cft:Voraces n.fupramodú fuifle referunt Aeliano auctore lib.3.de var. hift.) Pityreú Phrygem, Cambeten Ly dium,Charidamcleonymu,Pifandrum, Charippum,Mithridatem, Ponticum.Et e Anaxilas comicus dicit, Cefiam quendā infinitæ voracitatis extitifle. Antidot erum aliquet contra penenum ab ſeruationes. Rcareca Viperamorfus, per impofi tioné tormentille à campo penſili colle etę,illico liberatus eſt,Altercum ingen ti dolore, et ardore premeretur fuper | dextra spatula, et ita angeretur, vt vix ſe s pedibuscontinere, oculis videre, et lo. qui poſſet, veritus neà fcorpione eller comorſus,oleum bibit,multú vomuit,& à dolore leuatus eft, et quod mirabilius, Ha  in ſpatula nihil erat ſigni,vbi prius fue rat dolor.Quidametiamà fimili dolore, et tremore correptus ex aflumpto Bolo armeno cum aceto ſubito cuafit.Puellus etiam putredinem timens, et vermes al fumpfit Scordeum, &liber fa et us eft. Ex Franci.Thomaſio depeste. Quoartificio Cancri pixiextemplo sodi vi deantur. Inum ſublimatum, fiue aqua vita magnam habet efficaciam ia rubi ficandis cancris viuis: propterea fi vis homines in admirationem dicere,accipe viuos Cancros atque in vino fubliaato fubmergas, ita enim confeftim ruber cent,acli perco &ti eflent cantaeft illius aquæ caliditas, et energia,vt inſtar ignis exardeſcat: admiratio tamen indenaſci cur, quod rubefa et i,& viui ab aqua e. cmpti ambulent. Quorradoflamme excit etw inagha. I calcem non extin et am accipias,Sul et lalnitrum in partes æquales, ac bene omnia fimul ailccas, puluis perabitur, qui forqui in aqua proiectus inflammabitur, ac ducem reddet: quod parui mométi haud Berit,prçcipuè ſinodu luce indigebis.Po e terit id fieri in valčulo aqua pleno, vt™ quidá amicusmeus dū no et u in itinere lefſerexpertus eft,qui totum mihi fideliter comunicauit. 9 vbivigent morbi, ibi maximè remedia oriri. M.Agna eft Naturę prouidentia ia ado iuuandis hominibus,quippè obſeros suatú eft,vbi aliquimorbi copiosè vaga. ctur, ibi remedia accomodataad illlorum exterminiūnaſci voluiffe.Hincinaphri bea, quę ferpentú eft feracißima,aromata? tanquã eorű veneno antidota,oriuntura In Argo Scorpiones plurimi videntur; propterea ibi Locuſta adverſus Scorpio. nesinſurgensnafcitur: ApudIndos Os cidentales Gallica lucs viget,ibi lignum SanaaGuaiacum di& á exoritur, et il. lincad nosdefertur.Catharides veneno ierodunt:ex illis remediú caput, alias et e pedes earum exiftere obferuamus.Quia Stellionibus mordentur, iiſdem in potu Ghana fumptis,fanantur Crocodili adeps, fi in ipfius vicera inftillatur,ſuo veneno me deri videtur. Scorpiones,Draco mari. nus, et Paſtinaca contriti, et eorum pla gis impofiti,procul dubio fanánt. Na. pellusmortiferum venenum eft, vbita men nafcitur,ibi Antorareperitur.cuius radices cốntra Napelliperniciem,fingu Jare ſuntpræfidium. Animantium lac ab alimentis recipere gut litatem. Lacomnein animantium corporibus alimeati recipere qualitatem adeo verum et vt demonftratione nonegeat: liquidem nutrices ex prauo in vidure giminenon ſemel infecifle infantesvifa funt,hac etiá caufa lacin ijs modò.craf fum,modò liquidum,aut ferofum cer nitur,eo quod cibusaut craffus, aut in eiſsius fuerit,modò infantium cóftrin git aluum,modò ſoluit,quod vel con ſtringentia vel foluentia nutrices come derint,Hocin pecoribus etiam manife ftum eft:in locis enim vbi hæc fcamoniú Helleborum,aut mercurialem comedit, vtiq; lacomne ventré,& ftomachūſub vertit: quemadmodú Dioſcorides in Iul ftinis moribus contingere prodidit: vbi ficapre albúveratrū pro pabulo habue i fint, primo foliorúpaftueunmere, et ea rá lacnauſea n epotứcreare atq; ftoma chúvomitionibus offendere ait: Cum a.. adftringétibus pabulis,robore,lentiſcogs frondibus oleagincis, et terebintho pe cus hocveſcitur, lac ſtomacho accómoe datiſsimügenerare veriſimile eft. Ex pulcbritudine, da deformitate aſpoetuse' mures viuentibus coniectusari. MAgmá nobis afpe&tus pulchritudo veldeformitasnon folurn in homin I nib,fed etiã animalibus,& plátis preſtaci cóiectură,qua benignos vel prauosmon res et naturas veoarifolemus; intuitu nó pulchri corporiszfpeciofiq; afpe &tusmité naturam, benignofq;moresin homine illo perfiſtere conieéturamus: contrain I deformicorpore,turpiafpe et u timemus. enim neſcio quid calliditatis, et malitie i In animalibus laudamus catellos, canes Venaticos, et ſagaces, venamur in eis benignam naturam, et mites mores: (6.. tra in Maloſsis,inLupis,Pantheris, et fi milibus, timemus crudelitatem, maliti am, et voracitatem. In plantisex pul chritudine venamur falutares naturas, ex deformitate autem noxias, Rola,Li lium, et Iris nobis præftát argumentum, quamplurimis pollere virtutibus: con tra Cicutam, Aconitum, Napellum.ex deformitate enim plantarumhuiuſmo di,mortem nobis poſſeinducere arbitra arur. Ex Poria in pbyſiognom. 1: partibus Septemrionalibu sdeficitate tes exaceri. Laus Magnus de gentibus Septena. rrionalibus loquens: Sunt (inquit ) Biariniidololatrę, et hamaxobii,Scytha. rum more,atquein falcinandis homini.. bus inftru et iſsimi; quippè oculorum, aut verborum, aut alicuius alterius rei maleficio, homines fæpe ad extremam maciem deducút et tabefcêdo perdunt.. In hamorrhagia fele&tißimum praſidium. Nfluxu fanguinis narium copioſople.. 5i9; et in animi deliquia, et fyncopim deur.. perati intercant. A periam quod mihi deueniunt, multoties etiam tanti peri cali bicmorbus eft,vtægrià ſalute deb u,fem * per adhibere profuit.Burſa paftoris co I trita, ficum ouialbugine, et aceto,com i mifta fuerit, et frontiapplicatur, confe * ftim fanguis conftringitur;ve mihinon £ femel in infirmorumcuracontigit. Vi in febricitantibus fitis, lingua ardor compefcatur. Nfebricitantiú querimonijs ex ſiti, et linguæ ardoribus, Criſtalli vfus inter præcipua iudicatur remedium. It lad enim fi diù in aqua frigida agitatur, &ore deindedetinetur, fitim et calore corrigit, atque linguam humectat: ma ioris tamen virtutis eft lapis albus, qui in lysacis capite reperitur. hic porrò ſub lingua agitatus non modo fitim ca loremquerefrenat; verum etiam faliva in ore excitat: vnde febricitátibus,& ma kimè, fiticuloſis prælentaneum iudicae tur effe præadium. Ex Lemnio. Skolen Al ignis prefidia fuiſsimè in morbis CW AX: dis Aegypties TerueTATE. Var Aegyptij admodum proclives in languentium cura,adignea prælia dia eligeada,propterea vftione vtuntur afthmatelaborantibus,in ſtomacho frie gido,humidoque ab humorumque dea Auxu, &facibus repleto,Hepar,& Lic nem obduratum, &refrigeratum,multa cum vtilitate inucunt; Hydropicos ſub vmbilico, &fub hypochondrio finiftro linea petia ignita adurunt. In doloribus dorfi,lumborum,colli, et orenium arti culorum,in ſpina dorli,lumbis,collo, et alijs partibusdolore cruciatis,hocpræſi-. dium frequentant, In tumoribus à crue. dis, pituitofisquc humoribus generatis ad ignem confugiunt, tanquam auxiliú quod citò multosmorbos curet, inopia queproprium efle autumant. Ex Alpines de Medic. Aeg opri.. Centium, et populorum ingenia bifuris, prouerbäs: excogitari.. Vlius Scaligeri vir acutiſsimi inge nij,Gentium,& populorum naturas tum ex hiſtorijs, tum ex prouerbijs, at que ex ore vulgi ita excepir. Alanoruto luxus:Africanorum perfidia: Europeorü acritas.Mótani afperi. Campeſtres mol liores,deſides.Maritimi prædones, mi ftis tamen moribus: eadem ratione In fulani quoqueſunt.Indimobiles, inge nioſ, magiæ ſtudioſi,numcro fidenteso Affyrij,Syri ſuperſtitioſi. Perſæ, Medi Baštriani,Pyrrhi,Scythæ,Sibi,Phryges, Cares,Cappadoces,Armeni,Pamphilij, mercenarij, atquealijsbellicoſi, Aegyp tiz ignaui,molles, ſtolidi, pauidi. Afria cres infidi,inquieti.Aethiopesanimofi, pertinaces, vitæ mortifque iuxta con temptores. Thraces,Myfi,Arabes,Mo. ſchouitæ, Pæones, Hungari,prædones. Illyrij, Liburni,Dalmatrz, iactabundi, Germani fortes, limplices, animarum prodigi, veri amici, verique hoſtes,Sue. tij.Noruegij.Grunlandi, Gorri, beluæ, Scoti non ininus. Angliperfidi, inflati, feri,contemptorës,ftolidi,amentes, in ertes, in hoſpitales,immanes. Itali con Atatores irrifores,fa &tioſi, alieni fibiip kis bellicofi,coacti,ferui vine (cruiant, E H Dci 318 ! CEL: 1: 1: Dei contéptores. Galli ad rem attenti, mobiles,leues,humapi,hoſpitales,'pro-. digi,lauri,bellicoli,hoftium contempto ges,atque idcirco ſui negligentes, impa rati, audaces, cedentes labori, equites, omnium longè optimi.Hifpanis vi& us, afper domi,alienis menfis largi, alacres, bibaces,loquacesyia et abjadi lor 3.Poc-, tices. SCMabaum,Solis Lunaque coniunčtionen piuentibus oftendere. Irabile eft, quod à natura Scara-. bæus animal notifsimúedidicit, omnibus enim Solis, L'unaque coitum apertè demonftrat.Hicex bibulo fter core pilulam ab ortu, ad occaſum totá. döverlans, in orbis imaginem effingit, quam xxviii.diebus peracta humiicro beobruit ibique candiu abfcondit, dum ZodiacuniLunaambiens fiat interme.. itiis,& fileat:tum foueamaperit, et fide-. THM coniunctionem denuncians,nouam pralem cdit: hæc enim eft iftius beſtio la necalia nafcendi origo Ex Mizeldo.i. exo  # Bobilin 2x Quorundam aimalistu natur &.. Oseft conftans, afinus piger,equus: libidineincenditur, petitąue impe.. tnosè femellam;lupusmiteſcerenequit; Vulpes inſidiola, aſtuta callida: Ceruus timidus;Formicalaborioſa:Apis parca: Canis gratioſus, ad amicitiam propēlus, Leoſolitarius,expers focietatis,nunqua pabulum externum admittens, tanta vocis magnitudine, aut fonitu, vt ſolo Tugitu celerrimaanimantia profternat; Visſa pigerrima,ſolitaria,corporegraui, compacto, indiftin et o: Panthera vehea menis,& ad impetus faciendospropenfa, pernixoyedi& a quaſitota fera.Anguis fæniculi paſtu oculorum lippitudinem carat: Formica temporishyberni pabu lum æfiate condit:Item - fides in canibus, in elephante manſuetudo,ftudium ore of natus in Pauone, çura vocis amanæ ſuam, uiſque in Lufcinia.Forciuss. Cervorum vitam,eße lengisimam. Piabat Magnus Alexander poſteria -jari, Ceruorum vitæ loogicudinem oftenders,propterea multoscapi iuſsit, quibus aureos torques in collo in neđi voluit: in ijs temporis curri culum erat expreffum, &Alexandri deo creturn; illorum aliquot poft centum annosab Alexádri morte capti fuerunt, qui adhuc ætatis ſenium minimè pręfe ferebant.Ex Plinio. Mafculinum fuum citius in ptero, gianfo mining animeri.. X omnium ferè Scriptorum opi nionemaremfætum citiùs in vtero, quam fæminam animari capitur, aiunt enim marem io dextra parte matricis ex feminecalidiori concipifæminam: verò ex ſemine frigido, ſiue minus calido in finiftra partematricis, quæcomparatiuè ad alteram frigida eft.Hincmasdie40. foemina verò 80.vel90..vt plurimuma nimaridicitur:quod frigidum tardum fit,&pigrum in ſua operatione: calidum. autem velox: idcircò virtutem forma tricem invno femine velocius, et citius mébra organizare, et formare, quam in alio obferuamus. Ex DominicoTbolofano fuper Leuit.cap. 1 o. Pici PictMirandulaniingenium, quam maximè collaudatum. A,&, + PiciMirandulani,& ingenium, et et multiplicem do et rinam collaudabant, et miro ordine extollebant:Quando(in quit Picus) ron eft,vthac in re mihi,aut meo ingenio velitisbiandiri: quin refpi.. cite potius afsiduis vigilijs, atq; lucu brationibus,quàm noftro ingenio plau 9 dendum: et fimul aſpicite fupelle et ilem noftram,atque librorum thefauros:oité I debat porro Picus bibliothecam egre. gio ornatuconſtructam,atque omnigem nis libris ex varia eruditione refertam. Ex Crimite InHydrargyro onnis metallica Supernatare. Akreexcepto. Ercij,vel fi mauis, Argenti viui; proprietas mirabilis cit, quòd, omnia mineralia ferè,vtplumbum, fer Tum, æs, et alia ponderotiſsima(excepto. auro )in eo fuperpatent: aurum ditem, * fundum petir, et eius recipit, cola rem, quiignis tantùm opeabfumitut et in fumú mali odoris refoluitur. Hu. jus nidor, et virulentia nauſeam, nocu mentumque adftantibus inducit: inde membra ſtuporem recipiunt, et nerui relaxantur; vt fæpifsimèip inauratorio bus obferuatur. Ex Lem. oleicinnamomai rara o pretiofa como pofitio,plerisque incognita. Icinnamomiolcum ad diuerfas infira: mitates parare optabimus caperec portet, cinnamomicontriti lib.j.quam adinftar liquid: pultis cum oleo amyg-: dalarum dulcium commiſcere ftude bimus, tum demum duodecim dierum ſpatio in loco tepido clauſo vaſculo fituabimus, poftmodum ex torculari totam id exprimatur fortiter: hac ett nim methodo oleum, odoris,.coloris, et faporiscinnamomihabebimusad vo tum. Hocadvires reparandas, et Vio letudinem conferuandam rarum eft ro medium, prodeft parturientibus, et in ftomacho debilitatotam interius,quàna exterius vfurpatur; ngritudines frigi 18g A E das arcet, et in partibus corporis ro u borandis eft tantæ efficaciæ, vt vix ale v toruin conſimile inueniatur remedium.. e Marimum Herinaechin tempeftates:mariti w pracognofcere. Dmiranda profecto: eft' Marini Herinacei proprietas: hic paruus pifciculus eſt, nullatenus tranquillita tis tempore naturali propenſione futu ram præcognoſcit tempeftatem. Ea im. minente ita fe præparat: faburram fa cit, lapidem ore percipiens, ne maris flu et us,vndaqueimpetuofæ facile eum diocodimouere, atque huc illuc in pellere valeant. Nautæ id afpicientes: fucuram tempeftatem à piſciculo hoce. do et ti percipiunt, ob id anchoras et fue. des, et fe ipfos parant, tempeſtatibus maris reſiſtere poſsint.Ex D.Ambrofia, Miracuimdam fontis in Epiro Proprietasi A naturz proprietas illius fontis, qui in Epiro (vbi Dodonæi louis tema. plum olim inftru &tú erat, quacaufa hic faces facer di &tus eft ) inuenitur. Ille fri. gidus eft, et immerſas faces, ſicut cx teri extinguitcum: autemfine igne pro culadmouentur,mirabiliter accedit, A bulenfis fuperGeref.cap. 13. de hoc menti onem facit, afferitque huiuſmodi pro prietatis cognitionem Adam, et conté poraneis fuiffe apertam, diluviogue et gentiumdifperfione effle perditam.vide Pomponium Melam. mHecla ignem emiffum,ficcis.extingui, to que verò nutriri. Dmirationem, &fidem omnem ſuperaret, ignem ab aqua nutriri, et non extinguiintelligere,nifiGeorgi us Agricola,vif noftræ tempeftatis me moria dignus,oculatus adfuiffet in He cla.Narrat hic in Inſula Irlandia mon tem nomine Heclam exiftere,, ex quo ignis emittitur,vt hodie in Vulcanopro. pe Siciliam,Sicaniam dicam, et Puteo lis in loco vocato le Fumarole, obſer uamus. Ille autem à cæteris diſsimilis ficcis extinguitur, aqua verò alitur. Ex lib:noftro de Hydrom:Naty. Hominum aliquot fubtilioris, plerofque au tem groſsioris ingenij adeffe. Ropterea Aftrologi, et præcipuè Al. bumas,hominum aliquos fubtilioris i ingenij,aliquosverò groſsioris inueniri volunt: quia in eorum natiuitate Mer. curius, vel bonam,vel malam habet pòa' fituram.In quorú enim natiuitate Mer. curius in domo,velexaltatione Solis fue sit, ij ſunt ingenio prædici; fi verò fuerit + in domo Lunæ, nafcuntur groſsioresor Ptolemæus, Bropoſ. 70. in quorum ortu | Luna reſpicit Mercuriú, fapientes fieri voluit;contra autem amentes:quiaLuna virtutes naturales infundit,Mercurius verò rationales:vnde eum virtutes naa turales,quibus corpusguberdatur, rati onem reſpiciunt, ille nafcitur sapiens; cùm autem non refpiciunt, amens. Hac etiam de cauſa efficitur mentis hebes, et obliuiofus, qui in natiuitate Mercurium babuerit retrogradum: fi enim dire &tus fuerit,ingenijceleris fiet. HancAſtrolo. gi ducunt rationem, quòd ftellæ nóim. peditæ,luas faciant naturales operatio nes; oppoſitum autem,fiimpediuntur. Hisdecaufis frequenter Aſtrologosve sa pronoſticare de moribus hominiume" accidit; non quòd ita neceſſariò eue. niant, fi homo per voluntatem, ratico pis legem magis, quam ſenſusſequi vo luerit:fed quia pronuseſt ad ſequendum appetitum fenfitiuum, in quo Aſtra influunt. Raxael. Matr. in Addit. Bartol.. Bibyl. Galenum omniumporiamcorporis, folum perfe& ifsimè inter veteres, morbos Caraffe. Ratapud Aegyptiosinuiolabile de cretum, vt fingulis morbis, finguli adhiberentur medici. Hinc illorum 0. cularii, auricularij, et alterius,morbo rum nomenclaturæ aliquot vocabantur: arbitrabantur enim fieri non pofle, vt v nus omnium curarum difciplinam re&tè teneret; quamuis in vnadoctus habere tur, vt BaptiftaFulgofuslib. 2. adnota uit. Galenus tamen illic temporis inter veteres, naturæ miraculum, omnium corporis humani partium, tanquamfa. E pientiſsimus,morbusperfe& ifsimè fo lus curare nouit. In lib.de Pet. Art.Med.c.2. Grecos feriptores de Iudeorum monumenti rutibi pertractafle Riſteas, cuiushodielibellus extat de Translatione In terpretum,refert; Ptolomeum Philadel phum, fecundum Aegypti Regem poft Alexandrum, quæluille ex Demetrio Phalereo, quem ille inſtruendæ biblio thecæ præfecerat, curGræci ſcriptores,.nullá dehiftoriis, &monumétis ludæo rummentionem feciſſent reſpondiffe autem Demetrium, tentafle quidem id facere Theopompu,& Theode&tem,no biles in primis fcriptores, et quedá ex lu.. dæorum monumentis ioleruiſle fcriptis fuis: fed mox taméluifſe temeritatis pe nas:illum enim amentia: hunc cæcitate diuinituspercuflum; ſed poftea mali fui caufam agnofccntes, et ex animo dolen tes, placato Deo,ſanitari elle reſtitutos. Eufebius lib.8 De Prapar. Euang. A Cane qido demo- fum, inftarCanis la traffe proditumeft. Ex corrupta imaginatiua non femel à cane rapido commorh latrare vifi funt:cognouit enim NicolausFlorenti nus quendam, quià cane rapido morſus, curationem vulneris minimè quæfiuit; exercuit hic per dies 35.negotia ſua abſ. que læſjone, maneautéfequentis diei è lecto ſurgens retrò vxorem ſuam inftar canis ſtetic, cæpico;pofteam latrare: dú autemab illa reprehenderetur,lubridés ſurrexit, idque pluries eadé die reperi uit. Serò corrupta ex eius ratio, et die 40.mortuusà morſu illato repertus eft. In Arthritidey Chiragra, quando mors fuccedas. Arò mortem in Athritide, et Chi R corporis ignobilibus humor refideat; hinc (nouo haud fuperueniente morbo) tales àmortis periculo, vexatidoloribus vindicantur. Has tamen mori com pertum eft, quando circa finiftrum pectoris finum, cui cordis turbinatus mucro ſubeſt humorum colluuies den cumbat,atque Gniſtræ manus digitus an Bulan  Di mularis nodum acquirat, ac valde intu i meſcat.ex Lemnis. Lienen ad -corporis tarpitudimem maximè Talere, Vantacoloristurpitudine,qui ab in dicuntur,exiſtant, in dies obſervamus, non modò in illius obftru &tionibus, verùm atqueScirrhis, alijſque tumori - ribus. Hioc iure dicebat Galenus z.de Natur. Facult. Quibus corpus florefcit, his lienem decreſcere,ac vice verla,qui bus lien creſcic, illis corpus tabeſcere, et o vitiofis repleri humoribus. Caufa om nium eft, quòd lien ab infar &tu fa et us imbecillis,nequit(fa &ta humorum ſeparatione in Hepate) melancholicum fuc cumad ſe attrahere: hinc demiflus ille cum fanguine corporisatro colore ani. bitum maculat. Iumenta clitellaria in itinare fibilo, da Cana In à laboribus fubleuni. Vlicęconcencusſongriſ numeri maximè homines delectant, ob id multi et cymbala, et alia muſica inftrumenta frequentant, vt animus à mæftitiis fubleuetur. Hac coniectura obferuatum eft:iumenta clitellaria in la boribus, et itinere, cantu, et libilo al leuari:propterea mulones, vt muli, ce seraqueiumenta dicellaria,& tarcinam, et alia onera minus laboriosè fentiant, tincionabulorum torques in illorú col. lisfufpendunt, quorum fonitu, huiuſ modi valdedele &tari cognouerunt, et perinde refici, et à laſsitudinc fubleyari. Ex Vairo kb.z.da Fafcine, Mafalas nigras in acutis morbis apparentes, exitium prefagics. Neer ligna, mortem languentiuni, quæ præſagiunt in febris acutis, illud maxime obſeruatu iudicaui dignū, quod à Sauonarola multa experientia com probatum eft. Sienim infacie, ſeu genis ægrerum,maculæ nigræ obortæ contpi cientur,prcculdubio languentis exitium minantur,quippè venenofæ, et peftiferę materiæ in corpore predominiú redun dere arguunt, ex quo mors ſubſequitur. Has cum obſeruaſiet Sauonarola, ex tali ľ prognognoſtico,magnumhonorem fua ifle confequutum refert. Acetum adictus venenofos epotumplurimum valere. X Cornelij Celli obferuatione ace tum pertum eſt:quippecùm puer quidam ab j. afpide ictus eſſet, et partim ob ipſum vulaus,partim ob immodicos æftus, fiti premeretur,cum in locis ficcis aliumhu morem nó reperiret,acetum, quod fortè ſecum habebat, ebibit, et liberatus eſt: coniecturandum eft acetum, quamuis refrigerandi vim habeat, habere etiam difsipandi,quo fit, vt terra reſperſa co spumet. Propterea eadem vi veriſimia le eft, fpifleſcentem quoq; intus humo. rem hominis, ab eo diſcuti, et fic dari fanitatem, lib.s.de ictu afpidis. A quodam piſtisgenere febrem illico ex citari. N Arota flumine Inſulæ Zeilã quod. dam piſais genus reperiri referunt, quod manuapprehéfum febrem accen, 1 dat.Equidem piſcesillic neutiquam el culenti ſunt, liceat flumen fitpiſcofiſsi mum, qui tamen piſcem febrium appel fatum retigerit,confeftini à febre corri pitur;ſed quod mirabilius eſt, demiſſo piſce, ftatim liberauit.Cardanus, et 566 lig.in Exercit. Fæminas in maresfuiße commutatas fabulo fum non est. Pudmultosauctores ex pluribus obferuationibus notatum reperio, foeminas in mares quandoque commu taras fuifle:referam folum, quod tempo reFerdinandi I.RegisNeapolisfueceſsit. Erat Salerni quidarn Ludouicus Guara rea, à quo quinque filiæ fufceptæ funt, quarum natu maioribus duabus, alteri Francifcæ, et alteri Carolæ erat nomen. Hæ ambæ cùm perueniffent addecimu quintum annum,in mares mutatę funt: ijs enim genitalia membrainſtar marių eruperunt,mutatoquehabitu pro mari bushabiciſunt: Franciſcus, &Carolus nuncupati.Ex Fulgoro. Sene et utis incommodatam corporis quàm Animai NKINGT ANTUT: Quanta fint in fenibus, et corporis, et animi incommoda, non modò à Scriptoribus, verùm arquecontinua,ob feruatione experimar,vt iure afferere libeat,hanc hominis poftremam ætatis $ partem miferrimam iudicari. Mortales enim cùm ad fene &tutem perueniunt * cor eorum affcum eſt,caput tremulú, (piritus languidus, anhelitus færidus, frons caperata, corpus recuruum, nares mucores deftillant, vifus debilitatur, i capilli decidunt, dentesputreſcunt. In fuper ſenes ſunt iracundi, inexorabiles, moroſi,nimis creduli, rarò obliuiſcun. tur iniuriarum,laudantveteres, prælen tia damnant,triſtes ſunt, languidi, iniu cundi, et alperi:ſuntauari,ſuſpiciofi, o. neroli,difficiles.Exquibus fene &tutem fentina, et cloacam efleomnium ford ú, et immunditiarum ætatis noftræ confia tendum eft.Ex Lauren. Cupero. + Magnum Alexandrum, corporis ſudorem ha buiffe redoleni em. Rat Magnus Alexander tam re et a humorúarmo I 2 nia, et temperamento conftitutus, vee iusanhelitus odorem balſamiexpiraret; imò fudor, quem è corpore emittebat, tanta ſuauitate, et fragrantia redolebat, vt quoties eiuspori recluderentur, gra tiſsimis odoribus perfufus crederetur. Quod autem mirabile, et difficile credi tu eft,cadauer eius tam fuauiterſpira bat, vt aromaticis ſpeciebus repletum efle iudicauerint.. Ex Quinto Curtio,& lib. noftro de Hydron.Natur. Diuerfe quorundam hominum virtutes, ornamentA. P tibus,tumanimi magnificentia col. laudantur,omnes in paucis earum per. fe &tionem, confirmant. Porrò Ablalo nisformam, et pulchritudinem extol lunt:robur, &fortitudinem Sampfonis: fapientiam Salomonis: agilitatem, et celeritaté Afaelis:diuitias, et opes Creo G: liberalitatem Alexandri:vigorem, et dexteritatem Hectoris: eloquentiam Homeri: fortuuam Augufti: Iuftitiam Traiani: zelum Ciceronis. Veteran Baderoase no canna, et in papyro penna fcribebate Veterim ruditas, &infcribendo vari Arbara equidem,& mifera erat ve teruminfcribendo ruditas:ij enim primò in cinere, deindein corticibus, et folijsarborum,pofterin lapidibus,mox in lauri folijs, exinde in laminis plum beis,conſequenter in pergameno, et tan dem in papyro fcribere politiſant.Erat præterea illis in modo fcribendi, ins Itrumentorum diuerfitas: in petrisenim:. ftylo ferreo, in folijs penicillo, in cinere digito,incorticibus cultro in pergame. Eorum etiam atramentum varium erat, primum fuit liquor pifcis illius, quem nos ſepiam appellamus;deinde mororú fuccus;ad hæcex fuligine caminorum; mox eft fynopica rubrica,aut minio; vl. timò tandem ex galla,gummi,, et vitrio o lo fieri cófueuit. Bx Strabonede situOrbis. $ InAngira prauosatiuspilulami rabiles Periamnunc pilulas meas maxi mæ efficacia, quibus in angina 3 prafo А pręfocatiua à cratsis frigidiſý; humori bus exorta, ſéper cu felicifucceeflu vfus fum.Interalias obſeruationes, in quibus tale medicamétum libuit experiri, luc cefsit calus in R. Petro de Stephano Archipresbytero Cercelli, qui ferè fufa focatuserat, quare vocatus anno 16156 vt eius ſaluti confulerem; cognito mora bo, quòd ex craſla et viſcida à capite de ftillatione fieret, pilulas meas in aurora exhibui,non fine loſephi de Simoncin medicinaDo&oris, mei collegæ admis. ratione, qui rennebat quodammodo. medicamentum. Eratpilularum come pofitio ex trochis, alandahal, et Aloes an.Scrup.Sem.j.Diagrid.Scrup.Sem.cú ſyrup.de líquiritia conficitur maſſa. Ex hac plurimępilulæ,vtfacilius æger de glutiret, confe&tæ fupe:Hisdeglutitis, iuriscicerum fubitò cya mbum propine. re foleo,quemadmodum in hoc feci, qui fine moleſtia euacuauit, et breui delituit dolor et gulętumor,benè reſpirauit,be nècomedit, et vna die fanus factus eft, cummaxima multorum admiration et lgtigia. His pilulis vfus eftGalenus ad linguam tumefactam, vi lib. 14. Method s med. ſcriptum reliquit: Capitis noftri capillos, plant arumnatura mo ximè aRimilari. M Agnácapitisnoftris capillicumplá tis retinent fimilitudine: quemaddum n.plantę nónullæ humoris defe& u. inarefcétes contabeſcút,aliç verò alienis naturæ ipfarum humoribus occurſantes: o pereunt; fic &capitis noftricapillisaccia: -1 dit:vel n.ex humiditatisdefe et u,quanu. triútur; vel ex eiuſdé prauitate corrum- 3 puntut, et decidunt.inc defluuiú et alir eapillorūdefe& us in cap'oriútur.Ex Gal. Qya dia volucrum pennits varite coloribus tirgere valeamus: I volucrú pennas variisco !oribus tin--, gere 1 ter abluereoportet; mox in aqua alumi.. nis decoquere,atq; du calent,in aquá cro co colorarā, ſi flauas eas cupimus, conii. * ciemus:lina.cæruleas, in fuccú, aut vinü acinorú ſambuci vel ebuli.In diluto fio. ris æris virides fiunt: codémodo colore minij,atraméti, alteriusue coloristin &tas habebimus. Agric  Poftulanie,à meluannesBerardinus Agricolas, Filicibus pro frumentoconfervant do in borreis pri. Oftulauit Mazzocca à Vitulano,magna expe cationis adoleſcens, ob flagrantem in ſtudia amorem, cuius familjaritas apud me gratiſsima eft:CurAgricolę pto fru mento conſeruando, filicibus pro ftra gulis in horreis vtantur; Equidem hu ius ingenium, et animi indolem fepè de miratus fum: proptera in recurioſiſsima complacere volui.Vtuntur Agricolæ fie 1 cibus in horreis, vt cerealia à corrupte la præferuent: quippè filix à proprietate generationi obeft, hinc agrifilice pleni reputantur fteriles. Hinc filix epota ne cat vermes, &ex aluo deiicit: in grauie dis necar fætum, mulieresque reddit ſteriles: quapropter multa ratione agria cula (1.cet tanti arcaniline ignari) filio cibus pro frumentorum ſtragulis vtun ter: quia illorum corruptioni maxime refiftuor. Terrestres Lumbrices digitorum panaricium: fanats. Panae  sol PAnaricium in latere vnguium accidit, &interapoftemata numeratur,quod tantum inducitdoloris, vt patiens, ne. que diu, nequenoctu dormire valeat. Prohuiuscuratione, et dolorislenitione multimultafcribunt: egoprofe et dcer. tiſsimo experiméto multoties compro baui, lumbricos terreſtres viuos ſuper pánaricium alligatos,præfertim in prin. cipio,mirabilitet apoftemacompefcere, et fanare, vt vix diei fpatium affe &tus pertranſeat. € Galega, atqueScordimir am,contra lüemo peffifentemefe efficaciam. M Trabile obſeruamus Galege, et Scordii efle virtutem cótra febres malignas, et peſtilentes; fi quis enim Galegęfoliainacetariis, autcarniú iure femetindiefumplerit,afebre hactutus, et incolumis præferuabitur. Idem (Gam leni teſtimonio ) Scordium efficere pro batum eft:fiquidem ex.veterum quorú, dammonumentis aduerfus putredinem Scordium fingulare effe. remedium tra đitur, vt j.de Antid.capaz. legimus:nam Is cum nteremptorumcadauerain pręliog multosdies infepulta máſillent; quęcund que ſuper ſcordium.fortè fortuna cocia derant, multò minùs aliis computrue. runt; ea præfertim particula,qua(cerdi um attigerant:ob quáremomnibus per ſuaſum eft,tam reptilium venenisquàm noxiis medicamétis quæ corpusputred ſcere faciunt, fcordum aduerfari. Anni bal. Camil En. Nodos. in infantis ombilico filiorumrume-, rum haud oftendere. Pleriqueexnodis inkantis primènato bliorum numerum ex eadem matre: naſciturumcognoſcere profirenturthoc autem caretratione; fæpèenim fit, vt illa moriarur, aut cafta viuat:vel plutesge neret filios, et pariat, quàm nodorum numerus exiſtat;fiue plures viros habeat: è quibuscum alio plures, cum alio paung ciores filios fuſcipiat. Proptereà certio. kiratione afferendum,in nodorum vm bilici primi infantis coniectura, exiſtin, mosfæcundosvteros plerumque plures ! nodosininfátis parerevmbilicofteriles; miebe autem paucos, eofque non ad vnguem diſtincos, vt frequens obſtetricum obą feruatio demonftrat, et vt euentui hæc talia, vtplurimum concordare.viden i tur. Ex Carda. 8.de Oryalum quem ſolo afpeétu auriginoſosbom. mines ſanare. Irabile eſt, quod de Oryalo aue ecircumfertur. Hæc potrò talem dicitur fuiſle naturam ſortita, vt icteria cum affectum, à quo homines plerum que moleſtantur, ad ſe valeat ſolo oculorum afpectu attrahere; proinde vocao tur I &teribus,fiue Galgulus à multis, ab ' Ariſt. autéin biftor.animal.Goryon. Sed 1 quod mirabilius eft, auriginofus homo ab alite viſus fanatur,ales verò moritur. Homines, quandoque ſolo intuitu Ophtbaho miam contrahere. Vita obieruatione animaduerti Ophthalmiam fiue lippitudinis morbũ quádoq; contagiosú elle, et folo perinde afpe et uab hominibuscontrahi:: oculi enim tunc adeò perniciofam vim. $ retineat, xt in alios propriumaffectum, 6 ciacus  ejaculari valeant. Pulchra ratione hoc Vairuslib.j.de Fafci, quomodofieri por fit, differuit:Siquidem animus malèaffe et us fuum quoque corpusmalè habet; ob id fianimusaliquomcrore, aut vi. tio afficitur,colores.corporisetiam im mutar:ſi enimab inuidiacentatur, pallo re, &croceoscolore corpus. inficit. Inde fitetiam, winuidia tabefcentes,ftocle. Jos.inaliquem. liuentes.defigunt, animi fimul venenum vibrent, et quafivirule.. tis iaculis confodiant.Proptereamirumi non-ef, hominesaliquando ſolo.aſpe et uindippitudinemincideres,vt Hieron nymus, Thomafiusmedicusinſignis, (dú ipfe Neapoli ftudijs.vacarem ) defeipfo. teftatus eft. Adlapidessenum,din neficefrangendos mine rabile remedium.. Vidam -medicus ecuditus, ad lapin desfrangendostanquam admiran dium.parauit cibum,cuiusefficaciam a. dedimirabilem eſle cognouit,včad.lapi.. desexpellendos non folumà renibus,& retisa;ſed etiamab anulo comedentis, efficacius remedium haud confedus fu. erit.Paraturex hepate, pulmone, reni. bus,tefticulis cum priapo hirci, quæ cú et croco, cinnamomo, et mellemifcentur, ac ijs hirci inteſtina implentur.Doſis fint duæ, aut tres.buccella Res porrò mon ftruofa,faveraeft.Ex.Micbaele Pafebl. lib. 1.Metbed.Meck. Veterum medicornmpro conferuanda Sanin tate collegium lans Rifx potentiſsimus Afiæ, et Syrie, quialter Alexanderdi &tus fum, it (vt ex Ariftiin libisecret.fiuede Regin. Principa.habetur)medicos præftantiores exregionibus Indiæ, GregiæMediæ,, ac aliarum mundi parcium congregauit, quibus impofuit,vttalem inuenirent medicinam, qua fi homo vteretur, nec. medicis,nec adia: mediciņa indigeret, pollicitufque fuitRex dirüsimus maxi mumpræmiumefle daturum.Illi autem pro maturèconfülendo e rrium dierum fpatio postulato collegiú iniuére. Mox ad Regem cùmomnes cffent requiſiti Sanages Grocus Medicinæ peritiſsimus, qui pręter ceterosdo et trina et fciētiarua tilabat omniú conſenſu Regiindicauit, quòd fumere quoủibet manè aquábisplez noore,efficiat,vt homo fanusperfiftat, &alia haud indigeatmedicina.blocpro feccò à rationealienu non eft:vtenim in Arabum, Græcorumque antiquifsimis voluminibus inuenitur,aqua ponderofitatis ratione ad ftomachi fundum ten dit,auget calorem, et citiùs comprimit, et digerit cibos, digeftionig; maximè au: xiliarur,ceteriſk; mébris corporispluri múconducit. Fabrorú exemploid torú inquiritur, quiin accenſoscarbones mo dicum aquæ conijciunt,vt ignis vi'maioriaccendatur.Idcirco binos aquæclear ræ hauftus manè potare, menfe Iunio præſertim, propter choleram reprimen dam, multum confert ad fanitatem cone feruandam. EfBurtbolam. Moles in lib. de; ſanit.tuer.. Alexandrum Magnum fudorem fanguineum in pugna habuiſſe. * Vdare fanguinem puruminteradri Skadar randa, quæ rard luccedunt,puimera. SUT  1 tur:vbenim in aliquot fudorex láguinis i iclore cruentus corpore malè affecto,: vifuseft; et is nequaquam fineadmiratie one, et iftuporezita di illeexputo danguis: nexortusfuerit,atquein corpore fano; ) vtique maiorem præſtat-negotijcaufam inueftigandi cupiditatem; vt futiſsimè nobisinlib.de Hydraniofazatura.olimedia to pertraétatuet Referam nunc quod, Magno: Alexandro euenit; dum eſſet in extremevitae pcriculo conftitutus.Is cũ, in pugna quadamedererum fumma cum Indis.decertaters lub @ diarioque milisere deitituereto Milqucadedcholera: luccés, [useftzvékotocorpore purú languinédes fudauerit; Barbariſgulecotus igneis filáns misardere vifus fit.Hocautemtantum ijs terroris-ingcfsit, vt fe Alexandra.com mittere coactant, Lüpathium rantie darworetaſtas,tenetrier mas, efung aprusreddere. Rat apud veteres Lapathiorum vfus, pecu liare,eft,vt carnes; &vedulia cú hiselixata vel link dugaa yesulta, et coriacea,terit titatem, et mollitiemacquirant.Propte. rea,quòdcibos concoctu faciles przſta, bant,& aluumemolliebant à vecerum à mélis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Catoncorum feminum:muccaginem combusa fionibus maximèopitulai Nter præftantifsimaauxilia, quæ có buftionibus: adhibentur', feminun cotoneorum muccagipesretinent prin cipatum. Referam:Petri Foreſti in pro prio filio experimentum, Ille matri obo. fequioſus,,cümtefta carbone ignito re pletamkappostaret,cecidit et igneoculos. combuftitit: Putem cum temen cotone. orum in quâ raſaceam coniecifset,atq; muccagineoculosiçpiusabluiffet;mira culi-infarpuer-comualuitabfq; combus ftionis veſtigio. Hoc etiãauxilio in f. milibus cafibus feliciſsimè ſemper vsű fuiffe,idemconfirmat, In lib.6. Obf. Medo Aegyptiospermotas figuras,fenfus,or. rummemoriameffingereconfueuiffe. A Egyptiorum fcientia,quia inter cæterasprecellerorerat apud ve teres, (illa enim ab Abrahan originem habuit) dcirco,& rudimento, &Hiero glyphicis ferè occulra indicabatur. Si à qui illorum primi per figuras animaliú (CornelijTaciti teftimonio)léfusmétis elfingebant, et antiquifsimamonumera humanæ memoriælaxis impreſla cer. auntur, et literarum inuentores perhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis: - látcerę reperiuntur,quæRegum illorum diuitias, acpotentiamdeclarant. Per a - pis enim fpeciemmella conficientis Re. gem oftendebant. Siquem memorem s fignificare volebant; leporem aut vul. pemauritis auribus, quod fummieſlent auditus,& inlignismemoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum:fi velocem, vel rem citò factam,accipitrem; quonis hæc aliarum fermè auium fit velociſsie ma. Si inuidum, anguillam, quòd cum piſcibus fit intociabilis.Si iuſtum,oculü: Gliberalem, dextram manum, digitis paſsis:fiauarunn,ijfdem compreſsis.Per inſtrumenta quædam, et membra humana pleraque fcribe Jant. De bis vide Pie arium, Diodorum, Srabonem. lum  ritatem, &mollitiem acquirant.Propte. rea, quddcibos concoctu faciles præſta, bant,& aluumemolliebant à veterum à mėlis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Cotoncorsimfeminum -muccaginemcombuso fionibus maximè opitulari. Nter præftantiſsimaauxilia, quæ có. buftionibus adhibentur',, feminum, cotoneorum muccagines retinent prin cipatum.Referam:PetriForeſti in pro prio filio experimentum. Illematri obo... fequiofus,cum teſtá carbone ignito re pletamkappúrtaret cecidit& igncoculos, combuft Pitemaeumtemen cotone. orum iniquárafáceam conieciſset,atq; muccagineocalosiçpiusabluiffet;mira. culiinffarpuce -Conualuitabſq; combus ftionis veftigio. Hoc etiãauxilio in fi milibus cafibus feliciſsimè femper vsű fuiffe, idem confirmat, In lib.6.obf. Medo Aegyptiospermotasid pguras, fenfus, re rum memoriam effingere confueuiffe. Aegyptiorum fcientia,quia inter teres, (illa enim ab Abraham originem habuit) dcirco,& rudimenen,& Hiero glyphicis ferè occulta indicabatur. Si qui illorum primi per figuras animaliú 5 (CornelijTaciti teftimonio )jēlusmétis - elfingebant, et antiquifsimamonuméta humanæ memoriæfaxis impreſia cer. auntur, et literarum inuentoresperhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis látceręreperiuntur,quæ Regum illorum diuitias, ac potentiam declarant. Per a pis enim fpeciem mella conficientis Re. gem oftendebant. Si quem memorem ſignificare volebant; leporem aut vul pem auritisauribus, quod fummieſſent auditus, et inlignis memoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum: lì velocem, vel rem citò factam,accipitrem;quonis bec aliarum fermè auium fit velociſsi ma.Si inuidum, anguillam,quòd cum piſcibus fitinfociabilis.Si iuftum, oculu: G liberalem, dextram manum, digitis paſsis:fi auaruin ijfdem compreſsis. Per inſtrumenta quædam, et membra hu. mana pleraque fcribe vant. De bis vide Pie. crium,Diadorum,cSrabonem. Quamethodo peftilenti tempore àluenos tueri yalcancus. Retiofa,acbreuis theriaca reperitur, qua homines ab aere peſtilenti, ad jun et o vitę regimine,præferuari poſsúr: Sumuntur caricæ,nuces iuglandæ, folia rutæ, &iuni peri baccæ pondereæquali, confundanturfimul, atq cum aceto ro faceo, vel communi diffoluantur; mox per pannum colentur, fuauiterg; expri mantur;ſuccus verò, qui percolabit,fero uetur: vnúenim iftius cochleare, mane ieiuno ftomacho ſumptum,non finit illa die hominemà peſtilentia corripi. Ex Alpbane de Pefter Olivarum oleum unguium pun &tura mira biliter fanare. IN fedando dolore vnguium expun, Aurisacu,vel ferro,atq; iisperſanan dis,nullam remedium oleo oliuarum fa lubrius inuenitur; confiteor multa oba feruatione,multisa; experimentis id toa tum comprobaffe. Honefta mulier; ac vnicè dilecta, Laura de Otaro, mea vxor cariſsima, no femel, dum varia-ad femi liæornamentum,acu contexerer, in vn guibus digitorum pun&a eft; limplicita menoleo oliuarumio puncturiscollini to;&dolor confeftim euanuit, et falus introducta eſt.Ego profe et ò ſemel pun. aus ferri cufpide ſubter pollicisvngue com ſanguinis effufione, fubitò ad lini mentum ex oliuarum oleo, antequam aquamtetigiſſem,deueni;quo adhibita dolor delituit,atque vulnus vnà breui ter, et conſolidationé, et fanitatéhabuito Admirandüauxiliü ad vefica calculã,quoabt que inciſione diffoluitur,& expurgtur. Nter admiranda auxilia, quæ ad cal INTE culoſos adhibentur, connumerandum iudico remedium, à do &tiſsimo Hora tio A ugenio experimento confirmatú in epiftolis addu& um,quo abfque inci fione in vefica multorum Japides com minuit,& expurgauit.Réferam qua via id, innotuita Aegrotabat calculo veſicæ cuiuſdam Typographi filius Romæ poft varia aſſumpta remedia,cùm nulla lub fequutá noſlet ytilitatem,fecaricupidus; de pretio cû Nurfino artificecóuenerate propterea Sacerdotem iufsit accerf ri, vt ſumptis Ecclefiæ facramentis, fex le &tione moreretur, animæ fuiffet confultum.Religiofus ex focietate Iefu, audita confeſsione, proponit illi phare macum,de quo in leipfo, et in alijs peri culum fecerat: expeririæger voluit, et magna aſsiſtentium admiratione fana s:Pharmacum ita erat concinnatum. Puluerris Millepedum præparar,drach, i.ad fummum Scrup.iiij.aquæ vitæ vnc. Sem.iuris cicerum rub.vnc. ix.velx.ca piatæger calidum,horis quinque ante prandium. Efectus medicamenti talis fuit. Horarin duarum fpatio totum corpus incalefcebat, anguſtiabatur z grotus fitiebat, ac ferè loco ſtare non poterat,aliquandocirca pubem dolores vrgebant.Vrina hora quinta cceperunt cralsiores:feddi,fed non multæ.Secunda die à pharmaco contingebant eadem, fedvrinæcopioſiores, et craſsiores.Ter tia labulumapparuit multum. Septima tandem adeò plena fabulo vifæ funt, ve rectequis diceret,easnihil efte quamfabulum aqua diflolutum: omnia in me liorem ftatum redigebantur, ita vt, qui proximèincididebebat, liber abomni malo nona fuerit die. Miliepedum ad calculosRenum VP fuca preparatio. PRæparantur Millepedes ad Renum Velicæque calculos talimodo r.Az fellorumquam volueris quantitatem, vinoquealbogeneroſo abluito diligen ter, mox in ollam copiicito nouam, vi tro obductam, lutoque aliquopiam ile lam incruſtato, demú in furno exiccen tur,ita vt poſsit in tenuem puluerem rc. digi; tumverò affunde vini ciufdem gee neroli quantum poterunt imbibere, et rurfus exiccato, ac tertiò imbibito et exiccato vt ſupra,quartò veròpuluerem irrorato aqua fragarum deſtillationis &olei exCalchanto Scrup.j. permifce to inuicem, et exiccato rurſus: vbi verò fic fuerit exiccatum in tenuiſsimumque puluerem redactum,feruetur in vale vi. treo,aureo,yelargento. Es codem. Frequentem ficoram efum fudorem parere abominabilem. Licetficorumvfus multa hominibus commoda părturiat; ran et ij citifsi mè nutriunt, et impinguant corpora, aluum emolliunt, et per vrinas, et per ambitum corporis non pauca excernunt excrementa: tamen eorum continuus, et frequens vfus fudorem generat abomi. nabilem, et corporis fæditatem; indici um huius rei eft, quòd illorum eſu pe diculorum copia innaſcitur. Hinc apud Rhodiginum lib.6.Antiquar. teet. Anchie molum, et Moſchuni Sophiſtas,legitur tota vita fuiſſe hydropotas,acficis modò folitos veſci, et tamen robuſtos extitiflc, ſed adeò fætentes,vt propter abomina bilem fudorem certatim in balneis aba. liis excluderentur. Mulieres eximiam, &fuauemrerinete pinguedinem. Orpora mulierum fuauiori, et ma: ori fulciuntur pinguedine, quàm hominium ipſa,quæ profe& ò ob ſiccitaa tis, dominium,minùshumidi, et oleofia C ttatis retinere videntur. Propterea apud Plutarchú 3.Sympol -4.habemus, vbi mul sta cadauera promifcuè erất cóburenda, veterú tempeftate, temper decévirorú vnú mulier brcímiſceri ſolitú: qualiil lud vnú tantú ſuppeditaret pīguedin is, vt cętera faciliùs cócremari valuiſsent, Aſtu demonum, mirabiles in hominum.cor poribus effectus procreari.: ribus Dæmonis aftu cffectus con ců, ſpiciuntur, vt quando quis euomat am icus, clauos, pilos,oflamagna: vel quòd plumæ in lecto fint ingeniofifsimè con ferta:multæ enim de iis obferuationes apud Hieronymum Mengum in Malleo Maleficar. Paul:Grillandum, et Delrium reperiuntur. Quomodo autem hæc fieri pofsint, talis eft ratio: aut enim ifta funt Diaboli illufiones,ita quòd ea videátur, quz vera non funt, fiue per a&iua natu ralia hoc efficiétia, ſiueper acrifiam,fiue per aeriscondenfationem;aut funt vera; quippe Diabolusinuifibiliter huiuſmodi in hominis ftomacho intulit, et exinde viſbi.  Emin viſibiliter educit,licet ram magna vide antur; nam &ea diuidere, et integrare poteft faltem apparenter,eò quòd loca ſiter huiuſmodi corpora, et partes eorú, ad nutum moueantur, et ad inuicem con glutinéter,Deo non impediente. Summa Sylueftrina de Malefic. Carduum Benedi& um ab Hemicrania homi. nes preferuare. X India Carduum Benedi& um pri mùmomniumad Imperatorem Fri dericum honoris gratia fuiſle miſſum multi hiſtorici autumant, quod miris laudibus, ob peculiares eius virtutes, planta hæccelebrabatur,&obidà mula tis Carduus Sanctus dicitur. Hæcenim venena lupcrai, &confert cùm vlceri bus, tùm vulneribus, eft præfentaneum remediumad peftem, necat vermes, et vtero prcdeft, et in cibo, et potu viit pata, ab immenfoillo præferuat capitis dolore, quemHemicraniam vocant. Ex Trago. Infantes preferuari Apoplexia.Epilepfia fumpto prime fyropo de Cichor.cum Rhabar. vei Corallio, aut ſucco Rute. tibus morbus epilepticus,apud au * Etores noftros paſsim legitur, ob id af. feetus hic vocanturà nonnullis iLorbus * puerilis, liue mater puerorum: Vtau iem cùm ab Epileplia, cùm apoplexia ghi præferuari valeant, multa obſerua tioneexpertum eft,iis,antequam lacgu ftent, in primo ortu prebendo fyropum in cichorea cum Rhabarbaro drach. ii.ab $ hacluepræſeruari,vt Nicolaus Florer - tinus fatetur. Arnaldus Villanoua Co mit rallium laudat:nam fi diligenter triti të y Scrup.Sem, infans hauſerit cum lacte, antequam aliquid guſtat, nunquam in Epilepſiam incurrere obſeruauit. Ego quidem Marcello,Hieronymo, &Mare i co Antonio filiolis meis ſuccũ ruiæ cum modico auro ad ſcrup. ii. cuilibet dedi, antcquam lac guſtarent, &gratia Deiab Epileplia immunes exiſtunt.Helionora, K. quæ nunc ablactatur, feremortua nata eft fumptoque et ieiunato paruo cochle airo ſyropi de Cihor. cum Rhabar.re uixit, epilepfiam nunquam adhuc palla eft. Menſtrualem mulieris fanguinema Tontta # nimaliaefe venenum. Nter naturæ arcana reponendum eſſe iudicaui,quodàMetrodoro Sceptio traditur demulierismenftrualifangui ne.Mulieres fiquidem fimenſtruationis ſpatio nudatæ ſegetes ambiunt, erucas, vermiculos,fcarabços,ac alia noxia ani malcula decidere faciunt. Tale enim à natura ijs virus inuentum eft.Non folú autem huiuſmodi animalculis menftru alis mulierum fanguis nocere creditur, verùm atque grandioribus; quippè cao pes, ex Plinij teftimonio menftruofan guine guſtato, in rabiemutari vifi funt, quorú morſus inter difficillimos mora ſus fanatu reputatur. At de re hac fupe riùsaliàs tractauimus. Thapfiam veficas,do ademata corporifuper poftam excitare. Magna profectò eft Thapſiæ effi cacia in veficis, et ædematibus ge nerandis,idcirco à nonnullis in peftife Eris febribus vbi veficantia neceffaria súc cum felici ſucceſſu vſurpari audio.Cùm autem corporis locum aliquem inflare quis deſiderat, veloſtentationis, vel cu o riofitatis gracia, ponatur Thapfia in low i co conftituta:ibi enim breui veſicas, et ædemata excitabit; vt tandem citra læ fionem id ſuccedat et breui etiam fol jů uantur, cheriacam linire, vel curninum, i aut acerü fuperponere oportet. Ex Car dano lib.8.devaret. | Antivfum inmedicinapro conferuanda va letudine mirabilem obtinera proprie Mlimbi Irabilis efficaciæ aurum in medi Lcina eſt:quippe innumeras illud pro corporis tuenda fanitate retinet vir.? tutes.Eiusvſusin vino maximèexcellit capiunturpropterea aurilamellæ, quæ ignitętoties in vino extinguútur,donec ferueat iſtud,mox colatur, et vſuiſerua tur. Vigum bocpotatum ventriculo imbecillo fuccurrit, concoctionem ad iuuat,foedum colorem emédat, et prin. cipalia membra coroborat, et rcſarcia. Proinde obferuatum reperio,cor ab illo roborari prauos humores calore fuo abi fumi,vitales ſpiritusclarificari, hepatia que plurimum prodeffe fua virtute ile lius vſum. Multi certiſsimo experimen, to huiufmodi vinum vitam prolongare cognouerunt,fpiritufque fynceros face re,atque virestotius corporis renouare Nonnulli leproſis multum conducere Scribunt,ve ex Mizaldo, et Zacharia à Puteo capitur. Quercetanus Auri falia in aliqua betonicæ,autabfinthij confer lacommiſta, ac deglutita ſua fpecifica facultate vétriculú corroborare fcripfit, Aliquot animalia ex nature eorumfimili tudine à veteribusfais Dầsfuiffe dicat. veterum infania in rum falſa religione: quippe,& i nimalibus cultum reddidiffe,infinitis ae lijs federibus, et naturalibusrebuscircú. fórtur. Inter alia, quædago apud eos PO animalia erant, quæ ex naturæ illorum proprietate, et fimilitudine, vtreor, ali quibus Dijs reperiuntur fuisſe dicata. Hinc Canis Diana { ace: eft, Aquila lo 1 ui, Tigris Baccho,Pawo luponi,LeoCy beli,EquusNeptuno,Cygnus Apollini, Anguis Aeſculapio, CoruusPhoebo A finus Libero,GallusMarti,Colúba Vara neri,No& ua Mineruæ, Lupus Marti, Anſer Iunoni,Soli Phenix.Ex Fonio. Veri V nicornu proprietas, eiusque cognisio, Erum Vnicornu, quod in febribus peftiferis propinatur languentibus veilitate maxima,in fyncopemaximo. Pere prodeffe videtur.Illud auté non ex eo cognofcitur, quòd bullas excitet, vt plerique hominum ignari perſuaſi ſunt: hocenim quodlibet cornu etiam facit: fed alia, diuerfaque methodo. Hoc eſt præcipuum experimentum. Si ſcobem eius củ arſenicogallina,turturi,aut co lumbædeuorandum dabimus, fi fuper Itesmanſerit, vel vnicornuftatim poft arſenicum fumptum datum fuerit)verí K 3 et legitimum Vnicornu pronuntiabi mus. Alii in aurificis fornacem demit. tunt, fiodorem cornu à ſe emittet,ve rumefle prędicapt.Nonnulli experime toʻreferunt, quòd in vftionepon omni no comburaturſed, augeatur potius minimeque in vſtione fætorem cornu *habeat, tt in cornu ceruinioexperirilor elet. Ex Føreſto. Oxo artificio mulierum cinni crocei euadant. CApillorum cullui mulieresmaximè vacát, illud autem iisoprabilìus eft, vt Aauitiem acquirant. Referam mo dum, quo votum aflequi poſsint. Su mito Rhabarbarifabæ magnitudinem, fæniGræci, croci fylueftris, liquiri tiæ tabacci, corticum aranciorum quan.. titatem adtui libitum, paleæ triticæ ft. militer, his quernum cinerem addito,, et incoquito, vt tribusdigitisdefcen dat aqua, inde lauentur capilli: tanta enim fauitie“ redundabunt, vt illos aurcos eſledicas.,. Ex Porta in Phitogn. tipios A4 itib...Adexcitandum in fenibus nauralem caló lorem, eorum; vires deperdit assenquandika confectio præftantiſsima. "Heſauris profecta comparanda eſt, Marſilio Fici 4. no, in lib.z.devita producenda, Medicina Magorum appellatur, quippe ſpiritus, naturalem, vitalem, et animalem fouet, confirmat,& Toborat; et proptereaſenie bus præſtantiſsima eſt. Conſtat hæcex thurisvnc.ij. myrrhæ vnc,j. auri in fo lia ducti drach. fem. contundere fimul į tria oportet, atque aureo quodam mero confundere, et in pilulas ducere. Sumi kä tur huius-mifturæ portiuncula inaurora ieiuno ſtomacho; in æftarecum aqua: roſacea; in hyeme verò cum exiguo Quomodo febris in aliquo confeftim induci palent.. VI febrem in aliquo velad oftentatio.. nem, vel ad remedium, curioſi tatemque inducereoptabimus,(fiquidem in conuulfionibus, parakyſi, aliisque frigidis affe et ibus,non parumaliquádo K4 febrew meri potu. 14 Sheh  febrem excitare profuit, ) Scarabe cor buti in oleo decoquantur, illogue arte ria brachialis iniungatur: tanta enim eſt corum potentia, vt confeftim febris, et accenſiones corporis criantur. Ex Car Nuno. Amultis animalibus anni tempora precognoſci. Tdcntur profe et ò plerac; animalia anni temporaprecognoſcere:fiqui dem ex corum inſtinctu, illa homines commentiuntur. Grues enim autumni tempore ad loca calida peruolant, hye mis frigora fugientes. Hirundines ver nali tempeftate ad regiones noftras re meant. Ficedulæ, coturnices. aliaque multa volucria, in anni temporibus,pa bula commutare,aliaque loca adire con ſpiciuntur. Hæc autem non Ver, Autu mnum,vel Hyemem dire et è præſentiút, quemadmodum nonnulli falsò ſibi per fuafi funt; fed verius ex facta alteratio neà calido, vel frigido in eorum corpo ribus,fiue occulta qualitate,has viciſsi sudines facere cognouerunt. Am ago Amantis ex leuiſsima quidemoccafione sie furcenfere folent.: Viperditè amant,leui alioqui mo mento iraici videntur: ratiohuius rei eft, quiainiurias, licet leues, graues iudicant. Grauefiquidem exiftimatur, vtilleiniuriam in te committat, cui ma ximeplacere ftudeas. Cæterùm quem admodum fubitò dolet», qui contra fui habitus propenfionem facere quippiam conátur; ita &amantem facere conſpi cimas;moxtamen rixarum,& odisper nätde, rurfusque fupplex iugumſubacta ceruice repofcit.Ex Leona dojachine, IN Plenilunio, Nouilunio Pharmaci ex bibitionem àMedicis maximè deteftai. Vlra rationc à Medicis in. Pleni junio, et Nouilunio Pharmacam ehitatur: fiquidem Luna,cùm interme Hriseftzomhiijo caret lumine,atqueſub radijs lotaribus ia &ta, et proinde ſolica caret humiditate, quo fit vt corpora ne ftra magis licca maneant, et virtusteten trix robuftior exiſtat. Idcirco fin No puilunio ipharmacum ægris exhibetur;a K 5 abfquedubio humores noxiosagitabit, atqueob retentricis facultatis inobedie. entiam parum euacuabit.InPlenitapig ob Lunç porentiam corpora noftu yali de calefcunt,humoresque augetur,Hing In pleniluniis no &tesicalidioreselle ex perimur,cuius caufa, cailorem à centro ad circumferentiam attrahi, verilmile: eſt's quas propter fihumores, corporis: noftriad ambitum tendunt, procul dus bio pharmacum improbatur:illudenim à circumferencia ad centrum trahitmg. tumque natureperuertit, quo facilefut cedit;vt virtus kadetur,&humorumsys tiacuatio,velmale,veldeprauana.coring gat: Ex loann,de Pitch 19continuatamaſculorum generatione Jep, LR timanm mirabilembakere virtutem.: TIG apud multos fcriptores repe rifles, feptimun mafculum com tinuatæ generationis mirabilem habere virtutem interhæc noftra embammata minimehoc adieciſlem. Volunt enim quando aliquis ſeptem filios maſculos Continuatim et inter eos fæminam nul,  Quod autem in Hydrargiro mirabile pullam ſuſcipiat, ſeptimum mirabilem virtutem et ftrumas, et alios plerofque effe et us retinere ſanandi, An autem ve rum fit, ncſcio,cupio tamen à fapienti bus experiri. Forum Hydrargiri, fuperpofito yclamine, 1: in molem Mercuriimatari, Yrifices dum valamineralla inau. rare cupiunt, Hydrargiro pro bo peremoliendo vtuntur; illud autem in igneimpofitumin fætores grauem, et fætidas exhalationesreſoluitur,pernici--- ofas quidem, niſi abijscautè'euitantur. iudicatur, eft iftud, ſiſuper illius fumá linteolum extendimus, in quo colligi. poſsit, vtique in argentum viuum fu moſitas illa icerum conuertitur, et Hya, drargiram renouatur. Experimur hoc. etiam in carbonum fumofitatibus in traffas fuligines reuertuntur, licet die uerfimodè ab Hydrargiro,Ex Lemnie. Eæculas Bryonia viera mundificando mirane babere pirtutem. 5 K Singularis profe et ò fæcularum Bryo. niæ,tum pro matrice muodificanda, tum ad hiſtoricas ipſius paſsionesſanan das eſt efficacia:quippe ex multis expe. rimentis comprobatum eft,in huiuſmo di affiEtibus curadis inter remedia,prin cipatum habere. Referam ipfarum con ſtructionem, Exprimatur pręło ex Bry onix conciſis radicibus, et contufis fuca cus.crit primò turbulétus,idcirco in va ſe aliquo afferuādus eft, vefæcalisma. teria ſubſideat: detineatur in locofrigi doper paucosdies; in hoc enim fpatio finclinato vaſculo,viturbulenta aguia) Separetur, et proijciatur) fæces albiſsi mas inſtar amyli in fundo inueniemus quas iterum in pluribusvafculis vitreis, aut terreis diuiſasin vmbra vt, exiccen tur feruabimus;ita protectòintra paucas horaşexiccabitur, et formáanjyli acqui rarexpreſlum, quã Bryonize foculá no minamus.Hac fingipoſſunt pilulex.aut xij. granorum pondere, et cú palico ca ſtorci, et alfęferidę ſummü; ac precipuú. aratur remediú cótra affcctusnarratos. Fæculæ huiufmodi etiamfi diffoluütur, inaqua florum faþarú pro fuco ad orna tum mulierum,paneaſque defendas ef ficacifsimæ funt.Ex Quercerano, Miſaldo, &Zubariaà Puted. Millefolium ad conſolidande vulnera misam babere potentiam. Lurimis experimentis comprobatú audioMillefólij virtutem ad vulne rum coitionem, indielğue nouis obſer: uationibus confirmari.Referam folum quod ab Hellerioin Chirurg.adnotatur. Cuidam deciſus naſus erat,qua osin car tilaginem definit: Ruſticus propenden tem partem alteridigitis coniunxit,her bam tuſam,& èvino nigro tritam,quod Millefolium appellant,impegit, rudius omnia colligauit, vede celerrimè reſti. tit fanguis profuens, et vulnus pulchra e cicatrice brcui coijt. Chymicam aztem, reterum tem; eftate floruiſe. Pud Veteres i maximo prctio ars p !eriſq;illiusftudio vacabátur:inginte s A K7 enim diuitiarum copias illa methodo homines componebant,quibus ditiores facti cum Regibus bellum adibant.Pro. pterca DiocletianumCæſarem legitur poftquam Achillem Aegyptiorum Du cem o et omenſcsin Alexandria obſeſsú: profligaflet, omneschymicæ artis libros, diligenti ſtudio conquiſitos, deflagral. fe: pereparatis opibus, Romanisfacilè. repugnarent. Ex Suidt, oOrolio. Quoartificio corpus glabrum reddi: poßit L Itet varüs modis corpus depilatum; &glabrum reddipoſsit,nulla tamen via præftantior eft,Varronis teftimo nio, quàm loca lauare aqua; vbi Bufo nes decocti fint,donecad tertiam redcat: - quippè- fi tali decocto corpus Jauetur, proculdubio glabrum,&fine pilis had bebitur.. Natiuitatis hominum tempora à multis: obferuari On leuis profectò eſt.multorem: ſcriptorum obſeruatio in homia. EN lp mum natiuitatis tempore: à multis enim occafiopibus temperamenta corú. variant, &plerique àrnaturæ terminis, roaximédiftrahantur. Porròquiinipfor terremotus i momento nafcuntur femper patent in tonitru ſemper lan guidifumo qardenet Cometa coex ar... dendi complexjoneargentesfuntainter's Lühiikempordebiles cuadunt, vel fals, temi Ariſtotelis teftimonio ) melan-; eholici, et atrabile laborantes. Hydárrgýrum non effe vendnum in paura: fumptums quam itme', fed adver: mes nes andas exiftere remedium ydrargyrum, vel fimauisargenti vionm, quodà multis venenum exiftimatur, feliciſsimo fucceflu contra vermes exbibeturjzáptægue certitudi-. nis illud in Hiſpania reputatur, vtmu lienes, tenellis pueris, quila ĉçis vomi.. ty laborant, ad quantitatern granorum trium in propria fubftantia propinare audgár:bacn, via morbuscellare videtur: frequen A Hedmare frequentatisexperimentis. Ego quidem viduam mulierem curani, quæ nouem dierum fpatio vomitibus continuis ex vermibuslaborauerat, et ferè triduono comederatznec cibum retinere valuerat. Haiccùm fcrup.ij. bydrargyri mortifica tii, cum tantillo adoniipropinaffem abfque vlla moleſtia peraluum centum, et pluresemifitvermes, &eademdie lis berata eft, et folita exercuit domi, et foris negotia,magna profe et ò parentum ſemper eventu, domique continuò a quamhabeo, in quaHydrargyrum, in. furum retineo, illaa que puerulis pro vermibus libentiſsimèconcedo, nec ad hucquempiam ex illo noxiam recepifle expertus ſum. Vfuseft hoc remedioad vermesmecandos,MatthiolusHoratius, Augenius, et plerique alii celebres viri, qui omnes huiusauxilii maximè extol. lunt beneficium. Datur pueris in lub: ftantia Scrup. ji grandioribus Scrup.ij. vel drach.j. Corrigitur illud, et nrore ficatur in mortario vitreo cum zuccaro rubeo: ibi enim tam diù conteritur, vt in partes inuiſibiles diffoluatur; ne au tem in priſtinam formam iterum redeat, * olei amigdal,dulc.gurtulas binas adde re oportet, et cum zuccaro rof. violato, vel cidoniato ieiuno ftomacho languen mtibus propinatur.Sciant igitur curioſiin hac dofi nullum præbere periculum,in # maiori tamen non dedi,neque concede tem:licet apud Aufonium Epigram.10. o legatur hydrargyrum contra medicinas venenofas valere. * Datura flores, com ſemper, hominem in ri(was; concitane. M ! Tra eſt Daturæ potentia in faſcinan.. dis, vt ita dicam, hominum men tibus, adeò quòd, qui illiusflores, vel Temen ſumpſerit, à riſu, cachinnisque non defiftat,donec més alienata ex plan tæ viribus in priſtinem redeat tempera mentum, Apud Indos à furibus Datura vfurpatur;fores enim, vel femen in ci bos eorum, quosdepredari volunt, exhi. bent, et in mentis alienationé, et in riſum 2. conci.  MA it concitant: ita profecto furádi parantin duftriam.Durat illorum riſus, et mentis error, viginti quatuor horarumtermipc.. Ex Gozdab Horto. Lupesſenio confectos in renibus venenoſosgeo net areſerpentes. Agnum profectò in præſentiarü arcanum aperio, multis hucuſ. que incognitum de luporum natura. Il lud eft,cur à Lupis animalia commorfa modòfanentur, modòautemmoriantur.. Anquòdluporum aliqui venenoſi, ali qui verò ſine veneno exiftant?Equidem CarolusStephanus lib7 Jus Agricult.cap.i. ſe obſerualle fatetur, ib Luporum fenum renibus,primò ferpentes vno pede.Jona giores, et breuiores, qui temporisſpa tio venenauſsimi effecti,Lupum enecás. Hac via facilius nobis tribuiturconie &tura deLuporum morfibus.Si enimle piiuuenes fuerint, animahaa, momor derint, ex benigniori eorum natura, mortem baud inferunt,vtmultoties ob feruamus, niſifortè.vulnera in principi buscorporis fuerint locis, vel tá grádia, vimori neceflc fit.Sin auté ſenio fuerint confe et i,proculdubio leuiſsimo morſu animalianecabút, propter peculiare ve nenum inLupo delitefcens,quod víu ve nit,vtpieraq; præmorla animalium, vel moriantur, velmembrum morſum pu treſcat, vtfaltem difficillimè curetur. Ex. Gaſp Benkino. Qualiartificio ab vxoribus homines mafcu losfilios fufcipere pale ant. Vita à Scriptoribus ad marium M reperimus:hæcautem præcipua, et ve riora effe exiftimaui.Primovthomo ex exceatur,folidiorig;vtatur cibo,atq; ra rius cócubat: ita n. et calidius et fpiflius fe. méeuadit,fita; prolificum, et aptiſsimum ad marium conceptum. Secundo mater, et incongreffu fuper latusdextrum recubat et à coitu confeftim fuper illud conqui elcat: Siquidem Hippocratesmaſculosin dextris,fæminas verò in finiſtris genera-. ri ſcripſit.In dextris enim ab Hepate fo. uetur ſemen,quod eſt calidum: in ſini. ftris autem à liene frigido quoquo pa.; do refrigeratur, et ad fæminarunt 3 conceptum'præparatur.Tertiò ſpiranti tibus Aquilonibus concubant, Auſtris vero defiftát:Aquilo enim admares fuf. cipiendos accommodatiſsimum eft,Au fter verò ad fæmellas. Capimus huius rei ab ouibus experimentum, quæ fiflá. te Aquilone concipiunt, marem ferunt; Auſtro autem foeminam. Multi, inter quos Cardanus eft,ad marium concep tum Mercurialis maſculæ elum extol lunt,hæc duos quafi coleos pro feminie bus habet, et ab vtroq; coniuge depaſta, marem inducere occulte vi exiftimatur. Magnumele in hac inferiora Lune con fluxum. Trabilis profectò eft Lunæ vis in hæc inferiora: ipfa enim noctes illuminat, et fuper humida poteſtatem haber,marisfluxus, et refluxus per quae draturasfuas intētiùs, et remifliùs facit; quippèdum oritur,maria intumeſcunt, et in æftuariafluunt, quoufque ad circu. lum meridianum illa perueniat; cùm autem ad occafum inclinat, Oceanus ab æftuarijsrefluit ingurgites; quando ſub M Orizonte, percurrit,mare ad confueca æftuaria conuertitur, quoad nocte me dia meridiei circulum Luna atringat; poſtremdcùm ad Orienté tendit,Ocea Rusquoque ad folitos alueos regurgitat. Ipſa in Agricultura rebus dicitur do, mina;propterea antiqui gentiles, qui in terræcultura proficere optabant, Lund libamina ſpecialiter obtuliſſe dicuntur; y ocabatur Diana, ſiue Latonia virgo, aut Plutonia coniux velProſerpin. Leonardi asri deOdtimeftri pariu ſenten tiamdebilem effe. Peculatur Vairus in lib. 2.de Faſcino, Cur partus odimeſtris vitalis mini mè lit,innuit hic, vir alioquin doctus, talem partum non viuere, ob femen im perfectum:quia non datur ſemen (vtar guit )quod ad illud tempus fætu procre. are valeat: ſicutin genere triticiquod dam eft,quod tribus menſibusgignitur; quoddam verò, quod nouem menſibus: fed debile eft huius fundamentum, quá do in Hifpania, et Aegypto o et imeltres partusões vitales efle perhibcãt:Potior ergo concluſionis ratio requiritur,quam nos alibi tábgemus. somniarumprofagizà Deo diuinare, aliqus bus bominibus concedi. On omnibusfomniorum diuina N doconcellavidetur,fed quibusà Deo ex ſpeciali gratia permittitur. Qui anim fomnia proprio ingenio diuirare intendunt (dempta fomniorum intere pretatione, quæ et caulis naturalibus in naſcitur, quorum præfagium ad media cos pertinet) aut cæcutiunt, et delirant; aut dæmonum fallacijs inuoluuntur. Iofeph apud Pharaonem, et Daniela pud Regem Chaldæorum (vt infacris habemus) quia diuina afflati erant ſapi entia, fomnia diuinabant.Propterea mi niftris fuis Pharaonem audita fui fom. nijinterpretatione,dixifle legitur: Num inueirepoterimustalem virum, quifpiriru Deiplenusfit? et Rex Babylonis ad Da. nielem:Audiui de te,queviäm fpiritum De orum habeas, ce ſcientia,inselligentiaq, as Sapientia amplioresinuentafunsin tq.ExTa úello. Inter Polypodium, et Cancrosmagxam in. eſſe antipathiam. Axima videtur inter polybodie M, i quòd fi polypodiumſuper cancirú abie ceris viuum, breuiſpatio tum pedum cortices,cum vngues ille eijcier:tanca eft i iſtius plantæ in illum particularis viru 3 lentia,& efficacia.Ex Mashioto, Ć Dengan Ibidis, ferpentesattonitos reddere. Irabilis eſt ibidis pennarumvis M contra ſerpentes, quippe fi illius penna ad illorum quempiam inijcitur, Confeſtim in veſtigiogreffus hæret: ad mirabiliustamé eft, quòd ſerpens quer pis frondibuscontacta moriatur, quare circulatores aftantibus mirabilia fæpè protrahere à racione inconucniens elle a non debet:multa enim iis funt, quæ ad i mirandaiudicantur:quemadmodum eft Viperam viſo Fago perterri:experimé. " to enim probatum eſt, illiusramo ante hocanimal iniecto, veluti attonitú fie si, nec ampliusmoueri Hoc etiá cuenic Gha. ti ſi barundine feuilsime percutitur: fin verò iterum eadem vipera incutitur confirmari videtur, et fugam repentè adire. Mulieres rard inebriari, acbrd autem ſenes, Ontrariam naturam ſenile corpus, Contd et muliebre fortita funt:ob id mulie. res rarò ab ebrietate corripi afpicimus, crebò tamen'ſencs. Mulier quidem hu mida eft, vtà cutis cenitate,& fplendo re.comperimus, fenex contra ſiccus, cucis afperitas&ſqualor confirmat. M11, lier ex aſsiduis purgationibus fuperfluú exonerat; ſenex autem ex corporis duri. tie,luperfluanonexcernit.Mulieriscor. pus, quia variis purgationibus crat de putatum, pluribus foraminibus fuit có fertum; non ſic ſenis corpus,propterea naturales meatus à corporis ſiccitate, et duricie potiùs obſerantur. Hæc funt în caula, vt ebrii fenes facilè fiant, muº lieres verò perquàm rard. Nam fià mu. liere largè vinumfuerit hauſtum, illud magnam mulieris humiditatem incidens,vtiq;vimluam perdit; dilutiulý; fit, et cerebriſedem non petit: nam per. varia foramina mulieris illius vapor re Currit, et celeriter eius fortitudo euanel cit.In ſenibus vinum contrarietatem no recipit: quia corpusillorum ficcum eſt; ob id vinum firmiter adhæret, cerebría que petit, quia in durioribus membris; et aridis(vt ita dică ) exhalatio nulla fit: hincab ebrietate facilècapiücur. Ex MA crobio 7.Saturn. Qua induſtria in vrgenti fomno, quis vac leat excitari. Agnus Alexander,vt ingerendo imperio, occupatior eſſet,magnú contra ſomnum excogitauit remedium, quoſi quis vtetur,facilèin ſomni graui tate excitari valebit. Ille Vas æneu pro pè lectum conſtituebat, et pilamæneam fiue argenteam manu compreſſam ha bebat,brachiumque ſuper vas illud ap tè componebat,vt pila in ſomno elapſa in æneum procideret, et à fonitu excita retur, et furgeret.Mira equidé fuit hu. ias ingenij dexteritas, licet hæc Alexandri dormitatio potius quàm fomnus dici poſsit.Ex Ammiano Marcellino. Quibusfignü corpora venenata cognoſci yaleant. L Icet venenorum genera multa fint, ex quo difficile fit omnia figna repe rire,quibus cognofci valeant,afferam ta men qua mcthodo corpora, quæ venenü fumpferint,intelligere poſsimus. Porrò magna fit in corpore commotio, dum quis venenum hauferit;præcipuè fiillud calidæ fuerit naturę:doloribus enim va lidis,atqueacutis in ſtomacho, et inte kinis torbonibus languens cruciabitur, præcordiorum fentiet anguſtiam, fati gabitur vomitu,& fuxu ventris, ſudor fuſcirabitur in fronte cum vultu frigi do: colorægri erit pallidus, pulſus de bilis, inzqualis, et inordinatus,fynco pi, &animi deliquiis affligetur. Hæchi omania, vel in maiori parte fuccedunt, o porter celerrimèinggris.vomitum pro uocare, vt aflumptum vencnum eiicia ur. Ex pal.Vilan. Luem Gallicam non modò homines,fed canes etiam inuidere. Tanta eft morbi Gallici quandoque immanitas, vt non modò ex vno lan guente,vel reſpiratione,tactu, autcom merci oplures homines ea lue polluan tur; verùm atque canes, ſi vicera, vel vnguenta infirini lingere potuerint.Ex I perientia hoc edocuit; viſus eft enim et quidam canis Gallica lue captus, quihe I riſui emplaſtra linxerat. Ex obformatore if Iulii Scaligeri. 6. Poet. Quotermi nocorporis hominispulchritudo conftitui debeat. Arii equidem funt Scriptores in conſtituendo termino longitudi nis, et latitudiniscorporis pulchri:ihter quos, ſententia loannis Goropii, in fua Gigantomachia, magis acceptanda vide tur à fapientibus:colligit exHomeride Creto longitudinem hominis pulchri de bere eſſe quatuor cubitorum, latitudi nem verò vnius cubiti. Cymrinum bominibus palliditatem corporis inducere. More Multa profectd ſunt, quæ vultus colorem hominum deflorare ob ſeruantur: fiquidem panis hordeacęi v fus facit homines pallidos.Ex Ariftot. A quælutulentæ potus, vſus ſalitorum, et immoderata Venus valde colorem de. turbant: inter ea tamen, quæ ex proprie. tate decolerare putantur, Cyminivſus, &olfactus eſt. Duo enim de hoc exem pla habentur apud Plin.lib.20.C.24.V. num fe &tatorum Portij latronis, qui, ve illius imitarenturpallorem,cymino fre quenter vtebátur:alterum eſt Iulij Vine dicis,qui, vt Neronen falleret,palloré Sibicymino conciliabat. Ex Mercurialide Decorat. Regem Archelaum maximè Aſtronomie fi iffe imperitum. T minibusneceffariaiudicatur,vt malè ciuitates, refpublicas;hominumo; cætus fine illorumobſeruatione ij con leruare valeant.Vtique horum ope té pora,annos, menſes, et horas metimur, &ſine his in, varia labyrintha inuolui mus mur.Hoc apertè ille imperitus Aſtrono miæ Rex Archelaus oftendit,qui (vt vi ri ſummæ fidei fcriptú reliquerunt) ob Solis Eclipfim,cuius caulam ignorabat, * tantotimore correptus eft,vt regiam is clauferit,filium totonderit, iudicia è fo ro fuftulerit, et iuriſdi& ionem penitts en intermiſerit: vltimum enim orbis diem. eſſe arbitrabatur.Ex Magino. Mira grecilitatis quofdam bomines fuilfe repertos. X Aeliano,& Athençoquofdam ho mines extremæ gracilitatis fuiſſe * colligimus:legitur enim quendá Arche ftratum vatem fuiſſe, qui captus ab ho ftibus tantæ gracilitatis repertus eſt, vt cùmlanci apponeretur, pondus vnius obolihabuiſſet,quod incredibile,& ferè ridiculum exiftimatur.Philetas Couse. tiaminuentuseft, quem ex gracilitate E vſque adeò inualidum fuiffe fcribunt, vt ne à vento deijceretur, pondera ferrea pedibus, et foleis geftare coge { retur, Anguit. Emine Anguillas cumAquilone mirambabere fyme putbiam. Trabilis profe et ò conſenſus eſt, quem Anguillæ cum Aquiloni.. bus habent: ipfis enim ſpirantibus fex. dies fine cibo, et aqua has viuere fertur; cum Auftrisautem diſſentiunt, quippe his flátibus diu ſine cibo, et aqua illæ vi.. uere non poflunt. Ex Bodino in Theat. Aſparagorum vſum corporis facere pitorem. Nter ea,quæ nitorem; &pulchritudia nem tur, Aſparagorum vfusconnumeratur, cuius efficacia à multis in corpore colo.. rando ferè mirabilis iudicatur. Aſpara.. gi fætentem reddunt arinam, et perilla pratos corporis expurganthumores:eb: id mirum non eft,fi,ijs euacuatis,corpus reliquum non modò odoratum redda tur, ſed etiam nitidum, et coloratum: quippeex humorum prauorum conge. rie, et palliditas, et defloreſcentia nobis jonaſcitur, quibus ceflantibus, ceſat de. formitas, et colornitidus exoritur. Ex Auicenna. Picem cum oleo; maximam babere colli gantiam. E X congeneri ferènatura Picem, Rea ſinam, et hujuſmodi, magnam cum oleo affinitatem retinereobferuamus:fi manus enim pice, vel refina fædantur vtique eas oleum extergit,idque ob col": Tigantiam oritur. Oleum furfur tollit, furfur aqua eluit; aquam demumlintco: ficcamus.Ex Cardino Mularumgenuse propriapecieminime propag ari: MVlasequidem,& monftraconfimis lia,nec parere,nechium genus prou pagare obferuamus:id fieri aiuntmulti;. ab improportionato generandi tempe ramento: veriùs tamen cum Bodino in Theau.Natur: hot contingere exiftimo, une fpecierú fit infinitas: natura enim in finitatem abhorret. Ariſtoteles in Syria fupra Phænicesmulas parere ſcriplīt; et Theophraſtus in Cappadocia illas genus 3, propagare voluit:tamen hoc veriſimile haud eſt. Propterea magis credendum reor, in illis locis Aſinarum quoddams: genus oriri mulabus conſimile, potiùs, quàm mulas, quarum partus à noftris. prodigiofus, et funeftus effe dicitur, vt Iulius Obſeq.inlib de prodig: adnotauit. Leones, Sole in Leone'peragrante,a'febribus, moleftari: Irabileeſt, quod in Leonumfpecie contingit,dum Sol Leonis cælefte fignum ingreditur:ijenim à febre tertia.. na in toto fyderis fpatio excruciantur:a deà quòd fateri oportet, talium genus cum hoc fydere antipathiam habere et tertianam recipere'; proinde Leoninaà multis hæcfeprisapperiatur,bene iudi. cantibus, Leonemeſſe peculiarem. Leo. nes hoc temporetertio quoque die paſo cuntur,neciemel etiam accidit, vt bidu um,veltriduum inediam ſufferāt, Ster custunc ficciſsimum, et vrinam fatente excernunt,vt Ariſtotelesadnotatum re liquit.Aiuntmulti, hocà natura forſitan eſſe factum,vt ferociſsimæ beſtiæ quo quo pacto cohiberetur impetus, et à fre quentiori rapina coerceretur. Quo artificio in fenibus barbas, albofque cam pillosdenigrare pale amus. Eferam notabilem miſturam qua, ' R Jeant.Sumito lixiuij communis quantú volueris, decoque in eo faluiæ, et lauri folia cum corticibusiuglandium viri. dium; mox laua, aut ablue madefa &ta fpongia:ita enimnigredinem compara bis, quæ diu durabit, &lætaberis effectu. Ex Porta: Mergum,& Anferem aquaticum in Hydrsa phobiam plurimum valere Ntercuncta animalia adnotauit Arie ftoteles Anſerem aquaticum folùm non rabire, ob id à multis huius efum in Hydrophobia maximè celebrarur: mirifico autem experimento contra ram. bidi canis morlus valere dicitur Mergus qui in aquis et maridegit, quippe ab Ace. tio,eius eſu Hydrophobosillicoaquam efflagitare narratur. Lacertasmira magnitudinisapud Indos iz... Meniria NInfula Sancti Thomę, quçdam La IN Ls certæ ſpécies miræ reperitur magnitu dinis,quæ admodum illius gentibus fa miliaris, eft.In Ioſula etiam Capraria,, quæ vna èFortunatis eft, ingentis ma gnitudinis hæc animalia cerpūrur;habis tatores autépro ijs interficiendis, bom. bardis,fiue ſolopetis,alijfque bellicis in. ftrumentis vtuntur. Ex Amate Luſsin Dia. ofcer. In educandis iuuenibus, miran fulle aibe: niexfium induftriam. Moser Oserat Athenientum in iuvenum educatione, vtij cothurnicibus, fio uc qualeis, aut gallis pugnantibus ftudi. an impendcrent:Solent enim hiermo. di volucres,vfquead extremam virium defeâionem certare. Qulo exemplo ad ſubeundapericula; et vulnera contem merida, ifamınabant iuuencs increpan tès au:bus minus ingenioſos effe homi. nes, non debere.Exsotino apud Lucianum Serpentum eumapudl kudosfrequentari.. NCuba Inſula penes Indos,ferpentes loua totius corporis ipecie, ac forma prediti inueniuntur,quippe ſelquipedis IM I plerumque longitudine exiftunt,& ex terra, et aqua viuunt:Quod autem apud illas rationes mirabilius videtur inlay tioribusmenfis, horum animalium e fum,tanquam ibum ſapidiſsimum free quentari.Fx Petro Bembo. Quomifico,Po ticaput; inmiram intumeſcentiam redderevaleamus. NterAgriculturæ arcana, non infimi momenti methodus eſt, quaporri cam put in tumorem magnum reddere poro Gimus.Aperiam abftrufum artificium:Si enim porri caput,arundine, vel ligneo ſtylo pupugeris,atq; raporum,vel cucu- merum fomen vti foramine occultaueris proculdubio propria capeo in tan tamtumorem deuenire, vtid prodigio- fum iudicetur, Ex Mizaldo. Iwer Fraxinum, &Serpentes miram adeffe Antipathiami Raxini fuccus ad ferpentum morfuss mirabili fuccelu à medicis vſurpa nec fine ratione: hanc enim plans tam Serpentes, ex occulta antipathia ji miro odio infequuntur: fiquidem illius L6 yobras OX tur, vmbras tùm matutinas,tùm veſpertinas euitant,& lógiusaufugiunt. Retulit Pli nius lib. 16.cap. 13.ex fraxino experi. mentum quòd figyrum frondibus fra xini,& igne apparatur, in cuius medio ſerpens lit proiectus,procul dubio ferá in ignempotius, quàm in fraxinu aufu gere:tantusefthorum diffenfus, &co. culta ſerpentum inimicitia., Virginitatem in mulieribus, qua viaexperizi: paleamus. L Apathiū maius in aperienda mulica rum virginitate aftantibus magnam retinet efficaciam: ſi enim ex huius folijs faraturfuffumigium,fiue hęc fuper ig. nitos carbones inijciuntur,vteffument, vbi mulierum fit corona, cum odor ad pudenda mulieris perueniet, illius bon. nitatem,vel malitiam oftendet: quippe fi viro copulata fuerit,abfque dubio v rinabit, fim verò fuerit virgo,vrina po tiùs conftringitur, quam emictatur.Ide etiam faccre autumant,lignum Agallo chum, fiue Xiloaloem, vel femen portu-, acæ fi fuper carbonesiniecta,adeò effument, vt ad pudenda mulieris odor va leat penetrare: mouetur enim in deflo ratis vrina quantò citiùs, fecùs verò in virginibus.Ex.Perta. Quomodo ex duabus aquis claris, lac effings re illud valeamus.quod Virginale Pocatur. Ac illud,quodà pleriſque ob colo Cris ſimilitudinem,liue ex nouo ori gine, Virginale appellatur, ex duabus, aquis artificiosè corifedis exoritur ad multa equidem corporis mala yti. Lifsimum.. Eius modus talis eft. Su mito lithargyrij in puluerem redacti Vnc.ija acetialbivnc.si.commiſta infi-, mul per filtram lineum deſtillato, et a quam clară habebis.Vtautem alteram componas, fumito Salis gemmæ Vnc.), Aquæ cómunis, fiuepluuialis claræ Vnc. Mimiketo fimul, et fic bimas habebisa quas magni valoris. Cùm verò vel ad oftentationem, vel curioſitaré fiue ne. celsitatem lac Virginale conficere opta bis,aquas vtrafque coniungesfimul mil cendogita profectò confeftim laquor la L7 Ereus  M deus ſuſcitabitur, qui Virgineusvoca. tur.Verrucæ in manibus fi hoc lacte per dies aliquot beneconfricantur, euanef cunt. Impetigines,omneſq; faciei macu. læ,rubores, et ex foleardores, hoclini. mento facillimè curantur. Caftrates lienem,velonorum vitellós durios? res deglutire non poffe. Irabilc elt i: lud,quod in caftratis, circa cibum obferuatur: hi enim nec lienem,nec duriores ouorum vitels losdeglutirepoffunt, vt frequentiſsima apud multosinoleuirexperientia.Retulit Bodinus in ſuoTbea.tales priùs fame fe necari pati, quàin lienem vorare por fe.Huius reialia non creditur effe ratio, quã xſophagiiſtorú ex nimia adipecoão | guftatio, et cóftri& io; cũ auté lienis fub-. Itātia spõgiofa &flatuoſa fit,atq; in mã. ducationemagis infletur;facile fit, vtiji i ex ælophagi anguftia talem cibum deo to glutire nequeant. Eadem ratio eftino uerum vitellisdurioribus', qui ex ſuba Itantia glutinoſa,per anguftum non facie la tranſeunt. Spatium humanæ vita, centum annorum fom cundum degyptios compenſariin. teruallo. in. * " Vriofa magis, quàm veritari confo näns mihi videtur Aegyptiorum aliquotopinio,dehominum vitęmenfu, ra:quippe illorú multi, qui medcata cadauera feruart conſueuerant, ex quada conic et ura à cordis humani ponderede fumpta in eam deuenerefententiam, ho. minisviram centum annorum fpatio de Gniri.Sumebant experimentum in cora poribus, quæ fine labemoriebantur; ho rumenim anniculi duarum drachmarú. pondtrisgcorretinere videbantur, bini quatuor;& fic in iingulis annis, quo in anno quinquagelimo bomines centum. drachmiscor in pondere retinere affiras mabant:à quinquagefimo binas: dracha mas fingulisannis decreſcere, atque à cordis pondere detrahi, minuijè dicea. bant, &fic in anno centefimo ad primum, fui ponderis: fecundum iftorum conie... awan,corredibat.Ex Teicntio / arrone.  Claro Pblibotomiam ex vena ſaluatella, pleneticis: plurimumprodeffe. "VrabatGalenus ſpleneticum qué dam;& cumdiù (vtipfe narrat)de illius cura eſſet ſollicitus,atque diligen. ter remedia quæreret quadam nođeſó niauit,fe in infirmo de vena faluatella, quæ eft interminimú,& annularem ma nus digitos ſäguinétrahere; quod fecit, et fanatus illeeſt. Hoc diuinæ bonitati tribuendúexiſtimo, quæ multoties, ho mines per bonosfpiritus dirigit, vt ca perficiant, quæ in corpornm valetudine concernuntur.Ex Bartbol.Sibylla. Gymnoſophiftas apud indosmire,viſus, &in genij dexteritatis inueniri. MIIrabile profectò illud eft; quod de -Gymnoſophiſtis quibusdam apud Indos narratur. Hienim ab exortu, vf quead Solis occaſū; oculis contentiscan. didiſsimi fyderis orbē intuentur,inglo bo igneo rimantes fecreta quædam,a renilgue feruentibus perpetem diem al ternis pedibusinfiftunt.Ex Solino. Quibus auxilysforumarum materia,per pri nis paleasensachari. Bseruatum eft huiufmodi præfi O sibus euaneſcere.Adhibentur primò in firmis aliquot clyfteria, ex fucco bryo niæ, et mercurialis,oleo, et fale concin nata, quibus patiens tum gelu, tum ma. terias.viſcidas copiosè purgari videbi. tur:mox cum oleo amygdalaru dulciū, vel mali aurantij coleis, manè dilucu.. lo, cantharidum præparatarum grana quinque,velſex iuxta corporis naturama. capiet.Cantharides autem per horas 24.. in aceto infundantur,deindeexiccentur, &in puluerem reddantur.Hic enim ea. rumpræparationis modus eſt. Huiul modiauxilijsftrumarummaterias, vri pas euacuari compertum eft., Obferua uit hocDo et orPhyficusJoannes Domi. nicus Donnus,cuitis familiaritas,animi queindoleseſt mihiſemper gratiſsima, mihique tale remedium communicauit; robuſtis tamen corporibus folú adhibe ducéleo: ex illius enim experiméto do lors BARCE- 1 II! lores ad inftar parturientis circa pe &tine tale præſidium commouereaudiui. Alijs etiam modis, et auxilijs (trupęcurătur, quippe fioleo,in quo rana terreſtris,tal pa vellacerto, (vulgò dicitur racano )fi ue lacerta magna vocata ebullierit, diú ftrumæ,purgato corpore, liniantur,abf que dubioexiccátur, et euaneſcunt.Het animalia viua prius in oleo fuffocantur, cùm ad carnium ab oſsibus ſeparationé ebulliunt, et oleum mirabile ad ftrumas componitur. Nonpulliad earum extir. pationem caufticis vtunturmedicamen tis, quorú potentia caro aperitur, et ftru mæetiacuantur.Componuntur hęc talia ex arſenici fublimati drach.j. lithargyrij aur. et aluminis roccean.drach.ij.fabari vftulatur:numero quinq; hæc in pulue. rem reda et a cum frumenti farina,aceto que acerrimo mifcentur, et fit malfa, è qua orbiculi, vel plancentulæ formantur et exiccantur in Sole, vel furno,admoué tur fuper ſtrumas, &fpatio horarum24. opus perficiunt, Alexandri Magni magnanimitas in pofteros: ftudiofas. MVlta ratione Alexander Macedo Magnusdi& us eft',cùm eius excel lentia non modò in litteris apparuerit.. Ille quidem, vt Ariftoteles de animali bus hiftoriasfcriberet,multa liberalitate in pofterum vtilitatem, octingenti auri talenta, cum tribus hominum millibus dedit, vt fyluas,aularia, et viuaria, omnis. generis diſquirerét, et opusab ipio per.. ficeretur.Illi autem per Europain,Afriw. - Cam, et Afiam peragrantes,multa anima: tium gencra ad Ariſtotelem attulerunt, quarum difle et ionibus, de vniuerfa fen? rè horum natura accuratiſsimè Philofon phus fcribere potuit.Ex loanne Bodeno. I WA Mulieres quafdam in oculis, equi effigiem, pel: geminaspupilas babere compertum eft. NO On rarò quædam mulicres magæ reperiuntur, quæ vt plurimum a-. niculæ funt, hominibus, animalibusý; vilu,nocentės. Solent hæ in fingulia, acut oculis, velgeminam habere pupillam, (vt HieronymusMengus de Arte Exe orciſt. adnotauit ) vel equi effigiem, quemadmodùm nonnullas Pontumin colentes habuiſſe legitur. Referuntex iftarum oculis quofdam emittiradios, qui non ſecus iacula et ſagitrę pro homi num cordibus faſcinandis exiftunt, ità profe et ò totü pernicioſa quadam qua litate corpus inficiūt,breuique velnullo temporis conſumpto interuallo,homie nes,bruta,ſegetes,arbores polluunt, et ad interitum tæpè deducunt. sanguinem caninum HydrophobosCupareba PotumAutumant Galenus N Serapio,& pleriq;fapiêtes,fangui nis canini potu, canisrabidimorſum ca. rari teftantur: quæautem fit ratio,apud hos non legitur. Referam tamen, quæ àMarſilio Ficino in lib. z. de Vit.produc. adducitur. Ego opinor (inquit) ſali ziam canis rabidi venenoſam, impreſ fam hominis pedilæſo,per venas paula tim ad corafcendere more veneni, nifi quid in tereadiſtrahat.Si igitur interim canis alterius fanguinem ille biberit,fan guis illecrudus ad multashoras natat in ftomacho, eum denique velutperegrie - num deie et uro per alium. Interea cani. pus languis ifte,faliuam caniná fuperio ra membra prenſantem, priufquam ad præcordia veniat, deriuat ad ftomachű: ná &in canino ſanguine virtus eft ad faa liuamcanis attrahendam, et in ſaliuavia ciſsim viftus ad fimilem fanguinem proſequendum. Venenum igitur à cor defemotum, fanguiniqueimbibitum, in aluo natanti, vnà cum ſanguine per inferiora deducitur, hominemque ita relinquit incolumen. Corallinam, ad puerorum vermes necandos maximè laudari. COMOrallinæ, quam plerique muſcum marinum appellant, in puerorum ť vermibusnccandis,miraeft virtus, et cf. ficacia.Hanccirculatores in plateis vene dere folent,talegue remedium ad lum bricorum internecionem, fummis lau. dibus extollunt. Profectò à veritate in hoc negotio haud abſuot:hoc enim cão teris medicamentis, in rehacaccommo datis,excellétius eft:experimento fiqui. dem comprobatum eft non modòlum. bricos interficeretale præfidium; verùm atque eadem die, cùin aſtantium admi ratione, oxpellere, vtiure dixit Mat thiolus, quòd quandoque viſus fit puer, quiex aſſumpra huiuspulueris drachma, a centum vermes excreuerit. Qua induſtria, labioram,meruum, capia tamgmamilarum citifsimèfifuras fanate vale anus. Periam ele &tiſsimum præfidium, A tumque mamillarum fiffuris feliciſsimo fucceflu fere millies vfus fum. Sumiro lithargyrii argent, myrrhæ, zinziberis an,vncj.redigantur omnia in puluerem fubtilif. et ex cera recenti, melle,& oleo oliuarum ad fuffic. fiat vnguentú. Vfus talis eft: primò liniantur fifluræ ex hu mana ſaliua, mox defuper in tela exten fum applicetur vnguentum,ita cquidem paucis diebus fanantur, Rhabarbarum cidoniatan, y terogerensabs que periculoalue exonerare. IN graudis mulier bus, cùm grandi inorbo affliguntur, magna cautela ſo lent medici medicamenta cuacuantiae ligere: vel enimhaud porrigunt,ne con Ceptum diſperdant, et matrem occidant; velmitiſsima, et benigniſsima excogi tant, et propinant. Multi Rhabarbarum ob eius caliditatem, et amarulentiă recu fát: ſed perperá quidé, quádo illud cido nio Correptú, inter ele& ifsima &benig piſsima connumerari debeat, Rcferam i qua induftria à Ludouico Mercato,viro celeberrimo,prçparetur.Sumanturcoto nea, ab interraneis repurgata, tes diuifa, (ſed fuperftite pellicula, quæ valde eft odorata) in aquadonec tabuc rint ebulliant: mox per linteum colata, et exprefla, optimolaccaro coquantur, et dumid fit,adiicies ad lib.j. huius con diturz,vnc.j.Rhabarbari. Doſis cuius fit vnc.j.vel Aliud cidoniatum compo nitur, quod eftgratius, et abfq; moleftia efficacius euacuat. Diuidatur cidopium &fub God &in par 1 (264 et fublatis feminibuscủfolliculis, parti um ciuitates puluere optimi Rhabar, negligenter triti,ac Drach.j.velj.- aut ij.imp cátur, vel, ſi affectus poftulaueri agarici tantundem, vel foliorum ſene; mox vniantur cidonij partes, papyro que inuoluantur, et ligata in clibano,vel furnello coquantur ad perfe &tam co et i onem;poftremò abie &tis medicamentis internis, pulpa manducetur. Hoc pro fe et ò medicinæ genus fecurè cuacuat, et viſcera omnia corroborat. Animantium robur animi, à femine inge terari. Vanta fit feminis efficacia, in aoda. cia hominibus comparanda, nullo aliomedio ſecuriùs cognoſcitur, quàm caſtratorum natură compéfare.Hipro fextò ſtatim atque teftibus priuantur, animi robur amittunt, atque máſueſcár: fiquidem et à fpirituumcopia, et calore potiſsimùm naſcitur audacia, quæ in teſtium natura valde { pongiola ge. merantur, et ab ijs in corpus deferuntur.Ob id Galenus,in lib.1.de femine,le méSolicóparauit, quod ſuo fulgoreorbe illuſtrat;iuxta cuius fulgorcs ſemē,& ipi rituú,& caloris potentia, ferè corpusil luſtrare admonemur.Hinc Aegyptijſa pientiſsimi,cum Regem fractum, hebe temq; repreſentare volebant,meritò Ti. phonem caſtratum pictabant benè ani maduertentes,nil poſle verius hominem infirmum oftendere,quàin hominem fie nc ſemine. Aegyptiorum aliquot ad Quartanam febrens ſecreta experimenta. х bris quartanas Aegyptis familiaria ſunt, hoc pro ſele &tiſsimo remedio ha bent,ægrotisdeco &tum ex menta para. tum ad femilibram,calidum cum (polio ſerpentis puluerizatibinisdrachmisan te accefsionem per horam propinare.A, lij cum decocto affati temporeacceſsio nisvomitum procurant cum felici fuo. ceffu.Sunt et nonnulli,quiante acceſsio nem pilularum drachmam exhibent. M He exagarici,gentianę,caftorei,mytrhe, rutæ an, drach.ij.piperis longi,calamia romatici,crocian. fcrup.iv.theriacæ an tiquæ drach. iij.conftant, et cum ſyrupo de granat. dulcib.conficiuntur. Aliis ve ſitatiùs eft,exhibere drach. agarici,cum myrrhæ ſcrupulo, diſſoluram in pulegi deco et o, Ex Alpino de Medic. Aegyp. Auesbacciarum taxi eſu nigro colore fieri. Axus inter plontas virulentiam ha bere maximam videtur: quienim fub iftius vmbra dormire audebit, in grauem affe et ionem incidet. In baccis autem venenum potiſsimum viget.nam à viris comeftæ,ventris profluuia, atque funefta pericula mouent: boues illarum vfu moriútur, quemadmodum &peco ra,ffortè has comederint, Aues verò iftarum eſu minimè moriuntur, penna rum autem color in nigrediné mutatus, Chelidonium Lapidem MIT APN epilepfiam baberepirtutcm. VIItrus Chelidonii lapidis à pleriſque maximè extollitur: prelentaneum enim Epilepticis réputatur remedium, adeò quòd non pauci iſtius vſu à tanta morbi forociate liberati funt. Feruntin. Autumni principio,Luna creſcente, hũc lapidem à ventre hirundinis extrahi, et contricum aliquo liquore epilepticis in potum propinari:quippe facultatem re tinere dicitur, tenacem, et vifcidum hu morem, qui caufa caducimorbi eſt exica candi. Multi,chelidonium non folùm elu, fed etiam ſola ſuſpenſione, Epilep ticos à proprietate ſanare contendunt, Ex Lomnio. Miram interafpides, et halic acabum inejſe Antipathiam. Irabilem natura inter alpides, et halicacabum, quemaiorem veſi cariam inuenit diſlenſum, et antipathi am:ijenim, fi iuxtà huiuſmodi plantæ radices quoquo pacto corpora admoue rint,tanta ſtupiditate, et fomnolétia cor Tipiontur, vt amplius nequeant excitari. Ariftotelem rerumcaufis maximum noſcena dis adhibuiffe ftudium M M 2 Erat Aristoteles adeò cauſarum re, Erum cognitionis ftudiofus,vedie cilè quiefceret, nifiad quæfitum exas ctum ſcrutinium deueniret: ob id cumà. graui valetudineopprimeretur,atq; me dicus citra morbicausa,pleraq; vetaret, fertur(teſtimonio Polybij ) sc.medico dixiſſe:Nemecures,vt bubulcú, et for forem; fed prius caufas ediſſere, et ita pre ceptistuis facilè memorigeratum habe bis.Cum autem in Chalcide exularet;ati que Euripi, qui inter Aulidem Bcotia portum,& Eubeam infulam ſuntaugu iti freti,feptiesinterdiu noctuq;alternis fluctibus ſtato tempore refluerent, ille maris recurſus excogitans,atque caulam reddere non valens, tanto mærore affe et us eft,vtmorti occumberet. Ex Iufting Martyr. Infates a nutricib mores,& téperiē recipere, nfantes profe et ò à nutričibus non foi lùm circa temperiem, fed etiam mo res multum recipere videntur.Ob id fat pienterà veteribus,Romulum à lupafu. idela &tatum, proditum eſt, velhocfinx I erring erint, vel vera narrauerint; fuit enimRo mulus ferinis moribus, callidus, fortif limus, et incommodipatientifsimus.At præter hunc,multosà feris enutriros, et educatos legimus; num autem hoc ijs, ex animi feritate fuerit tributum peſcio. Scribitur Cyrum à cane fuiſſe nutritum, TelephumHerculis,filiumà cerua,Pelia Neptuni filium abequa, Alexandrum Priamià vulpe,A egiſthum à capra,quo rum inores,apudScriptoresnoti ſunt,vt apertènofcamus, quid nutrices infanti bus afferant.Equidem quià capra lactá tur,ftulti fiunt, et fälaces;& ita hircuselt;. quare ex hac conie et ura tales euadere in.. fantes, quales fuerint& nutrices com perimus;fed mores virtute animi mode fari poffunt. Qdo artificio vitrum diuidere valeamus. Icet vitrú folum ab adamante, cùm plicabile haud fit, diuidiinueniatur, tamen alia induſtria etiam compertú eft illud poſle diuidi,vt Cardanusrecenſuit Hic eft modus: Filum fulphure, et oleo irabue, L M3 370 imbue,locum circunda,accende, repete, donec locus optimècalefcat;mox confe ftim alio filo, aqua frigida madefa&to circundato, et vitro in eo loco fractum, &diuiſum habebis.Ego quidéalio artie ficio, et fecuriori vitrum, diuido,caſug; hoc mihi notuit. Habebat quadam die cyathum vitri vino ſublimato,fiue aqua vitæfemiplenum, ad curiofitatem non nullorum amicorum,a quamin flammá, accenfa candela,reddidi, vt vinum fub. limatum accendi folet, confuiripta all tem flamma, cyathusin medio diuifus eſt,atque co potiſsimùm loco, quema qua fupernatans attingebat.Ita ex curio. loexperimento, vitruin diuidere apud alios amicosnon lemel valuir Gallinaceum ftercusà fungorum virulentia bomines tueri. ' Vngorummalitia,ex multorum ex.. perimento, pleroſquevita priuauit quia autem homines ab illorum elu ob luxus abſtinere nequeunt,referam quid àGaleno,tanquam arcanum,pro iſtorú. Fe virulentia extirpanda,leu ſuperanda ada notetur.Erat in Myſia medicus quiho mines penè ſuffocatos ab elu fungorum ad vitam ducebat, remedioa; tanquam arcano quodam vtebatur: huncprecibus exorauit, vt tantum auxilium aperireta Stercus gallinaceum ille adduxit, quo contrito ad- læuorem vtebatur, et cum: oxycrato,autoxymelite propinabat in firmis, qui celeriter omnesadiutiſunt. Hoc vſus fuitmox in quibuſdam Vr- r banis Galenus, et verum inuenit: nain: qui præfocabantur, paulò poftvome bant pituitofum humoré omninò cral hiſsimum, et exindeplanè liberati funt. Infuper Myſius ille vtebatur huiuſmodi præſidio in diutinoColi dolorecú oxyo melite,propinato vino, velaqua, cum felicifsimo fucceffu lob id Galenus ex Bolilongo dolore fpafmo correptos,ta li remedio quoſdam perſanauit: nam et hoc colicum doloremaufert, qui caufa ſpaſmi eſt.Ex Gal.16.simplic.cap.io. Varia deliramenta di vini potentißimipotua.r exoriri. M 41 Multa Vlta equidem deliria in ijs,quia vino potentiſsimo inebriantur, fecundùm humorum in corpore prædo-. minium ſuſcitari ſolent:quippe iltorum nonnulliin riſum maximum mouentur, aliqui plorant,pleriq; vociferantur, alij. profund ſsimo lomno quiefcunt.Refert Alphinus,in lib.de medic, degypt. muliere quandam à vini potu largiori ebriam, primònimis euafifle hilarem,atq; in ho.. mines la ciuiffe, quoscomplectebatur, et ofculis tenebat;moxèrifu, et cantu, ad ram, et furias deueniffe ex quibus fami.. liares eam pertimentes, præcauebant;de. inumin mæftitiam,vtdefun &tos lamě. tabili voce deploraret;poftremò à fom. no oppreflam,omnem ebrietatem digef fiffe.Caufa omnium eft, quia vinum pri mòcalefacit,fecundò adurit,tertiò refri gerat; ſi potésfuerit, et immodeſte poti. Ego profe et ò quendam cognoui, qui a pud Marchionem primum Sancti Marci dominum meum erat in culina,vt lances vaſaque culinaria in dies-collueret; vo cabant Iulium Colauentre. Hic epoto vino grandi, quodBeneuento pro domi 13 ni menſa forebatur in tam immanemde uenit ebrietaté, vt Dæmoniacus appare ret,os,manufq; extorquebat,in fe ipfum fæuicbat, ia &tabatq; membra, et infinita agebat deliramenta. Aulæ Sacerdos fa cris libris accingebatur ad exorcizandú hominem: quando vocatus, ebrium illi effe faffus fum,meoqueiuſſu ferula,mo Te puerorum, circa nates,flagelliſá; con tačius, breui ebrietatem dereliquit. Syrium inter fydera.calidißime exiſtere matuth., Riente Syrio tantum aëris concipi.. præ ardore langueſcant;canes in rabiem trahuntur;furiunt viperx, et ferpétes; ftuant mariajaer occultam nocendi qua. fitatem recipit;ſemina, ia era ſub tali ſy dere,minimènafcuntur: talis profectò eft Syrij natura. Exlib.2.de Hydr.natur. Viterum in nuptis mulieribus varios fuiffe mores, o confuetudines.. 3 MS Non  N.DE dumprima On vna equidem apud Veteresin. nuptis fæminis erat confuetudo: quippe conſueuerát homines in finuPer. fico, littoreg;Orientali, Virgines nobi. les nubiles haud deflorare, nifi brachijs, margaritarıım ļineis ornatæ incederent:: ab id illæ in magņo.erantprecio.Deſije. a nuncmosille, et margaritæ vilius illice. muntur.E « Garzi4 ab Horto. Catullus, in nuptijs Pelei, Tetbidw, aliam natat con ſuetudinem, Virgo nupta, noctecun marito erat concubituva, ita tra et abatur:ante coitum eiuscollinen.. fura filo circumdato meníurabatur,mae nèhocrepetebant, quòd fi latius, quam vt filo comprehenderent, collum inueni ebant, defloratam ça nocte cenfebant:ſin: Vitò dibilomaius,integram, aut antea. fuille deuịrginatam habebant. Aļijalias. habuere confuetudines. Pupauetagrefte mirabiliter Pleuriticum mere bum fanare, Efeet Galenuspapaueradolores miti gare, atq; interanodyna reponiina multis locis referat;tamen agrelte,pleu, ritidem,in lib deremed paras.facil.confel, - fus eſt perſanare. Aperiam quodà mo nacho empirico mirabili fucceflu in hoc morbo fa et um vidi.Hic folia et ſemina agreſtis papaueris,in vmbra exiccata,ſe cum continuo deferebat:cum autê quis laterali morbo infeftabatur, eius confr lio ſanguinem à brachio ſecundum ca 1 nones extrahi curabat,mox deco&ú fo liorum in brodio pulli collatum, cum drach.j.velj- iplius papaueris ſeminis capillamentorum, quæ poft colaturam addebãtur,capiebat tepidè, et ieiunio * ſtomacho. In loco doloris hæc Epithe. cata adhibebantur.Parabantur ex pul yere roris marini, et ſalis,farina, et aqua" tres placentulæ,quæ ſuper calido latere in firmam ſubſtantiam ducebantur: hiss locus,epithematis inſtar,fouebatur, et breui tim dolor euanefcebat, tum etiá: apoftema rupebatur, et infirmus ad fa. lutem magna admiratione priftinam rew. dibát, Corni plantam, Singuinarie,vel SörbiHydrom phobiam curatam fufcitare. 1.1 ter 276 Je Nterrerum admiranda, connumera tur aliquot plantarum energia, quæ ſopitam, atque curatam in hominibus Hydrophobiam ſuſcitare, et renouare couſueuere. Pluries etenim obferuatum reperio à Canerabidocommorfos, fi plă tam corni, yel fanguinariæ tetigerintan. te annum exa et um, velfub forbo dor mierint, ineuitabiliter in rabiem incide. Tę. Salius in lib.de affe&. part, virus hoc potius à toto ſubſtantia, quàmàtempe ramenti ratione ſufçitari prodidit; nec enim à taląu, necab vmbra intemperi es introducipoteſt. Itaquemirabileelt, ab iis lopitam rabiem renouari, quod. fieri non poſſet, niſicum rabidalue, ha plantæ aliquam haberent antipathiamy cuius alia potior haud adduci poterit ratio, quam tetigimus, quod huiufmodi a proprietate hocperficiant. Qua induſtria penenum illumptum deſcen.. diffe ad gibbum Hepatis pèlinteftina. rognoſcere valeamus... iquopropinato,nullamajor me dicis, difficultas exoritur, quam veneni refidentiam reperire, vtritè ca adhibe antur pręfidia, quæ talia oppugnare re perta ſunt. Si enim venenum fuerit in ſtomacho,vomitum proderit excitare; fecus autem,li tranſiuerit hepatis regio nes,Hiceft modus. Ponaturoui vitellus cumalbugine, cum infirmi lotioin ma tula;fiinfra paucashorasnigrefcit, et fee tet, venenum adiecoris gibbú peruenit; Tip verò rugetur,çitrinefcat, et non fæte at, inteſtina haudtranfiuit. Hinc indica tionem corradimus, veneno ad inteſtina Traiecto,non conferre vomitum prouo care, ExBAYTO. Plantas peduconfimiles;congeneres retine YENİKHI€s. MVltis experimentiscomprobatum Teperio,plátas,fruticelý; ligna, quę quadã aſpectus ſimilitudine cóueniunt, congeneres retinere vires.Sic multi mea dicorum peritiſsimi locolingniGuaiaci, Buxo vtuntur;loco falſę parillæ,ſmilace it aſpera, loco ſaſſafras, žylucftrifoeniculo; pro polypodio, filicecligunt; protipfa M 7 na  nyhor leum pro myrto,liguitrů; pro ea buio,fambucum;pro china radicem no ftræ arundinis;pro Rhabarbaro, hippo lapathú.Hçcn.facie corporeg; aſsimilá. túr,proindecöſimiles vires habere exia ftimatur. Exlib.noftro de Hydran. Natur. Inter Arundinem. Fräcem,may nam inefſe extipathiam. Aturali quodam odio inter ſe Fi lix, &Afando diſsidere videntur: moritur enim filix, quæ ab arundinem: plantis circundatur; et arundo quæ à fio licum virgultis: quo dudi experimen to agricolæ, arundinis folia in colendis agris, vomeribus alligant, perſuaſi ab iſtorūdiſſenlu, ſilices ab agris extrudere, &,vt audio votum in dies conſequütur. Apri dentem ad Cynanchen, Pleuritiden mirabiliter valere. Agna eft efficacia dentis Apriin NA ! uis eius oleo linino excipitur, ac locus affe &tus tangatur cum pennę' extremitaa: tę,cx Arnaldo, et Auicenna habetur,bảo morbum præfeptiſsimè curari.In curan da pleuritidenon minor eft virtus eius. propterea folent practicantes admiſcere tum fyrupis,tum electuarijs huiufinodi dentis puluerem,benèpoſcentes ab oc ! culta,&aperta proprietate talem pulue rem prodeſſe: quippè extenuādi, et exic, candi vim habet. De hocdente mirum. feribitur;occiſo enim Apro recentar,ip fius détes adeo feruere referüt, yt capil losadmotos nonnunquam comburant. Id accidit., quia Apricalór magous eſt; dumý; occiditur, ira et exercitatione fer uefcit; proinde dentespropter denſam ſubſtantiam, magnamrecipiunrcalidita tem,cuius indicium ipmaeſt. Aparagos ju arundineros fatosmirabiliter ex. crefcere. FAximuseft inter arundines, et af par gos naturalis cófenſus;idcir... Iragos, et pulchriores, et core pore?s atq; ſapidiores habere op tabit,ue, arundinetis leminare procu rabitquippe ex naturali ſympathia mi rum in modum excreſcere, et germinare, animaduertet. Meani co qui MVltis profe& ò notiſsima eft, an Viero gerentes eſu cotoneorum induftrios; acuri ingenij parere filios.. Mirab Trabile eft illud, quodà multis de cotoncorum proprietate affirmari audio: ſi enim.grauidæ mulieres,quàm læpius cotones-comedere folitæ fuerint, filios et induſtrios, et maximaingenij pårere dicuntur:fiquidem cotoneis mia ram hanc facultatem ineffe credunt. A. liud autem mirum in ijsreperiri apud Mizaldum legi,grauidas mulieres háud parere, velfalte difficulter fætum ede re,ſi in cubiculo, quotempore partus fuerint,cotosca feruauerint: credo ex eorum conftringentiodore, velocculta. rationeid euenire. Heder am cum vinomiram habere diſcordiam. tipathia, quæ inter hederam, et vinuinànatura infita eft; fi enim ex hc deræ trunco cratera componitur, in qua vinum dilutumfuerit impofitum,pro cul dubio vinum confeftim effluesfun detur aqua verò intus retinebitur,adeò vini impatiens hedera exiſtimatur.Hoc ducti experimento nonnulli in vinise mendis hederæ poculis vtuntur: ita e quidem num purum, vel dilutum vi num exiftat;examinani, et cognoſcunt, Volatilium piſciumg;fecunditatis,Ginteria. Tuprafagia. Oletin quibuſdam annis animanti bus quædam peculiaris peſtis graſſa ri;hinc fit,ve (liannus valde pluuioſus extiterit(auium, volatilium, bombycú ſericeorum,araneorum,erucarum,inte.. ritum videamus;piſcium verò ftirpiúq;: fertilitatem, et valetudinem.Annus ay. tem ficcusvolatilibus (apibus excepris) falutaris iudicatur;piſcibus verò perni... ciofius:ficut enim in angulto aere, obim. pediram reſpirationein,fuffocamur, vi. uereque nequimus;ita piſces in anguſtis aquis concluſi diu vicam agere mini mè poſſunt. Gallinarum adipem(accharo obuolutam,vor modò a corruptela preferuari;verùm atque oleum redderepretiofis fimun. Mira Mina Ira equidem eft facchari virtus, in conferuandis àcorruptela adi pibus. Cum quadam hyemePrudenria filiamea gallinarum adipes collegiſſeter acfaccharo albo benè conuolutasin va ſculorepofuiflet,æftate ſubſequenti, il lud oleo femiplenum reperit, adeòpel lucido, vtcumad medeferret excellen tius haud inueniri poffe iudicaui. Hoc licet illa pro exornandis capillisvtere tur, tamen pro mitigandis corporis do loribus,pro carnis (cabritie tollenda, ae liifque infirmitatibus vtiliſsimum effe į cenfeo:Quod autem mirabiliusiudicaui: adipes illas:poft multos annos conſerua.. tas, eodem colore,atqueodore, quo re-: centesin vafculo fuerunt claufæ anim aducrti. A quodam Chirurgo amicoet ia nintellexi, humanam adipem faccha. ro conuolutam;per longifsima tempo ra à carie, et rancido præferuari: quodiſi. ita eſt, credo in omnibusanimantiumde. dipibus id euenire.Qrare Magpatú cor pora condienda melius faccharo imple. ta, quàm aromatibus pofle conſeruari crederem;eò magis, quia hoc præſidio, corpora in propriocolore, vi deadipe dixi perfifterent. Cucameres naturali odżo oleumabborreres - aquam verò appetere. INteſtina iudicatur diſcordia, quæ in, ter cucumeres, et oleum ineft: nam, et ijaquam,appetere.à lege naturæ viden. tur.Proinde virentes, atque è propriis. plancis pendentes, vafcula ff aqua plena ſübterhabuerint,adeò longius extrahús, tur, vtaquam inſequiex certitudine ex. iſtimentur; fin autem oleum fub his fue. rit eie et tum procul dubio in feipfos, ve Juti vncus, retrahuntur;fiquidem ij olei impatientes ex naturali antipathia co gnofcuntur.ExMatthiolo, Mandragoram pitibusapplántatam,vim il tis infundere ſoporiferam. T Antam habét Mandragora inducena, di ſoporem efficaciam, vteius pom vel comeſta, vel odorata,quandoque ca taphoram exuſçirent. Illud autem mi rabilc eft, vitibus Mandragoram com plantatam, propriam iis naturam infun-. dere, adeò quòd vinum ex huiuſmodi: confectum ſophrem bibentibusinduce reconſueuerit, vt Rhodiginus adnota-, uit. De Mandragora Iulius Frontinus hiſtoriam feripſit Strathagemwoz.Arn balà Carthaginenfibus cõrra Afrosmit. ſus fuerat, qui cùn ſciret gentem illam vini auidam eſſe,in quibuldam vini do liis, quæ in caſtris habebat, Mandragore copiam coniecit,indeleui comiſſo bello, ex induſtria celsit, fugamque ſimulauit. Barbari,occupatis caltris,auidèmedica. tum merũ cùmhaufiffent, in captapho ram lapſi ſunt, et ab Annibale trucidatia: Quando, Aegypti mortuorum corpora come dire foleant: E condiendis mortuorum corporibus, Aegyptiorum ex monumena tis multa, tum ab Hérodoto, tum à Cæ. Jio Rhodigino exempla afferuntur. Ae gyptii enimmortuoscondiunt, atq; do mi feruant: Ageſilai cadauer cera condi. tum fuit, yt et Perfæ facere folent; Alex andri corpus melle colitum eſt. Apud Iudæos exmyrrha, et aloe cadauera con diebantar,vé apud Ioanné Euangeliſtam cap. Iceportabile equindependenciaenels C. 19. legimus: quippeNicodemus myr rhæ, et alocs ad libras fermè centum mi. furam fecit pro corpore Ieſu Saluatoris noftri condiendo. Magorum eratmos, non humare fuorum corpora, nifià fer - ris ante laniata forent: Affyriorum Re gure fepulchra in paludibus condita fu ile tradunt. Mellis vſum, vita hominibus inducere diuturnitatem. Nenarrabili equidem potentia mel, corruptione cuſtodire valeret, à natura productúeft:propterea Plinius l.20.maximè huius virtutem ad miratur, ClaudioqueCæſari Hippocen taurum, exAegyptoin melleallatum, vt citra cariem eſlet, commendauit: nam et hoc corpora computraſcere non ſinit; fiquidem multi fenium longum mulſi tantum intinctu tolerauêre.Celebre eft mellis exemplum in Pollione, qui cen tefimum annů excefsit: hicenim ab Au. gufto interrogatus, qua ratione, &ani mi, et corporis vigorem, maximè cuſto difíet,hocreſpódiſſe fertur:Melle intus, foris oleo. Proditur etiam Corficæ in fulæ populos, ex aſsiduo mellis vfu, vi. tæ acquirere diuturnitatem, cuius rei li cet Diodorus non comprobet exemplu eò quòd mel Corficú peſsimum cente at, tamen non per hoc vſum mellis ad vi tæ produ et ionem improbauit. Gulinas ouaparere quolibet anni temporefi femina urtica, velcanabisin cibis habuerint. Scripſit Ariftoteles6.de Hiftor.animal. cap. 1, Gallinas toto anno oua parere, exceptis duobus menlibus brumalibus. Hoctamen tempore, quo à fætura deti ftunt, ferninis vrtica, et canabis auxilio faciliter gallinæ fæcundantur:fienim in cibis iſtorum ſemina Ticca comederit, procul dubio tota hyemis tempeſtate, non modò calidis temporibus oua pari ent. Hæc profectò earum corpora cale. faciunt, et ad fæcunditatem diſponunt. Curyepbylatam infantium maculas è corpo Olent tenella infantium corpora, dű vtero exiftunt materno, maculis 0 pore extricare. Solenereexiftuntmaterno, quibusdam, næuis, lituris, veruciſque, quæ à matris imaginatione fiunt, com maculari: hæcporrò quali ſigilla impri muntur, &difficulter poft ortum elui poſluņi. Pro iis delendis principatum habetCaryophyllata, cuius vis,& po tétia in huiuſmodi maculis extricandis, mirabilis iudicatur.Sumitur enim plan ta hæc cum ſuis radicibus in fine menfis Maij, quo tempore virtus vigorofror eſt atque à terreitate emundata, in alem bicco deftillatur, mox ex aqua ſtil lata infantium lituræ maculæque Tæpius lauantur, abſque dubio, eua. Deſcunt. Vrrica folia in lotio infirmi cuftodita, vitam, vel interitumpreſagire. Ira equidem, ex abdito naturæ eſcrutinio, in vica,morteq; infirmi praſagienda, vrticæ virtus,&potentia eft. Si enim recensplanta extirpatur, ac -24.horarum ſpatio ia ægri lotio aderua tur, vtiquefiviridis colore permanebit ex multorum experimentis,falutem, et vitam infirmiſignificare dicitur:fin auté haud A cantu haud viridis cuſtoditur,colorema; mura bit,mortem, velgrauepericulum deno tare, Ex Caftore Durante. Philomelam axem miro conſenſu à viperade. pafci. Vis Philomela cx cantu dulciſsi mo omnibus cognita eft; incogni tus autemeiusconfenſus eſt, quoà Vipe rà depaſci permittit:dum enim ſub ar bore,in quacantans auis fuerit, viperam viderit paulatim ex illa defcendit,&ad viperam accedit, vt illi fiteſca. Ex Thoma Tomai. Caftorem fià canibus inuaditur, minimè te fticulos fibi amputare. Linius,Solinus, et grauiſsimorú Scri ptorum multi,caftorem fibi teſticu. los amputare referunt, quoties venato tes ipfum canibus aggrediuntur quafi confcius exiſtat,quod(ijs reciſis ) à mof tis periculo ſit ereptus; fiquidem vena tores hæc infequuntur animalia, vt ex his accipiant,quodad medicinam vſur patur.' Rci autem veritate hi om. nes grauiter errant; quippe caftor, Ppioru testiculi iuxta ſpinam inclufi funt, vt multis ex anatome obferuatum. eſtiſte rum error ex velicis quibuſdam ortus eft, quæ in vtroque, maſculo et fæmina, loco teſticulorum pendent, flauo plenæ liquore ad medicinam vſurpatæ. Has vocant caſtereum aromatarii, teſticuii autem minimè lunt. Quo atsficio miliciæ Duces, vt hoftes offen danti gnemmiſsilem perniciofum -con ponere valeant. APeriam potentiſsimiigpis miſsilis, fiue artificiari compoſitionem,cuius potentia tanta eft, vt eiusminimaItilla non modò hominem viuum, verùmat que ferrum comburere valeat. Sumun turſandaracæ factitiæ lib. 1o. ſulphuris viui lib.4.oleiè rafa, fiue ex adipealbur ni ftillari lib. 2. ſalinitrifib.j. thuris lib.j.camphoræ vnc.6.vini ſublimati, fi ue aquævitæ optiinę vnc.14.Omniahọc lento igne bene mifceátur; deinde fupa obuoluta, atque accenſa in ollis, in ho ſtes inijciuntur. Ignishic, infernalis di citur,tum ex eo,quòd mirabilia agat; tū N atque ex Paracelfi impij ceſtimonio, qui retulit fc à quodam Dæmone fuille hunc ignem edocum. Demoſthmen lingua duritiem, quibuſdama Lapillis confregiffe. DEmetrius Phalereusalloquutus.com, quomodo fibi curaſſet linguæ impedi menta ſciſcitatus eft.Habebat enim ille linguam duram, et ſcabram, &proinde adoratoriam exercitationem impoten. tiſsimam ). Sanatam refpondit atque la. xatam fuiffe linguam raſpondit ex non nullis lapillisoreretentis, quibus loqui conabatur.Cuius Demofthenis præfidi í um difficilem habentibus loquutionem faluberrimum iudico, vtexpeditius fer mo citari valeat.Ex Plutarcho. Vinum quoddam àferpentibus venenatum, pleroſque àdifficillimis morbisconfanaffe. Trabilise{t hiltoria,quęáProlpe Milocro Alpino,lib.4.de Medic.Method. de vino à ſerpentibus venenato affertur In cella vinaria quidem ciuis Ferrariz inter alia,vinidolium habebat, quod (i ne operculo diù apertum extiterat: - et proinde compluresſerpentes,quos vul gus angues, et anzasappellant,ingreſsi in vinum ſuffocati, et putrefa& i fuerát. Multiægroti ex febribuschronicis; atq; difficillimis vexati morbis ignari,quod ſerpétes in eomortuielent, vinum à ci ue emebant illud, quod guſtui gratum iudicabant, et breui fanati ſunt. Alij ab huius viniſama ſuaui, cum paucos dies bibillent,itidem lanati funt, et poft hos alijitidem eodem modo fere innumeri. Quare vinidominus tantæ vini faculta tis admiratusvinum e dolio torum edu xit, et ferpétes complures ſemi putridos inuenit,qui ré manifeſtá planè fecerunt. Veteres equorum lacrymas inter auguria recepiſſe. Agnifaciebant veteres equorum Llachrymas, atq; ex ijs auguriun vaniſsimumrecipiebant.Propterea ante Cæfaris mortem ad Rubiconemcqui dedicati ab eo flebant,idquemagno au gurio excerptum eſt. Illorum autem N 2 inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar, mani feftiffima nobiseft:fiquidétépeftate no ftra fæpius equos collachrymātes afpici mus, necperinde ex ijs alicui ſiniſtri quid accidereobſeruamus. Vt ipſe non Semelexpertusfum, æftate potiſsimum equos lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum naturá efle,velmorbú iudicaui. Crocimerallorum compofitio. Fferam Quercetani, Croci metal. Jorumcompoſitionem, qui potens medicamentum tam vomitiuum, quàm purgatiuum fimul eſt, variisque affecti bus accommodatum. Præparatur cum zquis partibus MagnefiæSaturninæ, et Nitri inuicem mixtis, et inflammatis in quodã crucibulo vt vtar artis vocabulis, et remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis, quz puluerizata, rubicunda apparet inſtarcroci Martis, quæque dulcoranda eft: Doris -grana x. vel xij.cum vino,aut ațio liquore. Hominis compoſitionis mirabilia. Ntet mirabilia, quæin hominis com I pofitionecontingunt,illud quidem mirum eft,quòd tali corporis fit colla tusproportione,vt partes omnes pera. que toti cópofito correſpondeat. Licet auto in eius ftatuia nec certa nec deter, minatareperiatur mēſura;ex hominibo enim aliquibreues,aliquilongi ſunt;la pienus nihilominus perfectioré homi. nis ſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt, vel quod ſaltem feptem non trárcédar.Interproportiones voluit Vi truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere; eandemſ;penſurat. eſſed capitis vertice, ad pectorisinitisko Manus longitudo à cõiun &tione ad mee dijdigiti extremū corporisdecimapars: eft.Facies à capillorum radicibus ad ex® tremum barbę,eade eſt menſura.Maior pollicis coiú et io,oris eftaltitudo.Tota manustotius faciei menfura eft, Maior iudicisconiun &tio, frontiset altitudo, cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem iftius coniun et iones, nafi longitudinem oftendunt:Hominisproe funditas, ſi ſub brachiis, pe& ore, et hu merismeluratur,ftaturæ illiusmedietas: 3 reperi inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar,mani. feftiffimanobiseft:fiquide tépeftate no ftrafæpius equos collachrymātes afpici mus, necperindeex ijsalicui finiftri quidaccidere obſeruamus. Vt ipfe non femelexpertus fum, æftatepotiſsimum equos lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum natura efle, velmorbú iudicaui. Crocimet allorumscompofitio. Fferam Quercetani, Crocí metal. A medicamentum tam vomitiuum,quàm -purgatiuum fimul eſt, variisque affecti busaccommodatum. Præparatur cuin zquis partibus Magneſiæ Saturninz, et Nitri inuicem mixtis, et inflammatis in quodá crucibulo vt vtar artis vocabulis, et remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis,quz puluerizata, rubicundaapparetinftar croci Martis, quæque dulcoranda eſt: Dofis -grana x.. vel xij.cum vino,aut alio liquore. Hominis compofitionis mirabilia. I' poſitione contingunt, illud quidem mirum mirtim eft,quod tali corporis fit colla tus proportione,vt partes omnes pera quetoti copofito correfpondeat. Licet autē in eius ſtatura nec certa,nec deter, minata reperiatur mēſura;ex hominibe enim aliquibreues,aliquilongi ſunt; la pienas nihilominus perfectiorë homi nisſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt, vel quod faltem feptem non trárcédat.Inter proportiones voluitVi truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere;eandemg;menfurami eſea capitisvertice, ad gedorisinitiúko Manuslongitudo à cõiun et ionead mes dijdigiti extrema corporis decimapars: eft.Facies à capillorum radicibus ad ex tremum Barbę,eadé eſt menſura.Maior polliciscóiú et io,oris eftaltitudo.Tota manustotius facieimenfura eft, Maior Indicisconiun et io,frontisettaltitudo,a cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem iftius coniunctiones, naf longitudinem oftendunt:Hominisprop funditas, fifub brachiis,pe et ore, et hu merisméluratur, ftaturæ illiusmedietas. 3 rreperitur. Cæteræ partes cum aliistra. bentrationem,vtſuperius tetigimus. Apedumnaturam mirabilem effe. IN Neer terreftria animalia,Aſpidum ne, tura mirabilis iudicatur. Ex his enim mas et fæmina infimul vitam agunt, ta. tula; amoris affectus inter ambdsinge ritur, vtfi cafu illorum alter occiditur viuens occiforem infequi, quouſque fo dj,necem vlciſcatur,hauddeſinat.Quod autem mirabilius eft,ex Plinij, et Ifidori Teſtimonio, occulta proprietate occiío on noicit,(talem ifs natura indidit ) igi quemIrruit, licet in quantovis hominu agmine reperiatur. Præceptum ergoo. mnibus eflc velim,vtocciſo iſtorum ani malium quopiã,celeri fugaiter occiſor arripiat,ne à compare animali veneno fiſsimoinfeftetur, Leporesomneshaudeffe bermaphroditos,con traVeterum opinionem. Mneslepores vtriufq; lcxusexiſte re voluerunt Veteres, quod et M. Varro ctiam tradidit. Error tamen eſt, vt diuturna docuit experientia, quama feulos fculos à fæminis lexu eſſe diſcreros cognitum cft. Porrò tantorum inſcitia, abhoc, vt reor,ortaeft, quia in leporum genere lępius, quàm in aliis animantibus hermaphroditos reperimus: inde Hebrei naturæ arcana intimiùsſubodors tes, leporéfæminino vocabulo léper ex planarunt,ARNEBETH, eò quòd in iis foemineusſexuspræualet magis.Rej ve ritate noomncs hermaphroditiſunt,vt ex peritiſsimis venatoribus audiui; exic et ione multorum cognoui,ficut.com iam Bodinus edoctus fuit,vtivrhluth confitetur. Equidem Hermaphrodig plurimi funt,fedfæcunditatem fervita. rumminimè recinéignecmares vnquam vtero gerunt, necminus fuperfætant. Mirabilen eße Imaginationis po tentiam n vtero gerentibus imaginationis po tentia apertè cognoſcitur.Si enim illæ inter virorum amplexus, et fuauia,ali quid intensè cogitauerint, facilè in in.. fántium corporisexternis partibus imax ginata imprimunt. Hinc variæ rerum formar Ire N  forme,næui,lituræ, verrucæ, et alia figa na in infantibus impreſſa conlpicimus, Lingmultæ ex leporum obeutu fætuse-, dunt ſciſſolabello,aliæ fimis naribus,ore diftorto, vultumonftruofo,labris turpè prominentibus,corporedifformi,ocu-, liſq; horrendis infantes genérant: quia conceptus, vel grauidationis tempore, turpia,monſtruoſa,& horribilia fixa co gitatione excogitarunt-Fæminisidcirce, præſertim nuptis, pulchras imagines da mihaberecófulerem,atq;à turpibus av effe,ne pręuia imaginatione fætus mó. Atruoſos, turpefá; concipiant. Veteres, Climaftericos annos admodum ti muiffe. 1 A mationis apud Aſtronomos exi ſtunt &re vera videtur in quolibet anni feptenario quædam hominis mutation deò quod, ficuti in morbis dies criticos timemus,ita in vita hominum annosClin mactericos,qui à multis ſcalares dicun tui, quòd gradatim eueniant.Sunthi an ni, .Inte hos annos 49.63. magis periculosos credunt; quiaconſtant è feptenario, duplici, &nouenario complicato,obfero uatumq; àgrauibus auctoribusreperio, maiorem hominum partem io anno 63. Mori contingere.Idcirco hos veteres ada modumpertinebant,&, vt capiturin Gellio lib. Auguftus itaſcripfit ad Ça ium nepotem:Spero te lætum, &bene uolum celebraffe, quartum et fexagefi mumannum natalem meum:nam,vt vi des,Elimactericum communem fenio rum omnium, tertium et 'fexageſimum annum euafimus. Dehis tractatum edi dit Iofephus de Roſsi à Sulmona vtilem &jucundum. fMundiprimordiisinter homines, es ferpema tes antiparhiaminfurrexiffe. IRRreconciliabile odium eft, quod inter homines,& ferpérescadit,adeò, quòd expauefcit homo fi ferpentem inuenit, antvidet;magis autem fæmina: fiquidé obſeruatum audio gravidam mulierem (vifo ferpéte )præ timore abortire.Hu. ius difcordia illa ratio potiſsima eft quodàmundiprimordijs ínterkanc, et QUnca Semuan -illum Gt ſtatuta inimicitia, et irreparaa bile odium, quo altera-, alteram fpecia em inſequatur. Carolum V I. Francorum Regem, Ceruum 4 latumpro infigniprimò habuiße. Iluanettum Rex Carolus venandi cauſa fe contulerat, canum latratibus excitatusin fugam Ceruus, æneam tore. quem collogerere viſuseſt, quem vena bulis,aut ferro appeti Rex prohibens,in calles, et retia compellit.Erarin torque latinis litteris infcriptum:HocmeCçſar donauit. Exeotempore Caroluserua alatum pro inſigni habuit; &alii,regibus inſignijs (quęlilijsaurcis tribus conftát) circa latera, Ceruos duos apponere con fueuerunt. Gaguilis in vita Carol. V I. HANC. Reg. Insaanimantia confenfum, &difcas diane ineffe. Vllidubium inter animantia fym pathiam, et antipathiam efle inter trpiantes ſubditur: fiquidem muſtelam miro eiulatu in bufonis os deuorandam inueherelegimus; et bufonern in ferpen Npathi Lisa I tis,botræ vocati, os ingredi.Inſuperci cutam, fturno eſle cibum; homini vero venenum in dies obſeruamus: atqueveo Fatrum cotumices nutrire, hominem autem lædere non eft ambiguum. Senaterem quendam, exconiuge liberos ſur dos, &mutosfufcepiffe omnes. nature. omnesex, &mutos ſuſcipi,itaequidem à Fernelio obferuatum eft in quodā Senatore.Cre didit Ambianus huius reiobfcuram, et cæcam eſſe rationem, mihi autem altera fubeft, quæa Phyficis minimè differt: fi quidem auditio grauis, atque ſurditas quæ à natalibus viſa fit à conformatio nis vitio exoriens, hæreditarios mor bosgenerare creditur, et perinde libe ros, exhuiuſmodivitioſis,ſurdos, &muin tos excitari:fæpè autem non in filiis,ſed ! in nepotibus hæclues oriri videtur. Apud Garamantes. mirabilem fonterros obferuari, Dmiranda profe& ò, eft fontis il.com ARJiusproprietas, quiin oppido Der 1 bris apud Garamantes reperitur. Hices nim die friget, no&c verò æftuat; adeò quòd memoratu incredibile videtur, quomodoin tambreui temporis fpatio tantam natura ſui faciat varietatem. Equidem, quinoéte fontem afpicit, ibi flammasignefqueæternos exiſtere cres dit:quiautem die hyemales ſpectat: fca. tebras, vtique fontem perpetuò rigere exiſtimat. Propterea Debris apud mudi nationes inclyta eſt: eius enim aqua qualitatem excæleſti vertigine,mutare confpiciuntur.Ex Solino. Quo artificio Caminus per ſuperiorem "api cem ſolum fumum emittere valeat. N Caminorum fru et ura,.non modi aim tufferimus laboris, ne ignis fi molimtesin nos ipfos erumpant: fiqu. dem in ventorum mutationc facile fit, vt fumi quandoque potius defcendant; quàmadapicem aſcendant: ventorum enimvisillos deprimit, deſcenderequc percaminum cogit. Egotale ad fumi ferlum impulfionem excogitaui artif. simm.Struktur Caminus, cuiusfuperius fafti. zor faftigiu rotundú fit,ibique foramen la pidibus fi &tilibus conſtructum fit: mox ahenum inſtar tympani ex-ære, in cuius latere feneſtella extracta ſit, fuper lapi des affigito: ftylifớ ferreisfubcingito; ita tamen,ve intus vagari, mouerique commodèpoſsitapta demum fuper fer reos ftylos, et lebeten?' ex ære infuper vexillum,quod feneftellam fubiec dia recto habeat,taliq;induſtria,vtin quo libet vexilli motu, moueatur, et calda riumin gyrum,ita profe et ò è feneſtella, ventis oppofita,fumuserumpet, et non deſcendet.Pleriq;, vt fpero, huit noftro fcruinio,ineliorem addent Atructuram. meamque opinionem noníſpernent. Adconftruendum celerrime Horologium muncrabile in paritte. Ncoritruendis, pingendiſque ſolari, bus Horvlogiis, non modo lintā me ridianam,opuseft imienire, vthorarum tempus fidele reperiamus, rerum atque Ortum, et Occalum, Borcam, &All ftrum cum Aquinoctia, et Solftitia: in is.n. Solarismotusquarnaxime variat. N 7 Ego quidem, vt labores fugiamus, tale excogitaui artificium.Globum planum. extabula lignea formato in cuius medio ftylus ferreus ſitus fit;diuidito mox glo. bum lineis,ex centro ad extremum du cendo illius in 24,portiones, demumin globiapice horas ſignato, &vltimo in patiete contra Solis radios affigito. Vt auté ex Solaribus vmbris diei, horas ve nari poſsis,Horologium portatile afpici. conglobumý; ad horam illam accommo. dato:ita profectò,abfq;alio auxilio, ce ferrimèHorologiumvmbratile in pari cre habebis.In Aequinoctijs, et Solftitijs 1 eodem portatilis Horologijauxilio,fa. cillimè ad horarum æqualitatem globů reducere poterimus. Infancium pir uitam, è capitefluerem, quo artificio Chartaginenſes fiftere procurandTing, Xinfantium pituita, in capiteredú. dante,plerique fuecedunt morbi in. ter alios, morbus comitialis exoritur, qui à multis puerilis vocatur, quòd ijs,ve plurinum,eueniat.. Vt autem infantes ab huiuſmodi pręſèruarent Pæni, illorú vedas capitis lana ſuecida inurere,pitu. itainý; fuentem hoc præfidio compefa cere conſueuerunt. Athiopes infantes te ditos,ab ipſo quoq; natali die,in fronte adurút,ita profe et ò tumcapitis, tumo culorü humorfiftitur. Apud Inſubress. ex teſtimonio Mercurialis, et pleroſque populos,veícribit Scipio Mercurius,l ditos infantes fetonein collo muniunt, quod falutáre experti funt aduerſus mor. bos,qui à capite Huunt, Inmise rasis pluuie,quapotiora ixdiceniny præfagia. pluuiam imminentem,tum ex Gallo rum cantu intempeſtiuo,tum ex fre quenti cornicis crocitarione multi præ dicunt.Hisautem addendum puto muf cas(ca imminente)pulice's, pleraqzani malcula à furore vexari, intentula;mer il dere:hæc enini à vaporum inaerem ctc. rationc à radijs falar bus perturbantur. Infuper (pluuia imminente )odoris fra. grátia in floribus sétitur;apes ad alueária - sedcut;bufones, vermeſi;èterraakédut Brina vifa eft per dies præcedentes; catti manibus caput, quafi linientes, compri munt; ouescapitacommotient:afini hu miles habent aures; ftercora fumát, ma legue olent.Horum omniumratio, va poresàSole exhumidisfublatifunt:pro. inde animalia,cerebra humida habentia, nonnulla magis extorquentur. Vinum à Verrribus fuiffe mulieribus inter di& um. Agna fuitVeterum à vinivfuab. Itinentia:illudautem adeò muli. eribus erat interdi et um,vtcapitale iudi. cium inirct,quæ vinum biberet. Porrò inoleuit confuetudo,vtcognati, et affi. mes, mulieres ofcularentur, ore explo rantes, an ex vinum bibiffent. Idem ve fusMafsilienfibus, Mileliis, pluribus; Græcorum, &Barbarorum gentibusin,. valuit, apud quos muliereshydropota, et viri erant abftemiz: Intermemoran da illor um temporum,EgnatiusMetel fus, vxorem, quod vinum biberet,fufte necafe dicitur. Quo artifii io è plumbo Antimonii flores ex Habere paleamase Ape nij, fiue Stibinon femel extrahere Periam artem,qua flores Antimo à plumbo valui, quo præſidioin multis corporis affe et ionibus feliciſsimo euétu voor.Capito Plumbicampanam, è qua aromatarij rofarum aquam ftillatitiam extrahunt; hæc habet æris fundum: tu verò txargilla eligito,quodacerrimoa etto fupra medietatem implendum con fuilo,eaq; induſtria,qua rofæ ftillantur, in aceti deftillatione carbonibus bene ignitisagendum cít:caue tamen, ne totus fillet acetum, ne aqua extracta vftioné fentiat.Hæcaqua auri colore eft, fapore xerò facchari, et mellis; mirabilis tamen tum in potu, tum extrinfecè vfurpata, ob ftib j flores ex plumbo extre et os. vomitu, et aluo purgat, ob id frigidis affectionibus,obſtructionibusý; vtiliſ. fima': In vlceribus putridis, fætidis acoribus, ſcabie, herpere exedente, et aliis huiuſmodi,maximi eſt valoris.Doe ſis in potu ſît vnc.ij. Deforisad placitū. Clarorum virorum exitum aliquot inte felicem fuiffe Aniene fluuio Aeneas poft tot vi. et orias, torque clara facinora periiffe dicitur: nec diſsimilisRomulo, Cæfari, Alexandro, Annibali, Scipioni, Iugur thæ,Mithridati, atque alijs innumeris mors ſucceſsit:per quàm n. pauci viriex iis, qui clari,atque illuſtres tum virturi bus, tum fortuna habiti funt, quos non infælix exitus,tanq: á pro exemolo,fós offentäuérit porterial text caligero. Defipientiam, mulierum natuefamiliarem indicati. MVlieres vtero gerèntes,fiàphrenia tide capiuntur,Galeni teftimonio, rarò confanefcere legimus, vt fcribit tamen Cælius Aur.femper minus graui ter,minuſquc periculosè, quam viri,mu lieres ægrotant.Hoc autem, vt Merci. sialis opinatur,ab alia ratione continge re non poteft, quam ab ipfarum natura, cuius familiarius eft defipere,quam viri. Mirabile Annibalis, contra Romanos nauala fratagemia. Nfolita,& mirabilis Annibalis milita Eisafutia contra Romanos iudicarur: hic enim bello naturali cum iis dimica. curus, cum impares vires habere anim aduerteret,rale ſtratagema inuenit. Ser pentibus, quorumvenenumconfeftim enecat,pleraſq;ollas impleuit,opertasq; repente in hoftes iaculatus cít, quorum ictibus plurimi cecidere.Hifceftratage matibus vir hic tanquam alter ſerperis, multoties hoftium manus effugere con fucuit.Ex Gdenoin lib.de tbet.Akrijon Ambarum cum vino alicui exbibitum, cena feftiminducere ebrietaisn. Mbarum, quod à vulgo Ambrageye ſea vocatur,fomiſsisatiopam falfos opinionib et bituminofis fontibus,qui in maris profunditate exiftunt, oritur, Hocautem primòliquidum eft,cùm ve rò aquarum impetu ſurfum rapitur, ex aerisfrigiditatecondenſatur, et Amban rum fir:Siquidem in maris concauo, ple raq; mollia,teneraque obfèruantur, et interalia Coralliú, quod ex aqua exea ptum, citiſsimè lapideſeit. In Ambaro illud mirabileiudicatur, quod ab alique antequam vinum hauriat,odoratum, ina sttar ebrii eladat: cum vinoa, propina tū,confeſtim notabiléinducere ebrieta tem multis experimentis eft comproba. tum. Ex Simeone Sethi Greco auctore. oleam Lathyris Tympaniam, Colicas, affe& iones mirabiliter ſanare. Irabile quidem,quod è Cataputię -ſeminibus extrahitur, oleum eft, quippein expellendismorbis,qui à filao tu luccile;frigidis oriuntur, principem habet locum.Contundantur huius ſemi na, atq; in aquatam diùebulliant,vt ex cocta videantur;mox oleum in aqua fu pernatans cochleari colligendúeft. Mos eft apudIndos tale oleum cómodius per decoctionem, quàm expreſsionem cola ligere. Vfurpaturhoc feliciſsimo fuccef. fuin Tympania,colicis, iliaciſq;dolori. bus,ftomachiaffe et ione,aurium furdita te,atq, in iis morbis,qui à ſuccis frigidis, fatua;fiunt. Huius gutta aliquo lique re in potu ſumpta aquam citrinam euan euat,in articulorumq; doloribus pitui tam, humoreſque frigidos. Extrinfecè vfurpatur in omni Hydropis ſpecie: vbi tamen flatuofitas viget, maximam in expellenda proprietatem habere vi detur. Ex Don Garzia ab Horto. Verenum à diſsimili extingui; à fimili vero angeri. Hocpropriumelle veneni,àfapien Lrioribus proditur, à diſsimili ex. tingui, et a ſimili augeri, et robuſtius fi erizea propter non femel à perfidisho minibus exhibita venena nullius valo risfuifleobſeruatum eft,cùmeadiſsimi libusfuerint fociata. Aconitú, et Napel lus miram retinent vim necandi, com pefcitur accamen corum potentia à ve neno diſsimili, ex quorum diſsimilitu dine,vtriuſq;vis hebetatur.Mira eftAu. fonii hiſtoria de vxore mæcha, quzma rito venenum propinauerat, vt a. illud robuftius effet, Hydrargyrum miſcuit ex quo toxici virtusdempta eft, et vir immunis euafit. Hoc epigrammate ille monftrat; Texica Zelotypadedit vxor mecha marito, Necfatis ad mortem, credidit effe datum: Miſcuit  HA Mifcuit agente lethaliapandera viui, Cogeret vt celerem visgemindanecem. Digid at ber fiquis faciunt difiseta venenü; Ansideram fumet,quiſociala bibet. Ergo inter fefe dum noxia pocula cortant, Cele lethalisnoxafalurifora Protinus,Go Vacuos duipetiêre receffiua, Lubrica deie& is,quaria nota cibis. Quanpia cura Deumprodeft crudelier vxor, Elçüm fata voluns,bina venena juuans. Cornelij Celfy de valetudine fanorum bomsi num conferuandatutißima præcepta. Nter grauiſsimosmedicos,& fcripto res,nemo eft,qui in conſeruáda fano rum hominú fanitate oculatior exiſtat. Afferă ciusverba ', ytfaluberrima iſtius præcepta rectius intelligantur.Sanus ho mo,qui, &bene valet, et ſuæ (pontis eft, nullis obligare fe legibusdebet, ac neq; medico,ncq; dcalipta egere.Húcoportet varium habere vitæ genus, modo ruri eſſe,modòin vrbe,fæpiuſý; in agro: na uigare, venari, quiefcere interdum: fed frequentius fe exercere.Siquidé ignauia corpus hebetat labor firmat; illa matură lepc ſenectute, hic longăadoleſcentiá reddir. Prodefteciâincerdúbalnco interdú,aquis frigidisyti;modòvngi,modòipsú negli gere:nullú cibigenus fugere,quopopu. lus-vtatur:interdú in cóuiuio eſie, inter. dum ab eo ſe retrahere:modò plus iufto, modò no ampliusaffumere:bis die poti us quàm femel cibú capere, et fèper quá plurimum,dummodo hunc concoquat. Secl vt huiusgenerisexercitationes cibi queneceſſarij ſunt;ficathletici, ſuperua. cui. Nam, et intermiſſus propter ciui. les aliquas neceſsitates ordo exercitati. onis,corpusaffligit, et ea corpora, quæ more eorum repleta funt,celerrimè, et fenelcunt, et ægrotant. Hæc firmis ſer: uapda fune,cauendumquene inſecunda valecudine, aduerfæ præſidia cenſum mantur.Ex lib.i. Socrati à familiariDeironcde Plasonis indole Somnium fuiffe immiſſum. Solene quandoq;malifpiritus homi nibus fomnia ingerere futurarum re rú, vel Dei permiflione, vel vt nos ipfos dedecipiant. Hinc Socratem legimus, vidiffe per ſomnium,oloris pullum ſibi in gremio plumefcere, qui continuò exorcispennis et expanfisalis, in altum aduolans, fua tiſsimos cantus edebat. Poftridie Pla tone adducto, hic eft (inquit ) Cygnus, quem ego præterita nocte cam fuauiter canentem fomno videram. Hocfomnium, ve fcribit Henricus de Aſsia, à fpirira fa. I miliari, ſub forma Cygni, quem Athe nienſesVeneri dicarunt, fuit immiſsum Socrati, vt Platonem in diſciplinam re ceperit ', à quo, quum ipſe uilil ſcrie ptum reliquerit, dulciſsimi ipfius et Caluberrimai fermones proderentur, Magia ſeu inc antatianis ris. Onmeras eſſe præftigias, quæ magica? arte efficiuntur; multis exemplis notum eft, fed vno in primis, quod deſcribere vifum eft. Rufticus quidam magnis doloribus ventriculi vexaba tur:: quos etfi variis, medicameutis depellere cogar zur illi tamen non 1 ceffarunt, fed potius in dies recrudeſcere vifi funt. Quare agricola doloruin impati ens, cultello ſibi guttur abfcidit. Dum au tem tertio die mortuus ad fepulchrum ef ferretur, à duobus chirurgisin magna ho. minum frequentia, illius ventriculus iraci. fus eſt. In ee (res mira, et prodigiofa ) lignum teres, et oblongum,quatuor excha. lybe cultri, partim acuti, partim ferræ in. ftar dentari, ac duo ferramenta aſpera re. perta fuerunt:quorum fingulaſpithamęlos gitudinem excedebant. Aderat, &capillo. rum inuolucrum globi inftar. Credibileen fanè, hęcin ventriculi cauitate congeſta fu iffe, non alia arte, quàm Dæmonis aftu,& dolo. Quo artificio epiftolam, in ouo celatam alicui afcribere valeamus Nter ſcripturarum furtiuarum arcana non infinum locum tenere exiftimo, in ouo epiftolam celare, atq; amico ſcribere, Videbis enim oui putamen illæſum, mun. dung; illo tamen exempto, difruptos; cha paeteres apparebunt. Aperiam ſecretum. S? Atramento, ex gallis, alumine &aceto con. fecto, in ouicortice literas ſignabis, votum pffequeris. Has oportet in Sole calente ex ccare, mox ouum in muria concoquere ita enim à cortice characteres euaneſcune, et ad interna gradiuntur:ſiquidem putami. ne exempto, notæ oui durato albumine in ueniunturEx.Carolo Stephano. In aquafrigida captanda maximum veterum fuiffeftudium. Aximam antiqui curam adhibebát, vt aquam frigidam pro ætatis in. cendio temperando conferuarent: quareex niuibus eam parabant, vt Athenæusretulit. Dequa re perbellè loquebacur Seneca, et panas montium in voluptates transferunt, Alexandrini aquam Soletepentem, in fene ftris ad ventorum incurfus exponebant, vt poctu frigeſceret;manè autem inte Solis or ruin hani ponebant, folijſque lactucæ, ac que pampinis iniectis frigidam tuebantur. HocGalen.parrat.6. Epidemior. Plasarchu: 6.Sympus cotibus et filicibus aquæ inietti hoc fieri fcripfit. Neronis autem in re har ftudium nobiliſsimum fuiffe proditur: ise genim, vtninis voluptate, ablque njuisia iniuria fruererur, feruentem aquam vitro immifiam in niues refrige jarimandabat:Ex Heur nie. Ecua Fæminas in prima menftruorum eruptione in Venerem maximè incitari. e Erunpune,fceminis bera exurgunt:Pana guis ille,inftar occifi animalis videtur, atq; in maiori copia erumpit, cùm vbera ad du os digitos prominent, que tempore puella rum vocem in grauiorem mutari confpici. mus, Illud autem maximè adnotandum eft, in prima menſtruorum eruptione puellas in pudendis,valida tentigine, prurituque core ripi,ex quo ad Venerem incitantur: quare per tempus illud cautè cuſtodiri exiſtimo. Ex Arift.7.de Hift.anim. Qua induſtria Aegypti lapides à vefica,abfiga incifione extrahant. Irabile quidem eſt Aegyptiorum ftudium in extrahendo lapide à ve fica abſque inciſione, quando noftrates me dici, lapidarij ſine illa facerenequeant, idque cum magno languentium vicę periculo. Hiligneam cannulam accipiunt, octo di. gitorum longitudine, et digiti pollicis latia tudine in opere abfoluendo. Hanc colisca nali admouent, fortiterque infufflant;neau. tem flatus ad interioraperueniat, extre. mū pudendimánu altera perftringunt, fo. samen deinde cannulæ claudunt, vt virga 0 % cabang M N eagalisiotumeſcat, latiorq; fiar. Quo facto miniſter digitoin ano pofito, lapidem pau Jatim ad canalem virgæ, atq; in eius vasex tremun deducit. Quivbipræputio lapidem appropinquare ſentit,cannulam à virgæ ca nali fortiter, impetug; amouet, et lapis ex. trahitur. Ex Alpino. Mult a praſidia ab animalibus, bomines accepiffe. On pauca equidem præſidia funt, quæ ad hominum tutelam ab animalibus accepta ſunt. Chelidoniæenim virtutein ad oculorum morbos ab Hirundine accepi. mus, quæ hanc conquirit herbam,vt furorú filiorum oculos, vel vitiatos, vel.cæcos cu rer, Fæoiculi virtutem ad eandep tutelam ab'anguibus didicimus, Ab Ibide, quæ in ftar Ciconię auis eft, clyftris vſum habui mus: nam et illa roftre marinamaquam al lumere folet, illoſ; pro clyfteri vtitur, vt ventrem nimis onuftum exonerare valeat. Inſuper marinus equus, Hyppopot mus di etus, venarum fectionein nos docuit: illef. quidem mala oppreffus -valetudine, ad re center fuccifas arundines graditur, acutio. riſ;cuſpidefanguinem è cryrjuin venis adi mit. Quod autem in hocmirabile eft, vela guinem cohibeat, in fimo, vel cono volutatur, et ica vitam tuetur, et fanguinem fim ftit. Ex Plinio, alis. Equorum teft:cilos ad ſecundas depellendas miram babere pirt utern. Ingularis profecto Equi teſticulorum ad nulierum fecundasdepellendas eft pro prietas, adeò, quod teftatur Genſerus in e pift. Rufticum quendam, quinquaginta in puerperis feliciter hoc vſum fuiſſe reme dio. Vfus eit et Horatius Augerius in plu. ribus mirabili euentu: præſtantiſsimuin id circo à grauibus auctoribus indicatur re ne diun),nam, et pluribusiam deploratis pro fuit.Capiunturteſticuli equ: caftrati,& tria ftillatim conciſi in forno exiccantur, quorü puluis quantum capitur tribusdigitis è jure bibendas datur in neceſsitate; idé; fi opus eit, bis, auc ter reperitur. Humanam faliuam Scorpiones interimere. Ominum faliua Scorpionibus infe ttiſsimum venenum eít, adeò quòd ca tacti confeftim intereanc. Porrò ijs, ſaliua fora ſubſtancia aduerfaelt, ve Galenus lib.io fimp, medic. experimento confeffus eft; ist. nim à fola faliua morientem vidit Scorpio. nem, id; celeriter patientem à faliua elue riencium, aut fit jentium; tard autem ab 3 illis,qui cibo, potuque fuerant impleti,ina. liis autem proportione, Apium riſus,bominesridendo interfi. cere. Scelerata eft herba quæ Apiamrifusdicia cur, quod ridendo homines interficiar: fi quis enim gnftauerit ieiunus vtique ridendo exanimabitur, vt Apuleiusteftatus eft: Ex hacillud adagium ortum habuit:Sardonius siſus; nam et Sardonia eriam vocatur.Porrò on ex rifu, qui hác guftauerint, moriuntur fed potius,vt placet Saluſtio neruos labio rum, et orismuſculosillius, qui eam come dit, contrahere facit,adeò, vtridendo mori videatur. Qua induſtria Partbi, Scytheque Sagittarum aciem venenajunt: AR'thorum, Scytarumque toxicum, quo fagicrarum acies inungi folebant, humano fanguine, et viperinaſanie confta bat, tantæquc feritatis erat hoc venenum, ve leui tactu animal interimerer, Equidem Scythæ viperas recenter enixas venantur, eaſque diesal.quoccontabelcere finunt, do necip fapien putre.cane, mox com visus hominis fanguine in ollam effuſo, eam ex quifite coopertam; fimoque obrutam com putrefcere finunt, cuius demum.1. ick or fan. PAT fanguini ſupernatans, fiue ferum cuni vipe rarum faniecommixtum lethale Scytharum toxicum eft. Ex Arift. Plinio, et Langio. Succinumpterogerentibus exbibitum, mire partum accelerare. Mvicis experimentis comprobariaudio ſuccinum parturientibus drach. ſemis pondere ex vipo albo potui dátum, mirè par tuin accelerare. Hoc eriam facit eius oleum, fi gutta tantum ex aqua verbenæ parturienti propinatur.Quidātamen medicusHetrufcus (Fallopii teftimonio )exhibebatfcrup.i.bora• cis in decoctomatricariæ, velfabinæ diffolu tæ difficulter parientib.mirag; faciebat: bre ui enim temporis fpatio feetus,vel viuus,vel mortuns egrediebatur. Habebat ille medi euis pro arcano præftantiſsimum hoc auxili um tamen neſcio quomodo postea fuerit de fetum. Ex Andernaco Serpentum oua genituramí per imprudētiam in petu haufta,ſerpentesin corpe ribus procreare: Dmiranda fuccedunt quandoq; fym dem imprudenter cum ea femina, vel ova ſerpentú hauriuntur, è quibus moxſerpentes generantur. Genſerus in lib 2. hift animal cap, de Ranis Rubetis, bufones in ventriculis in reftinifq; hominum haufta eorum genitura, fieri, &nutriri probauit. Iacobus Manlius, in lib.experim.in cuiuſdam equitis, exhau * Ita cuiufdam lacunæ aqua, vbi erantſemina Serpentum, in ventriculo plures angues fu. iflegenicos prodidit: quibus per internalla extractis, medicorum auxiliis, fanus factus eft. Leuinus Lemnius Vermiculos cauda tos, atg; infolita forma beſtiolas vomitu ciectas nouit. In nonnullis lacertas à phar. maco fuifle eductas obferuatum eft, vt Gé. maCoſmocrit vidit. Quare maxima in a quæ potu hominibus opus eſt animaduerfi. one huiufinodi exhanftis, pernicies corpo. Tis conſequatur. In deſperato coli dolore Hydrargyruin, v4. glandem plumbeamexbibitam, multos confanaffe. Irabile videtur, Hydrargyrum,quod à mulis venenum reputatur, in der. peraro coli'dolore exhibitum, plurimun prodell:. Equidem Marianus Sanctus, ex multorum confilio, qui ab hoc lethali mor bo fanati fint, fuadet, fi obstructio perfeue rauerit, et fæces per os extrudantur, hau fire cum aqua fola argenti viui libras tres, Probat hic exratione vinetuin feu duplicatű inteltinum Hydrargyri pondere explicari, fæces detrudi,vermelý; fi ibi fuerint interi. mi, &ægrum liberari. Haud ab hoc difsi mili auxilio quidam nobilis, poft alia ten tata ad morbi huiuſinodi acerbita tem ma. chinamenta, liberatus eft. Hic hauftis olei amygdalarum dulcium fine igne extraćti vnc. iij.cum vino albo, &aqua parietariæ mixcis, mox deuorata glande pluoibea ar gento viuo illita, planè à colico cruciatit euafit, illamque exano abſquelaborerede didjt. Ex Pareo lib. 16. Infæniculorumfeminibus, vim quando que exitialem deliteſcere. Grauibus ſcriptoribus comprobatur, ſerpentes fæniculorum elu, &fene ctam exuere,&oculorum aciem rnonare. Hinc iis affricantur oculi anguium, vt vo. tum affequantur, Ex attritu foeniculorum feminibus, praya quædam imprimitur qua litas, è qua venenati producuntur vermi. culi,quorum eſu multi in peſsima deuene. runt ſymptomata, &ab alexiteriis rarò ad iusj funt, tanta huius veneni potentia eft. Quare foeniculorum ymbelli,antequam co. medantur, aperiantur, et diligenter concu, tjantur, vtå vermibus emundentur. Præ, OS Habis A A ſtabit al quantifper in frigida macerare. Ex Balthajaro Pifanello, Noua admirandag; prafidia, ad Ang i nam, gutturules apoflemata. Fferanı fingularia auxilia, è quibus ex grauiſsimis fcriptoribus, ad anginam et gutturis apoſtemata mirabilia contigiffe proditur.Lignum hederæ ad gutturis apoſte. mata à proprietate valere fcribit Ioannes Marquardus: quippe obſeruatum eft, come dentem excochlearihederæ ligneo, fiue bi. bencem in aliquo ipfius vafe ligneo, num quam, vel raro in gutturis, vel vuulæ apo. temaińcurrere, Rubeta cocta, &pro em plaftroSynachicis impoſita,cófefim liberat. Vermes.quandog, in cordis capſula pro creari, è quibus mors ſubitanea pleriſqueexoritur. Abulofum haud eft, vermes in cordege: nerari. Hoc enim Melues docet, Holle rius, Marth. Cornax, Alexius Pedemonta. nus, et alij loan, Hebenftrit, in lib. de Pette, Principem quendam ex morbi fæuitia peri iffe narrar, cuius cadauere diffecto, vermis albus præacito roſtello, eoq; corneo præ. ditus, cordi adhęreſcere deprehenfus eft. Exmedicis, ſucco alii feram hanc, tanquain ex indubitato remedio, interimi probatü eft. Petrus Sphererius (vt ScheukinsBarratti  lem fiorentinum morte fubitanea correpti, atq; diſſecatum obferuauit, in cuius cordis caplula vermis viuus repertus fuit. Aiunt multi certiſsimo experimenco-ficco allii,ra phani, et nafturtii hos vermes pecari, qui, ex teſtimonio Pedemontani, in corde deli teſcentes, ſyncopim, Epilepfian, et mortem inferre folent. Mares pleroſque in mamillis, mulierum instar, lac producere. Icet marium mamillæ fpiffa carne in fuiffe productum obferuatum eft. Nouit hoc Arift. vtlib. 1. dehiſt. animal. docuit. Veſali us non femel id confpexiffe in 1: 4. 15. Anat. commemorat, et Hieronymus Eugubius in libell, de lacte: fic et Cardanus,lib. 1. de Sub til. qui ianuæ vidit Antonium Denzium, è cuius mamillis lactis tantum profluebat, vt infantem fernè lactàre potuiffet. At hifto ria, quæ affertur ab Alex. Benedicto mira. bilis eft: aitenim, Syrum quendam,mortua coniuge, è qua infans ſupererar, ybera filio admouiffe, ècuius ſuctu tanta lactiscopia i pupillam manauit, vt exinde loco matris nn trire valuerit. Ego quidem in duobus filiis meis, in primis diebus à partu obferuaui, ab obftetrice.mamillas cofrectatas, lacimpulſo (magno multorum ftupore) emififfe: idậ; in aliis etiam infantibus contpexi, Lumbricosquandoque tantaprocreari pi Tulentia, vt interior a corporis perfurare valeant. Nfanda equidé fymptomata à vermibus aliquando proueniunt: refert enim Om bibonus, lib. 4. de morb. infant. Lumbricos ex vmbilico cuiuſdam erupiffe. Tralliani teſtimonio habemus, hæc animalia ob ali menti inopiam inteftina laceraffe, fuiffe ob ſeruatum. Id etiam ab Aegineta confirma tur: jofuper Hollerius confpexit, vermes per inguina, et vmbilicum prorupifle. Ma. gna igitur cura opus eſt in horum redua dantia, ne interioracorporis valeant lace fare, A Infamis vmbilicam, et Ceruinumpenem mirabiliter conceptumfacere. Lexander Benedictus, 1.30. de curand. morbis,vmbilicü infantis, qui fponte caditquoquo, modo in ciboſumprú, fiigno rauerit mulier,adconceptum facere, pro. didit;illumg; in brachialibus à muliere ge ftacuin conceptum inhibere eredir. Cerui. aum inſuper penena aridum, et in fari. namredactum, oboli pondere, à coitu forminis datum; procul dubio ad concipien. dum prodeffe experimento probat, Baueri. us tamen conf: 50.vterum ceruinum fingu lari dote ad conceptum valere prædicat, Vlmi vſum, recentem Elephantiafim curare fuiffe obferuatum. Inquam certum remedium, Vimi vfus in curanda recenti Elephantiaſi à laco. bo Douinero, lib.Tic.7. prædicatur. Vidit enim adoleſcentem tali affetu laboranté, et decoctionis Vimi vſu (factis faciendis ) conualuiffe. Ea equidem pro omni potu vte barur in quolibet paſtu, cum pauco vino al. bo, &cantiſudores mouebantur graueolen tes, vt vix illos cuftodes ferre poffent. Ita viſcera purgabantur, &magaa yrinæ copia excernebatur, quibus excretionibus fanus factus eft. Cyprinorum efum podagricis elle infeflum. Vamuis inter piſces, Cyprinusnobi. lifsimus exiftimetur, cum optimum præbeat nutrimentum, exquiſitiſsimigsexi Atat faporis; tamen podagricis infeftuin ef. fe obferuatum eft. Nouit enim podagroſum Iulius Alexandrinus (vt retulit lib. 15.6. 6.. de salubr. ) cui Cyprinorum efu pinguium, parata érat femper podagra, ve in manu illi th effet, eo pacto accerfere, cùm vellet. G Puluere pellis leporine, perniones à Sep tentrionalibusfanari. Laus, lib. 2. Rerum Septentrionalium,, tilsimè perniones experiri fcripfit, qui mor bus, non aliis ab iis fanatur remediis, quàm puluere pellis leporinæ. Plinius verò Rapú domeſticum feruen's calcaneis impofitúla. nareretulit. Ego ex Carolo Séephano, inlib. de Ragraria, in quodam expertus ſum reme dium, et bene fucceflit. Accipit ille, ficos crematos, è quorum puluere, et cera yngné tum parat;hoc pernionibus impofitum bre uiliberat patientes. Hydrargyrum loco amuletigeftatum à pefte faſcinog corpora defendere. Arfilius Ficinus, et P. Droerus, in lib. M, fienim auellana perforatur, &extracto in. teriori nucleocum acicula, argento viuote pletur, et collo fuspenditur; mirum in mo dum à peſte corpora tuta reddit: ira profe etò à peftifera lue fæniente fe defenderuut multi. Hoc eriam præfidio mulieres lactan. tes, à faſcivatricibus, ne lac fic ademptum, quo infantes alendi funt, præferuari poffe, i Thomas Iordanus, in libe dePefte, prodidit. - Q " ppe multis experimentis obferuatum re, tulit (hoc fecum geſtao - ullas prorſus laga. ruin, lamiarú aut ftriguin infidias lacrátibus nocere. CNICO Meſpili lignum,collo appenfum grauidas ab abo orth preferuare. Wm quadam æſtate apud D. Ioannem Nicolaumn Cucillum Brancacium, mei amantifsimun, ytpuerum curarem interef ſem, fortè inter me, et Doininam D. Man. já Cotoneam e Toleris, eius vxorē, de abor tus præſeruatione, tunc vtero gerentem, có: uentum est. Retulit domina hæc Meſpili li gnum collo appenfum mirè ab abortu gra uidasdefendere;idq; millies à fuis maiori bus foiffe expertum. Confiteor in plerifq;, tale lignum fuifle à me expertum, atq;certú, et rarum remedium ſemper inueniffe fe: fi quidein multæ aborrientes, et dolore, et fã. guinis fluxu (appeofo ligno reſtrictæ ſunt, &ab abortuſeruatæ, adeò quòdined parti cularem virtutem abortú prohibendiinefile seor, Qua induftriabomines abſtemios reddere valeamus. Vleis experimentis comprobatum re perio Anguillas, vel Mullos in vino M fuffo peri sfuffocatos vini faftidium inducere: et enim ex eo bibant homines, procul dubio abfte mii fiunt. Infuper philoſtratus in vita Apol loni, ona noćtuæ elxaca, et infantibus pro cibo allata, hydropotos in tota vita illos reddere ſcripſit. Mizaldus, Ragam viridem, ex iis, quæ in fontibus ſaliunt, viuam in vi. no fuffocatam, idem efficere, fi tale vinum potetur, prodidit. Rotundam Ariſtolochiam mirè piſces ftu pidos reddere. Ira eſt Ariſtolochiæ virtis in piſces: ipfa enim illos odore ad fe al licit,moxftupidos reddit. Proprerea fi eius radicem contritam, calciq; commiſtam, fiue eius decoctionem cum calce pacato flumine aut maris littore piſcatores confpergent, piſces agminatim confluere videbunt. Ili autem puluere deguftata, veluti examina ti ſupernatantes capientur. Puellam veneno ab infantia nutritam, Alexandro ab Indorum Rege fuiße miffam. Ndorum Rex Alexandri fortunæ inuidés, vt illum interimeret, miræ pulchritudi nis mifit puellam, ratus forfitan Alexandru confeftim cum ea concubiturum. Illa au tem Nappelli veneno ferè à cunabulis erat educata, propterea more Serpentum ſcin tillances habebat oculos. Hos Ariftotelesar piciens, caue tibi ab hac (dixit ) 6 Alexan der; nam virus peftilentiſsimum alit, vode tibi exitium paratur. Poft paucos dies pleri q; proci huius commercio venenari periere ex quo Ariſtotelis praſagium mirabile fuit iudicatum. Ex Auerroe. Quale fitigneum prafidium, quodin morbis ab Aegyptis, et * Arab.bus vfurpatur. N lib. deMedicina Aegyptiorum prodi. dit Alpinus, quo pacto illiin morbis cor. pora adurant. Accipiunteniin lineam peti. am cubiti longitudine, latitudine verò tri um digitorum, quam ad formam pyramydis aptant goſsipioque implent; ipfius latior pars, parti adurendæ applicatur, alterumg; capuc accendunt, comburió; cam dia per miteant, ye faſciculus crematur. Continuò ramen dum cutis vritur, ferro circumcirca accingunt carné,ne caloris incendio aliqua oriatur inflammatio.Hocinfuperinuolucro parando obſeruant, vein medio meatus ex iftar fafciculi: ita enim euentatio fue refa piratio aliqua paratur, In vftione autem per aćta offium medulla in carneaduſta, quoad eſchara cadat yantur.Hic vrendi modusAe. gyptiis &, Arabibus familiaris eft. Olim in Creta familiasquaſdam mirè faſes: natricesadfuiffe A quoſdam, tum fæminas in hiſce parti bus animalibus, pueriſque laudando faſci num attuliffe: adeo quodij;fiad ouile, por cileque quodpiam adiuiffent,confeftim in teritum pleriſque produxiffe: Quare mirum haud eft, quod legitur in Creta quaſdam fa. milias adfuiffe, quæ laudando faſcinum is. ferebant. His profectonatura quædam ferè venenofa efficitur, et ex oculis inde fpiritus efflant venenatos,quibusanimalia,pueri, et grandiores faſcino maculantur. Laudando autem venenum promptiusoperatur: fiqui dem laus propria, gaudium affert, quo cordis fpirituumque dilaratio oritur, et veneno. a ditus præparatur.Ex Fracaſtorio - de fymp. sta Antypat.rer. Cyprint verticis oſsiculum mirabiliter Epilep. ticisfubuenire. N Cyprini caluarix vertice quoddam re peritur ofsiculum triangulare lapidisin ftar, quod in curanda Epilepſia; principeng loců obtinereaiunt. Táta enim efficacia epi lepticicis fubuenit, vt morbusis numquam reuertatur,Hoc, vbifuturæ in vertice calua six Cyprinicômitrútur intus fubfiftit,prop I cerea terea ſi illa capello penetratur, ſtacim fora profilit,Andernacushoc ofsiculum nummi Germanici cruciferi appellati,magnitudine exiſtere prodidit,atque ſalutare eſſe Epilep fiæ remedium, Calphurnius Bestia Romanus qua pia vxores dormientes interemerit. Nonnulliex veteribus in venenisnofçé et dili gentiam inter alia Aconitum venenorus omnium elle ocyfsimam comprobarlot: fi quidem tactis huiufinoti veneno genitali bus lexus faninini animaliuin, eodem die mortem inferre viſiun eft.Hacvia Calphur nius beitia, veditaretur forſiçan, vxores dor mientes interemit, de quo à M.Cæcilio ac cufatus eft.Hincilla -atiox peroratio eius in digito mertuas. Confimili induftria Ladica laus Neapolis Rex, cum cuiuſdam medici Prochytami filiam adamaret, cum eaque concumberet, Florentinorum confilio ex cinctus eſt, AcetoStitillitieo Bythagoram vitam longiſsi meproduxiße. Afecit:feripfit enim eius viulongāhonia nes vitá conſequi, et vfquead eius extremum: finem permanere integrè, et dextra valetu dine.lole cu quinquagefimum ageret awaum  hoc remedio vfus eft &eius vfu ad centefi. muum, et decimum ſeptimum productus et integer et nulla vnquam aduerfa valetudine tentatus: cuius optimam facultatem admira. tus, confanguineis co umuuicauit, vt illings vfum haberent. Oleiom lixiuio mixtum in lattis fpeciem tran fire. ' rmè experimen: o oleum lixiuio mixtú, fi diuag retur,in lactis ſpeciem tranfire, comprobatum eſt: eft enim lixiuium tenue, atque calidum,oleum autem cum aêreum fit à lixiuio attenuatur, et proinde aerem con cipit,ex qua albedoiunaſcitur. In aquis etis am, quæ diu agitantur,lactis ſpecies quædam exoritur ex confimili induſtria. huius indi. In cium ſpuma eft, quæ cun fic tenuis, aérem concipit, et dealbatur, Ex Cardano. Quainduftria Scythe abſque cibo, potu per plures diesexiftant. Miraett herba Scythicæ operatio, qua scythæ per plures diesfiue cibo, po - tuque viliere dicuntur. Hanc ij circa Boeri. am inueniuntcreſcentem, et ad famem ficou timque tolerandam vtuntur: fi quidem guftu dulcis, vt liquiritia eft, et in ore detenta fa mis, fitifq; fenfum habetar, Idem apud cales C: Hippice præſtat, eò quòd hæc planta equis confimilem generet effectum. Aiuntmulci, Scythas his herbis duodesos eriam dies, fac mem, &ſicim non ſentire.Ex Martbiolo. Catellos calorem natiuum augere, membros rumque dolores conſopire. P Ro excitando nativo calore, membro. rumque cruciatibus demulcendis, Carelo li præſtantiſsimi(Galeni teſtimonio,7. Me thod med.)exiſtimantur:illorun autem hu. ius naturæ haud omnes habentur, fed ijpræ cipuè,quibus pilus concolor eft. Propterea in Chiragra, podagra, et in omni Arthri. tis fpecie cruciatus, quamlibet efferatos, parti affectæ adhibitos s præſtantiſsime confopire àmalcis comprobatuni repe ris. plurima è terra furſumtapi, iterumque deorfum cum pluuis pracips tari, Aximam yellera,rang,vermiculi,lapil li,ligna,vabijgeneris frumentacealac, fanguis, et id genus alia terræ permixta, quæ cum pluuijs quandoque præcipitari afpici. mus,, nobis præftant admiracionem, adeo quod à cafu infolito plerique perterriti, Cæli mipas metuunt; Celiat aixen admira. tio,fi eorúcauſas penfitamus:hæc enim pri mo mò ventorum effluuijs, ventorumque inipe tu terræ permixta furfum feruntur,mox cum pluuijs iterum deſcendunt. Propterea nec ſemper mirum,autinſolens à ſapientibusiu dicatur: CorneliusGemma, inCoſmitriticaca 6.hæc caufas legitimas à coeleftibus Syzygi. is habere prodidit: fed tamen eo vſque pro gredi ſoiere,cum fpecie fua, tum magnitu dine,vt etiam in portentis principem inue niant locum, Cum Pſylis, &Marfis, Serpentes haudbabere inimicitiam. M Irabile eft, Serpentes, quià mundi pri uerfam,inimicitiainque iniuere,cum - Pſyl lis, et Marfis nec odium nec difconuenienti am retinere, Neceſſe ctenim elt, ve ijs aliqua miftio non omnino contraria oriatur,auto dor, autaliud, è quo fpecies minus ingraca videatur; ita profecto inter homines ipſos. criam contingit: quandoque enim fine cauſa nonnullos odimus,alios amamus,prout re sum.fpecies ad animam noſtram perue. niunte, quibus conuenientiam, et diſconnenientiain capta mus. Ex Fracastor rian - ) Oling Olim vasta, ego robuſtafuifle bominuincor pora. Vamuis Plinius,cæteriq;ſcriptores, ho ninum corpora, robur, vitam ſemper imminui conquerantur; tamen olim Gigan ces extitiffe, &vaſta hominum fuillecorpo. ra negandum non eft.D.Auguftinus lib.15.de Ciuit.Dei.dentem gigantis in quodam flu mine inuentum fuiffe prodidit,quiminutim diuiſus,centum ex noftris dentes ſuperabas. De Pailante ſcribitur admirandum.Hic Ae neam contra Turnum Regem Rutilorum adiuuit, mortuustandem, et fepultus, vbi nunc Roma eft, (reference Solino)Anno O. atingefimo poft Chriftum Dominum dam quiædam ædificia Romefierentcafu in ſepul chro quo arte mirabili cum lucerna ardenti códitus erat, inuétus eft, et integer erectus altitudinem nuricapite excellebat.Quid de Aiace, et quid de Turno; et de ingenti,faxo, quodvterque in hoftem conjecir, referatur nouúhaud eſt.Quid tandem de Oreſte, filio Agamemnonis,cuiuscadauer oéto cub tirá longitudinem excedebat, atque de alijs in numerisdicatur,apud fcriptores reperitur. Idcirco præter ftirpem giganteam,quæ poft diluuiumimminuca eft, alia corpora vastitatem et robur maximum retinuiffe conce. dendum eft; in præfentiarum verò homi. num corpora huiuſmodi comparata, tam pufilla funt, vt præ illis inania effe videan tur. Ex Helinando Chronographo. Equum Phaleris accin&tum pulcbris, acri oremfieri., chris ornantur phaleris, tum acriores, tum pulchriores iudicentur. Eſt de his cla. rum exemplum de Bucephalo Alexandri, qui phaleris accioétus Regijs neminem præter Alexandrum (teftimonio Aeliani) ad fe aſcendere paciebatur, et quoderat 18 illo mirabilius, veaſcenſus facilior effet, demittebatur cum dominus equitare vole bat.Phaleris autem remotis,quilibet medi. aftinus aſcendere, &tractare poterat. Ego quidem domimulam habeo,cuius tanta eft ſagacitas,vt fi feruus meus ephipium parat, habenafque illa humilis,demiffa, et quafi gaudens perfiſtic,viAernatur, hilariſque in. cedit, et acrior: fin autem clitellas, calcitro fa, indomita, feraque confeftim fit, necta lem ſarcinam, niſi vinctis pedibus ferre ſu Atinet, adeò quòd feruus ab opere defiftere cogitur. Exitiofißimum effe homini,ſub Lunaradijs ſomnum facere. Vnæproprium eft,in hæc inferiora hu miditatem immittere: quare exitioſum elt,lub eius radijs diu dormire; quippè dor mientes obleruatum eft ægrè excitari, atque proximos infanis fieri, Lunæ vires in lignis, quæ ad ædificia colliguntur,potiſsimum ex perimur:conciſa enim Luna creſcente, funt ferè emollira per humoris conceptionem, idcirco tanquam inepta à fabricis reijciun rur. Agricola 'experimento cognouerunt, fruméta de agris in Lunæ diminutione colo lecta diutius ficca permanere. Hæc à veterie bus Lucina vocabatur, et à parturientibus inuocabatur: Lunæ enim diftendere rimas corporis,meatibuſgue viam dare munus eft: propterea, tale ſydus partui ſalutare, illum. queaccelerare putabant. Archelaum,Mithridatispræfe&tum, ligneam turrim incombuſtibilem confeiffe. Dmiranduin profectò iudicatum eft AArchelai,Mithridatispræfe&ti,cótra Syllam commentum:hic enim turrim ligue. ain iocombuſtibilem condidit,quam fruftra ille incendere conabatur. Erat currista. bulata alumine collinita, in ijs autem cruſta durior erat obducta, et alumen, plumbique albi  albicineres pigmentis copioſè commifti: quia induſtria ab igne feruata ſunt. Confio mili artificio,Ceſar ex larigna materia cir. ca Padum,Caftellum etiarn conftruxit, Ex Lemnio. Viſcum quercinum fola fufpenfioneEpilepti. cis fubuenire. X grauibusfcriptoribusmultiorbicua losè viſco querciofola ſuſpenſione vulgari filo transfixos idem præftare in 2 molienda,& præcauendaepilepfia tradunt, quod peonię maſculæ radix,aut ſmaragdus è collopendens efficere creditur, Reculit Iacchinus in Epilepticerum curatione, fe mel ea ratione,qua ligno guaiaco vtimur, Viſcum quercinum per dies 40. propinafre, et profuiffe quidem, non tamen Worbum abituliffe,nequelicuilleiterum id temedij iofaciliori morbo experiri. Isterbraſsicam o vites maxisnum ineſe dif fenfum. Focabilis equidem difcordia inter braſsicam, et vites reperitur, propte reade Reruftica fapientes fcriptores, VICCE à braſsica offendi, deterioreſque et fucco, &odore, fi ſecusplancatur, fieri prodidere. Experimento hoc comperitur:nam gerinen ijspropius cu accellerit, auerſü ab inimico Notabilis compulſum odore retrograditur. Infuper G inollam, vbi braſsica elixatur, vini vel mi nimum conijcitur, quippe nec braſsica cona coqui vnquam poterit, et quod mirabilius eft, colorem proprium amitter. Hacmotira tione ſapiéres,ebriis braſsicæ ſucçú propinát, quo ebrietas ſubitò foluitur. Conuiuates pa riter, ne à vini copia potenciaģ; offendantur (Germanorum inftar ) braſsicam crudam primò comedere debent: ita enim viruna ad ſatietatem, abfq; ebrietaris periculo haua rire valebunt. Cati nigerrimiefum cerebrum, homines dementare, Ericulofum eft, verſicoloris, &maximè nigerrimicati cerebrum alicui efirm prz bere: ad iufaniam enim homines ducit, et quod peius, cerebri meatus obftruit, ſpiri. Etuſý; impedit animales, Inter fcriptores Per trusApoinenfis, huius efuadeò io ſanirehow' mines dixit,vt præftigiis quafiobnoxii videa antur. Ponzertus pariter cati pilos venenoſos eſſe prodidit, citly; anhelitumfebrem heoti cam induccre. Exbetulacorticibus, ardentesfaces comparari Etulæ cortices non modò ignem confe. tim recipiunt, verùm atque flammam pariung  Mha pariunt ardentem; quo fit, vepleriq; faces, pro noctis obſcuritate fuganda, ex iis com. ponaot, bene rati lucidiorem has flammam, quãpini fædam parere: ex liquore autem picis inſtar, qui dum vtuntur deftillat, oriri hociu dicatur, cuius natura cùm facile accendatur, mirum haud eft: talem effectum producere. Hæmorrhoidalemn berbam contactu Hamer rboides fünare. Ira eft Hæmorrhoidalis vis, et poté. tia in perfanandis Hæmorrhoides: fi enimhuius radicibus, Hæmorrhoidales do lentes tanguntur, atq; illæ per diem circa fe. mur ferantur, et mox in camino fumanti (afpendantur, procul dubio effectusfanatur: fiquidé Hæmorrhoides que atq; radices ex iccărur, fiaccelcıyor: qua caufa herba ab effe ctu nomen deduxir, nec immeritò: namin iftarum infiammatione, &doloribus, fi hu us radices contufæ applicantur, confeftim, et dolor, et inflammatio mulcentur. Ex Ex Tante. Marine Paltinuca radium,identium do loresmitigare. entium dolores multis experimentis ex Marinæ pattinacæ radio mitigari vifi func; huius eniin radio, qui in piſcis cauda cpa, situr, dentes tanguntur, et gingina ſcari. ! x herbis non paucæ Ecale ſcar ficantur, quo præſidio quan cítiſsime dolor euanefcit. Prodidit Dioſcorides, lib. 2,64p. 9. radiuin hunc dentes frangere, et e urcare.quomodo autem hoc perficiat docu it Plinius lib. 3. cap 4. Conteritur enim is, et cum Helleboro albo miſcetur, quorin miſtura fi dentes illiti fuerint, fine vexatio ne extrahuntur, Plerasg, berbas, Solisexortum, et occafuma ostendere, Solis ortum, et OC cafum noffe videntur tantaq;huius lyde. ris ſectandi,talibus auiditas nafcitur, vt Gr. miter inter kas, et folem magnam in ſe lym pathiam credamus. Profe&to fos calendula in Solis ortu aperitur, &in occafii clauditur; ex quo villicorum horologium à nuleis di citur. Sequuntur Solis fphæram non modo papauer, et illudtithymalli genus, quod vo. cant helioſcopon; ſed etiam malua, lupini et cichorea; intenſius autem Lotus herba re ctatur, &exortum quotidianum, &occafum noſcit. Hæc (Theophrafti teitimonio ) cau lem, &florem veſpere mergit, et circa me. diam noctem tota in lacum irruit, et adeo occulcatur, vt nec manu admiffa quis valeat inuenire, verciturmox panlatimg; erigitur, etin Solis exortu extra aquas confirrgit; for P 3 reing  Temą; aperit, et patefacit, caliterá; etiam num confulit, vc alièab aqua abeffe videa quarum Sodo Qualssin Sodomi, et Gomorriveſtigiso riantur fru et us. LtiſsimiDei decreto quinq; vrbes 211a ciquicus incentæ ſunt wuum, et Gomorrhum præftantifsimæ fiudj erbantur.Harum in fauillis quædam noſcú. tur veſtigia; Giquidem cæleftis ignis reliquiæ adhuc perfiftunt. Quod autem illic admira bile perfpicitur.viridancia fpectantur poma, formaci vuarum racemi, nec quis elt, qui e dendi haud cupiditatem habeat: illa. autem manibus capta faciſcunt, et in cinerem refol. uuntur, fumuggsexcitant, quafiadhucarde ant. Ex Egeſippalib. 4. Magnam inter vterun, ammasinef Seſympathiam. On exiguus inter mulierum vterum, et mammas contéplatur confenfus: quip pe alterum alterius pathema oftendere on laruamus, A venis inter has partes coniunctis maximè ratio ošteditoriri ſympathiá:ex iis e nim materias ab vtrifq; contentis transferring etexonerari experimur.In menftruorum re dundantia Cucurbitula fub mammisappofita, fluxum cohiberi ab Hippocrate docemur,  Lactis copia in puerperis dum magna grauit q; fuerit, die feptimo puerperii octauo, 10 nog; in vterum à naturaefunditur. Suppreisi menfes in virginibus, et viduis caftis, non femel io mammasrefiliunt, et la et tis copiam fuſcitant. In mulierum pubertate accedente menftruo vtramq; parteni creſcere vidernus. Quo artificio Solis defectumfirmiter com prehendere paleamus. Aria induſtria pleriq; conantur folis defectam deprehendere;hocautem có pertum eft, artificio illius defectionem fir miter apprehendi, Pelues hora inſtanti capi. antur, quæ non aqua, fed aut oleo, aút pice implendæ ſunt; ratio enim fuadet, humorem pinguem non facile curbari, atq; imagines perinde, quas recipit conſernare. Equidem in magines in liquido et immoto tantum appa rereconfueuerunt, propterea in olen, et pi. ce, commodius, et firmius, quomodo Luna Solilc opponat, et illum abſcondat accipere poterimus. Ex Seneca in Natur. Quaft. Virginummammillarum tumorem acis cuta impediria Ac inter alias, cicuta pollet efficacia, vt contufa cum vmbeila, atq; virginü B H mammillis impofita, tumorem, et excref centiam valeat prohibere; fortaffe nutrimé cum impedit, quo minus augeantur, vt in pu crorun tefticulis fuccedit, fi hæc adhibetur: ijenim reatibus alimenti obtufis facilè ex iccantur. Aperiani in hoc loco quod à Bon doletio nultis experimentis comprobatum Teperio de piſce Squarina: hicenim mulie. rum mammis fuperpofitus, illas adeò con. ftringit, ve virginum mammillæ appareant; credunt multi in genitalibus eundem fimili ter effectum producere. Quercusgallis, anniprafagia comparari. Napoleon Onmodò à Plinio, verùm atq; à plea riſq; rei rufticæ ſcriptoribus obſerua tum fuiffe comperio, à gallis quercus maio sibus præfagium aliud anni, quodapud vece res in magno fuiſſe pretio,etopinione legi. tur. Aperiuntur gallæ, quando integræ funt, ibig; muſca, aranea, aut vermiculus repe. ritur: fiquidem planta hæc in gallis huiuſmo di aninialium gignere confueuit. Si mufca volar, angi fertilitatem et bellum futurum præſagiunt; ſin vermiculus repit, annonæ carentiam arguunt; fi autem aranea profiliet fummam caritatem, et peftilentes affectus prædicunt. His ego adderem, præfagia hu. iufmodi, fi Deo placuerit, confimiles ſecta. tur elientus. Vitri puluerem, calculos comminuere. ron folum Galenus, fed Anicenna, et mouendos vitri puluerem excollunt quomo do autem hæc fieret, plurimum infudiui; tandem quæ ab Abecizoare componitur,mihi ex voto ſucceſsit, et vitrum adurere didici. Capitur vieri albi, et perſpicui fruftulum, quod terebinthina coll nire oporter totum, nyox tandiù in prunis detinere, veexcandel. cat; hoc demum in aqua exſtinguicur, ſepti. eſg; iteratur, primò tamen linitur, fecundò cxcoquitur, vltimò extinguitur; quo peracto, vitrum conteritur, et in puluerem lubciliſsi mum mutacur. Propinamus languentibus au rei pondus vel drach.j. cum vino albo, et ef ficaciter calculos comminui experimur. Quo artificio aëris naturimexplorare valeamus. Eris qualitatem, et naturam cum ex plorare libuerit, fpongia bene ficca, atq; munda ſèreno cælo per noctem fub diuo exponenda eft; illa eniin fiſicca mane fuerit, ficcu's P5 АБЫ  liceus et aër erit; fi humecta,nimbolus; fi anoll cervda,humidus,acroridus Inſuper ft recente pané eadem induftria expofueris, di corrupto,ficuin contrahere videbitur;à fic co, fiec ficcus;ab Humido aucem, à ftacu pro prionon mutabitur.Siaër fuerit peftilens, carnesexpofitæ corrumpuntur,atque colo rem mutant;fic eciam et adipes.Siaércraf fus erit,patebit in marmore, et filicibus, qnę in cali natura admodum madere folent; cós tra verò in aere'tenui, liges humidus eſſet, hę enim in tali con ica humeſcunt. Ex CATO dano. Quali fratagemate homines, mortui Š videantur. Vltis experimétis confirmatum repe rio fublimatum, ffue aqua vitæ cum fale miſce tur, ac in patina (ſublata qualibet alia lua ce ) accenditur in cabiculo, nocturno tem pore, vbi homines reperiantur; fiquidem ipfi immobiles fuerint, fpeciem mortuorús repræſentabunt. Pleriq; vt Aethiopes fin gant, lucernam accendunt oleo plenam, cum quo ſepia atramentum fit dilucum, fi we calchantuni, aut ærugo, nec fine ratio ne:oftédit enim,lux eorû colores, quæ in iis sát quæaccédācur: oportet tamen iu cubi culorcliquas luces adimere, Nerein VA No Nereidesfaciehumana dy venufta, prezi que fuifferepertas Ereides, quas vulgus Birenas appela lat, plurimæ in locis maritimisinué tę funt;quodauté cátusdulcedine nauigātes hein foporem perliciant, et capiant,nos. in lib. 1. de Hominis vita, abundedifferui mus, vbi de Tritonibus, Nereidibus, ho. minibuſqs in maridegēribas, quos marinos vocant tractatur; Poetarumq; fabulæ eno. dantur, Vidithas Theodorus Gaza et Gee orgius Trapezont ius, homines nagnæ e ruditionis: Gaza in Pelepomeno exorta maris tempeftate, Nereidem proiectain in lidcore reperije viuentem, et fpirantem, ynleu hrniano, facie decora, corpore fqua mis hirto ad pubem vſq, cætera autem ia locuftæcaudam definebant: ad hanc viſen dam magnus fuit concurſus, illa tamen e vac maefta, crebrog, ſuſpirio fatigata et frequentia hominum circumdata gemitus dedit et lacrymas emiſit,quibusmacus mi. fericordia,ad mare deduxit, vbimagno im petu fluctus fecauit, et ex oculis omnium cuanuit. Quid Trapezontius, pleriqs. alii viderint, in loco cita. to narrauimus De Apunx natura, earumque mirabiliſa gacitate. Tu quidem anceps fui in fcrutanda A pummellificatione,foetu, et cera:nam et apud auctores magna reperitur controuer. fia, num illæ ge nerent, et aliundeprolem habeant.Poft auem exactum fcrutinium cu iufdam amici va lido experimento Ariftoter lis opinionem veram eflecomprobaui;fiqui dem Apese floribus fauos conftruunt, exar borum lacryma ceram fingunt, et mella ex aëris'rore captant.Hæ primum fauos confi. ciunt,mox fotin collocant, ore calidum ſpirantes,vt vitain recipiat.Mellificanræfta. te, et autūno cibi caufa;mel autem autinale cleatius eft.Foetus in vere ferotino debilis fit: nã et naiori ex parte emoritur. Multi aiunt oliuas, et examinum copiam cógenerem ha. bere nataram: nam fi altera augetur, alcera abundans fit: fi vna deficit,altera deprimitur ratio eft:nam mella ficcitates augent;lobo. lem verò imbres; quofit, vt ſimuloliuæ, et sopia examinam fit. Vinorum aliquot existere genera natura mirabilis. R aliquot vinorum genera mirabilis naturæ quod? co A quod vua et guftu, et fenfuà cæteris minime diſcrepanr, nec vinum á ymis; tamen quod Heracliam Arcadiæ fit, viros reddicinfancs epotum, et mulieres fteriles: et apudcabyni. am Achaiæ abortum facic: et in Thiffo vi num quoddam lomaum producit; quoddam verò, vigiliam Ex Tbeophraſto lib.9. Plant. Quoartificio ignem manibus abſque læfione tractare valeamus. Pud plerofque fcriptores inueni, ig nem fine læſione poffe tractari, fi tri. tomaluauiſco cum ouorum albumine, ma.. nus liniuntur,ac defuper alumen inducitur.. Hoc autem experimentuin à Magno Alber to captum eſt, apud quem aliud legitur hu. ius negotijartificium:fi enim Ichthyocolle, et aluminis æquales partes capiuntur, et ad inuicem commiſcentur, fiacetum his ſuper funditur; quicquidtali miſcellanea illitum in ignem proijcitur, vtique non comburie tür. Menftrua in ſenio ferèquibufdam fæminés 46 cidere. Vàm fallax fit tum Ariſtotelis, tum ali orum iudicium,quodin mulieribuscir ca quadragefimum annum,fiue quinquagefi mum menftrua deficiant, quotidiana demone strat experiencia. Mulierem hic cognoui, Qyour P7 Victoriam nomine, eamque honeftam et bene morigeratamshuic in anno 45.méftrua ceffarunt, et faufta valetudine vixit,cum au tem fexagefimum ferè annum attingeret, ce teilli menfes rubei,bonique coloris redie. De vberague, quæ priusflaccida erant,more: virginum turgidula facta ſunt lactifque tan ta copia impleta,vt impulſu ferretur: quarez, vt puerulú filiæ fuæ lactaret àmeadmonita eft. Alteram cognoui, quæ vfque ad annum 65.femper menftrua paffa, et hodie viuit, et menftrua fingulis menfibus fuentia habet Hæcautem raròcontingunt.. Bufonislapidem contra venena mirabileinha bere virtutem. Pleriſque lcriptoribus excollitur lapiss ille terreſtrisinuenitur: ſiquidem contra venena folo contactu valere expertü eft; propterea inflationes abeftijs venenatis illatas diſcute re, venenúq; elicere aiut.Scribit Lemnius, tu mores, et dolores ex forieibus,araneis, vel pis,fcarabeis,gliribus, aliifuevenenofis 2. nimalibus caufatos fclo lapidis blaul do attritu.euanef cere Aquarum Fluuios natur& mirabilis repe $ rire. N multis locis aquarum exortas, mira cfficaciæ inuenirilegimus Scribit Arift. in terra Aſsirithidæ aquas naſci, quas cum oues biberint,moxgs inierint, nigros agnos generare. In Arandria dnos ineffe fluuios ad.. notauit, quorum alter candorem, alter nio gritiem facit pecoribas:at Scamander am gis, quem Homerus Xanthuniappellauit, fia uas reddere oues creditur. Mirabilers in concepta imaginationis effe per rentiam Maginationis potentiam tam miram effe Phyfici confitentur ve viſa per cóceptum in partu fæpiſsimè eluceſcant. Referam hi ftoriain admirandam ex Ludouico Vives 12; de Ciuit.Dei de huius negotio conſcriptam In Brabantia Buſco ducis quædam vrbs eft, in qua more eiufdem Prouinciæ quodam die rempli vrbis feſtum celebratur, quo tempore varii ludi apparantur.Sunt aliquot, qui ſtato die diuorum perſonas induunt:nönulli vera Dæmonů.Ex his vnus cū viſa puella exarfif. fet, et demúfaltado ſe ſe recepiſſet, et apreprā Vt er at perfonatus vxore fua in le &tum con. ieciſiet,ſe exeaDanonem gignere velle di.. cells  D cens, concubuit, et concepit inulier: clim autem in partuinfantem peperiffet,'s fimul ac primum editus eft, Calcitare cæpit forma, quali Dæ nones pinguntur. Dentium.stupores à portulaca confeftim amoueri: Entium ftupores,qui ab acidis.edulijs Connarci confueuere,ex aqua aut luc co, vel frondibus portulacæ commanfis, quam citifsimèdiffoluuntur.Ipfe cum qua-. damæftate cùm fiti maxima, tùm dentium: ftupore affligeretur,cömanfis ipfius frondi bus, &à fit, &à ftupore fubito liberatussú, Ab amico quodam audiui parculacæ fuccúi collinitum,abfque dubio verrucas exter minare,mihiautem experiundi locus haudi adhuc datus eft. Ex Aphrodiſeo, Ceraferum aquam ftillatitiam in Epilepfia ! fummumeſſeremedium. Ninitis experimentis Ceraſorum aquam 10 laccurrendis Epilepticis conprebari reperio propierea à loanneAgricola in lib.. Herbar.maximèetiam extollitur. Qua pro vita producenda inter arcana natu 12 connumerentur. APudreru naturalium (crucatores acer rimos inueni, idque in arcanis conſer wari Hellebori nigri fólia Saccharo cómilta degluci deglutientem ad iuglandis magnitudinenia in offenſam valetudinem, ad ſenectutem vſ. que conſeruari.InfuperSilicem ignitum lin. teiſque parum madidis inuolutum,& pedi. bus applicitum,pernicioſos valetudinis vaki pores extrahere. Quoartificio in mulieribuscrinesdenfiores, copiofiores comparare paluamus. Nter ſelectiſsima prælidia, quæ ad capil lorum copiam generaodam ineffe cre duntur,Maluæ radix connumerari poteft:: fi enim caput mulierum livinio lauatur in quo elixa fit maluæ radix, et deinde fucco maluæ crines, inungantur, profecto ya bercim prouenient, et cicila fimé. Giulio Cesare Baricelli (n. San Marco dei Cavoti) è un filosofo.  De hydronosa natura sive de sudore umani corporis Hortulus genialis Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu  implicatura sudorosa  de hydronosa natura  de medicinae praestantiae  amazones cur mammas dextras resecaverint  olearum sterilitatis praesagium  nili flumines proprietas  de mundi creatione  murium sagacitas  pluviosa tempestatis prognostica  agricolas non semper tempestates et serenitates praedictunt  valeriana miravis contra epilepsiam  transformationes hominum in bestias non esse reales  daemonis astutia apud indos  quid picus de scientiarum  varietatis sentiret  subditos principis vitam ut plurium imitari  rutam et allium serpentibus adversari  animalis oriri et vivere posse in igne compertum est  lacus asphaltritis mirabilis naturae  pisces marinos salubriores et rapidiores fulminibis esse  mulieris   hominos  cibus  gigantes in orbem  mulieres  excellentia  falsissimum est salamandran in igne vivere posse  sabbatici  lactandis infantibus  menstrualis  pharmacum  animal  tauri  faxa  aegypti reges  sterilitatis praesagia  aeris salubritatem  lintea  hominibus  hydropes  plenilunio  nationibus romulus serpentaria  echinum  animi pudorem  animalia  alexandri morti  sanari  cervi sudori  vires  balnei  adam  rutam  verbenam  anima  aeris  sulphuris   caraba  baccas  linguam  galli  homines  magis  fuco  cacoethica  vipera  traulos   morbos  lupi  vitrum  pregnantes  periculo  pro corporis  corporum hominum  utero  paterna  araneus telas  menstruali  rutam  corpora  achatis  hominibus  hominem  utero   praesagium  utero  tritico  scorpionum  hominibus  bubulo  epilepsiam   arbores lapides  bardana  literas  homines  hominibus  hominibus  filios parentibus signum  mare rebrum  hydrargyri  lupum  epilepsia  flatu  corpora  pestilenti  efficacia  animalium  seminis basilicum  torpedinem  animalia  armenia  febre  lumaca  amantissimam  astronomiam  martisque  passione  cantharides  adagium  parere fetus  iucundi de amoris origine  aqua  virtutes  sagacitas  lapidis  naturam  partus  amorfus  equorum  spectacula  marinum vitulum  epilepsia  vinum  homines  homines  cervi  gagatis  epilepticos hominum  laudano  mortem  pacto  a viro  hepaticos  mortem  mithridatis  ossa  bryonia  herpetes  vina alba  flores  absynthium  chalcantho  coralio  lethargicos  infantes  prunellae  catuli  gallum  corios  artificio  theodorus  radicem  dilligentes  canicula  quatuor elementis  phreneticos  digitum carnes  vicera  testiculis  dentium   hippocrate  animalibus  apii  satyrii testiculum  hominibus  radicem  hominis extractum  praesidia  hominem  antidotorum  cancri  quomodo  morbi  animantium  pulchritudine  septentrionalibum  hemorraghia   lingua ardor  aegyptios gentium  solis  animalium  cervorum  masculinum fetum  mirandulani  hydrargyro  incognita  tempestates  epiro  hecla  hominum  galenum  graecos  cane  athritide  lionem  iumenta  acutis  acetum  piscis  foeminas  corporis  alexandrum  hominum   ruditas  angina  capillos  volucrum  agricolas  galege  infantis  oryalum  homines  lapides  collegium  alexandrum  laparhiorum  feminum  aegyptios  methodo  olivarum  admirandu  millepedum   frequentem  mulieres  daemonum  carduum  infantes  menstrualem  corpori  medicina  animalia  unicornu  mulierum  naturalem  febris  precognosci  medicis  masculorum  hydrargiri  bryonia  consolidanda  chymicam  corpus  hominum  venenum  semen  lupos  homines  luna  leonardi  hominibus polypidium  ibidis  mulieres  industria  corpora  gallicam  hominis  hominibus  regem  homines  aquilone  usum  usum  oleo  genus  leones  artificio mergum  lacertas  educandis  artificio  serpentes  virginitatem  virginale  vitellos  humana vita  vena  materia  alexandri  mulieres  hydrophobos  puerorum   labiorum  utero  semine  aegyptorum  taxi  epilepsiam  aspides  infantes  vitrum  homines  vini  syrium  nuptis  agreste  hydrophobiam  hepatis  viventes  arundinem  cynanchem  parere filios  vino  praesagia  gallinarum  aquam   mandragoram  corpora  vita hominibus  semina  infantium  vitam  philomelam  castorem  duces  lingua  vinum  equorum  croci  hominis  aspidum  hermaphroditos  imaginationis potentian  climactericos  inter homines carolum  animantia  liberos  garamantes  caminus  horologium  infantium  praesagia  vinum  virorum  familiarem  romanos  ambarum  tympaniam  venenum   toxica  socrati  magia  epistolam  aqua frigida  menstruorum  lapides  homines  testiculos  humanam salivam  homines ridendo   parthi  partum accelerare  serpentum  hydrargyrum vim  anginam  vermes  mamillis lumbricos  infantis  elephantiasim  cyprinorum  leporine  hydrargyrum  gravidas  homines abstemios — aristolochiam  alexandro morbis  creta  cyprini  calphurnius bestia romanus aceto oleum  scythae  catellos  plurima  martis  robusta hominum corpora  equum  homini lunae  mithridiatu  viscum  vites  betulae haemorrhoidalem  dentium dolores  sodomi uterum  solis  virginum  praesagia  vitri  aeris  homines  facie humana apum natura vinorum ignem menstrua virtutem aquarum in conceptu imaginationis esse potentiam dentium stupores epilepsia pro vita producenda mulieribus Giulio Cesare Baricelli. Keywords: sweat, il sudore umano, sudore e la regola, stirgilo, amore, Socrate, Aristotele, controversia sull’origine del sentiment dell’amore, Socrate, l’idea di causa in Aristotele.   Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baricelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – Grice e Baroncelli: l’implicatura conversazionale della compassione – filosofia ligure – filosofia italica – scuola di Savona -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Savona). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Savona, Liguria. Grice: “I like Baroncelli – he can be hyperbolic – “Mi manda Platone,” surely he only requested! My favourite is his ‘compassione,’ which is ‘calco’ of ‘sumpatheia’ and therefore at the core of my balance between conversational egoism and conversational altruism.” Flavio Baroncelli (Savona) filosofo  Nato e cresciuto a Savona, si laurea in filosofia all'Genova con relatore Romeo Crippa, di cui diventa assistente.  Insegna Storia dell'età dell'Illuminismo all'Trieste.  E di nuovo a Genova, dove tiene la cattedra di Storia della filosofia moderna.  Viventa ordinario all'Università della Calabria. L'anno successivo ritorna a Genova dove prende la cattedra di Filosofia morale. Un grave incidente motociclistico durante una vacanza in Turchia lo allontana per qualche periodo dall'insegnamento e dalla ricerca, attività che riprende all'inizio degli anni novanta come visiting scholar all'Madison, nel Wisconsin.  Nel frattempo collabora con molti quotidiani e periodici, come La Voce di Indro Montanelli, Village, Il diario della settimana, il Secolo XIX.  Tornato a Genova, diviene molto amico del filosofo Franco Manti, segretario generale dell’Istituto Italiano di Bioetica. Riprende la vita accademica per allontanarsene a causa della malattia.  Il pensiero di B. ripropose un'etica planetaria alla luce del mondo globalizzato, invitando a riconsiderare i valori e le identità storiche dei gruppi umani occidentali riorientandoli a favore di un sistema di valori e di identità individuali e culturali di tipo mobile e pluralistico. Ha qualificato le varie culture come sistemi aperti in grado comunicare e di essere traslati o esportati ovunque nel mondo, nella convinzione che gli esseri umani appartengano tutti alla stessa specie e siano tutti abitanti dello stesso pianeta.  Pensiero e la ricerca Profondamente influenzato da Hume e dallo scetticismo inglese, si è occupato in prevalenza di temi etico-politici come il razzismo, la tolleranza, il liberalismo e il politically correct.  Altre saggi: “Un inquietante filosofo perbene: saggio su Davide Home” (La Nuova Italia, Firenze); “Sulla povertà, idee leggi e progetti nell'Europa moderna, Herodote, Genova-Ivrea); “Il razzismo è una gaffe” “Eccessi e virtù del "politically correct", Donzelli, Roma); “Viaggio al termine degli Stati Uniti Perché gli americani votano Bush e se ne vantano” Donzelli, Roma); “Mi manda Platone, Il Nuovo Melangolo, Genova Saggi "Giustizialismo" in Ragion Pratica, "Post-fazione" a Lysander Spooner, No treason, "Etica e razionalità. Un finto divorzio?" in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il riconoscimento e i suoi sofismi" in Quaderni di Bioetica,  "Come scrivere sulla tolleranza" in Materiali per una storia della cultura giuridica.  Note  Franco Manti per la fondazione Pubblicità progresso, Manti, Diversity, Otherness and the Politics of Recognition, in Nordicum-Mediterraneum,  14, n. 2, Akureyri,, Ospitato su archive.is. Citazione: To B., a friend I met only too late, / whose lively intellect, critical sense, friendliness / and clever irony I just had time to appreciate.  Info dalla pagina del Dottorato in filosofia dell'Genova. Registrazione audio[collegamento interrotto] dell'intervento a una trasmissione di Radio 3 dall'archivio RAI Trascrizione di un dibattito con gli studenti sulla tolleranza dal Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational Necrologi Bertone, Vittorio Coletti, Salvatore Veca e Pietro Cheli. Altri dello scrittore Morchio e dell'amico Miggino. Sezione speciale della rivista Nordicum-Mediterraneum dedicata a B.. Pagina di Wordpress B. con alcuni testi inediti. Flavio Baroncelli. Keywords: compassione, filosofia ligure, Home, etica, ragione, giustizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baroncelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Barone: l’impliacatura conversazionale del linguaggio – scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I like Barone, but I’m not sure he likes me! You see, in Italy, there’s ‘scienze filosofiche,’ and ‘scienza’ was indeed a way to describe philosophy! But at Oxford, you have to take the great go! Lit. Hum., and I doubt Barone did! – ginnasio e liceo, as the Italians have it! Therefore, his views on ‘filosofia e linguaggio,’ never mind his rather pretentiously titled ‘logica formale,’ ‘logica trascendentale,’ ‘algebra dela logica,’ etc. have little to do with, well, Italian!” Laureato in Filosofia a Torino nel 1946 come allievo di Guzzo e Abbagnano, visse a Viareggio. Professore di Filosofia teoretica all'Pisa, dove fu preside della facoltà di Lettere e filosofia, fu poi docente di Filosofia della scienza nonché direttore dell'Istituto di Filosofia nella stessa università. Insegnò anche Filosofia morale alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Si dedicò soprattutto a studi di storia e filosofia della scienza, pubblicando numerosi libri. Curò l'edizione italiana delle opere di Niccolò Copernico. Socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino, della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, e dell'Accademia Nazionale dei Lincei, a Milano fu presidente del Centro del C.N.R. di studi del pensiero filosofico del Cinquecento e del Seicento in relazione ai problemi della scienza.  Pensiero Particolarmente interessato alla filosofia di Nicolai Hartmann, B. ne trasse spunto per un confronto tra la dottrina realistica e quella neoidealista. La sua riflessione filosofica si sarebbe poi focalizzata sui problemi epistemologici e della filosofia della scienza.  Come pubblicista affrontò temi etico-politici sul rapporto tra individuo e società dal punto di vista della ideologia liberale e liberista.  Il tema principale delle opere di Barone riguarda la filosofia della scienza e la storia della scienza e della tecnica. Si deve a lui la prima pubblicazione in Italia di una monografia sulla filosofia neopositivistica.  Il suo pensiero si contraddistingue per lo stretto rapporto tra epistemologia e storiografia della scienza, settore, questo, in cui Barone ha preso in particolare considerazione il tema della nascita dell'astronomia moderna, da Niccolò Copernico a Keplero e Galilei.  Intorno agli anni sessanta, inoltre, Barone si è dedicato con particolare attenzione agli sviluppi culturali, epistemologici e filosofici della nascente informatica.  Altre saggi: “L'ontologia di Nicolai Hartmann” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Rudolf Carnap, Edizioni di Filosofia, Torino); “Wittgenstein inedito, Edizioni di Filosofia, Torino); “Il neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino); “Assiologia e ontologia: etica ed estetica nel pensiero di N. Hartmann, Torino); “Leibniz e la logica formale, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicolai Hartmann nella filosofia del Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino); “Logica formale e logica trascendentale,  I, Da Leibniz a Kant, Edizioni di Filosofia, Torino); L'algebra della logica, Edizioni di Filosofia, Torino) Metafisica della mente e analisi del pensiero, Edizioni di Filosofia, Torino) 1748: viaggio di Hume a Torino, Edizioni di Filosofia, Torino); “Mondo e linguaggi” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Determinismo e indeterminismo nella metodologia scientifica” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Concetti e teorie nella scienza empirica, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicola Copernico, Opere (F. Barone), POMBA, Torino); “Immagini filosofiche della scienza, Laterza, Roma-Bari); “Pensieri contro, Società Editrice Napoletana, Napoli); Teoria ed osservazione nella metodologia scientifica, Guida, Napoli); Verso un nuovo rapporto tra scienza e filosofia, Centro Pannunzio, Torino); La fondazione dell'ontologia di Nicolai Hartmann (F. Barone), Fabbri, Milano); Leibniz, Scritti di logica (F. Barone), Zanichelli, Bologna). Note  Francesco Barone, Neopositivismo, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Barone, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sito ufficiale, su francescobarone.  Francesco Barone, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  B., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Barone, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere B., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco Barone,.  David Hume, il filosofo della non certezza di B., La Stampa, Addio a B. il filosofo che diffidava dei paradisi in terra di Dario Antiseri, Corriere della Sera, Archivio storico. Francesco Barone. Keywords: linguaggio, assiologia, la semantica di Leibniz, la sintassi di Leibniz, logica matematica, logica formale, logica trascendentale, logica aritmetica, Hume a Torino, simbolo, logica simbolica, Leibnitii opera philosophica, assiologia ed ontologia, mondo e linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library. Barone.

 

Luigi Speranza -- Grice e Barone: all’isola -- l’implicatura convrsazionale della dialettica fiorentina – scuola d’Alcamo – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Alcamo). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Alcamo, Trapani, Sicilia. Grice: “I like Barone; at last a priest that takes Italian humanism SERIOUSLY!” --  Dopo avere finito gli studi teologici nel Seminario Vescovile di Mazara del Vallo, fu ordinato sacerdote  Frequenta, quindi, la Pontificia Università Gregoriana di Roma dove conseguì la laurea in Filosofia trattando la tesi dal titolo: L'Umanesimo filosofico di Giovanni Pico della Mirandola.  Ebbe subito la nomina di Canonico della Collegiata di Alcamo, poi quella di Vicario foraneo e Visitatore dei Monasteri;  fu nominato anche Canonico Onorario della cattedrale di Trapani.  Nel mese di novembre 1956 fu pure nominato Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua Santità; fu quindi professore di lettere e filosofia del Seminario di Mazara del Vallo e, per 16 anni, delegato Vescovile alla dirigenza dell'Istituto Magistrale legalmente riconosciuto "Maria Santissima Immacolata" di Alcamo.  Per diversi anni, è stato anche Rettore della Chiesa della Sacra Famiglia e della Badia Nuova; inoltre è stato membro del Consiglio Presbiteriale diocesano e docente di Filosofia presso il Seminario Vescovile di Trapani. Altre opere: “Il Santuario; Alcamo); “La Nuova parrocchia di S.Oliva; ed. Bagolino, Alcamo); “Giovanni Pico della Mirandola profilo biografico del celebre umanista; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “L'Umanesimo Filosofico di Giovanni Pico della Mirandola Studio del Pensiero Pichiano; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “Quattro saggi; ed. Accademia degli Studi "Ciullo", Alcamo); “Donna IdealeIdeale di donna; ed. Accademia degli Studi "Ciullo", Alcamo); “Didactica Magna di Comenius (traduzione italiana); ed. Principato, Milano); “Scuola Libera, ed. Bagolino, Alcamo); “Il Vero Maestro -Lineamenti di educazione; ed. Bagolino, Alcamo); “Verità e Vita; ed. Cartografica, Alcamo, De hominis dignitate, di Giovanni Pico della Mirandola, Firenze); “La Congregazione di Gesù Maria e Giuseppe nella chiesa della Sacra Famiglia di Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo); “La più bella preghiera, Alcamo); “Antologia pichiana: letture filosofico-pedagogiche; ed. Virgilio, Milano); “La docta pietas, di Sebastiano Bagolino erudito alcamese; tip. Bosco, Alcamo); “Maria fonte di Misericordia e Madre dei Miracoli Patrona di Alcamo; tip. Sarograf, Alcamo); “Dialogo con gli invisibili; tip. Bosco, Alcamo). Note  trapaninostra,// trapaninostra /libri/ salvatoremugno Poesia_narrativa_saggistica /Poesia_narrativa_e_saggistica_ in_provincia_di_Trapani_02.pdf  Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, trapaninostra,//trapaninostra/ libri/s alvatoremugno/ Poesia narrativa_saggistica/ Poesia_ narrativa_ e_saggistica _in_ provincia_di_Trapani_ Vincenzo Regina Tommaso Papa Identities -Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo  Letteratura  Letteratura Categorie: Presbiteri italiani Insegnanti italiani Filosofi italiani Professore Alcamod Alcamo. Giuseppe Barone. Keywords: dialettica fiorentino, pico, umanesimo toscano, pico, pichiano, pichismo, uomo, degno, la degnita dell’uomo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Barsio: implicatura conversazionale dialettica – scuola di Mantova – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Mantova, Lombardia. Grice: “I like Barsio – he reminds me of G.Baker – there he is, Baker, succeeding me – and an American! – as tutorial fellow in philosophy at St. John’s, and dedicating his life to Witters – So when reminiscing, in my “Predilections and prejudices” about them years, I said, “God forbid that you dedicate your life to the oeuvre of a minor philosopher like Witters – it’s good to introject into a philosopher’s shoes as you attain to grasp the longitudinal unity of philosophy, but look for a non-minor pair of shoes!” – “Barsio is a radically minor philosopher – in that, he never had to grade – I always hated grading and seldom did it! – since he lived under the Gonzagas at Mantova – and he just phiosophised to the sake of the pleasure he derived from it! My favourite is his elegy to his enemy, Pomponazzi – but his satirical curriculum vitae is fantastical, but possibly true!” -- Noto anche come Vincenzo Mantovano, frequentò le corti del marchese Federico II Gonzaga e di sua moglie Isabella d'Este, alla quale pare avesse dedicato il poemetto Silvia e la corte del marchese di Castel Goffredo Aloisio Gonzaga, al quale dedicò il poema latino Alba. Studia filosofia a Bologna. Altre opere: “Silvia, poemetto in tre libri, Pamphilus; Alba, dedicato al marchese Gonzaga, signore di Castel Goffredo; Labyrintus, dedicato a Federico II Gonzaga. Ireneo Affò, Vita di Luigi Gonzaga detto Rodomonte, Parma., su books.google. Gaetano Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, Milano, Coniglio, I Gonzaga, Varese, B. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  ICCU. B. su edit16 .iccu. Marsio. Vincenzo Barsio. Barsio. Keywords. dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barsio” – The Swimming-Pool Library. Barsio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Bartoli -- BARTOLI search.gianpaolo --

 

Luigi Speranza -- Grice e Barzaghi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della scuola di anagogia – scuola di Monza – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Monza). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Monza, Lombardia. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his “Compendio di storia della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice: “Barzaghi is the Italian Copleston – what is it with religious minds – cf. Kenny – that have this inclination towards the longitudinal unity of philosophy?!” – Grice: “Barzaghi just ignores the most prosperous period in Roman philosophy; not so much Romolo, but whatever happened in Rome after that infamous ‘embassy’ of Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and Diogoene di Celesia, a stoic!” --  Direttore della Scuola di anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo di Bontadini e frate domenicano, è stato l'interlocutore privilegiato di Emanuele Severino sulla questione di Dio e del cristianesimo.   Nella sua opera Oltre Dio, B. si interroga dapprima sull’essenza del cristianesimo per giungere ad affermare la necessità, per il credente, di assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo la vera comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la partecipazione della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo occorrerà porsi dal punto di vista di Dio, cioè dell’eterno. Secondo B., l’Essere assoluto «non può essere inteso come qualcosa accanto ad altre cose, e conseguentemente diviene il punto di vista rigoroso per l’ispezione del tutto. In questo senso, la filosofia di Emanuele Severino, che si presenta come alternativa al teismo, offre in realtà per B. il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore dell’esistenza di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo dell’opera, che evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è eterna, e tale dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad apparire, eternamente, anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –, se tale apparire non permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia coscienza, perché consta l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque continuare ad apparire in modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di Dio cui eternamente appaiono gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio, cioè Dio, significa ammettere che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un niente nel momento in cui non appare più determinatamente, individualmente. Questa scienzachiamata nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia dell’apparire infinito di cui parla Severino nei suoi scritti. Nel pensiero barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.  Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la proposta di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo di individuare nella “dottrina dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero d’Aquino. L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi nel massimo della complessità. Ma per compiere questa operazione di analisi, occorre esprimersi attraverso l’analogia, «riflesso logico gnoseologico dell’ordine ontologico e mezzo inventivo ed espressivo del conoscere, che acquisisce conseguentemente una notevole importanza nel pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si trova il centro della spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta in modo simultaneo tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine, l’agente che intende il fine, la forma implicata, e la materia che la deve accogliere. E l’esemplare trascende la mera dimensione funzionalistica: in quanto contiene tutto (compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato), è una totalità, e possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza: è «sottratto alla dipendenza e al dominio. In una frase, che sintetizza bene il punto di vista anagogico della filosofia e della teologia di B.: «Dio, conoscendo se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie della propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p. 96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p. 98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in tutto).  Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe Barzaghi ed Emanuele Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le posizioni della teologia cattolica tomista e quelle della filosofia severiniana. Il dibattito trovò, al di là delle aspettative degli organizzatori, alcuni punti di possibile convergenza, che portarono il filosofo-teologo alla pubblicazione di Soliloqui sul divino, in cui l’autore cerca per la prima volta di rileggere le intuizioni di Severino in un modo che egli definirà più tardi voler essere quello con cui Aquino, filosofo e teologo cristiano, leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento filosofico di Aristotele, filosofo pagano. Ciò rese il rapporto fra i due pensatori un dialogo di reciproca conoscenza e stima. Severino dedica a B. un articolo sul Corriere della sera, in cui indicava il sacerdote monzese come il fautore del più interessante tentativo di riportare la sua filosofia al contesto cristiano da cui si era volontariamente staccato. In tale articolo, il filosofo ateo definiva “aperto” il dilemma sulla possibilità o meno per il cristianesimo di porsi come casa abitabile per l’uomo contemporaneo, a patto però di diradare, sull’esempio di Barzaghi, la nebbia che circonda il discorso religioso attraverso una ripulitura dei concetti a partire dal punto di vista dell’eterno. Seguirono poi altri dibattiti pubblici, come quello a Milano e quello a Bologna. Altre opere: “Metafisica della cultura” (Bologna, ESD); “L’essere, la ragione, la persuasione, Bologna, ESD); “Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell’essere, Bologna, ESD); “Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Bologna, ESD); “Philosophia. Il piacere di pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre Dio, ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Bologna, Barghigiani); “Maestro Eckart, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il Cristianesimo sub specie aeternitatis, Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena, Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia, Bologna, ESD); “Compendio di filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga. Esercizi di filosofia, Bologna, ESD); “L’originario. La culla del mondo, Bologna, ESD); “Il fondamento teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar, Bologna, ESD); “La maestria contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD); “Il Riflesso, Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna, ESD); “Il bene comune secondo S.Tommaso d’Aquino, in “Communio”  L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto di “gioia”,in I. Valent, Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele Severino, Bergamo, Moretti et Vitali); “I fondamenti metafisici della mistica, in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline,  La potenza obbedienziale dell’intelletto agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi, Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio e abbandono. Eckhart e Aquino: le due facce di un'unica metafisica, in C. Ciancio, Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero); Anagogia epistemica, in R. Serpa, Antropologia, metafisica, teologia. Studi in onore di Battista Mondin, filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum argumentum di Anselmo d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere logici nel Logos, in T. Rossi, Figurae fidei. Strategie di ricerca nel Medioevo, Studi, Roma, Angelicum University Press, Anagogia: voce in “Enciclopedia Filosofica”, Milano, Ed. Bompiani, L’epistemologia teologica di Tommaso d’Aquino. Analisi e approfondimento, in G. Grandi L. Grion, Rivelazione e conoscenza, Soveria Mannelli, Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile oltre Gentile verso una rifondazione metafisica dell’antropologia tomista. Ovvero le virtualità tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la corporeità umana, in “Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del sapere filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus Thomas” Mistica cristiana come estetica assoluta, in  Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia, metafisica e anagogia, in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo riflesso nella ragione, in “Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso. L’inseità mistica della ragione, in A. Olmi, L’eredità dell’occidente. Cristianesimo, Europa, nuovi mondi, Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore. Saper nuotare negli affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il Fondamento, in V. Lagioia, Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia University Press, Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo metaforico di Aquino. Teoresi e struttura. Riflessioni e approfondimenti sulla rigorizzazione bontadiniana, in “Divus Thomas” Creazione dal nulla o relazione fondativa, in S. Pinna D. Riserbato  Fenomeno et Fondamento. Ricerca dell’Assoluto. Studi in onore di Antonio Margaritti, Città del Vaticano, Ed. vaticana, Anagogia e teoria del fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La trasparenza nella trasposizione, in M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi dell’Assoluto, Milano, Mimesis,, L’eternità dell’essente in teologia, in G. GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi 60 anni de ‘La Struttura Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito con E. Severino, in “Divus Thomas”. Il quadro anagogico e i segreti della musica di Bach. La Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga, in “Divus Thomas”. Postorino, La scienza di Dio. Il tomismo anagogico di G.i...  Data l'importanza dell'anagogia nel pensiero di Barzaghi, gli è stata commissionata la stesura dell'omonima voce sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani), nonché, sul versante teologico, la voce «mistica anagogica» sul Nuovo dizionario di mistica dell’Editrice vaticana.  RaiCultura: Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto  Dialogo tra Severino e B. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, Dionigi, I nomi divini (testo critico di M. Moranicommento di G. Barzaghi), Bologna, ESD,, II, 3.  All'alba dell'eternità. I primi 60 anni de 'La struttura originaria' (UniPa)  Apocalisse Cfr. B., Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, Bologna, ESD, Santiago María Ramírez op, De ordine placita quaedam thomistica, Salamanca, San Esteban, Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena, Cantagalli,  UniPdL’eternità dell’essente  RaiScuola: Giuseppe Barzaghi. Dio e il concetto filosofico…  Si veda ad esempio: E. SeverinoG. Barzaghi, L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire, in: “Divus Thomas” Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa  Dialogo Severino-Barzaghi a Milano  Giornata di studio dello Studio filosofico domenicano di Bologna  RaiCultura. Giuseppe Barzaghi, Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto su raicultura. Interviste ai filosofi: Giuseppe Barzaghi su you tube.com. Giuseppe Barzaghi. Keywords: scuola di anagogia, ana-gogia, il quadro anagogico, anagogia, greco ‘anagogia’. Implicatura storica, la porta di velia, girgentu, l’implicatura di milesso, il segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di anagogia, Bologna, fidanza, Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata greca a Roma, filosofia, la scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di Leonzio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library. Barzaghi.

 

Luigi Speranza -- Grice e Barzellotti: la ragione conversazionale e  l’implicatura conversazionale – scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “The good thing about Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he pours in all his expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality – so he can understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt with the ‘dialectic,’ Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a ‘Roman’ dialectic --. He of course never considers English interpreters, only German! And refutes them!” -- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical of the idea of ‘Italian philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford school of philosophy,’ – Philosophy has no country-tag; she belongs to humanity; a DOCTRINE, or a school, may have a ‘national’ identification – And part of the problem with Italian philosophy is that there was Italian philosophy before there was Italy!” Grice: “My favourite is his tract on Cicero, who he sees as an Italian!” -- Senatore del Regno d'Italia. Allievo di ROVERE (si veda) e di CONTI (si veda), entrambi filosofi spiritualisti, si professa poi seguace del criticismo. Si interessa soprattutto alla storia della filosofia latina con particolare riguardo ai problemi di psicologia artistica e religiosa. Ha la cattedra di filosofia morale a Pavia e Napoli. Divenne professore di storia della filosofia latina a Roma. È ammesso ai Lincei. Nominato senatore del Regno d'Italia. È iniziato in massoneria nella loggia Concordia di Firenze, appartenente al Grande Oriente d'Italia.  Altre saggi: “La morale nella filosofia positive” (Firenze: M. Cellini); “La rivoluzione italiana” (Firenze: Successori Le Monnier); “La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica” (Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di Arcidosso (detto il santo), Bologna: Zanichelli);  “Monte Amiata e il suo profeta, Milano: Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi psicologici” (Bologna: Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna: Zanichelli); “Taine, Roma: Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo: R. Sandron). Note  Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, Cappelletti, Giacomo Barzellotti, in Dizionario biografico degli italiani,  7, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Barzellotti, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.B. su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. B. su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca.  Opere di Giacomo Barzellotti, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di B., B., su Senatori d'Italia, Senato della Repubblica.  Filosofia Filosofo Filosofi italiani Professore Firenze Piancastagnaio Accademici dei Lincei. Se questa ricostruzione, che vengo tentando, del movimento filosofico in Italia, rigidamente obbedisce alle leggi di una storia della filosofia, alcuni filosofi, che rientrano nel nostro quadro, ne andano certamente esclusi. Lo notammo a proposito di ROVERE (si veda); e torna opportuno dichiararlo per B.. La prima legge della storia della filosofia è, che il suo oggetto è costituito dal pensiero filosofico, ossia dalla metafisica, o concezione della realtà, che voglia dirsi. E però non potranno far parte di essa gli spiriti che a questa concezione non abbiano comunque lavorato,o che non ne abbiano sentito il bisogno o che non ne abbiano avuto le forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze, benchè vivamente desiderasse di pervenire a una filosofia, e ben presto creasse a se medesimo l'illusione di esservi pervenuto. B. pare invece che non abbia sentito il biso gno; e, ingegno letterario anche lui, abbia cercato nell'attività este tica piuttosto che nella speculativa il vanto di scrittore: più accorto in ciò e sia detto a sua lode del Mamiani, che per voler essere quel che non era, non fu nè anche quel che fino a un certo segno,avrebbe potuto essere. B., invece, è stato uno degli scrittori italiani più noti e più letti dell'ultimo trentennio del secolo: il suo nome può dirsi a buon dritto che sia divenuto popolare: il solo forse tra quelli di scrittori di cose filosofiche. Chi non ha letto i due volumi di saggi pubblicati dallo Zanichelli: Santi, solitari e filosofi e Studi e Santi, sol.efil., saggi psicologici, Bologna, Zanichelli, 2.a ediz., ritratti? A questa popolarità egliappuntoaspirava,consciodelle attitudini del suo ingegno; e ha messo da parte i problemi, a cui non era nato. Li ha messi da parte come fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandone il valore. Ma nell'averlimessi intanto da parte per suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi, solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasia breve, la prego,non più che dieci righe, perchè, quaggiù, vede,ha da seri vere anche la mia nipotina ». Vale a dire: B. ha bensì aspirato ai posti distinti dell'insegnamento filosofico. C'era avviato,era quella la sua car riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore, fino alla cattedra di storia della filosofia nell'università di Roma; ma egli non ha potuto mai persuadersi che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale. La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta» aquelladichigli venne sempre chiedendo a quale sistema egliaderisse; opposta «appunto in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da quanti oggi vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la dimostrazione critica dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma sistematica d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la scienza». Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma s'è  St. e ritr. sforzata di organizzarsi a sistema, per essere qualche cosa di filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può esser pensiero senz'esser uno. E lo stesso B. nota una volta che perfino il Kant,il grande avversario dei sistemi,costrui anche lui la sua Critica in forma complicata ma strettamente organata di sistema. E che questo orrore dei sistemi significhi, per B., non negazione critica della metafisica (com'egli, si vedrà,avrebbe voluto significasse), ma, a dirittura, liquidazione,anzi evaporazione della filosofia, negata nella sua universalità perchè negata in tutte le sue forme particolari; loattesta, non foss'altro, ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva .L'ideale delfilosofo, Helm holtz (tante volte citato da B.): un fisico. Voltando, quindi, in effetti le spalle alla filosofia, B. sente bene di non dover riuscire ostico ai nemici della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le sue idee intorno a questo punto della secolarizzazione delle menti, riescono molto interessanti e istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la psicologia del filosofo. Tra noi in Italia, oggi, lo so da lunga esperienza, solo a far balenare un momento sul frontespizio d'un libro la testa di filosofia c'è da vedersi impietrar davanti dallo spavento o dalla noia quante facce di lettori s'eran chinate a guardarlo. Di chi la colpa? Della filosofia o dei lettori? B. ha una gran voglia di gettarla tutta addosso alla prima. Ma poichè una certa filosofia deve credere di coltivarla anche lui, una filosofia invisibile perchè cela tasi nelle scienze speciali o nell'arte, un pochino di colpa l'ha pur da dare ai lettori, lamentando quell'abito come lo chiamo d'antipatia o di pigrizia mentale? – che nella scienza e nell'arte ci fa rifuggire dalle forme più alte e più complicate del pensiero, che ci sanno di aspro o di esotico. Ma, s'intende, il maggior torto è della filosofia: È l'effetto del discredito meritatissimo, in cui la filosofia cadde tra noi parlando per tanto tempo il gergo barbaro del pensare e dello scri vere di troppi ormai che ne hanno fatto una casistica da medio evo in ritardo,e che,o predicassero dal pulpito delle nostre scuole ortodosse,o negassero Dio e l'anima mettendo in cattivo italiano i loro imparaticci francesi, inglesi o tedeschi, hanno nella filosofia impedito tra noi quasi sino ad oggi quella definitiva secolarizzazione delle menti che per tutto fuori di qui segna da un pezzo l'avvenimento della cultura moderna. In Italia, un lettore che abbia familiare l'abito di mente inseparabile dalla cultura e dalla scienza contemporanea, è raro che,aprendo per distra zione o in mancanza d'ogni altra lettura,un libro di filosofia,non lo faccia con quello stesso viso con cui un giornalista della capitale si la scia,in viaggio,dare le ultime notizie di una crisi ministeriale da un suo corrispondente di Cuneo o di Brindisi.E avrà anche torto;ma che dire,quando il fatto stesso del mancare tra noi un pubblico di lettori per la filosofia mostra chiaro che in Italia la filosofia non sa,meno rare eccezioni,farsi leggere,cioè non sa pensare e scrivere,non voglio dire coipiùepeipiù,ma almeno coipiùcolti,con coloro che pensano;il che poi significa ch'essa non vive ancora tra noi la vita della mente contemporanea? La filosofia, per vivere la vita di questa mente contemporanea, deve abbandonare il suo barbaro gergo. Si potrebbe pensare dataluno che l'unico movimento di qualche vigore che si sia avuto in Italia negli ultimi tempi,è quello hegeliano di Napoli. Ma quello, secondo il Barzellotti, riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi durevoli,a cagione appunto della sacra tenebra delle formule, nella quale i più di quegli scrittori s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che facevano parlare al loro pensiero oracoleggiante. Ma, che cosa è questo gergo e quest'oracoleggiare se non la forma specifica della filosofia,inaccessibile,naturalmente, non solo ai più, ma anche ai più culti, quando la loro cultura non abbracci anche la filosofia; e la filosofia non liquida o vaporante nella sua astratta universalità, ma solidae concreta nellasuccessione progressiva delle sue forme storiche, fino a quella, alla quale una determinata ricostruzione della storia mette capo? E la secolariz zazione dello spirito, e il farsi leggere della filosofia che altro p o s sono significare se non distruggere quella differenza specifica che costituisce il valore del grado spirituale proprio della filosofia? Intendiamoci: non già che il filosofo debba scriver male. B. dice della Vita del VICO (si veda) che ha dal lato letterario il difetto di tutti i libri del granfilosofo: è male scritta.  E non è vero,com'è vero invece che è  mal composta, oscura,involuta. Oscuro e involuto rimase appunto gran parte del pensiero di VICO; e quindi l'oscurità e l'involuzione della forma. Ma VICO (si veda) scrive benissimo, esprimendo con efficacia potente d'immagini i  Vedi lo scritto Il pessimismo filosofico in Germania e ilproblema m o. rale dei nostri tempi, nella N. Antologia Dal rinascimento al risorgimento, Palermo, Sandron. suoi concetti; ma,s'intende,quando avevadei concetti: laddoveè certo, come lo stesso B. dice, che a lui mancò « la co scienza chiara, luminosa del proprio pensiero, che è la parte prima ed essenziale dello scrittore. In altri termini, egli non pervenne al possesso completode'suoi concetti,parecchideiquali,enon i secondarii, rimasero in uno sfondo di penombra in quella gran mente che così largo giro ne volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con persistente lavorìo intorno a una materia non veramente omogenea, tradistoriaedifilosofia. Vico scrive male dove e in quanto pensa male; e questo è VICO che non conta nella storia. Ma VICO (si veda) che conta, il filosofo vero e proprio è uno scrittore sommo.E non potrebbe essere altrimenti,perchè l'arteelafilosofia non sono due muse sorelle,ma l'unico Apollo,lo spirito, che non sale alla filosofia se non attraverso l'arte, e non supera mai se stesso, come avvertì per primo Aristotile, se non conservando se stesso, crescendo sempre sopra disè.– Chiscrivemale, perciò,appunto perchè scrive male non è filosofo. Ma lo scriver bene del filosofo non è lo scriver bene del poeta;altrimenti verrebbe meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che nessuno vuol negare. E comeil poeta scrive sempre bene se vien poetando, così il filosofo scrive bene anche lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa piuttosto e riesce a filosofare, anche a costo di finire per ravvolgersi in un gergo. Non c'è pure il gergo della poesia? O non era poeta chi diede l'espressione classica della impopolarità essenziale delle forme alte dello spirito nell'odi profanum vulgus? Per B., invece,il filosofo può farsi leggere,se si contenta di metter da parte la filosofia. Nella menzionata confessione, premessa ai Santi, solitari e filosofi, lo dice chiaro: « lo vorrei, senz'aver l'aria di presumer troppo,poter dire press'a poco quello che un amico mio diceva ai lettori d'un giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti: perdonate a questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste malinconie); perdonateglielaingrazia di quel tanto dipiùedimeglioche illibro visaprà farpensare oviracconteràovi descriverà come opera d'arte».Vedremo fra pocoinche consiste quel po' di filosofiadacuiil B. non s'èvoluto mai distaccare;ma non bisogna dimenticare,che quel che di più e di meglio egli ha inteso di mettere ne'proprii scritti Santi. Perchè dunque parliamo qui del Barzellotti, e in questa parte dedicata ai platonici Ecco: queste note, senza voler essere propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere criticamente i giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di filosofia. Ora B., per giudizio comune, avrebbe partecipato al movimento dei nostri studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura nazionale appunto come filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli sia uno scrittore di filosofia o un prosatore, un artista; novantanove su cento vi risponderanno che è sì un artista,ma un artista-filosofo, o meglio un filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo dei nostri filosofi, che abbia saputo liberare la scienza della forma pedantesca della scuola e del barbarico gergo abituale, per esporla in saggi eleganti, ossia in maniera accessibile a tutte le persone colte e di gusto. Ripeterebbero, insomma, quel che B.i stesso ha sempre pensato e detto di sé. Perchè, bisogna pur dirlo, niente riesce più a render perplessi e a sviare igiudizii,di questa specie di sofisticazioni della scienza,operate dai secolarizzatori o popolarizzatori della medesima. Il po ' di filosofia viene apprezzato non in ragione del suo valore,che può esser nullo,ma in ragione dell'arte, in cui si diceepuò parere che si siamesso; l'operad'arte,egual mente, non è giudicata con tutta la severità che si userebbe verso le opere di arte pura, che non avessero quella difficoltà di una materia ribelle all'elaborazione artistica; e i critici letterarii, inetti a giudicare quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o sazia di sapere. Perchè, s e h o detto che B. è u n artista più che un filosofo,non credo poi (se mi è lecito proprio questa volta una digressione letteraria che possa dirsi un artista finito, e che il suo capolavoro (Lazzaretti) siaun capolavororiuscito. È ilmeglio riu scito di questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del paesaggio e dell'anima popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il Barè al di qua della filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione morale e psicologica;è soprattutto opera d'arte. Dello scritto su Lazzaretti, che può forse considerarsi come il capolavoro di B., il quale i nesso si propos e ben sì di fare uno studio di psicologia religiosa,lo stesso autore dice che « vorrebbe essere,se pure non pretende troppo, un'opera d'arte,ma senzadar nel romanzo ».Vedi in questo fasc. l’art. Di Croce, B. e vissuto fanciullo, e tornato spesso a rinnovare le sensa zioni dei primi annim. Ma anche lì quel po'di filosofia come stuona in quell'ambiente pastoralee nell'ingenua psicologiadel misticismo lazzarettiano! E come appiccicato è lo studio sull'origineelosvol gimento e i caratteri di quel moto religioso sulla cornice dell'im mediata azione, in cui l'autore l'ha voluto inquadrare, per aver agioa descrivere meglio iluoghi,che furono scena dei fatti del Lazzaretti,e individuare itipi de'suoi seguaci! L'azione, troppo povera,è una gita di caccia,a cui l'autore per altro non partecipa, restando sempre in disparte ad almanaccare sull'anima del barocciaio di Arcidosso.Dopo la caccia c'è una colazione,sull'erba;e alacolazione questa volta pare pigli parte anche B.. Ma quale parte? Egli titrova nel cerchiounuomo del paese, Filippo, il,bigonciaio, un discepolo del Lazzaretti; e subito ne profitta, dicen dogli che avrebbe avuto caro di sapere « molti particolari intorno a David e alla vita che i suoi seguaci avevano fatto con lui in quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro Il lettore,nemico della filosofia, a cui B. s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa zione dell'autore con Filippo,il quale dovrebbe farci entrare a poco a poco con i suoi ricordi in tutto quel mondo morale che l'autore civuolrappresentare. Difficile impresa, certo;ma soloachi, come B., non avesse davvero il suo Filippo rivelatore vivo e parlante nella fantasia; sibbene gli scritti del Lazzaretti,gli appunti delle relazioni fornitegli da amici del luogo,le deposizioni dei lazza r ettisti, e poi i volumi del Renan, e l e opere dell’Hartmann e qualche fascicolo del Nineteenth Century sul tavolino. B., che pure ha scritto un bel saggio sulla sincerità nell'arte,in quel punto della sua opera non si ricorda di quelle sue giustissime idee: e dopo aver detto come inducesse Filippo a parlare,continua: « Mi rispose con un leggero atto della testa che acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma alla conversazione non ci fa assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i lettori conoscano per:filo e per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e li conoscano, quello che più importa,in ordine alle loro cause e alle condizioni sociali e morali de'luoghi, o, come oggisidice, dell'ambiente nelquale ebbero origine ».E segue infatti il corpo,per dir così,dello studio sul Lazzaretti: centoquaranta pagine, in cui Filippo e la colazione sondimenticati.Poi l'autoreripiglia: Questecosemi andavano per la mente cinque anni dopo la morte di David mentre co'miei  Santi,  amici stavo nel piazzale davanti all'eremo di Monte Labbro. Passato quel silenzio profondo dei primi bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B. non ci fa mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle 140 pagine diroba! L'elemento descrittivo e drammatico resta affatto estraneo e sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le dichiarazioni esplicite dello scrittore, le sue preoccupazioni artistiche, mentre egli realmente non si mette mai inunasituazione sinceramente artistica, sono il maggiordifetto che io vedo in questi suoi tentativi d'arte.- E un altro mi sia lecito anche notarne,che è in fondo una conseguenza del primo,e mi fa tornare al mio soggetto speciale: la lungaggine, la prolissità dello scrittore:difetto da lui stesso additato come uno degli effetti più gravi della rettorica, della vuotaggine di gran parte della lette ratura italiana. « Solo chi ha poco o nulla da dire dice sempre di più di quello che dovrebbe dire » Appunto,la esiguità del con tenuto spirituale di B. gli ha fatto scrivere molte e molte pagine a cui s'attagliano parecchie delle osservazioni da lui fatte intorno a cotesto difetto della letteratura italiana, dominata dallo ideale umanistico.Non c'è scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro quello che l'autore s'è proposto di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo concetto, tra le molte parole non abbastanza precise e determinate,in cui egli si sforza d'esprimerlo,cioè di concretarlo,quasi per una serie di approssimazioni al pensiero, che non si riesce afermare inuna formavivente. Tipica, per questo riguardo,mi sembra la prolusione letta a Napoli:La morale come scienza e come fatto e il suo progresso nella storia. E valga per esempio questo squarcio,che ne tolgo a caso: Perchè è bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a titolo di quella schietta professione di fede scientifica che mi pare d'esser tenuto a farvi qui. Il modo in cui io concepisco la legge intima dell'organismo e della vita delle scienze morali o,meglio,delle scienze che io chiamo più propriamente umane,e quindi dell'etica,che se ne può dire quasi il centro, non è quello stesso che pare presupposto da quanti oggi ponendo, Dal rinascimento al risorgimento, Rivista ital. di filos. del FERRI, con ragione, l'esperienza a fondamento di tutto il sapere umano,non di stinguono con qual divario profondo il processo di costruzione ideale del pensiero scientifico sui dati sperimentali si faccia nelle dottrine naturali e in quelle morali e storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta nel ritrarre, nel rilevare a uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della fisonomia eternamente immota e impassibile della natura, che anche nel l'inesausta ricchezza delle sue produzioni, ripete eternamente se stessa; stanel far penetrare,se posso dir cosi,la parola,più e più criticamente riveduta delle teorie e delle ipotesi,quasi scandaglio che tenti un fondo impossibile però a toccare mai tutto,sempre più verso l'ultima espres sione approssimativa di un vero che, inesauribile in sé,sappiamo però essere e durare ab eterno eguale a sè stesso. Ed ecco perchè, una volta messe queste scienze sulla via maestra del metodo sperimentale, e fu, o «signori, merito imperituro della filosofia, latradizione del l'acquisto lento, faticoso, ma sicuro del vero,vi si stabili con una fermezza che non ha pur troppo riscontro alcuno nella storia delle scienze del l'uomo e della società. In questa l'opera ideale costruttiva,la funzione che vi ha il pensiero scientifico di assimilare a sè il vero dei fatti sperimentati e osservati e di trarlo quasi in sostanza sua, è, mi pare, tutt'altro. È un farsi, uno svol gersi della vita e dell'organismo riflesso della scienza insieme con quello spontaneo del vero umano e sociale che si spiega,che fluisce inesauribilmente ricco, fecondo e vario ne'secoli. E l'occhio delle scienze morali, intento a scrutarne le leggi, è simile a quello di un osservatore che da punti di prospettiva via via sempre nuovi studiasse, camminando, le forme,le proporzioni e la direzione di un'immensa folla di oggetti che gli simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a me pare che, tolti i fronzoli e i particolari inutili, il pensiero adombrato in tutta questa pagina sarebbe stato espresso forse più chiaramente, se si fosse detto press'a poco così: le scienze morali si fondano, al pari delle scienze naturali,sul l'esperienza;ma siccome la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le verità scoperte dalle scienze naturali hanno una stabilità e fermezza incompatibile con quelle via via determinate dalle scienze morali, alle quali spetta di seguire il processo storico del loro oggetto. Egli è che a B., mente coltissima, è mancata proprio quella qualità ch'egli è andato sempre cercando:l'intimità,il con tatto dell'anima con le cose. Quindi l'artifizio e lo stento,la forma levigata, elegante,ma alquanto vuota e sonora. Le sue professioni difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineo kantiani, sono semplici adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad apparire spirito moderno, del proprio tempo (come Nella N. Antologia, Fil. Sc. Ital. egli ha detto di sè tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della sua mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant. Lo scritto,che secondo lo stesso B., dovrebbe essere più significativo per questa sua adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica contemporanea in Germania ); e al quale egli infatti s'è riferito ogni volta che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo di pensiero,è un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di vero consenso, che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima dell'autore. E quando verso la con chiusione questi dice che « la natura relativa d'ogni nostra cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che ha il dommatismo di determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse, di poter penetrare sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là de'fenomeni » non puoi dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o il pensiero di quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno potresti cogliere ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La critica della conoscenza e la metafisica dopo Kant, lavoro prevalentemente storico, per cui l'autore si attiene più alle storie del Fischer e dello Zeller, che alle fonti originali. In una storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo scritto voleva essere un saggio (ma si arrestò allo Schelling), un neokantiano vero non può non far apparire i suoi  criterii filosofici; e non c'è sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire che l'interpetrazione realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso Kant) della critica risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione idealistica del Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito. Un neokantiano non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come qualche cosa che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera sui sensi)è in Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai riuscita a spogliarsi interamente, e che stuonava coi risultati negativi e idealistici della dottrina della conoscenza;e che era una contradizione: un pensiero non pienamente consentaneo a se stesso in ogni sua parte. Al Barzellotti il partito di superare idealisticamentela Critica, come fece Fichte, dopo l'Enesidemo, pare ogni giorno più, non che consigliato, imposto inesorabilmente dalla necessità logica che trascinava le dottrine del Kant alle loro ultime conseguenze». Ma tutto questo è detto,anziripetuto, non con l'accento energico di una convinzione maturata per proprio conto; sibbene con quella stessa indifferenza che è propria di chi osserva da spettatore assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente debba pensarsi di quel benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso dell'idealismo moderno,non sembra che sia affare che tocchi l'animo di B.: il quale potrà dirsi a sua voglia neokantiano; ma nonfarà mai ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai veramente il problema filosofico. E non ha fatto quindi nè anche il platonico, benchè all'indi rizzo dei platoneggianti italiani egli si accostasse ne'suoi scritti gio vanili,il principale dei quali è la tesi Delle dottrine filosofiche nei libri di CICERONE, in cui si vede ancora lo scolaro di CONTI edi T. Mamiani ROVERE. Egli doveva pensare anche a sè quando,discor rendo della Filosofia delle scuole italiane,— della quale fu sempre uno dei compilatori ordinarii,e se ne poteva dire la sentinella avan zata verso le letterature filosofiche straniere,di cui scriveva una cronaca;– disse: «I collaboratori di quella Rivistahannopienali bertà di pensiero e di discussione; anzi varii tra di essi professano dottrine molte diverse da quelle del Mamiani; ma si raccolgono intorno a lui come al rappresentante più autorevole di quel moto speculativo,che aiutò il nostro risorgimento e ci riscosse da una inerzia intellettuale di più che due secoli. Anche al B., insomma,piaceva di essere un filosofo delle scuole italiane,insieme col Mamianielasuaonrevolgente. Anche aluipareva,p.e.,che il«merito innegabile della scuola hegeliana (di Napoli) apparirebbe maggiore allo storico imparziale, se essa avesse tenuto più conto delle disposizioni naturali e tradizionali dello spirito italiano ». Egli dunque si mise nella schiera del Mamiani; e io non potevo staccarnelo, non avendo potuto trovare ne'suoi scritti la dottrina filosofica sua, che ne lo separasse. Vedi specialmente le proteste nella pref, ai Santi,p.xxm n. La filosofia in Italia, nella N. Antologia. Nella Rivista difilos,scientifica. Cosi nel libro sul Taine qui appresso cit., dirà sempre: « La dot trina idealistica chefa del mondo sensibile esterno un mero ordine di fenomeni e di segni datici dalle sensazioni, debba dirsi, per ora almeno, l'ultima parola della scienza, venuta a confermare la parte indubbiamente vera delle teorie del Berkeley e del Kant.Vedi poi l'articolo su L'idealismo di Schopenh. e la sua dottrina della percezione, nella Fil. delle sc.ital.; la cui conclusione favorevole ai filosofi che « tempo e spazio accolgono in se elementi, a u n tempo, ideali ed empirici, subbiettivi e  obiettiv i, hanno il loro essere e la loro legge così nel pensiero come nelle cose,così in noicome fuori di noi – non vedocomepossaacc larsiconl'idealismo berkeleiano! Masipuòpar lare di contraddizione? Credaro nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE. Cfr. La morale come scienza e come fatto, Riv. ital. di filos., e la pref. ai Santi,p.xxi n. Nella prolusione con cui iniziò a Pavia il suo insegnamento ufficiale universitario,  Le condizioni presenti della filosofia e il problema della morale, puoi ravvisare tutto lo scrittore. Ivi più schietta la professione di fede neo-critica: l'idealismo da Fichte a Hegel accusato non solo di aver voluto costruire luni verso da un sol punto, con un solo principio assoluto,ma di avere altresì dimenticato « quello che le aveva lasciato detto il maestro, che cioè,se i fatti senza le idee sono ciechi,queste alla lor volta, non cimentate coll'esperienza, riescon vuote e ingannevoli » (tra vestimento del genuino pensiero kantiano e disconoscimento del genuino pensiero hegeliano); la riflessione filosofica definita per artifizio; approvato- comegià nella Morale della filosofia positiva l'indirizzo psicologico-sperimentale dato dagl'inglesi alla filosofia dello spirito; fatto buon viso alla loro teoria della re latività del conoscere (dove l'autore vede un kantismo ricondotto addietro fino a Berkeley; dato corpo in certo modo a quella specie di eccletismo, che gli è stato talvolta attribuito, e a cui egli stesso in alcuni scrittisi può dire che abbia accennato parlando di una mediazione tra il criticismo e l'evoluzionismo; rifatta un'altra volta la storia del ritorno a Kant, nonchè della scuola spe rimentale inglese,per conchiudere che oggi il filosofo « non prova più in sè quello che pure era,ed è tuttora,così proprio de'meta fisici, il sentimento superbo di un preteso primato sui cultori dell altre scienze, la vana persuasione di potersi segregare da loro nella solitudine di un infecondo sapere assoluto, superiore alle indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di tutto darle, senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede, esplicitamente l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti e all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e delle loro leggi. Nien t'altro che dati ! Non certo un'assoluta disperazione del vero, ma una fede assai condizionata nel valore di quelle forme del vero che la mente umana accoglie in sè successivamente »; un « abito di mente critica inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o quasi mai in una conchiusione, che rifà di continuo i proprii convincimenti ». Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice della verità. E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non c'è l'anima di B.. Di questa ricerca egli non vede se non una vita vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto a pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può prendere il luogo delle credenze religiose. B. non dice propriamente perchè, e gira attorno a questo problema,che è dei più delicati circa il valore della filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo spirito dello scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano il risultato del ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle azioni « dal cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa immediata, da un che in somma non ragionato, m a sentito e intuito ». Contro chi cred e, come Renan, che possa la scienza un giorno trasformare e governare tutta la vita,bisogna notare che « delle due forme di conoscenza ond'è capace la nostra mente, la concreta e diretta,o vuoi intuitiva, ha sull'astratta e sulla riflessa infiniti vantaggi nella pratica della vita. Se non che,tale appunto quale è, ottimo istrumento e guida all'azione, la conoscenza intuitiva ha in sè questo di più specialmente proprio e suo e d'opposto all'indole del sapere scientifico; appunto perchè concreta, particolare e attinta dalla viva esperienza e quasi dal contatto delle cose e degli uomini, essa è tutta individuale, e per ciò incomunicabile:più che vera e propria cognizione, potrebbe dirsi un certo tatto finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha in sè di più intimo e d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una vita inseparabile da quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua propria, riesce non meno individuale e incomunicabile di quello che sia l'intuito, l'arte, l'esperienza immediata,la convinzione istintiva. Quindi l'inefficacia della scienza; quindi il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano di tutto l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla scienza, B. non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a parer mio,nell'esperienza personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un indizio. È la scienza sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non riformata l'anima,che non può cacciar di nido la religione. Se la metafisica, l'alta veduta speculativa investe tutto l'uomo nei grandi pensatori, egli è che il pensatore in fondo è un artista.Onde ilBarzellotti plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans l'art): « che tra i diversi modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il più potente e il più vero è l'Arte. Essa infatti penetra,per dir così,giù sino al cuore del grande organismo della natura,e non si limita a darcene,come falascienza, soloi l profilo esterno,leleggigenerali quantitative,ma ce n'esprime l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze vitali, le potenze originarie e germinali » E al Taine tributa la gran lode di aver avuto « anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli elementi generali e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello spirito umano a rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che intuisce il particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al l'astrazione. E l'autore continua: « Qui sta con buona pace della pedanteria togata di tanti che oggi si chiamano dotti– la superiorità dell'Arte,se siagrande e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l a vita, il carattere e i sentimenti umani. Si può esser certi infatti che nessuno specialista, nessuno scienziato nello stretto senso della parola,arriverà mai a scuotere una di quelle grandi verità della coscienza e dell'ordine morale, che finora sono state trovate tutte dai fondatori di religioni, dai metafisici sommi – artisti del pensieroessipure— daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo degl'indotti e dei dotti chiama uomini non p o sitivi Taine, Roma, Loescher E così ci accostiamo al po'di filosofia di B.: a quel po'almeno, che è la nota metafisica vera e sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota suona spesso negli scritti di B., benchè non sia che una nota. La religione,dice in uno scritto su L'idea religiosa negli uomini di stato del risorgimento, è qualcosa di analogo all'artee d'irriducibile,per una legge del nostro spirito,ad altre forme della sua vita interiore »: « la cer tezza delle verità religiose venirci dal sentimento e dall'intuito, e appartenere a un ordine affatto diverso da quello della certezza che cipossonodare le dimostrazioni della ragione. E nello studio La giovinezza e la prima educazione di A. Schopenhauer e di Leopardi: « L'uomo, egli (lo Sch.) soleva dire con parole che esprimono forse l'aspetto più nuovo e più vero della sua filo sofia, ha le sue radici nel cuore, non nella testa » Quindi quel sentimento,che in uno scritto,anche precedente,sullo stesso Schopenhauer, è detto « ormai cessato da un pezzo in Germania; ma dura tuttavia, e cresce nei lettori colti d'ogni paese.: quello del bisogno che tutti abbiamo,ma che in specie gli studiosi hanno di stringersi in più intima armonia colla natura e colla realtà. Questo estetismo o misticismo estetizzante venne al B. dai ro mantici tedeschi,dallo Schopenhauer,oggetto di suoi studi insistenti? Certo non ha che vedere col suo preteso criticismo, che è uno scetticismo ingenuo, appena larvato. Ma visi riconnette nel sensoche, dimostrandoci il temperamento spirituale dell'uomo, ci fa inten dere la sua naturale avversione alla vera e propria filosofia.Questo estetismo a me pare appunto la tendenza naturale del suo spirito; e non prende infatti la forma dimostrativa e sistematica,che in altri scrittori si atteggia almeno a una critica gnoseologica del natura lismo, dal Barzellotti non mai fatta; ma resta sempre una ten denza, che determina l'indirizzo degli studii di B., quando egli trova la sua strada.Più che un concetto pensato e ragionato dalla sua mente,è un carattere reale della sua mentalità:per cui egli si può dire che abbia trovato la sua strada quando ha comin ciatoa scrivere I suo studiieritrattiesaggi psicologici, intorno a scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non ha certo teorizzato sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa, cercando il concreto, l'individuum ineffabile, con l'intuizione del Dal rinasc. al risorg. Santi.  - l'artista, vedendo, come egli disse, « nello studio dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di divinazione felice,la lenta opera d'una scienza che ormai ha saputo prendere la sua via in disparte dai sistemi »: rimettendo,insomma,in armonia sè con se stesso, riducendo tutta la filosofia all'arte, cui natura più lo traeva. Se nonsivogliadire arte,dicasi storia; ma illavoro mentale di B. non mira al di là della rappresentazione individuale del concreto.E questa è la sua filosofia; la quale ha inteso a unireilpiùpossibile egli dice l'arte alla scienza » e provarsi a ritrovare sui modelli vivi, che danno la storia, le biografie intime e l'osservazione delle cose sociali,quanti più poteva dei tratti veri,parlanti di quell'anima umana, che la scienza delle scuole e delle accademie ci ha per troppo tempo fatta conoscere solo in copie vaghe,generiche,lavorate di fantasia e di maniera. Da Agostino al Lazzaretti, dalla psicologia delle tentazioni a quella del pessimismo filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo spi rito paganeggiante del rinascimento alla tempra morale della deca denza, alla religiosità dei nostri uomini del risorgimento, al river bero della nostra anima nazionale nella letteratura, B. dall'8o in circa ad oggi si può dire che abbia raccolto tutte le forze della sua mente intorno a particolari problemi storici di psicologia, cercando così attraverso i procedimenti intuitivi dell'arte quella ve rità alla cui visione non s'era potuto elevare col metodo razionale del pensiero speculativo:spargendo, in verità,gran copia di osser vazioni fini ed acute principalmente sulla storia dellaforma mentis, com'egli ama dire, del popolo italiano. Se incotestaarte, peraltro, egli sia riuscito di solito a toccare il segno,non è il luogo questo di ricercare: se dovessi esprimere il mio giudizio, direi che per sif fatte indagini di storia psicologica a B. manca,per otte nere la rappresentazione piena e viva dell'anima umana,ciò che forma davvero lo storico e l'artista: lo sguardo diretto all'intimo della individualità; la quale non si potrà mai ricostruire,se non s'affisa prima di tutto il centro vitale del suo organismo; laddove B. gira troppo con considerazioni e divagazioni generali intorno ai personaggi e agli stati morali presi a studiare. E gli manca altresì, per lo più, quella piena e diretta conoscenza dei particolari, in mezzo ai quali soltanto è dato d'imbattersi negl'individui vivi, in quelle anime vere, che il Barzellotti è andato cercando. Santi. Di questa sua veduta estetizzante dello spirito umano bisogna ricordarsi per intendere nel loro genuino significato i motivi della comunicazione fatta dal B. intorno al metodo storico nella trattazione della storia della filosofia al congresso romano di scienze storiche: contro la quale insorse il vecchio Lasson in nome della universalità della ragione e della scienza. Pel B. la filosofia dev'essere rappresentata dallo storico come la filo sofia di una nazione o di un'altra, quale in una certa epoca essa si costituisce in stretta attinenza con tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla base degli abiti e delle forme di mente individuali del filosofoo prevalenti nel tempo dilui. E certo una storia per ogni parte compiuta della filosofia non può non tener conto ditutta cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma ad un patto: che si rammenti non essere la condizionalità, nè qui nè altrove, la realtà condizionata;e quando tutta la cultura contemporanea che agi sullo spirito di Kant sia nota,e tutta spiegata la psicologia per sonale di questo pensatore e del suo secolo,restare tuttavia da in tendere tutta la sua filosofia, in quel che ha di veramente filosofico, ossia di valore universale ed eterno. Qui la verità affermata dal Lasson,edal B. disconosciuta, per quel suo occhio, fatto per vedere il particolare,cieco all'universale. E poichè l'universale è l'intimità vera delle menti speculative,anche qui ei conferma ilsuo difetto di attitudine vera a penetrare nell'intimo degli spiriti. Egli vede i pensatori, e non vede il pensiero; e però non vede n è anche veramente i pensatori. Ne son prova isuoi molteplici saggi sullo Schopenhauer e sul Kant. Ma B. è stato forse letto invano per la cultura intellettuale e morale italiana? Io non credo. Non è stato un filosofo, e neanche un artista riuscito. Ma è pure stato un nobile scrittore, che ha agitato molte menti e molti cuori intorno a questioni morali e religiose troppo trascuratetra noi; è stato un lucido specchio di molta parte della cultura filosofica straniera contemporanea; ed è stato un forbito scrittore, imitabile esempio ai pedanteschi filosofanti italiani degli ultimi tempi. Di alcuni criteri direttivi dell'odierno concetto della storia, che restano tuttora da applicare pienamente e rigorosamente alla storia della filosofia, massime di quel periodo che va dal Rinascimento a Kant, negl’Atti del Congr. intern. disc. stor. (Roma). Fra i più malagevoli ufficj della critica istorica è per certo il determinare come e quanto contribuisca l'ingegno di ciascun popolo alla sua grandezza intellettuale e civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi maggiori, o alla civiltà delle nazioni contemporanee; questione ardua, e più che alla storia appartenente alla filosofia, perchè risguarda una legge intima ed arcana della natura, onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda l'operare e il patire, il conservare e il produrre, la reverenza alle tradizioni e la libertà dell'ingegno inventivo. Alla difficoltà d’un tale esame, la quale cresce a misura che ci avanziamo verso i tempi più antichi,in cui fanno difetto i documenti e le notizie necessarie ad illustrarne la storia, sono dovuti i giudizj severi di molti critici in torno alle lettere e alla filosofia de’ romani -- giudizj che introdotti da un pezzo nelle scuole, e avvalorati dal quasi comune consentimento, negano del tutto o quasi del tutto indole nuova ed originale alle manifestazioni dell'INGEGNO LATINO. Gl’argomenti che si allegano per sostenere tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e perchè assai noti nella storia delle lettere e della filosofia, e perchè tutti [Questa ultima affermazione tanto più è conforme alla storia, in quanto, sebbene la maggior parte dei critici odierni ricusi da un pezzo nome autorità di filosofo al senatore romano, è per altro consentito da tutti che i suoi scritti filosofici si conservarono chiari per benefica efficacia lungo tutta la decadenza delle lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto e trasmesso nei principii dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dottrine della filosofia greca alle scuole de'Padri e de'Dottori] concordi nel sostenere che ai Romani, poco atti sin da principio per naturale tempra d'ingegno, e di stolti per lunga età dalle intestine discordie, dalla brama del dominare e dall'esercizio delle armi, e finalmente abbagliati dallo splendore della civiltà greca, manca una libera disposizione a ritrarre e a creare il vero ed il bello negl’esercizj della scienza e dell'arte. Degerando, Brucker, Tennemann, Ritter, Kuehner ed altri. Ai quali argomenti quando per sè non rispondesse abbastanza la ragione istorica, la quale vieta potersi sempre dedurre da ciò, che un popolo fa in certe condizioni di tempi e di civiltà, quello che in altre condizioni avrebbe potuto e saputo fare. Se non mostrasse il contrario la scuola dei giureconsulti, che dalla coscienza del genere umano e dalle forme logiche greche compose con tradizione costante quella scienza del gius costitutrice delle nazioni europee, se l’ “Eneide” emula all'Iliade, LUCREZIO maggiore d'Esiodo, la Commedia di Plauto, le storie di Livio, di Sallustio, di Tacito, la satira togata di Giovenale e di Persio, l'elegie di Catullo non indicassero assai che il genio latino, libero nella imitazione, sa aggiungere all'ideale del vero e del bello un che d'universale e di solenne, un certo senso pratico e positivo, e un'intima rivelazione degl’umani affetti, ignota fin allora ai gentili e resa più perfetta dal cristianesimo, io mi restringerei alle sole opere filosofiche di CICERONE (si veda), che sono, parmi, una fra le prove maggiori del come la scienza dei nostri padri, modestamente operosa, recasse la sua parte alla civiltà universale.   e all'età del Rinnovamento. Ritter, Hist. de la Phil. ancienne, Paris, Ladrange. Kuehner, CICERONE, In phil. E jusq. Partes merita. Hamburgi. La storia della filosofia ci mostra di fatto che CICERONE fu a’ padri latini molto in pregio, e segnatamente a Lattanzio che lo chiama eccellente, e lo cita nel de Opificio hominis, e nelle Institutiones divinæ più volte; poi a Agostino che ri conosce dall' “Ortensio” la preparazione al cristianesimo, e in più luoghi della Città di Dio,e altrove lo cita o ne tira le dottrine; altresì a san Girolamo che tanto l'amò da riferire in una sua epistola il sì famoso castigo avu tone divinamente, poichè, meglio di cristiano, meritava chiamarsi “ciceroniano.” Fra iDottori più principali è noto come BOEZIO  togliesse da CICERONE il pensiero sulle consolazioni perenni della filosofia, e apparisce lo studio che di questo egli fa sì da'pensieri e sì dallo stile; come AQUINO ne arrechi l'autorità in più luoghi della sua Somma, come ALIGHIERI lo meditasse. Più tardi Erasmo esalta CICERONE con lodi famose. Dopo, l’autore della “Scienza nuova” attinge in parte dal libro “De Legibus” la filosofia d’un gius ideale eterno celebrato nella città dell'universo col disegno della provvidenza. Ad una fama sì lunga e sì costante, e che per certo dove avere una causa non soltanto, come si afferma generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine del filosofo latino si porge all'educazione morale e civile, ma nell'intrinseco loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da uomini egregj (Forsyth, Life of CICERONE, London), contrastano singolarmente i giudizj di alcuni critici. La opinion e espressa da tali giudizj, a volerla riassumere in breve, è la seguente. CICERONE, ingegno universale, acutissimo e disposto ai combattimenti dell'eloquenza, più che alle severe indagini speculative, pensa e compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un compendio largo, chiaro, eloquente della filosofia in servigio dei suoi connazionali di giuni sino a quel tempo di tali studj, o costretti ad attingerli da fonti esoteriche. Da questa pretesa insufficienza dell'ingegno speculativo di Tullio, dal fine pratico e letterario ch'e'sipropose, e dal difetto di studj preparatorj la Critica deduce la natura delle sue dottrine; le quali, benchè guidate sempre da criterio sano, e da una retta applicazione del senso comune, non vanno troppo addentro nei fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo, nè costituiscono, come le dottrine dei migliori filosofi, un largo e ben architettato disegno di scienza. Brucker, Hist. Crit. Phil., Tennemann, G. Bernhardy, Grundriss der Römischen Litteratur. Braunsweig. Facendoci a cercare l'origine di tali giudizj abbastanza severi, parmi se ne potrebbe addurre innanzi tutto una causa assai remota, ma in parte relativa al modo ben differente, con cui gl’antichi e i moderni giudicano il valore di certi uomini e di certi principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col BRUNO col Cartesio in Francia, e in Inghilterra con Bacone, che spezzando ogni autorità del passato, e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato a fastidio, proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica, l'assoluta novità dei sistemi. Come s'intendessero quella libertà, e quella novità; e quali resultati ne seguitassero alle lettere, alle scienze, alle arti, al vivere privato e civile, come se ne avvantaggiasse o ne patisse la morale e la religione, la scuola, la famiglia e lo stato romano, non è qui luogo a mostrarlo, e le son cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj innegabili della riforma,e soprattutto di quella introdotta nelle scienze sperimentali da GALILEI e Bacone; chè, se la riflessione libera ed esercitata desunse mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le discipline morali e civili; perfeziona i suoi metodi la medicina, si levò gigante la chimica, la geologia sfogliando  il libro della natura vilesse le età del mondo. Se tanti incrementi ne provennero alle industrie e alle manifatture, onde il viaggiatore trascorre paesi e province con velocità più che umana, e in mend’un baleno il salutori congiunge gl’amici, benchè separati dalla immensità del l'oceano, di tutto ciò alla riforma della filosofia è debitrice l'Europa. Ma le è pur debitrice di quella inquieta brama del sapere speculativo, onde si successero sistemi a sistemi del tutto nuovi sui più impenetrabili misteri della conoscenza umana, e quel nuovo si cerca da molti nell'inusitato e nello strano più che nel vero; così co minciata in Italia la licenza della riflessione esaminatrice sui fondamenti della filosofia, ecco il panteismo superbo di BRUNO e CAMPANELLA. Poi, scontenti del panteismo, ci diedero dottrine dualistiche il Malebranche e il Guelinx, l'idealismo e il sensismo ci vennero dal Berckeley e dal Locke, lo scetticismo dal Bayle e dall’ Hume; più tardi le sconfinate immaginazioni degl’alemanni,e un ridurre Dio e l'universo all'uomo, dall'uomo al pensiero, dal pensiero all'idea, dall'idea novamente alla materia, ed ultima conseguenza di tutto uno scetticismo più sconsolato, un correre con tinuo a una felicità e a una beatitudine ignota senza raggiungerla mai;ecco i resultati dell'aver voluto tutto inno vare! Posta in tal guisa la filosofia su questo cammino delle restaurazioni assolute, e detto una volta che la scienza dee rifar la natura (non,come è chiaro,dovere anzila scienza presuppor la natura tal quale essa è, con tutti i suoi dati, con tutte le sue relazioni, dover verificarla, non annientarla), l'indirizzo introdotto nell'esercizio del pensiero filosofico da quella folla di sistemi eccessiva mente inquisitivi, doveva esser tale,che quando poi, soffermata un istante la foga delle invenzioni, il pensiero istesso si sarebbe rivolto sopra i suoi passi, e ne sarebbe nata compiuta e perfetta la storia della filosofia, quella storia ritenesse come presupposto del suo metodo, che unico,o quasi unico criterio per giudicare della eccellenza di un filosofo e della sua filosofia, fosse l'assoluta indipendenza del pensiero esaminatore dallo stato della naturale certezza, fosse in una parola la compiuta novità del sistema. A questo criterio, desunto dallo scetticismo e padre di parziali opinioni, furono conformati più o meno quei metodi falsi e incompiuti che si seguirono da oltre mezzo secolo in qua nello scrivere storie della filosofia, onde ne derivò in Francia e nella Germania una folla di libri, come ad esempio la storia comparata dei sistemi di Degerando,e la storia di Tennemann, dove si giudi cano le varie filosofie alla stregua del problema sull'origine dell'umane conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse faccian più o meno alle dottrine del criticismo di Kant; e un tal criterio ci spiega come più tardi negli storici più temperati e meno imparziali, segnatamente alemanni, e nei filosofi delle altre nazioni, immuni dal criticismo, continuasse ereditato dalla riforma questo soverchio studio dei sistemi inventati, esclusivi, che ricusano dalla natura qualunque presupposto sull'efficacia delle potenze conosci tive, e se ne avvalorasse l'opinione levata a cielo ne’diarj e ne’libri di filosofia, sulla così detta individualità d'ogni sistema,e incomunicabilità delle dottrine speculative. Considerate le quali cose,non dovrebbe far maraviglia se quel tempo che corse tra lo scorcio del secolo decimosesto e i principj del decimosettimo,quando Italia e Francia, stanche dell'autorità abusata dagli scolastici, volevano innovare tutta quanta la scienza (e fu allora appunto,come nota Brucker, che si tentarono i primi lavori speciali sulle dottrine dei romani e di CICERONE),se quel tempo, dico, non era troppo opportuno a giudicare imparzialmente una filosofia studiosa delle più antiche e venerate tradizioni. E nel vero anche più tardi in tutto il secolo XVII, se n'eccettui coloro che rifiutarono i dubbj del Cartesio, ma tennero il suo metodo d'esaminare la coscienza, quali Bossuet, Fénelon e i più segnalati di Porto Reale, agli altri che s'appresero ai dubbj, e venner giù giù negando i pregj dell'antichità, nemici d'ogni tradizione, non poteva andare a genio davvero quella riflessione modesta e tranquillamente efficace che il grande oratore avea recato sulle verità eterne della coscienza, desumendone le armonie universali delle dottrine temperate dal senno e dalla moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero di Tullio POMPONACCIO POMPONAZZI e CAMPANELLA, citati dal Brucker. Ma d'altra parte, se per ispiegare questa opinione si nistra invalsa in Europa contro la letteratura e la filosofia d'un popolo, che fu per eccellenza il popolo delle tradizioni, giova riportarci alle sorgenti diquella critica, ec cessivamente nemica al passato, questi giudizj poco reve renti che oggi si ripetono dai più, apparvero solo nella storia della filosofia nata ne'principj del secolo passato in Germania ed in Francia.Tra I francesi, per tacere dei più antichi, Degerando vi spende un capitolo nella sua Storia comparata dei Sistemi, dove enumerati prima gli ostacoli che impedirono ai Romani un proprio esercizio dell'indagine speculativa,nota opportunamente non essere stata abbastanza osservata dał comune degli storici la grande efficacia che ebbe l'ingegno latino sulla filosofia trapiantata, ond'essa assunse colore ed indole più positiva, e dalle soverchie astrazioni si ricondusse al reale. Passa poi ad esaminare gli scritti di Cicerone nel quale rinviene le note distintive d'ogni altro filosofo ro mano,cioè una scienza desunta dalle greche tradizioni e composta con metodo ecclettico dalle scuole differenti, una scienza accessibile ad ogni intelligenza educata, e confa cente a spirar vita nell'eloquenza, ne'costumi, nell'arte politica; scienza supremamente pratica e applicabile agli individui e agli stati. Histoire comparée des systèmes de philosophie considérés relativement aux principes des connaissances humaines, par Degerando. Giudizj assai meno temperati comparvero in Alemagna, dove fiorendo mirabilmente le discipline filosofiche e istoriche, e pubblicandosi tuttodì lavori speciali che illustrano con somma accuratezza ogni parte delle lettere antiche, prevalse però più che altrove la severità della Critica, che negava ogni nota originale alle lettere e alle scienze  C   Tra i critici alemanni va innanzi agli altri in ordine di tempo e di autorità Giacomo Brucker vero fondatore della storia della filosofia. Ma considerando però il capitolo dove egli parla della filosofia de'romani e di CICERONE, ti accorgi tosto che quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non esservi stata in Roma che una semplice continuazione delle scuole greche; e secondo le varie specie di queste scuole divide lo storico il suo trattato intorno alle dottrine romane annoverando CICERONE tra iseguaci della Nuova Accademia; quantunque confessi poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma particolare di setta, ma inclina a quel Sincretismo istituitoda Antioco. Veramente Brucker nel proporsi il quesito,perchè mai i romani e CICERONE non crearono una filosofia propria, non ne accusa, come oggi Forsyth, la infelice disposizione dell'ingegno latino -- the unmetaphysical character of the Roman intellect. Life of Cicero. Ma quanto ai Romani in generale ei ne trova la causa nelle occupazioni della vita civile, e nella setta Accademica, che criticando e sindacando tutti isistemi, svogliava gl'intelletti da nuove speculazioni; e quanto a CICERONE, nella natura del suo ingegno, più immaginoso assai che penetrativo, ond'egli (dice lo storico) prefere il probabile all'esame profondo del certo, e delle dottrine rappresenta nelle sue opere la parte viva e oratoria più che il severo ordine dei giudicj e delle deduzioni,e la generale armonia del sistema. Brucker, Hist. Crit. Phil. Al giudizio dato da Brucker si avvicina in gran parte quello di Tennemann,e nelle loro opinioni v'ha molto di vero e di certo, oltre la solita accuratezza nella esposi  8 latine, appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove da far credere quasi che la movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da qualche anno in Inghilterra e nella stessa Germania si torna con più studio al passato, e molte parzialità si correggono; ed io sono certo che ri composta in pace l'Europa, ilprimo debito di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli scrittori di quelle grandi e generose nazioni. zione dei fatti;ma per quanta possa essere la reverenza dovuta ai due storici insigni della filosofia, come non accorgersi che il loro esame,informato da un criterio an ticipato e parziale, riesce insufficiente a cogliere il vero significato d'una dottrina, come quella di CICERONE, la cui nota essenziale consiste nel rifiuto d'ogni opinione di setta, e in un principio universale, che supera ogni si stema? Ma se tanto può dirsi a buon dritto del Brucker e del Tennemann, merita più speciale considerazione l'esame assai temperato,e per certo ingegnoso,che fece degli scritti filosofici di Tullio, Ritter nella sua storia della Filosofia antica. Le indagini dotte e meditate di Ritter movendo dai tempi antistorici della Filosofia,e procedendo lungo i tempi della civiltà indiana, ionica e delle colonie italo greche fino all'origine delle scuole socratiche, da queste al loro declinare e disperdersi in una confusione di sistemi sparpagliati e sofistici, giungono a quello ch'ei chiama terzo periodo dell'antica filosofia, all'età che intercede tra ilcadere delle repubbliche greche sotto la romana, la rovina di quest'ultima, e il sorgere del Cristianesimo. Due cause potenti egli allega del nuovo indirizzo preso in quella età dalla filosofia greco-romana,e le ritrova nella storia delle due nazioni, che allora si ricambiavano una vicendevole efficacia nelle lettere, e nelle scienze, e nel vivere privato e civile. Nei Greci, perchè la costoro scienza impoverita oramai dall'uso eccessivo della facoltà creatrice nei tempi anteriori, dallo scadimento della li bertà e dei costumi, e costretta, per accomodarsi all'in gegno e all'educazione dei nuovi dominatori,a vestire le forme ed il metodo d'una disciplina scolastica, non d e sunse più le sue dottrine immediatamente dalla riflessione, ma ritornò agli antichi sistemi,li paragonò,li esaminò, li accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente, non dalla natura intima del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo. Nei Romani, perchè essi non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme scientifiche, ma vissuti sino a quel tempo in mezzo ai tumulti della vita civile,e fra lo strepito delle armi,tranne una certa tendenza, che li moveva agli ordinamenti giuridici, nè la natura, nè la educazione loro si porgeva punto alle indagini della scienza. Quindi (osserva il dotto alemanno) era ben naturale che, date quelle condizioni morali,civili e scientifiche, dall'accoppiamento dell'ingegno greco e latino derivasse un Ecclettismo erudito; derivò infatti; e di questa filosofia, l'indole della quale è sostituire la li bertà della scelta alla libertà dell'ingegno inventivo, accomodarsi alla natura degli scrittori,abbandonato l'or dinamento scienziale non fidarsi all'esame, e se occorre, attenersi principalmente all'autorità del consentimento comune,eitrovò la più importante manifestazione,oltrechè nel pendio generale dei tempi,nella vita,nell'animo e nelle opere di Cicerone. Ei ne considerò con raro accor gimento la vita,e vedendo come la parte ch'ei tiene nella storia della Filosofia, è perfettamente d'accordo con quella che occupò nella storia civile dei tempi; come furono le medesime qualità e gli stessi difetti che, se lo levarono alto nella vita pubblica e nella filosofia, non gli consen tirono per altro di giungere al sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò queste qualità e questi difetti nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi accoppiata alla vivezza dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del diritto, all'amore per gli altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità indefessa,a una rara previdenza dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e quella fermezza di volere che costi tuisce il grande scrittore e l'uomo di stato. Condotto, egli dice, dall'efficacia di condizioni esteriori a filosofare, come nella sua gioventù, mentre applicava la filosofia all'esercizio dell'eloquenza,egli avea frequentato le prin cipali scuole di Grecia, così nel suo ritiro dalla pubblica vita non seguì una dottrina particolare, ma trascelse il meglio di tutte; la quale incertezza di studj, che non a p profondivano la scienza, ma la assaggiavano appena, ri sentiva della incertezza della sua condizione politica, perchè ei scrisse le sue opere principali durante gli scon volgimenti del primo triumvirato,la dittatura di Cesare e il consolato di Antonio,tempi calamitosi per la libertà, nei quali escluso da ogni ingerimento civile, e fuggendo il cospetto degli scellerati, andava consolando la sua soli tudine colle meditazioni della scienza. Era quindi ben naturale che il grande oratore, vissuto da lunghi anni in tanto splendore delle pubbliche faccende, non si ripo sasse volentieri negli ozj solitarj delle sue ville; la d e bolezza innata dell'animo suo, come gli avea impedito di rimaner fermo al governo delle cose civili, di valersi della sua autorità per contrastare ai principj della ti rannide cesarea, ora gl'impediva di darsi a tutt'uomo agli studj della filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e all'amico dipingeva con vivi colori questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra l'amore onde era tratto agli studj, e il desiderio di prender parte ai pubblici affari, tra la sfiducia sua nelle consolazioni della scienza,e una sublime speranza che lo levava al disopra delle umane cose. Da queste intime qualità dell'indole di CICERONE deduce l'istorico Alemanno la natura della sua filosofia, ch'è,secondo lui,un moderato scetticismo,espressione fe dele di animo titubante; scetticismo moderato,perchè seb bene talvolta, oppresso dal peso delle sventure proprie e della patria, ei mostri dubitare del vero eterno e della virtù, nondimeno conserva sempre intemerata la nobiltà della vita, e il desiderio di una morte gloriosa; ma tuttavia scetticismo, perchè riconoscendo la natura assoluta del vero, ammette solo come verosimili le dottrine che ne d e rivano, e dubitando interroga tutte le scuole, prende ad esame tutte le opinioni greche,e accordandole insieme più con intendimento politico, che con vero criterio di scienza, ne vuole arricchire il patrimonio della romana letteratura. Sennonchè tra le varie dottrine in cui si di videvano le scuole greche, una ve n'era che s'accordava mirabilmente agli intendimenti, e all'ecclettismo scettico abbracciato da Cicerone; e questa era la dottrina della Nuova Accademia.Se Tullio infatti poneva ilfondamento della filosofia in un dubbio moderato sui principj delle umane conoscenze, la Nuova Accademia, guidata allora da Filone, che gli era stato maestro nella sua giovi nezza, riconosceva come legittimo questo dubbio, e lo temperava con la verosimiglianza; se l'oratore romano voleva che le dottrine della filosofia conferissero ad a d destrare il pensiero e la parola negli esercizj della elo quenza, nessuna scuola si porgeva meglio a questa di sciplina della scuola dei Nuovi Accademici, che oltre all'essere stata sempre frequentata da uomini eloquentis simi, si riduceva in sostanza a un metodo disputativo; infine se egli raccoglieva le principali dottrine della filo sofia greca,per comporne una scienza accomodata all'in gegno eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova Accademia,che disputava contro tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la maggiore libertà dei proprj giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in brevi tratti ai Romani lo stato della filosofia passata e contempo ranea, ad innamorarne i lettori, senza perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli a un sistema. CICERONE (si veda) dunque (secondo l'opinione del Ritter) come ecclet tico dubitante,come oratore e come espositore della filo sofia greca ai Romani, abbracciò le dottrine della Nuova Accademia; e va notato particolarmente, sì perchè questa è l'opinione più universalmente accettata intorno alla vita filosofica di Tullio, e alla parte che tengono le sue dottrine nella storia della filosofia, e perchè il comune degli storici ricollega quasi sostanzialmente a quel si stema le sue opinioni sulle parti principali in cui si divide la scienza. Così opina anche il Ritter, e prendendo ad esame le opere tulliane, secondo la tripartizione plato nica della filosofia più comune agli antichi (egli avverte però che,stante l'incertezza dello scrittore e delle dottrine e la loro qualità, tutta pratica e positiva, la distinzione delle tre parti non è abbastanza spiccata), rinviene in tutte più o meno chiaro,più o meno deciso il dubbio della Nuova Accademia. V'ha dubbio deciso nella parte fisica, perchè ivi abbondavano più che altrove le dispute e le contradizioni dei filosofanti; dispute sulla natura delle cose, dispute sull'esistenza e sulla natura di Dio e sua provvidenza, sulla natura dell'anima e sua immortalità; e di tutti questi veri Cicerone o dubita compiutamente,o ammette solo una leggera verosimiglianza. V'ha dubbio anche maggiore nella parte logica, anzi è questa la più povera e la meno determinata di tutte le sue dottrine,e perchè ei la collegava meno d'ogni altra agl' interessi pratici della vita,e perchè il sensismo degli Stoici e degli Epicurei, che aveva a combattere, non potea tener fronte agli argomenti della Nuova Accademia; finalmente v'ha dubbio manifesto anche nella morale, perchè s'ei con traddice ricisamente alla ignobiltà delle dottrine epi curee, la controversia tra gli Stoici e i Peripatetici lo lascia indeciso da un lato tra un'idea trascendente della virtù, a cui lo muove la grandezza dell'animo romano, dall'altro la fragilità di natura; incertezza che pure lo segue nella politica, e nelle attinenze della politica colla morale. Talchè Ritter movendo dal presupposto che  la filosofia di Tullio non fosse che eloquente dell'indole particolare dello scrittore e dei tempi, negò ogni certezza e ogni legame di scienza in ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle tre parti tra loro (perchè quella logica e quella fisica non sono per lui che un'appendice della morale, considerata da Tullio com'arte pratica della vita); negò ogni unità di disegno scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità del principio fondamentale, posto dalla riflessione, e a cui rispondesse l'universale armonia del sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che rappresentino alla mente del l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi ch'e'le con siderava qualcosa più e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una scelta a cui manca e libertà di riflessione e criterio di scienza. (Hist. de la Phil. anc.) una manifestazione [Se noi ci siamo alquanto trattenuti nell'esporre le opinioni di Degerando, Brucker e Ritter, è stato segnatamente per due ragioni; la prima perchè poteva recare non piccola luce intorno ad una questione che   abbiam preso ad esaminare,e su cui sono infinite le dispute dei critici e de'filosofi, il giudizio degli storici migliori che vanti la nostra scienza; e in secondo luogo affinchè i pochi cenni, che ne abbiamo dato,muovano gli studiosi a ricercare con maggior diligenza le variazioni e iprogressi, che ha fatti sino a noi la critica sulle dottrine filosofiche di Cicerone. Questa critica non pare immeritevole di qualche considerazione, perchè rappresenta quasi in sè stessa quel moto graduale dell'esame, e quel lento chiarirsi de' principj supremi, che governano i fatti, o n d e si generava in Europa la storia della filosofia. I primi tra questi storici,come Stanley e De Burigny, che nuovi del cammino, e spaventati dalla grandezza dell'impresa, fecero lavori imperfetti e meglio tentativi di storie, che storie vere, o tacquero affatto, o poco parlarono di Cicerone che nella modestia delle proprie opinioni (magnus opinator) non aveva dato un sistema. Negli storici se guenti, che abbiamo citato, e segnatamente nel Brucker quella critica comincia a chiarirsi;vi si medita con più ampio concetto la parte che ebbero i Romani nell'adu nare le greche dottrine, nel farle proprie, e trasmetterle a noi;Cicerone v'è considerato,non già come un filoso fastro qualelochiamò ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben disciplinato intelletto,che,scorrendo ilcampo della filosofia greca, ne chiamava a rassegna ad uno ad uno i sistemi. E contuttociò quella critica era ancora ben lon tana da un esame profondo e spassionato delle dottrine tulliane; dovevansi emendare molte inesattezze, tor via molte preoccupazioni (qual era,per esempio,quella che faceva di Cicerone un perfetto seguace della Nuova Accademia, e un ecclettico dubitante), e, quel che soprattutto importava,trattandosi di M. Tullio,che tanto ritrasse da Socrate e nel metodo e ne'principj,conveniva cercare per entro alle sue dottrine l'immagine della vita e del carat tere dello scrittore. Tale intendimento apparisce in alcune memorie del sig.Gautier de Sibertche hanno per titolo,Examen de la philosophie de Cicéron, lette all'Accademia francese delle Iscrizioni e Belle Lettere, nella seconda metà del secolo scorso; dove si esamina accuratamente la parte oggettiva delle dottrine tulliane, si dimostra il vincolo di sistema che le congiunge, e si difende dalle accuse di scetticismo la fama del grande Oratore. Lavoro merite vole di molta considerazione per sanità e profondità di giudizj, se a questa non nocesse talvolta l'aver guardato più alla materia delle dottrine che alla loro forma scien tifica, e considerato Cicerone come filosofo compiuto e dommatico in ogni parte,anzichè avvolto di continuo nelle dispute degli opposti sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des Inscript. et Bell. Lett.) A questi difetti sembra (come vedemmo) riparare in gran parte l'esame del Ritter, che sebbene ritenga molto delle sue opinioni private e di quelle della filosofia che lungo tempo ha dominato in Germania, nondimeno rias sume in breve quanto di meno inverosimile può dirsi sul preteso ecclettismo ciceroniano. E dirò anche di più, che l'esame del Ritter, fondato com'è in una conoscenza profonda delle opere di Cicerone, contiene innegabili verità, qual è quella,per es.,che nello svolgimento delle dottrine del grande Oratore esercitasse una singolare efficacia i suoi tempi, la sua nazione, la sua indole propria; che speciale qualità di questa indole fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e la dispera zione del vero e del bene eterno,e che a queste dubbiezze contrastasse efficacemente il senno pratico della natura romana. Ma d'altra parte noi siamo ben lungi dal credere che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e dopo ne tennero le opinioni, abbiano considerato nel suo vero aspetto l'indole delle dottrine tulliane; chè, se non può negarsi da un lato esservi in esse un che di necessariamente re lativo alle condizioni dei tempi e alla natura dello scrit tore, e quindi mutabile, non necessario e contraddicente alla natura assoluta e apodittica della scienza,non è men vero dall'altro ch'ei pur rinvenne nell'intimo delle dot trine contemporanee, e nello studio profondo dei veri eterni specchiati in sè stesso e negli altriuomini,un criterio certo, universale, infallibile da costituirvi la scienza. V’ha dunque nella filosofia di Cicerone questo che di oggettivo e di soggettivo, di relativo e di assoluto, di mutabile e di necessario; m a l'una e l'altra qualità si ricollegano insieme per nodi di universale armonia; armonia di relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di tutti i tempi,tra il romano e l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone oratore e politico e Cicerone filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui risponde quell'altra interiore, attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e l'affetto, tra la volontà e la ragione,tra l'intelletto e le verità immortali. E certo a queste considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri critici Alemanni, badò Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame delle dottrine di Cicerone ch'io mi conosca,edito in Amburgo quando rispondendo al quesito pro posto da uomini dottissimi; se Cicerone meritasse o no il nome e l'autorità di filosofo,pensava che algrande Ora tore s'appartiene giustamente quel titolo per l'ampiezza dell'ingegno,la vasta cognizione delle dottrine contem poranee, l'uso ch'egli ne fece volgendole in latino a cul tura e ammaestramento dei suoi concittadini, e infine per la facoltà unica in lui, ond'egli seppe abbracciare tanta mole di scienza, fissare l'indagine della riflessione sulle verità principali, e comparando tra loro le varie dottrine, ricomporle coll'efficacia del proprio giudizio in unità di sistema.(M.T. Cic.in phil.ejusq:partes merita, Auc.R. Kuehner.Hambur. Pars altera.Cap.VI; Utrum Cic.philosophus judicandus sit,nec ne,anquiritur) E questi pajono anche a m e i meriti veri e innegabili del senatore romano; e nondimeno ogni qual volta io rileggo quelle sue opere, nelle quali spira tanta univer salità di pensieri e d'affetti, universalità veramente latina, incui ilvero è sìprofondamente immedesimato col buono, e tutta s'accoglie la sapienza delle scuole socratiche, mi pare che la critica delle sue dottrine possa ricevere a n cora notevoli perfezionamenti, sempre che col chiarirsi Posto ciò, non sarà difficile, parmi, determinare con sufficiente chiarezza in quali confini si contenesse l'effi cacia che l'ingegno di Cicerone ebbe nella riforma della filosofia quand'essa fu trasferita di Grecia in Roma, e in quali vicendevoli attinenze stiano tra loro quanto di già meditato e discusso gli venne dalle scuole d'oltremare, e quanto vi seppe recare egli stesso rivolgendo il pensiero sui fondamenti della scienza, questione che (conforme a quanto è detto più sopra) noi ci siam proposti di chia rire nel presente discorso, fermandoci a tre punti segna tamente:cioè,qual era la condizione della filosofia greco romana ai tempi di Cicerone, e con qual metodo egli esaminasse e combattesse le dottrine delle principali scuole tentando di conciliarle; finalmente qual filosofia derivasse dalla deliberata opposizione e dal metodo compositivo del l'Oratore latino.  successivo di quella legge,che regola la filosofia nel tempo, se ne va perfezionando la storia. Ora quella legge può solo spiegare, a mio avviso,l'ufficio della filosofia de’Giureconsulti e di Cicerone, e dall'ufficio desumerne la na tura e i principj. Può spiegarne l'ufficio, già manifesto e considerato da molti rispetto alla Giurisprudenza e agli ordini militari e politici, alla Religione e all'Architettura, che è di comprendere in sè il buono degli altri popoli, tentando ridurlo a nuovi ordinamenti di scienza; può spiegarne la natura, che è appunto quella comprensione universale, tanto diversa dall'ecclettismo, che procede per accozzamento disordinato dei sistemi,anzichè ricomporre le intime relazioni delle verità naturali sul disegno della coscienza; finalmentepuòspiegarneil principio,cheèl'esa me dell'uomo interiore, contrapposto sull'esempiodi Socrate al dubbio, o all'esame arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre punti importantissimi, a mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a chiarire i principali problemi esaminati sin qui dalla critica sulle dottrinedel sommo Oratore. Gli storici più reputati della filosofia si accordano tutti in mostrarci un manifesto scadimento delle dottrine greche,il quale apparve dopo il fiorire dell'antica Acca demia e del Peripato, e crebbe fino ai tempi di Tullio, accompagnandosi,come suole avvenire il più delle volte, colle vicende degli ordini privati e politici. I quali sin dalla prima metà del secolo V avanti l'èra volgare venuti a mirabile altezza d'incivilimento, e generatori in pochi anni di tanti miracoli di virtù e di dottrina, quanti presso altre nazioni può appena rammentarne la storia di molti secoli,mancata la virtù che liaveva nutriti,prima ancora d'invecchiare, si corruppero e precipitarono, rappresen tando in sè stessi un'immagine stupenda, abbenchè fug gitiva, della vita dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu tutta in quei memorabili anni ne'quali i suoi figli per ben due volte ricacciarono in Asia gl'invasori Persiani, in quei combattimenti ne'quali la sua m a rina doventò signora del Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le sue industrie, ne trassero argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli artisti; così da quel primo incitamento si propagò in tutte le repubbliche greche,e segnatamente in Atene, un moto fecondo d'opere, d'istituti,di dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva in sè nella crescente corruzione del Gentilesimo germi di rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate e dalla filosofia di Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella vita operosa del pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo, quelle di spute in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni sacre,quel sentimento profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la giovinezza del popolo greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore del l'antica Accademia, le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso si facevano sentire, l'abuso scon II. umana  sigliato delle libertà cittadine recava frutti di servitù, e la Macedonia invadeva. Chè se quella può dirsi con qual che ragione l'età virile del popolo greco, nella quale raf forzatosi di potenti ordini militari e principeschi sotto il regno di Filippo, portò guerra con Alessandro nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento delleTermopili,èquesta una virilità che giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola filosofia d'Aristotele,superiore a Platone nel severo or dinamento scienziale, e nell'indirizzo fecondo dato alla riflessione sul reale e alle scienze d’esperimento,ma su perato da lui nella sublimità della dialettica, nella vi vezza delle tradizioni sacre, e nella idealità del sistema. M a ormai la discesa dei tempi non si poteva più tratte nere; e la Grecia passata dal dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai Macedoni, morto Alessandro e diviso il regno nei successori, sotto un tritume di piccole tirannidi, non ebbe nè anche, come più tardi avrebbe avuto l'Italia,un legame di alleanza poli. tica fra i suoi stati tanto da conservare un'effigie qua lunque d'unità nazionale,e mancò,come l'Italia,di quella efficacia di salde istituzioni che una monarchia prudente suole introdurre nei popoli guasti da libertà licenziosa. Non è quindi a maravigliare se quella stessa Atene, che avea veduto un Pericle non attentarsi a spogliare delle apparenze civili l'autorità quasi regia consentitagli dai cittadini, pativa più tardi la signoria d’un Demetrio di Falera,e quel popolo istesso,che avea punito di morte Socrate accusato d'irreligione, salutava col nome d’iddio un Demetrio Poliorcete, e lui pro fanatore d'ogni cosa e divina accoglieva nei sacri penetrali del Partenone. Sono questi i segni più indubitati della vecchiaia d'un popolo, e quel lento e continuo scadere dell'ingegno e della vita del popolo, oltrechè negli ordini politici, appariva in ogni altra parte della sua civiltà. Scadevano sempre più gli ordini materiali, perchè a quel primo moto di commercj e d’in dustrie,nutrito dalle libere istituzioni,era succeduto quel solito languore, quel ristagno d'operosità, che è conse   guenza necessaria (e noi lo sappiamo) delle arti dei go verni assoluti;e la signoria de'mari, ristretta per l'in nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago greco,si allargava ora ai Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano i costumi, e la corruzione tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente oscurarsi delle anti che tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre denze gentili; e quella vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e dalla severità dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso; e al senso, non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute adulazione di tiranni e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto risentivasi la filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio della corrut tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece un breve e inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei principali sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più diretta effi cacia sulla filosofia latina. Onde mossero dunque questi sistemi? Ritenendo essi qual più qual meno, sebbene con notevoli alterazioni, il metodo e il fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un ritorno ai sistemi che avean posto fine all'età antecedente della filosofia italogreca, ritorno evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi, mentre derivarono da Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il dualismo, retrocedettero in fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando alle lusinghe dei tempi coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta mente desumendo la causa e la ragione suprema dalla materia e dal senso. E anche questa volta la confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e altutto ar bitrario di conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al senso,la immobilità dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e l'immutabile, l'ente e il non -ente, il necessario e il contingente, il relativo e l'assoluto; e più, da un pervertimento del concetto di causa prima.Per pensare, 0, meglio,immaginare quella conciliazione, bisognava porre un unico principio, in cui esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un atto indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui l'universo dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli atti successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima. Causa, essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un effetto, che non sia corpo; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a quello dacuierano mossi Platone e Aristotele; chè, sel’Ateniese e lo Stagirita concepivano la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo segnatamente poneva l' es senza assoluta nell'incorporeo e nell'intelligibile,gli Stoici invece concepirono la materia corporea come il primo principio e l'intima realtà delle cose tutte. Ma che cosa era questa materia? Questa materia primitiva ch'è in Platone e in Aristotele, e che più tardi troviamo negli Scolastici, senza qualità e senza forma, sostanza oscura, infinitamente passiva e suscettibile di forme, infinitamente divisibile,è una finzione immaginativa, è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno) collocata a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi bilità,ed eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que' pensatori che, se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto questo,poichè la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il nulla vestito dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno medesimo dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo doveva svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una parte degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse, si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni delle cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad atto le forze intime della materia, ne va foggiando questo univers0 sensibile,(τον θεόν σπερματικός λόγον όντα ToŬ zoopov. Diog.L.,VII,136,e Cic., De N. D. La falsa induzione che per vizio d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura ad esempio delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo la fisica degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e d'at tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose tutte, e l'universo rassomigliavano a u n grand e animale; perchè, diceno (usando un argomento di panteismo rigoroso adoperato più tardi da CAMPANELLA), se le parti del mondo sono animate,sarà animato anche il tutto, e se le varie parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima è governata dalla ragione, anche i moti del mondo proverranno dall'anima universale, il cui princi pato risiede nella ragione. Quest'atto, anima e ragione dell'universo per gli Stoici era Dio; e quindi si capisce com'essi trasportando sempre nel divino le facoltà del l'umano, concepissero Dio da un lato come principio prov vidente e ordinatore, e dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti imoti fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e inevitabile neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia l'agitava di causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo spirito divino abitatore della materia la divinazione delle cose future.(CICERONE.,De N. D.,De Divin., De Fato,pass.) Concependo in tal modo la materia come contenuta e vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità che per il principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze secondarie ed opposte),non è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in questa parte agli Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della natura, come agli astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente all'anima umana,e ne deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie. Quindi dai principj della loro scienza naturale uscivano la logica e la psicologia.Che cosa è l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come Dio stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante all'atti vità universale, intimamente è divina; e la sua unione col corpo la immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore (nepovezov) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è notevole assai,che mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo interiore dalla riforma di Socrate salvava gran parte della psicologia stoica dalle conseguenze materialistiche del principio che la informava, quella loro inclinazione a studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet tica, e ne proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo concetto di potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in fisica aveano pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come un che vuoto e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono nell'anima la possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e priva di contenuto, simile, dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ χαρτίoν άνεργον εις c.Troypapiv ), dove, svegliatosi l'atto dell'anima (come l'atto primitivo di Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni, imprime le rappresentanze o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero queste fantasie è facile a immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale comprendevano gli Stoici la totalità dei fatti interiori presenti alla coscienza ed originati tutti dai sensi, nè potevano dare al conoscimento altra qualità in fuori dalla sensibile, e perchè l'anima umana,come parte delDio animantelecose tutte,ritiene ilsuo modo di conoscere,che conforme alla sua natură è un cono scere sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è corpo, e perchè, l'essenza universale di tutte le cose essendo cor porea, non si può dar conoscenza se non di corpo. Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che ammettendo essi da un lato ogni conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non potendo negare la natura dell'intelligibile necessaria, assoluta e profondamente opposta alla natura del sensibile, ponevano le idee come una trasformazione della sensa zione operata dall'anima, precedendo in tal modo i sen sisti francesi. M a, di grazia, sì gli uni che gli altri sfug givanoforseallanecessitàdellacontradizione? Ne rimaneva una intrinseca al loro sistema e maggiore di tutte,quella cioè di negare all'anima un primo principio, una capa cità naturale al conoscere e immaginare ch'essa poi ve nutale la materia di fuori, doventi all'improvviso o p e rante e di operazioni tutte sue proprie. M a in tal modo il sensista tira più là la questione, e non la risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a un dato termine dellasua dimostrazione, io gli mostrerò com'ei si trovi in opposi zione diretta ai principj su cui l'ha fondata. Dice:Nego nell'anima qualunque notizia primitiva e fontale delle idee;e aggiunge:ecco però come nell'anima stessa si generano quelle idee.L'oggetto esterno fa impressione sui sensi; i sensi per mezzo dei nervi comunicano le i m pressioni al cervello,e l'uomo acquista l'idea dell'obbietto sentito. Ma è qui appunto dov’io prego il sensista a darrestarsi. Poichè, manifestatasi in noi la notizia, che al certo provenne dall'occasione de'sensi, se la mente si volge a considerarla nella sua natura,vi riconosce bensì da un lato un referimento esterno all'obbietto onde spe rimentammo l'efficacia causale,ma d'altro lato vi scuo pre anche una più intima e segreta relazione cogli atti dello spirito, e coi sommi principj del vero, obbietto i m mediato della potenza conoscitiva.Tale contradizione che deriva dal confondere insieme la natura del sentimento e delle cose e la natura ideale, non potranno mai fug gire i sensisti, se pure essi non vorranno ammettere la  conseguenza più legittima del loro sistema,vo'dire il m a terialismo; al qual proposito bene osserva Leibniz nei Nuovi Saggi, che coloro i quali s'immaginano l'anima informa di una tavoletta,o di un pezzo di cera,in cui nulla sia scritto prima della sensazione, trasferiscono in lei le condizioni passive e inefficaci della materia. Se consideriamo adunque attentamente il sistema de gli Stoici,esso ci si presenterà da un lato come un pan teismo, dall'altro come un dualismo. È un panteismo se guardiamo a ciò che, secondo Ritter, ne formava il domma fondamentale, all'unità primigenia e finale delle cose tutte e al concatenamento o consenso delle parti della natura informata dall'anima universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la legge del Fato; ma è invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio anima del mondo e il corpo del mondo, tra la materia e la forma, il passivo e l'attivo, il più e men perfetto nelle esistenze, l'unità assoluta di Dio e la diversità delle cose,diversità che pur dee terminare una volta rientrando nella indifferenza primitiva di Dio. La quale opposizione, che ha reso non ben definito il giudizio di parecchi istorici sulla qualità di questo sistema, io credo derivasse non tanto da quella medesima incertezza tra la confusione dell'età orientale ed italo-greca e il nuovo bisogno delle distinzioni dialettiche, che è pur manifesta nelle dottrine di Platone e d'Aristotile, quanto dall'avere gli Stoici, più assai de'loro predecessori,esagerata l'in duzione che dalla notizia dell'uomo litrasportava a quella dell'universo e del divino. E fu qui dove peggiorarono assai dai sistemi anteriori. Peggiorarono in fisica, perchè seb bene Platone nel Timeo dimostrasse che l'universo tutto quanto era animato,e Aristotile, adombrando per via con trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose, ambedue silevaronpiùalto, eoltrequell'universo animato e al di là di quella materia,l'uno contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e nelle anime la luce degli esemplari eterni, e l'altro intravide il fine supremo desiderato dalla universale natura; peggiora E d ecco circa in quei medesimi anni, nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava le sue dottrine infette di panteismo e di dualismo, apparire la negazione particolare dei sensisti e degli idealisti con Epicuro e con Arcesilao. E quanto al primo, chi ben consideri la sua filosofia, vi troverà un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine o anteriori o contemporanee; chè se già era cattivo indi zio in Zenone e in Crisippo l'imitazione degli Ionj e d'Eraclito, fu pessimo in Epicuro il ritorno ai sofisti della stessa età italo-greca, e segnatamente a Democrito. Notammo anche come nonostante la rigidità e l'altezza della morale stoica,vi si scorgeva chiaro un esame s e m pre più imperfetto e parziale dellaumana coscienza;ora questo è anche più manifesto negli Epicurei, i quali non si contentarono come gli Stoici, lasciate da un lato le naturali tendenze,di porre la virtù e la beatitudine in un sublime disprezzo dei beni della vita;m a scesero più basso restringendo l'una e l'altra al godimento dei piaceri del corpo; e riducendo i piaceri dell'animo alla speranza e al ricordo dei piaceri del senso.Nel che essi secondavano bruttamente l'abbandono sensuale dei tempi; nè già mi reca maraviglia,in quella età in cui,rotto il freno ad ogni licenza, si maturava negli ozj voluttuosi la servitù della rono in logica,stante che se Platone,giunto alla nozione suprema dell'essere,se ne faceva scala per salire agli universali divini, e Aristotile distinguendo dal senso l'in telletto, poneva in quest'ultimo l'apprensione dell'uni versale, gli Stoici non ammettevano che il senso, e dal senso desumevano la necessità della scienza; peggiora rono finalmente in morale all'osservazione compiuta e perfetta delle tendenze naturali, qual era nell'Accademia e nel Peripato, sostituendo un esame sempre più povero e sminuzzato della coscienza morale,onde il concetto del bene diventò più che umano, e quell'idea solitaria e i m passibile della virtù parve quasi uno scherno in mezzo alle infinite sventure deitempi.(CICERONE, De Fin.,IV,V. Ritter,XI,L. 1,2,3,4.) Grecia, quando la Nuova Commedia svelavaagliocchi delle moltitudini affollate le più seducenti sembianze del vizio,e ne'ginnasj d’Atene convenivano le meretrici a disputare co'filosofi,immaginarmi Epicuro che siede dettando nei suoi giardini in mezzo alle gioje del convito i precetti della morale.Eppure più secoli dopo in una etànon meno ar rendevole al senso di quella d'Epicuro,e che precedè di poco quel tuono di uno dei più grandi rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi nelle scuole de'filosofi difese Epicuro mostrando velato nei suoi precetti morali sotto l'appa rente arrendersi al senso un rigore più che da stoico; ma quel rigore, nota bene CICERONE (De Fin.), era un finto stoicismo e una maschera da saggio,che mal si addiceva sul volto del filosofo gozzovigliante,era una sod disfazione ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica opinione. E poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come poteva cer care nella necessità dei principj ilpernio della morale?E che tutto per Epicuro fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e assoluto, lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui come una norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava sostanzialmente a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti morali il puro sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come Epicuro la chiamava,una Canonica) che peggiorasse il sensismo del Portico e non movesse un passo oltre la sensazione. Infatti, mentre gli Stoici andavano almeno fino all'idea che proveniva dalla percezione, e passavano dal soggetto all'oggetto per l'attinenza di causalità (Vedi CICERONE nel secondo degli Accademici), Epicuro,lasciata da parte l'idea,riconosceva il criterio del vero nella sola realtà della sensazione, e negando che dal senziente si desse certo passaggio all'entità del sentito, lastricava la via all'idealismo degli accademici e alle dottrine scet tiche d'Enesidemo e di Sesto Empirico. Infine; negata ogni interiore attività dello spirito, riconosciuta nella sola opposizione dei resultati sensibili la verità e la    falsità della sensazione,ristretti i fondamenti delle inda gini scientifiche alla pretta significazione delle parole, a m o 'dei Nominalisti; ecco in due parole la logica dell’Orto (CICERONE., De Nat. Deor.) Nè a diverso cammino si volgeva la fisica fondata da Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito. Ora,se ben con sideriamo, questa dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al dinamismo stoico è un nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che con la filosofia del senso si accorda con quella della materia. E di fatto, laddove gli Stoici che avean molto de'materialisti, pur trascendevano il fenomeno sensibile,e vi rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava vita e movimento alle cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza nascosta, se ne stavano contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni esteriori delle molecole materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli atomi, mentre,come nota il Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione della sua logica materiale fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature elementari, non accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova maggio re, perchè io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia che pretende spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e della dis gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più sopra,nelle dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si vede quindi da ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con seguenze. Egli non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse sotto l'apprendimento dei sensi; ma poseaprincipiodi tutte lecoseilvuotoimmensoegli atomi nè sensibili in modo alcuno nè intelligibili. (De Fin..) Credè immaginando la spontanea diversione degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi alla inesora bile legge del Fato; m a s'imbattè in un'altra potenza non meno cieca e inconcepibile, nella potenza del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.) Finalmente un ultimo indizio di quanto poco conto ei facesse dei veri immor tali presenti alla coscienza dell'uomo, è che voleva spe gnere per mezzo delle sue indagini fisiche quel concetto arcano dell'infinito per cui la nostra mente dalle cause seconde si leva fino alla Causa prima, quell'intimo senso di stupore e d'ammirazione che destano in noi,le tempeste, ifulmini,le meteore, icieli sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce della natura a cui risponde dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla di Dio. (LUCREZIO, De rer.nat., Ritter, Vedianche gli op. di Plutarco tradotti dall'Adriani: Che non si può vivere lietamente secondo la dottrina di Epicuro;2. Della superstizione.). Contemporaneo d'Epicuro, e un poco posteriore a Zenone,poneva Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico. L'incertezza delle notizie intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato occasione a purgarlo dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non negava ilpositivo delle dottrinesocratiche, ma soloopponevailsuodubbio temperato al dommatismo stoico di Crisippo (Vedi Gautier de Sibert, Mem. de l'Ac. des Inscrip. et Bell. Lett.,ed Agostino nel libro Contra Academicos), ci rappresenta questa dottrina come un domma filosofale, svelato prima nell'insegnamento del l'antica Accademia, e ristretto poi nel mistero all'appa rire del sensismo stoico, e adombrante l'intimo significato della filosofia di Platone: due essere i mondi, uno intel ligibile, l'altro sensibile; quello vero, verosimile questo, perchè fatto a somiglianza degli archetipi eterni; del primo per via delle idee generarsi nel saggio la scienza, del secondo una semplice opinione di verosimiglianza. Ma quando io penso che il vescovo d'Ippona dettava quel libro poco innanzi la sua conversione, scampato appena dal dubbio della nuova Accademia, e che per guarire lo scetticismo inveterato del tempo cercava le più riposte armonie della sapienza antica colle dottrine cristiane, attingendo principalmente a fonti neoplatoniche; quando ritraggo dalla testimonianza concorde dei più deglistorici che Arcesilao andò più là di Socrate, dicendo non potersi nè anche sapere di saper niente, che aprì scuola d'insegnamento pro e contro ogni opinione, negando in tal modo il vero assoluto e ammettendo soltanto quello relativo ai principj d'ogni sistema; e che finalmente quel suo idealismo operò direttamente sul dubbio univer sale degli Empirici; allora son tratto ad attribuire a un pervertimento delle dottrine Socratiche, e alla efficacia de’tempi quello che Agostino riferiva al semplice accor gimento d'Arcesilao (CICERONE.,De Oratore). Socrate opponendo all'orgoglio del sofista la modesta affermazione del saggio,negava potersi trarre da una cavillosa dialettica l'onnipotenza della ragione, e dalle dottrine meccaniche degli lonj il conoscimento intimo delle cose.Platone tenne fermo quel dubbio, temperandolo col conosci te stesso, e sceso a considerare i più riposti veri dell'umana coscienza, vi riconobbe il combattimento della ragione coll'appetito, dell'intelletto colla carne, quel non so che d'immortale e di terreno ch'è in noi, e che lampeggia nelle serene aspi razioni del vero,del bello e del buono,e s'abbuja nelle tempeste de’sensi;quindi trasportando quell'intimo co noscimento all'esteriore forma delle cose,e al giudizio della loro perfezione, ne derivò la dottrina dell'ente e del non ente, della üln e del cos. E qui (si noti) consisteva essenzialmente il positivo e il negativo delle dottrine platoniche. Poneva egli, è vero, da un lato il concetto della scienza nel salire dai particolari agli universali,da ciò che muta a ciò che non muta, dalla sensazione al l'idea che rappresenta l'essenza, e il fondamento della sua dialettica stabiliva nel cogliere fra i molteplici ele menti de'fatti particolari il concetto supremo che tutti li contiene.Ma d'altra parte mosso dall'idea trascendente della scienza,e dalle tradizioni delle dottrine panteistiche orientali ed eleatiche, onde germinava il dualismo, egli faceva del particolare, del mutabile, del sensibile un che intimamente oscuro,e non soggetto al conoscimento, perchè partecipante della materia che è l'opposto dell'ente,e alle Matematicheealla Fisica indagatrice de'fattinegònome di scienza. Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità riconoscendo necessaria attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella mente dell'Artefice eterno che le informava della perfezione di quelli, e nella mente dell'uomo per via della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas saggio dalla opinione al sapere; m a la illazione del dubbio, che scendeva dalle premesse del suo sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la materia,e l'una è negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì disparati possa darsi attinenza di conoscimento?nè,derivato da Dio l'intelletto, basta la sola ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli animi nostri in una vita anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra iparadigmi e le cose,'per verificare la certezza di quelle notizie che civengonodaicontingenti.E perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia platonica la relazione tra il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo a negare o l'uno o l'altro di questi due termini; e il termine intelli gibile negarono gli Stoici, alle cui innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo materiale del Peripato, e quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei col restrin gersi nello studio della materia; restava a trarre l'altra conseguenza del sistema platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao colla sua dottrina ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto, perchè non n e gava l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio la loro corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero in parte quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o media che voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema di Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che togliendo l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero nella coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Critica della conoscenza.(Ritter)  La quale non ancora matura e compiuta in Arcesilao si svolse nei successori, perchè,laddove il filosofo Pitano sostenendo la sua tesi contro i sensisti moveva special mente dalla fallacia de'sensi e dall'oscurità della materia; Carneade,che gli successe,introdusse in quella tesi maggior rigore scientifico,quando esaminò ex professo l'entità della relazione inclusa nel conoscimento, e distinguendo nella percezione sensitiva o rappresentazione due lati,uno ri feribile all'oggetto, l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli prima del Kant non darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae in propria forma la materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo peggioramento in Carneade? Sì; perchè e'negò fede espressamente alla validità della ragione, dicendo non potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del vero, e dovere contentarsi il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per lui l'idealismo accademico si accostò sempre più alla nega zione universale, che compiendo le dottrine anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è prova evidente il pas saggio ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio sull'entità oggettiva delle idee universali che si specchiano nella coscienza, manifestato da lui ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla giustizia,dove to gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del bene, abbatteva i fondamenti dellamorale (CICERONE, De Rep. Ritter). E il discorso di Carneade udivano assollatii Romani, nella cui patria splendeva quella gran scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della personalità umana,e la n o zione del dovere e del diritto si desumevano da principj d'immortale necessità, e dove la natura della legge dovea definirsi più tardi congenita alla natura di Dio.(V. Cantù, St. Un.Brucker, Degerando, Ritter, Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.) È noto infatti come VICO nel suo l De antiquissima Italorum sapientia indagando nella storia de’fatti umani iprincipj universali che reggono il sapere, trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni ne'linguaggi primitivj d’Italia; il che,se non prova che presso quei popoli, come ad esem pio i latini (intesi per lungo tempo e unicamente ai ne gozj civili),fiorisse un vero e proprio esercizio d'indagini scienziali, mostra però che v'era nel loro ingegno un'in tima disposizione a filosofare. E questa disposizione d o veva attuarsi quando ilpensiero latino libero dalle stret tezze presenti, e sollevato a un ideale più ampio,dal sen timento di nazione si sarebbe volto a considerare l'umana natura specchiata in sè stesso, e nell'universalità della storia. Queste erano le preparazioni e le cause del fatto; l'occasione esterna venne dalla celebre ambasceria di Cri tolao, Carneade e Diogene babilonese. (A. di R. 585. V. gli autori soprac.) Volgeva intanto a metà ilsecondo se colo innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto Antioco in Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa definitivamente la Grecia colle guerre Macedoniche, e colla memoranda presa di Corinto,riceveva dai vinti la tradizione delle arti e delle discipline civili per parteciparle novamente e sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle arti e quelle discipline che giungevano d'oltremare non più informate dalla libera spontaneità dell'ingegno dei padri, educato alla scuola del sentimento civile e del magistero divino, ma guaste dal dubbio della nuova Accademia,e infette da signorie corruttrici e da profonda sensualità di costu mi,trovarono nei Romani dismesso l'abito della severità antica, e omai volgente a rovina quella repubblica inde bolita dalle mollezze d'Affrica e d’Oriente. Sallustio, Catil.,C.X.c.f.XI.XIV. Non èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di molti ingegni valorosi, dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un grande rinno vamento; chè ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei popoli s'accoglie una favilla immortale di vita, e un impulso efficace li risospinge ai principj; non possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era pagana, in cui, ecclissato ogni lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e ridotto in pochi lo stato, Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella barbarie. Nè c'inganni quel moto apparentemente efficace di letteratura e di scienza ma  era 3   nifestatosi nelle città greche, e nelle corti di Pergamo e deiTolomei.Tranne inRoma, dove fino allamorte d'Au gusto durarono potente incitamento alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la memoria degli ordini repubblicani, nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica le lettere e le scienze doventarono trastullo di principi e di cortigiane, o sollievo di popoli in gioconda schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da Filone Ebreo, dalla Kabbala,da Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio ed altri) doventarono contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla spontaneità dell'arte che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei commentatori e degli illustra tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi derivarono gli Alessandrini; e un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le scienze matematiche e d'esperienza sostenute dai principi e dalle città mercantili e dalla agiatezza dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che s’è rin novato più volte) indietreggiavano ogni giorno più le di scipline speculative;nè solo (come vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla forma scientifica dei si stemi;perchè, se è legge connaturata all'umano intelletto che in quella dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il soggetto esaminato e la riflessione esaminatrice, consista intimamente il metodo d'una scienza,una volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali, se ne scom piglia l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara l'integrità della coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza. Richiamando ora in breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della filosofia da Socrate a Cicerone? N o n altro che un continuo scadere della riflessione scientifica da sistemi più ideali e che al sentimento del divino e del l'immortale accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate tradizioni, ad altri infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero divino ed umano;quindi da dottrine che offrono più ampio disegno di riflessione,e più perfetto ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che alla c o m prensione totale della coscienza e delle sue relazioni fanno seguire un esame monco, spicciolato, minuzioso,eaimetodi positivi e dogmatici (benchè misti di legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e gl'inquisitivi. Questo è il pen dío naturale del pensiero filosofico in quell'età,che dalle altezze del disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n gustie di alcuni trattati aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima informatrice della materia corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi sillogismi di Crisippo per terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella negazione della nuova Accademia; che infine dalla interpretazione sublime della Mitologia,qual era in Platone, ci guida all'in terpretazione fisica e storica degli Stoici e d'Evemero. Ma la nuova Accademia di contro alle dottrine d'Epicuro,se non forse quanto alla materia, era un nuovo peggiora mento quanto alla forma scientifica, perchè Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e offriva un disegno di pro prie dottrine sulle principali teoriche della scienza; gli Accademici negavano soltanto, e, tranne poche e sparpagliate affermazioni i n fisica e d i n moral e, restringevano il soggetto della filosofia al problema del conoscimento; ora da questo idealismo che solo ammetteva pochi veri par ticolari, e scioglieva ogni attinenza del conoscimento coi proprj obbietti, non v'era che un passo alla negazione scientifica d'ogni verità della scienza, e da questa al d u b bio popolare e grossolano e ai sistemi empirici e positivi che non sono più scienza. E anche allora fu detto o sot tinteso da uomini dottissimi che unico criterio del vero era il mancare d'ogni criterio,che la scienza era ilm e todo,e che unica e naturale forma del pensiero filosofico era la storia;e da questi abbagli di critica stemperata che sirinnovano anche oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo erudito degli Stoici e de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e di Sesto,come oggi dagli eccessi della critica Kanziana pullularono gli Empirici Alemanni, l'Ecclettismo del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto Comte.In quelle condizioni della filosofia era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto contrario alle cagioni del male, dovea consistere segnatamente nel tornare ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la universalità dei suoi veri, e affer mando interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar pagliato e diviso.Fu questa l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli ebbe occasione e conforto dalle qualità dell'ingegno latino, mosso da antiche tradizioni e da indole propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche, dallo stato politico e civile di Roma, e dal contrasto ai dubbj che laceravano la scienza. Di fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di civiltà e di dot trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in Roma, dove le sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per opera degli affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili; durava ancora potente l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il dominio romano all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi correvano,come a centro comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura, le arti, le industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva, quasi a compire la maestà della gran repubblica dominatrice, lacoscienza del ge nere umano.Quindi in Roma era più che altrove potente ilsentimento dell'universale, condizione necessariaal na scere della Filosofia. D'altra parte,se volgiamo gli occhi alla Grecia,ci si presenta un turbinìo d'opinioni e di sette a cui non tien dietro la storia; la filosofia era lacerata in sistemi che ponevano la scienza nel paralogisma, e sempre più tralignanti dagli istitutori scendevano il pen dío della negazione universale; gli Epicurei e i Cirenaici, facili secondatori della corruttela dei tempi, ogni giorno più sprofondavano nell'ateismo e nel senso;i Platonici e iPeripatetici,come Cratippo, Stasea, AndronicodiRodi, Alessandro Afrodiseo si diedero all'erudizione, e poichè non sapevano creare nulla di nuovo,rimestarono con cri tica infeconda le dottrine anteriori; lo stoicismo con P a nezio e con Possidonio, allontanatosi dall'aridità delle dottrine di Zenone, favorì l'eloquenza trattando la filoso fia in modo più popolare,e ravvicinandosi alle altre scuole socratiche; ravvicinamento anche più manifesto in Filone e in Antioco,contemporanei ambedue e maestri di Cice rone, l'ultimo dei quali segnatamente intese a conciliare il Portico colla nuova Accademia,e riconobbe la validità del conoscimento. Infine secondavano da un lato quell'in dirizzo le dottrine romane qual più qual meno imitatrici delle greche, e perciò prive di u n metodo proprio e di proprie speculazioni; mentre dall'altro lato (sebbene al quanto più tardi) si apparecchiava nelle dottrine de'N e o platonici e Neopitagorici greci un congiungimento tra la sapienza orientale e le scuole socratiche. Sembrerà forse a qualche lettore che dettando questi cenni sui principali sistemi antecedenti a M. Tullio, ci siamo allontanati di troppo dai confini di una semplice introduzione; m a il rimanente di questo discorso farà m a nifesto che a ben chiarire la natura del filosofo nostro,i suoi intendimenti, le fonti delle sue opere e il concettoche egli ebbe di riformare e riordinare la scienza, era neces sario distendersi alquanto intorno alle scuole precedenti e contemporanee e all'efficacia loro sulle parti della filo sofia. Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo nella solitudine di Tuscolo e di Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano all'Ortensio, appariva,come ben nota Ritter, una straordinariapo vertà di speculazioni scientifiche in tutta Europa; poche e sparpagliate verità rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana coscienza illuminata una volta dai principj morali, allora in quella rovina d'ogni umano prin cipio taceva, e al mancare della materia desunta dalla considerazione dell'animo umano,la forma scienziale, seb bene apparentemente raffinata, impoveriva ogni giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno colle dottrine di Zenone il vero concetto del principio e dell'atto del conoscimento, e ridotta da Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo gli universali, le contradizioni particolari dei varj sistemi;il semipanteismo stoico e dei Platonici posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente, il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e s'attraversava al buon uso dei m e  37   todi sperimentali; la morale per ultimo risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime dottrine ve nute in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di Filodemo Gadarense, contemporaneo e famigliare di CICERONE, testimoniarono anche una volta la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi Hercu lanensium Voluminum quue supersunt. Nap.) Pertanto in quelle condizioni di civiltà e di dottrine due sole vie rimanevano aperte all'indirizzo del pensiero speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno all'uni versalità e all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo interiore,del senso comune,e delletradizioniscientifiche e religiose; impresa che, sebbene difficilissima e degna di sublimi intelletti, non poteva esser sorgente a specula zioni copiose, mirando più che altro a sceverare il certo dall'incerto, il teorematico dal problematico, il necessario dal mutabile, il consentito dal disputato. La qual cosa, mentre è una conferma dei meriti di Cicerone come filo sofo,e della modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega il divario notevole che lo distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità delle speculazioni latine; e di fatti, se è vero che la storia della filosofia ci offre a quegli anni in Roma un ecclettismo erudito, testimo nianza imperfetta dell'universale disposizione degl' inge gni a ritornare sul passato, e a ricostituire la scienza sull'armonia delle attinenze universali, è anche vero che Cicerone, solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec clettismo romano a vera e propria forma di scienza, imi tatore e seguace di quella scuola dei Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius naturale la santità delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles sione filosofica sulla coscienza morale. Quella sentenza del Segretario fiorentino, che af ferma,doversi ogni umana istituzione ritirare verso i principj, fa manifesta a chi consideri il cammino del pensiero e delle opere umane nelle età della storia,una legge di scadimento e di progresso, di barbarie e di ci viltà, di rovine e di restaurazioni, che si verificò in ogni tempo, così negli ordini civili,come in quelli della filo sofia. La ragione di questo fatto m i sembra chiara e nel l'un caso e nell'altro;è chiara negli ordini civili, iquali, se hanno per principio e per fine l'adempimento delle necessità umane e la conservazione del viver sociale,una volta allontanati da quello riescono a contraddire la loro natura; è chiarissima poi nella scienza, e massime nella filosofia, che costituita nel proprio essere di scienza pri ma da un ripiegarsi della riflessione sul pensiero come pensiero,e sulle verità universali,ricereimmediatamente dalla natura ilproprio soggetto, ipostulatiedilmetodo. La filosofia dunque,come scienza sovrana che ha imme diatamente innanzi a sè la ragion di sè stessa, è ripen samento del pensiero naturale e delle sue leggi,è,in una parola, ripensamento della natura; la qual cosa concessa, sembra doversi dedurre ch'ella abbia altresì nella natura la possibilità di un indefinito svolgimento, e la possibilità delle proprie riforme, se pure non vuol pensarsi che l'ef fetto sia inadeguato alla causa, e la vita dell'animale e della pianta alla virtù generativa del proprio germe.A chi affermando diversamente volesse mostrarmi, o che il pensiero non vale a trar fuori dalle prime notizie, con progresso indefinito di dimostrazione,la scienza, o che la riflessione del filosofo può introdurvi alcunchè non sup posto antecedentemente dalla natura, io addurrei per ragione la coscienza, spettacolo sublime dei fatti interni e dei più ardui problemi sulle verità principali, evidente e misterioso ad un tempo,dove si acchiude come in ger me la possibilità del sapere che si svolge ne'secoli, ad durrei per ragione la storia,che ci mostra d'età in età i più grandi intelletti muovere alla ricerca del vero ignoto dall'affermazione compiuta della coscienza, deftinirne le più alte questioni concordemente alle tradizioni più a n tiche, e alla parola del genere umano e di Dio, e fra i delirj e i vaneggiamenti delle sette conservare e tra mandarsi l'un l'altro la Filosofia perenne. La testimonianza più lampeggiante di questa verità ne’secoli pagani sono per certo le due riformedi Socrate e di CICERONE (si veda); entrambi trovarono la filosofia perduta in dubbiezze infinite; entrambi la rilevarono con uno sforzo supremo tornandola alla coscienza; l'Ateniese divino in gegno, e iniziatore fecondo di un moto speculativo che non è ancora cessato; più modesto intelletto ilRomano, ma non meno benemerito della buona filosofia,per avere tentato, solo, in un popolo nuovo fino allora a ogni eser cizio di speculazione e nell'universale scadimento della civiltà e della scienza, ciò che il Maestro avea potuto compireincondizionimeno avversedelsapereedeipub blici costumi. Per convincerci di ciò,basta paragonare la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei tempi di CICERONE. E nel vero quel principio di corruzione e di sfi nimento che il paganesimo già da lungo tempo recava in sè stesso, s'era mostrato segnatamente in Grecia sin dal  D'altra parte i tempi in cui Cicerone, nato in ARPINO di famiglia provinciale il terzo giorno di gennajo -- coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione), venne a Roma per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli e via alle cause del foro e al pubblico arringo, sono tempi di più profondi rivolgimenti civili, conseguenza delle due grandi questioni che da lunghi anni empivano la storia romana, la prevalenza degl’OTTIMATI sopra la plebe, la prevalenza di Roma sopra il resto di Italia e del mondo. Cantù, St. Univ. Già sin da quando tonò la prima volta nel foro la potente parola de’ Gracchi, un moto profondo in favore delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza romana s'e venne propagando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto crebbe cogli anni, e coll'ampliarsi della potenza repubblicana, e ruppe finalmente nelle dissensioni civili di Mario e di Silla, e nella guerra sociale. Cominciarono allora que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di sangue, ne'quali la libertà, mantenutasi per tanti anni incorrotta, fu solo istrumento dell'ambizione di pochi, e la gloria militare, guarentigia d'indipendenza, venne adoperata a sovvertire le leggi; non più libera nel fôro la parola degli oratori,non più inviolata la persona e le sostanze d'un cittadino romano, dispersa la pubblica ricchezza, venduti a chi più li pagava i consolati e le amministra l'entrare della guerra del Peloponneso; poichè pessimo segno del decadimento di un popolo è sempre il succedere delle interne gare alle lotte d'independenza; ma il vivo agitarsi della gente greca, calda ancora di gioventù vi gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel l'agricoltura, nelle arti, manteneva allora negli ordini materiali e politici qualche seme di bene,e negli ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio amoroso del vero l'efficacia della filosofia italica, che avea recato dal l'Oriente gran parte delle tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a rendere l'animo interno nelle manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una gagliarda educazione del pensiero nella dialettica de sofisti.   zioni delle province, interrotti i giudizj, annullati i d e creti del senato e del popolo; così passarono i settanta anni precedenti al regno d'Augusto, finchè l'abuso della libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa di tanta rovina fu per fermo la crescente corruzione d'ogni principio morale, chè una libertà partorita dal sangue di tanti uo mini grandi, e da secoli di virtù, non si perde senza crollare i fondamenti dell'edifizio civile; e qual fosse a quel tempo la pubblica moralità in Roma,ce lo dice Sal lustio complice e accusatore dei delitti narrati. Sall., Catil. Quellacorruzione,profondanegli ordini civili, non appariva minore negli ordini dell'intel ligenza; innanzi tutto perchè, il progresso intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal suo pro gresso morale,e la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e supremamente civile, l'armonia del sapere col l'armonia della vita è legge innegabile nella storia delle nazioni; e secondariamente perchè la scienza era stata sino a quel tempo più spesso istrumento di dominio in mano degl’OTTIMATI che manifestazione della coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi fatti due considerazioni impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre (come nota più d'uno storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in Roma dai principali uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò co’suoi scritti ch'e'fece della scienza e della cultura, non già un istrumento per domi narela repubblica e salire agli onori, ma,uomo dipace qual era,e conservatore degli ordini civili che avean for mata la gloria degli avi, studiò la scienza del vero l'arte del bello per contrapporla alla corruttela de tempi, e all'oscurarsi d'ogni principio morale. La seconda con siderazione è che Tullio s'oppose segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla dottrina degli Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le scuole contemporanee che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre ciò era al certo l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua volta. M a qui c'imbattiamo subito in una questione importante. Cicerone e egli soltanto condotto a filosofare da cause straordinarie ed esteriori? quando si pose a scrivere aveva egli profondamente meditato sui più ardui problemi della vita e dell'animo umano? possedeva quell'ampiezza e universalità di studj speculativi necessaria per indirizzarlo nella via della scienza? Parecchi critici tra i quali Ritter, Degerando, e Bernhardy lo hanno negato, e affermarono non potersi chiamare “filosofo” vero esso che studia la filosofia come semplice istrumento dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli e stata fatta da taluni fra i contemporanei, quandoudiamo lui stesso, il testimone più autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente dicendo: io nè cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni della mia vita consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando meno parera, io era maggiormente intento a filosofare -- De Nat. Deor. -- parole che potrebbero forse sembrare dettate da soverchio amore di sè stesso, se i primiindizj che ci rimangono de'suoi studj, e le opere antecedenti alle filosofiche non mostrassero assai che il suo ingegno sivolse'sui principj, sui metodi e sui più ardui problemi della scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi si è l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio notevole per chi ricordi il disprezzo che i più fra i romani contemporanei affettavano verso la filosofia relativistica di Carneade. Ma in Cicerone apparisce un sentimento vivo, e quasi direi religioso, dell'unità della scienza; poeta elegante e vigoroso, poi traduttore di cose filosofiche, udiva i più eccellenti m a e stri d'ogni filosofia, studia con Q. Mucio Scevola il giure, coi più autoreroli cittadini la scienza delle cose una causa, vedreino essere immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora che come riformatore filosofo, come riformatore civile.   civili, la declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone Rodio, e Demetrio di Siria. Cic. Bruto, Forsyth, The life of CICERONE, London. Nutrito l'ingegno con tanta larghezza di cognizioni, appena si fece avanti nel foro,si accorse,com'egli stesso ci dice (Brut. 93,e pro Archia, V I), ch e a costituire il perfetto oratore non e su f ficientela destrezzaelacopiadella parola, ma bisognava che la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma dell'arte; quindi ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo involuto e comprensivo come una scienza che abbracciava le regole della vita,dell'arte oratoria,del diritto, d'ogni disciplina umana e divina, philosophiam matrem omnium benefactorum benequedictorum (Brut.93); omnis rerum optimarum cognitio,atque in iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat.); concetto univer sale, che apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel de Inventione, dove parla delle virtù secondo le dottrine platoniche, e introduce l'eloquenza fondatrice delle città e del consorzio civile. Un tal concetto che certo doveva poi chiarirsi cogli anni, e uscirne un disegno più specifi cato di dottrine morali e speculative, mostra che il suo amore per la filosofia si accrebbe col suo progresso nel l'eloquenza, talchè in lui (come osserva Ritter) l'oratore preparò lo scrittore in filosofia, ed anzi leggendo attentamente il De oratore, il Brutus e l'Orator vi senti spirare da cima a fondo un alito di speculazione di scienza.Il dialogo De oratore è finto a imitazione del Fedro, e la tesi sostenuta dei disputanti appartiene intimamente alla filosofia, poichè trattasi ivi di sta bilire se l'eloquenza sia una dottrina universale od un'arte, s' ella debba restringersi al puro esercizio del la parola, o allargarsi alla scienza delle cose divine ed umane. E qui v'è contrapposto deliberatamente nelle stesse persone dei disputanti il concetto più ampio e più universale,e per conseguenza più filosofico,che CICERONE (si veda) avea del sapere, al concetto parziale e negativo de'suoi contemporanei; Crasso infatti, che rappresenta l'opinione dell'Autore, movendo dal principio che una sola è la sintesi delle materie scientifiche,e che su tutte può e deve cadere l'esercizio dell'eloquenza,reputa ne cessario al perfetto oratore quasi tutto lo scibile umano, e conferma questa sentenza coll'autorità degli antichi presso i quali l'arte del pensare e del dire erano state sino ai tempi di Socrate indivisibilmente congiunte. Lo stesso argomento è trattato nell'altra opera Orator, dov'egli cercò pure l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a principio le idee archetipe di Platone; talchè l'armonia della scienza colla vita, dell'una e dell'altra colla letteratura e coll'arte,l'accordo della materia scien tifica colla forma oratoria, e della ragione col gusto, costituisce nei libri rettorici di Cicerone una vera e pro pria unità di concetto. Considerando questo principio universale,a cui il filo sofo latino rannodava le discipline letterarie,e l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte, io sempre meglio mi per suado che la vita d'oratore e di politico fu per lui un apparecchio necessario agli scritti speculativi. Più tardi, allorchèla libertà venne in mano degli scellerati, e il gran cittadino si astenne volontariamente dall'esercizio della pubblica vita,tornò agli studj non mai interrotti dalla giovanezza, cercandovi la pace che gli negava l'animo addolorato per le sventure civili,una nuova occasione ad esercitarvi l'eloquenza muta nel senato e nel fôro, un mezzo per confortare a virtù le fiacche generazioni, e arricchire la letteratura della sua patria di questa nuova gloria, sino a quel tempo non partecipata coi Greci (Tusc., De divin., De off., Ad fam.). Chi considerasse partitamente un solo di questi fini, senza comprenderli tutti nell'unità della mente e dell'animo dello scrittore, mostrerebbe di non averlo compreso; a lui l'inclinazione oratoria e l'amor nazionale porgevano il pensiero di un nuovo accordo della scienza coll'arte nelle opere di filo sofia, onde si aprisse questo nuovo campo intentato agli ingegni latini; i mali e le necessità del suo tempo gli consigliavano le dottrine morali e civili come riforma dei costumi corrotti, e dall'intendimento letterario,nazionale e morale insieme congiunti e contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj anteriori, e della riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale armonia di cause determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi, è notevole in Cicerone; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero ed il buono, onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più è affermativa e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza colle ragioni morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico, e che si crede diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione prima del conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare. Se tali erano i fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale delle sue dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che Ritter e Bernhardy han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla piena lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al punto in cui concepisce chiaro l'ordine scienziale. Il primo e più notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina, si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum; animi medicina philosophia; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo prendeva in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella Repubblica,e nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative alla vita e ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure nell’Orten sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac comandandola allo studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e civile. (V.Hort., fram.,e specialmente il fram. 21, L. I. ed. di Lipsia) Ora siffatto concetto involgeva di necessità un criterio scientifico; innanzi tutto perchè chi medita l'ordinarsi d'una dottrina scienziale, qualunque ella sia,ad un eser cizio d'operazioni, si suppone averne penetrato l'intima essenza in cui quel principio regolatore risiede; e poi perchè il vero relative alla vita,sebbene manifestoin noi pel sentimento morale, s'attiene alle parti più vive e più affettuose dell'essere umano,ond’è mossa la rifles sione a ripensare da sè stessa e con proprj principj l'ordine speculativo delle conoscenze. Pervenuto a tal punto il filosofo, non ha da fare che un passo per racco gliersi nella coscienza morale, e quindi trar fuori con metodo ascensivo e discensivo d'induzione e di deduzione tutto quanto il disegno dell'edifizio scientifico; la qual cosa apparisce a chi prenda ad esaminare in Cicerone l'ordinamento logico degli scritti morali. Dove si scorge com'egli procedendo di passo in passo nell'induzione, dall'idea morale di legge e di diritto, che lampeggiava nella coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a concepire un ordinamento di relazioni e di gradi dagli esseri inferiori a'supremi; re lazioni che intercedevano tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza della ragione, tra uomo ed uomo per somiglianza di natura intellettuale e socievole; e quindi usciva una specie d'equazione ideale tra Dio e le creature, tra gli enti ragionevoli, e i non dotati di ragione, per la reci procanza dei doveri e dei dritti;e vi s'acchiudevano in germe Teologia naturale, e Antropologia, Cosmologia e Filosofia del buono. Questo largo disegno di veri morali fu il principio da cui Tullio moveva nella via della scienza, e lo mostrano i libri politici e civili antecedenti in ordine di tempo alle altre opere speculative. 3. Ora soffermiamoci un poco.Mostrato così per suc cinto quale idea egli avesse della Scienza prima e dei suoi principj, domandiamo che cosa debba pensarsi sul dubbio accademico quasi universalmente a lui attribuito. La questione su tal soggetto,disputata a lungo dai critici    e storici della Filosofia, durante il secolo scorso,mentre gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore dell'antico e la curiosità del nuovo,e l'Enciclopedia affermava dogma ticamente le sue negazioni, mosse ne'più de'casi dal pre supposto che Cicerone,come seguace della Nuova Acca demia, ponesse il dubbio universale a fondamento di scienza. Così opinò Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono Brucker, Degerando e Bernhardy. Per combattere una siffatta obbiezione non rimanevano alla critica che due sole vie; o negare di pianta lo scettici smo della Seconda Accademia, o rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle dottrine di Tullio, cercare quale e quanta efficacia vi esercitasse quel dubbio, o come metodo semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno. La prima di queste vie fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria scritta da lui sui Nuovi Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il critico francese,sebbene dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova Accademia non negava la possibilità della scienza, contraddisse alla storia, nè rispose al quesito del come conciliare la certezza dei libri morali di Tullio col dubbio quasi assoluto d'Arcesilao e di Carneade. L’alemanno mostra invece con maggior verità come il filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia quanto al metodo inquisitivo dei veri particolari,ne temperasse per altro il dubbio ravvicinandolo alle fonti socratiche. Ma ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze fatte da Tullio ne'più de'proemj sulla bontà e la modera zione del suo metodo,non ha considerato abbastanza nei libri morali come a quel precetto apparentemente negativo dinon cercare che il probabile,edirattenerel'assenso,con trapponga sempre, ad esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del conosci te stesso.Nè il tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso placito del savio ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e miserabile ossequio alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato delle sue opere (io lo affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e sistematico, il dubbio di Carneade,del Cartesio e del Kant,non antecedeva nella mente dell'oratore-filosofo allo stato di scienza. Egli,prima d'esserefilosofo,come uomo,come romanogiàsisentiva e si riconosceva nel vero;e quel vero,a cui l'animo spon taneamente piegava sin da'primi anni per inconsapevole virtù di natura,l'intelletto glielo mostrava più tardi adu nato, e come raccolto nell'evidenza interiore; evidenza non solitaria, non priva d'oggettività,non fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi sulla tela da magico apparecchio dilenti,ma uno spettacolo interno,a cuirispondevano. tre grandi attinenze dell'uomo con sè stesso,coll'universo e con Dio; un'armonia d'enti che la scienza dovea tras formare in armonia di principj. “Nam quum animus cognitis perceptisque virtutibus, a corporis obsequio indulgentiaque discesserit, volupta  sed Delphico deo tribueretur. Nam quiseipsenorit,primum. A questo proposito ci giova riferire le sue parole tolte da un luogo eloquente del dialogo delle Leggi, dove egli stesso in propria persona descrive il concetto ed il metodo della scienza prima. Ita fit (così il testo latino, che io trascrivo per maggiore esattezza secondo l'ediz. di Lipsia riveduta da Klotz) ut mater omnium bonarum rerum sit sapientia, a cujus amore Græco verbo “philosophia” nomen invenit, qua nihil a dîs immortalibus uberius, nihil florentius, nihil præstabilius hominum vitæ datum est. Hæc enim una nos quum ceteras res omnes tum quod est difficil limum docuitutnosmet ipsosnosceremus:cujuspræcepti tanta vis et tanta sententia est,ut ea non homini cuipiam, aliquid se habere sentiet divinum ingeniumque in se suum sicut simulacrum aliquod dedicatum putabit, tantoque munere deorum semper dignum aliquid et faciet et sentiet, et,quum se ipse perspexerit totumque temptârit,intelliget quem ad modum a natura subornatus in vitam venerit quantaque instrumenta habeat ad obtinendam adipiscen damque sapientiam, quoniam principiorerumomnium quasi adumbratas intelligentias animo ac mente conceperit, quibus illustratis sapientia duce bonum virum et ob eam ipsam causam cernat se beatum fore temque sicut labem aliquam dedecoris oppresserit, omnem que mortis dolorisque timorem effugerit, societatemque caritatis coierit cum suis, omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram religionem su sceperit, et exacuerit illam,ut oculorum,sic ingenii aciem ad bona eligenda et reiicienda contraria, quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid eo dici aut cogitari poterit beatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque omnium naturam perspexerit eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo obitura,quid in his mortale et caducum,quid divinum æternumque sit viderit, ipsumque ea moderantem et regentem paene prehenderit seseque non unius circumdatum mænibus loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit, in hac ille magnificentia rerum atque in hoc conspectu et cogni tionenaturæ, diimmortales, quam seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam contemnet, quam despi ciet, quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur amplissima! » Atque hæc omnia quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi ratione, veri et falsi iudicandi scientia et arte quadam intelligendi quid quamque rem sequatur et quid sit cuique contrarium. Quumque se ad civilem societatem natum senserit, non solum illa subtili disputatione sibi utendum putabit, sed etiam fusa latius perpetua oratione, qua regat populos, qua stabiliat leges, qua castiget i m probos, qua tueatur bonos, qua laudet claros viros, qua præcepta salutis et laudis apte ad persuadendum edat suis civibus,qua hortari ad decus,revocare a flagitio, con solari possit adflictos factaque et consulta fortium et sa pientium cum improborum ignominia sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot res tantæque sint, quæ inesse in homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi velint nosse, earum parens est educatrixque sapientia. De Leg. Qui s'espone a dettatura del nostro filosofo il suo metodo dell'osservazione interiore induttivo e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di Socrate e di Platone, e si  continuò, accolto dal Cristianesimo, lungo le scuole m i gliori dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose: lo ciò che antecede; 2o ciò che accompagna; 3o ciò che sussegue alla scienza. Lo stato che antecede la scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e speculativo dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar cano della sua somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel sentimento della dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e all'assoluto in cui vero e buono sono congiunti, e la ragione procede da uno stesso fonte identica colla legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de principj speculativi, ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio, capisce pei mezzi l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia pensiero e volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma speculativa.Due condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla zione dell'og getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo purificato spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita civile, l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo rende possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa rebbero potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e d'efficace, se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è prima necessaria la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato dalcuore (animo acmente) ravvisi nell'intellezione prima (adumbrata intelligentia), un po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. Ciò posto, si procede allo stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza interiore, col soccorso della Dialettica dottrina delle conseguenze e conciliatrice dei contrarj, levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co noscere e del fare,si forma i concetti d'origine e di fine, di contingente e di necessario, di temporaneo e di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo alla notizia di sè stesso e del mondo, notizia comprensiva ed universale che lo palesa inferiore soltanto a Dio, eguale ai suoi simili, e cittadino dell'universo. 3. Dall'ordine universale della Scienza prima discen dono due dottrine applicate, e strette in vincoli di co munanza fra di loro: la eloquenza civile e l'arte dello stato. Tali erano per CICERONE i fondamenti, ed il metodo della scienza. Ora ecco, secondo che riassume un istorico recente della Filosofia, quali erano isuoi criterj: « Nella coscienza di noi stessi Cicerone, come Socrate,più di So crate forse perchè romano,sentiva l'universalità del vero, distinta dalle opinioni particolari,e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni uni versali anch'esse; e però egli inculcava sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo,ossia nella retta ragione (De off); e contro gli Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc.e ne'Tuscul.e quasipertutto);echiama insoste gno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana,e dice ne' Paradossi contro gli Stoici: « Noi più adoperiamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pen sardellagente.» (Proem.) E nelleseguentiparolede' Tu scolani si vede com’ei raccogliesse,di mezzo alle opinioni varie,le tradizioni universali de'filosofi e le divine;« Inol tre,d'ottime autorità intorno a tal sentenza (cioè l'im mortalità dell'anima) possiamo far uso; il che in tutte le questioni e dee e suole valere moltissimo (in omnibus, caussis et debet et solet valere plurimum ); e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate); la quale quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ) tanto più forse discerneva la verità.» (Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli cita,preferisce appunto Ferecide,come antico,antiquus sane;e indine conferma l'autorità con quella di Pitagora e de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun altro    paresse dotto. E dice più oltre che, secondo Pla tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a sè,una inven zione degli dèi: « Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud,nisi, ut Plato ait,donum, ut ego, inventio deorum? » Nel che s'accenna il principio divino della Sapienza e della tradizione.(Conti, St. della Filo sofia) Se per ciò che risguarda i principj e i fondamenti della filosofia egli mosse direttamente da Socrate affer mando la chiarezza naturale del soggetto scientifico,e l'efficacia della conoscenza, quanto poi al metodo più propriamente detto, indagatore dei veri particolari, fu se guace, o come ci dice egli stesso,restauratore della Nuova Accademia (deserte discipline et iam pridem relicte ), restaurazione che, a mio parere, può e debbe chiamarsi una vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao e di Carneade tralignava nel dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia, si ricongiunse agli scettici dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio attingendo alle fonti socra tiche si riscontrò nelle tradizioni genuine della sua scuola. Questo fatto s'è rinnovato in Italia nel secolo XVII, quando Galilei tornando al vero metodo aristote lico dell'induzione, restaurava la filosofia naturale; più peripatetico in ciò, come egli stesso scriveva al Liceti,di tutti i peripatetici de'tempi suoi. Riassumendo il tutto in poche parole, Cicerone attri buiva alla filosofia universalità di fini, di principj e di metodo, e tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso generalissimo della voce sapienza, talchè dopo averla descritta ne'libri oratorj come un semplice esercizio di raziocinio, e in alcune opere morali come una dottrina puramente pratica e positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro degli Officj la chiamò con significato più largo: scienza delle cose divine ed umane e delle loro cagioni. Suolsi affermare comunemente dai critici e dai filosofi che CICERONE (si veda) diè prova di scarso ingegno speculativo non componendo le sparse verità in un sistema ordinato. La quale accusa vuol bene determinarsi; perchè,se con essa   si nega che Cicerone aggiungesse copiose speculazioni alla materia delle dottrine contemporanee, e che componesse le verità antecedentemente trattate dalle scuole socrati che in un compiuto e perfetto sistema, ha ragione la critica, m a la critica ha torto,se vuol negare che a Cicerone mancasse qualunque disegno di scienza, o un proprio cri terio per l'ordinamento formale delle dottrine. L'affermar ciò, rispetto a Cicerone, importerebbe nel vero affermarlo pure di Socrate,e d'ogni altro riformatore; chè il sistema della filosofia di Tullio (se così vuolsi chiamarlo), come quello di Socrate, non è ordinato secondo un disegno po sitivo corrispondente all'ordine del soggetto ripensato dalla coscienza, ma si svolge nella stessa opposizione alle sette, e in quella opposizione egli scuopre il concetto della scienza,e il metodo,e i criterj che gli son guida,indizio manifesto che,mentre da un lato egli demoliva le dot trine sofistiche dei contemporanei, edificava dall'altro sui fondamenti incrollabili della coscienza umana. Ora si avverta come il considerare in tal modo questa temperata efficacia della speculazione di Tullio, che ri pensa e rifà le dottrine degli altri con un proprio criterio positivo di paragone e di scelta,in contrapposto alla pas sività negativa dell'eclettico erudito che ricopia quelle dottrine e le raguna nella memoria, anzichè comporle nella riflessione; è metodo forse non seguito fin qui dai prin cipali critici di Cicerone,e tale che potrebbe condurre a meglio comprenderlo e giudicarlo col chiarire molte que stioni, tra le quali non ultima quella sull'uso ch'egli fece dell'autorità quanto ai fonti delle sue dottrine,trattata a lungo in Germania, e sì bene dal Kuehner nel capitolo quinto, parte seconda della Dissertazione citata. E tale è il metodo che noi abbiam preso a seguire, ond'escono alcune conseguenze e regole pel nostro esame. In primo luogo, poichè solo per nostro avviso, il contrapporre Tullio a'suoi contemporanei può dimostrare quanta altezza d'ingegno e potenza d'analisi gli abbisognasse per isceverare dalla confusione de'sistemi le verità principali, chiarirle e ordinarle in forma di scienza, terremo l'uso d'esporre ogni volta le principali opposizioni de' sistemi, e poi qual giudizio ne recasse il filosofo latino. In secondo luogo avremo questo a principio di critica, notato da altri, che, poichè le opere di Cicerone sono per la m a s sima parte dispute scritte, e, come tali, ritraggono nei varj personaggj il conflitto delle opinioni, e le nature differenti degl'interlocutori, convien distinguere con ogni diligenza quando egli riferisce la propria, e quando l'opi nione degli altri, quando egli stesso prende parte al dia logo, o si tien fuori, quando tratta ex professo una m a teria,oquandosoltantol'accenna (V.Degerando, Brucker, Kuehner, Middleton.) Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo ragionamento mostrerà come una pro gressiva verificazione dei principj supremi nella mente di Tullio, a misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla logica, e poi alla morale; ed è perciò che qualche argo mento interrotto in una parte delle dottrine, verrà ab bandonato e poi ripreso in un'altra, quand'egli,conside randolo sotto un aspetto diverso, sempre più lo verifica, e sempre più lo chiarisce. Le fonti da cui trarre le dottrine di Cicerone, sono principalmente i suoi libri di filosofia, che ci pervennero la maggior parte, se n'eccettui le traduzioni Oeconomica Xenophontis,Protagoras ex Platone, Timæus de Universo (trad., come app. dal proem., dopo gl’Accademici; i libri vriginali, Hortensius de philosophia,Consolatio de luctu minuendo (scritta poco prima dei Tuscolani), De Gloria, Commentarius de virtutibus,Cato,sivelausM. Catonis, Deiure civili in urtem redigendo; de'più fra'quali rimangono frammenti. Gli altri, non interi tutti, e che in ordine di tempo si distribuiscono cosi: De republica, De legibus(composti dopo il De republica), Paradoxa,Academicorum (ne fece due edizioni dette Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum,in 4 libri;della prima c'è rimasto il secondo libro, della seconda il primo; anno 709), De finibus bonorum et malorum; Tusculanarum disputationum (compiti avanti la morte di Cesare), De natura Deorum, De Divinatione, De fato, De officiis, Cato major de senectute, Lelius de amicitia (scritto dopo il Catone maggiore av.gliOfficj); furono variamente distinti dai critici secondo la loro materia e la forma. Ritter li distinse in riposti ed in popolari, clistinzione che più esattamente potrebbe ridursi all'altra de'dialoghi speculativi, come i libri Accademici, de'Fini, delle Leggi,della Natura degli Dei;dagli scritti che hanno È noto quanto siasi discusso tra i critici sulle dale dei libri di Cicerone.Cilusa principale del dissenso è il non trovarsi d'accordo quauto al determinare l'anno della nascita dell'Autore. Forsyth lo dice nato il 3 di gennaio, ma aggiunge in nota a p. 2, che, secondo il calendario Giuliano, egli sarebbe nato l'ottobre. In questo anno pongono la sua nascita Middleton, Kuehner ed altri autori meno recenti;onde seguita che,mentre, a cagione ll'esempio,essi fanno il De consolatione,l'Orlensio,gli Accademici, il De finibus e le Tuscolane, e le opere De Natura deorum, De Divinatione, De Fato, De Offi riis, Cato Vajor e Lælius; il Forsyth e l'edizione di Lipsia (riveduta dal Clolz so quelle dell'Orelli e dell'Ernesti), riferiscono i primi cinque trattati. Noi stiam o col critico di Lipsia, e col Forsyth,perchè mollo recenti,e temperati assai nei giudizj.Del resto di parecchie opere si conosce la data.Intorno a quella del De Republica e De Legibus rimane qualche incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De politicorum Ciceronis librorum tempore natali (Wirceb.), stabilisce avervi speso Cicerone oltre a dieci anni, Questa ed altre molte dis sertazioni di critici tedeschi e francesi, citate da noi,ricevemmo dalla cor. tesia dell'illustre Vannucci, a cui rendiamo pubblica testimonianza di gratitudine.  un fine pratico,ad esempio gli Officj, dell'Amicizia, i Para dossi, le Tusculane e qualche altro. Noi abbiam seguito l'altra distinzione più principale, ammessa da tutti icri tici, e che fino a un certo punto concilia l'ordine logico o sistematico o tematico  dei libri coll'ordine di tempo, tra le opere fisiche – filosofia naturalis -- De natura Deorum, De divinatione, De fato, e il Somnium Scipionis parte della Rep.), le logiche -- Academicorum, Topica, De inventione, etc. --, le morali – De finibus,Tusculanarum, Paradoxa, De legibus, De officiis, De republica, De senectute, De amicitia). Avvertendo che la distinzione non siprenda troppo assoluta, ma che si guardi alla qualità che prevale. Fonti secondarj, ma dausarsiconmolto riserbo, sono,secondo nota opportunamente Middleton nella vita di Cicerone,le Orazioni e l’Epistolario; e noi vi aggiungiamo le opere rettoriche, segnatamente il De Oratore e l'Orator. La distinzione accennata delle opere fisiche,logiche e morali risponde al concetto della scienza, e al metodo della antica Accademia seguito da Tullio nell'ordina mento generale delle dottrine, e ne partisce la filosofia nelle tre grandi teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare. Premessi questi principj generali, si passi ora al l'esame più specificato delle dottrine. Il prendere ad esame con quella larghezza e diligenza,che è necessaria alla critica istorica, le varie parti delle dottrine tulliane, è cosa invero che ricerca un abito non ordinario di osservazione, e un sentimento vivo delle attinenze scientifiche; perchè, sebbene, come fu notato nel capitolo antecedente, non si trovi nell'Arpinate un pieno disegno di filosofia ordinata a sistema, basta leg gere alcuno dei suoi libri speculativi per accorgersi tosto ch'ei ritraeva da Socrate,non soltanto ilmetodo esterno del disputare e la sobrietà dell'esame, m a altresì quella riflessione larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva nel l'universo delle idee la unità della scienza. E di fatto socratici veri sono, come ben nota Ritter,tutti coloro che videro chiaramente la necessità di collegare la scienza de'fatti interni con quella dell'universo, l'osservazione morale coll'esperienza e la fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più vero e perfetto socratico del nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il suo Maestro, che se un sentimento naturale, abbenchè indeterminato, dell'attinenza tra il pensiero nostro e gli oggetti, mosse la riflessione ne'primi passi della scienza a riconoscersi per illusione identica col mondo esteriore,illusione da cui poi i Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il pantei smo,e uscì la dialettica de'sofisti, un secondo passo a ristorare la scienza caduta nella materia e nelle astra zioni eccessive, doveva essere l'affermazione dell'uomo interiore, e di quella sintesi intellettiva e morale, sola realtà oggettiva, in cui mirando il pensiero potesse rav visaresèstesso in attinenza colle cose con Dio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera dottrina dell'es sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo, considerati nella loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in sè le scienze fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia. Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di Fisica (usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella Filosofia, perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale contemplato interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione esteriore il soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione intima delle parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane, e confer mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli Ionj,favorì invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava occasione, come sempre, ad un bene e ad un male; il bene era l'altezza della riflessione scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj l'intelligibile e il sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva sempre più addentro i legami che stringono la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia; il male era che le scienze sperimentali così intimamente collegate alla filosofia spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano da un lato rispetto all'universalità, traendo dall'accordo colle altre parti del l'umano sapere occasione a più vera e perfetta compren sione della propria materia, dall'altra ne scapitavano quanto ai metodi, allorchè all'osservazione esteriore o induttiva, che sola ci può condurre alla notizia dei corpi, si volle sostituire la deduzione, che da pochi generalissimi, posati a priori, scendeva di salto, come nota Bacone, al particolarede'fatti. Due fontiperennid'errorenellescienze sperimentali furono pertanto il panteismo e il dualismo; ilprimo,perchè,data l'unità di sostanza,ne consegue la medesimezza dell'ordine ideale col reale,onde deduce il filosofo darsi vero passaggio dalle idee alle cose,senza necessità di sensata esperienza; il secondo, perchè, fatta coeterna a Dio la materia,ne viene alterato il concetto di finitudine, e il mondo si pensa non più finito e tem poraneo, ma infinito ed eterno, e animata la materia e incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la fisica fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle Pittagoriche, nelle Eleatiche, in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del medio -evo. Le quali considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia esaminare la metafisica di Cicerone, e chiarire come mai,mentre la fisica superioreeledottrinesuDio, sull'uomo e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi prendono pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi dell'Arpinate in cui, venuta all'ultima corruzione la Gentilità, si rinnovarono esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia delle sette contemporanee nelle tre parti della    scienza,e volendo mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbio dellaNuova Accademia,sitrattienepiùspe cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad.) Da quel luogo apparisce che il panteismo e il dualismo italico spingendo all'eccesso l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della sostanza prima, avean con cepito a priori un'essenza nascosta e universale delle cose distinta dalle loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva in tutti gli elementi; m a sulla natura di quest' intima essenza si disputava segnatamente tra le scuole pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor geva questione tra le differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini dell'universo;gli Stoici ammettendo una continua successione di mondi, affermavano temporaneo il presente ordine delle cose; Aristotele lo diceva eterno; i primi trasportando l'immagine dell'uomo nel principio supremo, concepivano Dio provvidente nei particolari e negli universali; m a Stratone da Lampsaco e Democrito gli rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo, inentre Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli negava quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza delle cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio, ond'e'consigliavaun più modesto sapere; mostravacome la notizia, che noi acquistiamo de'corpi, movendo dagl’effetti, non comprende l'intima essenza e l'efficacia delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e metra ne'corpi, non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si manifesterà al Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per indagare i fondamenti su cui posa laterra. Procedendo di questo passo l'Autore faceva vedere negli Accademici, nei Tusculani e nel libro della Natura degli Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici intorno alla essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia sull'esistenza,natura e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e sue relazioni coll'universo, e sulle altre principali verità della scienza. Nei luoghi citatiadunque e in qualche altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il dissidio delle scuole sulle verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia seguace della Nuova Accademia; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi, attingendo di preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e dove le dottrine della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse il dubbio universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella fisica ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle teorematiche; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo;l'altre risguardanti l'esistenza e natura di Dio, dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta verosimiglianza della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla Fisica, in una età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei metodi e degli istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza, professare una modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi progressi dello scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si sarebbe aperta la via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato, come sentenziando con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si toglievano poi l'autorità d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione importante e che mostra come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio non professasse un dub bio assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi dal verosimile al certo. Acad .prior.e De repub. M a la prova maggiore si è che, mentre le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra la fisica, lo la sciavano sconfortato e dubbioso,un desiderio nutrito dall'ingegno potente e dall'animo roma no,loinvogliava delle indagini naturali,di quelle indagini onde ci leviamo sopra noi stessi, e dispregiando la picco lezza delle umane cose, proviamo un vivo sentimento del divino e dell'immortale. « Nè anche io penso, così scrive CICERONE (si veda), che sidebbano tor via tali questioni dei fisici; poichè viè un certo naturale alimento degli animi nel considerare e contemplare la natura;ce ne sentiamo inal zati,e fatti più grandi, e nel pensiero delle cose supe riori e celesti dispregiamo queste nostre del mondo come leggiere e di nessuna importanza; anche l'indagine stessa di cose grandissime e occultissime diletta oltremodo; se poi c'imbattiamo in qualcosa che sembri verosimile,l'ani mo nostro è compreso da quel piacere che supremamente è degno dell'uomo.» (Acad.prior., De fin.5). Innamo rato quindi della fisica, come fonte di più alte specula zioni, egli rigettava le fantasie grossolane di Democrito e d'Epicuro . De fin. Loda Zenone perchè imitatore dell'antica accademia diligente indagatrice della natura (De fin.); e i quesiti del l a fisica che lo mossero a tradurre il Timeo di Platone, gli avevan det tato qualche anno avanti le pagine più eloquenti del trattato sulla Repubblica; il ragionamento di Filo e lo stupendo sogno di Scipione. De rep., De fin., Tuscul.  Due conseguenze,per quanto ci sembra,discendono dal contesto generale dei passi sopraccitati, e da una lettura complessiva dei libri fisici di Cicerone: 1o che il filosofo latino, a misura che dalla ricerca delle cose sensibili, e dell'essenza loro occulta all'intelletto dell'uomo,argo mento de problemi, si levava col discorso induttivo ai teoremi della scienza, scopriva illuminate da una luce interiore le verità più alte, sebbene in mezzo alle tene bre del gentilesimononardisse determinarle; 2ache,ofosse la dottrina stoica a cui pendeva,o l'indole viva e meri dionale del suo ingegno, nella natura egli sentiva e rico nosceva il divino; e tale attinenza sentimentale e logica della sua mente tra ilfinito e l'infinito,tra il contingente   e l'assoluto, tra il temporaneo e l'eterno gli era scala a pensare la relazione ontologica;e questa poi per abito alsemipanteismo-dualistico di Platone e degli Stoici lo conduceva probabilmente a immaginarsi l'intelletto umano emanato da Dio,e Dio e le creature supreme disgiunte dall'universo de'corpi. In questo metodo che sale per gradi di verosimiglianza dalla natura al divino, metodo improntato sulle meditazioni socratiche,sta l'essenza della fisica di Cicerone,e n’escono chiarite e per ordine le sue dottrine sull'esistenza e natura di Dio, dell'universo e dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà dell'arbitrio. 2. La dottrina sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo luogo nella fisica di Cicerone.La causa di questo primato apparisce evidente innanzi tutto per la sovranità incontestata dell'idea di Dio nella scienza. Dio, oggetto necessario e reale assoluto ed eterno che si manifesta come prima causa al di fuori di sè stesso nell'universo degli enti, e li governa volgendoli ad un fine immortale, che ne è prima legge, in quanto si rivela all'intelletto dell'uomo nel mondo degl'intelligibili,come ragione prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine scienziale; e infatti,sebbene l'inda gine della coscienza interiore sia principio e fondamento al sapere nell'ordine della riflessione, è pur certo che i veri, i quali si dicono da’filosofi più noti rispetto a sè stessi, e son centro d'infinite relazioni, come quello di Dio,partecipano all'uomo quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle armonie della scienza. Nè il primato del concetto di Dio si menoma punto se la mente sale da ciò che muta a ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una volta ch'ella v’ascende guidata da un concetto necessario d'attinenza causale, attinenza di termini cor relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con arcana e invisibile efficacia nel soggetto pensante. Anche senza l'unità assolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone dunque in forma di scienza,e la psicologia e la cosmologia si congiungono insieme nel massimo problema della teologia naturale.La qual cosa è assai provata dal metodo di Socrate, che movendo dalla coscienza produsse in Platone una compiuta armonia di sistema, e aiuto il filosofo latino, venuto in tempi di povere e scucite speculazioni, a ser bare un vincolo di dottrine nei suoi libri di fisica, che scritti in ordine successivo di materie e di tempo,debbono quindi esser presi ad esame da noi come un solo trattato. Premesse queste cose, viene spontanea la domanda: quale fosse il pensiero dell'oratore latino intorno a Dio.Se dopo una attenta lettura dei passi delle sue opere, dove tal pensiero s'accenna,e un diligente ragguaglio di questi passi tra loro,ci facciamo tal quesito, verrà spontanea pure larispostach'egli dell'esistenzadiDio,diquelladell'anima e sua immortalità, della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e soltanto accoglieva una più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la natura; e il suo criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo intuito e un sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose palesata internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi di universale consenso. (Kuehner. Scholten, Dissertatio philosophico-critica de philosophiæ ciceronianæ loco qui est de Divina Natura. Amstelaed. In questo criterioioravvisoil riformatore e il filosofo vero; il riformatore, perchè m o veva da ciò che v’ha di più vivo e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze morali, il filosofo, perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi viduale,ma con deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella ragionevole natura dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale osservazione è degna d'es sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici della filo sofia,tra iquali anche Ritter,considerando ilmodo ora dubitativo, oradommaticoconcui Cicerone si esprimeinsif fatta dottrina, ilsuo riserbo nell'accettare le opinioni degli altri, nell'esaminarle, nel ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa parte,filosofo di non troppo sottili spe culazioni, più che a una severa riflessione, se ne stasse al sentimento individuale destituito da criterj scientifici. (Ritter, Hist., Brucker, Degerando.)  Ma questi storici non hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone; tempi di sfrenate passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici, ne'quali ogni fon damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban donato il sublime ministero di propagatrice del vero, si prostituiva alguadagno. Allora la voce del senso comune e degli affetti naturali, alterata dalla Gentilità, non so nava nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni versali e delle tradizioni primitive; la voce del popolo non era più quella di Dio. Allora la tradizione scientifica, che ravviata da Socrate s'era andata continuando, benchè con notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che, pervertita dagli ultimi sofisti avea perduto ogni sen timento del vero;talchèalfilosofo,chenon avesse voluto o bestemmiar colle plebi o delirar coi sapienti, non ri maneva che cercare iprincipj della scienza nella propria natura non corrotta e nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò Cicerone alle principali dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo guidarono in mezzo ai ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario notare che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot trinecontemporanee, nèintendiamo ch'e'fossesì fortunato da ravvisare scevre d'errore nel santuario della coscienza le verità principali.- Ebbe egli compiuta e perfetta n o tizia della natura di Dio e delle sue perfezioni? conobbe senza mischianza d’errori i d o m m i della spiritualità e i m mortalità dell'anima umana?ravvisò semplici e schiette, senza infezione di panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente supremo coll'intelletto dell'uomo e col mondo? - I o so che tali quesiti furono proposti più volte dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non sempre rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato nome e autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo difese dall'ateismo; redi Bayle, Diz. Art. Spinoza). E veramente la conclusione Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D e natura Deorum; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato. Or qual eraquelfine? Chiamare scenderebbe di necessità dai principj, quando si potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino di progressivo svolgimento nella età dellastoria; e sela criticamoderna immune da preoccupa zioni, adoperasse sempre una stessa severità imparziale nell'esame d'ogni filosofo. Ma la cosa procede ben altri menti; perchè da un lato il razionalismo alemanno coi suoi seguaci d'ogni paese, che ammette ogni perfeziona mento scientifico come un prodotto spontaneo e succes sivo della ragione nel tempo,non potrebbe,senza rischio di contraddire ai principj del proprio sistema, negare che la forma logicale e il fondamento delle dottrine dei filo sofi antichi sia rispetto a quel de'moderni notevolmente imperfetto; d'altra parte il filosofo del Cristianesimo, che afferma oscurate e corrotte prima della venuta di Cristo le tradizioni e le verità primitive, e restituite dalla parola rivelatrice del Verbo quelle tradizioni e quelle verità all'intelletto dell'uomo redento, non può non ravvisare nelle dottrine cristiane un perfezionamento notevole delle dottrine gentili; infine, ed è conseguenza del già detto, nessuno rimprovera ai filosofi Indiani, Italo-Greci, a So crate, a Platone, ad Aristotele l'ignoranza, l'errore e le manifeste dubbiezze intorno a parti sostanzialissime della scienza. Le quali cose premesse, è inutile,parmi, far conside rare al lettore di Cicerone ch' e' non vi troverà deter minato senza ondeggiamenti d'idee e d'espressioni il con cetto di Dio; anzi dirò di più che tal concetto in parecchi luoghi delle sue opere (come nel De natura Deorum ) apparisce più assai negativo che positivo. Resta ora che cerchiamo in breve per quale indagine lenta e progressiva giungesse il filosofo nostro a una verificazione sempre m a g giore di quel concetto divino.   ad esame le principali opinioni de'filosofi intorno a Dio, discuterle,confutarle, e mostrare come le loro controversie sovra una parte sì nobile della scienza siano ben sovente occasione e pericolo di scetticismo. Con questo intendimento venuto egli ad esporre l'occasione del dialogo, racconta come essendo stato invi tato nel tempo delle Ferie latine in casa dell'accademico C. Aurelio Cotta pontefice e suo familiare e trovatolo insieme con C. Vellejo, che allora avevavoced'esserein Roma ilprimotragliEpi curei,e Q. Lucilio Balbo, stoico da paragonarsi ai più prestanti fra iGreci, cominciarono questi a disputare, lui presente, della natura degli Dei, spartendo tutta la m a teria in tre punti principali; vale a dire: se vi fossero Dei,quale fosse la natura loro,e quale intervento aves sero nelle cose del mondo e degliuomini. La qual spar tizione è conservata in appresso sì nell'esposizione delle dottrine di Vellejo e di Balbo, come nelle risposte di Cotta, che replicando ogni volta a ciascuno di loro, li confuta entrambi. Il dialogo sulla natura degli Dei,che è dei più im portanti fra i libri speculativi del nostro autore, si riduce in sostanza a una esposizione viva ed eloquentissima delle incompiutezze dei sistemi sofistici, contraddicenti alla c o scienza e al suo naturale riconoscimento, e si vede quivi come gli errori più perniciosi sul concetto di causalità prima che è fonte a noi del concetto di Dio,accumulati da secoli, corrompevano allora le speculazioni gentili. Il panteista, immedesimando Dio colle creature, pervertiva l'idea della sua natura infinita e assoluta, introducendo nell'ente senza difetti il maggior de'difetti,la negazione dell'infinito e dell'assoluto; il dualista che svolge l'unità primordiale del panteismo, segregando il Creatore dalle cose create e indiando la natura, si perdeva nella contra dizione immortale di due infiniti coeterni, onde moltiplicando il divino, l'annienta; il materialista e l'idealista l’un o affogato nel senso, l'altro confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o si vedevano dileguare il concetto di Dio  tra i fenomeni della materia, o lo perdevano di vista nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e l'altro riuscivano a n e garlo,perchè sempre si nega per necessità di sofisma l'evi denza non affermata per difetto di logica. Ora egli è a p punto questa legge inesorabile dell'errore che Cicerone volle rappresentare mettendo alle prese l'Epicureo con lo stoico, e sottoponendoli entrambi al sindacato della Nuova Accademia. E invero quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che riesce sì lusinghiera vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta la sua nudità nel discorso di Vellejo. Po neva egli come certo che gli Dei sono,perchè la natura avea impressa negli animi di tutti la loro anticipata notizia (apódnbev),e ne accennava vagamente l'essere e la figura, facendoli eterni e perfettissimi e conformati a si militudine umana,ma non da materia corporea e sensi bile,bensì da un fortuito accozzo d'immagini simili rin novantisi all'infinito (imaginibus similitudine et transi tione perceptis); gli Dei così costituiti dipingeva beati, e non curanti nè di sè stessi, nè delle cose pertinenti agli umani. Ora è chiaro che le conseguenze d'una siffatta dottrina eran ridurre la natura di Dio ad un puro con cetto della mente,ad un'immagine d'inerzia non conci liabile coll'ordine e col moto d'ogni cosa creata. Ma a più alto concetto di Dio si levava lo stoico Lucilio. Gli Stoici che,come vedemmo nella prima parte, ammettevano contenuta nell'indeterminatezza primordiale della materia passiva, oscura, divisibile, capace all'infinito di forme un'intima energia che traendola all'atto ne costituiva la vita dell'universo, concepivano Dio in questa vita,e m o vevano per affermarlo esistente dall'universale consenso, dai prodigj,dall'armonia delle cose,e dalla eccellenza dello spirito umano. Sostenuta da questi argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio che va dal C. XXXIII al LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti dell'eloquenza romana. Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della Nuova Accademia contro le dottrine d'Epicuro e di Crisippo, ci si presenta la questione, a lungo agitata nelle scuole, qual sia in questo libro il vero pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio accademico si manifesti in lui sotto la per sona di Aurelio Cotta. I critici più antichi lo affermarono risolutamente, alcuni più recenti come Scholten, Kuehner e Ritter, con qualche riserbo. Ma sì gli uni che gli altri si avvicinarono al vero senza comprenderlo a pieno; perchè essi ponevansi ad esaminare quel libro preoccupati dal concetto che Cicerone conforme a ciò che dice in varj de'suoi proemj,e nel proemio del De natura Deorum, partecipassequividel tutto il dubbio fon damentale e sistematico, il dubbio di Carneade sulle verità principali; laddove bisognava invece considerare come il quesito proposto risguardasse intimamente il complesso delle dottrine, nè quindi potesse essere risolto badando a qualche frase staccata, m a solo serbando nell'esame la rigorosa armonia delle parti col tutto. Alla qual cosa, se non m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da prin cipio,quando distinguemmo nell'oratore latino due parti, e quasi due forme dell'indagine scienziale; per l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli si ravvicinava ai principj socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei fatti della coscienza; per l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio della Nuova Accademia, moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao, più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie opinioni,ed anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio fondamentale sulla validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da Carneade, doveva avvenire (siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche tulliane contraddi più volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos sero in lui quasi due persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra implicitamente edecisamente affermava. Ora si avverta un poco come questa contradizione, non però sostanziale,apparisca, più che altrove,evidente nel l'opera che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da un lato Cicerone che assiste al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro Cotta che vi sostiene la parte di con futatorecol metodo della NuovaAccademia, è dato occa sione alla critica di verificare con bastante certezza le sue opinioni, raffrontando insieme la persona del ponte fice con quella dello scrittore. A persuadersi di ciò ba sterebbe considerare qualmente, se Cicerone intendeva celarsi sotto la persona di Cotta,era inutile allora che introducesse sè stesso;ma egli si dipinse là in mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio veramente sublime, per rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che, sebbene certo per natura di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso all'acquisto della certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone possedeva da n a tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè egli stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci dice che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione potente di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo; e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio irrepugnabile del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua prov videnza sui fondamenti della certezza morale. Il dubbio di CICERONE (si veda) nel libro De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle ra gioni già possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la certezza scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova Accademia, quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce alle ultime conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già apparente e metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo d'Arcesilao, il quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle cose e le potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale e del senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice evidenza. Questa è la ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal negare agli Epicurei ed agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata dal senso co mune. Ora siavvertacome la Nuova Accademia non affermando un proprio e fermo fondamento di vero negli umani giudizj, e solo una tal quale verosimiglianza eguale per tutti, mancava di prin cipj certi e positivi da costituirvi la scienza,e conseguen temente anche di un criterio sicuro a cui ragguagliare la critica de'sistemi contrarj. Questi sistemi, conforme alle opinioni della Nuova Accademia, non erano quindi alcun chè di vero o di falso secondochè si avvicinavano o si dilungavano dai principj irrepugnabili della scienza; con tenevano tutti, sebbene in gradi differenti, la verosimi glianza concessa all'umano intelletto, e solo quando il legame logico, che intercede di necessità tra le conse guenze e i principj, non era strettamente serbato, allora soltanto si dava in essi l'errore. Un tal criterio, sostan zialmente negativo e relativo,abbisognava (si dirà) diun criterio positivo e assoluto desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi, su cui posa incardinata la necessità logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non vibadava, e ragguagliando ciascuna filosofia colle premesse del pro prio sistema, tentava coglierla in evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone passim.)  Un si manifesto contrasto tra il dubbio verificativo e scientifico del nostro Autore, e il dubbio scettico della Nuova Accademia apparisce in ogni passo de'suoi libri, in cui egli introduce la persona di qualche Accademico che confuta gli opposti sistemi; apparisce poi più evi dente che mai nella conclusione del De Natura Deorum, dove Tullio, uditi i filosofi disputanti, termina dicendo: la disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a Vellejo (Epicureo)più vera;a me l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che è quanto dire che la Nuova Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli Epicurei, mentr'egli, certo di questo vero,si allontanava dagli uni e dagli altri accettando in parte le dottrine del Portico.E che dim e  gli opoteva eglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte quasi del tutto le sacre tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai vizj, da un lato, imbestiati nella materia negavano gli Epicurei la spiritualità del concetto di Dio, e la sua provvidenza, dall'altro negavano gli Accademici la efficacia del senso comune nell'affermare Dio,e sottili argomentatori lo contrapponevano al male; ai primi Tullio opponeva nel proemio citato la dignità dell'umana mente, il bisogno innegabile della religione consentito da tutti;ai secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli affetti dell'animo,isupremi principj della ragione e la libertà del volere (Tusc., d e Nat. Deor., De Leg., passim);del resto egli pendeva verso gli Stoici,e perchè consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel loro sublime concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come poi egli movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio scientifico, sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle Leggi, dove l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema sanzione gli faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio provvidente,e allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in cui sia innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal cielo. De Leg. Premesse queste considerazioni, se ne possono dedurre tre cose. Il vero intendimento di Cicerone nello scrivere il De Natura Deorum fu,esporre e confutare i principali sistemi contemporanei, e a tal fine egli assunse come istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della Nuova Accademia,senza accettarne lo scet ticismo. Cicerone non rappresentò sè stesso nella per sona di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e todo proprio; Il filosofo latino volle significare nelle parole del proemio, e della conclusione,e nel silenzio ser bato in tutto il dialogo ch'egli aveva di Dio un alto concetto, che quel concetto nella sua mente era certo di certezza naturale, m a che in mezzo alle tenebre del Ge n tilesimo e alla discordia dei dotti,non ardiva determinarlo in ogni sua parte, e sostituirvi una assoluta cer tezza di scienza. Ora si domanda, perchè non riuscisse a Cicerone definire a sè stesso questo concetto. Dimostra l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo investigando le proprietà metafisiche dell'ente in ordine ai concetti universali, distingue l'essenza dall'essere di una cosa;quella come idea generale rappresentante una possibilità di cose indefinita, questo un che d'attuale, di esistente e di determinato in sè stesso. Ora si badi che ciascuna cosa esistente, sebbene offerta all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità universale della sua essenza, in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un atto reale dell'essere, cade per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze conoscitive,e come tale è appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di molti finiti nella serie degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa dalla riflessione, le va si al concepimento delle cose infinite. Ma il concetto dell'infinito, che è cima della piramide ideale,può es sere inteso in diversi significati; l'un significato che ci offre l'entità assoluta, necessaria e in ogni sua parte perfetta; l'altro che ci rappresenta una semplice entità indetermi nata,e un mero portato dell'astrazione mentale.Però sebbene un intervallo notevole disgiunga nell'intelletto del filo sofoe dell'uomo volgareitre concetti del finito, dell'infinito e del non definito, merita di essere considerata quella ragione qualunque di rapporto e di similitudine per cui essi possono scambiarsi talvolta. La riflessione naturale aiutata dal lume della scienza e dalla pienezza delle tra dizioni divine, avea concepito ab antico, indi al termine dell'Era pagana ravvisò con evidenza maggiore nelle dot trine cristiane l'idea dell'infinito assoluto, dell'ente per essenza correlativa necessariamente all'idea del finito, vide in quest'ultimo, naturalmente determinato e imper fetto,come non darsi possibilità d'attoinfinito,così nean che necessità d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito procedere per atto creativo dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il contingente dal necessario.Tale è la teorica cristiana della creazione, fondata sopra una serie logica di concetti, la cui necessità è confermata a noi tutti fino dai primi anni in una voce interiore che ci parlò sublimi cose di Dio, in un continuo desiderio,che ci travaglia inconsapevoli per tutta la vita in cerca d'una perfezione immortale. Nel procedere che fa la mente a questo apice dei concetti v’ha per altro un pericolo d'arrestarsi per via;chè sebbene ilsentimento e l'intuito dell'infinito non possa verificarsi nell'uomo senza una segreta unione del l'intelletto con Dio (qualunque poi sia questa unione,e in qualunque modo s'effettui), e sebbene per l'attinenza di creazione l'atto infinito ed eternale del Creatore costi tuisca nelle cose finite alcunchè di somigliante a sè stesso, cioè un'indefinita potenzialità d'atti,di forme, di m o menti,è però assurdo scambiare quell'attinenza coll'iden tità, e quella potenzialità indefinita coll'infinito che la pone.Tale assurdo è l'origine del concetto d'indefinito applicato alla causa creatrice.Fingasi ch'io pensi iltempo, lo spazio, o l'indefinita potenza del mio pensiero; allora (e può facilmente avvenire ciò che tutti provammo alla vista di pianure interminate e di mari, o in un facile abbandono della mente a sè stessa), se in quell'arcana presenza di Dio la fantasia prende il di sopra sulla r a gione, io mi rappresento quell'ordine d'atti, di durate, di coesistenze come infinitamente continuato, continuato per una perpetua remozione di limiti che, a dir così,sono e non sono ad un tempo; e quell'abbaglio di fantasia si muta in un concetto reale,ed io penso l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto l'immagine d'indefinito.Così nacque ilpanteismo in Asia,in Italia ed in Grecia;e così pen sano l'assoluto i panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata mente. Veduta la differenza d'origine dei tre concetti di finito, d'infinito e d'indefinito,si domanda ora quanto all'essere loro quale d'essi sia negativo. Per fermo l'infinito,se ne togli il materiale significato della parola, evidentemente nel suo concetto non ha nulla di negativo, desso che non ha limiti ond'è costituita negli enti la negazione dell'es sere; non limiti di contingenza,perchè necessario, non limiti di tempo, perchè eterno, non limiti di modi e di mutazioni,perchè assoluta sostanza;anzi èinfinitamente positivo come causa infinita, e perchè dotato d'efficienza assoluta pone dal nulla l'effetto, e perchè ne rappresenta in sè in modo sopraeminente e immensurabile le perfezioni finite.Il finito poi da un lato è negativo nella sua essenza ideale, come rappresentante all'intelletto un che fornito di limiti, dall'altro lato è positivo nel suo essere come atto sussistente e determinato; l'indefinito che è propria mente l ' i po y dei greci, è negativo nell'essenza e nel l'essere; nell'essenza c o m e astratta potenzialità del finito, nell'essere come un qualcosa che perennemente diviene, e non è mai; e dico che è negativo in ogni sua parte, per che se il positivo del finito consiste nell'essere determinato come atto individuo e concreto, l'indefinito che nega quella indeterminatezza, si riduce ad una pretta astrazione mentale e per ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto d'indefinito, cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che nelle nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia agli adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non escludo che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero in parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale il sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore. Ma tornando alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi, come tutti i pagani, rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo dell'infinito. C o n tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del concetto di Dio la parte più negativa, tra perchè quivi egli procedeva per metodo d'eliminazione confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi all'idea indefinita che ne avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia che nelle sue dottrine s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli attributi dell'anima considerati come corre lativi, o analogici agli attributi di Dio. Questa teorica, accennata in fine del De Natura Deorum, ritorna negli ultimi capitoli della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di quei capitoli della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla Repubblica di Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi si tratti dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e perciò la materia contenga un intendimento morale, l'essenza di quelle dottrine si ri connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo di tutti isistemi gentili, per quanto con nessi consottilissime prove, eanimatidaun intimo principio diidealità, si annidava pur sempre una ragione dimateria lismo, procedente dall'idea indefinita ch'essi qual più qual meno s'eran formati dell'infinito,e che originandosi da un ristagno dell'immaginativa nei fenomeni della m a teria e del senso,ivi la riconduceva pur sempre giù dalle altezze più metafisiche della scienza. I Gentili, e segna tamente gl'Ionj, considerando in tal guisa l'operare delle cause naturali,per quindi dedurne la prima causa del l'universo,tra i fenomeni esterni posero particolare atten zione al moto, e perchè al moto si riducono sostanzial mente tutte le trasformazioni della natura, e perchè al moto s'attribuisce in generale la causa de'fecondamenti terrestri; il moto poi richiede un'intima forza motrice delle sostanze, altrimenti non si spiegherebbe come, data l'inerzia della materia,dall'una sostanza e'si comunichi all'altra;ecco perchè negli antichi panteisti e semipanteisti, e nei loro imitatori moderni primeggia il concetto di forza (Büchner, Forza e Materia ); applicate poi questo concetto delle forze particolari all'universalità delle cose, e immaginate un'unica sostanza a cui segua necessaria mente un'unica forza, e avrete il panteismo dinamico di Capila, degl'Ionj, del Timeo e degli Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel suo fondo l'impronta del pensiero che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso la riflessione procede astraendo per ragionamento induttivo lungo una serie di cause modali dalla più manifesta e determinata ad una occulta e generalissima cui sidà ilnome di causa prima, e tra le cause modali,fornite di più intima e m a nifesta efficacia, l’anima,che ha coscienza viva del proprio essere,è tratta a concepire sè stessa per prima, ne viene che l'ultima causa si pensi ad immagine dell'anima come un alcunché diuno,origine difattimolteplici,presente col l'unica attività a ogni parte della materia informata,fonte di vita, di movimento,di senso. Stabilita questa dottrina panteistica, apparisce chiaro quali conseguenze ne prover ranno alla dottrina dell'anima. Il filosofo gentile che dal concetto dell'anima è tratto a pensare la causa prima dell'universo, e la natura di Dio che lo informa, discen dendo novamente da Dio e dall'universo in sè stesso, immaginerà l'anima d'origine e d'attributi divini (h u m a nus animus decerptus ex mente divina. Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il modo d'operare delle sue facoltà a somiglianza della natura divina, e finalmente confondendo l'eternità, attributo dell'ente infinito, col l'immortalità che appartiene agli spiriti finiti, farà eterna e immortale l'anima,dicendo con Platone che essa è una causa,origine di moto ad altre,senzaorigine essa stessa e perciò senza fine. De Rep., e Tusc. Questa è la sostanza del sistema panteistico (o semi panteistico) esposto dal filosofo nostro negli ultimi capi della Repubblica. Ivi descrivendosi in modo stupendo la costituzione dell'universo, si rappresenta la terra circon data dalle nove orbite dei pianeti animati da divine menti, dei quali l'ultimo che contiene tutti gli altri,è sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni disceso l'animo dell' Da queste considerazioni apparisce quanto sia intima mente collegata alla teologia naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi volessimo recare per esteso la ra gione più generale di questo legame, e spiegare coi filo sofi recenti quel modo d'induzione correlativa, onde la mente negando al finito le sue limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di Dio,trascenderemmo di troppo itermini della presente questione. Invero la notizia che all'uomo è concessa dell'assoluto divino,procedendo per analogie e rap presentanze il cui contenuto ci è pôrto da elementi speri mentali, dee riuscire di necessità inadeguata all'oggetto; uomo, è il divino esso pure che governa e muove il corpo come il divino principe, l'universo;sempiterno,immortale, rinchiuso nel corpo come in un carcere,e desideroso della sua dimora celeste,dove restituito dopo la morte in premio delle virtù cittadine godrà eternamente la compagnia degli spiriti immortali.In questo luogo son chiare le remi niscenze di Platone e degli Stoici; ma degli Stoici v'è poco; laonde io non vi riconosco col Ritter un prevalere del concetto stoico di materialità sul concetto della spiritualità divina (Hist. de la phil. anc.); perchè, sebbene CICERONE (si veda) volendo abbellire della fantasia le sue dottrine fisiche ai lettori romani,riproducesse ivi la parte più immaginosa e più sensibile del sistema pla tonico del Timeo,è noto come quelle immagini nascon dono nell’Ateniese una idealità di concetti sublimi,e più m'è argomento che Cicerone in questo luogo si scostò dagli Stoici, il vedere com’ei faccia immortale non sol tanto l'anima universale, m a anche le anime particolari, mentre per confessione del dotto Alemanno, « era con forme alle dottrine degli Stoici il ricusare all'anima indi viduale, come parte dell'anima universale, l'immortalità insensoproprio.» (Ritter, Physique des Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del Mamiani, Ontologia, acutamente accennata l'opinione contraria.)   inadeguata, io dico, perchè l'animo che giunge al concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non può far sì che nelle conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia il sensibile e il contingente che si conteneva nelle premesse; e perchè in quella via che dalla natura ci mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal ter mine che dovremmo varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce incommutabile dell'infinito riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il sole, non ancora spuntato sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È questa la vera causa per cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso dall'indole sublime,e l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo vedemmo) al concetto ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno fra gli studj più belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi libri popolari e speculativi come il concetto di Dio,correlativo a quello del l'anima, si va grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè perviene alla sua pienezza nelle dottrine morali. Un primo passo di questa ardita speculazione noi lo vedemmo nel De Natura Deorum,libro essenzialmente istorico e disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e inteso a paragonarle tra loro e a combatterle con ogni argomento,non sa affermar che ben poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien dietro a questo nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il concetto di Dio si determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza alle dottrine platoniche; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel primo libro delle Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj dell'osservazione intima della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato, di profondarsi nel l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta lità, secondo il metodo della Nuova Accademia;cioè vuol provarsi (giusta l'intendimento metodico del libro) come ammessa o non ammessa la indistruttibilità dell'anima umana,segua in ogni modo che la morte non è da te mersi; l'immortalità poi si dimostra movendo dalla tra dal dizione degli antichi, tradizione efficace quod propius aberant ab ortu et divina progenie, dal consenso univer sale che è legge di natura, manifesto nelle consuetudini, nelle leggi, nelle cerimonie, negl'istituti, e dal senti mento naturale, onde alberga nelle menti degli uomini, e segnatamente dei grandi,il desiderio della gloria che Cicerone chiama con bella immagine un augurio de'se coli futuri. Sostenuto da tali prove la cui efficacia de riva dal fondo del pensiero platonico, egli per ispiegare la condizione dell'anima dopo la morte, ricorreva a de terminarne la natura, e contro gli Stoici che le aveano concesso un'immortalità temporanea, affermava con ra gione essere più difficile assai pensare l'anima rac chiusa nel corpo, che immaginarla libera da ogni m a teria, e tornata ad abitare nel cielo ond'ella è discesa. In queste parole si accenna la spiritualità che prevale tra gli attributi dell'anima; sennonchè il nostro filosofo,che avea penetrato il vero senso scientifico della parola, dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non percepibile al senso, andar soggetto per altro all'apprensione del conoscimento, venuto poi a determinarlo, rimase un po'titubante; onde,sebbenetra cinque elementi, che secondo Aristotele costituivano la sostanza terrestre, scegliesse il quinto non nominato, più che non inteso a costituirne l'essenza, e rifiutasse le gros solane fantasie d’Aristoxeno, di Democrito e d'Epicuro, quando se la immaginò separata dal corpo, necompose una dottrina non al tutto spirituale. Concedansi queste incertezze, da cui non anda assoluto neanche Platone, al bujo sempre crescente delle speculazioni gentili.Ma da modesti principj si leva il filosofo latino alla sublimità della scienza. Egli è tanto inclinato con Platone ad affermare l'anima come una natura perfetta e immune da ogni contagio colla materia, che la vuol rinchiusa nel corpo come in un carcere; colle dottrine della filosofia moderna ne inferisce la semplicità dal sentimento unico ch'ella ha del molte plice;riproduce,come nella Repubblica, il noto argomento platonico tolto dall'eternità de'principj motori, e chiama plebei quei filosofi (gli Epicurei)che non ne consentivano l'efficacia; espone anche l'altro che all'anima attribuisce l'immortalità per l'intuizione degli eterni esemplari. Che dunque inferiva da queste prove? Egli stante la incertezza de'filosofi contemporanei, non si perdeva a determinare in che proprio consistesse l'essenza dell'anima, o dove la sua sede nel corpo; atte nendosi al concetto di causa,rivendicava al ragionamento induttivo sui fatti interiori la sua validità di contro al l'induzione delle scienze sperimentali; e si volgeva agli empirici materialisti,maravigliandosi come negassero poter concepire l'essenza dell'anima separata dal  corpo,essiche pur tanto poco conoscevano dell'initimo operare della materia; argomento valevole anch'oggi a smascherare i pretesi nemici della Metafisica,se la reverenza alla ne cessità logica de principj fosse mantenuta nel fatto, come è predicata a parole,da quanti amano chiamarsi seguaci delle discipline speculativ e. (Tusc., Cf. Cato M., de Am. Meditando i capitoli della Repubblica e delle Tuscu lane, alcuni del Catone Maggiore e del Lelio, e qualche squarcio delle Orazioni (Miloniana), si vede in tutta la psicologia del nostro filosofo, anzi in ogni parte della sua fisica questo ritorno costante dell'induzione correlativa;nè sfugga all'osservazione del critico una nota importante di questa dottrina, e cioè che, sebbene parrebbe a primo aspetto avere Cicerone desunto la cer tezza scientifica della esistenza e delle perfezioni di Dio dalla contemplazione dell'universo e dell'animo umano, apparisce invece in più luoghi che un sentimento vivo del l'eccellenza di Dio,nutrito dall'indole religiosa, e dalle tradizioni latine, dà lume e certezza al concetto positivo dell'anima. E invero, se egli mostra talvolta di dubitare della semplicità e immortalità dell'anima u m a n a, dell'esi stenza di Dio e delle sue perfezioni infinite non dubita mai.«L'origine dell'anima umana,egli diceva nel De consolatione, non può in alcun modo trovarsi su questa terra. Non v'ha in essa niente di misto, nè di concreto o di terrestre; niente d'aria, d'acqua o di fuoco. I m perocchè tali sostanze non sono suscettibili di m e m o ria, d'intelligenza o di pensiero, nulla hanno in loro che ritener possa il passato, prevedere il futuro, c o m prendere il presente; le quali facoltà sono unicamente divine, e non possono in guisa alcuna essere venute nel l'uomo,se non discendon da Dio. La natura dell'anima è perciò d'una specie singolarissima, e da queste comuni e cognite nature distinta; talchè, qualunque esso sia, ciò che in noi sente e gusta,vive e si muove,deve essere per necessità celeste e divino, e però eterno. Infatti Dio stesso,che èinteso da noi,non può intendersi in altro modo che come una mente liberissima e pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede e move ogni cosa, e sè stessa con sempiterno moto; di questa sorta e di questa stessa natura è l'anima umana.» Con queste parole conchiude Cicerone nel primo dei Tu sculani la dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione mirabile per lucentezza speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui lo vedi abbandonato al nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel bello, levarsi nel mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e indovinare quasi sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del teismo; salvochè, se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le game segreto che le connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle cause modali manchi alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica del concetto, sebbene (come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo delle Leggi la viva coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro che ci hanno preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato diligentemente l'indole delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del l'immortalità, e alcuni andarono tant'oltre, nonostante le sue continue e ripetute affermazioni,che da certe epi stole consolatorie agli amici (la sedicesima e l'ultima del libro V,e la ventunesima del libro VI, ad Diversos)de    Principio etherio flammatus Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat lumine mundum, Menteque divina cælum terrasque petissit: Quæ penitus sensus hominum vitasque retentat, Ætheris æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De suo Consul. De Divin. dussero ch'egli ne dubitava; m a a queste accuse rispose vittoriosamente Gautier de Sibert nell'Accademia di Francia,e Kuehner piùtardilo confermava.Delresto per ciò che risguarda gli attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più dèi,e se quest'unico Dio facesse veramente eterno,onnipotente,necessario, immutabile,e qual fosse conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal corpo, questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò non possa stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es essendo andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle altre che ci sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i suoi libri v'è tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re pubblica corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse nel concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia: Oratornandoalla dottrinateologica, questosegregare la mente dell'uomo da ogni natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M. Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare sipossano arrecare due cause;l'una comune alla legge con cui si svolgono isistemifilosoficinella storia,l'altra ristretta particolarmente all'ingegno di Cice rone.Quanto alla prima causa,se ricordiamo ilgià detto in torno al modo con cui l'uomo partendo da sè stesso conce pisce nell'indefinito del suo pensiero l'indefinito di Dio,e l'anima lungo la serie delle cause modali da sè,prima causa più manifesta e più vicina a sè stessa,immagina la divina causalità, intenderemo come fra le contradizioni del panteismo quella che subito si porgeva più chiara alla riflessione esaminatrice,fosse la medesimezza dell'anima e di Dio infi niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi questa contradizione uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e del corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè in fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di Dio e dell'essere umano, e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini sommi; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV, ed opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto, la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete immutabile dell'es senza prima, quesito continuamente proposto dalla G e n tilità,nè mai risoluto,perchè mancava a sciogliereilnodo il vero concetto d'attinenza creatrice.(Vedi Platone, Sofi sta.) Quindi la mente desaggj ondeggiava di continuo da un termine all'altro di quella contradizione immortale. Enrico Ritter, più volte citato, esaminando il sentire del filosofo latino intorno a siffatto quesito, e rappresentando con vivi colori quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il divino, non ne conobbe forse la causa più vera; la quale gli sarebbe apparsa evidente se in luogo di vol gersi soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse cercata in questa contradizione che affaticava da più secoli la filosofia pagana. Ma il Ritter s'appose anche in parte, poichè quel vivo intuito delle perfezioni divine ed umane, e della differenza tra la materia e lo spirito che prima avea salvato Cicerone dalla dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva sospeso nelle contradizioni del dualismo, massima delle quali era il contrasto tra la libertà divina ed umana e le leggi fatali della natura che spegneva ogni fede nella provvidenza, nel libero arbitrio e nella religione degli avi. Come il nostro filosofo mantenendo il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia della prima cagione nelle cagioni seconde col moto necessario dell'universo, come spiegasse quell'atto misterioso di causalità con cui l'in finito si congiunge al finito, e lo comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso, e, mentre faceva con Platone emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra parte del l'uomo,identica colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e l'imputazione morale,è quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua dottrina fisica del dualismo non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte ne’libri che esaminiamo al presente, ma più ne'morali, s'incontrano affermazioni decise e ben ragionate sulla provvidenza di Dio e la libertà dell'essere umano. (De Leg., Fin., Tusc., N. D., Catil., pro Marcello, ad Att., ad Div. Certo s'egli non fosse nato nell'ultima età dell'era pagana, e avesse accolta quella teorica della creazione ex nihilo, chiamata giustamente da Terenzio Mamiani una delle maggiori conquiste ottenute dalla speculativa dei nuovi tempi sulle età trapassate, (Conf.) ha tratto dalla notizia di Dio creatore un concetto chiaro delle sue re lazioni col mondo, e i due ordini naturale e soprannatu rale gli sarebbero apparsi intrecciati fra loro per quel legame di causa che congiunge la teologia colla scienza del mondo.Ma Cicerone, come tutti igentili,rifiutavala dottrina della creazione, sebbene proposta alla mente dei filosofi e delle plebi forse dalla memoria d'antiche tradi zioni, il che mostra un frammento del libro terzo De Natura Deorum, conservatocidaLattanzionellibro secon do,c.8 delle Istituzioni divine. Esclusa la teorica del congiungimento tra l'infinito eilfinito perattinenzacrea tiva,non rimanevano,come vedemmo, che due sole vie;o l'unità consustanziale di Dio e dell'universo,o l'assoluta separazione di questo da quello, del molteplice dall’uno, dell'assoluto dal relativo. Ma la dottrina de'panteisti menata alle sue ultime conseguenze,oltre all'incorrere in quella lunga serie di paradossi e di antinomie che in parte accennammo, e la cui dimostrazione ha esercitato per tanto tempo l'ingegno de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa, repugnava secondo Cicerone all'indole pratica e positiva del politico e del cittadino; laonde egli la c o m battè acutamente colle armi della Nuova Accademia nel quesito proposto dagli Stoici sulla divinazione o previ sione del futuro. Secondo questa dottrina che usciva dalle premesse della fisica di Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen dochè l'universo fosse collegato ab eterno da un ordine necessario di cause efficienti;ordine necessario nell'uomo, che era una particella o determinazione dell'anima uni versale;necessario nella natura,dove ogni fatto è gover nato da leggi, e racchiude in sè la ragione de'fatti con secutivi; necessario in Dio stesso che, immutabile per sè, si trasforma ne'fenomeni della natura come in uno svol gimento fatale della propria esistenza. Questa dottrina che si finge esposta dal fratello di CICERONE (si veda) nel primo De divinatione,è poi confutata dal l'autore nel libro secondo; e quel dialogo è di somma importanza nella storia delle credenze umane,perchè trattando la gran questione del soprannaturale agitata ai tempi di Tullio,riproduce nel calore della controversia quello stato penoso degli animi,sospesi nell'incertezza dei più nobili veri, e in un'età in cui la rovina del politeismo già preparava il rinnovamento cristiano. La conciliazione tra l'ordine necessario del mondo e l'autonomia dell'essere umano è accennata nell'operetta de Fato.Questo libro,o meglio questoframmento,dove si espone un dialogo avuto dall'Autore presso Pozzuoli con Aulo Irzio, console,  scritto, insieme coi due libri della Divinazione,a supple mento dell'altra opera de Natura Deorum per sostenere la libertà dell'arbitrio contro il concatenamento fatale delle cause, e temperare le ultime illazioni de'panteisti e de'dualisti contemporanei. Il metodo dell'osservazione, applicato nei soli termini della natura sensibile, menava al lora (come oggi) alcunifilosofisperimentali ad accettarela dottrina del Fato (detto dagli Stoici eiuzpuévn),inteso come un ordine e una serie di forze,manifestanti la natura di cause, e che s'intrecciano fra loro d'effetto in effetto per leggi costanti d'antecedenza e di conseguenza.Ora è chiaro che da questa dottrina condotta alle ultime conseguenze, uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità che lo sovraneggia. Era alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità de'due ordini soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva a un deter minarsi necessario della causa divina; era alterato dal dualismo che opponendo Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un ordine fatale di cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come in quest'ordine naturale si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone si schermiva da questi errori ricor rendo alla osservazione interna, e al concetto di causa. Che cos'è la libera volontà?  salità poi non dee intendersi costituita dalla pura e semplice successione de'fatti,ma dallasuccessione lorounita coll'efficienza degli uni sugli altri.Or dunque (riprendeva ilfilosoforomano controCrisippo),argomentano benegli Una libera causa; lacail   Stoici dicendo che nell'ordine prestabilito della natura tutto si opera per cause antecedenti ed esterne, m a non hanno ragione se vogliono turbata questa legge della n a tura dall'operare dell'arbitrio; « poichè quando diciamo di volere o non volere qualche cosa senza una causa, fac ciamo uso non buono di una consuetudine del linguaggio comune, intendendo dire, senza causa esterna ed antece dente, ma non senza una causa qualunque;di fattiil moto volontario degli animi ha tale natura che è in nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè la causa di tutto ciò è la sua stessa natura. Non ci è permesso riferire qual fosse in ogni parte la dottrina diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè il libro De Fato racchiude importanti lacune; m a apparisce però da più luoghi ch'egli la fondava sulla certezza dell'imputabilità degli atti umani,e per tal via si apriva il passaggio dalle opere fisiche alle morali,nel modo che appositamente e con ordine verrà dimostrato nel capitolo quarto. Concludendo, alle dottrine sin qui esaminate si re stringe le serie delle opere fisiche di Cicerone. Nelle quali vuolsi considerare com'egli avviluppato in una moltitu dine di sistemi contradittorj e negativi,e costretto ad esercitare l'esame della riflessione sopra una materia scientifica ingombra nelle parti più sostanziali dalle te nebre del sofisma, distinse le verità disputabili dai teoremi della scienza,sceverò con critica coscienziosa ilbuono ed il certo delle filosofie contemporanee ponendo l'una a ri scontro dell'altra, e temperandole ne'loro eccessi. Per tal modo le principali verità mantenendosi intatte, soc correvano il pensiero a ricostituire l'Ontologia nei prin cipj della scienza cristiana; e questo è davvero un m e rito insigne e innegabile della fisica ciceroniana, come altri notati da noi sono la sua temperanza verso le affer mazioni eccessive degli sperimentali, il concetto di Dio, ravvicinato alla dottrina di Socrate,e sciolto,per quanto erapossibileallora, dallecondizionielimitazionidell'uomo, la natura spirituale dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di abbattimento morale e di costumi nefandi. Su  questi principj fondava l'oratore latino la sua fede religio sa;chè se (come nota bene Vannucci) « nella Divinazione ed altrove, allontanandosi dalle forme timide della Nuova Accademia con argomentazione più forte che in ogni altro scritto combattè da arditissimo novatore le credenze usate già come istrumenti oratorj e politici,e mostrò il vano e il ridicolo dell'arte divinatoria, e dei prodigj, e delle imposture sacerdotali; » Senatore e console di Roma, egli voleva una fede ritemprata alle sorgenti incorruttibili della morale, e che diventasse vero fondamento alla rico stituzione civile della sua patria. 1. Se la scienza, come affermammo più volte, è un portato delle naturali notizie; se, ritenendo essa nel suo svolgimento la natura del principio che la informava, la unità dell'oggetto scientifico, riconosciuta dalla riflessione, si fonda in un primitivo ordine di veri presenti tutti al l'armonia della coscienza,che costituisce il soggetto scien tifico; nessuno può dubitare che i principj della teorica del conoscere, o della Logica non si colleghino intima mente con quelli della teorica dell'essere, coi principi dell'Ontologia. Il fondamento di questo legame che, a n teriore al fatto della scienza, si riproduce tal quale nella scienza stessa, ha la sua ragione nell'idea della persona lità umana, da cui, come da unico fonte, rampolla la triplice attività dell'esistere,del conoscere,dell'operare; l'ha nella stessa natura del vero che unico in sè, se lo esamini sotto duplice aspetto, è prima essere nelle cose, e poi si fa vero contemplato nell'intelletto. La medesi mezza delle due parti suddette della filosofia apparisce per modo indiretto nella continua attinenza che strin fra loro le questioni più importanti della logica e del l'ontologia dai più remoti principj della nostra scienza fino ai tempi a noi più vicini. È un fatto omai noto nella storia della filosofia come il quesito fondamentale della logica, qual sia la relazione che corre tra l'ideale e il reale, quale la corrispondenza tra le leggi del pensiero e quelle della natura, e se dandosi passaggio dall'intelli gente all'inteso,se ne costituisca la possibilità della scienza, quesito contenuto ab antico nella materia delle specula zioni pagane, ricevesse la sua vera espressione scientifica dalle dottrine critiche della Riforma. È altresì noto ai di nostri come dalla posizione deliberata di tal quesito si diramarono due scuole; il Criticismo francese e alemanno, e il Criticismo cristiano, che cominciato dai Dottori e dalla buona Scolastica ne'tempi di mezzo,segue a fiorire segna tamente in Italia ai dì nostri. Ambedue queste scuole, di verse sostanzialmente nei principj ontologici del sistema, dissentono pure nella logica. La prima desumendo le sue dottrine dal panteismo e dualismo antico, resuscitato più tardi da un ritorno della civiltà cristiana ai dommi del Gentilesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice che per legge di natura intercede tra il pensiero e le cose, tra il soggetto e l'oggetto, e quell'attinenza ode naturò in identità colle dottrine d'un'unica sostanza, o riduce a separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra le qua litàdell'esteso elequalità del pensiero, d'onde il sistema delle cause occasionali del Malebranche, quello dell'armonia prestabilita del Leibnitz e lo scetticismo di Bayle e Kant. La seconda scuola movendo dal principio che la libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla condizione di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro, trovava con sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e nell'intima essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una coordinazione d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati; e in Dio stesso nella cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla realtà, la realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative degli enti creati. Or che si deduce da ciò? Che se il principio del Criticismo, ond'è ridotto a problema il teorema della conoscenza, ha un intimo riscontro nei fondamenti della dottrina dell'essere, ei si. Ma qui cade per altro una considerazione importante. Il panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai fonda menti la dottrina della conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è manifestativo il pensiero, o affermando un'incomunicabilità primordiale tra ilsenso e la materia, principio di corruzione e d'ignoranza, e lo spirito eterno emanato da Dio, non negavano per anco esplicitamente nè l'un termine nè l'altro dell'attinenza conoscitiva;e quando in un sistema, sia pur guasta e corrotta,sia pure implicitamente negata,siconserva nell'intimo significato delle dottrine la piena comprensione del soggetto su cui cadelascienza, qualunquedisputaintornoaiprincipalipro blemi si offre sempre con probabilità di scioglimento alla riflessione esaminatrice. Quella probabilità cessa quando sensismo, materialismo e idealismo, negando due parti sostanziali del soggetto, l'intelletto e l'idea manifestante, causa e mezzo del conoscimento, e la cosa manifestata, termine della cognizione, si chiudono la via ad affermare intera la notizia dell'essere umano, denaturano il legame che intercede tra l'ideale e il reale, e rendono impossibile la psicologia, ingannatrice la logica. Un breveaccenno di questa legge necessaria che si riscontra nella storia delle controversie filosofiche, l'abbiamo già fatto nella prima parte toccando dei sistemi principali che apparvero dal primo scadere della scuola socratica fino ai tempi dell'Arpinate; allora fu osservato da noi come a n dasse di pari passo coll'oscurarsi sempre maggiore dei veri principali e delle antichissime tradizioni l'impoverire della forma logicale dei sistemi,e come l'ultimo grado di questo scadimento fosse segnato dal sistema d'Epicuro, e dalle dottrine logiche della Nuova Accademia. Ora poi stemi che alterarono questa dottrina sono contemporanei ai primordj della filosofia, antichissimo deve essere il fon damento del Criticismo; e ne sono testimonj le più strane teoriche sul modo del conoscimento procedenti dalla fisica de'sistemid'India, d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di Capila, gl'idoletti di Democrito,leimmagini fluenti d'Epicuro e di Lucrezio.  ci sia permesso venire su questo proposito a maggior particolari, perchè, giunti a questa parte delle opere di Tullio dove conviene esaminare la controversia tra gli Stoici e l’Accademia sulle dottrine del conosci mento,rappresentatada luineilibri Accademici, importa massimamente il notare perchè e come ai tempi del filo sofo latino,o poco avanti,ilproblema fondamentale della logica si fosseristretto alla percezione sensitiva; e come dal punto diverso e dai confini onde le due parti dispu tanti consideravano il quesito intorno al conoscere, di penda il valore delle prove allegate, e il principio su premo che governa la controversia. 2. Venendo dunque al proposito, il sistema d'Epicuro e le dottrine dell’Accademia, non che lo scetti cismo e l'empirismo finale ci palesano quasi una spos satezza del pensiero greco, che non val più ad abbracciare la totalità del soggetto scientifico con quell'ampiezza di principj e di leggi con cui Platone e Aristotele l'avevano abbracciata;ma un peggioramentoimportantenellaforma scienziale già si notava nel sistema degli Stoici. Consi derate un poco la sostanza di quelle dottrine,e vi troverete due principj che danno a tutto il sistema due qualità e due aspettiben differenti.Il cardine del sistema di Ze none è infatti l'unità primordiale e finale delle cose tutte, la unità della sostanza prima indistinta e indeterminata, che poi si determina e si partisce per l'efficacia del prin cipio attivo e divino svolgendo da un unico germe la dualitàde'principj.La sostanza prima, distinta allora in un'anima e in un corpo universali, causa delle anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del mondo che rappresenta la vita di Dio; quella vita diffusa in tutte le cose animate ed inanimate le fa partecipare per un in timo principio di compenetrazione alla natura e all'effi cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più vicina a quella sorgente universale, ne ritrae maggiormente, informando e compenetrando il corpo, a somiglianza dell'anima uni versale, e come quella riducendo a un solo principio m o tore le facoltà seconde; talchè per gli Stoici dall'unità dell'essenza prima esce identificato l'intelligibile col reale, il pensiero cogl’oggetti, l'intendimento col senso. Considerato inquestegeneralità il sistema di Zenoneabbraccia tutto intero il complesso dei veri palesati dalla coscienza, alterandone la natura col Panteismo.Ma se vieni ad esa minarlo più particolarmente, allora i molti principj con tenuti nel seno fecondo della materia prima,e in lei de terminati più tardi, il divino e materia, anima e corpo,intelletto e senso, pensiero ed oggetti,scompajono tutti,e siriducono ad un solo; alla natura informe e indeterminata della materia. Allora ti apparirà vizio capitale di quel sistema la riflessione esaminatrice che, sebbene apparentemente voglia svincolarsi dal senso e dalla materia, concependo a m o 'degli Ionj dinamici nel seno dei fenomeni naturali un'intima energia infinitamente diversa dalla materia, e cagione di que'moti,non sa dominare la fantasia, e ab bandonata al pendío voluttuoso dei tempi,trasporta in quella forza primitiva e in Dio stesso, che la pone in atto, le qualità corporee. Così la dottrina degli Stoici sin dalle sue radici s'infettava di materialismo. Ora è tale il ri scontro dei veri principali nella legge necessaria del co noscimento, che, oscurato il concetto di Dio e delle cose, se ne oscura alla mente dell'uomo la nozione di sè stesso Non è dunque a maravigliare se per gli Stoici al mate rialismo in fisica tenesse dietro il sensismo in psicologia; quindi, già lo accennammo, alterato il vero concettodi potenza conoscitiva,scambiarono inostril'occasionedel l'atto apprensivo, che ci viene dai sensi,colla causa intima di quello,veramente causatrice, che è l'attività dello spi rito;quindi,non bene distinto l'operare dei sensi e del l'immaginativa dall'operare dell' intelletto, diedero al complesso dei fantasmi le qualità del pensiero. In questo esame parziale e negativo delle facoltà del soggetto, quale ci offre la psicologia degli Stoici, si nascondeva per fermo una potente causa di scetticismo;chè movendo dal lato indiretto da cui la Stoa considerava il fatto dell'umano conoscimento, e negli angusti confini in cui restringeva la coscienza delle interne operazioni dell'animo,era facile  a sottili ragionatori trovare appiglio per dubitare di qual che cosa o di tutto.Vi si prestava la natura dell'idea, che avendo il proprio essere in un'attinenza manifestatrice, se la consideri identica ai fatti animali, ti doventa un mistero; vi si prestava la natura del senso, inesplicabile, oscuro e sostanzialmente erroneo, se non lo risguardi illu minato dalla luce dell'intelletto; vi si prestava infine la fantasia perenne creatrice del falso, facile a denaturare coi più vivi colori del senso gli ultimi resultati della p o tenza astrattiva. Così dal sofisma degli Stoici (e sofisma vuol dire sempre difetto) germinava quello dell’Accademia. Chè, se fu cattivo abito della riflessione esa minatrice nelle dottrine di Zenone il fare ombra dei fe nomeni materiali allo splendore delle idee,e ridurre quasi ciò che v'ha di più vivo nell'umana personalità allo sviluppo meccanico delle funzioni apprensive,fu pessimo nella Accademia,non già l'opporre ilvero all’er rore,il compiuto all'imperfetto esame della coscienza,lo che essa non fece; m a profondarsi nelle sole astrazioni, m a restringersi nel pensiero vuoto, fenomenale, apparente, o al più negl'inganni d'un fallace conoscimento. Quindi a una negazione di negazione si riduceva ai tempi di Tullio, o poco innanzi, la polemica tra gli Stoici e la Accademia.Ed ecco (ciò che cieravamo proposti a mostrare) perchè dopo i notevoli perfezionamenti che la dialettica avea ricevuto dalle scuole italica ed eleatica, da Platone e dall'Organo aristotelico, la teorica sulle fonti del cono scimento, complessiva di tanti veri, s'era allora ristretta alla disputa sulla percezione sensitiva.  94 Tal disputa, dipinta con tanta verità di colori da Tullio nei due libri degli Accademici Primi, e massime nel se condo (chè il breve frammento rimastoci del primo degli Accademici Posteriori, dedicato a Varrone, si riduce ad una semplice esposizione istorica delle principali scuole socratiche), rappresenta in fondo la lotta di tutti i tempi tra il dommatismo inconseguente e lo scetticismo presun tuoso. Quel venire ai cozzi di opinioni eccessivamente af fermative con altre assolutamente inquisitive era, come   dei nostri, un portato naturale dei tempi di Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei quali, come oggi, da una parte tutto si disfaceva con rabbia sterminatrice, dall'altra con puntigliosa rigidità si sosteneva qualunque lato anche debole e imperfetto del vero,imperfettamente considerato. La superbia e ildisprezzo erano le armi con cui si scon travano i combattenti, e l'una e l'altro stavano bene a quelliuomini,eloquenti,come noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici quanto conveniva nel dedurre da quelli le gittime conseguenze; altrettanto facili ai propositi gene rosi,quanto difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e da piazza; politici predicanti la severità antica nelle m o l lezze moderne; uomini a cui mancava la lena di levarsi sulle ali del pensiero alle universali armonie della scienza nel vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri gionarsi nelle angustie d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a sofisma,contradizione a contradizione. Quindi massimo argomento in questo, come in simili casi, del difetto delle due parti che disputavano, era che, se tu esamini l'una e l'altra con animo non preoccupato, e poi non imiti Cousin, che dall'accozzo fortuito degli errori volle ricomporre il corpo formoso della filosofia, quasi statua da brani dispersi sopra antiche ruine, m a cerchi di compirle ambedue colla pienezza dei veri atte stati dalla coscienza naturale, soltanto allora elle t'appa riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai brillare al pensiero la luce d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è finta da Cicerone come avvenuta presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti lo stesso Ortensio, Catulo e Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo e CICERONE (si veda). Lucullo sostiene le parti d'Antioco, del Portico, contro Filone, dell’Accademia. Tullio quelle di Filone contro Antioco. Or qual era il principio da cui moveva, e quali i punti più segnalati in cui si spartiva il ragiona mento? Qui occorre ridurci a memoria un'importante osser vazione del Ritter. Il quale nella sua Storia della filosofia antica, tenendo dietro all'indirizzo che la dottrina sulle fonti del conoscimento avea preso da Aristotele in poi, quando nota la differenza segnalata che correva tra gli Stoici e il filosofo di Stagira, mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma senza negare il resultamento del l'attività intellettuale dell'anima, laddove gli Stoici, più vicini in ciò agli Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in più il pensiero razionale alla sensazione concependolo solo come una sua conseguenza e trasformazione, aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi difficoltà, le quali si opponevano alla dimostrazione di quel loro sensismo, si rias sume intera la dottrina degli Stoici intorno al criterio del vero. Ritter. L'osservazione di Ritter è giusta. Di fatti per quella solita opposizione che trovi in ogni filosofo di setta tra le tendenze vive dell'animo e l'indirizzo artefatto della riflessione, si vedevano negli Stoici due disposizioni opposte che imprimevano qualità contradittorie al loro sistema; da un lato il pendio del l'età e il decadimento della forma e della materia scienti fica li inchinava al sensismo e alla meditazione incompiuta del soggetto su cui cade la scienza; dall'altro la tradi zione socratica e la voce non muta del senso comune li chiamava ad abbracciare il complesso dei veri di natura, le facoltà dell'animo e i termini loro, e a rendere possibilmente perfetta la forma scienziale; antitesi d'opposte tendenze che pur si specchia in quell'ondeggiare continuo del loro sistema tra il panteismo ionio e il dualismo so cratico. Ora che ne veniva da ciò? Dal lato imperfetto da cui gli Stoici consideravano l'umana coscienza quanto alla dottrina del conoscimento, resultava ch'essi sbaglia vano il concetto di potenza,di causa,di relazione, fondamenti primi di tal dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla dimostrazione del conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano l'essenza nella rappresenta.zione vera o comprensiva (parrugia 2270)atlyn), ch'è un patire dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del l'oggetto sentito, dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente alla sensazione ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma qui, giova il ripeterlo, stave la fallacia dell'argomento; gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la pienezza del soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non negherò mai alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa come attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza di due termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione, l' altro è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione di causalità mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli organi de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle facoltà conoscitive un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo e d'efficace che risponde alla passività negativa del sentimento; m a io nego agli Stoici quel loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza intellettiva col senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una condizione passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e dalla sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della scienza.Ma il fato della logica non's'arrestava; e gli Stoici ristretti in tal modo nelle angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo sguardo alla cima del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede vano l'importanza di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la mutabilità e l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero contenuta negli universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza. Quindi proveniva il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e da principj indubitabili ed evidenti -- Acad. Quindi la necessità di mostrare,primo, come si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera; secondo, come movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente stessa che è fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale energia per cui tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons est,atque etiam ipsa sensus est,naturalem vim habeat quam intendita deaquibus movetur. Da questo concetto,fondamentale nella logica degli Stoici,  [La prima parte cadeva sulla domanda: se la perce zione sensibile avesse impressi in sè certi segni della v e rità dell'oggetto rappresentato; il che negava la Nuova Accademia,affermando che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa nota per distinguerla da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi l'entità della cosa sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del soggetto conoscitore. Posta in tal modo la questione, è chiaro che poichè il mezzo di passaggio del vero conosciuto dalla cosa, occasione del sentimento, alle potenze conoscitive, è il senso ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a provare la realtà della cognizione, argomentarla dalla veracità naturale dei sensi.Dai quali movendo Lucullo ne afferma chiaro e indubitato il giudizio,nulla valendo, ei dice,gli artificiosi argomenti degli avversarj intorno alle false apparenze delle percezioni; poichè:,dato che i sensi siano sani,col buono uso ch'io ne faccio posso ret tificarne i giudizj,posso coll'esercizio e coll'arte aumentarne mirabilmente la forza, il senso è dimostratovero ne'suoi giudizj dal successivo lavorìo della mente sulla materia da esso somministrata formandosene i concetti delle qualità e delle specie che son via ai principj più universali, ai quali naturalmente l'intelletto dà fede, e tolti i quali ogni arte,ogni scienza,ogni regola della vita cadrebbe. Tutta la teorica si regge manifestamente sul principio di causa e di relazione. Se io, diceva Antioco, ho sperimentato in me l'effetto della percezione sensibile, questa mi riporta ad una causa per via d'una necessaria attinenza. Ma Filone invece (e in ciò è imitato dagli scet tici odierni) ammettendo la possibilità del fenomeno come di un che vuoto,di una mera apparenza senza alcun con tenuto, poneva come probabile che la sensazione non ci scoprisse l'entità di veruna cosa. M a, riprendeva A n tioco, primieramente oltre i naturali giudizi e i giudizj scientifici, che nascono e si fanno manifesti in noi per l'occasione de'sensi, dal germe del conoscimento spunta  98 il ragionamento d’Antioco si dirama in due capi: della percezione e dell'assenso. Il ragionamento di Lucullo, compreso dal quinto al ventesimo cap.del secondo librodegliAccademici,edove l'umano intelletto fa prova di quella forza irresistibile che in mezzo alle contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai principj universali del vero, è uno dei più mirabili tratti della filosofia e della eloquenza latina, e chi n'ha seguito con gioja confidente il cammino, se poi si volge ad aspettare la risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si dipinge con vivezza egli stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis majoribus. » Egli per aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una professione di scetticismo assoluto, m a bensì da una cri tica temperata; e si fonda in special modo sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone, cioè sull'in discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva che al sapiente non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione di verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti. Cicerone non sostiene egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le dottrine stoiche della percezione? non si professa più volte ne'proemj delle sue opere seguace della riforma il fiore dell'appetito istintivo, il quale se voi mi negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è conosciuto appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più facoltà naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere ter mine dell'apprensione intellettuale, perchè ilconoscimento coglie di sua natura l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al conoscimento, lanegazione dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto ilconoscimento. Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è vero, perchè una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella sua natura, ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un fine a cui vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e certo. Lo stesso ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di relazione regge a un di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»).   introdotta da Arcesilao? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate, per mostrare ai Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova Accademia? non han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli storici della filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia, s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta? Dunque Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime inlogica, seguitò il dubbio dell’Accademia.(Brucker, Degerando, Bernhardy, Ritter).Tal conclusione,di cui demmo qualche accenno nel cap.I di questa parte,sebbene apparentemente provata da parecchj testi divisi del filosofo nostro, da varie sue esplicite affer mazioni,e segnatamente da tutto il tenore di questi due libri, dove e'prende con lungo ragionamento in persona di Filone a confutare la certezza delle notizie che ci ven gon dai sensi,e dove in ultimo contrappone ex professo la sua dottrina del dubbio sistematico e della probabilità alle contradizioni in cui si lacerava la logica contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge avanti al tutto delle dottrine esaminate spassionatamente, e avanti a quella norma di critica, che ponemmo sin da principio,di badar bene alle opinioni che Tullio combatte,e ai metodi che rappresenta in sè stesso senza per altro interamente accettarli. Le affermazioni eccessive della critica odierna, bene merita per tanti rispetti della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente esse pure nel falso principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il pensiero scientifico fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle cose, col Creatore e col genere umano, non riconosce più nello scienziato e nel filosofo l'uomo,e fa della più socievole fra le dottrine un gergo incomprensibile e solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai dalla n a tura di que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di que'pregiudizj, di quelle consuetudini; bisogna immaginarsi i filosofi quali furono in realtà, disputanti e pensanti, uomini di tribuna e di tavolino, soggetti essi, come noi, alle contradizioni frequenti di qualche dottrina anche erronea concessa nel calore della disputa alle prove degli avversarj, colla interna coscienza, testimonio irrepugnabile al vero. Tale è più volte ilcaso di Cicerone, e tal metodo noi tenemmo nella parte fisica delle sue dot trine, e terremo nella logica e nella morale. Il Ritter scrittore accuratissimo nella critica'de'filo sofi,e alemanno davvero nella coscienziosa ricerca dei passi e dei documenti, talvolta, ci duole a confessarlo, compo nendo con disegno ingegnoso brani staccati di varie opere, ne fa resultare in conferma delle proprie opinioni un si gnificato che forse non germoglia dalla totalità del sistema. Così nell'esame della dialettica di CICERONE (si veda), sebbene non n e ghi che il filosofo latino si leva al concetto dei principj e delle idee universali, cardine dell'intelligenza, pure af ferma che in logica ei riferì una singolare importanza al sentimento, pigliando questa parola nel significato in cui laintendono iRazionalisti,come di un che sostanzialmente opposto alla scienza, e soggetto alla cieca fatalità de gl’istinti. Hist. Ma inprimo luogo, oltrechè Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non fece mai del sentimento un qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò sempre in un significato essenzialmente scientifico, quale una necessaria attinenza del l'affetto spirituale col vero -- De Fin. -- è poi esattaabbastanza l'asserzione di Ritter, checioèiprincipj fondamentali della sua filosofia naturale lo conducessero alle dottrine logiche per via della sensibilità? Sefosselecito affermare risoluto contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause, intrinseca l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro gressorarointanta corruzionedi tempi) aidommi sublimi dell'Antica Accademia. In tal questione egli si trovò in mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle dottrine materiali e sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il dualismo semipanteistico da un lato rifuggendo alle con tradizioni del panteismo che più repugnano agl'ingegni sovrani, e gratificando dall' altro agli affetti spirituali, segregò la materia da Dio, lo spirito dal senso,e pose la ragione del conoscere nella medesimezza fondamentale dell'intelletto divino e degl'intelletti secondarj? Ora tal sistema, partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e da Tullio,rompeva l'attinenza tra il pensiero e I pensati, tra l'ideale e il reale, e restringeva l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli universali. Se così è, pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal porre nei resultati delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo prova la sua fisica dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle scienze speri mentali come incapaci di somministrare una sicura notizia de'corpi, e l'indagine naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di principj superiori ai veri della scienza soprannaturale; lo prova la sua psicologia che tante volte contrappone il fenomenale della materia e del corpo al l'essenza dello spirito, che afferma il commercio dell'anima col corpo risiedere in una semplice comunicazione di moto, isensiesseresoloun emissariodell'anima,un'intelligenza ammezzata, e la personalità umana un gastigo. (Tuscul., De Leg., De Rep.nel sogno di Scipione). L'altra causa estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede che altri poneva nel conoscimento prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei dovette fare al dommatismo degli Stoici, nella quale opposizione si vede che, mentre da un lato egli temperava colla moderazione dell'ingegno latino il dubbio eccessivo a cui l'avrebbero forse condotto le dottrine della Nuova Accademia, dall'altro sapeva con raro acume di logica smascherare e combattere le intime contradizioni degli avversarj. Qual era la fonte di tutte queste contradizioni? Noi già la conosciamo;era l'eterna differenza che corre tra il sentimento mutabile e fenome nale e l'incommutabile necessità della scienza. Questa necessità sembrerebbe a primo aspetto bastantemente di mostrata nel sistema degli Stoici dal porre ch'essi face vano il conoscimento scientifico nel possesso delle idee pure, e nel rappresentarcelo quasi l'ultimo grado di ferma convinzione,a cui lo spirito umano perviene col passare pei gradi intermedj della ouzoté0:015 – “adsentio” -- e della 2.zténnyes – “comprehension” --, movendo come da suo principio dalla suurusis, o rappresentazione sensibile – il “visum”. (Ritter; Cic.,Acad.). Ma, seconsideriamo meglio,gli Stoici con quella loro immagine della mano stesa e del pugno chiuso ed aperto determinavano in qualche modo l'idea di una differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non uscivano dai fenomeni animali,non sapevano accen nare quella nuova parte essenziale intrinseca al soggetto, che congiunta colla oggettività della percezione costituisce il conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po tutodirloro:è vero che ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle rappresentazioni resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello spirito(TÓvos);ma sepervoi l'intelletto non è che il travestimento del senso,mostra teci orsù come la potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal relativo, il necessario dal contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a questi principj universali ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no. tando piuttosto quelle contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico paragonato a sè stesso, pure implicitamente li confessava. Fallita infatti agli Stoici la definizione del concetto della scienza dato per via dell'attività spontanea dell'anima,non rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del conoscimento alla indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai dimostrare tale indubitabilità? Questo mutamento notevole che doveva introdursi nel l'indirizzo della questione sul problema della conoscenza per la legge a cui è soggetta necessariamente la vita d'ogni sistema,è attestato dalla storia; perchè, come os serva il Ritter, i primi Stoici dimostravano la necessità del sapere per quella forza interna dell'animo che si mani festa nell'atto d'apprendere la sensazione,e pel bisogno d'ammettere qual termine della facoltà intellettiva e appetitiva il vero ed il bene; laddove gli Stoici susseguenti, al numero de'quali appartiene Crisippo, vedendo che ciò contraddiceva ai principj del sensismo,trassero alle ultime illazioni il sistema ponendo il criterio del conoscere nella rappresentazione vera che si manifesta da sè stessa come prodotta da un obbietto reale analogamente alla sua natura. Nonpertanto una grave difficoltà rimaneva sempre a risolvere anche dopo la modificazione introdotta da Crisippo. Chè se il vizio fondamentale di tutta la loro dot trina stava nel disconoscere quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è manifestativo ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e soggettivo di quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte, si fermò unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito, se la rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle potenze spirituali. Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine; io poi che mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti, vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità nello scetticismo; tolgo via l'impressione sensibile  [Il sistema cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno stupendo ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale armonia del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello scetticismo sulla questione del conoscimento; perchè solo in quel sistema le attinenze dell'umano pensiero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane apparenze quasi dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare cristianamente gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce lo studio profondo degli scritti di Cicerone, e come quei e il termine materiale? e la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo;non vedo più l'azione dello spirito e il termine ideale in cui cade? e il conoscimento doventa un qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno misterioso del senso e della materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio fondamentale della dottrina degli Stoici nuovi, e in ciò, nota bene Cicerone, essi furono assai meno conseguenti degli Epicurei. Costoro movendo dal principio, che data unapercezione fallace mancava ogni criterio per verificare la certezza delle umane notizie, ponevano quel criterio nella realtà stessa del fenomeno sensibile, più conseguenti, dico, degli Stoici, i quali non ammettendo come veretutte le percezioni, ma solo quelle che presentavano in sè l'evidenza della cosa percetta, nè riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro pria dell'intelletto a cui solo spetta il giudizio sui resultamenti del senso, si chiudevano la via per discernere la conoscenza vera dagl'inganni dell'immaginazione; e quindi a buon dritto la Nuova Accademia allegava contro gli Stoici i soliti argomenti della fallacia del senso degl'inganni dei ragionamenti sofistici. Acad. -- germi immortali di vero che il filosofo romano seppe raccorre con rara indagine scientifica nel suo tentativo di conciliare le scuole greche,producessero una vitaope rosa di scienza fecondati dal calore di una dottrina rin novatrice. Nel libro Contra Academicos Agostino serba a un di presso lo stesso ordine della disputa seguito da Lucullo e da Cicerone, move dagli stessi principj, ribatte le medesime contradizioni;ma un non so che di insolito, d'efficace, d'affettuoso che annunzia una civiltà e una religione nuova tu lo senti là dentro,e non tanto nello stile che, non paragonabile mai all'eleganza tulliana, ritrae pur qualche volta la vivezza e il brio del parlare improvviso, quanto nell'energia insolita dell'argomentare che sfuggendo iparticolari, dove facilmente sipuò intro durre il sofisma, si rifugia nell'evidenza de'principj s u premi. Ma ilmodo d'argomentare usato da Sant'Agostino non calzava agli Stoici; chè essi non ammettendo un'in tima e reale attività dello spirito distinta dal senso e capace di rettificarne gl'inganni, non potevano rinvenire nell'essere stesso della percezione segni indubitati ch'ella fosse verace; e il loro concettualismo non li lasciava af fermare contro il dubbio aceennato dalla Accademia sulla validità del pensiero. Gli storici della filosofia ci han serbato in fatti memoria di una strana dottrina degli Stoici procedente del resto dall'intimo del loro sistema e da quella tendenza dualistica che vi si mesco lava ai principj del panteismo.Qual era questa dottrina? Gli Stoici ponendo in fisica per un lato la realtà delle cose nella sostanza corporea, nè per l'altro costretti dalla logica riuscendo a negare del tutto l'essere delle idee universali, distinsero queste dal reale corporeo,e ne fecero alcunchè di non reale, ma capace d'essere concepito dall'intelletto ed espresso in proposizioni (Asztóv). Distingueno quindi due specie di vero; il sensibile contenuto nelle percezioni de'corpi, e il pensabile ristretto alle in tellezioni della mente,questo procedente da quello e a quello correlativo; volevano con tale dottrina porre su stabili fondamenti la necessità de'principj in cui cade la scienza, nè gli acuti pensatori s'avvidero che, se l'idea può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in con seguenza ch'ella stessa è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque conformità tra il concetto universale e l'essenza del concepito, si cade nel concettualismo rinno vato poi da Abelardo nei tempi di mezzo.La Accademia recava alle ultime loro illazioni questi falsi prin cipj della scuola stoica; dal principio del sensismo traeva occasione a dubitare della veracità della percezione sen sitiva; moveva dalle conclusioni del concettualismo per negare la realtà del pensiero imprigionato in sè stesso, e diceva (argomento assai notevole infatti) la dialettica non potere giudicare delle leggi della geometria,perchè aliene dal proprio ordine di veri,non giudicare delle pro prie, perchè non può il pensiero rivolgersi sopra sè stesso per giudicarsi. L'argomento è di recentissima data,come ognun vede,e lo ripetono anch'oggi iseguaci del Comte, I Positivisti francesi. E recenti pure sono le conseguenze che ne deduceva la Nuova Accademia; poichè racchiuso una volta il pensiero in sè stesso, e negata la sua atti nenza colle cose reali,manca ogni criterio a risolvere il problema dei giudizj contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne che dunque la contradizione è una legge ne cessaria dell'intelletto. Questa ultima conclusione, che accenna per altro un notevole perfezionamento della rifles sione nelle teoriche del criticismo, è dovuta al filosofo di Conisberga,m a già è racchiusa implicitamente nei sofismi disgiuntivi della Nuova Accademia. Ac. Costituita dunque in questi termini, la controversia sulle fonti del conoscimento conduceva la Nuova Acca demia a uno scetticismo assoluto,e noi già ne vedemmo non dubbj segni in Carneade; m a era qui appunto dove Cicerone si arrestava temperando col suo vivo sentimento dei veri naturali e colla moderazione latina gli eccessi del metodo da lui fino allora seguito. Quindi usciva la sua teorica sulla verosimiglianza delle percezioni sensibili che riporterò così riassunta dal Ritter. « Les Stoïciens,en admettant la possibilité de saisir quelque chose avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir erreur,n'accordaient ce savoir qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de refuser cette espèce de savoir aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne pouvaient dire quel est l'homme qui est ou qui a été sage; ils regardaient, au contraire, tout le monde comme insensé, et refusaient en conséquence le savoir véritable à tout le monde. Cicéron n'aspire pas à un pareil degré de savoir; mais il veut que le non -sage aussi sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait une per suasion de la vérité des phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y croir avec une parfaite certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions sensibles auxquelles nous pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement notre sens ou notre esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme parfaitement vraies.Telle est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas faire disparaître la différence entre le vrai et le faux; nous avons raison de tenir quelque chose pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous n'avons aucun signe certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir prévenir l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de certain en te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de certain. C'est ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout pour incertain est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à la vraisem blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même qu'ils ont plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre différence entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci ne dou tent pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il considère au contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut suivre, sans pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude. On voit bien que cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine de la nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et invraisemblable, mais elle tient quelque chose pour vraisemblable, autre chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il s'écartait de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de la morale. Il avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le doute de nouveaux académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les atténuer. » (Stor..) 4. Il fondamento della teoria tulliana sulla verosi miglianza è dunque nella questione del criterio del vero; e qui, segnatamente nel giudizio sulle percezioni sensibili, apparisce il moderato scetticismo dell'oratore latino;m o derato, dico, e parmi sia chiaro dopo le cose predette che egli avvolto, come Socrate, in mezzo ai combattimenti del dommatismo e dello scetticismo eccessivo, serbò una norma scientifica nell'affermare e nel dubitare, temperò gli Stoici non accordando una fede illimitata al solo te stimonio de'sensi; temperò gli Accademici sostituendo al loro dubbio,uguale per qualunque opinione,una graduata verosimiglianza ne’ casi particolari, combattè gli uni e gli altri rigettando il dubbio assoluto sui principj fondamen taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj particol. De Off, De Div.,De Nat.Deor., Acad. La sua psicologia in quelle parti che si collega alla logica, sebbene qua e là infetta del dualismo socratico, fa fede com'egli emendasse il vizio della scienza contemporanea opponendo all' i m perfetta riflessione de'sofisti un esame comprensivo del umano soggetto. Con metodo induttivo egli moveva dalla coscienza, ed ivi,riconosciuti inaturali concetti dell'oltre naturale e dell'intelligibile, s'innalzava con essi alla c o gnizione dell'animo -- Tuscul. Nell'animo distingueva la ragione dal senso;la ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj dell'anima,le danno di molte cose certa notizia confusa e ammezzata, cheèun qualche fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u  tabile dei sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali; quindi i sensi ben guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una naturale rettitudine al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della riflessione, ivi soltanto può introdursi l'errore. De Leg., Tusc., Ac. Così col metodo induttivo di Platone egli sale fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo d'Aristotele ridiscende ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i quali merita speciale considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata a Trebazio giovane giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto è ac compagnato da esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per soggetto tutte quelle distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano per l'invenzione degli argo menti, e si operano sui concetti che ne sono signifi cativi, CICERONE (si veda) divide la logica in inventiva e giudica trice, la prima delle quali parti porge gli argomenti per disputare,la seconda li dispone,li analizza e lim a neggia per persuadere.La logica Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta nel De Inventione, e nel De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele quale più tardisimo dificòne gli StoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in gran parte i giureconsulti romani e gli oratori; la qual cosa, perciò che risguarda i Topici, si disputava lungamente, non sono molti anni, in alcune università tedesche, come apparisce da un'ac curata dissertazione,De fontibus Topicorum Ciceronis,di Giovanni Giuseppe Klein. (Bonnae) Ivi l'autore prendendo ad esame la questione proposta dai critici a n teriori,se e quanto e con qual metodo Cicerone seguisse in questo libro la Topica d'Aristotele che ci pervenne, ovvero se attingesse ad un'altra di presente perduta, come qualche critico mostrò sospettare; conclude dopo un dili gente ragguaglio dei due scrittori,che le opere loro quanto aiprincipj,e in molte partisecondarie,differiscono note volmente; che Cicerone nella sua Topica non si propose (il che apparirebbe a prima giunta dal proemio) di fare un semplice compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da tutto il contesto avere l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai Rettorici dello Stagirita e da alcuni precetti degli Stoici e della media Accademia,e poi averla composta col proprio giudizio in una forma di vera e par ticolare disciplina. Sui Topici di Cicerone scrisse con fine più filosofico un ampio e bel commento Severino Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa il primo passaggio tra le dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo spirare della civiltà latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi delle lettere e delle scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento, che all'indole del trattato, già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della dialettica della Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di Trebazio Testa e di Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle scienze giuridiche colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della dialettica colla storia, della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e civile colla sa pienza cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali, apparte nenti alla teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra invitarci, come facemmo nei capitoli precedenti, a dire qualche cosa in generale del disegno scientifico che li collega, e delle attinenze loro più immediate e più rigorose colle altre parti della filosofia di Cicerone. In vero la scienza morale nata sui rudimenti del senso co mune,quale Socrate la menava a conversare famigliar niente fra gli uomini,e più tardi venne accolta e trasmessa sino a noi dalle scuole migliori, si può assomigliarla ad uno stupendo poema, se guardiamo la sublimità de'suoi veri,illegame che unisce i principj alle conseguenze,e l'armonia delle speculazioni colla parte più affettuosa dell'uomo e colla vita civile. Il principio n'è dato dalla  IV. natura, presupposto indispensabile della scienza; chè la riflessione posta una volta su quel cammino ov'essa pro cedendo incontra e ravvisa ad una ad una leveritàpiù prin cipali della Filosofia, move dai primordj della vita vege tativa e animale, manifestati nella puerizia dai sentimenti indefiniti e dagli istinti,passa su su agli inizj della vita razionale, allorchè quei sentimenti illuminati dallo splen dore della conoscenza si palesano come tendenze amorose al vero, al bello ed al bene; in quei termini riconosce la ragione di fine,ed il fine,considerato come qualcosa onde nasce armonia nelle operazioni d'un ente,guida la rifles sione al concetto di legge, d'un archetipo assoluto ed eterno che per mezzo dell'intelletto indirizza il volere a un'immortale destinazione. Principj naturali, bene, fine, legge; ecco i concetti che, intrecciati mirabilmente fra loro nell'armonia della coscienza, costituiscono l'ordito dell'Etica, allaquale, considerata per questo rispetto come scienza direttrice della più nobile parte dell'umana n a tura, fan capo le altre scienze costitutrici della filosofia. La Fisica, come la intendeno gl’antichi, la quale meditando il principio primo dell'essere nell'universo e nel l'uomo,ne ravvisa facile il fine che nell'universo è un termine oltrenaturale di naturali armonie, desiderato dagli enti tutti, e nell'uomo è un'idea di perfezione immortale, appresa confusamente, nè mai raggiunta nell'ordine delle creature. La Logica, perchè trattando dell'ente sotto la ragione di vero,ne scorge facileilpassaggio alla ragione di bene pel concetto d'amabilità, testimonj i sentimenti più schietti della natura che antecedono ilvero e ne ger minano come tendenze ed affetti. Vi conduce la Scienza dei doveri e dei diritti;chè dovere e diritto sono concetti eminentemente morali in quanto da un lato discendono dall'idea della legge,le cui divine esigenze s'impongono alla coscienza degli enti creati,capaci di cognizione,pur ri spettando quelli enti nell'ordine della loro natura; dal l'altro lato vengono su dall'idea dell'uomo,ente dotato d'intelletto e d'amore,che riconosce in sè e nel suo libero arbitrio la sanzione di quella legge,la quale osservando si sente capace d’immortali destini. Così l'ontologia, la logica, la scienza delle obbligazioni e il gius di natura si appuntano, come in unico centro, nella morale, da cui pur si dirama il gius civile, la politica, la legislazione, la storia e ogni altra scienza meditatrice dell'uomo. Il Cristianesimo, dottrina e religione moralmente inci vilitrice, che nata in tempi di costumi nefandi operò un mirabile rivolgimento nella vita dell'uomo, ponendo a capo dei suoi precetti l'amore santificato da tanto sangue di martiri, e ad esempio dei nuovi costumi, l'immagine più che umana del figlio di Maria,il cristianesimo solo poteva dare un perfezionamento vero alle teoriche della morale. E quel perfezionamento lo diede allorchè dichia rando senz'ombra di dubbio l'infinita natura di Dio,la finita natura dell'uomo, si valse dell'idea intermedia di creazione per assorgere al concetto più puro delle loro attinenze, potè meglio chiarire l'idea di fine, di bene e di legge,ricostituire l'ordine dei fini nella natura in telligibile e sovrintelligibile, vedere l'uomo e l'universo ordinati a un disegno della provvidenza;e quindi,posto a capo di tutta la Filosofia il concetto di Dio, se ne sparse nuova luce sulle dottrine del soprannaturale e del naturale, sulla psicologia e la logica, sulla teorica dei doveri e dei diritti; le scienze politiche e civili e la storia ne apparvero nobilitate. Il che è tanto vero, che quel tendere continuo dalle miserie di nostra natura all'i m mortale, all'assoluto, all'eterno,può solo spiegarci le sca turigini arcane onde move un'aura d'ineffabile bellezza, chela scienza cristiana respira,sono ormai più che quat tordici secoli, dai dialoghi di sant'Agostino, e dalle let tere di san Girolamo in poi,sino alla Divina Commedia, alla Somma dell'Aquinate,e alle sublimi fantasie di Serbatti. Considerate le quali cose, se alcuno mi domandasse onde accadde che la Paganità, in tanto e continuo sca dere di costumi e di scienza, riconobbe più volte, senza pur cadere in errori sostanzialissimi,le principali verità della morale,di che abbiamo esempj segnalati nelle Indie, in Magna Grecia e soprattutto nelle scuole socratiche e in Cicerone nostro, addurrei per risposta la vivezza delle umane tendenze e l'efficacia de'sentimenti,che ger minando da naturaciportano inconsapevolialvero ignoto, l'istinto della socievolezza e l'amore per gli enti della medesima specie, che essendo un vivo bisogno dell'uomo, gli mantiene fresca nell'animo la voce degli affetti do mestici e civili, e infine la notevole differenza che corre fra l'apprensione astratta del vero e il sentimento che n'hai nella vita, onde spesso il filosofo discorda dal l'uomo, e il popolano e la povera vecchierella fanno a m mutolire coll'evidenza della rozza parola il superbo sa piente.In Grecia,e segnatamente inAtene,dove nacque Socrate, e dove si conservava nell'amore del bello e nei gentili attici costumi un germe di rinnovamento, rimase aperta la via a tornare sulle antiche tradizioni, attestate dalla coscienza e dal linguaggio, e a derivarne, come scintilla da selce,i principj della morale che fanno sì bella parte delle scuole socratiche. M a quei principj (già lo sappiamo) erano forse più facili a ravvisarsi l’età sus seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma s'era insanguinata e commista la civiltà dei popoli italici, in cui si manifestò ab antico una notevole inclinazione alla scienza avvivata dal sentimento e da fini di pratica a p plicazione,eperchè in Roma erafioritaefiorivalascuola dei Giureconsulti, il cui pernio era l'idea morale della legge e del dritto,e infine perchè, se una riforma era da farsi in tanta corruzione di civiltà e di costumi,in tanto scadimento delle relazioni domestiche e civili, e nella notevole prevalenza che da circa due secoli avean preso le dottrine epicuree, certo quella riforma dovea comin ciare dai principj della morale.L'Etica ciceroniana, che è uno dei più nobili tentativi fatti dall'umano ingegno per opporsi, senz'altro ajuto che l'evidenza del vero de sunta dalla natura viva, alla rovina d'un'intera nazione, era dunque preceduta da un grande preparamento; chè giammai si compie un gran fatto senza che nei tempi e nella società,da cui nasce,se ne acchiudano i germi. E i   germi della riforma morale iniziata da Tullio furono, oltre le condizioni civili e politiche di tutta l'Italia e di Roma, i Giureconsulti e le sètte, alle quali s'oppose il riforma tore; le splendide tradizioni delle scuole socratiche, e segnatamente idommi platonici,aristotelici e stoici;ivi egli mirando componeva il disegno scientifico della sua morale;-m a quel nobile magistero l'avrebbe ajutato ad accozzare brani di verità,non a comporre una vera dot trina, a ragunare nella memoria, non ad unire nella ri flessione esaminatrice, s'e'non avesse avuto l'occhio in un principio più alto, superiore ad ogni opinione e ad ogni setta, nell'esemplare della natura considerata nel suo popolo, in Italia, in Grecia, in Europa, nelle genti tutte conosciute, e più viva in sè stesso, cittadino gene roso,scrittore sommo,oratore che tante volte dall'alto della tribuna avea signoreggiato gli umani affetti colla parola onnipotente. Questa meditazione profonda dell'uomo interiore, il cui fine era dedurre le ragioni del giusto dalle attinenze dell'anima e dell'universo con Dio,valse a Cicerone le accuse di quell'acuto intelletto che fu Michele Montai gne. Ma Montaigne, osserva opportunamente un altro scrittore francese, cercava forse troppo sovente materia al sorriso nell'invilire l'uomo e nel rassegnarlo tra i bruti; Cicerone lo stimava creato a qualcosa di più alto e di più solenne (ad majora et magnificentiora quædam ), e riconosceva da Dio la nobiltà dell'umana natura,e l'ef ficacia della ragione e del libero arbitrio, per costituire la morale e con essa la vita civile su fondamenti non peri turi. Premesse queste considerazioni, l'Etica di Tullio, in cui Francesco Forti osservava rappresentarsi la maturità della ragion naturale presso gli antichi, si distingua i n nanzi tutto in due parti determinate intimamente dal l'indirizzo del suo pensiero speculativo nell'esame dei veri morali, estrinsecamente dalla forma filosofica de'trat tati. Una parte è teoretica e principalmente speculativa; e in essa Cicerone esaminò la ragione delle tendenze n a    turali nell'umano soggetto per ispiegare il problema sulla natura dei beni, e si levò coll'induzione da questo esame ai concetti universali di legge, di dovere, di diritto (De finibus, De legibus); l'altra parte, in cui prevale un fine pratico o di applicazione, movendo essa pure dai principj fondamentali, innanzi chiariti, scende a determi narli nella vita dell'uomo individuo e sociale e nelle dot trine sulle forme di governo (Tusculanarum, Paradoxa, De officiis,De republica,De amicitia eDe senectute).Se poi si considera bene,nella prima parte di tal distinzione, avvertita pure dal Kuehner, è compresa manifestamente un'indagine soggettiva e oggettiva; soggettiva e ogget tiva ad un tempo,perchè nel problema, posto da Tullio intorno alla natura dei beni, la riflessione scientifica si volge da un lato sulle tendenze e sugli affetti spirituali, mentre dall'altro vi riconosce un riferimento necessario a qualcosa d'assoluto, d'immutabile,d'infinito, di essen zialmente oggettivo, all'esemplare di legge, da cui si ge nera in noi l'obbligazione morale; e quindi è che la teorica de'Fini si distingue nel filosofo nostro da quella del Dovere,e sorge fra l'una e l'altra, come centro unitivo delle armonie morali, la teorica della legge. Ponendo mano impertanto all'esame della parte speculativa,cominceremo dalla dottrina dei Fini, trattata ex professo, e con intendimento al tutto scientifico, nel libro D e finibus, a cui fanno corredo con secondaria i m portanza, e con oggetto non immediatamente speculativo, le Questioni Tusculane, e l'operetta dei Paradossi.Thorbecke in una sua dotta dissertazione universitaria sul principio della Filosofia e degli Officj desunto dalle opere di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del sommo bene,occupa un luogo principalis simo nella sua morale. Il critico tedesco allega a questo proposito l'autorità stessa del nostro oratore, che più volte nelle sue opere, e segnatamente nel primo libro degli Officj,riferisce ilfondamento delle dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De finibus nota oppor tunamente contro gli Stoici non potersi separare, come  [Due metodi si presentavano alla riflessione esamina trice per risolvere il problema sulla natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo edessenzialmente scien tifico, necessario in qualunque parte della filosofia,e so prattutto indispensabile in questa, stava nel riprodurre esattamente coll'ordine del pensiero speculativo l'ordine del soggetto, nell'abbracciare quella stupenda armonia di tendenze e di fini, che ci manifesta l'uomo interiore senza nulla tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente. L'altro metodo invece, che s'informava dalle qualità negative e parziali del sofisma, consisteva nel dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito, nel considerare l'essere umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà, tralasciando le altre, nell'offrire come opera compiuta del vero e di Dio un informe viluppo di contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e fallace seguita dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della coscienza tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La quale avvertenza occorre fare fin d'ora;perchè parecchj storici della Filosofia trovarono anche in questa parte della m o  [ termini identici d'una stessa relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni. Tale suprema importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal con siderare che la materia di quel problema si estende per un larghissimo campo di relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero il filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di natura, comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle prime tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che palesano nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo svolgimento della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad esaminare tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro prio,dei proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come parte della famiglia, come individuo e come membro della civil società.   rale di Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso il vero aspetto scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di un saldo criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali erano quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo. Ritter, Brucker. A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da validi argomenti, rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e palpabile contro le afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in mano le opere del filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo que'suoi dialoghi pieni di tanta vita d'eloquenza e di speculazione, rappresentarlo,se fosse possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo immagino là nelle cam pagne di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer cia di Mario, e inteso a conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione compiuta dell'umana coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e ciascuna comprende una disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di giudice e di confutatore, argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e dell’Antica Accademia il consolare L. M. Torquato, M. Catone e L. Pupio Pisone. Il dialogo è introdotto ora nella villa di Cicerone in quel di Cuma, ora nella biblioteca di Lucullo presso Tuscolo, e in fine all'ombra silenziosa deplatani nell'Accademia d'Atene. Per cominciare dalla disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella prima parte di questa tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in Grecia avanti i tempi di Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine anteriori o contemporanee,e come tal per vertimento consistesse,a nostro avviso, in un esame sem pre più povero e parziale del soggetto su cui cade la scienza, manifestato, segnatamente in fisica, col fermare l'osservazione al nudo meccanismo degli atomi,in logica con ridurre ogni facoltà dello spirito al senso, e nella morale restringendo la virtù e la beatitudine ai piaceri del corpo e i piaceri dell'animo alla speranza o al ricordo dei piaceri del senso.Una siffatta dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza dell'uomo, riduceva il sapiente alla condizione del bruto, subito la riconosci come il por tato d'un ingegno profondamente sofistico, solo il sofisma togliendo all'uomo l'intuito vivo delle armonie di natura; chè, posto a capo dell'Etica il puro sentimento animale, se ne oscura la notizia dell'uomo, ente capace non solo disentimento, ma d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la possibilità del dovere che dee cercarsi per sè,non già per diletto,e s'offende la dignità dell'umana natura e delle virtù ponendo fra esse la voluttà come una meretrice in un'assemblea di matrone. De fin., De off. Tali sono gli argomenti, tolti altresì dalle in time contradizioni di quel sistema, che Cicerone vibra di rimando contro Epicuro colle armi d'una concitata elo quenza,e davvero la sua risposta a Torquato è un con tinuo contrapporre a un cattivo e sofistico esame del l'umana natura, un esame più alto e più vero delle sue leggi, de'suoi destini, del suo aspirare all'immutabile e all'assoluto;chèilnobile animo dell'accusatorediVerre, e del persecutore di Catilina e d'Antonio poneva da parte ogni dubbio combattendo nelle dottrine epicuree una tra le cause maggiori dell'affrettata rovina di Roma. M a v'è un luogo,noterole su tutti gli altri, in cui l'Ora tore latino, volendo mostrare come l'affetto abbia efficacia viva e spontanea per ricondurci nel vero,rappresenta quella contradizione tra il pensiero e l'operare, tra le dottrine e la vita,non rara neppure ai dì nostri in uomini spon taneamente inclinati al bene per virtù di natura, e che han guasta la mente da malvage filosofie. In quel luogo egli si volge a Torquato, e invoca la sua coscienza di cittadino, il suo desiderio di gloria, le tradizioni de'suoi avi famosi e il suo magnanimo affetto alla patria in te stimonio delle dottrine da lui professate; e gli chiede p e r chè mai non oserebbe sostenerle nei comizj, alla presenza del popolo, o in pieno senato. Crede egli con intimo coif vincimento unico fine della vita ilpiacere? E allora perchè mai v'è tanta contradizione tra quello che fa e dice come cittadino e quello che sostiene come filosofo? Teme egli forse l'odio del popolo? Ma badi, risponde CICERONE (si veda), che in questo caso l'errore dell'intelletto non venga raddiriz zato dal cuore; badi che il sentimento universale, onde ogni popolo della terra si leva come un sol uomo a con dannare Epicuro,non sia iltestimonio interiore e inappel labile della natura, repugnante alla teorica del piacere! Questo intimo disaccordo tra la ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e la vita civile, rappresen tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto principio della filosofia di Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento del vero costituito da un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve poi in questo caso a ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a partecipare al dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte parti somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità del costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei filosofi, avea per Cicerone il valore di una prova scientifica, come testimo nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo, e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati solenni e infallibili del senso comune. Sennonchè, mentre nel secondo libro de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con   futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando nel terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa dall'autorità e dalle parole di Catone Uticense.E invero,qualunquevolta a mostrare la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui Zenone fondava la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente dell'animo umano e degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita, varrebbe soltanto ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più generali, ai sommi principj della scienza della natura. Il filosofo di Cittio avea fondato la sua dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del l'ordine naturale, espresso in quella sentenza:vivi confor me alla natura. Πρώτος ο Ζήνων... τέλος είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene Laerzio; e in quella sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia del l'insegnamento socratico, continuato in Zenone, onde a v veniva, e lo notammo più addietro, che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un esame parziale e meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale offriva un assai più largo disegno di veri speculativi. Il principio fondamentale dell'Etica degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e assoluto del bene in attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito insi gne di quella dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo esame psicologico delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla comprensione totale dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù, restringevano ogni cosa a quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello spirito e nel senso, nell'intelletto e nel cuore, in sè stesso e nelle condizioni esteriori. Le cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per esperienza,o per giudizio di causa,o per analogia, o per raciocinio comparativo, e in quest'ultimo cade la notizia del bene, alla quale l'animo ascende universaleggiando da quelle cose che sono secondo natura. Laonde dal concetto del bene come d'un che ideale, assoluto e simile soltanto a sè stesso, venne poi il concetto della virtù, al quale il filosofo del Portico saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che cos'era l'onesto? L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza dell'atto umano colla natura, riconosciuta dalla ragione; e quindi essi dicevano, avvolgendosi in un paralogisma, che poichè quel riconoscimento pratico e razionale avveniva nella pienezza delle facoltà intellet tuali dopo l'infanzia, che è quella età in cui le prime cose conformi a natura (prima nature) (tá apota xato qusiv) si appetiscono inconsapevolmente,da queste prime inclina zioni della natura move il principio dell'operare, ma non però quelle cose,che n'erano il termine, si annoveravano tra i beni. Questo principio era vero in parte, ma nel l'esagerarlo sta il vizio fondamentale della morale del Portico; l'esagerazione poi consisteva in considerare l'atto m o rale come avente a fine sè stesso, niente altro che sè stesso, nell'astrarre da ogni condizione esterna della vita privata o civile, e da quell'armonia che intercede tra la ragione e gli affetti, onde il libero volere o è condotto o conduce; nel porre in petto al sapiente quella virtù fredda, impassibile, solitaria, divisa dell'universo e da Dio, come immobile quercia radicata nei macigni delle Alpi. Se poi si considera più addentro nelle ragioni isto riche del sistema, il concetto eccessivo della virtù ci palesa un vivo contrasto della morale stoica coi tempi. Qual fosse il secolo di Zenone facemmo vedere più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel secolo un uomo di gagliardo volere e di generosi propositi, che ponga mano alla filosofia coll’intendimento di fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine più alto,subito si capi sce come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla ignavia dei tempi, la vita del saggio dovesse sembrare una lotta continua della ragione innamorata del bene cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi, colle ree c o stumanze civili, e l'onesto una perfezione quasi supe riore all'umana, e conseguibile solo da pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro terzo; Kuehner e Thorbecke passim.)    Esponendo e confutando i principj più generali della morale stoica,abbiamo esposto in gran parte intorno a questa materia le opinioni del filosofo nostro. Solo ci ri mane da cercare in qual modo egli svolgesse le proprie dottrine morali in contrapposto alle dottrine del Portico, e come l'erroneo concetto del bene supremo da lui combattuto nel quarto libro, movesse la sua riflessione a pensare un più vero e men difettivo scioglimento del gran problema morale.Non v'ha forse luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa facoltà potente dell'inge gno speculativo di Cicerone si faccia meglio manifesta, e con essa il suo metodo delle attinenze che concilia gli opposti sistemi nell'unità non divisibile dell'uomo. I principj su cui è fondata la confutazione, movendo dalle idee più comuni e più popolari intorno alla poca conve nienza delle dottrine del Portico colle necessità e cogli usi della vita civile, procedono poco appresso a cercare le cause più remote del paralo gisma nei fondamenti del sistema avversario.I giudizi del filosofo latino, informati da un metodo rigoroso d'esame, cadono sempre sul concatenamento scientifico delle dot trine, e sulla loro armonia coll'indole del soggetto; nè sembreranno,iocredo,eccessivamente severi,come parvero a Kuehner, qualorasipensiche Cicerone, traisistemi maggiormente seguiti a'suoi tempi, preferiva ad ogni altro lo stoico, e che inoltre la storia moderna della filosofia riassumendo l'esame di lui sulle dottrine m o rali del Portico, solennemente lo confermava. In prova di ciò Enrico Ritter, più volte citato, considerando l'idea che del saggio s'erano formati gli Stoici, e su cui fondano la morale, vi scopre il principio d'ogni lor paradosso, e di parecchie false opinioni sulla vita dell'uomo; poichè, se da un lato, egli nota,si nascondeva in quella idea un alto intendimento civile, ne veniva poi necessariamente alterato il concetto della vita e dei doveri affermandosi quivi l'apatia del saggio, ovvero (come suona in greco quella parola) il suo affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni causa esterna che turbasse la tranquillità del suo spirito. Ritter, Morale des Stoïciens, Questa era un'ambiziosa ostentazione del sommo bene, così la chiama il nostro Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che faceva privilegio della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità del senso comune. Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto il volgo, mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e corpo,che visono nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni; m a poi,avendo fatto nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà, designarono per modo la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse soltanto,ma fosse unica parte della umana persona. E qui è notevole davvero come ricercando il nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel principio stoico del bene supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto positivo e scientifico della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici esce un concetto positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non segue le forme irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più validi dalle contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma procede piùinnanzi, indagasottilmente l'intervallo che separa il conoscimento diretto dal cono scimento riflesso, e pone la vera indole della scienza nel suo differire dalla natura,a quel modo che il compiuto differisce dall'incompiuto, l'attuale dal virtuale e il per fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice Cicerone, move dai principjdi natura, e come tale ha nella stessa natura la possibilità d'ogni suo sviluppo ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è un perfezionamento, non genera le notizie dirette,m a le chiarisce,le distingue, le corregge,le riduce a principj; non disegna ella stessa l'immagine dell'umana virtù, nè dispone l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle essenziali e ingenite dis posizioni; talchè l'opera sua è un continuo avvicinarsi al concetto del bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e somiglia all'opera dello scultore che riceve da altri già disegnata e delineata la statua per ridurla poi a compimento colla virtù del proprio scalpello. « Ut Phidias potest a primo instituere signum idque perficere, potest ab alio inchoatum accipere et absolvere,huic similis est sapientia: non enim ipsa genuit hominem,sed accepit a natura inchoatum. Hanc ergo intuens debet institutum illud quasi signum absolvere.Qualem igitur natura homi nem inchoavit? et quod est munus,quod opus sapientiæ? quid est quod ab ea absolvi et perfici debeat? Si nihil in quo perficiendum est præter motum ingenii quemdam, id est,rationem,necesse est huic ultimum esse ex virtute agere: rationis enim perfectio est virtus: si nihil nisi corpus, summa erunt illa, valetudo, vacuitas doloris, pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono quæ ritur. Quid ergo dubitamus in tota ejus natura quærere quid sit effectum? Quum enim constet inter omnes,omne officium munusque sapientiæ in hominis cultu esse occu patum, alii ne me existimes contra Stoicos solum di cere, eas sententias adferunt, ut summum bonum in eo genere ponant, quod sitextra nostram potestatem,tam quam de inanimo aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus nullum sit hominis, ita præter animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque animus non inane nescio quid sit -- neque enim id possum intelligere --, sed in quodam genere corporis, ut ne is quidem virtute una contentus sit,sed appetat vacuitatem doloris.Quam ob rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem negli gerent, dexteram tuerentur, aut ipsius animi, ut fecit Herillus, cognitionem amplexarentur, actionem relinque rent. Eorum enim omnium, multa prætermittentium, dum eligant aliquid,quod sequantur,quasi curta sententia. Atveroillaperfectaatqueplena eorum,quiquum de hominis summo bono quærerent,nullam in eo neque animi neque corporis partem vacuam tutela reliquerunt.»  Questa bella dimostrazione, che Kuehner annovera tra le dottrine interamente proprie di Tullio, e che trascorre con tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle superiori, ponendo la legge che governa il sapere a riscontro colla legge dell'universo, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della Scienza Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e dell'universalità dell'ingegno latino. Concepiva il Romano lascienzacome un ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa, era per lui un'arcana ar monia d'attinenze; talchè la scienza ei la immaginava come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica, intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete veracemente, tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di natura;filosofo falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla. Quindi era sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa di sua natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni; era sofista Erillo che disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in tuizione inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo stoico, che pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze, a un tratto le abbandona per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura dell'uomo contraddiceva. Cf. De legibus. Considerata sotto questo rispetto,l'idea altamente c o m prensiva,che Tullio s'era formata della scienza morale, lo ravvicinava ai principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi assai chiara; poichè,posto una volta,com'è di fatto, la scienza non essere altro che un fedele ripen samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei principj intrinseci ad esso venire l'ordine esterno costitutivo del metodo dilei; ammesso inoltre infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma essere,come nelle istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj dell'animo; da ciò consegue che la misura per determinare la bontà del metodo d'una scuola, e il suo avanzare o allontanarsi dall'istituto riformatore,sarà ilparagone tra la pienezza della forma scienziale e l'integrità della materia esaminata; talchè, dato un degeneramento delle scuole successive dal principale istitutore, chi prendesse a confutarle richia mandole ad un esame più pieno dell'umana coscienza, s'incontrerebbe per via diretta negl'intendimenti del ri formatore. Tale è il caso da noi esaminato rispetto al filosofo latino. Il principio della morale delle scuole so cratiche è il conosci te stesso. Ora è noto quale fosse la pienezza e la comprensione del significato, che il filosofo ateniese dava a quel precetto in ogni parte della filosofia, e come il sentimento della perfezione ideale, connaturato all'ingegno greco, e reso più vivo dalle armonie pitta goriche, traesse lui, uomo di smisurato intelletto, a im maginare la virtù costituita da un armonico concorso delle facoltà umane fra loro e coi termini esterni, e a conce pire il cittadino nell'ideale dell'uomo perfetto. Tale indirizzo dell'ingegno greco nei principj costi tutivi della morale seguitarono Platone e Aristotele; ma l'uno, giovane della fantasia e dell'affetto,e nato in una civiltà, giovane ancora, e che serbava nell'evento delle istituzioni civili tutte le speranze d'un avvenire glorioso, sebbene affermasse l'effettuamento del bene assoluto non potersi dare q u a g g i ù, perchè il bene assoluto è l'ente i n finito, in sè e per sè sussistente,e partecipato solo im perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la virtù in un continuo avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di perfezione, e riconosceva nei beni ter reni un'effigie lontana e appena un'analogia della beatitudine eterna (Quo i w s i s Sew. De rep. e Thea et. ). Aristotele, ingegno più virile e più temperato e ritraente dai tempi, in cui, perduto il fatto delle libere istituzioni, se ne ve niva creando con affetto maggiore la scienza, se rinvenne il perfetto della vita nell'intuizione del vero specula tivo, si volgeva di preferenza alla pratica, e faceva del pensiero un semplice avviamento all'azione, della politica la parte principalissima della sua morale. Il concetto del bene, rimasto assai indeterminato nelle   dottrine del figlio di Sofronisco, si bipartisce dunque nel l'Accademia e nel Peripato; Platone lo congiungeva alla psicologia e alla dialettica; Aristotele lo ravvicinava alla politica; con che, si avverta bene, noi vogliamo solo far notare certa speciale prevalenza nella forma scientifica delle due scuole, non già determinare una essenziale diver sità nei fondamenti della morale. Chè la pienezza dell'osser vazione interiore, tanto raccomandata da Socrate, durava lungo tempo ancora nei successori d'Aristotele e di Pla tone, e fu tra le cause principali ond'essi, concordi con Zenone nel sostanziale del sistema, ne combatterono il metodo e il concetto del bene supremo come un trali gnamento dalle dottrine dei loro istitutori. Da queste considerazioni s'inferisce più cose.Primie ramente si comprende come il pensiero dell'oratore latino sulla teorica del bene morale, considerato sotto il rispetto o semplicemente speculativo, sia universale, comprensivo e di un importante valore scientifico, sia un testimonio di più del suo risalire mediante un principio più alto e più generale,non certamente partecipato dalle scuole negative e sofistiche,  ai veri supremicostituenti la scienza. Da que ste considerazioni esce anche nuova luce sull’intendimento a cui mira il libro De finibus. Quest'opera è di una singolare importanza per la storia della scienza morale, e, a considerarla bene, si vede che Tullio a fin di mostrare e chiarire la perfetta dottrina sulla natura del bene su premo, si valse del metodo più famigliare a Socrate e a Platone, metodo che potrebbe dirsi ab absurdis, assai usato nelle dimostrazioni dei problemi di Geometria; pose cioè più concetti particolari e negativi del bene perfetto, e su via di contradizione in contradizione si levò elimi nando, e integrando insieme, al concetto più universale e più comprensivo. Per talmodo egli,imitando il Socrate del Convito, del Fedro e della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino a scoprire nel particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che signoreggia la scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo libro confutava Epicuro mostrando quant  fosse difettivo il suo principio che ponera il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se nel terzo e nel quarto esponendo e correggendo le dottrine del Portico richiamava i filosofi a meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere soverchio del principio spirituale e sog. gettivo nel concetto del bene;nel quinto libro intro dusse a coronamento della morale ilsistema dell'Accademia e del Peripato. Questo libro è una sintesi di tutta quanta la scienza; vi si studia l'uomo dai primi rudimenti della vita vegetativa e animale su su fino agli albori della vita intellettiva e morale; vi si mostra come l'istinto primitivo della conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in affetto,e quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco coll'apprensione più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue dagli altrianimali,simuta inconoscimento; vis'insegna come debba la filosofia tener conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza. Invero quando io leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia, non altro che un misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma integrando col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici nandoisistemide'filosofi,ma ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva dall'esemplare della natura, ch'è sistema immortale di Dio. Vedi riassunto e citato diligentemente ilDe finibus nella dissertazione già allegata di Thorbecke, e in quella di Kuehner, Vedi pure per ciò che risguarda ilconcetto di tutto il trattato l'importante dissertazione di Hinkel: De variis formis doctrine moralis Peripatetico rum usque ad Ciceronem, earumque cum cæterarum scho larum placitis comparatione. Marburgi Cattorum). Il concetto scientifico della morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin qui,comprendendo nella sua pienezza tutti i principj costitutivi di quella dottrina, e unificando in un termine superiore, che era l'integrità del soggetto umano, le contradizioni parziali delle scuole, dà luogo a risolvere una delle più importanti questioni mosse dagli storici sulla morale dell'oratore latino. I m perocchè ci spiega in qual modo, concorde coll'antica Accademia e col Peripato nei principj supremi e nel l'idea del bene e della virtù, quanto poi alle parti a c cessorie,che avevan per fine determinare il contegno del saggio rispetto a sè stesso,e nelle relazioni civili,egli se condasse talvolta gli Stoici la cui severità, civilmente con siderata,glipareva un argine saldocontrolastraboccata corruttela dei tempi. Procedendo con tal criterio, i libri attinenti a questa parte soggettiva della morale appajono informati da un solo ed unico disegno di scienza,e ven gono distribuiti per classi in ordine al metodo e agli in tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini, la quale tiene la parte suprema dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e discorre del bene e della vita con fine immediatamente scientifico, scendono conforme a questo principio le Questioni Tusculane, e il libro dei Paradossi. Manifestano un fine positivo o d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute Tusculane,dove in mezzo ai precetti stoici,esposti nella maggior parte dell'opera, traluce l'intendimento di offrire, in tanta corruttela delle pubbliche istituzioni e dei costumi romani,un alto esemplare del saggio,capace di volgere le menti a studj più generosi; e divisa la filosofia in più questioni (loca),si prende in ciascuna a ribattere le istanze proposte col metodo della Nuova Accademia. Poi un semplice esercizio di metodo forense rivelano i Paradossi, nei quali Tullio poco dopo la morte di Catone Uticense prese a lodare secondo i principj stoici le virtù dell'amico, e mostrò agli studiosi dell'eloquenza come qualunque soggetto di filosofia, il più remoto dalle opi nioni volgari,si porgesse ad un utile esperimento dell'in gegno oratorio. « Ego vero (così egli dice nel Proemio)  illa ipsa quæ vix in gymnasiis et in otio Stoici probant, ludens conieci in communes locos.» 3. Insino a questo punto, esponendo fedelmente l'in dirizzo delle indagini speculative di Cicerone nella con troversia intorno al bene supremo,noi paragonammo volta per volta le sue opinioni coi principali sistemi contemporanei. Da quindi innanzi procederemo con metodo di verso e più spedito, giunti a parlare di quella parte della sua filosofia, dove egli si avvenne a minori opposizioni,e dove la sua riflessione era soccorsa più largamente dalle idee nazionali e dai principj del Diritto romano.  mente la parte soggettiva della morale,che,come vedem il fine dell'operare affetti e nel più intimo della coscienza mo sinqui,indaga umani, e col riscontro di Tullio non lieve di veri incer avvalorata indubitabili tezza alla riflessione più che altrove cadendo l'indagine affettuosa dell'essere mai dalla scienza, potea far velo al giudizio; separabile o perchè la discordia senza metodo più ragione i problemi e le controversie. Ma con si governa sicuro, e con più evidenti da sottili argomenti, offriva ai tempi esaminatrice. Forse perchè in quella oggettiva della nella quale egli,esaminate tendenze,el'istinto filosofale sulla umano,ilfomite delle sette vi avea moltiplicati principj morale di Cicerone la parte, ossia quella parte le naturali felicità, e ciò che per rispetto del della l'adempimento bene e alla suprema universale della legge e del dovere. E proprio feconda speculazione va dal soggetto all'oggetto dall'esame e conoscitive eterni, tanto più, come chi senta del fine, si leva al concetto idealità anche in, che quanto più il nostro questo è im fatto notevole,trascende minuto delle potenze affettive alla contemplazione per la via della scienza degli intelligibili animoso procede della valle a una alleggerirsi vista interminata il respiro uscendo dal basso teorica della della filosofia di pianure e di mari. La e del dovere è dunque il fondamento legge civile di M. Tullio; e certo a questa chiarezza dei sommi parte più delle passioni,non E vera degli,perquanto nella piega a noi costituisce tempi di pensiero il sensibile,e passa principj morali da cui ella è desunta,e dove il pensiero del filosofo latino si ferma per rinvenire le armonie più remote della scienza morale colle dottrine dello stato e della vita politica, conviene attribuire quella pienezza di speculazioni largamente intrecciate all'esame del mondo e dell'animo umano,onde il libro delle Leggi riassumendo le teoriche civili,si rannoda da un lato col dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e dall'altro cogli Officj e col libro della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente il pen siero del filosofo romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo come dell'umana famiglia, e la filosofia civile nelle sue più remote congiunzioni colle altre dottrine, muovono, come due maestose riviere di fiumi perenni, da quel fonte immutabile, che è il concetto della eterna legge. Le dottrine della filosofia civile di Cicerone furono da molti anni soggetto di lunghe e diligenti ricerche in Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto che su questa più che sopra qualunque altra parte delle sue opere forniscono le biblioteche copiosa materia di lavori storici, critici e dottrinali agli studj dei commentatori e dei filosofi.La quale abbondanza di ricerche sulle dottrine posi tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale novità e armonia di disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla filosofia civile, applicandovi l'esempio di Roma e i larghi principj della Giurisprudenza e del d i ritto latino;come da quell'opinione invalsa universalmente tra i dotti ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel l'applicare che nel trovare, più acconcio ad esporre i pre cetti della scienza che a fondarne i principj per via di rigorose indagini speculative. Ma niente è più contrario a questa opinione quanto un severo esame del libro De legibus. Meditando con attenzione questo dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero dalla fantasia largamente inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto essersi in gannati a partito coloro i quali sull'autorità di alcune poche parole di lui nel cap. VI: « quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio,populariter interduin loqui necesse erit », vollero indurre doversi annoverare questo trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica, e volti ad un fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una siffatta questione, non certo di poca importanza nella critica della morale di Cicerone, e risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n disegno ordinato di scienza, io distinguo nel libro De legibus due rispetti parimente importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu ridico, e un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del primo, non debbo lasciare indietro come dal 490, età della prima guerra cartaginese, al 628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte all'oriente e all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei Romani, la repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva a poco a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del giu ramento; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale, dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva disposizione dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella moralità delle azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico riconobbe nel linguaggio dei primitivi italiani, si perfezionava tra il sesto secolo e il settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le consuetudini a leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio dell'antichità necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della morale stoica.Va frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi nava in forma di scienza; non già che molte massime generali delle XII tavole e dei pretori non fossero d e sunte dall'intimo della filosofia, e che l'applicazione e lo svolgimento delle dottrine non desse impulso efficace al l'ingegno speculativo de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un difetto,antico nella costituzione romana,percuicadendo in dissuetudine le leggi, spesso occorreva di rinnovarle, l'autorità troppo larga dei legislatori, onde, al dire di Cicerone, si studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le opere dei Giureconsulti, che il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare delle massime e delle questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè ordinarsi a sistema con universalità di disegno, si veniva soltanto applicando gradatamente ai bisogni civili. M a verso la metà del settimo secolo,quello stesso in cui Cicerone scriveva la Topica,eaRoma epertuttoildominiodella repubblica s'era da un pezzo largamente propagato lo studio della filosofia e delle lettere greche,l'ingegno romano già esperto nell'esercizio della logica, e maturo all'abito della rifles sione interiore, cominciò a dare forma più rigorosa di scienza alle discipline del giure. Uno di coloro che più vi si volse, e che, per testimonianza di CICERONE (si veda), vi recò un vero abito del raziocinio nutrito da studj profondi di filosofia, fu il giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si parla con molte lodi nel libro De claris oratoribus ; e dopo lui il nostro filosofo, al quale chi legga il libro delle Leggi non può negare il merito insigne di avere meditato una riforma del giure, desumendone l'origine,come dice egli stesso, dall'intimo della filosofia, e tentato un codice del diritto pubblico per sopperire al bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a principj universali e a dise gno ordinato le sparse discipline del Diritto romano. (Libro I, e sey.) Ma questo stesso proporsi una riforma del giure e meditarne l'ordinamento scienziale, chi non vede ch'era già nella mente del nostro filosofo un naturale appa recchio all'indagine speculativa dei principj morali? L'oratore latino a cercare che cosa è legge, mosse,come i giureconsulti odierni, dalla considerazione di due rispetti    nei quali la legge può meditarsi, cioè in quanto ella esiste nel fatto come regola coattiva delle azioni, ovvero in quanto ha una ragione d'esistere,o vogliam dire una origine razionale (Forti). Ei risguardò di preferenza il secondo rispetto, e cercando nella sua definizione l'ottimo ideale, « si rifece da un gius naturale anteriore alle leggi, variabili secondo il volere dei legislatori,norma razionale al paragone della quale si potesse distinguere la legge buona dalla cattiva, che in sostanza è una violazione del giusto sostenuta dalle forze della società. Questo termine di confronto delle leggi civili lo ravvisava nella legge di natura,ossia nella somma ragione dell'economia che gli dèi, signori dell'universo, avean posta nel governo delle coseumane.Da questo fonte derivava la giustizia assoluta ed eterna, che definisce il bene ed il male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e dalle opinioni degli uomini. Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone avverte egregiamente, non può star separata dalla credenza reli giosa in un supremo legislatore cui sia a cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I comandi e le proibizioni di questa legge suprema sono noti agli uomini, secondo Cicerone, per natural lume di ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi e consultare la coscienza. Laonde è da considerare sapientissimo il detto dell'antico savio, che pone a fondamento di sapienza il conoscer sè stesso. Conoscendo sè stesso, l'uomo vede di essere naturalmente socievole, e va persuaso che la società è uno stato neces sario al genere umano.Vede eziandio che gli uomini tutti fanno una sola famiglia, che ha un padre e regolatore comune,che tutti ama ugualmente e gliobbliga a vicen devoli uffizj. » Francesco Forti, nome caro alle lettere e alla giurisprudenza toscana,così riassumeva nel I libro delle sue Istituzioni civili le dottrine del dialogo sulle Leggi; ed io lo citai augurando che per suo esempio il trattato insigne del filosofo latino porgesse materia di larghe e fruttifere meditazioni agli studiosi del Diritto. Tra le cause adunque che dettarono a Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in primo luogo da annoverarsi l'incertezza del vero senso del giure per la moltiplicità delle massime,deglieditti, delle leggi, degl'interpretanti, onde spesso si perdeva il significato filosofico e morale nella aridità delle formule, ed era opera di scienza vera e fruttuosa il ricondurvi le umane menti;poi una ragione politica che voleva richiamate ai principj morali le libere istituzioni;ed infine un contrasto alle scuole greche, e specialmente alla Nuova Accademia,la cui dottrina po teva riuscir fatale all'Etica e alla Giurisprudenza, fon data com'era,non già sull'osservazione interiore o sopra un vero criterio scientifico, m a sui deboli artifizj della dialettica e del sofisma. Ora si consideri bene come ilnotare diligentemente questo con trasto del filosofo latino colle scuole negative degli asso luti principj morali,ci mena a poco a poco a scoprire la parte altamente speculativa delle sue indagini intorno alle leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai poco considerata i critici e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo notammo più innanzi) ci porge ampie e innegabili testimonianze di questo tornare della riflessione all'esame della legge morale e della genesi dei sommi principj che ne derivano, e si manifestano all'intelletto fecondi d'innumerevoli attinenze con qua lunque parte dello scibile umano,ogni volta che le dot trine dei sofisti pullulate dalla profonda corruzione civile e dall'intepidire del senso morale, ponevano il bene ed il giusto nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca dell'interesse. In quei tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima delle quali è per certo il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei sommi prin cipj, gl'intelletti più alti,nutriti nella meditazione e negli studj dell'antichità, mossero la riforma morale da quella relazione chiarissima e primitiva che intercede tra l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta nell'energia dell'im perativo morale.Questo intendimento di opporsi allo scet ticismo coll'esame della realità oggettiva del supremo concetto di legge,è manifesto nelle teoriche del Vico,è m a nifestissimo in quelle degli Scozzesi, e dettò le pagine più eloquenti di quel famoso libro che s'intitola dalla Ragione pratica,sebbene l'affermare,come essofa,chelamia ra gione è un che d'imperativo, che la mia volontà vi si sente soggetta, e che quindi m'accorgo che quell'impero è universale e viene da Dio legislatore,creatore e prov vidente, sia pronunciato assolutamente contrario al si stema della scuola critica e alle dottrine del filosofo di Conisberga. M a poichè in questo luogo facemmo espressa menzione del libro della Ragione pratica,vogliamo invitare inostri lettori a seguirci in un paragone per certo singolare e inaspettato delle dottrine di due differentissimi ingegni. Il filosofo di Conisberga, abbeverato alle dottrine del Cartesio, e seguace, benchè inconsapevole, dello scetticismo di Hume, Kant i primi baleni di quella filosofia, onde più tardi sfolgorava la rivoluzione fran cese, ammise a fondamento del suo sistema l'assoluta impossibilità di trapassare dal soggetto all'oggetto, rap presentando il pensiero racchiuso in sè stesso e pensante le cose con proprie forme o categorie. La qual dottrina, oltre al contraddire, come fa, alla natura del pensiero e all'evidenza immediata della percezione,e porre il filo sofo nell'assoluta impossibilità di edificare la scienza nel tempo stesso ch'egli sipropone ilproblema,se lascienza è possibile, distrugge ogni certezza morale, e vieta alla mente di aggiungere mai colla riflessione scientifica l'ori gine vera della legislazione assoluta. Per Kant (osserva giustamente Mamiani) l'anima è onninamente legisla trice di sè medesima e crea l'assoluto dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e quella forza invincibile di approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima, onde ella identicamente e simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità ed obbligazione, è diritto e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita (perchè ogni assoluto vero è infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente delle azioni contrarie all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea. Cotal dovere e cotale legislazione assoluta che emerge tutta ed unicamente dall'umano subbietto, appare nel Kant (se è lecito dirlo)più contradit toria assai che negli Stoici antichi e nei moderni panteisti germanici.Imperocchè appo entrambe le scuole la volontà e libertà umana si sustanzia in ultimo con la divina e assoluta. Quindi nelle loro dottrine morali ricomparisce la contradizione perpetua d'identificare azione e passione, finito e infinito e così proseguì;ma non vi si dee ravvi sare cotesta forma particolare di ripugnanza tanto più deplorevole quanto la scienza morale à un carattere sacro e interessa il genere umano e la vita civile più che altra disciplina quale che sia. » Confessioni. Tale è pertanto la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del Kant e quelle del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla natura come da parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro ch'egli, seguace del semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali l'intelletto umano eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle Leggi avrebbe dovuto condurlo per legittima illazione a identificare la natura infinita del precetto morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta ammessa questa dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione trascendente e as soluta dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come concluderne che la ragione perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto del bene, s'impone alla mente e prende natura di legge? E d'altra parte è chiaro a chi sia mediocremente versato nella storia della nostra scienza che l'oratore roman o, il quale rifiuta nel libro De finibus la parte soggettiva della morale del Portico,come il su perbo concetto del perfezionamento umano,l'indifferenza ai beni esteriori e l'eguaglianza delle imputazioni, qui nel dialogo delle Leggi ne accettò pienamente la parte oggettiva, vo'dire l'idea della legge eterna e i concetti dell'obbligazione e della città universale. Tale repu gnanza del semipanteismo platonico e stoico accoltoda Cicerone coll’autonomia dell'umano arbitrio, e coll'effi]  [Veramente non è ben chiaro se Cicerone si facesse mai tal domanda; ma, a dirla breve e come io la penso, il sentimento più naturale e spontaneo ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro De legibus, fu una ferma opinione che il filosofo latino movendo dalla indagine sul concetto di legge,soccorso dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse riuscire a rappresentarsi quell'azione trascendente della legge morale sull'animo nostro siccome derivata dall'intima natura di un assoluto,distinto dalla ragione dell'uomo e a lei superiore. Argomento valevole assai per confermarmi in tale giudizio,è l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di Tullio,che allontanatosi dal l'esame particolare e sottile delle scuole antecedenti e contemporanee, e dalla parte soggettiva della stessa d o t trina stoica,riordinava la scienza tutta al lume dei sommi principj, più tardi usciti a fondamento della sapienza cristiana.cacia trascendente di quella virtù onde si genera in noi l'obbligazione morale, involge un importante quesito di storia della filosofia. Nel quale si domanda, se il filosofo latino propose giammai nettamente innanzi all'esame della sua riflessione questa controversia da cui dipende il principio costitutivo dell'obbligazione e del bene m o rale; e se chiese a sè stesso come potessero mai conci liarsi l'identità di natura tra l'intelletto divino e l'intel letto dell'uomo con quel sentimento di soggezione assoluta che in noi s'accompagna all'impero della legge morale. Un'altra prova di non lieve importanza è altresì la dif ferenza notevole che corre tra i libri fisici e morali del filosofo nostro.In quelli egli dubita il più delle volte,e,meno che nei principj fondamentali,segue irresoluto leforme della Nuova Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e le sue conclusioni rivelano sempre una maravigliosa armonia del sentimento colla riflessione speculativa. A l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti correlativi di Dio e dell'anima umana e del libero arbitrio,assai inde terminati nel De natura deorum,nelle Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli Accademici primi,qui nel libro delle Leggi profilano più nettamente le loro fattezze,e ne discende ordinata e architettata nelle sue verità uni versali tutta quanta la scienza.Il concetto del divino sopra ogni altro giunge in questo libro ad un'altezza scono sciuta alla maggior parte dei filosofi antichi.Egli è rap presentato al lume delle tradizioni romane come inente eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a tutto impera,e veste idue caratteri dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al dir del Gioberti, ne costituiscono le origi nalifattezze. L'indagine tulliana della leggesuprema pa lesa poi,per mio avviso,un vigore non ordinario d'ingegno speculativo.Posta a capo di tutto ilragionamento lano zione di legge universale come un riscontro delle leggi particolari e una misura intelligibile a cui ricorrendo si potesse apprezzare l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal nozione presentava in sè due rispetti intimi ambedue eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome idealità suprema,come infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè imperfettamente, alle cose finite, e come primo assoluto ed universale, che volgendo le menti alla comune dispensazione del bene porgesse quasi l'unità morale del l'umana famiglia. Considerata nel primo rispetto, la n o zione di legge si offriva alla mente del filosofo latino come idealità suprema e assoluta,e come un intelligibile primo che rappresentando ilperfetto nell'ordine della ra gione le si imponeva come regola dell'operare.Egli dunque concepiva quella nozione come un vivo riverbero dell'as soluto, e poichè l'assoluto è divino, e la sua idea si palesa partecipata come luce dall'alto nella perfetta ragione dell'uomo, unico di tutti gli animali che abbia innata nell'animo la notizia di Dio, quell'idea gli parve una partecipazione segreta ed arcana dell'assoluto nell'umano intelletto. Udiamo le sue parole: « Est quidem vera lex recta ratio,naturæ congruens,diffusa in omnes,constans, sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo, vetando a fraude deterreat, quæ tamen neque probos frustra jubet aut vetat nec improbos jubendo aut vetando movet.Huic legi nec abrogari fas est neque derogare ex hac aliquid  una   licet neque tota abrogari potest,nec vero aut per senatum aut per populum solvihaclegepossumus,neque estquæ rendus explanator aut interpres ejus alius,nec erit alia lex Romæ, alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed et omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit unusque erit communis quasi magisteret imperator omnium deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit, ipse se fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ nas,etiam si cætera supplicia, quæ putantur, effugerit. De Repub. -- riportato da Lattanzio Instit.div. – Stupenda definizione èquestadel principio regolatore degli atti umani,e tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di una semplice continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj dell'Etica romana. Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del Cristianesimo! Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi ci si offre come una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con tanta chiarezza ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana ragione stretta da un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva alla mente del nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e dell'universo, e il fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò era per fermo nel l'intima natura del metodo di lui, il quale movendo dalla coscienza morale e dal vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo stesso principio la più ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche; siccome quella in cui soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine superiore e trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine universale delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo nella ragione informatrice del sistema di Kant, e degli altri critici e razionalisti moderni. In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro stesse parole) non esce mai da se stesso,non coglie la realità viva e concreta che è pre sente all'intuito, nè anche, dico, in questa parte della filosofia de'costumi, dove la mente afferma ogni volta per ingenita necessità di natura l'indipendenza del pre cetto morale assoluto dall'atto informatore del nostro spirito. Non ha dunque la filosofia soggettiva un punto stabile e fermo in cui getti le prime fondamenta dell’edi fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene con nette le parti, non avendo corrispondenza nella realità obbiettiva dei sommi principj,dee riuscire per necessità fenomenico, relativo e contingente. Eppure, come ben nota il Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del Buono senza risalire ai principj, che è quanto dire, senza considerarla come una scienza seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono) Questa nobile impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della scienza,e nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso lo avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile, necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo; egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore, solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla vita. L'uomo dunque è primitivamente simile a Dio; similitudine che può vedersi dal fine a che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede a conseguire quel fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del mondo in suo beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del conoscimento ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe oscure nozioni di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento alla scienza: Diede anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la natura intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra per l'uso del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione del l'antica sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse profondamente scolpita l'effigie dell'animo. Sarebbe lungo il seguire M. Tullio in questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli trasse dal concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere dottrine, più tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole italiane,l'autorità assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio provvidente, l'idea dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella grande città in cui l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme nella universale comu nione degli spiriti eterni. (De leg.) Esaminata la legge nel suo primo rispetto,vale a dire in quanto essa è obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna, il filosofo latino passa a considerarla come un principio universale, che si dispiega al di fuori di sè stesso in un ordine di relazioni,ed è norma comune dell'operare agli umani intelletti. E qui egli veniva cercando la comunità del concetto di legge nella somiglianza di natura intel lettuale, onde avviene che a significare tutta quanta la umana specie vale una sola definizione,e principio del consorzio civile è la comune e vicendevole partecipazione del giure. « Non est enim (egli diceva) singulare nec solivagum genus humanum.» Quindi esce altresì nel primo della Repubblica la bella definizione della città, fonda mento alle sue dottrine politiche: « est igitur respublica]  [Il cardine della morale di Cicerone posa dunque manifestamente in questa dottrina della legge, il cui merito insigne si è di avere volto le sparse discipline del diritto romano contemporaneo ad un ordinamento più razionale, e fondata la metafisica e la filosofia civile sopra principj assoluti di scienza. Questo intendimento del nostro ora tore è tanto più manifesto, in quanto che egli,dopo spie gata per ordine la dottrina della legge suprema, assume nel primo libro la questione più tardi agitata nel De finibus, e contro le dottrine di coloro che il buono misu ravano dall'utile, si distende a provare la virtù sola d e siderabile per sè stessa, e l'efficacia del buono venire dalla natura anzichè dalle mutabili opinioni. La qual cosa, mentre è una prova di più per mostrare come l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale, scendesse con unità di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo quei critici che supposero di fresco avere CICERONE (si veda) abbandonato improv visamente la dottrina dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare il metodo peripatetico nel suo più recente trattato dei Beni. Ma innanzi tutto noi domandiamo a quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla ragione informatrice delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi espone con fronte sicura la stessa teorica trattata nei Fini? In secondo luogo, fra le due opere v'è certo diversità nella ragione del metodo esterno (procedendosi deduttivamente nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro dei Fini), ma la diversità non involge alcuna contradizione; poichè nel trattato dei Beni, quando esaminava quella controversia da parte dell'umano  res populi; populus autem non omnis hominum quoquo modo congregatus, sed cætus multitudinis juris consensu et utilitatis communione sociatus,» dove egli af ferma ilnesso primitivo tra il diritto naturale e ildiritto delle genti, e contro Platone che attribuiva l'origine del consorzio umano alla debolezza degl'individui,riconosce invece quell'origine nella comunità di una legge assoluta e soprammondana. cætus 1 soggetto, affermò nella vita presente non pervenire l'uomo al compiuto adempimento del fine se non svolgendo e perfezionando ogni parte integrale di sua natura,laddove qui nelle Leggi salito ad un concetto più universale, m e ditò oggettivamente l'idea del buono e dell'obbligazione, riconoscendovi un'assoluta efficacia indipendente dall'atto dello spirito umano.Così da questi due larghissimi aspetti in cui può essere meditata la materia della scienza m o rale, e dove all'intelletto del filosofo appajono congiunti l'assoluto e il relativo, il contingente e il necessario, l'anima e Dio,deriva secondo la mente di Cicerone, il vero e più ampio concetto della dottrina sul buono. La diligente esposizione impresa da noi degli scritti del filosofo latino ci ha condotti,come avranno osservato i lettori, a trattenerci alquanto intorno alla parte specu lativa delle sue dottrine morali, e segnatamente intorno ai due trattati De finibus e De legibus. La qual cosa abbiamo fatta coll'intendimento di porre innanzi agli occhi degli studiosi i principj fondamentali e il disegno scien tifico dell'Etica latina,esposta da Cicerone,sembrandoci che questo esame fosse stato assai leggermente condotto sin qui dai critici precedenti, i quali o tenerano Cicerone in luogo di un eclettico e di un moralista positivo e spe rimentale, o non facendo professione di filosofi, conside ravano nei suoi trattati meglio la parte istorica e lette raria che l'intimo nesso e il metodo speculativo delle dottrine.Eppure convien confessarlo) questa critica preoc cupata e parziale è sommamente contraria alla giusta estimazione dei libri speculativi di Tullio.Per essa avviene che i principj e la unità delle sue dottrine morali ci ri mane ignota per sempre; ci sfuggono le più alte indu zioni che il grande oratore e i Giureconsulti adoperarono intorno ai pronunciati del senso comune,e riesce un fatto senza ragione alcuna quell'ampia utilità applicativa del l'Etica romana,da tutti riconosciuta,se il filosofo morale non ne rintraccia i principj nelle speculazioni più remote intorno al vero ed al buono. Premesse queste osservazioni, veniamo ora alla parte   positiva dell’Etica tulliana, nella quale ci terremo più brevi secondo è richiesto dalla natura principalmente fi losofica di questo scritto. L'indagine che si contiene nel primo libro delle Leggi, porge naturalmente il passaggio dai supremi principj speculativi alle dottrine pratiche della morale, pel con cetto d'obbligazione e di vicendevole comunanza del giure, onde il libero arbitrio sperimentando in sè l'efficacia trascendente del precetto morale, e riconoscendovi un impero incondizionato che si dilata nell'universalità del l'umana famiglia, si sente stretto all'osservanza degli officj religiosi, individuali e civili. Officio dunque (così lo domandavano le scuole socratiche) è illibero conformarsi della virtù all'impero della legge morale. E importa assai determinare il significato scientifico della parola, perchè si capisca come la teorica dell'officio che ha tanta parte nel sistema del Portico,mentre discende immediatamente da quella del dovere (considerato nella sua genesi razio nale),ha poi certi suoi peculiari rapporti che la connet tono colla parte più positiva della scienza morale. Due specie d'officio distinguevano gli Stoici.L'officio retto o perfetto (29Tóptospa, zadrzov téheLov) che cade uni camente nel saggio,o in colui che abbia ottenuto l'ultimo grado del perfezionamento morale;e l'officio comune,o medio (2997zov uésov),che era un ordinario conformarsi della virtù agli obblighi della vita privata e civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un fare da persona dab bene. Ora insorse controversia tra i critici, se Cicerone nel suo trattato, da tanti anni notissimo nelle scuole, de finisse scientificamente l'officio. Il Manuzio e il Facciolati difesero Cicerone; il Lilie con altri più antichi, citati dal Kuehner, giudicò veramente omessa quella definizione; mentre il Binkes,il Kuehner e il Grysar avvisavano avere Cicerone definito soltanto l'officio medio, di cui prese a trattare espressamente nel suo libro,in quelle parole del capitoloIII,1.I:«medium officiumidesse,quodcur factum sit ratio probabilis reddi possit. » (Vedi Lilie, Comment.de Stoic. doctrin. mor.ad Cic. libr.De off.,1, Kuehner. Fran. Binkes, Responsio ad quæst. juridicam etc., Franeq., Prolegomena ad Cic .libr. De Off. scripsit, Grysar, Köln). Questa opinione dei commentatori tedeschi tanto più è conforme alla natura del libro D e officiis e al metodo espositivo che quivi si propose l'autore, in quanto che egli stesso ci dice nel capitolo III: due questioni potersi fare intorno all'officio; l'una che si riferisce al fine dei beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in ogni parte si può conformare l'uso della vita; parole meritevoli di speciale considerazione, conciossiachè mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico che annoda le dottrine p o sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono poi il vero oggetto del presente trattato,il quale non è altro, come giustamente osserva un critico moderno, che la determinazione dei nostri doveri particolari. Coloro d u n que che dal libro degli Officj prendevano argomento a ravvisare nel filosofo latino un mediocre valore scientifico, perchè egli trattando dell'officio non si solleva ai supremi principj della morale, non osservarono quale attinenza corra tra i libri speculativi e pratici della sua morale, onde egli investigato prima che cosa è il bene nell'umano soggetto (De finibus), si leva alla nozione oggettiva di legge (De legibus), e scende per ultimo alle applicazioni più remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De of ficiis, De republica, De amicitia, De senectute.) Migliore giudizio invece recarono quei critici, segna tamente francesi, i quali considerando di preferenza questo speciale rispetto tutto positivo e civile, in cui possono meditarsi gli Officj, quindi desumevano i pregj e i difetti del libro. Infatti il trattato degli Officj non è un'opera semplicemente speculativa,o un'opera di psicologia. Ivi si richiamano, è vero,le altre parti delle dottrine m o rali, vi si accenna la distinzione stoica tra l'officio per fetto e l'officio comune,e il pensiero dello scrittore si leva talvolta a indagare la qualità morale degli atti nel l'intima natura dell'uomo,ma l'intendimento primo a   La gentilezza degli Attici educata nell'ordine m a t e riale della civiltà da fina eleganza di costumi, e dallo spettacolo d'una natura ridente, li traeva ad una viva e, quasi direi,religiosa ammirazione del bello,onde il pen siero dalla convenienza e armonia delle parti reali che genera il perfetto nei corpi,passava all'invisibile bellezza degli animi. Ma in Rom a dove ogni istituzione fu vôlta sin da principio a rafforzare i legami che vincolavano il cittadino allo stato, e il rispetto delle relazioni civili superava a gran pezza gl'interessi domestici e il culto delle arti, regnava dominatrice siffatta la pubblica opi nione che in lei risedeva il solo e inappellabile arbitrio di giudicare le azioni. E per fermo i Greci considerando nella virtù la corrispondenza ideale che corre tra l'ar monia interiore dell'animo nostro e le forme più elette della natura sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani la virtù sono quasi convenienza delle azioni colle leggi sociali. Laonde Cicerone che qui negli Officj la conside  148 cui mira quel libro, è un intendimento civile, e Tullio che lo compose dopo la morte di Cesare, quando to nava per l'ultima volta nel fôro in difesa delle libere istituzioni, volle lasciare a suo figlio in luogo di testa mento il codice più compiuto della morale politica. A questo proposito nel libro degli Officj merita spe ciale considerazione una dottrina che pel modo in cui fu trattata da Tullio palesa un rispetto istorico,e un'atti nenza immediata colle istituzioni e coi costumi di Roma. Tale è la dottrina del decoro (Tpétrov), esposta nel capitolo XXVII del libro primo. Cicerone,osserva acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la sentenza degli Stoici: crcpovovaysoró 2.016; il solo buono è bello, collepa role: quod honestum sit,id solum bonum esse;onorabile è solamente ciò che è buono. Ora questo diverso concetto che i Greci e i Latini s'erano fatto della virtù, e che più volte ritorna nel De officiis, come in quel libro in cui Cicerone conformò forse maggiormente le sue dottrine morali al pensare e al sentire romano, si spiega assai facilmente ricorrendo alla Storia.   rava in un rispetto quasi esclusivamente civile, l'accom pagnava al decoro, o vogliam dire a quella luce esterna di onoratezza, onde la stessa virtù si porgeva all'ammi razione della pubblica coscienza. Considerato per questo rispetto, il libro D e officiis, mentre si attiene alle altre opere speculative, presenta nelle sue parti più sostanziale un vero ordinamento di scienza. Il filosofo latino segue liberamente Panezio, e perchè autore di un ottimo libro intorno agli Officj, adesso perduto, e perchè assai temperato nelle dottrine dello stoicismo,come portava l'età.Da Panezio,eforseda Pos sidonio, continuatore di lui, trasse in gran parte le dot trine intorno all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto ai due primi libri, e v’aggiunse del proprio la materia del terzo, ovvero il combattimento dell’utile coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte più bella e più filosofica di tutto il trat tato, e dove splende più pura la nobiltà dell'animo di Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della politica colla morale, biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse dell'utile pubblico avanzò le norme della giustizia e della onestà, e propone al figlio i più sui blimi esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem prando possa uscire incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi dovevano esser tristi davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia contemporanea che Tullio ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da uomini potentissimi nella repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè dee far maraviglia che fosse cosìa chi consideri come il disgiungersi della morale dalla scienza di stato è uno dei maggiori indizj della corru zione civile, e che tutto allora in R o m a precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati; e in quel rovescio d'ogni cosa e divina poneva i fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori. Nel terzo libro, discorse le attinenze della politica colla morale, passa il filosofo latino alle attinenze della umana   morale colle altre scienze sociali, la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di Tullio, a sempre più smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure consulti romani le tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come la giurisprudenza latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo di scienza con norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine, desumeva da'principj della filosofia i suoi fon damenti; il che mostra CICERONE (si veda) citando parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e definite con formule certe che più tardi assunsero la forza di legge. La qual cosa apparisce vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo definite alcune questioni di morale, appellandosene al testimonio della coscienza e della retta ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il riscontro nella più antica e venerata delle legislazioni romane, nella legge delle XII Tavole. Questo ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era proprio al metodo di Cicerone, che cercava nell'antichità più presso all'origine divina,le verità naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha qui un'importanza d'oppor tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della morale civile voleva additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro in tutto il libro; chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e di Cammillo e dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che coll'autorità del senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se n'erano sciolti pagando, nè restituiva il danaro; e prorompe con mobile sdegno: p i r a tarum enim melior fides quam senatus! Il De officiis accolto nelle scuole d'Europa sino dal primo risorgimento delle lettere antiche, e stampato per la prima volta a Magonza, levò di sè tanta fama da affaticare per ogni tempo l'acume degli eru diti e dei commentatori. Un esame critico di questo trattato, che Paolo Janet chiama « il più belmonumento filosofico della letteratura latina, » fu recentemente pro posto dall'Accademia delle scienze morali e politiche di Francia,e ne usciva nel 1865 il libro del signor Arthur Desjardins col titolo: Les devoirs, essai sur la morale de Cicéron. In quest'opera ricca d'ingegno, di filosofia e di larga dottrina in ogni parte della giuris prudenza e delle lettere antiche,l'autore con utile esem pio, che vorremmo rinnovato in Italia, prende a esami nare largamente il libro De officiis, ne mostra le varie attinenze coi principj supremi della morale tulliana, e lo confronta coi migliori filosofi antichi, e coi giurecon sulti moderni. È un lavoro di critica larga e profonda, in cui la gravità del soggetto è abbellita dallo stile ele gantemente sereno. E accresce lode al critico francese la schietta imparzialità dei giudizj, onde egli intento solo a conoscere la verità, difese da ingiuste accuse la fama del grande oratore, ne osservò opportunamente le omissioni o la brevità soverchia per quel che risguarda i doveri verso il divino, la famiglia e noi stessi, e rappresentò il De officiis come un codice compiuto di Etica civile, in cui si ragiona dei doveri del cittadino verso lo Stato,e il concetto della umana famiglia e della carità universale perviene a tale altezza da annunciarci vicino il grande rinnovamento dell'evangelo. Dai principj della filosofia civile e dai precetti par ticolari intorno ai costumi si varca alla teorica dello Stato. Questa fu esposta da Cicerone nel De republica, giudicato universalmente dai critici come una delle opere le più ori ginali del nostro autore.Gran parte ne andò sventu ratamente perduta,ma le reliquie del primo e del se condo libro fanno assai splendida testimonianza che l'ora tore latino vi avea diffuse largamente le memorie della antichità greca, le grazie severe dell'eloquenza,eigrandi insegnamenti della vita politica. Quando prese a trattare dello Stato,egli avea innanzi a sè due scuole egualmente illustri, egualmente seguite dagli scrittori: la scuola di Platone e la scuola d'Aristotele. Ma ei dovette certo considerare che l'ingegno dell’Ateniese, poderoso d'invenzione e di veduta speculativa, non intese forse nei termini del vero le attinenze della filosofia colla politica.   Il merito insigne di aver sostituito alle dottrine ideali l'autorità degli esempj, è pur quello della Repubblica di Cicerone. In quest'opera, spartita in sei libri, e condotta con larga unità di disegno, il grande oratore imitò Platone nella forma letteraria e nel tono dello stile, del resto si attenne al metodo aristotelico; e volendo fare opera non solo utile alle lettere, ma vantaggiosaallapatriae alle più lontane generazioni, incarnò i suoi precetti nel grande esempio di Roma. L a dottrina sui reggimenti civili si r i duce alla disputa delle tre forme monarchica, aristocra tica e popolare, alle quali egli preferiva la mista, invo cando le ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta quanta la storia di Roma.  Da queste premesse esce a compimento delle dot trine morali la disputa sull'immortalità. E qui Cicerone lasciando al tutto le orme dei Greci, seguì l'indole pro pria e della sua nazione, e fece di quel problema una vera e compiuta dottrina. Forse l'incertezza in cui aveano la sciata la controversia sui destini dell'anima i panteisti  [La quale, mentre ha bisogno per disegnare e applicare le civili istituzioni di ricorrere talvolta ai principj uni versali della natura,non può trascurare per altro nel l'ordine dei fatti le imperfezioni dell'essere umano, e quella lunga serie d'esperienze infelici per cui soltanto nella storia dei popoli si perviene ad applicare le istitu zioni alle necessità dei tempi. A questo metodo, chiamato da'Cesare Balbo un metodo razionale, si opponeva l'altro sperimentale d'Aristotele. Il filosofo di Stagira, disposto per natura d'ingegno a un accordo più perfetto della spe culazione col senno civile,e cresciuto alla scuola di Fi lippo e d'Alessandro, intravide con occhio più fermo le armonie delle dottrine scientifiche coll'esperienza, applicó alla scienza dello Stato quell'analisi sicura e paziente che negli ordini del pensiero e della natura lo avea condotto a creare la logica e la fisica; raccolse da ogni parte gli esempj dei governi migliori, li ordinò, li paragon ), li ridusse a principi, e ne trasse la sua Politica fonda mento della scienza civile. Ma a tali  prove di ragione e difatto altreseneag giungevano per lui desunte dall'affetto individuale e civile. L'indole del suo ingegno, inclinato a quanto v'ha di più grande e di più sublime nelle opere della natura e di Dio, gli svegliava nell'animo un vivo desiderio dei sommi estinti, e massimamente di quelli la cui vita consacrata alla patria nelle scienze,nelle lettere, nelle arti, nei pubblici negozj, li raccomanda alla riconoscenza di Roma. Gran parte,e la più bella forse della sua vita,s'era pas sata nella società di quei grandi; chè molti n'avea co nosciuti da giovinetto, e seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di molti avea udito favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli restava impressa nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone domestiche e care.La vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di grandi rivolgimenti, non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e perchè vi pendeva l'animo naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè stesso, e perchè la sua parte di conservatore lo menava in politica a desiderare il ritorno della virtù e degli antichi costumi. Più tardi le sventure della patria lo strinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, e allora la fantasia nutrita negli studj speculativi gli consolava spesso colle grandi memorie i dolori civili e le meditazioni della scienza. E quindi si spiega perchè quelle meditazioni,in cambio di riuscire una fredda copia delle opere greche, gli si convertivano spesso in dialoghi vivi e passionati, e l'abito di conversare coi s o m m i estinti gliene porgesse gli interlocutori, e si spiega altresì come la dottrina del l'immortalità occupi tanta parte nel Sogno dell’Affricano e dualisti italici e greci, contribuì non poco a svogliarlo d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via più sicura. Fatto è che nelle Tusculane,ma più nel De republica e negli opuscoli popolari della Vecchiezza e dell'Amicizia, egli chiese di preferenza le prove dell'immortalità alla coscienza morale, alle antiche tradizioni, ai riti delle tombe, al desiderio, connaturato nell'uomo, del divino e dell'assoluto.] e nel Catone Maggiore, dov'egli imitando il Socrate di Platone, paragonava sè stesso ai sommi che l'avean preceduto, e si consolava di speranze immortali.  Un'altra occasione, opportuna a indirizzare le medita zioni del nostro filosofo sulla controversia dell'immorta lità, e a dettargli intorno al soggetto affettuosi e mesti pensieri, fu per certo la morte della sua Tullia, avvenuta il mese di Febbraio dell'anno 709. Nelle solitudini della sua villa presso Astura, là dove avea in animo d'inal zare un tempio alla figlia perduta, egli scrisse un libretto che poco appresso indirizzò ad Attico, e che intitolava Consolazione. Su questo libro,adesso perduto,gli eruditi studiarono a lungo,e dai pochi frammenti che Cicerone stesso ci conservava,e da quel che ne dissero parecchj scrit tori antichi,in special modo Lattanzio nelle Istituzioni di vine,tentarono restituire per sommi capi il disegno gene rale e lo spartimento delle materie. Schneider ne ragionava in un saggio dove suppose Cicerone avere trattato a lungo dell'immortalità degli spiriti nell'opera della Consolazione, come apparisce in gran parte dal primo libro delle Tuscolane. La quale supposizione, che riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente deplorare la perdita di questo monumento della letteratura latina,una forse delle opere più originali di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della figlia perduta gli volgesse a più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno naturalmente fecondo. Può sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo esame della filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole precedenti o contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della scienza e finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso sotto un rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue dottrine.La qual cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle discipline scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi da quello dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno potrebbe esserci mossa,di attribuire al più grande degli oratori latini una potenza d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica intorno alle opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli storici più antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo scorso e del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo esameeapiùimparzialigiudizj. Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata come norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo spirito umano di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e dal disprezzo non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti nell'esame delle opere di Cicerone. E non pertanto al critico che prende in mano quei suoi scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita e delle memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite difficoltà; non ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom pagnarlo nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse dottrine,e quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e di buono, che si trova sempre in ogni sistema, mentre costituisce un pregio capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola, e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filosofia tanto riguardosa e modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla Socrate pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare famigliarmente in mezzo agli uomini.” (Mamiani). Tale è l'indole vera della filosofia di Marco Tullio; e contuttociò crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro lavoro, come alla semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente nella parte morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza. Coloro poi che misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle innovazioni, e giudicano   Marco Tullio una povera mente perchè dice egli stesso di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle opinioni popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa esercitare la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno infatti di quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori de'tempi loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri, ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio rigoroso di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol fermarsi nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle cose,convenga rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui stesso,convenga svelare illegame intimo che annoda le idee principali, concepirne una moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle, vedere i trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom posta la totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia del suo pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima Cicerone adunque può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne della filosofia, degno d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per l'ampio studio delle dottrine antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici più recenti è tenuto a ragione come fonte non principale di storia, perchè spesso allega testi divisi, e perchè l'indole della sua riflessione scientifica lo menava non di rado,come Platone,a suggellare del proprio pen siero le dottrine d'altri sistemi, ogni età debbe essergli riconoscente d'aver campato tanta e sì nobile parte delle greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e dalla barbarie degli uomini. Ma d'altro canto, dopo una lettura ben considerata degli scritti tulliani, può egli negarsi che vi si rinvenga una parte dommatica, e un esercizio suo proprio della riflessione speculativa? A una simile domanda ci sembra avere bastantemente soddisfatto nella parte antecedente di questo discorso coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle principali teoriche della scienza; e qui facemmo manife sto come un tal metodo di fina osservazione consistesse per lui nel ridurre ai semplici elementi delle verità prin cipali i sistemi, e, sceverati gli errori, comporre un'altra volta quelle verità nell'ordine del sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti alla scienza ricercava un in gegno universale, e un potente esercizio della riflessione. La quale,adoperata da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo condusse a salvare dal naufragio dello scetti cismo le più nobili parti delle dottrine speculative.In Fisica mantenne la distinzione, quantunque non piena, tra il finito e l'infinito, il contingente e il necessario, la natura e il divino, l'esistenza del divino, dell'universo e dell'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle spirituali e all'eterne, l'ordine universale, la eccellenza della] filosofia [nelle storie che la critica degli antichi scrittori, segnatamente per opera degli Alessandrini, fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de' Greci, da cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi scritti ai più culti ingegni di Roma.]  ragione, il libero arbitrio e l'immortalità. In Logica tenne salda la capacità del conoscimento a cogliere il vero, il concetto di potenza, i sommi principj della ragione, la evidenza interiore, la distinzione tra senso e intelletto e il metodo inventivo delle conoscenze. Nella Morale al lume dei sentimenti interiori e del senso comune ricom pose  il sistema perfetto di quellascienza,e salendocon metodo induttivo dalle tendenze e dai fini della natura all'oggetto universale di legge e di dovere, ne seppe d e durre tutto l'ordine dei veri relativi alla famiglia, all'in dividuo e allo stato.Veramente se ad un uomo,apparso in quella età quando tutta la scienza,divenuta un pro blema, si lacerava fra i delirj di una moltitudine di so fisti, nasca il pensiero di ricomporla a sistema, e riassu mendo l'impresa di Socrate,raccolga le verità principali in una sintesi vasta; e se vissuto in mezzo ai pregiudizj di un patriziato superbo, e in tempi d'ateismo e di co stumi nefandi, egli invochi a soccorso della riflessione speculativa l'esame delle antiche tradizioni e delle verità fontali, contenute nella coscienza del genere umano e nei più nobili affetti, a quest'uomo, parmi, non si possa negare il nome di FILOSOFO GRANDE. – Grice: To hold those who are great and dead as if they were great and living. --L'indagine dei dommi primitivi e dei sentimenti nella natura e nel linguaggio dei popoli vuole –voleva -- in CICERONE (si veda) un ingegno forte e addestrato a meditare, e un uso continuo dell'osservazione interiore. Del che sono splendido testimonio l’orazioni, l’epistole, il primo libro delle Tusculane, il secondo e il quinto dei Fini e il proemio delle Leggi; che esposti senza preoccupazione rettificherebbero d'assai il giudizio sul valore speculativo dei suoi saggi, e mostrerebbero com'egli esa minasse con vero criterio di scienza l'umana natura nelle varie età, nelle diseguaglianze de'sessi, degl'ingegni e de gli ordini civili, e sino dall'alto della tribuna, o seduto agli spettacoli del circo cogliesse le verità eterne della coscienza nelle manifestazioni spontanee del sentimento popolare. Parecchj critici di CICERONE (si veda), e segnatamente quelli che gli negano ogni facoltà d'ingegno speculativo, non hanno inoltre considerato qual uso ei facesse della tradizione scientifica,e come, movendo dalla coscienza, contrappo nesse all'esame imperfetto e negativo de sistemi un esame comprensivo di tutto il sapere. Dissi più volte ch'egli moveva dalla coscienza; e questo fatto dell'osservazione interiore, manifestissimo nelnostro filosofo,ogni volta che egli prende a trattare importanti materie morali, non può mai andare disgiunto nell'esame compiuto dei suoi scritti dallo studio ch'e'fece de'sistemi antecedenti e contem poranei, perchè ci porge la più intima ragione del suo metodo esterno, chiamato da molti impropriamente un eclettismo;e ci spiega come nella viva armonia dell'animo umano egli cercasse quell'unità informatrice delle sue dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco e d'altri eru diti avrebbe indarno aspettato dall'accozzamento inge gnoso di cento scuole. Certo Cicerone non ebbe quella potenza inventrice d'ingegno speculativo, e quella rara felicità degli ardimenti metafisici, che hanno Socrate, Platone, Aristotele tra gli antichi,e tra imoderni Cartesio, Kant e VICO (vedasi). Il suo ingegno non altrettanto acuto, rapido e penetrativo, quanto uni versale,comprensivo e solenne,più che in escogitare nuove dottrine, e in architettare sistemi mirabili per ipotesi a u daci e tirati a filo rigoroso di logica, piacevasi nel sot toporre ad esame le antiche dottrine,sceverarne gli errori, ribatterne le istanze,scoprire nuove armonie della ra gionescientificacolsensocomune, e iltuttopoi ricom porre in un vasto disegno di scienza concorde colle arti, coi costumi e colla vita civile. Nel che mirabilmente lo secondavano itempi. Allora,come era avvenuto nel secolo di Socrate,e come per molte parti accade ora nel nostro, si manifestava nella condizione delle discipline morali un'imperiosa necessità di riforma. L'eccesso delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e la scienza e l'arte tor navano al vero della natura,unica fonte delle opere grandi. Era dunque suprema necessità deporre la vana superbia delle innovazioni assolute, farsi discepoli della natura, tornare agli adagj della sapienza popolare, e chiedere    alla tradizione de savj, non già il supremo criterio del vero,m a il sindacato delle opinioni attinto nella coscienza più eletta del genere umano. Tale è la parte modesta, e a un tempo solenne, che CICERONE (si veda) appresenta nella storia della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale il criterio della tradizione scien tifica, perchè poco o nulla rimaneva da aggiungere alle speculazioni dei filosofi greci; e se, parlando ai concitta dini innamorati della letteratura e delle dottrine stra niere, si mostra studioso al sommo dell'altrui autorità, confessa però nel 1° degli Offici, ch'e'non seguiva gli a n tichi come interprete, m a per proprio arbitrio e con li bero esame attingeva ai loro fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli sosteneva quelle dottrine soltanto che erano approvate da lui,e vi aggiungeva un ordine pro prio di scrivere. Come poi quest'ordine di scrivere (si gnificante non altro che un ordine di pensieri) si esten desse per lui al collegamento necessario di tutta la scienza, te lo dice in quelle parole dei Tuscolani (II, 1): « Difficile est in philosophia pauca esse einota,cui non sint aut pleraque aut omnia.»  Noi dunque invitiamo gli studiosi delle lettere e della filosofia antica a prendere in più seria considerazione quella sentenza, divenuta pur troppo comune, che fa del filosofo latino non più che un seguace d'Antioco, e un modesto raccoglitore delle dottrine greche. Di quanto in tervallo egli si lasciasse discosti i migliori filosofi greci contemporanei può apparire assai manifesto a chi ricordi quanto è detto nella prima parte di questo discorso. Fra i latini poi non sapremmo chi contrapporgli,se non forse il dottissimo VARRONE (si vefda) suo familiare, rammen tato nel primo degli Accademici,e della cui filosofia per altro o poco o nulla sappiamo. Veramente, ammesso che l'oratore romano fosse un eclettico, nella schietta e ger mana significazionedellaparola,eglinon solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto accettare le principali dottrine della scienza tal quali gliele porgeva la Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma l'autorità della tradizione scien 11   tifica sarebbe stata per lui unico e assoluto criterio per venire dall'opinione al sapere.Ma per contrario, esami nando nella loro pienezza le dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè inchinarsi a servile imitazione, intese l'uso dell'autorità come un legittimo ossequio della ra gione al vero riconosciuto per altrui testimonianza, e propose a sè stesso il gran problema (chiarito poi dai moderni) del passaggio dalla certezza naturale o volgare alla certezza scientifica. Pensatore e scrittore di cose fi losofiche in una età in cui la scienza si divideva tra un dommatismo eccessivo e uno scetticismo quasi assoluto, stimò che avrebbe ben meritato dell'umana ragione e della patria,seguendo una filosofia modesta in mezzo agli estremi del tutto credere e del tutto negare; e scelse a suo metodo la verosimiglianza della Nuova Accademia senza parteciparne lo scetticismo. Condotto da questo metodo in mezzo alla confusione dei sistemi e alle rovine dell'edifizio scientifico, ne sottopose ad esame le princi pali dottrine, e nelle parti incerte e dubbiose ammise più gradi di verosimiglianza; le verità d'evidenza interiore affermò risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che verosimiglianze; in teologia naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica ondeggiò tra il verosimile e il certo; nella morale soggettiva e oggettiva, nelle teoriche del Diritto e dello stato romano si volse alla luce innegabile della coscienza e affermò con certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte delle sue dottrine, e nella successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine di gradi che vanno dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene all'intimo del suo pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma estrinseca e nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi scrittisono per la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve specialmente nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della teorica dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj dei sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto del divino, che pose nell'umana ragione,a testimonianza di sè stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col De legibus e col De officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub blica, e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della vecchiezza. Esaminando nella successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di ricom porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato assai largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy (il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il dialogo delle Leggi.  Ma il por mente a questa unità informatrice delle dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo delle scuole particolari si risolvesse inun criterio intrinseco di ragione. Quistail divario essenziale tra la filosofia di Cicerone e la filosofia degli eclettici. L'eclettico infatti raccogliendo le sue dottrine da sistemi contradittorj e infetti sostanzialmente d'errore, come non può sperare di levarsi mai colla riflessione a principj assoluti di scienza, così è costretto a scambiare la vera filosofia,che è semplice ed una,con un viluppo di multiformi dottrine senz'armonia e senz'accordo. La verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò uscire in eterno dall'accozzo fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a sè stessa e senza un criterio intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj saldi, universali, apodittici. La qual cosa non conobbe abbastanza quella scuola fran cese,fiorita nella prima metà di questo secolo, e a cui giu stamente si attribuisce la lode di avere spento il sensismo, e restaurati gli studj istorici della filosofia nella nostra Europa, quando sentenziava che i sistemi più avversi si compiono tra loro, e che lo spirito umano procede d'er rore in errore per cammino non interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma Cicerone intese ben altrimenti il principio costi tutivo delle sue dottrine. Per lui la tradizione scientifica trovava un riscontro nell'esame immediato dei fatti in terni, e quindi egli desunse il criterio con cui variamente conciliava i sistemi. Ora a questo criterio che è la parte propria ed originale di sua dottrina, e che rappresenta un vero esercizio dell'indagine filosofale nel sindacato delle scuole particolari,fa d'uopo aver l'occhio per ve dere come e quanto egli attingesse ai fonti delle opere greche. Sennonchè in tal questione, come osserva Kuehner, che ne disputava a lungo, e con rara diligenza, si affacciano naturalmente non lievi difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio, fornito di varia e multiforme erudizione, volse in proprio uso tutte le migliori dottrine dell'antichità italica e greca; secondariamente, perchè parlando di un dato soggetto, non se ne stava contento all'autorità di un solo autore, m a interrogava la m a g gior parte di quelli che ne avevano trattato, moltissimi tra’ quali andarono per noi sventuratamente perduti; e infine perchè il nostro filosofo o tace non di rado, o accenna di passaggio i fonti a cui attinse, o soltanto rammenta gli autori quando gli accade di confutarli. Passando poi a determinare il metodo con cui Cicerone attinse ai greci filosofi, osserva giustamente il critico te desco che questo metodo si esercitava in tre maniere. Traduceva egli dal greco, trasportando liberamente in latino, tanto (come egli stesso ci avverte nell'operetta “De optimo genere oratorum”) da serbare il colorito e la forza nativa del testo. Nelle altre opere filosofiche segui principalmente un solo autore, adoperandovi sopra con libera efficacia di riflessione ilsuo giudizio,e componendo le materie con proprio ordine di pensieri;ricorse ad altri scrittori ove quello che seguiva fosse riuscito mancante, e v'aggiunse del proprio.Era altresì suo costume inter rogare varj libri che avean preso a trattare un m e d e simo soggetto, e ove fosse stato possibile il conciliarli, trar fuori dalle loro dottrine un tutto perfettamente connesso ed armonizzato. Quindi,prosegue Kuehner,è necessario al critico di CICERONE (si veda) avvertire con diligenza gli scrittori da lui citati e accennati, raffrontare spesso i suoi libri coi grandi monumenti dell'antica filosofia, che ci pervennero intatti, osservare quello ch'egli trasse dai suoi maestri,e non piccola luce daranno le congetture assennate e prudenti.  Esposte queste norme più generali di critica, noi non seguiremo più oltre l'erudito tedesco nell'indagine minuta intorno alle fonti delle dottrine tulliane. Tale indagine infatti, oltrechè si allontanerebbe di troppo dal l'indole speculativa e dai confini di questo scritto,e riu scirebbe inutile al tutto per noi che non neghiamo avere il filosofo latino attinto le sue dottrine migliori dall'an tichità greca, è piena altresì d'incertezza e di congetture là dove i fonti originali andarono perduti, e dove riesce difficile lo sceverare quanto appartiene all'ingegno del nostro filosofo, e quanto debba invece attribuirsi all'au torità stessa dei Greci. Del resto, concludendo coll'au tore della dissertazione, M. Tullio ne'libri fisici, e in special modo nella disputa sull'immortalità,seguì princi palmente Platone; nei libri logici e nella questione sul criterio della verosimiglianza e sulla percezione sensitiva, attinse dal Portico e dalla Nuova Accademia; nei libri morali poi, discepolo degli Stoici e dell'Antica Accade mia e del Peripato per ciò che risguarda le dottrine speculative del bene e della legge, nelle materie politi che e civili seguì a preferenza Aristotele,Teofrasto e Polibio. L a qual cosa per altro vuole essere intesa discre tamente; poichè, a considerare bene il metodo con cui egli compose i varj sistemi, si vede che, sebbene in più luoghi attinse separatamente dagli Stoici e da Platone,tut tavia la natura dell'ingegno latino lo menava a tempe rare l'austerità degli Stoici colle massime dell'Ateniese; il che fece in più luoghi, e segnatamente nel secondo libro della Natura degli Dei, e nel primo della Divina zione. Come poi usando le opere dei greci scrittori, è attingendo ai loro fonti la materia di sue dottrine, ei conservasse non pertanto la libertà dell'ingegno, con queste parole lo attesta Kuehner. Negari quidem non potest Ciceronem disputationes suas philosophicas e Graecorum fontibus hausisse; sed græca non interpretis modo ad verbum in linguam latinam convertit,sed suum ipse iis adjunxit judicium, suum scribendi ordinem,viam rationemque atque orationis lumen.Reputemus nobiscum, quantum ingenii judiciique dexteritatis Cicero probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e græcorum philosophorum monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum philosophorum disciplinis, ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ ad fingendos mores sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim omnino habebant saluberrimam.” Cicerone dunque, a riassumere il tutto in poche parole, non fu nè Stoico, nè Accademico, nè Peripatetico, ma fu vero Socratico con libertà di riflessione e di esame. Come Socrate, egli non compose un sistema per fetto di cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne agli estremi resultamenti delle indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via più sicura; non chiuse tutta la scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi, d'un'inven zione o d'un fatto; m a assorgendo colla mente alla più feconda delle armonie scientifiche, che è la ragione m o rale, vedeva in un'occhiata spiegarsi da quella sintesi l'ordinamento necessario della scienza prima. Per certo l'ingegno onnipotente dell’Ateniese, la cui efficacia dura da ventiquattro secoli nell'indirizzo delle dottrine specu lative, è unico esempio, e non mai superabile, nella storia della filosofia. Ma consideri un poco il lettore, come al filosofo romano, ingegno senza dubbio men vasto e meno inventivo, mentre si attraversavano per via le stesse dif ficoltà, e forse maggiori,non arrisero altrettanto propizie, quanto al greco, le condizioni dei tempi e dei pubblici costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate, ad un po polo,qual era quello d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente inclinato da natura agli studj speculativi, e innamorato d’un amore infinito del bello e del perfetto. La gente romana, sebbene felicemente disposta a sentire ciò che è certo e applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno, sebbene disciplinata nelle deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti, ritenne per se coli quei costumi severi e quell'abito politico e militare, non facilmente conciliabile colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più tardi allorchè l'impero esteso a due terzi del mondo, e il vivere agiato, e la necessità di allontanare il pensiero dallo spettacolo della tirannia nascente, volgeva i migliori tra i Romani agli studj della filosofia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni disciplina civile, li trasse a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col facile diletto dell'imitazione. Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle lettere e delle scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur v'è nelle imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgilio, e che sappiamo esservistato nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era la servitùdel pensiero ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi pubblicamente per avere usata la propria lingua nelle materie speculative. Opera altamente civile, altamente romana fu adun que quella che imprese il nostro filosofo, procacciando di volgere il linguaggio latino alla significazione dei veri scientifici. Nel che, tanto più egli si mostrò gran maestro, quanto minori e maggiormente imperfetti erano gli esempi di coloro che l'avean preceduto. Amafinio e Rabirio epicurei, rammentati da lui nel libro terzo delle Tuscolane e ch'egli dice non averlettoneppure,scris sero primi di cose filosofiche in modo informe ed incolto. Più tardi Tito LUCREZIO Caro esponeva splendidamente nelpoema De rerum natura la filosofia d'Epicuro; ma tutti questi scrittori, dei quali il secondo non era uscito dalle pastoje della poesia didascalica, non aveano potuto al certo esercitare un'alta efficacia sul linguaggio filo sofico di Roma,ristretti com'erano nelle cerchia d'un sistema povero e meschinamente sofistico.Noi dunque con corriamo ben volentieri nella sentenza del Ritter, assicu rando che soltanto ai tempi di Cicerone la filosofia volse in proprio uso l'idioma latino; la qual cosa,per quanto è lecito pensarne ai moderni, può unicamente affermarsi dei libri di lui dove la lingua filosofica è già formata, e dove la parola si porge per modo mirabile ad ogni m o venza e inflessione del pensiero. L'impresa che Cicerone tentava, era dunque novissima, e l'istrumento ch'egli ha fra mano, il meno acconcio a compirla. Perchè non si trattava già d'esporre le dottrine d'un solo filosofo, come avean fatto Amafinio, Rabirio e Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e addestrare il linguaggio latino nell'intero ámbito della scienza.Talvolta, è vero, gli mancò la parola più appropriata al concetto, e ristretto entro i termini d'una lingua non disciplinata ancora nelle indagini troppo sottili, procedè incerto sulla significazione di qualche frase scientifica appresa dai Greci; m a nella maggior parte dei suoi scritti egli ebbe in grado supremo la facoltà di lumeggiare e colorire l'idea, e di far sì che il pensiero rispondesse nella p a rola, come figura bella in limpido specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e da fanciulli voler dire con favella ornata le cose sottili, plane autem it perspicue posse, docti et intelligentis viri -- De fin. -- seguì uno stile che fosse egualmente lontano dalla forma splendida degli oratori, e dalla aridità faticosa di parec chj contemporanei. Quinci egli trasse quel genere d'ora zione che negli Officj chiamò æquabile et temperatum. L'ingegno universale e comprensivo di CICERONE (si veda) apparisce in ogni parte delle sue dottrine. Venuto in Roma, dove fanno capo le faccende d'Italia e del mondo, tollerante per natura delle altrui opinioni, e disposto a tolleranza maggiore dallo studio. Intorno allo stile filosofico di CICERONE (si veda) scrive con molta dottrina FERRUCCI (si veda), in un suo discorso “De singolari meriti di CICERONE (si veda) nella lingua ed eloquenza latina, edito in Pisa coi tipi del Nistri. La severità della meditazione filosofica è in lui sempre solenne, ma variamente temperata dall'indole del soggetto. E sobrio l'uso delle metafore. Il periodo procede ora maestoso, ora interrotto, ora veloce, ora lento, a sconda della materia, e talvolta, come negli Accademici, imita il linguaggio familiare, talaltra, come nelle Tuscolane, sembra avvicinarsi piuttosto alla forma oratoria. Chi poi considerasse a parte a parte la varietà degli stili nelle opere differenti, osserverebbe potersi queste distin guere in più classi, modernamente in più manière, corrispondenti ai varj tempi in cui l'autore le scrive. Il “De republica” e il “De legibus”, appartenenti al primo tempo, in cui egli era ancora indefessamente occupato nei negozj pubblici e del foro, hanno più del carattere oratorio. “Gli Accademici”, il “De finibus”, il “De natura deorum”, scritti poco prima la morte di Cesare, palesano uno studio deliberato, continuo della severa forma speculativa; laddove nel “De officiis”, nel “Cato Major” e nel “De amicitial” t’av vedi come l'abito della meditazione e la lettura degli ottimi esemplari o avessero condotto al miglior temperamento dello stile didattico colla forma oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate, e innamorato dello splendore di Platone, ch'egli chiama il divino dei filosofi, lo segue non soltanto nella forma estrinseca de' suoi trattati, e nel metodo del dialogizzare, ma improntò sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle Leggi i tratti più belli delle opere sue, rimasti fino a noi come uno dei monumenti più solenni delle lettere antiche imparziale che fa delle dottrine contemporanee, con trasse per tempo quell'abito universale d'osservazione, e quel sentimento delle armonie scientifiche, così vivo in ogni tempo nelle menti romane, in lui straordinario. Cresciuto intempi funesti alla libertà, e testimone di quanti esilj e di quanto sangue contaminasse l'Italia la rabbia scellerata di Mario e di Silla, egli in mezzo allo strepito delle armi e all'imperversare delle civili discordie applica dì e notte con ardore inestimabile ad ogni generazione di studj. Più tardi per restaurare la salute, inde bolita dalla pratica del fôro, si reca in Grecia, dove udì le scuole migliori, peragra tutta l'Asia, si trattenne a Rodi, e torna in patria ammaestrato da una larga notizia d’uomini e di cose,e dalla famigliarità coi più pre stanti oratori. La sua eloquenza, nutrita negli spazj dell'Accademia, ebbe ampiezza misurata e solenne, tanto diversa dalla nervosa concisione di Demostene, e quale s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi pensieri. Nella ragione intima dell'arte sua cirimane occulta, qualora si consideri nel “De oratore”, nel “Bruto” e nell'”Orator” il significato vastissimo ch'egli riferisce alla parola elo quenza. Quindi il largo concetto dell'unità del sapere, espresso in varj luoghi del “De oratore”, e meglio in quella sentenza: « omnem doctrinam ingenuarum et humana rum artium uno quodam societatis vinculo contineri,» ci fa manifesto com'egli intendeva l'officio dello scrittore,e come nella sua vita di cittadino, d'oratore e di filosofo si mostrasse uno degli uomini più universali che mai siano apparsi nel mondo. Come uomo di stato, egli vagheggiò la carità universale del genere umano, e ne scrisse mirabili parole negli “Offici” e nelle “Leggi.” Patrocinando la causa di una donna Aretina, giustifica le pretensioni delle città italiane alla cittadinanza romana. Nel suo consolato sven tando la congiura di Catilina, salvava da pericolo certo e imminente la libertà di Roma,e tentava comporre l'or dine senatorio e l’equestre in un saldo partito contro il prevalere della fazione plebea.Come avvocato e come oratore politico (così scrive di lui Vannucci),«creò un nuovo genere d'eloquenza composto di tutto ciò che v'era di più bello a Roma. Per giungere a questo con l'amore e con l'entusiasmo,che è padre di tutte le egregie cose, coltivò gli studj trascurati da altri, e con siderando che il poeta e l'oratore dal lato degli orna menti hanno, com'egli scrisse, molte cose comuni, con esercizj poetici ingentili e perfezionò lo stile latino. Ricerca i modelli più famosi dell'eloquenza romana, svolge i Greci, ne traduce per suo uso le orazioni più belle.Sti mava che per esser grande oratore si vuol sapere ogni cosa,e avere tutte le dottrine come compagne e ministre. Quindi afforzò la sua ragione colle dottrine dei grandi filosofi, si arricchì della scienza del diritto, non lasciò niuno studio da banda; e così apparecchiato rappresentò nel fôro la grandezza romana ingentilita dall'arte greca, e apparve come splendido esempio dell'oratore perfetto, di cui mandò a noi il ritratto ne'suoi scritti didattici, Studi storici e morali sulla filosofia latina, Firenze, Monnier. Non è dunque maraviglia se, dis posto per abito di mente e per disciplina a sentire l’uni versalità in ogni cosa, espose più tardi ne'suoi scritti speculativi ilmeglio delle scuole greche, e tornando ai fondamenti e ai principj di tutto il sapere, vi cercò quel legame unitivo che desse vita e armonia alle sparse membra della tradizione scientifica. Se in lui dopo l'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo, dovrete riconoscere negli scritti speculativi profondamente scolpite le tracce del sentimento e dell'animo suo. In essi,quanto alla manifestazione degli affetti, ritrovi quella sua schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti di gloria, di famiglia e di patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro finchè visse ad ogni anima gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta lo rese in feriore all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po' troppo sincero lo sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello stile maestoso non senza, pompa. L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e studio con amore,quale un perfetto monumento di sapienza civile,non gli tolse però di vederne e di biasimarne i difetti, come l'eccessivo potere del popolo che spesso trascorreva in licenza, l'abuso dell'autorità ne'patrizj, le guerre volte a istrumento di grandezza privata,la prolungazione degli imperj, idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi agrarie e sui contratti, la cui promulgazione sciogliendo i diritti di proprietà e l'osservanza della fede, era un vero attentato alle basi della società civile. Dalla critica meno benigna si allegano alcuni passi dei suoi scritti politici in cui parve dimenticare i principj della giustizia e della moralità lodando il tirannicidio, tentando giustificare col titolo della civiltà il primato oppressivo dei Romani sulle altre nazioni, ammettendo come teorica di condotta civile il cangiar partito a seconda delle circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo per debito imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi tempi per giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo XIX da una delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose conquiste; e che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto, l'ha in parte giustificato nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa sia debitrice alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale e politica, già di troppo benigni nelle opere del Middleton, e del Niebuhr,troppo severi in quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen, furono non ha guari saviamente temperati in un bel saggio di Forsyth, venuto alla  luce in Londra, e di cui abbiam veduta quest'anno una nuova edizione. Tullio, così osserva sapientemente il biografo inglese, fu qualche volta debole, timido, irreso luto,m a a tali difetti rispose in altre condizioni di tempi con una nobile condotta civile. Ei si diportò da uomo e da cittadino nella congiura di Catilina, e nel finale c o m battimento contro il triunviro Antonio. Chè se non sem pre fu pari agli avvenimenti che lo incalzavano, se non sostenne coraggiosamente l'esilio, e restituito in patria, ondeggiò a lungo tra la parte di Cesare e quella di Pompeo, bisogna considerare quanto difficili tempi fossero quelli a chi, come lui, non avea mai patteggiato colla coscienza, e riconosceva nella religione del giuramento, e nella santità dei costumi civili il principio tutelare delle libere istituzioni. Questo alto sentimento del buono,po tentissimo nel nostro oratore, è la ragione che diede sublimità vera alle sue dottrine morali; e ci spiega come nei libri degli Officj, della Repubblica e delle Leggi egli desunse i principj fondamentali della filosofia civile dal concetto più puro dell'onesto e della legge; e vissuto in tempi nefandi intese a conciliare l'interesse dell'utile pubblico colla giustizia assoluta, nell'idea della famiglia, nell'idea dello stato, nel possesso, nella legislazione e nei diritti di guerra e di pace. Tale pure è l'opinione esposta dal signor Gaston Boissier ne'suoi dotti articoli sulla politica di Cicerone, stampati nella Rivista de'due mondi. Corre adesso in Europa un tempo assai propizio alla critica degli scrittori latini.Invero gli studj che accompa gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle lettere anti che, mossi da curiosità e da desiderio di un passato a cui la notte tempestosa dei tempi di mezzo sembrava aver cresciuto splendore, non mantennero sempre una giusta eguaglianza fra il libero esame e l'ossequio dovuto alle tradizioni. Ma tal difetto venne largamente emendato in età più vicina, allorchè da molti si esaminò solo per negare,e le passioni politiche e religiose fecero impaccio più volte alla schietta manifestazione del vero. Oggi la quiete dei tempi,e questo nuovo ricomporsi d'Europa a monarchie nazionali,avvicinando i popoli tra loro e ren dendo sempre più facile il sindacato delle opinioni, per suade le menti a giudizj più severi e imparziali. Ne mancano esempj di queste nuove condizioni della critica odierna, segnatamente per ciò che risguarda gli studj del l'antichità latina; non ignorano infatti i nostri lettori che, mentre in Germania Bernhardy e Mommsen giudicarono con molta severità CICERONE (si veda), in Francia e in Inghilterra hanno parlato con bella temperanza delle sue   dottrine morali e della sua vita politica Desjardins e Forsyth. Fra noi, gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitano un ufficio civile, e all'unità e all'indipendenza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili studj; e la critica istorica e filosofica fa prova di richiamare nella memoria riconoscente degl’italiani la storia di quel popolo da cui venne Desjardins e Forsyth. Fra noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipendenza da opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili studj; e la critica istorica e filosofica fa prova di richiamare nella memoria riconoscente degli Italiani la storia di quel popolo da cui venne la prima luce delle nostre istituzioni. Allora soltanto le dottrine di CICERONE (si veda) sono meglio studiate e apprezzate, e la natura comprensiva dell'ingegno romano, di cui egli è esempio solenne, ci appare come una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglie la coscienza dei popoli antichi. Giacomo Barzellotti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzellotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Basilide: il portico a Roma: il tutore del principe – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Member of the Porch. A teacher of Antonino. Basilide.

 

Luigi Speranza -- Grice e Basilio: il circolo di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studied philosophy alongside the future emperor Giuliano. Basilio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Basso: gl’ortelani -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Seneca, a follower of the philosophy of The Garden, who bore witness to his school’s teachings in the way he copes with prolonged ill health. Lucio Aufidio Basso. Basso.

 

Luigi Speranza -- Grice e Basso: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Porch. Tito Avianio Basso Polieno. Basso.

 

Luigi Speranza -- Grice e Batace – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nizza). Filosofo italiano. A pupil of Carneade.

 

Luigi Speranza -- Grice e Battaglia: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei valori italiani – scuola di Reggio Calabria – filosofia calabrese. filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Palmi). Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Palmi, Reggio Calabria, Calabria. Grice: “You gotta like Battaglia; he plays with the Italian language in ways I cannot play in the English language; e. g. consider his philosophising ‘between being and value,’ ‘tra l’essere e il valore.’ Surely the thing is the copula: A is B, A is worth B.’  -- “A e B,” “A vale.” “A vale B.” – “We cannot say that a dollar is worth a dollar --. Stricctly, we CAN, it’s true – but the implicaturum is ‘I’m an idiot or a philosopher.” Grice: “And I can say, “Socrate e,’ i. e. Socrates is. And ‘Socrates vale,’ i.e. Socrates has value.’”  Grice: “When I did my linguistic botanising on ‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never contrast with Anglo-Saxon, but actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and cognate with Battaglia, ‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò la Calabria, trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo percorso di studi.  Si laurea con una tesi su Marsilio da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un contratto d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse la cattedra nella medesima disciplina.  Si sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo bolognese insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto nella Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna. Il Comune di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome la Biblioteca del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi in diverse branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla storia del pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in chiave pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia quale concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e diffidente approdo allo spiritualismo.  Con i sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica della politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non fosse pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale".  Altre opere:“Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto” (La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti: testi, lavori preparatorii, progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore nella storia” (Upeb, Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo” (Zuffi, Bologna); “Saggi sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni storici intorno al concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro” (Zuffi, Bologna); “Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré, Milano); “Morale e storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna); “Nuovi scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la metafisica e la storia” (Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina morale” (Patron, Bologna); “I valori della pratica e l'esperienza storica” (Patron, Bologna); “Il valore estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi intorno alla sociologia” (ISturzo, Roma); “ Parva Desanctisiana” (Patron, Bologna); “Economia, diritto, morale” (Coop. libraria universitaria editoriale bolognese, Bologna); “Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo” (Longo, Ravenna); “Rosmini tra l'essere e i valori, Guida, Napoli); “Mondo storico ed escatologia” (Clueb, Bologna); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla carta del lavoro” (Sansoni, Firenze); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla Carta di San Francisco” (Sansoni, Firenze); “Meis, I problemi dello stato moderno” (Zanichelli, Bologna); “Sanctis, Lettere a Villari” (Einaudi, Torino); “Lettere di Meis a Spaventa” (Azzoguidi, Bologna); “Il pensiero pedagogico del Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Locke, Antologia degli scritti politici” (Il Mulino, Bologna). Il pensiero di Felice Battaglia, Atti del Seminario promosso dal Dipartimento di Filosofia di Bologna, Matteucci e Pasquinelli, Bologna, CLUEB, A cent'anni dalla nascita, Bologna, Baiesi,  Dal filosofo all'uomo, Atti del convegno di studi su B. (Palmi), Chiofalo, Palmi, Arti Grafiche, Ferrari, La filosofia italiana, in «Storia della Filosofia»,   (La filosofia contemporanea. Seconda metà del Novecento), t. I, M. Paganini, Vallardi, Milano, Marchello, B., Edizioni di Filosofia, Torino, Matteucci, Felice Battaglia, filosofo della pratica, in Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, Classe di Scienze Morali, Rendiconti, (ora rifuso in Id., Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna, Polato, B., Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scerbo, B.: la centralità del valore giuridico, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, Anzalone, Lo abstracto y lo concreto en la Teoría del Derecho de Battaglia. Felice Battaglia y el dilema entre Croce y Gentile, Atelier, Barcelona,  A. Anzalone, B.. Per una teoria giuridica tra idealismo crociano e gentiliano, Euno edizioni, Leonforte. Anzalone, Las aparentes contradicciones de la filosofía jurídica y política de B., in «Studi in onore di Sinagra»,  Miscellanea, Aracne, Roma,,  A. Anzalone, El Estado, sus fines y su relación con el derecho. La perspectiva de Felice Battaglia, in “Lex Social (Revista jurídica de los Derechos Sociales)”, Anzalone, La integración europea como modelo para Latinoamérica según Felice Battaglia, in «Temas de Filosofía Jurídica y Política», SFD, Córdoba, Cotroneo, B. e la "filosofia dei valori", in Benedetto Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino, Onorificenze Dottore honoris causanastrino per uniforme ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São Paulo. Ufficiale dell'Ordine di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine di Leopoldo II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile) nastrino per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile) Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiaanastrino per uniforme ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana — Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana. Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di storia del pensiero politico in Italia, Il pensiero politico, Università degli Studi di Bologna, fondata nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici  Bologna, Tipografia Compositori, Dettaglio decorato, Presidenza della Repubblica. Sito web del Quirinale: dettaglio decorato. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  ULTURA MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e Politica cura di Battaglia L'opera di Vincenzo Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD et FIGLIO - Editori - FIRENZE Rappresentanti per il Piemonte: S. LATTES et C. Torino. R. BEMPORAD et Firenze, Stab. Pisa et Lampronti. La tradizione italica. Il Settecento e la sua importanza. L’Italia ritrova sè stessa nella sua storia. Il processo unitario. L'erudizione: Muratori. La filosofia: Vico. Antitesi al cartesianismo. Esperienza filologica. Italianismo di Vico. De antiquissima italorum sapientia. Vico impersona la nuova tradizione. A lui si ricollega  Cuoco. La fortuna di Vico nell'alta Italia e le origini del nuovo pensiero. Cuoco e i suoi studiosi. La rivoluzione napoletana. La cultura rivoluzionaria e prerivoluzionaria. Razionalismo, astrattismo. La classe colta di Napoli. Riformismo governativo. Rottura tra stato e borghesia. Carattere passivo della rivoluzione. Le origini sacre della nuova Italia. Gli storici della letteratura e della vita del popolo italiano, che vogliano trattare del risorgimento nostro con piena e sicura conoscenza di cause e di effetti, devono necessariamente rifarsi a secoli passati. Sono le scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di idee che di fatti, poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed acquistano nobiltà solo nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile movimento che conduce all'unificazione e all'indipendenza italiana. Mirabile la continuità della vita di questo popolo antico d'Italia. I secoli, che ad una critica occhialuta sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi sa investigarli con amore e con coscienza, gravi di preparazione, ponderosi d'esperienza. È tutta una vita che si prepara, si svolge, sente il bisogno di concretizzarsi, finchè scoppierà in foga d'eroismo e di volontà. È una preparazione lenta diuturna faticosa, la quale fa emergere figure grandi di FILOSOFI e di poeti, di giuristi e di uomini di governo o di chiesa. La critica ha il dovere di rivendicare questi secoli e di valutarli al paragone di concetti superiori di filosofia. È ridicolo condannare alcune età nel corso d'un popolo, alcuni secoli in blocco per altri secoli, chiamare questa età di decadenza, quella età di fioritura. I periodi storici, le ere, i secoli sono quello che sono con le loro istituzioni, col loro pensiero, con la loro arte, con i loro uomini, soprattutto coi loro uomini. È ridicolo condannare il passato come si usava sino a venti anni fa, critico spietato, Minosse che giudica e manda senza appello, il nostro maggiore poeta, CARDUCCI (si veda). La storia ha invece diritto alla nostra ammirazione come i secoli, in cui i destini della patria si sono venuti maturando, attraverso un rinnovato fervore di pensiero, di critica, di storiografia, preludio modesto mafaticoso di opere civili, attraverso un rifoggiarsi, insomma, della coscienza nazionale, che da universalmente umana tende a divenire più veramente, se pure più ristrettivamente, italica. È forse, se l'affer mazione non trovasse nella sua rigidità una smentita nell'oceanica figura di VICO (si veda), un chiudersi in noi stessi, un rinnegare gli ideali cosmopolitici, per ritrovare il particolare più veramente nostro, l'essenza della stirpe. La storia è l'esperienza dello spirito, che gradualmente viene formandosi. Il popolo della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle grandi competizioni politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è spostato. Non più solo Roma, ma Bologna, Milano, Parigi, Vienna. Mentre le altre genti si gettano tumultuose nel fervore della conquista, nella lotta per il predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio della propria coscienza, nel culto della propria essenza. Perchè? Per essere più italiani, per essere noi stessi, per riacquistare a noi tutto noi stessi, per sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra assente, per riacquistare vita nuova proprio con la critica razionalista pre-rivoluzionaria, e poi con gl’immortali princípi, è invece viva e desta, sempre, in ogni tempo, per ritrovarsi, essa stessa, di fronte all'irrompere delle giovani schiere galliche con un patrimonio nobilissimo di schietta FILOSOFIA ITALA, di sapienza civile antica, di esperienza politica. Il filosofo deve valutare tutto. La storia della cultura, ben altra cosa, notiamo, dalla storia dell'arte, particolaristica, d'un subiettivismo che rinnega ogni sviluppo che non sia nello spirito individuale e creatore, ha una sua mirabile continuità, una sua ininterrotta evoluzione. L'oggi sorge dal passato, nel passato si prepara il pre sente, il presente è la fucina in cui si foggia il futuro. La storia deve valutare tutto e trovare i nessi ideali tra gli avvenimenti, se vuol essere storia, cioè studio critico e superiore delle idee, che muovono gli uomini gli uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e non cronaca astratta di ciò che gli uomini fanno e potevano anche non fare. Lo storico deve dunque, se vuol rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento, salire assai più indietro che di solito non si faccia ed osservare più le idee che i fatti, poi che i fatti a volte sono puri e semplici fenomeni senza conseguenze, che si spengono come stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo, mentre le idee vivono, germinano nell'oscurità, generano altre idee, seguendo la trama fatale del corso delle stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello spirito, ove si foggiano gli eventi, rivelano il segreto della génesi de' popoli, il loro assurgere all'im 8 pero, le cause della grandezza politica. Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui vita, vita storica cioè dinamica, lo studioso deve analizzare nella sua complessa formazione e non rinnegare per i preconcetti del proprio cervello. La rinascita dell'elemento italiano, particolaristico e nazionalista, è un fatto estrinsecamente assai prossimo a noi, intimamente preparato da lunga meditazione, da lunga speculazione, da lunghe ricerche. Una storia vera della cultura, specie della cultura politica, non può non ricollegarsi, anzi, per ri trovarvi le origini vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova coscienza, questa nuova italianità? Nell'angolo della penisola, che per il momento, guardando in modo sommario la distesa temporale della storia, è il più li bero dall'influsso culturale straniero. Non Venezia, non Milano, non Torino, non Firenze.... Napoli. Venezia è decaduta non già, come la retorica vuole, per la corruzione d'una nobiltà festaiola e carnevalesca, ma per un fatto storico ed economico incontrovertibile, perchè la vita commerciale d'Europa ha disertato le antiche vie dell’oriente, per spaziare negli oceani, ove le navi venete non possono andare, troppo lontane dall'infelice scalo della città di San Marco (1 ). Torino è più francese che italiana, più sabauda che nazionale. Firenze è il centro d’uno Stato troppo piccolo, per imporre un'idea politica alle città vicine, ed è estenuata per il rigoglio anteriore. Milano sola può essere il centro delle nuove fortune nostre, e vedremo poi come essa col di sastro della Partenopea riprenda tutto il tesoro ideale del popolo italiano per rendersene degna depositaria. Ma Milano oggi è troppo aperta all'influenza straniera, risente troppo gli effetti d'una vita non propriamente italiana, è troppo cosmopolita, troppo mondana. Bisogna che il rinnovamento si inizi altrove. Milano poi com pirà l'unità spirituale dell'italianismo, sui primi anni Rosi, L'Italia Odierna, Torino,  dell'Ottocento, fondendo i due elementi propri della no stra natura: il suo positivismo, più o meno razionalistico secondo i tempi, con l'idealismo.concretamente storico e critico del mezzogiorno, per foggiare quel carattere mentale del rinato popolo italiano, che rifugge così dalla metafisica nubilosa di certe filosofie straniere come dal materialismo volgare, ritrovando la sua sana vita in tima nel ponderato storicismo d'una filosofia dello spirito. Napoli, posta dalla natura nel più incantevole luogo della penisola, arrisa dal cielo e dal mare, beatificata dal sole, Napoli mite e pensierosa impersona la nuova vita nazionale; essa, chiusa nella sua remotezza dalle grandi vie commerciali dell'alta Italia tra Francia ed Austria, sola può custodire il patrimonio culturale della nazione. L'Italia era senza dubbio indietro di fronte alle grandi speculazioni, di fronte alla grande cultura straniera. Car tesio, Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re centi per la gloria della filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri, pietre miliari nello sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da contrapporre? Nulla, fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita liano era chiuso in sè stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera, che gli si voleva donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas sava da noi ed acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a Milano, in quelle città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo ovunque si imponeva e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido. L'Italia però non filosofava. Il Muratori nella sua solitu dine di Modena cercava, ricercava, spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva dagli archivi polverosi i resti della storia nostra, e il lavoro di paleografia e di trascrizione diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi, di critica. Il nuovo italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi storici. « Il serio movimento scientifico » scrive Sanctis « usciva di là dove si era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era come una ginnastica intellet tuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'in vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monu menti. Già non erano più semplici eruditi: erano critici » A Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a Roma il Crescimbeni, a Napoli il Gravina; altrove Fabretti, Bianchini, Maffei e con essi una vera pleiade di dotti « segnano già questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione e nella eru dizione si sviluppa la critica ». A Napoli e poi in un remoto paese del Cilento si for mava intanto il Vico. E a VICO bisogna rial lacciare tutto il complesso movimento filosofico politico meridionale, tutta la fortuna dell'italianismo, di cui lo scrittore del quale imprendiamo lo studio, Vincenzo Cuoco, è il rappresentante maggiore. La filosofia del Vico nasce da una parte in antitesi al cartesianismo aritme tico e razionalista, dall'altra sopra una perfetta consape volezza, sopra un vero fondamento di ricerca storica, nell’un caso e nell'altro come reazione al pensiero stra niero e ritorno alle fonti nostrane. Solo l'antitesi al cartesianismo, cioè alla filosofia im perante, avrebbe potuto portare Vico ad affermare l'im possibilità d'una scienza della natura, e in questa scienza era la gran cieca fede del razionalismo, e la sicurezza d'una scienza perfetta nel mondo umano, morale e sto rico. La conversione del vero col fatto (verum ipsum factum), impossibile nel mondo naturale agli uomini, di vien possibile nel mondo morale. Per conoscere una cosa occorre farla, o rifare il processo creativo: ciò è impossi bile nell'ordine naturale a tutti, fuor che a Dio, divien possibile nell'ordine umano, spirituale e storico, fatto dall'uomo, nel quale l'uomo opera come Iddio. Le scienze morali, la politica, la poesia perdono il mero carattere di probabilità e brillano di pura luce nello spi SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed.] rito. È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel fatto: a questo principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma domandiamoci: questo nuovo principio, che è il nucleo d'ogni futura filosofia dello spirito, quest ' in versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile come semplice reazione ad un cartesianismo, che a Vico era pervenuto, sia pure, come scrive il De Sanctis, in una forma antipatica e menomatrice dei suoi studi, ma certo non in maniera del tutto opprimente e scettica? Io credo di no o almeno credo che la rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza considerare un nuovo ele mento, le pure ricerche storiche, che portarono in fine il Vico a conclusioni inattese. Vico, scritto il De ratione studiorum, il De antiquis sima italorum sapientia, s ' ingolfò negli studi eruditi di storia antica, di diritto romano, negli studi di diritto naturale, di pura linguistica, di filologia. Dice bene quindi Croce che, se pure il grande napoletano non fu condotto alla filosofia, al nuovo orientamento della sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente filolo gico, certo lo stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi sopra detti, « attraverso i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne; e cioè che quella materia di studio Ecco quel che scrive SANCTIS, Storia, La materia della sua cultura è sempre quella: dritto ro mano, storia romana, antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica, conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino. L'uomo e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... ». Dentro a questa coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura non ha valore: del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva l'erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le idee divine di Platone? e il simplicis simum di Ficino cosa diveniva? e il dritto romano, la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica non era più buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppo le sue forze, ecc. ». 12 non poteva essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'aiuto di certi princípi necessarî, che gli si ripre sentavano in ogni parte della storia da lui presa a medi tare. Un tempo gli era sembrato che le scienze morali, ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con quelle scienze, gli veniva apparendo il con trario: niente di più sicuro del fondamento delle scienze morali. Verum ipsum factum: « ove avvenga che chi fa le cose, esso stesso le narri, ivi non può essere più certa l'istoria » Il nuovo pensiero italiano s'afferma schiettamente storicista: il carattere della tradizione se guente serba questo carattere: Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da una profonda negazione della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la storia, Tutta la filosofia dell'autore della Scienza nova nasce da questa scoperta, e questa scoperta nasce da un'affan nosa ricerca storica. La resistenza a Cartesio, a Malebran che, al razionalismo francese sarebbe rimasta resistenza, cioè in parte incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare Cartesio stesso in una nuova visione della realtà. Solo la gran vita della storia, l'eterno farsi de' po poli, gli imperi che sorgono si mutano si sviluppano muoiono, solo l'analisi delle istituzioni politiche, del di ritto, delle religioni, delle lingue, delle arti ne' loro par ticolari potevano dargli la superba certezza:... il pen siero si fa, il pensiero è in quanto diviene, in quanto ha una sua propria dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in quanto lo rifacciamo pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo in esse v'è perfetta scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da un termine all'altro, è idea che si fa, si realizza come (1 ) B. CROCE, La filosofia di Vico, Bari, Laterza, Vico, La scienza nuova giusta l'edizione, a cura di Nicolini, Bari, Laterza GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizione della Critica] natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò verum et factum, vero e fatto, sono convertibili; nel fatto vive il vero; il fatto è pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e, come ci è una logica per il moto delle idee, ci è anche una logica per il moto dei fatti, una storia ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni. Ora ritorniamo al nostro argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul Vico fino ad oggi si è detto e che coglie assai bene la génesi e il valore della spe culazione del grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova filosofia d'Italia, il nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza critica ed erudita. Il Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es lignuae latinae originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di ricerca etimologica, che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e nobiltà, se pure non accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica italica preromana, l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un linguaggio filosofico, che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il latino, in cui si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia autoctona nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole epigono. Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio informatore dell'opera: il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica, trova la sua spiegazione « nei principi della poesia, cessa d'avere la sua origine nella volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza, Ma intanto resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero italianismo pre latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso autore, che trova al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno, dal punto di vista culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità nella tra [SANCTIS, Storia; CROCE, La filosofia di Vico; SPAVENTA, Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, Napoli, Vitale] dizione, nella storia. La storia è fatta dall' uomo: la storia d'Italia dagli italiani: trovare lo sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di quella volontà, di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo nostro. Dai « rottami dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della penisola la cultura era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano francese, non potevano sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli invece la cultura è storica e filosofica e particolaristica mente italiana, sebbene pur comprensiva ed universale. Vico si sottrae al pensiero europeo, ritorna a Pita [Intendere il Vico e staccarlo in un certo senso dallo sfondo comune delsuo secolo è necessario per colui, che voglia studiare la storia, in cui senza dubbio sono le origini della nuova Italia e del nuovo pensiero. Ciò non ha saputo fare, per esempio, Gabriele Maugain, autore di un dotto Étude sur l'évolution intel. lectuelle de l'Italie environ (Paris, Hachette), in cui ritorna ed insiste l'antica tesi (carducciana tra l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello spirito nazionale durante un periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo questa visione parziale del fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura del secolo XIX? Dobbiamo crederla davvero, mancando una tradizione italica, una fioritura estrinseca, mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima e romantico -germa nica poi? O invece il periodo anzi detto è periodo di prepara zione metodica, e in esso sono i germi della nuova Italia? Questo viene al pensiero di chi legge il libro accennato, in conclusione assai dotto ed interessante. Questo venne al pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica recensì l'opera del Maugain (recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani, Messina, Principato), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si eccettui la figura titanica del Vico, questa storia è una storia di cui non abbiamo molto a com piacerci, nota come il Maugain la renda più malinconica di quanto non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta fiorisce Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la tradizione insomma a cui il succes sivo italianismo si ricollega, occorre pensare che dalla morte rinascerà la vita, e si preparerà l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si scuoterà tutta, e ri prenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita spiri tuale, e si aprirà un varco nella politica de grandi Stati, e ri. sorgerà come nazione ». Ora ciò sfugge all'autore del libro. 15] gora, a Platone, ai filosofi cristiani da un lato, dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una via del tutto nuova. La Scienza nova è, come scolpì Sanctis, « la Divina Commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire, tutta ancora in gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito nuovo. Essa non è intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si rende conto dei formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il seme, get tato in glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia rinasce e si rinnova, dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un universale umano l'Italia diviene na zionalistica nel culto d'un tradizionalismo più nostro, pur non dimenticando d'esaurire il mondo morale nella filosofia del Vico, proprio nel periodo che al Maugain sembra morte e stasi. Ben nota il Gentile a proposito (Studi vichiani ). Non bisogna dimenticare che quella stessa che diciamo morte, è una morte relativa; ed è anch'essa vita, perchè condizione e momento di quella che dicesi vita: e senza intendere l'una, non è possibile giungere all' intendimento dell'altra. Tutto sta a non cercare la vita nella morte: e non volere una cosa nell'altra. Lastasi del periodo studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma è pure progresso, se è la pre parazione del progresso ulteriore. Noi infatti non potremmo intendere l'Italia nuova, nutrita dalla cultura europea compene trata con la tradizione nostra, quale la troviamo p. e. nella poe sia del Foscolo e nell'Italia tutta del tramonto e degli albori del seguente, [ quale la troviamo, mi permetta l ' illustre Maestro la chiosa, nel nostro CUOCO (si veda)] se la innestassimo immediatamente all'Italia tutta italiana, crea trice in filosofia come in arte, maestra ancora all'Europa tutta, e vivente di una vita spirituale sua, del 500 e del primo 600. L'Italia è l'Italia che accoglie il riflusso della cultura europea, su cui ha esercitato ella prima l'azione sto rica rinnovatrice: e in questo lavoro di riassorbimento, che dev'essere ed è anche reazione (esempio solenne Vico), è la vita sua nuova rispetto al passato. Il senso di questa vita nuova, se non m'inganno, non c'è nel libro del Maugain.... ». Precisamente così: può darsi che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de' letterati vi ritrovi morte, ma chi trascorra le su date carte del Muratori e le induzioni geniali del Vico non può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi della nuova patria, la fonte onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo. SANCTIS, Storia] nale si ricollega tutto al Vico e col Vico medita i nuovi concetti e i nuovi concreti problemi della storia e della vita; col Vico si presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad incontrare il pensiero settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella realtà dello spirito, donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non più lombarda toscana napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti della cultura di Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione vichiana è in fine la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a Milano, intanto notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il genio di Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni giorno, fra amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra l'incomprensione di quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che la più presuntuosa saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu sempre dominante, nè sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima carte siano, poi illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria, infine, il Vico non ebbe neppure in vita (1 ): immaginiamo, dunque, se dopo la morte del grande au tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto l'oceanico spirito del suo figliolo. « Certamente a Napoli, nel secolo decimottavo, ci fu in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera vichiana; ma in che propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva determinare, perchè facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione adeguate. Lo stesso discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di Vincenzo Cuoco, solo può condurci al maestro, solo può servirci di guida per raggiungere i suoi voli, non fu immune da contaminazioni estrinseche: il vichismo in Mario Pagano è mescolato al nuovo sensismo francese (3 ). CROCE, La filosofia di Vico; Cfr. VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza Nella carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge - base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana per Pagano, Logoteta e Cestari, ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro, e perchè già fatta da N. RUGGIERI, e da M. ROMANO, op. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi per conto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per LOMONACO, con @enni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di AYALA ed infine il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana  per PAGANO, LOGOTETA E CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Lombardi; I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. RUGGIERI, li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, e in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui CUOCO (si veda) stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli da Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Russo?. Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana, ROMANO] crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco, non potevano appro vare la via senza uscita per la quale egli si era messo ». Su Russo vedi CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale, Laterza ed., Bari, che ci offre una buona analisi del pensiero del 39 sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio un po' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes E sioni legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la « Società universale. Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special l'insigne martire, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of frono FIORINI e LEMMI. Il periodo napoleonico, Milano, Vallardi, Il giudizio (Saggio) è il seguente. La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche migliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto CUOCO (si veda)! CROCE, La rivoluzione napoletana mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera, non vi troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto. Nella prefazione ai suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi fondare la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della generalità, La prima edizione dei Pensieri politici è di quando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici di Russo, napolitano, Roma, presso il cittadino Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano (Milano, Tip. Milanese in Strada nuova); e poi ancora a Napoli (ed. a cura del D'Ayala ) (ed. a cura di Peluso con pref. di Marinis). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napoletana, CROCE, La rivoluzione napoletana, civile. Aggiungiamo a ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della sua critica. Ma la causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio! Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio della Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare. Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne'suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più CUOCO (si veda), Saggio storico, Oltre i brani citati cfr. Saggio storico, illuministi che non i pensatori francesi, che s ' astrag gono dalla realtà e costruiscono sull'acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi il giovine Vincenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati.  Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico. Rosi; CROCE, La rivo luzione napoletana, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. HAZARD. Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s'avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor L.A.Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva, e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! », Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull'uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo il governo borbonico era disposto a concedere a CUOCO (si veda) il perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria scrive l'esule al fratello. —- Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega », Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito 45 senso che le costituzioni siano una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono in Cuoco, più concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla.  L'ottimo non è fatto per l'uomo. Costoro, ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare. Nessuno può « törre al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di una costituzione. CUOCO (si veda), se osserviamo bene la questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene Framm. trano e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere riguardo non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima, nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità e dell'ordine. È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi. Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi?.Un popolo ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta.... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è stato Framm. Ibarbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi. Nello sviluppo storico nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de' letterati e de ’ filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi. Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filosofo. Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi Framm. che non sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali. CUOCO (si veda) ci si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne. Ciò è possibile solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco perchè Cuoco ci dice che egli Framm. forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di Zito, mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma, in seguito invece l'intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio. Ed è proprio così ! Anche Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato, è certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne ' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre CROCE, La rivoluzione napoletana, Zito, Vita cd opere di Pagano, Potenza, Garramone, ROMANO. Il giudizio sull'opera di Pagano è eccessivo e non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso della tua veste. Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa. I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l'impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo di NICOLINI, edito dal Laterza di Bari, che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di lettere a Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm. seguita dal numero d’ordine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese, Framm.  sono sua coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Hugo e Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono publicati, in Germania l'Hugo che nello stesso anno formula in un suo libro quei princípi, che poi il Savigny, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codificazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua propria nella vita d'ogni giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele dello Schelling ), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente accennato all'ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. CUOCO (si veda)  più concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sè. Ciò non nel Framm. civile. Aggiungiamo a ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della sua critica. Ma la causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio! Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio della. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare. Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne' suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più Cuoco, Saggio storico, Oltre i brani citati cfr. Saggio storico] illuministi che non i pensatori francesi, che s ’ astrag gono dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico. Rosi, CROCE, La rivo luzione napoletana, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della [Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana] getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello [Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva,e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu, lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! ». Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri. vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull’uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria — scrive l’esule al fratello. - Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l ' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega ». Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito 37 potè volgersi alla compilazione d’una legge- base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro,e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi perconto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1 ) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con cenni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per PAGANO, LOGOTETA e CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2 ) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzio Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato conle sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. Il ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non potevano appro. vare la via senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del, 39 sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po ' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la « Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special l ' insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of. frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815, Milano, Vallardi, s. d., p. 167 e sgg. (1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e t'avrebbe resa anchemigliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ), non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798, allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in Strada nuova, n. 561); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D’Ayala) e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis ). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1 ). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2), « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma, in seguito invece l ' intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3). Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (1 ), è certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 87. (2 ) G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano, Potenza, Tip. Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4) ROMANO, op. cit., p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui cui avésse fatta corta una scarpa » (2 ). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l ' impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal Laterza di Bari,che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm. seguita dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese. Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219, 43 1 sono sua coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi 44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele dello Schelling), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (1 ). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218. 45 senso che le costituzioni siano una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « tôrre al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm. I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima, nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2). Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi? Un popolo ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de' costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de ' filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi. Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo » (2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I, p. 220 e sg. Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali (1 ). Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3 ). Ciò è possibile solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico generalizzato. Le costituzioni post - rivoluzionarie debbono ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221.  Framm. II, p. 233. (3 ) Framm. II, p. 233. 49 vuol ritornare all'antico, e all'antico ricollegare il pre sente, perchè il popolo ama le antiche istituzioni, che in passato gli han pure dato felicità; ecco perchè il Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove le istituzioni antiche non rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra dizionalista all'eccesso, laddove la mania novatrice cerca distruggere istituti e norme consacrate da secoli. Questi i convincimenti del critico. Ma che cosa in vece era avvenuto a Napoli, qual'era, com'era la costi tuzione che Mario Pagano aveva elaborato? Ogni po polo ha una individualità ineffabile. Il popolo napole tano, quindi, ha pur esso una sua natura specifica, che risulta da un complesso di cose. Parliamo perciò, dice il Cuoco all'amico Russo, « della costituzione da darsi agli oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai leggieri leccesi, ai spurei sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma nove milioni novecento novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi di quella razza umana che tu vuoi tra poco rigenerare » (1 ). Cioè discendiamo ai fatti, al concreto, vediamo se il progetto costituzionale del Pagano risponde alla natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente: « Per questa razza di uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore. Esso è migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina; ma al pari di queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano è costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava: l'architetto è grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » (2 ). Il Pagano, nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è; ha creduto negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi; ha fatto quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino; « e quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle (1 ) Framm. I, (2) Framm.] cose e della loro importanza » E nel dispiacere del fallimento, che al nostro appare evidente, c'è una punta d'ironia, che al lettore è facile avvertire pur nell'amiche volezza dell'espressione: « Oh ! perdona. Non mi ricor dava » dice il Cuoco al Russo « di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede possi bile in un essere finito, quale è l'uomo, una perfettibilità infinita. Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi errori: travaglia a renderci angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di Saint- Just. Per ora contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci possa rendere meno infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a creder mio, dovranno ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo disegno » (2 ). Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro Pagano, è un illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che il Cuoco rimprovera al suo Pagano, non è solo del Pagano, è di tutto un sistema, che il nostro vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la rivoluzione nacque spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per cui il moto repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli stessi errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi troppo astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se non per mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è più uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » (3 ). Di ciò il molisano dà un esempio concreto. In Francia si volle stabilire come norma costituzionale il diritto all'insur rezione. Ma senza quelle circostanze, che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese dell'antichità, ove simile norma era stata applicata, essa non poteva pro durre che sedizioni e turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo attaccato, in barba ad ogni princi F (1 ) Framm. III, p. 241. Framm. I, p. 220. (3 ) Framm. III, p. 247. 51 pio legale. « Per buona sorte della Francia » commenta iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con Robe spierre » (1 ). Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile, viva, parlante. Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si avvede delle infrazioni della Gran carta. In vece di questa, immagina per poco che gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: essi allora non avreb bero avuto la bussola che loro ha servito di guida in tutte le loro rivoluzioni. I romani eccedettero nella smania di voler particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo, anche gli ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lon tani dai sensi. Se la molteplicità dei dettagli forma un bosco troppo folto nel quale si smarrisce il sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime altissime, dei monti, donde più non si riconoscono gli oggetti sottoposti » (2 ). Questi sono gli errori dei francesi. L'esasperazione dei princípi dovea portare necessariamente agli errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha della costituzione francese del 1795. Una « costituzione è buona per tutti gli uo mini? Ebbene: ciò vuol dire che non è buona per nes suno.... » (3 ). Il Pagano, ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro autore nel suo excursus e nella sua critica minuta del progetto; ma per intendere come egli colpisca nel segno, e come i Frammenti siano una meditazione veramente profonda, una critica sincera e non sistematica, rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo provvisorio, che precede la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e che è certo opera di Mario Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica libertà, e (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, (3) Framm. I, p. 219. p. 247. 52 che slanciando lo sguardo nella incertezza de ' secoli av venire, guardi a soffocare i germi della corruzione e del dispotismo, è l'opera la più difficile, a cui possa aspirare l’arditezza dell'umano ingegno. I filosofi dell'antichità, che tanto elevarono l'umana ragione, ne presentarono i principii soltanto, e le antiche repubbliche le più celebri e sagge ne supplirono in più cose la mancanza con la · purità de' costumi, e colla energia dell'anime, che ispirò loro una sublime educazione. Gran passi avea già dati l'America in questa, diremo, nuova scienza, formando le costituzioni de' suoi liberi Stati. Novellamente la Fran cia, che ha contestato straordinario amore di libertà con prodigi di valore, ha data fuori altresì una delle migliori costituzioni che siansi prodotte finora ». Fin dalle prime battute si sente l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che ha bisogno di rifarsi ai prece denti generici (1 ). Il Comitato di legislazione « ha.... adottata la costitu zione della madre repubblica francese. Egli è ben giusto, che da quella mano istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse eziandio la legge, custode e conservatrice di quella. Ma riflettendo che la diversità del carattere mo rale, le politiche circostanze, e ben anche la fisica situa zione delle nazioni richiedono necessariamente de' cam giamenti nelle costituzioni, propone alcune modificazioni, che ha fatte in quella della repubblica madre, e vi rende conto altresì delle ragioni che a ciò l'hanno determinato ». La derivazione è confessata, e con essa l'astrattismo. Senonchè il Pagano afferma una esigenza, che in lui na poletano e vichiano, deve essere sincera, ma che resta poi in pratica insoddisfatta: tenere conto dei bisogni pe (1 ) L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in Nuova Antologia, a. XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p. 441. Il Palma ci offre una buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto alle altre costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica di essa, critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla costituzione del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., Milano, Vallardi, s. d., p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si provvede; e nel resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè un mero teorico. Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co stituzioni, è la dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un diritto, ma la base di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. « L'uguaglianza è un rapporto, e i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di oprare, che la legge di natura, cioè l ' invariabile ragione e cono scenza de ' naturali rapporti, ovvero la positiva legge sociale, accorda a ciascuno ». Sembra di leggere un trat tato di filosofia giuridica e non un rapporto di un comi tato legislativo, che presenta un progetto di legge. « Da tal rapporto d'uguaglianza di natura, che avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e l'uguaglianza de' dritti: es sendo gli uomini simili, e però uguali tra loro, hanno le medesime facoltà fisiche e morali: e l'uno ha tanta ragione di valersi delle sue naturali forze, quanto l'altro suo simile. Donde segue, che le naturali facoltà indefi nite per natura, debbano essere prefinite per ragione, dovendosi ciascuno di quelle valere per modo, che gli altri possano benanche adoprar le loro. E da ciò segue eziandio, che i dritti sono uguali; poichè negli esseri uguali, uguali debbono essere le facoltà di oprare. Ecco adunque come dalla somiglianza ed eguaglianza della na tura scaturiscano i dritti tutti dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti ». Io qui non istò a riferire come Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto della propria conservazione » derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all'oppressione », modificazioni tutte del primitivo innato diritto, che l'uomo ha di na tura, il conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa con una logica impeccabile filosofica e giuridica, e noi non sap piamo che ammirare la grandezza di uno spirito geniale e deplorare la sua morte immatura e tragica. Le defini zioni paganiane sono stupende di sintesi. Ecco la li bertà ! « La libertà è la facoltà dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace, colla !! 54 sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso ». Tutto s ' impernia su un principio - postulato e scaturisce di lì. Dal primo fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà, poi che « la proprietà reale è una emanazione e continuazione della personale ». Gli stessi diritti ci dànno i doveri; i diritti e i doveri dei cittadini, i diritti e i doveri dei magistrati e dei pubblici funzionari, e così di seguito. Nè mancano sani princípi costituzionali, che occorre an che oggi meditare. V'è un vigile e vichiano senso della dinamicità delle costituzioni, che, sebbene carte sacre di un popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo dificabili, poi che la vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno origini a riforme naturali nel loro stesso seno. « La società vien formata dalla unione delle volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la vicende vole garanzia de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica autorità, e l'unione de' consigli forma la pubblica ragione, la quale, avvalorata dalla pubblica autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile dritto del popolo di mutar l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più conforme agli attuali suoi interessi, ma demo cratica sempre; quindi il dritto di ogni cittadino di es sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con tribuire alla difesa della Patria; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici funzionarii, che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per do vere sono vittime consacrate al pubblico bene ». E dire che ancor oggi questo principio della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra manifestazione dello spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita liano è temuta come un terribile evento sovvertitore, mentre le leggi fondamentali sono una vuota forma senza contenuto materiale, vuota forma premuta da esigenze nuove, e, purtroppo, dal più sfacciato illegalismo dei partiti ! Ma, se dal Rapporto passiamo al Progetto costituzio nale, quanto astrattismo ! Quanta artificiosità ne' sin goli istituti, in quell'eforato, che ricorda Sparta, ma che 55 non è che il direttorio o potere esecutivo francese; in quella distinzione tra assemblee primarie ed assemblee elettorali espresse dal seno delle prime; in quell'istituto censorio, che arieggia la censura di Roma, ma che in uno Stato moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il Progetto di costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi appare pienamente giusti ficata e altamente vera. Essa non si limita ad appunti d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi, l'abbozzo d'una nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di Machiavelli da un lato, di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza cadere nel l'empirismo. La sovranità del popolo si manifesta in due maniere: la legislazione e l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a base democratica, il popolo stesso era legi slatore: negli Stati moderni, che trascendono la greca Tól.is, la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di territorio, il popolo sovrano può legiferare solo per mezzo della rappresentanza. La costituzione del Pagano adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa, per mezzo di un'assurda divisione delle assemblee popolari in primarie, alle quali spetta il compito di eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è deferito il compito supe riore della scelta del deputato, e in elettive, alle quali è assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva dalle popolazioni memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante l'esercizio della sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e non si perda ne' meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e generale, finisce per essere astratta e generica. Tutte le deficienze del sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non era necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai fini, che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La nazione napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son quei par lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei baroni e del fisco. È per me un diletto (e qui il Cuoco pensatore diviene un pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un popolo intero riunito discutervi i suoi interessi, difendervi i suoi diritti, sceglier le persone cui debba affi dar le sue cose: così i pacifici abitanti delle montagne dell'Elvezia esercitano la loro sovranità; così il più grande, il popolo romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte dell'universo » (1 ). Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione millenaria. La costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò. « I municipi non sono eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al governo, cioè a colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato » (2 ). Ma il Cuoco si spiega tutto. La storia insegna molte cose. L'ac centramento in Francia è naturale: questa nazione non ha avuto mai l'esperimento dei comuni, una vera e propria municipalità, poi che questo paese ha trovato l'unità assai presto. In Italia la faccenda è assai diversa. In Italia il comune è stato un istituto spontaneo, espres sione della rinascente romanità contro il feudalismo fer rato, istituto che non è morto mai, e s'è sviluppato, perpetuato, anche allorquando da ente sovrano è dive nuto ente subordinato entro gruppi politici più vasti, come il principato o signoria e lo stato monarchico. Il Cuoco non dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente (1 ) Framm. II, p. 223. (2 ) Framm. II, p. 224. 57 che questo è il suo pensiero. « Io perdono » scrive « ai fran cesi il loro sistema di municipalità: essi non ne aveano giammai avuto, nè ne conoscevano altro migliore: forse non era nè sicuro nè lodevole passar di un salto e senza veruna preparazione al sistema nostro. Ma quella stessa natura, che non soffre salti, non permette neanche che si retroceda; e, quando i nostri legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema della Francia, non credi tu che la nostra nazione abbia diritto a dolersi di un'istituzione che la priva dei più antichi e più interessanti suoi di ritti ! » (1 ). Il sistema costituzionale, dunque, che ha alla sua base il comune, è il più naturale per noi, poi che l’ente comu nale è l'espressione prima di quei bisogni complessi che abbiamo detto essere la base imprescindibile di ordini durevoli. In poche parole, ecco tracciate le funzioni del comune, funzioni varie e molteplici, dirette ad assicu rare la più immediata soddisfazione de' bisogni elemen tari primordiali di una gente ! « Ciascuna popolazione dunque, convocata in parlamento (questo nome mi piace più di quello di assemblea: esso è antico, è nazionale, è nobile; il popolo l'intende e l'usa: quante ragioni per conservarlo !), eleggerà i suoi municipi. Essi avranno il potere esecutivo delle popolazioni, saranno i principali agenti del governo, e dovranno render conto della loro condotta al governo ed alla popolazione. La loro carica durerà un anno. Tu vedi bene che fino a questo punto altro non farei che rinnovare al popolo le antiche sue leggi » (2 ). Tutto trova la sua consacrazione nella storia italiana. Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre attribuire tanto potere da assicurargli la possibi lità di vivere e di prosperare, vale a dire occorre dargli una vera e propria autonomia amministrativa. « La mia prima legge costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della repubblica riunita in solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni particolari quelle determi (1 ) Framm. II, p. 224. (2 ) Framm. II, p. 225. 58 nazioni che crederà le migliori; e le sue determinazioni avran vigore di legge nel suo territorio, purché non siano contrarie alle leggi generali ed agl ' interessi delle altre popolazioni » (1 ). La legge è la volontà generale. Ogni individuo ha d'al tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua legge e la sua libertà. Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il suo ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e s'acuisce un fa tale dissidio tra le due volontà, la generale e la partico lare, tra lo Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità e l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica. La legge, quindi, nella sua stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata. Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s ' ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale. Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino interessano. Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve esser permesso ad una popolazione? Perchè mai, se una popolazione abbia bisogno di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una nuova contribuzione da' suoi (1 ) Framm. II, p. 227. 59 cittadini, ci sarà bisogno che ricorra all'assemblea legi 4 slativa, come prima ricorrer dovea alla Camera? Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im pazienti del giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri, i quali sotto nuovi nomi riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica oscitanza?... » (1 ). È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà dell'indi viduo. L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune, la sua espressione diretta, poi che il comune è a lui più vicino, è la immediata manifestazione della sua sovranità di cittadino. Si dirà al Cuoco: ma anche la legge, la volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una convergenza di consensi e di volontà particolari; che anche lo Stato opera sul fondamento del diritto, e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma del di ritto, in quanto ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero volere della collettività; ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità affermata dal mo lisano. La volontà generale che s ' esprime nello Stato è lontana dai sensi del cittadino, in quanto la sua realtà concreta è una formazione etica di volontà mediata, ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire tutta la complessa natura della nazione; mentre la volontà che si estrinseca negli atti del comune, alla quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge spontanea dalle più intime fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera mente profondi, parla infine ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de' popoli, che vichianamente possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni primitivi. I risultati pratici di questo sistema sono incalcolabili. « Quante buone opere pubbliche noi avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio delle loro volontà alle popolazioni » (2 ). Vi sono paesi per i quali, esemplifica l'autore, un porto, una rada è indispensabile, e che, in pochi anni, sotto la pressione di esigenze inderogabili, avendo sufficienti libertà, lo costruirebbero: ebbene, que  Framm. II, p. 229.  Framm. II, p. 230. 60 ste stesse popolazioni oggi, posto un freno all'iniziativa individuale, attendono dal governo quel che non viene. Si potrebbe obiettare: ma queste affermazioni sono le affermazioni d'un federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha prevenuto la domanda, ed ha distinto tra autonomia e separazione, tra Stato su base decentrata e Stato fede rativo. L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la conso lida, mentre la federazione per popoli schiettamente par ticolaristi e campanilisti, com'è l'italiano, è un primo passo verso la disgregazione. Tra il sistema accentratore alla francese, in cui gli organi periferici ricevono tutto dalla capitale, e il sistema federativo di Stati alla sviz zera, ove ogni gruppo gode di leggi sue proprie, ha un parlamento suo proprio, c'è lo Stato unitario su largo decentramento amministrativo, e a quest'ultimo sistema il nostro molisano si volge. « So gl’inconvenienti che seco porta la federazione; ma, siccome dall'altra parte essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar il modo di evitar quelli senza perdere questi. Vorrei conservare al più che fosse possibile l'attività individuale. Allora la repub blica sarà, quale esser deve, lo sviluppo di tutta l'attività nazionale verso il massimo bene della nazione, il quale altro non è che la somma dei beni dei privati. L'atti vità nazionale si sviluppa sopra tutt'i punti della terra. Se tu restringi tutto al governo, farai sì che un occhio solo, un sol braccio, da un sol punto debba fare ciò, che vedrebbero e farebbero mille occhi e mille braccia in mille punti diversi. Quest'occhio unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio; dovrà fidarsi di altri occhi e di altre braccia, che spesso non sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè agire: tutto sarà malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione. Il go verno deve tutto vedere, tutto dirigere » (1 ). Nel sistema cuochiano l'attività privata è garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale e la volontà particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita (1 ) Framm. II, p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a lui più vicini agiscono in pieną indipendenza: allo Stato resta la funzione, che a lui è più propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida e il controllo supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di natura costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e cerca di stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo umano e crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile particola rità, nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su questo mondo degli uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme giuridiche attraverso cui s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi fatal mente generali, hanno origine da un processo d'astrazione, riferendosi non al singolo, ma ai singoli in quanto formano una classe, una media, un tipo. Ai subietti per natura diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta una norma unica uguale indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È fatale, non può essere diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può divenire con trasto, tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello Stato, cioè tra la volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è doveroso, colmarsi. Ecco: lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà in forma giu ridica, che non può non essere quindi generale; ma in tanto i prodotti di una nazione, dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi: una popolazione ha solo derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e deve realizzare la sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia e la ha realizzata in luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e così via.... « Ben duro esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar nello stesso tempo, e nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe se non ingiustizia? Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge, la quale abbia tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori della tua repubblica: non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei tributi e farne la ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in loro balìa la scelta del modo di soddisfarla; così la volontà generale della nazione determinerà l'im posizione, la particolare determinerà il modo: questa non potrebbe far bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » (1 ). Tutto ciò è la necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e senza una con traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia sostenitore d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede i princípi, che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in loro l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia simile ad un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano di Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra, e su questa realtà edificare il sistema. Per finire questo argomento, sul quale mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco va ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i nostri circondari, ai dipar timenti o provincie. « La costituzione francese confonde municipalità con cantone: cosicchè ogni cantone potrà avere più popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità. Io distinguo due parlamenti: uno municipale per ogni popolazione di un cantone; l'altro cantonale per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo » (2 ). Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla divisione cantonale, qual'è p. 231. p. 236. (1 ) Framm. II, (2 ) Framm. II, La Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette dipartimenti, che sono enumerati al tit. I, art. 3 del Progetto. L'articolo 5 al quale si riferisce il Cuoco dice: « Ciascun dipartimento è diviso in cantoni, e ciascun cantone in comuni: i limiti de'cantoni possono ancora esser rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza di ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia ». Il titolo VII, art. 173, dice: « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione centrale, e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale ». 63 in Francia, vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. « Sei tu ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo, che io vorrei fondamentale nella costituzione nostra? Tu mi conce derai anche questo secondo: se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni, potranno provvedervi allo stesso modo; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni saranno uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni interessate » (1 ). Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co munità d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività legislativa, la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal senso all ' intelletto, dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una simi litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso, il governo l'intelletto dell'organismo sociale. L'intelletto che agisce senza l' esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute dello Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale, che ebbe Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al can tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più particolari, ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni: occorre che i comuni che formano il can tone li risolvano insieme. « Imperocchè, avendo ogni po polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » (2 ). Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella larga autonomia che assegna al comune. Perchè? L’autore dei Frammenti non lo dice, ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune (1 ) Framm. II, p. 235. (2 ) Framm. II, p. 236. 64 è una formazione naturale, consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può avere importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al dipartimento si dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato nello Stato, si perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il potere centrale (1 ). Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi vive nella coscienza politica della nazione nostra, que stioni, che, dopo un sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come tutti i progetti di riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti dall'Italia meridionale, la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla Francia. Nel '60, occupando Garibaldi la Sicilia, alcuni patrioti, Crispi, Mordini, agitarono il pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del governo, che li tacciarono di separatismo (2 ). Il Cavour stesso, mente lucida e serena, non intese il problema, e non condivideva i vari progetti di governi regionali, che si presentavano da altri a lui vicini; ed era natura lissimo: egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia meridionale e centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le crisi politiche hanno origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha intuito (1) Questa è la ragione per cui l'autore (Framm. II, p. 236) scrive: « Ma le unionicantonali non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la legge loro commette: inutile, inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di oggetti che richiedes sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo questi principi, potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia ». (2 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, v. I, t. II, p. 988 e sgg.; M. Rosi, Il risorgimento italiano e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma- Torino, Casa ed. nazionale, 1906, p. 228 e sgg. 65 troppo bene, per non comprenderne il valore. Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia meridio nale c'è ancora un hiatus troppo vasto, perchè le stesse idee possano germinare nel cervello positivo de gli uomini del nord e nel cervello storicista degli uo mini del mezzogiorno. Notiamo: l'esperienza politica delle due parti d'Italia è troppo diversa, perchè la com prensione sia facile. Il comune nell'Italia settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di fazione, mentre nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia, perchè si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo, quella che si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli tica appare questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore, che non esito a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione storica ! L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera di tre o quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale spontaneo secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia segue una trama eterna, e questa trama non s'infrange. Scombusso latela, violatela, provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si ricostituisce. L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è opera delle cose e non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli d'una unità ancor maggiore e non i germi della dissoluzione. E, se pure vi sono germi dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol significare fazione e campanile, è superato da un pezzo. Crisi vi furono, vi sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi nistrative politiche economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il genio di alcuni ispirati, ha fatto l'Ita lia, la storia la guida nel suo travaglio e la guida sicura, anche fra le crisi, di cui ho detto la natura, senza il bi sogno di uomini, fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si arrogano il diritto di rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla ! La critica, come ognun vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura radicale: troppo francese e troppo poco napoletana; per essere ottima men che buona, mediocre; come quella francese del '95 per sancire gli immortali princípi non discende alla vita positiva. I particolari dimostrano a sufficienza l'astrattismo della concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti, i quali il Pagano di vide in due gruppi: 50 membri formano il Senato, 120 il Consiglio. Il Senato più austero e savio approva o re spinge ciò che il Consiglio ha proposto. Il critico però sempre fisso ad una realtà che non sfugge, l'elemento economico nella vita dei popoli, si domanda: a qual divisione d'interessi corrisponda questa divisione di Ca mere: « In Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo mini non sono eguali; ha una ragione anche in Ame rica, poichè, sebbene gli americani avessero dichiarati tutti gli uomini eguali per diritto, pure – ed in ciò han pensato come gli antichi (1 ) non si sono lasciati illudere dalle loro dichiarazioni, ed han. veduto che ri mane tra gli uomini una perpetua disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve influir nell'esecuzione della legge, influisce però irreparabilmente nella formazione della medesima. Gli americani han ricercata nelle ric chezze quella differenza che gl'inglesi ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere come.... Cuoco stesso. Il Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè per una limita. zione plutocratica, come gli americani, o per una limitazione di classe come gli inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica, e lo proveremo appresso. 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo stabilimento americano. In sostanza, non essendovi nes suna diversità di bisogni tra le due Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le esprime, essendo uguale nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione, la distinzione non ha una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza del pensiero politico del no stro scrittore. La nazione napoletana, mentre per il potere legisla tivo, offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana, alla quale il giurista può rifarsi, non offre pari menti una forma indigena di potere esecutivo potere è pure il più indocile e il più difficile ad organiz zare. Difficoltà questa più grave oggi, in cui le costitu zioni si creano a tavolino nel pieno oblìo degli uomini. « Forse non siamo stati mai tanto lontani dalla vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che crediamo di averne conosciuti i princípi più sublimi » (2 ). Non esiste una costituzione giusta, una costituzione ottima, esistono costituzioni che più o meno rispondono ai bisogni di un popolo. Un popolo rozzo avrà una costi tuzione rudimentale, la quale gli sarà più utile della costituzione del Pagano. Un popolo culto avrà una costi tuzione sublime, e sol questa potrà essergli utile. Perchè parlare quindi in via assoluta? È questo un vero e pro prio bisogno di ciò che tocca i sensi, il trionfo dello sto ricismo. La costituzione è di per sè una mera forma, che è vuota, se tu non le dài un contenuto di sensibilità umana, un contenuto essenzialmente storico, cioè dina mico. Portate il diritto a contatto con la vita, e la vita vi darà la direttiva, il metodo, i princípi (3 ). Voi andate (1 ) Framm. II, p. 237. (2 ) Framm. III, p. 241. (3) Nel Platone in Italia (a cura di F. Nicolini, Laterza, ed., 1916, v. I, p. 45) il Cuoco scrive: «.... In Taranto si disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e taluno difende gli ordini popolari, altri si lagna che quelli, che si hanno, non sieno abbastanza oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a molti di questi tali; 68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo dal potere legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo entro la legge: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una costituzione che solo una pratica civile può darvi. Stabilite un principio desumen dolo dalla costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere da noi. L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è stata in ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di forze dipende dalle circostanze politiche di una nazione; e bene spesso lo stato delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo: cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione l'indipendenza della nazione » (1 ). È facile ve dere ciò in concreto. Ogni nazione ha bisogno della forza per la sua difesa, e questo bisogno è vario, secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno per mante nere un esercito. Questi princípi hanno origine nelle lotte tra monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella Dichiarazione dei diritti (anno 1689 ), nel definitivo abbattimento degli Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie, e starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella città in cui arrivano, trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono che in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici, diventate prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e virtuosi. » (1 ) Framm. III, p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema così com'è stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove: il bisogno che Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il mare difende le sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può perciò benissimo essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre non potrebbe essere menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora dovesse ab bandonare la sua autorità sull'armata, sulla flotta, unico e grande presidio dell'isola. È possibile tutto ciò in Francia? Evidentemente no. A Napoli? Neppure. Da noi diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di rezione dell'esercito, significherebbe porre il paese in braccio allo straniero. D'altra parte quello stesso po tere esecutivo, che non ha energia sufficiente per difen dere le frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un collegio elettorale, per fargli subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi, nota il Cuoco, « invece d'indebolire i po teri,... li rendevano più energici, e così, essendo tutti egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (1 ). Oggi i legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una delimitazione di forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed ignorano il vero equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in un'ar monia di opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di educazione politica. « I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i pregiudizi istessi dei popoli servon talora a frenare i capricci dei più terribili despoti, anche quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo.... » (2 ). È la natura che mette un limite all'arbi trio nella stessa educazione, nello stesso senso civile del popolo. Una nazione ha, in sostanza, il regime che si merita. A volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per soverchio amore di ordine, di regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere alle popolazioni usi, co (1 ) Framm. III, p. 244. (2 ) Framm. III, p. 244. 70 stumi, religione, per uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il déspota può darsi che sia accolto come un liberatore. Il concretismo storico del Cuoco qui raggiunge le sue vette più alte. L'autore stesso dei Frammenti, dopo pochi anni, dovette a lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo come i fatti avessero confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al duplice trono di Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche di regolarismo repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle stesse leggi, perchè allora esse rimangono senza difesa. Le leggi da per loro stesse son mute: la difesa la dovrebbe fare il popolo; ma il popolo non intende le leggi, e solo di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è il peri colo che io temo, quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e perciò senza base, perchè troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (1 ). Il popolo ha sue esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente dall'ordine e dalla regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente, e da queste esigenze na scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al l'esercizio de' poteri. Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne faccia quasi il tutore? Devi sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi. Vuole solennità? Dà alle leggi solennità quasi jeratica. La costituzione gli sem brerà cosa sacra, la rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra tutto interessi, plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e materiale riposa in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non avrete fatto nulla: il più forte invaderà il campo del più debole, ne nasceranno crisi, conflitti, pre dominii. Per frenare la forza non vi può essere che un solo mezzo: dividere gli interessi. Da una disarmonia d'interessi nasce l'armonia degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il proprio interesse e sarà impedito a (1 ) Framm. III, p. 246. 71 sua volta di violare l'interesse altrui. « Fate che il potere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di un altro; non fate che tutt'i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso modo; talune magistrature perpe tue, talune elezioni a sorte, talune promozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so stegno, perchè così tutti i possidenti, e coloro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi » (1 ). Questa la vera sapienza costitu zionale: il resto è pregiudizio ed empirismo. Si è pensato a diminuire la forza del governo, aumentando il numero delle persone a cui è affidato. Il numero impedisce, sì, l'usurpazione, ma porta seco la debolezza. I romani avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due consoli, o meglio per mezzo del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza, che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione ». Quest'affermazione unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza per la successiva evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della legittimazione politica dell'impero napoleonico. Un altro punto interessantissimo è questo. Le costitu zioni sono istituti sociali, umani, e però vivi di vita pro pria. Il giudizio sul loro valore è lento, graduale, si può avere solo dopo lungo tempo, sulla base degli effetti pro dotti e non in base a princípi di ragione. Occorre cono scere i popoli, e vedere se esse costituzioni rispondono alla loro vita, alla loro natura: solo il tempo può darci un giudizio definitivo. Quindi nessuno può dirci se la monar chia o la repubblica sia buona o cattiva. « Un re eredita rio», dice Mably, parlando della costituzione della Svezia, « quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, p. 249. 72 di esserlo; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » (1 ). In piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è detto che la repub blica estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali, e che vi possano essere sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che garantiscono meglio l'unità del reggimento politico e la libertà stessa, senza cadere nella debolezza, che di solito interviene allorquando il potere supremo per essere nelle mani d'un direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già spuntano nell'autore dei Frammenti idee, che germineranno e che renderanno sempre più coerenti i suoi princípi, espressioni profonde di convincimenti sinceri e di meditazioni severe, non opportunismi servili, come ha voluto dimostrare qual che critico che del pensiero del grande molisano ha ca pito ben poco. Il popolo è quello che è, con le sue virtù e con i suoi vizi. Il legislatore non deve che osservare, e dar leggi conformi alle condizioni reali dei subietti, sfruttando vizi e virtù, tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar monizzare positivamente. Nel Progetto del Pagano c'è un primo istituto, la censura, che rivive ed arieggia la censura latina; c' è un secondo ufficio, l'eforato, che ri corda un nome spartano anche nella sostanza, avendo il fine di tenere i poteri pubblici nel proprio cerchio, non partecipando ad alcuno di essi. Il Cuoco loda quest'ultima magistratura, ma non nasconde la grave verità: non vi può essere forza estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga l'equilibrio ! In quanto alla censura siamo sem pre allo stesso punto: molta nobiltà di sentimenti, poca concretezza. Come provare che un cittadino viva ari stocraticamente, agisca con alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante, imprudente...? ». Se la nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi, la censura non potrà fare nulla di nulla. « Libertà ! virtù ! ecco quale deve esser la meta di ogni legislatore; ecco ciò che forma tutta (1 ) Framm. III, p. 250. 73 la felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la natura ha segnata, per giugnere alla virtù, una via inalterabile: quella che noi vogliam seguire non è la via della natura » (1 ). La virtù, anch'essa, non è un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della vita. Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti, e per essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o milanesi. La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon repubblicano era un Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a recitare la sua parte tragica d'eroe e di tirannicida. « La virtù è una di quelle idee, » scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al nostro intelletto sotto vari aspetti; è un nome capace di infiniti significati. Vi è la virtù dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino: si può considerar la virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti » (2 ). Può darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che riflettere la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che ad una virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che non renda infelice il cittadino », deve cioè trovare quell'armonica delimitazione tra libertà e libertà, tra volontà partico lare e volontà particolare, che sola può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della virtù è la felicità, e la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze » (3 ). Il nostro autore è un politico. A lui non in teressa l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua sfera ideale ed eterna; a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è che la conformità del costume del (1 ) Framm. VI, p. 261. La critica cuochiana coincide affatto con quella che un valente costituzionalista moderno ha fatto dei due istituti del Pagano, l'eforato e la censura: vedi L. PALMA, op. cit., p. 442 e sgg. (2 ) Framm. VI, p. 261. (3 ) Framm. VI, p. 262. 74 singolo cittadino col costume della nazione (1 ). Il diritto ci appare, quindi, come un minimo etico, che assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere civile. D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad osservare dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e semplice hominis (1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare la felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e, questa alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia. Arehita (v: I, p. 87) dice: « Ciò, che veramente è necessario in una città; è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro, sono necessari egualmente la scienza e la subordinazione... -- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sem. brano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si · tratta d'istruirlo, tutt' i diritti sono suoi: tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe.... Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno bisogno di collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini civili. I vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa origine: ma nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in età più barbara; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni. Come pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi siete tutti iniziati?... ). « Non son questi, o Archita ), disse allora Platone, « i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona. Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle civili. Del resto la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo. Essa rinascerà, non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà, quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale avrà ridotti gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi de' popoli produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che allora vi saranno; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della temperanza, della virtù, e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società ! Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci !... ». 75 ad hominem proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente, dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della felicità, creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura. La sferà del politico, pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che non può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e complesso è lo spirito: La felicità politica, e quindi la virtù pub blica, ci appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici, d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri im portante, l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il fine della virtù è la felicità » (1 ). Per un politico l'affermazione non suona male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra ricerca superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire sulla ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che non si connatura con questå. « La felicità è la soddisfazione dei bisogni ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze ». Sottentra l'elemento economico. « Ma, siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri o accrescendo le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua economia è, entro certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile non può prescindere dal resto del mondo: la sua economia è solo per astrazione individuale, concretamente è economia collettiva sociale. I bisogni di quest'uomo sono bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha implicito il concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una società umana statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni umani sono in continuo sviluppo: il lusso, quel che (1 ) Framm. VI, p. 262. (2 ) Framm. VI, p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di bisogni nuovi, null’affatto superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano progresso. Sorgono nuovi bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio, l'infelicità, poi che non sempre le forze bastano a produrre i beni necessari per soddisfare i nuovi bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di moderatezza, fulminare le nuove esigenze so ciali, la ricchezza? La storia corre incessantemente il suo corso ideale. Nuove età: nuovi bisogni: disquilibrio di forze produttive: poi, di nuovo, equilibrio per una reintegrata armonia tra forze economiche e bisogni: infine ancora un secondo disquilibrio per esigenze sottentrate nell'ambiente, e così in eterno. La dinamica economica è un avvicendarsi continuo d'equilibri successivi, d'equi libri turbati che si compongono in un nuovo punto. L'intuizione cuochiana è lucida ed anticipa di molto alcune vedute economiche moderne. Il fine della politica è assicurare quest'equilibrio tra forze e bisogni, tra forze e desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci insegnerai», scrive « la maniera di soddisfare i nostri bisogni, se farai crescer le nostre forze, c' ispirerai l'amore del lavoro, schiuderai i tesori che un suolo fertile chiude nel suo seno, ci esenterai dai vettigali che oggi paghiamo per le inutili bagattelle dello straniero, ci renderai grandi e felici: e, senza esser nè spartani nè romani, potremo pure esser virtuosi al pari di loro, perchè al pari di loro avremo le forze eguali ai desidèri nostri » (1 ). Le ricerche del Cuoco sono le ricerche dell'uomo politico. Il molisano è troppo superiore per credere che la sua analisi esaurisca ogni altro problema: egli stesso dice al Russo: « Ti dirò un'altra volta le mie idee sullo studio della morale, sulle cagioni per le quali è stato tanto trascurato presso di noi, sulle cagioni delle contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e precetti, tra i libri e gli uomini; e forse allora converrai meco che di questa scienza, che tanto interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei prin (1 ) Framm. VI, p. 262 77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » (1 ). A me sembra di vedere una netta distinzione tra filosofia e politica, tra etica e pedagogia generale: quel che in una sfera ha un suo profondo valore è insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico fondamento di quella virtù, che sola può avere il secol nostro. La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono;,e ne verrà à capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » (2). Il governo deve dare un vero e proprio impulso alla produzione: le forze giovani anzi che dirigersi agli impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie, ai commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci mancano, ci renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo; e così, accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e colla stima delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » (3 ). È una vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la realtà, in un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza dell’empirismo, respinge da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la filosofia po litica è di moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli eterni princípi; questo nobile realismo ideale, sia permessa la parola, dovrebbe insegnarci più d'una cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la storia, s'af ferma come antistorica; ma di fronte ad essa, per un processo, che non è solo di reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio italico lo storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi limiti sua rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di conoscerne i benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e soprattutto ne' suoi articoli (1 ) Framm. VI, p. 261. (2 ) Framm. VI, p. 263. (3 ) Framm. VI, p. 263. 78 milanesi. Ma l'astrattismo in materia legislativa è dele terio, ed occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento profondo, che il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo pensiero nel lungo corso, che noi ci sforzeremo di seguire. La critica del progetto di Pagano ci appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che nel molisano è organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un antirepubblicano. Nè Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge alla costituzione partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione francese, che a lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi para gona la Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella fatta in Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla ragione: la francese è la formula algebraica dell'americana » (1 ). Ma quanto queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio dimostrare. Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di Alcinoo e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza, costituendo la così detta Repub blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere. « È difficilissimo giudicar di una costi tuzione. La migliore non è sempre quella che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più uniforme al costume de' popoli: a quel costume che esi ste sempre prima della costituzione; e, se è simile, la rende vicina e durevole; se diverso, la indebolisce e la distrugge.... ». Qual'è dunque il principio che solo può sanzionare la bontà d'una costituzione? Noi lo sappiamo: il tempo, il quale ci confermerà se essa risponde a bisogni concreti; la storia, la quale ci dirà se essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso, al quale occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo della vita non soffre soluzioni di con (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 39. 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la norma di quelli che ancora debbono ve nire » (1 ). (1 ) L'articolo è intitolato La costituzione della repubblica set tinsulare; Giornale italiano, 1804, 15 febbraio, n. 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro avrò frequente bisogno di rifarmi al Giorn. ital., in cui c'è il meglio dell'ingegno po litico del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome, peraltro, molti dei più significativi articoli del foglio milanese sono stati ristampati in appendice alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del caso, darò tra parentesi, dopo le indicazioni dirette del Giorn. ital., le indicazioni delle ristampe. Altri cinque articoli cuochiani sono stati ripubblicati da G. Gen tile insieme col Rapporto al re Murat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubbl. Istruzione nel Regno di Napoli col titolo di Scritti pedagogici inediti o rari (Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909). Allorquando poi il mio lavoro era già compiuto sono usciti alla luce due altri volumi contenenti quanto di V. Cuoco rimaneva disperso: Scritti vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI, Bari, Laterza ed., 1924. Forse sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti gli scritti del Giorn. ital., ma gli egregi editori non hanno creduto di farla, limitandosi a ripro durre per intero ben ventisette articoli, e sono i maggiori, e a dare, a mo' di appendice, un catalogo ragionato degli altri ri. masti fuori. S'intende che io ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione laterziana, che, dal punto di vista della correttezza, offre i maggiori affidamenti.  Il « Saggio storico sulla rivoluzione napoletana ». Il Saggio storico mostra in atto il sistema negativo ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista. – La. Rivoluzione francese è attiva, quella napoletana pas siva. L'astrattismo. - La corte e il governo. – I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio. I Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte le edizioni cuochiane seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una vera e propria formulazione di princípi filosofici giuridici economici, che Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza storica e politica insieme, antica e mo derna nello stesso tempo. Larghi sono i raffronti tra le costituzioni classiche e le odierne, tra costituzione odierna e costituzione odierna, e la critica si svolge tra compara zioni ed appunti acutissimi. È l'opera di una eccellente testa politica, che ha legittime pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è un ordine logico ferreo, una disciplina storica, una consequenzialità impressionante. Avremmo desiderato che questo sistema in abbozzo il Cuoco stesso avesse sviluppato, ma noi posteri, ammirando la sua eletta figura, non possiamo domandargli più di quanto ci ha dato, se non nel dolore di vedere quanta parte del suo genio sia andata dispersa nell'esilio, nella po vertà e infine nelle malattie. È il libro d’un pensatore 81 che ad una astratta ideologia oppone il suo paesano realismo storico. Vincenzo Cuoco assiste allo svolgersi degli avvenimenti, giudice imparziale, ma non per que sto inattivo e mutolo, e vede la storia rinnegare i suoi ideali, l'errore trionfare e fatalmente sommergere l'edi fizio repubblicano. La vita segue una via che è fatale che segua. L'errore trae l'errore, l'estremismo l'estremi smo. L'astruseria rivoluzionaria forza le cose, e la storia sembra calpestare lo storicismo, i princípi, che la specu lazione ha desunto e desume dall'osservazione del suo eterno corso. La storia sembra seguire uno spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo, invece, come, superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità cuochiane: sarà il periodo del Giornale italiano, il periodo napoleonico dell'impero. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse Tacito del popolo romano: a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della terra. Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso della libertà, se non che accelerarne il cambiamento? » (1 ). « Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è nel mezzo » (2 ). Tale è la vita: dalla sua stessa negazione scaturisce un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa: Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando; il popolo stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa ideologia: la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione; l'equilibrio si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.- 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico] ristabilisce, si riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben scrive, a mio avviso, il De Ruggiero, affermando che l'esperienza rivoluzionaria dà un nuovo significato alla negazione, in quanto questa è la crisi feconda di un rin novamento della vita storica. La crisi, in sostanza, non può non apparire che come una critica degli avveni menti passati e delle istituzioni da essi nate, che non giudica arbitrariamente, sovrapponendo una verità a priori, ma svolge dagli errori stessi un latente spirito di verità. Questa, infine, la ragione dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza politica del Machiavelli do veva necessariamente finire, data la sua natura, le sue premesse, i suoi fini, nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del nostro, certo più tragica, più dolorosa, più densa di dolore, che non quella del segretario fioren tino, sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è quanto dire in un bene relativo, in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone c'è la rivoluzione, la prassi sanguinosa, il rinnegamento del passato, la critica assoluta delle isti tuzioni millenarie, l'apriorismo giuridico, la democratiz zazione, universale, l'esaltazione dei princípi. La storia procede con continuità mirabile, ma nella sua stessa continuità c'è un processo di tesi antitesi ed un supera mento implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi rito, dell'idea, che muove gli uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte sono due aspetti della stessa realtà: « il passato, negato violentemente, si riaffaccia alla vita nell'atto stesso della negazione » (2 ). La critica dell’astrattismo razionalistico, che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta nella teoria, nel Saggio è mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso spiegarsi della storia. È la storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del pro cesso storico determinato dai princípi e dalla prassi re pubblicana, giudica d’un metodo e d’una mentalità. La storia sembra dire: queste norme hanno portato a tale orribile scioglimento, giudica tu, lettore, della loro bontà ! (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 167. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 168. 83 In ciò è riposto quel carattere di sana sapienza, quel l'obiettività del Saggio, per cui Luigi Settembrini ben potea paragonarlo ad una tragedia greca (1). Ed il raf fronto non è davvero stiracchiato. La Provvidenza vi chiana vi tiene il posto dell'antico Fato nell'urto degli eventi, e gli uomini stessi, che hanno determinato la ! catastrofe con i loro errori, con le loro incongruenze, sog giacciono ad un destino, che sembra irrevocabile. Sono essi, gli uomini, che determinano lo scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani d'un ignoto motore? Ma la storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra causa ed effetto: gli uomini, che fanno la storia, soggiacciono ad essa. Il Cuoco parla spesso di un vortice (2 ), in cui egli stesso fu tratto, e da cui potè districarsi a mala pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che egli non ammirava, se pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul palco ferale tante nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è altro che la rivoluzione. Che cosa è mai? È superiore alla volontà degli uomini?: No, esso è fatto dagli uomini nel loro delirio, nel loro ! errore, e gli uomini possono averne sicura conoscenza, poi che essi ne sono i fattori, ma averne conoscenza, si gnifica in un certo senso superamento e distacco da esso. Nei Frammenti era la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita in atto, la tragedia greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto. Questa è la ragione per cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo spi rito dello scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle idee, e lo fa con tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci, di chiaroscuri, di sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il pensiero; la fantasia, laddove prima era l'intelletto, la fantasia che s'esprime per immagini e tutto risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta in un processo d'obiet (1 ) L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Morano ed., 1882, v. III, p. 282. (2 ) V. Cuoco," Saggio storico, Lettera dell'autore a N. Q., p. 11: I, p. 16; VIII, p. 47; XV, p. 84, 84 tivazione, che non esito a dire perfetto, onde non v'è affatto, o assai raramente, quel contrasto ibrido tra l'ar tista che intuisce e lo storico che analizza quale può rin venirsi in molte opere di simile genere, poi che tutto è compenetrato e fuso, attraverso una lunga maturazione, che dovette certo essere prima consapevolezza di pen siero, meditazione di cause e di effetti, e poi immedia tezza nervosa e rapida d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel Saggio un elemento estrinseco all'artista e allo storico. Lo storico si fonde con l'artista, ma lo stesso storico è perfetto. L'uomo pratico non con turba l'artista, che supera nella visione l'enunciato fine utilitario della sua narrazione; il partigiano non con turba lo storico. Leggete invece il Rapporto al cittadino Carnot del vesuviano Francesco Lomonaco. Quante escla mazioni, quanti interrogativi, quante tirate oratorie, quanti pistolotti repubblicani, quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è l'uomo delle nobili passioni, ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere un suo fine, non esita di caricar di tinte fosche la storia, non esita un momento per indossare la toga dell'avvocato. Infatti chi può negare la presenza d'una passionalità che di strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura, che è la negazione d'ogni vera espressione artistica? (2 ). Nel Cuoco nulla di tutto ciò. (1 ) La questione della cronologia del Saggio a me sembra oramai risoluta. Fausto Nicolini, in una sua nota all’ed. barese del Saggio, p. 357 e sgg., la riassume e ne trae le migliori conseguenze. Perciò non ho che da rinviare il lettore a quanto il Nicolini ha egregiamente scritto. Del Saggio poi possediamo numerose edizioni, di cui alcune buone, molte mediocri scorrette ristampe, nonchè traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173; e la nota del Nicolini all’ed. laterziana. (2 ) Ogni possibile raffronto tra il Cuoco e il Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi Studi vichiani, p. 361, nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che nella sua monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli, Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee di Vincenzo. Scrive il Gen tile: « Tra le superficialità del Lomonaco e le vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti ideali dello spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un avvenimento, che per lui, come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte nopea non è che un tardo episodio. Il Cuoco, che studia più le idee che i fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. « Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura » (1 ). Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita ». Le rivoluzioni sono un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le crisi di crescenza nel corpo d’un fanciullo. « In mezzo a quel disordine generale, che sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano solamente gli effetti » (2 ). Le rivoluzioni sono esperienze politiche, dalle quali non si può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso della natura. Esse rinnegano a parole il passato, di fatto poi lo riconfermano, e nella negazione della storia il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della storia. Guardiamo la rivoluzione di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci parli la storia » (3 ). Essa scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un passato: una analisi immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e allo stesso passato essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il prevederla. Gli uomini sono cie del Cuoco c'è tale abisso, che non è lecito raccostare i due nomi, se non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo spi rito del Cuoco, o per far meglio vedere la sua superiorità ». (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I. p. 15. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 15. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 17, 86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini, non è cieca, ed ha una sua logica, nella cui grandezza noi siamo come dispersi. Gli uomini sono ciechi e sono inclini a scambiare il processo della loro mente con il processo della storia, e, peggio, a credere i suoi sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro individuale. Il filosofismo francese ha preceduto la rivoluzione: ciò non significa che esso abbia generato la rivoluzione. La storia non s'esaurisce nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia: la storia è d'una complessità mirabile. « I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione » (1 ). Ma la filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo, tutt'al più aiuta gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così accadde in Francia. Il Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della filosofia, vuol semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna assegnare il posto che le com pete; anzi egli stesso ritiene che in ogni operazione umana debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come è necessario il popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi » (2 ). Il compito dei filosofi è chiarificato: essi debbono trarre i princípi della storia e della politica, non dal loro cervello ed assumerli come postulati inderoga bili, ma dalla vita del popolo, dalla natura eterna del l'uomo, che non è solo intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia. Credere un avvenimento gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto soltanto del pensiero filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par ticolaristica. La vita non è solo attività teoretica, è me diatamente anche attività pratica, politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e l'imporsi delle idee, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato dei popoli per ve dere quanto essi siano stati i propulsori d’un moto, che è determinato, ma non cieco, anche nelle sue più crudeli manifestazioni. La rivoluzione francese non si può in tendere, se non s'intende tutta la storia che la precede. La Francia monarchica, la gloriosa potente monarchia accentratrice era un paese di abusi: « la rivoluzione non aspettava che una causa occasionale per iscoppiare » (1). Il Cuoco analizza tutto ciò, e l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa, è, senza dubbio la cosa migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo: gli stessi storici francesi non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni che fanno grande il molisano. « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la storia della rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i quali possono.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose istesse, in quel corso che solo ne determina la natura? » (2 ). Nessuno, rispondiamo, perchè è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio e trascurare le masse e le cose; credere un moto preparato dai secoli un fenomeno sporadico senza stretti legami con l'antico; una rivoluzione, opera d'un intero popolo, com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di pochi genî o d'un partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei precedenti della grande rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana concisione. Val la pena di riferirla: non si può estrarre il succo da ciò, che di per sè è tanto concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere una meditazione. « La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle varie opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le rivoluzioni, e non già di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha de scritto, una monarchia assoluta, creata da Richelieu e (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38, 88 riforzata da Luigi XIV in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre d'Europa, dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre tutti gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni, quello di Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari, ivi più potenti che altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno; una nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle altre nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè ogni uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col papa; i gradi militari di privativa de' nobili; i civili venali ed ereditari, in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le dispute che tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la discus sione delle opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi; quindi la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee, tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra; contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia degna di Polibio » (1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38. 89 s'esprime dal seno d'un popolo in travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da bisogni materiali, da un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi? I filosofi servono, se mai, a conturbare quel che è chiaro, a far credere opera loro quel che è già nella storia, a far scambiare come esigenza intellettuale quel che è esigenza economica nel suo più vasto significato. Enormi sono gli abusi, terribili i contrasti; più astratti, quasi per necessità, i princípi riformistici, come quelli che voglion compren dere un numero più grande di fatti umani. Ecco l'errore ! I francesi deducono i loro princípi dalla metafisica, e cadono nell'errore « di confonder le proprie idee colle leggi della natura » (1). È una ' falsa visione del reale questa in cui possono cadere tutti gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte. Commentando le incon gruenze dei repubblicani della Partenopea il Cuoco escla ma: « Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt ' i popoli della terra, especialmente della rivolu zione francese. Le false idee che i nostri aveano conce pite di questa non han poco contribuito ai nostri mali » (2 ). Siamo sempre ad un punto: gli uomini credono troppo ne' loro princípi e non s'accorgono che i principi sono spesso astrazioni, credono in essi e ' non osservano che intanto la storia si muove oltre i princípi. La rivolu zione è opéra dei filosofi? Altro che filosofi ! « Il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni >> è il popolo (3 ). Guardate questo popolo: si muove mai esso dietro i filosofemi? No. « Il popolo non intenderà, non seguirà mai' i filosofi » (). Perché? La ragione è una sola, vichiana. Il popolo è senso e fantasia: i filosofi in telletto. Date al popolo princípi: non li intenderà. Com primete il popolo, esacerbatelo: il suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta, vremo una crisi vasta ' e potente, la rivoluzione. (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 39. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. (3) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 5, (4) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30, 90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla fantasia popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire provenga invece dalla falsa filosofia. L'origine è naturale, lo sviluppo abnorme: lo spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di princípi, intellettualistiche. Sono le astruserie dell'ultima ora che portano seco loro gli inconvenienti propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de' potenti, le fazioni, le turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della rivoluzione francese ne sarà convinto » (1 ). I saggi sono inutili a produrre una rivoluzione (2 ), ma i pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto sur una falsa via. Ecco perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine, che dovrà riuscire fatale alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi incolori e pur gravi della grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione, poco al senso e alla fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta fantasia. Quanto più i pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i popoli li intendono, anzi, a volte, sono i popoli che accendono le controrivoluzioni, se i princípi di ragione urtano le avite tradizioni, i sacri costumi, i millenari bisogni. La critica è profonda, e, come ognuno intende, coin volge tutta la rivoluzione francese, ma è una critica, che nel Saggio storico appare per incidenza, e che tocca allo studioso di rilevare. La storia è tutta una catena, in cui un avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita delle nazioni oggi è così complessa, che, trattando della stessa Napoli e della sua politica, non si può prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra, della Francia, della Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un evento isolato, poteva chiudersi quasi in una barriera sanitaria; oggi, in tempi nuovi, deve fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La rivoluzione francese suscita un incendio repubblicano in Italia, a Milano, a Roma, a Napoli. Ma in questa stessa considerazione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 40. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 6, 91 sta il primo e capitale appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui il Cuoco esclusivamente si occupa. Lo storico critica lo svolgimento della grande rivoluzione francese, ma non nega l'origine pienamente legittima di essa, la riconosce nata da un secolare stato anomalo di cose, per cui il popolo, attivo e industrioso, ma ciò non pertanto trascurato ed isolato politicamente, reagisce e d'un balzo acquista di diritto ciò che di fatto aveva già acquistato. Nulla di tutto ciò a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero riflesso di quella gallica, è nella sua na scita e nel suo affermarsi passiva. L'aggettivo passivo ha fatto epoca, e val quanto dire impopolare. Le idee passano di paese in paese, perchè trovano ovunque in gegni culti atti a riceverle e a meditarle; i bisogni sono invece ovunque diversi, da nazione a nazione, da po polo a popolo, anzi da regione a regione, da provincia a provincia. Quel che a Parigi è spiegabile, a Napoli ' non lo è: quel che a Napoli è naturale, in Calabria cessa di esserlo, diviene artefatto. Mentre tutto il pensiero europeo, dalla Germania all'Italia, dall'Inghilterra alla Russia, dalla Spagna alla Svizzera, è infranciosato, ra zionalista, illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan zialmente e profondamente diversi in ogni angolo del vecchio continente europeo. Come poter condurre realtà di lor natura ineffabili e particolari ad. aderire a prin cipi uniformi, se non sforzando lo stesso ordine delle cose? Così.a Napoli. Invece di fare una rivoluzione na poletana, si fece una rivoluzione francese in piccolo. « Le idee della rivoluzione di Napoli » scrive il Cuoco « avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una co stituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanis sime da’sensi, e, quel ch'è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri » (1 ). La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 83, 92 francese, in sostanza, e qui è il nucleo di tutte le consi derazioni successive, è attiva, cioè risultante di molte plici elementi economici e politici; la rivoluzione napo letana passiva, cioè frutto di opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I monarchi europei credono la rivoluzione francese questione d'opinioni e la perseguitano, mentre, se era in realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di per sè stessa; il re di Napoli crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel suo nascimento era ' un ' po ' moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce, finendo per creare col suo contegno un generico malcontento. Lo stesso atteggiamento politico estremo in due circostanze diverse finisce per produrre i più gravi effetti. Le conseguenze di non mirare entro la natura delle cose ! È un astratti smo, che Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne' governi, nei patrioti e nei codini, nella filosofia e nella scienza militare. La reazione, al primo manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata a questa visuale errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia: effetto: la Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma, si oppone, vince. « Una guerra esterna, mossa con.... ingiustizia ed imprudenza, assodò una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile » (1 ). È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che crede forzare l'ordine delle cose. La Francia deve ras sodare la sua insurrezione; ha contro di sè tutta l'Europa: la guerra le diviene indispensabile per vivere. È l'oppo sizione stessa che costringe il paese alla lotta. Quindi si sviluppa un sistema di democratizzazione universale, di cui i politici interessati si servono, a cui i filosofi applau dono in buona fede; « sistema che alla forza delle armi riunisce quella dell' opinione, che suol produrre, e ta lora ha prodotti, quegl'imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 18. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 20. 93 A Napoli lo stesso errore dei governanti è aggravato da circostanze peculiari. Il principio della rivoluzione francese trova una nazione florida ed esuberante di pen siero e di studi economici, giuridici, filosofici, un paese che trae dalla Francia molte cose, ma tutte le concre tizza in una tradizione paesana, che si ricollega al Vico. La rivoluzione, se pure in questo ambiente è possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma a Napoli mancano i repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle novità straniere, si proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano francese, seguono insomma la moda. Convien disprezzarli. No, il governo muta rotta, incru delisce. È proprio quella politica, che più conveniva evi tare, volendo rimanere saldi nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile (1 ). « I nostri affetti, preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » (2 ). Gli uomini s'oppongono violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano: laddove con un metodo diverso la situazione potea dominarsi, è lo scompiglio. « I mali d'opinione si guariscono col disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderà, non seguirà mai i filosofi » (3 ). A Napoli il popolo non partecipa a nessun movimento: la rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è, non ci 16 li la ti (1 ) È lo stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v. I, p. 43: « Nel portico di Falanto si ragunan tutti i giorni, molti, la cura principale de quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli della terra... Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita non lo cura, ad onta che il più delle volte si parli di lui, e non sempre con giustizia. E qual giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un portico per ragionar di regni? 0. presto o tardi si credono di esser re. Ma Archita, a taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto: —Tu vuoi dunque che il popolo creda alle parole di costoro? Nessun uomo mostra la sua stoltezza, nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi smascherar lo stolto, lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al primo istante? Corri il rischio di farlo riputar savio (2) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 29. (3) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. 94 sarà. Ma, ecco, la polizia perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le corse a cavallo per Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono ne' pe riodici le cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri e alle innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento genera l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica: « vi inimicate chi soffre la perse cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente che la condanna; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e trionfa » (1 ). Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si perde il senso della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si condanna (2 ). Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi l'approvano, nessuno la desidera: eppure si crea un ambiente insurre zionale, laddove non era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io? non è che un solo: lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile. La di scussione farà nascere le idee contrarie » (3 ). Il governo di Napoli invece è pavido, e il timore rende deboli e inetti, ci offre sprovvisti all'assalto inimico. « Vince una rivoluzione colui che meno la teme » (+ ). Questa incomprensione della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi politica preventiva della corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che domina i go verni europei coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i giacobini di Francia e i patrioti di Napoli. Non per nulla tutti gli attori del fòsco dramma, gli uni e gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia illuminista, che per la ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia nell'umano intelletto e nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in seguito il comportamento dei (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. (2 ) Il tratto saliente di questa pre -reazione è la condanna a morte di tre giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani: la morte del De Deo fu sublime. Vedi quel che ne scrive B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 204 e sgg: (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 41. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. 95 repubblicani, ora dobbiamo osservare più particolar mente la politica governativa e la sua insufficienza. La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto, nasce come opinione, quindi passiva; la corte finisce per renderla necessaria, sforzando il cammino storico della nazione, suscitando vasti malcontenti in tutte le classi del po polo, ne' signori e nella borghesia, perseguitando dotti filosofi ed economisti, un giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel popolo, intaccando gravemente i suoi interessi. Vediamo quest'ultimo punto, il quale ci mo strerà pure l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento economico nella storia e nella politica. La storia per lui non è pura idea, come per gl’intellettualisti, che finiscono per negarla, nè pura economia, come per i ma terialisti storici: la storia è più complessa assai. « La storia si può suddividere in tante parti quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli avvenimenti umani si vo gliono considerare » (1 ). Ogni scienza particolare ha una sua storia, ma quel che noi consideriamo come la storia per eccellenza non s'esaurisce in alcuna ricerca partico lare. Lo spirito è complesso pur nella sua unità, così com plessa è la vita dei popoli, che è attività pratica e teore tica, prassi ed economia, intelletto e fantasia. Onde lo storico deve tener conto di tutto, e di tutto deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il Cuoco dà molta importanza all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il pro cesso storico, lo sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica, e di riflesso economica, del regno di Napoli? Ove portano questo Stato i bisogni generali? Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica? Quando Napoleone discende in Italia, la penisola è divisa in piccoli Stati, i quali uniti avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che cadessero. Que sta contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani sia infelice, senza amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio d’un gran capitano tutte (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 31. 96 le barriere caddero come scenari vecchi: gli austriaci furono messi in fuga, Venezia disparve colla sua imbe cille oligarchia, la distruzione del governo teocratico del Pontefice non costò che il volerla. Napoli sola per un complesso di cose poteva resistere. A Napoli c'era un governo monarchico forte, che garantiva una maggiore compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po polo che bene o male seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso una classe colta che voleva stu diare e vivere. Tutto rendeva possibile l'esistenza felice della monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa. Non fu così: la politica borbonica da qualche anno seguiva, e ora sotto la pressione napoleonica con tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi coa lizzati, ed urto in una condizione di cose secolare e pro fondamente sentita dalle popolazioni meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura una potenza me diterranea. Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica mediterranea, ad una politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il bacino del Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la Francia, con la Spagna. Queste le esigenze del paese: la volontà della regina dominatrice co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente. Lo Stato diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla aveva da sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue guerre. Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti, che nel Cuoco sono alla base di tutto il suo pensiero: il disdegno di tutto ciò che è straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come mero antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol inoculare agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere esclusivamente italiani. La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione, che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de' governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti: egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno. La sua critica ha origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri voluzione ha maturati, d'una mentalità politica, che si rivolge combattiva ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi d'astrattismo fran cese: è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le direttive.. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è poco napoletana, molto austriaca: è naturale che Cuoco alla luce delle sue idee ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone: l'Italia, Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche, che astraggono da questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina, salendo al trono meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare di divenire napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare di essere una principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè sforzare la tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una frivola smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale. Dalla moda per il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò francese od inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano; l'imita zione del vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione delle opinioni. « La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammi serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose sue » (1 ). La stessa ineguaglianza in tutti i rami dell'ammi nistrazione. Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai pensare la felicità e la potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè nazionale, avrebbe potuto portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed esen Cuoco (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, V, p. 29. 7 -- tando il paese perciò dalla dipendenza manifatturiera estera, proteggendo le arti, sviluppando il commercio ! Invece no: non v'è provvedimento borbonico che non si possa rimproverare. « L'epoca in cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual progettista egli si spac ciò e qual progettista fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perchè cagioni di nuove inutili spese » (1 ). Il Cuoco non fa distinzioni: il male è nella ra dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un ottimo assoluto, che è il peggior nemico del bene, e si finisce per far male: si è miracolisti e si riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini antichi bene o male assicuravano la vita civile: perchè distruggerli ab imo, anzi che rif marli? Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! « Acton non conosceva nè la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il piano dei romani, che era quello della natura » (2 ). Un esempio della vacuità del favorito di Maria Carolina. Napoli, dato che è un paese mediterraneo, aveva bisogni marinari. I bar bareschi erano i suoi nemici diretti, i nemici dei suoi commerci, che con le loro scorrerie finivano per rovinare. Occorreva proteggere le navi mercantili, occorreva una flotta di piccole navi veloci e leggiere da opporre alle navi da corsa. Acton volle provvedervi. Manco a farlo appo sta, la flotta che fece costrurre, era composta di legni pesanti, da combattimento e non da guerriglia. Io non posso indugiarmi su questo argomento, poi che il mio assunto non è quello di dare la contenenza del (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 45. (2) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 46. 99 Saggio storico, ma di tracciare un profilo ideale del pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue svariate manifesta zioni, seguendo fin dove è possibile la cronologia delle opere del molisano, tradendola ove essa complica lo sviluppo sistematico dello spirito. Non mi indugierò quindi ad enumerare gli errori, l'atteggiamento del go verno verso Napoleone, l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di Mack, capo dell'esercito borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo esempio di astrattismo, basta pensare al generale austriaco, al quale il governo di Napoli'affidò le sue fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha il buon senso di cogliere il punto debole di duci della natura di Mack, inclini a scambiare le loro idee con l'universo. La scienza militare è una scienza positiva, scienza d'osservazioni particolari, che ripugnano, alle schematizzazioni. Mack invece era la dottrina in per sona, ma faceva i piani a tavolino, risalendo col pen siero ai princípi della sua scienza, senza collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi. « Vuoi conoscere » do manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo la contradizione ed i consigli altrui: il criterio della verità è per lui, non già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensì tra le sue idee mede sime. Prima dell'azione sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione: audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san esser diverse dalle idee loro; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa diversità, non vi si trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema esattezza; ma questa è inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze che esistono nella natura » (1 ). Simili uomini, come Acton e Mack, sono deleterii in ogni tempo, furono rui nosi ai Borboni, in contingenze delicatissime. Date queste premesse, la sconfitta, la fuga del re, l'in ganno della partenza, l'ingresso de' francesi nella capi tale, il governo repubblicano, la proclamazione della Par (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XII, p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi di tutti gli elementi, che abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del Cuoco procede con la stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra acuta negli avvenimenti e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel corpo d'un paziente, e ne rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le stesse deficienze, ancora la stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due cose distinte. Vediamo i due gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli? Sono repubblicani tutti coloro che hanno beni e costume. L'aristocrazia, la borghesia, la classe accademica, gli studenti, il clero an che alto, l'ufficialità dànno il contingente maggiore dei patrioti: filosofi, finanzieri, giureconsulti, vescovi, teologi, giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è davvero il pen siero che manca. Ma basta l'idea a muovere i popoli, a sovvertire un ordine secolare, a riformare ab imo gli istituti d'una nazione? Tra le file dei repubblicani c'è, abbiam detto, quanto di meglio ha prodotto il mezzo giorno d'Italia in tutti i rami dello scibile umano, ma non si può negare, che anche a Napoli si sia prodotto quel fenomeno tipico di tutti i sovvertimenti, l'arrivismo, la speculazione. Molti hanno la repubblica sulle labbra, pochi nel cuore; molti l'esaltano, pochi la raffermano. Alcuni hanno voluto accusare il Cuoco di parzialità, anzi di malvolere verso le nobili figure de ' martiri del '99 (1). Ma il Cuoco è storico e non travisa ! Che meraviglia che accanto a Pagano ci sia il faccendiere, accanto a Russo li procacciante, accanto a Conforti il paglietta in cerca di clienti, accanto a Grimaldi il soldato che vuol far car riera ! È la storia d'ogni giorno, più o meno triste, ma sempre uguale. Il Cuoco del resto sa sollevare la testa e notare le grandi figure ed eternarle. Questi repubblicani il molisano distingue in due gruppi: coloro che vogliono più un cangiamento che un buon cangiamento, per pescare nel torbido, coloro che in buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p. 158 e sgg. in Rassegna critica della letteratura italiana, vol. VI, (1901); L. CONFORTI, op. cit., p. 21 e sgg. 101 fede vogliono imitare tutto dalla Francia; i furbi, in somma, e i fantastici (1 ). Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre in tutte le altre rivoluzioni è l'elemento cattivo, che fa sorgere principi pessimi, qui vi sono i princípi non buoni, che fanno cadere uomini buoni ed eletti. La memoria dello storico s'in china dinanzi ai martiri del '99. I patrioti sono uomini colti, superiori, il fior fiore della nazione: forse questa stessa loro origine è la causa prima che li allontana, sele zionandoli, dalle masse, e quindi dalla realtà d'ogni sana politica. Gli uomini sono buoni; i princípi che essi pro fessano, gli ordini cattivi. La loro virtù è una virtù stoica, il loro spirito romano, la loro morale superiore, troppo superiore a quella comune delle plebi: quest ' è stata una delle cagioni della ruina (2 ). Uomini i patrioti insufficienti tutti, nel giudizio sereno dello storico, a creare e a diri gere uno Stato, grandi solo nella morte: la loro fine con sacra alla posterità la loro sublime grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi uno scettico, e sa esaltare l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo stesso uomo, che enumera errori errori errori, è poi colui che con pa role degne di Tacito, esaltatore delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la difesa strenua degli ultimi nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle torme sanfedi ste, la distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di Altamura. L'assedio di Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed una rapidità mirabili: l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra fantasia. Il salto del forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle flot tiglie barcarecce di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano un Cuoco, non solo freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi legislativi e costituzionali, ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal fascino delle figure eroiche, che la storia suscita fra errori e de lusioni, onde ei può nel crollo della sua, dico sua, repub (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 84, nota. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVI, p. 157. 102 blica esclamare esaltato: « Si sono tanto ammirati i tre cento delle Termopili, perchè seppero morire; i nostri fecero anche dippiù: seppero capitolare coll'inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica napoletana » (1 ). Ma lo spirito politico di Vincenzo Cuoco non può non far risalire alla sventatezza, all'impreparazione dei pa trioti la causa dello sfacelo; non può, esaltando virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la vacuità del me todo legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo ordine. Si è detto (2 ) che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben netto. No, il fine c'è: la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e filosofica, af finchè l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli antichi errori. I saggi sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi navigheranno sempre in beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere con i loro pensamenti i popoli, poi che questi non si muovono che sotto l'urgenza di concreti bisogni. A Napoli, come al trove, c'era un popolo: bisognava tenerne conto, inter pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero caso. Tutta la rovina della repubblica s'impernia su questa incompren sione sociale. Il popolo, sappiamo, è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni (3 ). Credere un moto rivoluzionario determinato dalla filosofia è una semplice illusione, che solo i francesi potevano concepire. La rivo luzione deve parlare ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto, cioè alle plebi, e non solo ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in qualche modo aveva di che lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso gnava farlo agire, soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova ricostruzione, legarlo allo Stato: allora solo, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLVIII, p. 188. (2 ) U. TRIA, op. cit., p. 196, in Rassegna critica della lette ratura italiana, v. VI, (1901 ). (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 5. 103 fatto ciò, la repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo incrollabile. In una rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee repubblicane si sarebbero potute rendere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Quando la rivoluzione scoppia, il popolo ondeggia tra le due fazioni, i patrioti che vede padroni della capitale, il re che vede fuggire ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della saggezza del sovrano, della sua magnanimità, lo coglie in peccato di vigliaccheria, dubita, e chi dubita condanna a metà. Si può rendere il popolo partecipe all'azione, invece si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra rivoluzione » scrive Cuoco « essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo » (1 ). Ma repubblicani e popolo sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee costumi lingua. I primi sono fran cesizzanti; il secondo per natura tradizionalista, attac cato alle sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua reli gione, ai suoi pregiudizi. Tra gli uni e gli altri c ' è un divario di due secoli di cultura e di storia. I dirigenti invece prescindono da ogni elemento nativo, quell'ele mento che si deve coltivare, essendo tutto nel popolo. Co loro, che sono ancora napoletani, nota con amarezza lo storico, e che compongono il maggior numero, sono in colti. Ritorniamo al solito concetto: la moda straniera è la causa di tutta la rovina (2 ). « Le disgrazie de' popoli sono spesso le più evidenti dimostrazioni delle più utili verità. Non si può mai gio vare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autorità sia cogli esempi, ha venduta la sua opi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90. (2) Il giudizio cuochiano coincide col giudizio degli storici più recenti: vedi V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 104. 104 nione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha per duto allora la metà della sua indipendenza » (1 ). Mancava alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo può salvare i popoli nelle loro crisi. Si voleva imitare la Francia e si dimenticava Napoli, si obliava che la gente meridionale avea una sua specifica natura diversa dalla natura delle genti galliche. In Italia c'era un comunali smo, che in Francia non era mai stato; a Napoli c'erano cento volghi diversi l'uno dall'altro, in Francia un popolo compatto ed omogeneo. I repubblicani dovevano tener conto di ciò, e trovare un interesse comune, che riunisse dirigenti e diretti, governanti e governati. « Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi » (2 ). Il popolo non è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero nè rosso: « i popoli si riducono » osserva con acutezza il nostro autore « a seguir quelli che loro offrono maggiori beni sul momento » (3 ). Il popolo di Napoli così avrebbe seguito i rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe ranze di miglioramenti, avessero intesi i suoi desideri, avessero rispettato gli istituti a cui era legato, avessero riverito la religione dei suoi avi. « Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi dalle altre. Se a costoro si nta un capo che li voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione ed andrà avanti solo per quell'oggetto che è comune a tutti » (1 ). Ma per fare ciò bisogna andare cauti: non bisogna di struggere. Bene o male gli istituti esistenti assicurano la convivenza, occorre riformarli, migliorarli, non ab batterli al suolo: « il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto distruggere » (5 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. (2 ) U. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 92. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 94. (5 ) Framm., p. 219. 105 Il popolo di Napoli, nota il Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa religione, e vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La reli gione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo; riformate nel clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo moderato e liberale » (1 ). In ciò il cristianesimo è assai diverso dal paganesimo, che, basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi indocili e padroni tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di libertà, su prin cípi di fratellanza, su princípi di giustizia, e sembra quindi la più adatta per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il Cuoco ripetendo un pensiero del Conforti (2 ), è un elemento insopprimibile nella vita dello spirito umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso. Ma, quando voi gliela date, allora formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione: se il popolo se la forma da sè, allora la religione sarà indifferente al governo e talora nemica » (3 ). Questi i concetti di Vincenzo Cuoco (4 ). Lo Stato deve avere una sua religione, ed imporla: Stato e Chiesa nazionale debbono concorrere al benessere gene rale. Princípi che meritano un superiore approfondi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 129 e sg. (2 ) Sulla posizione religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed., 1898, p. 414 e sgg. (3) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 137. I due insigni storici concordano pienamente col Cuoco nel ritenere che gli errori dei repubblicani in fatto di religione hanno non poco influito ad allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che noi faremo in seguito: resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il molisano aveva della religione (1 ). La rivoluzione napoletana fu la negazione di questi princípi. Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi lipese l'alto valore etico della dottrina cristiana e catto lica, per sostituirla con una generica morale laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei subalterni un problema grave, anzi gravissimo, come il problema religioso. « Il po polo si stancò tra le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggiore odio contro i repub blicani, quanto che vedeva le loro'operazioni essere effetti della sola loro volontà individuale. Il governo in sostanza era agnostico, non conduceva ex professo una politica antireligiosa ed anticlericale, ma lasciava fare, e gli emissari in provincia si sfogavano contro i beni ec clesiastici o peggio contro il culto professato. Il popolo, colpito in uno dei suoi più profondi affetti, s'affermò san fedista contro lo Stato. È questo un episodio, ma certo il più saliente, dell'incomprensione tra quelli, che Cuoco, nonchè due classi, due popoli volle chiamare, i repubbli canti dirigenti e le popolazioni subordinate. Alla religione alcuni volevano opporre una generica morale civile e laica. Si negava il cattolicesimo, si affer mava di contro la libertà. Ma che cosa è la libertà, se non un mero astratto? Chi chiedeva la libertà? Non certo quelle popolazioni rurali, che il governo così bel lamente fraintendeva, « La libertà delle opinioni, l'abo lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi, era chiesta (1 ) Nel Platone in Italia (v. I, p. 84) ritornano spesso con: cetti consimili, indice della mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco: « Nelle città colte le leggi civili debbono esser tutte diverse dai precetti di religione e di costumi: chiare, precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè? Perchè, quando si deb bono riformare, il che avviene spessissimo, il popolo tien altri precetti da seguire. Se il popolo allora si trovasse senza co stumi e senza religione, si distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo necessario a riordinare le leggi », (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131. -107 da pochissimi, perchè a pochissimi interessava » (1 ). L'er rore, ripeto, è nelle basamenta, in un oblìo completo del popolo, nell'astrarsi ne'sublimi princípi per dimenticare la vita e le sue molteplici manifestazioni. Eppure, ep pure, nota con rimpianto il Cuoco, si poteva riuscire, si potevano sfruttare le forze ignote, ma inesauribili del po polo, e creare così una insuperabile barriera al legittimi smo borbonico. « Il popolo è un fanciullo » (2 ): se ne intendi la complessa psicologia, lo porterai dove vuoi: basta che tu intuisca la sua natura. « Il popolo è ordina riamente più saggio e più giusto di quello che si crede » (3 ). Il talento del legislatore consiste nel sapere sfruttare que sto innato senso di saggezza e di giustizia nelle più adatte contingenze, così da « menare il popolo in modo che fac cia da sè quello che vorresti far tu » (4). Ovunque c'è un male da riparare, un abuso da riformare, presentandosi come salvatore il riformatore, che non distrugge per me todo, ma procede per osservazione diretta, troverà sem pre il popolo che saprà seguirlo e rincorarlo. Il Cuoco osserva acutamente che a volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune operazioni senz'appa renza, senza quelle solennità tipiche, che la plebe ama, perchè sono nella tradizione. Si trattava di forma e non di sostanza. Ebbene, i repubblicani preferivano urtare contro questi apparati, anzi che secondarli, perdere l'ar rosto per non volere il fumo. La filosofia politica di Vincenzo Cuoco a proposito della rivoluzione si concreta in una sola constatazione. « Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirà: distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arre starvi tosto che il popolo più non vuole; egli allora vi abbandonerebbe » (5 ). Una prassi rivoluzionaria, che si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 104. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 106. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 108. (4) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 107. (5) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani da questo elementare principio produce effetti incalcolabilmente gravi e perniciosi. « La manìa di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione » (1 ). Le rivoluzioni nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli uomini, e gli uomini sono idee, idee vive palpitanti, non astratte e categoriche, sono senso, sono fantasia, sono religione, sono molte cose in uno. Ogni nazione ha un patrimonio di idee, il risultato d'una esperienza secolare, d'una vita non interrotta mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella sua coscienza, presenti alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato mentale, ma è un errore credere che si possa distruggere tutto, far sottentrare alle idee antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti. La rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno sulla rivoluzione; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti: se voi esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una natu rale continuità: non rompete il processo: è da savi: « il popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle antiche » (2 ). Ogni nazione ha un suo spirito, una sua mente, dice Cuoco. Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito individuale. L'estremismo poli tico, in qualsiasi suo aspetto, di destra o sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la sua condanna nelle osservazioni del molisano. Le idee nel loro spiegamento non possono essere sforzate, perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo. Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che è nelle esigenze de' popoli; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di sottrarvisici; bisogna che il governo, se (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 97. 109 vuol mantenere il suo punto di vista, le faccia osservare con la forza: ecco come un malinteso riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale, alla fine della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboli scono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà » (1 ). I popoli hanno un corso naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà, corso eterno che tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre innanzi alla storia, sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de ' princípi ed afferma la sua autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione legittimista a Napoli, nella ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da un estremo si ricorre all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio: il liberalismo moderato. Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo italiano. La sua figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande sopra tutte le idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto il Saggio storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. « Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è nel mezzo » (2 ). Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia, che si sviluppò dopo il crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione, vale a dire allor quando considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria. Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è solo il principio base della critica rivoluzionaria, è anche l'elemento unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di princípi: allo Stato si sostituisce la setta: all'ordine costituzionale l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato: al diritto codificato le norme del partito. Moderatismo significa: libertà nella legge, i partiti nello Stato e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile, garanzia nel diritto. Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua conce zione, è cosa da studiarsi in seguito (1 ). La rivoluzione del '99, che per il Cuoco è veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti, nella stessa degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue aspirazioni. Egli, che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la fonte d'ogni pedagogia poli litica scrive: « La storia di una rivoluzione non è tanto storià dei fatti quanto delle idee » (2 ). Conoscere il corso delle idee nella storia significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette di evitare ogni errore poli tico. Gli errori di Napoli? Denudiamo la realtà dai fron zoli della retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza, perchè gli uomini, gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un esperimento di terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno. « Il terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall'esser diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che, non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo (1 ) Questa fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a sufficienza dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII, p. 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo indistintamente cat tivi e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è più vicino all'impero; lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è molto facile » (1 ). Il Cuoco non lo dice, ma lo pensa: i governi deboli sono i più inclini all'abuso costituzionale, al terrorismo di Stato. Tutte le considerazioni, che lo storico trae dai fatti, convergono verso uno scioglimento, che ci appare fatal mente consequenziario. L'estremismo terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi a cadere, si mostrò più d'ogni altro sistema inutile. Il tribunale rivoluzionario, che si macchid del sangue dei Baccher (2 ), non salvò la repub blica pericolante. Stringiamo le fila della trama, che siamo venuti dise gnando, portiamoci col pensiero di nuovo alla critica del l'opera governativa, alla génesi della repubblica, all'azione legislativa e costituzionale dei rivoluzionari, all'estremi smo di molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il nostro autore scrive sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del Cuoco corre, si può dire precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che non ci ammonisca: ecco un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici niamo agli ultimi ruinosi eventi, non possiamo che dire: era fatale !, sia pure con rimpianto, con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota una mirabile obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il capolavoro; ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai praticamente nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti: la storia si svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi. Ciò non toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione per ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare: è lo storico che è consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa pedagogia non è, però, fuori dall'arte, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII, p. 160. (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112 personalità pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva commozione dello spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione immaginifica, insomma, nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai bene Guido De Ruggiero (1 ) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli avvenimenti; essa non è che raramente la sua empirica e circoscritta soggettività, è più spesso invece la drammatica personificazione del giudizio storico, è quella soggettività superiore dove l'oggettività degli av venimenti e la soggettività dello storico sono fusi in un sol getto ». È insomma il processo creativo della vera storia, che conduce alla vera arte, risolvendo l'empirica personalità, in quell'alta subiettività, che forma l'essenza della storia e dell'arte. La forma precettistica qui non è un elemento estrinseco alla storia, è la gran voce della storia. La critica spietata degli avvenimenti politici lo porta ad accalorarsi per la sua stessa valutazione filoso fica, lo porta a constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte un rimpianto, perchè uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro stima senza uscita, a volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore che discopre un principio sano di vita. Così, dopo una disa mina minuta di idee e di fatti, il Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un dolore profondo romper la glacialità dell'analista: « Tutti i fatti ci conducono sem pre all'idea, la quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano innalzar edificio che fosse durevole » (2 ). Le premesse dello scioglimento sono d'ordine spirituale, sono metodologiche, politiche. I susseguenti errori, mili tari, giuridici, religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono inevitabili. Le truppe repubblicane agiscono in territori infidi, fra popolazioni ostili; i capi sono ine sperti, troppo giovani; i francesi portano aiuti sempre più (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 189. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113 scarsi; al contrario i borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati, sempre più numerosi; le plebi sempre più fa vorevoli ad essi: sono particolari, ma che non possono distogliere il pensiero dal principio sopra espresso, sola ed unica causa della sciagura. Il disastro appare la logica cruda conseguenza di premesse false. Tutto il Saggio ci porta in un mondo di rivoluzione, ove la critica è cruda e precisa, ma ove la simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco possiamo credere che rappresenti nel pensiero italiano quella medesima posizione ideale che Edmund Burke rappresenta in quello inglese. Un raf fronto minuto, particolareggiato tra i due scrittori non è stato fatto. Esso riuscirebbe assai interessante, e po trebbe dimostrare come in ogni lato della vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si faccia in nome d'un ritorno alla tradizione nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il rappresentante tipico dell'italianismo risor gente: il Burke whig, cioè in sostanza liberale, non crede ancora esaurita la missione delle antiche classi storiche, almeno nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di contatto tra i due scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora l'esagerazione dei princípi di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di diritto, dinanzi alla legge, sono uguali, serbano una originaria disugua glianza nel fatto: vi sono i buoni e i cattivi, gli operosi e i parassiti, i borghesi industriosi e i lazzaroni oziosi, gli aristocratici colti e gli aristocratici gaudenti: il governo dello Stato deve essere riserbato ai migliori, cioè ai bor ghesi, e lo vedremo documentato in seguito, poi che questi soli sono maturi. « Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa della libertà diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non distingue più i patrizi dai plebei: perchè dunque vi sono ancora dissensioni tra i plebei ed i pa trizi? Perchè vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi e i moiti: pochi ricchi e molti.poveri, pochi indu striosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti » (.1 ). Se diamo una scorsa ai Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla rivoluzione francese del Burke scaturi scono osservazioni assai consimili, nel senso, che pur am mettendo liberalmente una rotazione di classi, il politico inglese crede ad un ordine sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora una sua propria missione. Certo vi sono differenze tra i due scrittori, ma le analogie sono sempre interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del Burke, il lievito, possiam dire, della grande vita costituzio nale d'Inghilterra è qualche cosa di diverso dalla nobiltà italiana, con la quale parola il molisano indica « un ceto che più non deve esistere, ma che ha esistito finora » (2 ). Ma le nazioni hanno svolgimenti diversi e bisogni spesso opposti: quel, che nell’un paese si chiama con lo stesso nome che nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente diversa, secondo varî elementi. Ma non posso lasciare questo argomento senza notare come lo stesso Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si rifaccia ad una valutazione, nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il liberale Burke nella rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo moderatismo, una ri voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po polo, quale l'inglese, la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica, una rivoluzione che pretende di struggere il passato, anche laddove il passato è il presup posto d’un non disprezzabile presente; uno Stato, che rigetta alcune classi per altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed unica; uno Stato, che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza pensare che si possano utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora energia e sopra tutto hanno quell'esperienza pub blica, che ad altri manca. All'inglese, per cui la vita civile dei popoli è un prodotto graduale d'una evoluzione storica incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una conquista continua, nell'aderenza più completa coi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 100. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille bisogni d'un popolo secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento democratico, valido per tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura ragione, appare veramente ridicola. Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e il Burke non potrebbe essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il Burke è un oratore, un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non risale mai a con siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe coinvolgere non solo la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità, che è di tutti i tempi e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma di volo più robusto, dai particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna alle idee, che hanno un corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un suo sistema, che, collaudato da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè qualcosa di ferreo. Sì, il Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio storico 1 « è un'opera capitale di pensiero storico, la quale, come osserva B. Croce (1 ), tiene in certo modo in Italia, e forse con maggiore altezza filosofica le celebri Riflessioni sulla rivoluzione francese », non fosse altro per la vastità del campo d'osservazione, per il senso vigile, che vi do mina, della storia, come eterno farsi, come eterno divenire dello spirito umano. Della maggiore levatura del moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova sicura e positiva nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il Burke da una critica superiore passa presto all'op posizione sistematica, vedendo pura ribellione, mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove vè sano liberalismo, desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo contenuto entro limiti di saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli sfuggono: il Cuoco, invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come legittime, e le spiega completamente; nega, sì, l'applicazione universale dei princípi da essa desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza della nuova situazione creatasi, dalla (1) B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza ed., 1921, v. I, p. 9 e sgg. 1 116 quale nessun paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere (1 ). Siamo giunti alla fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come quest'opera sia nata, dal punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come sia stata concretata, a noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto non può non essere sommario, incuneato com'è in un più vasto problema: il pensiero politico di Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede, nel Saggio, ma trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del Giornale italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806, dopo il grande successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese (2 ). Il Saggio storico, per chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente dai Frammenti di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta, l'espe rienza. Se la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa: il foggiarsi d'una coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo oppone una veduta moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo detto, dette (1 ) Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri voluzione napoletana le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke? Con ogni probabilità, sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima volta neil' ottobre del 1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del no stro. Nel Saggio stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca evidente e col nome un suo giudizio (II, p. 18 ). Il Cuoco conosce assai bene i princípi costituzionali inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il popolo inglese lo interessa assai, e le scritture d'autori inglesi ha spesso fra le mani e le recensisce nel Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17, 8 febbraio, p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo, pp. 111-12; 1804, n. 54, 5 maggio, pp. 215-216; 1804, n. 58, 12 maggio, p. 228; ecc. ). Che l'opera del Burke, V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo dimostra una re censione (cfr. Giorn. ital., 22 settembre 1804, n. 114, p. 446), ove egli discorre abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione italiana d'una opera estetica del celebre autore in glese, Essay on the Sublime and Beautiful, Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai profonda, prima e dopo la pubblicazione del Saggio. (2 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 34: G. Cogo, op. cit., p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo pensiero politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal punto -di vista artistico. Il Gentile, giudice di alto valore, crede il Rapporto al re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo a parlare in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del Cuoco, crede dunque il Rapporto, insieme con il Saggio storico, « ciò che di più notevole produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99 e il '20 » (1 ). Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera, di cui diciamo, piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente storico, dal 1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce sugli avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni, alle quali si è pervenuto, sono sostanzialmente quelle del nostro autore (2 ). Sembra impossibile che un individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e palpi-. tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata precisione o per la sua sinteticità taci (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 279. (2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit., P: 21 e sgg., ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto abbiamo scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti ci appare inutile, anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto dal RUGGIERI, op. cit., p. 104 e sgg., e dal ROMANO, op. cit., p. 99. 118 tiana, a scatti, nervosa, e pur viva e palpitante (1 ). In un mondo di riflessi e di chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del '99 appariscono scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una mano michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi la trista figura del Vanni, bieco stru (1 ) Anche qui non mancarono i critici. Il GIORDANI, per esempio, in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di scri vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte alcuna di scrivere », osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e l'autorità de' primicomprova che vi è: ed è fra tutte difficilissima: e ben lo notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere, e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè, confermò ». (Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano, Borroni e Scotti, 1856, v. I, p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio ! Del resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il SETTEMBRINI (op. cit., v. III, p. 280) nella sua felice esaltazione del Saggio, come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa triota, « li considera da filosofo, e la sua filosofia non è tutta francese, ma è anche senno italiano, è la sapienza storica di Giambattista Vico e di Mario Pagano », venendo quindi a dire della lingua della grande opera, « nella quale si sente il mesco lamento di due popoli », il francese e l'italiano, prorompe: « Che importa a me di lingua non pura e di francesismi, se io non me ne accorgo perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in quella lingua torbida io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento diuomini e di cose? È la lingua stessa del Filangieri, del Beccaria, del Verri, con qualche cosa di più che viene da un profondo sentimento di dolore. Dopo il 1815 i grammatici s' intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e dissero che gli scrittori del tempo della Rivoluzione furono scorretti di lingua, anzi barbari, anzi senza italianità, e da non leggersi, e da dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli altri fu proscritto da tutte le potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che fu il solo scrittore di pregio che i napoletani ebbero durante la rivoluzione, il solo che in sè stesso raccoglie il senno e la fortuna di un regno ». 119 mento borbonico di reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli dello scrittore civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè stesso; il colore del volto pallido- cinereo, come suole essere il colore degli uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt' i suoi affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar più di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de ' signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! » (1 ). V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello spirito, tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito, v'è la acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce un individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione, attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » (2 ). Ecco come un raffronto, anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento intorno ad Altamura? (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 35. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIII, p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di penetrar nella Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata, bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti a di fendersi; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia; ma finalmente dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacchè gli abitanti ricusarono sem pre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la città fu abbandonata al loro furore; non fu perdonato nè al sesso nè all'età. Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via: Viva la repubblica ! Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue » (1 ). Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e la sua espressione è cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa, è nelle pagine da lui dedicate alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di Cirillo, di Grimaldi, di Caracciolo, di; Carafa, di Conforti, della Fonseca. Alle volte è un episodio che lo scrittore riferisce, un aneddoto, una parola pronunziata: basta, una figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è biografia dell'autore dei Saggi politici che valga le poche righe, che Vincenzo, discepolo riverente, dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco Mario. Il suo nome vale un elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme di Pagano, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183. 121 che vi possano servir di guida per raggiugnere i voli di Vico » (1 ). V'è una grandezza degna di Machiavelli. Insomma il Saggio storico non è solo un monumento di sapienza politica e di grande istoria, ma è ancora un capolavoro d'arte, forse la più grande opera di prosa italiana, che dal Machiavelli al Manzoni si sia scritta. I protagonisti del dramma, e il poeta li coglie in atto, in tutta la loro spiritualità, illuminati da una luce di pen siero, possono sembrare ad alcuno marionette agitate da un triste fato. Non è così ! Gli uomini determinano gli eventi, sono gli operatori della vita civile, dell'orribile rivoluzione; sono essi stessi, poi, che cadono sotto il peso dei loro errori. La loro autonomia così è salva. La storia del Cuoco è storia di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed essere sostituiti con lettere dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì, è vero, poichè l'autore mira alle cose, agli interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i bisogni, gli inte ressi, le cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco politico, che scaccia la personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista, che a tratti nervosi ed icastici scolpisce una figura, anima una creatura umana. Lo storico ab- · braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di quelle idee, sulle quali corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini sono elementi particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non saranno: l'artista, integrando lo storico, anima gli uomini, e di essi e del loro spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico ed artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, L, p. 208. 122 furon investiti, della logica che li governd. Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi, scultorii, quasi danteschi: l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per le cose, come ei diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che giovano più all' istru zione di chi legge. Pure, dove sorgono quelle mozze figure, è tanto il sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la luce in cui le avvolge, che l'opera politica, più che storica, s'anima del patos d'una tragedia » (1 ). Questo giudizio riecheggia con maggior precisione il giu dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi Settembrini (2 ). Il De Sanctis conobbe il Cuoco; se pur non integralmente, conobbe certo il Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il maggior pro satore dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di Giambattista Vico. Del resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più di quel che ci hanno dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di Francesco De Sanctis, è perfetto. (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e sg. (2 ) Luigi SETTEMBRINI. Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco: reazione italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile. - Quarto stato: proletariato. - Milizia. - Liberismo e protezionismo economico. – Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica generale europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. - Giurisdizionalismo. Una illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre dall'atteggiamento di Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e al giacobinismo napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo. Paul Hazard nel suo bel libro La révolution française et les lettres ita liennes, parlando del molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io credo una delle cose migliori che sul nostro sia stata scritta, ponendo in rilievo la sua op posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una reazione culturale dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di poter rinvenire una vera e pro pria opposizione di natura politica (1 ). È un punto non solo storicamente importante, ma anche degno di di (1 ) P: HAZARD, op. 218 e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul Cuoco, che abbiamo detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale, affermazione e giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per respingere, di ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di opportunismo e di particolarismo. Solo risolvendo questo problema, potremo intendere la situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della politica repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello Stato, la sua risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa, tutte questioni che formano la materia del presente capitolo. La critica, che il Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi, democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica, ma anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede un popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura, la propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra. L'opera cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al francesismo dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane, in nome della nostra storia: ben ha fatto l' Hazard, allorchè, sia pure con qualche esagerazione propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta cultura, questa gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto l'atteggiamento mentale di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro coloro che credettero di po tere imporre senza difficoltà gl' immortali princípi con le baionette. Il Saggio storico, che il critico francese de finisce l'esame di coscienza del popolo italiano, è infine la denunzia documentata di un sistema che non va; è la critica senza tregua di un ibridismo politico che la realtà smentisce. La documentazione non potrebbe es sere più sicura e più ricca. E il modo questo di porta la libertà, l'uguaglianza, la fraternità? di farsi amare dalle popolazioni illuse? Il popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta l'indipendenza, e fors'anche l'unità, dall'opera altrui, s'adagia in una troppo beata attesa di 125 ciò che non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi pendenza occorre sapersele conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa grave. Bisogna rendersi degni di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima spiritual mente migliori: divenire prima cittadini in ispirito della gran patria Italia per poi esserlo di fatto. Attendere la libertà come un dono dagli altri? Ohimè ! La libertà, prima di essere libertà civile, è libertà di pensiero, auto nomia di cultura. Possiamo mai essere liberi noi, che prima di essere italiani, vogliamo essere francesi, noi che nelle cose più banali e più grandi, nella foggia del vestire e nell'ordinamento costituzionale, ci allontaniamo sempre più dalla nostra natura per acquistarne un'altra estrin seca? Le nazioni hanno un corso che è unitario e lineare, perchè determinato da un primitivo impulso, che costi tuisce il fondo materiale e morale della loro vita. « Una nazione che si sviluppa da sè acquista una civiltà eguale in tutte le sue parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione » (1 ). Ecco quindi come l'elemento cultu rale si lega intimamente alle fortune politiche di un paese. Una nazione, che imita un'altra, perde ogni com pattezza, ogni omogeneità, ogni ideale coerenza, e non può che restare inferiore al modello, che ha dinanzi, senza considerare che la perdita dell'unità spirituale porta seco fatalmente la perdita dell'unità politica, se questa già c'è, ' o ritarda la sua formazione, se questa manca. « Non può mai esser libero » ammonisce il Cuoco « quel popolo in cui la parte che per la superiorità della sua ra gione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la metà della sua indipendenza » (2 ). A ciò bisogna aggiungere considerazioni d'altra natura. Il Cuoco nel suo stesso fondo culturale è antirepubblicano, antirepubblicano per princípi, che trascendono la sua stessa esperienza politica, la sua prassi civile. Ci obiet (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90, nota. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. 126 teranno: ma la sua partecipazione al moto del '99, par tecipazione (1 ) che oggi al lume della critica storica appare più importante che per l'innanzi non fosse sem brato, come si spiega? È dovere del buon cittadino ser vire la patria, qualunque sia la forma di governo, qua lunque sia il suo reggimento politico. Senza dimenticare che tra i Borbonici malversatori e le nobili figure re pubblicane di Cirillo, di Pagano e di Ciaia Cuoco sapeva fare le opportune distinzioni. Io credo che l'opposizione antirepubblicana e antigia cobina del Cuoco derivi da veri e propri princípi filoso fici, oltre che da pura ostilità pratica, che potrebbe anche essere un fenomeno transeunte. Nei Frammenti di lettere, cioè nel pieno della rivoluzione scriveva che « un re ere ditario..., quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione di esserlo »; e che egli credea « la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » (2 ). A me pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia costituzionale vera e propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo prestabilito. Dall'assoluta ti rannia all'assoluta libertà è un passo, da un eccesso al l'altro eccesso: il punto d'equilibrio, che salva l'unità e la coerenza interiore delle stirpi, è la monarchia costitu zionale. La libertà è un astratto. Bisogna che il popolo se ne renda degno, ed abbia nello stesso tempo un inte resse nella libertà, in quanto questa effettivamente mi gliori la convivenza civile. Bisogna in sostanza che il popolo sia maturo per le conquiste rivoluzionarie, e com prenda: se non è così, gli stessi più alti benefíci si con vertono in pericoli. È matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa per l'assoluta libertà, per la repubblica? È matura Napoli per accogliere ordini rivoluzionari? La risposta (1 ) Alludo alla preparazione del moto insurrezionale in Avi. gliano, all'opera repubblicana che il nostro preparò in Basili cata. Questa attività cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri: il primo che l'ha studiata e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit., p. 19 e sgg. (2 ) Framm. III, p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora bisogno d'una guida, hanno bisogno d'una forza, che li tenga costretti nei limiti d'una volontà generale, pur contemperando questa con una maggior autonomia delle volontà parti colari o individuali. Questi sono gli ordini costituzionali. Gli ordini giacobini sono costituzionali a parole, in realtà sono anarchici, libertari. La saggezza dei popoli è ancora da ritrovarsi: i popoli sono ancora più fantasia e mito, senso e leggenda anzi che pensiero ed intelletto: i gover nanti mostrano di non avere intesa questa complessa e primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno d'un in telletto, che li guidi ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia nel significato vichiano, non possono esercitare, la volontà dell'intelletto. « Un sovrano saggio sul trono » scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo saggio ne' comizi » (1). Notiamo che il Cuoco scriveva queste righe, quando l'astro di Napoleone non brillava ancora di pura luce, di tutta la luce grande che doveva poi spiegare, quando egli scrivendo non poteva menomamente pen sare che dalle repubbliche di Francia e d'Italia doveva svolgersi il consolato, l'impero. Il Cuoco ci appare dunque coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una sua frase ti pica, sono eterni. In Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente tutto il suo grande ideale. Nessuno potrà accusarlo di particolarismo, d'amore per il suo parti culare. Ora nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre cisamente la negazione di tutto il suo sistema politico, l'astrattismo formulante vuoti schemi per chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni naturali; la democra (1) Framm. III, p. 242. Quanto quei sentimenti siano ra dicati nel Cuoco puoi vedere leggendo i suoi articoli su pro blemi politici: in particolare cfr. Giorn. ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; p. 260, p. 264; 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 26-28. Nel Platone in Italia, v. I, p. 142 e sgg., riconferma il suo pensiero, « riafferma », come scrive il ROMANO, op. cit., p. 85, « la sua fiducia in ungoverno misto, temperato, tra la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia ». 128 zia universale, che cerca di sovrapporsi a popoli, diversi di coltura e di interessi, per costringerli ad accettare un governo monotono uguale; la volontà generale, che cozza con le volontà singole; un pazzo alternarsi d'anar chismo e di tirannia. Che cosa è mai questa benedetta libertà, che i francesi portano? È la più sfacciata tirannia. Essere libero signi fica adattarsi al metodo, all'andazzo giacobino; se no, guai a chi si oppone: le baionette strappano il consenso liberamente mancato. La libertà imposta non è più li bertà, cioè libero volere, libera determinazione. La libertà data dalle repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più dura che non la libertà data dai re. Sembra un paradosso, ma è così. Le repubbliche sono infatuate dai loro prin cípi, e credono che tutti siano desiderosi di comparteci parne, e quando li vedono ripudiati, li impongono, poi che non vedono bene e felicità fuori di essi. L'antifrancesismo, dunque, di Vincenzo Cuoco real mente ha radici profonde in questioni di metodo e di po litica. Il Cuoco non è un repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali, che sintetizzino l'indirizzo potente mente unitario dello Stato con le volontà autonome delle popolazioni. Queste considerazioni di natura generale possono spie garci vari punti della biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero destinati a rimanere senza delucidazioni; pos sono darci la ragione della scarsa sua partecipazione alla rivoluzione partenopea, la ragione forse della sua sal vezza dopo la prigionia borbonica, la ragione del suo iso lamento a Milano prima che un nuovo ordine un po' più schiettamente italiano e meno repubblicano non venga a costituirsi; questioni, assai gravi, come ognun vede, ma che acquistano maggior luce, se le si riconducono ai princípi, che sopra abbiamo accennato. Il pensatore, che, criticando il progetto di costituzione del Pagano, scriveva a Vincenzio Russo amaramente ed ironicamente nello stesso tempo: « Oh ! perdona. Non mi ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede possibile in un es 129 sere finito una perfettibilità infinita »; il pensatore, che così ironicamente pungeva l'amico, è lo stesso uomo, che oggi a Milano esule ricorda a un suo intimo il suo co stante odio contro i Galli (1 ). « Non ti pare che io era profeta » scrive « quando in faccia a Scipione Lamarra (generale e carceriere dei repubblicani del 1799 ) mi dissi cisalpino? E profeta anche più grande, quando diceva tanto male dei francesi? Eccomi dunque cisalpino, per chè in Milano, ed odiator de'Galli, quale lo era nel '93, nel '94, nel '95, nel '96, nel '97, nel '98 e finalmente in Capua nel '99. I miei sentimenti sono eterni. » Il Cuoco ci appare come il più genuino rappresentante di un pensiero politico in tutte le sue manifestazioni in an titesi col pensiero e con la prassi politica francese. Il suo spirito storico e pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore profondo delle leggi, che governano il corso delle nazioni, al Machiavelli, che dai fatti trae le norme della vita pubblica, al Montesquieu, il più acuto studioso della natura delle leggi e della loro conformazione ai bisogni fisici e spirituali de' popoli. Nel Saggio, ricordiamo, dopo avere analizzato quanto la rivoluzione era lontana dalla vita italiana e napoletana, quanto i bisogni nostri eran, diversi da quelli francesi, quanto i nuovi princípi erano astrusi, scrive delle righe assai importanti per una com prensione del suo pensiero. « La scuola delle scienze mo rali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua mente delle idee di Macchiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva nè prestar fede alle pro messe nè applaudire alle operazioni de ' rivoluzionari di | Francia, tostochè abbandonarono le idee della monar chia costituzionale » (2 ). Ecco, l'opposizione politica di viene una vera e propria reazione culturale in nome del l'italianismo. Non mi sembra più il caso ora di dubitare circa la po (1 ) La lettera che segue, pubblicata per primo da M. Ro MANO, op. cit., p. 269, in parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE, Studi vichiani, p. 350. (2 ). V. Cuoco, Saggio storico] sizione del Cuoco di fronte alla rivoluzione. Il Cuoco non è repubblicano, è monarchico costituzionale. Il Cuoco è antifrancese perchè è troppo profondamente italiano. La posizione non potrebbe essere più chiara. Questa rinnovata posizione di critica non conduce però Vincenzo ad un isolamento politico totale. Egli s'oppone ad uno stato di cose profondamente radicato nella vita contemporanea, ma crede suo dovere agire, operare in un mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli italiani quanto essi siano in errore, ripudiando la loro essenza per una natura estrinseca. Come nel '99 egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale indipendente, da fondarsi subito dopo la partenza dei Borboni, prima del l'ingresso dei francesi, d'una repubblica nazionale, non soggetta ad alcun influsso estraneo, che sapesse intendere la natura del popolo, e su questo solo trovasse la base d'ogni suo operare, rendendolo partecipe ed interessato, non seppe, non potè abbandonare i suoi generosi compa gni per problemi e dissensi di carattere teorico, e si senti travolto in quel vortice che pur non amava; così oggi, a Milano, ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà italica, egli è al suo posto di combattimento, assertore infaticabile delle più pure idealità nazionali. La vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie gamento non è lineare uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti: una affermazione è implicita nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione francese, che nega la storia, è nella storia, e afferma la storia. Tutto il movi mento post -rivoluzionario, in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno stesso getto, con la rivoluzione. L'illumini smo afferma l'assoluto della ragione e da questa desume formule e princípi ad informarne la vita. Il nuovo pen siero trova il fondamento di tutto nello spirito, che è in sè e fuori di se, istoria e natura, sviluppo continuo, pro duttività infinita, principio attivo. Il Fichte in Germania in parte è ancora nella rivoluzione; lo Schelling e l'Hegel, e con essi tutto il movimento storicista nella politica e nel diritto, sono già fuori dalla rivoluzione. La filosofia della rivoluzione non aveva prodotto un vero sistema costitu 131 zionale, aveva ondeggiato tra troppo opposti princípi, per finire ad uno Stato, il cui contenuto etico era e non era. La nuova filosofia riconsacra nella natura lo spirito, e lo spirito sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La fatale necessaria evoluzione dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra, diciamo pur così, tutto sè stesso. Chi dice Stato dice realtà ed ideale, autorità e libertà, forza e consenso. È la reazione dello Schelling e dell’Hegel alla rivoluzione. È la stessa reazione, ma anticipata, di altri filosofi della restaurazione. In Italia questa reazione, che però è una rivalutazione dello Stato monarchico nel suo contenuto etico, è fatta da Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella repubblica cisalpina e poi nel regno italico, la rivoluzione muore, depone il berretto frigio, lascia il posto allo Stato, come manifestazione ultima d'un processo etico, in cui la libertà è nel con senso, l'unitarietà nella forza. Pochi hanno notato l'importanza del molisano, come rivendicatore del principio monarchico. Si è detto che egli è il primo, che si faccia araldo del problema unitario in quanto problema spirituale e pedagogico; ma si è dimenticato che nel suo pensiero il fine della rinascita morale è una unità, che non può ottenersi che nella mo narchia. Affermazione questa, notiamo, che non implica alcun assoluto politico, ma che è la risultante di mere contingenze storiche, di una vera impreparazione popo lare a più ampie libertà, da studiarsi, dunque, nell'am biente, in cui e per cui il Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico, che deve condurre all'unità, è un processo nulla affatto rivoluzionario, anzi evolutivo. Mentre in Germania questa rivalutazione è posteriore: alla rivoluzione, mentre in Germania il Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla nazione tedesca, scrive il suo Con tributo alla rettificazione dei giudizi del pubblico sulla ri voluzione francese, che non può non essere, nel grave incendio sovvertitore, una partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto il movimento, ed insieme una loro legittimazione; in Italia lo spirito nazionale nasce nella stessa rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci 132 ficamente italiana ad una forma vuota ed estrinseca che le si vuol sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la creatura di genio, che impersona in sè tutto il nuovo ordine di cose, che sorge dalla rivoluzione e alla rivoluzione s'op pone, ordine di cose che il pensatore ha previsto sin dai primi bagliori dell ' incendio giacobino. Le prime pagine del Saggio storico, la Lettera dell'autore all'amico N. 0., la Prefazione alla seconda edizione sono la conferma di tutto ciò, che siamo venuti faticosamente esplicando fin qui. In questi scritti la figura del gran capitano è esal tata: ma, se leggiamo profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine di cose e i nuovi princípi ci vili, che affiorano nella politica generale di Francia. Il Cuoco, dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era stato spettatore, si rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli avvenimenti, che nel breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato nella sua patria: il regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista d'Italia, un monarca debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e stabilirsi quando meno la si attende, i fati combattere la buona causa, e poi gli er rori e il crollo; rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il piacere di chi, essendo stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire, nascente sulle contrad dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il profeta di Napoleone. « Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla seconda edizione del Saggio storico « che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti dei quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione. Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha confermate le antecedenti mie osservazioni » (1 ). La storia ha uno'svi luppo che non falla: lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli uomini che brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe sopra citate (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8. 133 la soddisfazione dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge. « Io ho il vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli [Napoleone] posteriormente ha fatte; ed, in tempi nei quali tutt' i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giu stizia, e che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che gl ' iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritto al mio amico Russo sul pro-. getto di costituzione composto dall'illustre e sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quelli ordini che allora credevansi costituzionali non eran che anarchici » (1 ). V'è qui tutta la spiegazione della nuova situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente partecipe. La rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non amava, al quale s ' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che per esaltare, più per negare che per affermare: libertà, fra ternità, vane parole; virtù e gloria: parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo. Il regno d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove la prassi politica è ispirata al concreto, al benes sere delle genti, è ispirata ad un principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura delimitazione tra volontà generale e volontà particolari, tra governo ed individuo, in una nuova visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito come sublimazione dello spi rito, come forza e consenso, e quindi come autorità e libertà. Il Cuoco dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi osserva una realtà, a lungo deside rata, finalmente concretata nella politica generale euro (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non nell'atteggiamento dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è voluto dipingere il nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante, ma coloro, che hanno sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero gli scritti del molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e continua visione d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli tica. Il Cuoco è l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in Bonaparte vede l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute formando, di libe ralismo, di moderazione, d'equilibrio. Come sorgono quegli uomini, che per il volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che l'espressione d'una fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle nature umane? « La mania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perchè non attacca la volontà generale, ma la volontà individuale. Sapete allora perchè si segue un usurpatore? Perchè rallenta il vigore delle leggi; perchè non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontà sua, la quale prende il luogo ed il nome di volontà generale, e lascia tutti gli altri alla volontà in dividuale del popolo. Idque apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars servitutis esset. Strano carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio di dar loro sover chia libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro gli stessi loro liberatori » (1). L'usurpatore ha una ragione di essere nella stessa esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche, lascia pochi oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche nel l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia, dall'eccesso d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o volontà subiettiva, all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in una vo lontà generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente l'equilibrio, che nelle ere primitive è nella forza, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96. 135 nelle ere evolute nel consenso. Il giacobinismo, esaltando sè stesso, parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica. Napoleone è il rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto che il potere, che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la delimitazione sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso cattivo: quand'esso, anzi, è saldo sicuro, può anche essere umano e temperato. È carattere pro prio dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i sovrani, potenti su basi di consenso e di forza, non possono che essere equanimi, larghi, liberali. Tutta la logica storica cuochiana porta alla monarchia: la monarchia, date le condizioni dei tempi e degli uomini, è la migliore forma di governo. Napoleone, ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad essa si oppone. Il Cuoco stesso ha la lucida intuizione che al sistema giacobino si è sostituito un sistema nuovo su nuove basi. Ciò non pertanto egli, ingegno superiore sto rico, portato a valutare le conseguenze ultime della ri voluzione, di fronte al nuovo reggimento instaurato, sa trovare i benefíci che da questa sono scaturiti insoppri mibilmente per l'uman genere. L'articolo Varietà (1 ) che il molisano pubblicò nel suo Giornale italiano, i primi giorni del 1805, è un vero e proprio esame di coscienza, dinanzi alla nuova situazione politica, che trova le sue origini, pur negandole, nella rivoluzione. Col nuovo anno che si apre Vincenzo Cuoco s'arresta e guarda indietro: molti mali da un lato, molti beni dall'altro: nonostante i grandi errori, le grandi deficienze, si può notare un progressivo cammino sulla via della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa grandi progressi verso un ordine migliore. « In Francia nell'anno scorso le opinioni sono diventate più concordi, gli ordini più regolari. Le idee di rivolu- · (1 ) Giorn. ital., 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 27-28: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 134-144 col titolo La rivoluzione francese e l'Europa). 136 zione, divenute una volta estreme, han fatto avverare il detto di Mirabeau che l ' esaltazione de' princípi altro non è che la distruzione de' princípi. Ma, incominciando tali idee a retrocedere dal 1795, non potevano arrestarsi se non giunte ad una forma di ordine regolare. Imper ciocchè ciascun costume richiede una forma di governo, e ciascun governo ha in sé talune parti essenziali, senza le quali, invece di costituzioni, si hanno que' mostri po litici, i quali soglion aver la vita di un almanacco. Possono sembrar sublimi agli occhi de’ mezzo- sapienti, ma sem brerebbero comici agli occhi de' sapienti veri, se l'espe rimento de medesimi non costasse tanto all'umanità. Ri conosciuta una volta necessaria la concentrazione del potere, è indispensabile renderlo ereditario; altrimenti sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue guerre ci vili. Esempio ne sia la Polonia. Nè vale il dare al primo magistrato il diritto di nominar il suo successore, poichè l'esempio di Roma antica e della Russia ben dimostrano che questo ordine di successione non basta a render lo Stato sicuro dai tristi effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta il potere ereditario, è necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori della dignità, perchè queste accrescon la forza della opinione, e la forza delle opinioni serve a risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai far abuso senza pericolo. Un governo, il quale non ha per sè la forza dell'opinione, si chiami pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un governo militare, il pessimo di tutti. Un governo, il quale, avendo già tutto il potere, procura di fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di sua natura teocratica, tende a cangiarsi da governo militare in governo civile. « Tale è l'ordine delle cose, immutabile, eterno. L'ar restarsi dopo una rivoluzione in mezzo a questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una rivoluzione per in cominciarne un'altra ». Come ognun vede, il pensiero di Vincenzo Cuoco, nella sua limpidezza, non lascia dubbio alcuno. Il nuovo or dine costituito, cioè Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua ragion d'essere nella negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne' bisogni dei popoli di trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di destra e di sinistra in quel consenso, che nel mondo moderno solo può fortificare i governi. In Napo leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine civile, ma non vuol vedere, nello stesso tempo, il militare, il con quistatore. Il governo militare, che si erige sulle baio nette, gli ripugna: non per nulla egli ha parteggiato nel '99 per la repubblica, ha salutato con letizia la partenza dei borbonici dalla sua Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa pubblica e la direzione dello Stato, deve avere seco la forza del consenso, e da questa derivare la forza delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi litare, che, come dice il nostro autore, è il peggiore dei governi, come quello, che, essendo odiato, sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini, rinnega le esigenze, i bi sogni, gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del Cuoco non è nè lo Stato paterno, di polizia del Wolff, nè lo Stato rivoluzionario, che pone un limite insuperabile alla sua autorità in una visione anarchica dei diritti subiettivi. Nello Stato del Cuoco confluiscono vari e complessi ele menti, dal Rousseau al Vico, dal Montesquieu ad Aristo tele. Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che è Stato di diritto, che importa e riposa su un contratto sociale, non storico ma immanente alla vita stessa dello Stato, sin tesi di attività e di diritti singolari, Stato infine che non pud agire che sub specie juris, nella forma del diritto, in quanto il diritto stesso, nella sua natura generale, è alla fine riaffermazione e consacrazione delle libere vo lontà particolari, che lo costituiscono. Il molisano è ugual mente lontano dalle esagerazioni rivoluzionarie, che egli stesso definì anarchiche e non costituzionali, come dalle affermazioni di coloro, che in Napoleone avrebbero vo luto il signore dei gratia, superiore ad ogni volontà na zionale. Egli, ingegno storico, sente che tra Napoleone e il regime assoluto c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si può nè politicamente ne teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel giusto mezzo, e ci dà un con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni aspetti al 138 Rousseau e al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la teorica kantiana, sebbene il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per seconda mano che per let tura diretta (1 ). Il Cuoco afferma in sostanza la monar chia liberale moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il consenso e l'autonomia (2). Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il Cuoco, sono discordi: è fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo una rivoluzione, e gli uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la maledicono. Perchè l'equilibrio si ristabilisca, è necessario che sorga un or dine nuovo tra le varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto, diverso dal nuovo che si desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono anche nel Platone. Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo sotto l'aspetto politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo facilmente la conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della coerenza cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali; il tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza; onde avviene che tra le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti ». La moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè « noi cresciamo andando avanti; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto; ma non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna mai » (3 ). Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che (1 ) G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, p. 377. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 81 e sgg. (3) M. ROMANO, op. cit., p. 84. 139 non è stato Bonaparte a distruggerlo: sono stati essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà. « Ai parteggiani della libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è stata interamente inutile. Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale, e, quando anche si volesse credere che questa non sia ancora per fetta, si è sempre ottenuto molto avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del tempo e non di sistemi. Quali sono le parti loro più belle? le più rispettate. E quali le più rispettate? le più antiche. Quindi due ve rità: 1° Per ottenere una buona costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico addentellato al quale attac carla. 2 ° Per giudicare di una costituzione è necessario il tempo, perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del popolo, ancorchè sien ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi, che formano il governo, di ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti anche in faccia al governo; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è sempre un gran bene per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le costituzioni della Re pubblica; che si parli di libertà civile, di libertà di per sone, di libertà di stampa; che vi sien delle magistrature incaricate di vegliare alla loro custodia; che vi siano delle assemblee nelle quali si riuniscano i migliori di cia scun dipartimento e di ciascun cantone per proporre ciò che credon più utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han prodotti finora molti beni e ne produrranno ancora. In ogni caso, la religione è stata per sempre riu nita allo Stato col vincolo della tolleranza; la feudalità è stata abolita per sempre, e, quando anche risorgesse un patriziato, potrebbe esser quello de'greci e de ' romani, eccitator di grandi azioni e non già oppressore de'grandi ingegni; è stata aperta libera e larga la via della gloria ad ogni specie di merito; non vi saranno più le dispute e le persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti; non vi sarà più la funesta distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a pagare e soffrir tutto e a non aver mai nulla; le imposizioni saranno ripartite egualmente fra tutti; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le persone 140 della stessa classe. Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si perderanno più, e questi vantaggi non sono mica pic cioli ». Tutta la filosofia cuochiana è rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si afferma dopo turbamenti generali, questo si presenti come una pana cea di tutti i mali, e temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso: spazza via l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue, d'armi; distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione; sgomina l'anarchia, e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha la sua impor tanza; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso. Il nuovo reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole dopo una rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno per non dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato soppresso. Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è classico e moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso tempo che afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza il costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione. Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto di vista. Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in atto, e di essa era la critica spietata e fiera. Ma la rivoluzione ha prodotto, ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha instaurato uno novello. La realtà storica è quello che è, s ' impone senza rimedio. È possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione? Il Cuoco risponde di no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia e in Francia, e in certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità, ha riattivata la vita de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141 rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo derazione sia de' governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è stata, e non si ritorna indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso, occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai soddisfare [ i reclami dei popoli]. Con una savia moderazione, invece di rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili riforme ». Il ritornare oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco: ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme più varie. Altrove scrive: « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo stesso » (1 ). La storia non si supera a ritroso. Ri tornando allo scritto, di cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle nuove forze (1) Giorn. ital., 1804; 11, 23, 30 luglio, 1, 11 agosto; n. 87, 88, 91, 92, 96; pp. 350-351, pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394: Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 28-43 sotto il titolo Il sistema politico europeo al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato. « Facciam ritornare in campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo? Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più impotente nel bene, più sospettoso e più crudele nel male; divisione tra i vari rami del potere medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile; l ' in certezza dei principi, onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai prepotenti. Nell'esterno, da una parte l'ambizione, che prende le apparenze di democratiz zazione universale e diventa tanto più terribile quanto che alla forza delle armi riunisce quella delle opinioni; dall'altra, il timore e sospetto; dall'una e dall'altra, minacce, tradimenti, inganni di popoli e di re, guerre interminabili e feroci ». Il quadro è fosco: è impossibile ritornare ai princípi puri della rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del regime prerivoluzionario: il separamento è inderogabile. 142 ((umane espresse dal capovolgimento rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante, che da tre secoli in qua (anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ), tutti gli Stati dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del numero, dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che chiamavasi in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato. Quelli tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie, dall'ignoranza, dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato. Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo terzo stato più oppresso: l'oligarchica Venezia, la Polonia. Quei popoli soffrirono rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu distrutto ne ottenne giustizia.... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di oppressione è uno stato di guerra. Uno de' due: o convien che la classe predominante distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i vantaggi della vita civile. Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne, perchè agli estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie loro, come diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni interne, avrà debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore del primo che vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia; e perchè non direm noi che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità? Nel secondo caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà più durevole la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo non avrà alcun motivo di doglianza;, ed, essendo la nazione piena d'amor di patria e di orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i quali vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri ». Il terzo stato, la borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione, che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la cosa pubblica. E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe, in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa » scrive il nostro in un altro suo articolo (1 ) che adduco a conferma di quanto vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di struttiva e più illustre: a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi, gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà diventerà la base di tutte le costituzioni: quella proprietà che sola può tener uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle funeste commozioni del l'oclocrazia, perchè nè lo priva dell'opera di molti, i quali possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno; nè, dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura delle cose che ha comandata questa differenza: i romani non aveano altra industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di quelli necessari a vincere i loro vicini. T (1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16, 18, 30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp. 22-23, p. 27, pp. 30-31, p. 51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema politico europeo al principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo cuochiano da noi già accennato, Politica. 144 « Io non nego che le varie circostanze, nelle quali potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie molte modificazioni; ma la massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il migliore de' governi, diceva Aristotele, è quello in cui governano i migliori; e, siccome essi non si potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il migliore dei governi è quello in cui preponderano tutte quelle classi, nelle quali per l'ordinario si ritrovano gli uomini migliori ». L'aristocrazia nuova, di cui l'autore nostro discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la borghesia. Questa classe, che è la più numerosa, in quanto classe aperta a tutti, in quanto esprime la forza di coloro, che si sono potuti sollevare dalle masse, dal proletariato, dal l'artigianato, per darsi all'industria ed agli studi, ha di nanzi a sè un vasto cammino da compiere, è destinata, ove non lo sia già, ad essere la classe dirigente. Ritornando allo scritto sulla rivoluzione francese e i suoi effetti, dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri troveremo sempre le stesse idee. « Il gran generale osserva il Cuoco « il profondo ministro sono uomini rari. Chi s ' impone la legge di ricercarli tra dieci, li troverà più difficilmente di colui il quale li ricerca tra mille, tra tutto il popolo.... »). Ma non bisogna abusare; la rivoluzione francese aprì la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco antigiacobino, l'odia tore de ' princípi esaltati, della democratizzazione uni versale. « Si obliò la profonda osservazione di Aristotele, il quale avea detto che l ' ottimo de ' governi era quello in cui predominavan gli ottimi, ma che questi ottimi non si dovean nè si potevan ricercare individualmente, bensì doveansi ricercare per classe; che vi era in ogni Stato una classe di ottimi, e che questa era composta di co loro i quali non fossero nè corrotti per eccessiva ric chezza né avviliti per soverchia povertà. Quindi la pro prietà, nella nuova forma di governo, è divenuta con ragione base delle costituzioni. Alla proprietà è ben af fidata la custodia delle leggi: i proprietari, dice lo stesso 145 Aristotele, sono i più atti a tal fine; e come no, se le leggi son tutte fatte per difendere i proprietari? Ove però non si tratta di custodire ma di agire, ove non basta la volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario sostituire alla semplice proprietà l’educazione; che val quanto dire mettere il merito personale nella stessa linea della pro prietà. Quella parte di popolo, dice lo stesso Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione; sarà su bordinata se sarà contenta: è un gravissimo errore darle tutto e non darle nulla ». A me sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal Cuoco in migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli istituti, gli ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il diritto stesso, se non vuoti astratti? Quel che a noi importa non è la forma in sè, che ci appare morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso. Le costituzioni in realtà sono, e con esse tutta la struttura giuridica d’un popolo, in quanto in esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta importa poco, certo qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per via di pura ragione, ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle masse, una classe dirigente, che si fa interprete sicura della società che l'esprime. La storia del diritto, io credo, anzi che studiare morte sovrastrutture, dovrebbe stu diare come classi dirigenti, per natura condizioni coltura [ estensione diverse secondo le varie epoche, possano de terminare tutto un complesso sistema giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia del diritto, studio di strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe nella politica, studio d’un vero contenuto umano, pulsante d'attualità. Ma questo è un problema teoretico, che nel caso nostro importa relativamente, e la di cui formulazio ne, a me sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come ognun vede, la vita moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere tratteggiata in maniera più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà la realtà dello Stato moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano. Una classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è atta a modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello Stato. Lo Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta tico, anzi è il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso è la proprietà. La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha una sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale o commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi. Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che, pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo oltre, anarchico e rivoluzionario. Questo concetto dello Stato borghese, che solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica ed insieme ad una sicura visione storica. Dopo aver soste nuto che la costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma: come si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive « divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a dividere gli interessi. Fate che il po tere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di un altro; non fate che tutti poteri si otten ghino e si conservino nello stesso modo; talune magi strature perpetue, talune elezioni a sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti, e co loro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della repubblica romana il senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (1 ). Se voi vi addentrate nel pensiero dello scrittore, ve drete però che egli, pur disposto a dare alla proprietà la massima importanza tanto da fondare su di essa il sistema politico moderno, non giunge mai a darle una origine metafisica, e quindi a concepirla come un quid di eterno e di immutabile. Ed è naturale: l'origine della proprietà non è in princípi generali filosofici, ma in quel che nell ' uomo è senso, cioè bisogni mutevoli e transe unti. La stessa natura dell'uomo, che vichianamente dà origine alle costituzioni, dà origine alla proprietà, base degli odierni ordini civili. La natura, a cui accenno, non è la natura intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea, tutta senso e fantasia, bisogni ed esteriorità. Quindi teoricamente non è impossibile un sistema costi tuzionale, che prescinda dalla proprietà: resta a vedere come questo sistema risolva il problema economico e pratico della vita, che sempre bisogna aver di mira: lo che, evidentemente, non è facile ! Il titolo della pro prietà !? È un po' arduo trovarlo nella metafisica.... (1 ) Framm. III., p. 247, 148 « Voler ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler distruggere la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non diventa pro prietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica impe riosamente non richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma, perchè gli uomini, dopo i loro bi sogni, nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro maggiori » (1 ). È chiaro ! La pro prietà ha un'origine schiettamente economica, e questa origine posa su un consenso generale, ma storico, cioè null’affatto immutabile ed eterno. Una giustificazione dell'istituto secondo i principi del diritto di natura ap pare a Cuoco poco soddisfacente. Solo i bisogni e gli interessi lo consacrano e lo legittimano: la ragione e la volontà giuridica spiegano, ma non esauriscono il pro blema (2 ) Dato il concetto che Vincenzo Cuoco ha della borghesia, che per lui non è una classe chiusa, capitalistica, oppres siva nel monopolio della vita pubblica, è naturale che egli non parli mai o assai di rado del cosiddetto proleta riato o quarto stato, il quale per altro non ha, ne ' tempi di cui ci occupiamo, una sua fisionomia sociale ed eco nomica. Se il Cuoco vede un quarto stato, lo vede, se mai, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 123 e sg. (2 ) In tutta questa esaltazione della proprietà C., mi sembra, reagisce in parte alla rivoluzione, che nelle sue esagerazioni ha cercato di scrollarla. Lo stesso Russo, l'amico del nostro, non è tenero per i proprietari, e basa il suo sistema su un ele mento comunistico. Io non faccio che rimandare il lettore, che si interessa del problema, allo studio su V. Russo del CROCE (La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. ). Lo stesso Edmund Burke in Inghilterra reagà agli attacchidialcuni giacobini con tro la proprietà, e ne affermò il gran compito sociale: è questo uno de tratti comuni tra l’A. delle Reflections on the French Revolution e l'A. del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli. Il problema, di cui sopra ci siamo occupati, fu studiato da M. ROMANO, op. cit., p. 152, il quale peraltro non si diffuse molto. 149 nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi chia miamo proletariato, ma da questo differisce sotto molte plici aspetti. L'artigiano è libero lavoratore, il prole tario è il salariato della grande industria. La grande industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al tempo in cui il nostro medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza. Le questioni attinenti al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal misura che egli non vi accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale italiano (1 ). Sarebbe pur questo un tema interes santissimo; senonchè, diffondendoci, noi usciremmo dal nostro assunto: tracciare una linea generale e sommaria del pensiero politico di Vincenzo Cuoco. Se con il pensiero noi andiamo agli scrittori politici, che il secolo XIX offre al nostro studio, invano trove remo un quadro così vivo della società post -rivoluzio naria, ed un intuito così immediato dei problemi, che ne agitano la compagine. Basterà che noi riferiamo ciò che il molisano dice intorno ai benefici effetti della rivo luzione, e che sono i capisaldi di tutta la vita successiva, per intendere quanto lungimirante fosse il suo senso po litico e quanto fine la sua visione economica. Un effetto importante del sovvertimento è un progres sivo migliorarsi della morale pubblica. Quanto grande posto il Cuoco faccia alla morale e alla religione nella vita civile de ' popoli è un problema, sul quale dovremo indugiarci dopo. Una seconda conseguenza è « la perfezione della mi lizia, poichè essa non è perfetta se non dove il nome di soldato si alterna con quello di cittadino; e questo non può avvenire se non dove non siano nè esenzioni nè pri vilegi ». Tutto il pensiero della rivoluzione si rivela nella sua intima radice antimilitarista. Perchè? Lo Stato as (1) Giorn. ital., 1804, 6 febbraio, n. 16, p. 64, Economia po litica: a proposito di una cassa filantropica a beneficio degli artigiani; Giorn. ital., 1804, 7 maggio, n. 55, pp. 210-220: Pub blica beneficenza, a proposito della mendicità e dei problemi connessi. 150 solutista era da esso considerato come estrinseco alla volontà dei subietti singoli, come tirannico e nemico: l'esercito nelle sue mani una forza passiva ed antide mocratica. Lo Stato repubblicano, il vero Stato rivo luzionario, alla sua volta, riposa invece su un consenso così largo, da ammettere, ed è un estremo, il diritto alla sommossa, e il consenso così concepito non ha biso gno della forza a suo sussidio (1 ). Il Cuoco naturalmente non può condividere questi princípi. Il suo Stato è stato di diritto, ma per natura tende alla conservazione, e re spinge ogni attacco alla sua compagine anche violente mente. Il contratto sociale, che è alla base della sua co stituzione, non è un contratto storico, ma è immanente alla struttura dello Stato, cioè bisogna riguardarlo come una esigenza ideale ed un presupposto della vita civile stessa. Il Cuoco deriva il principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce di superiori meditazioni vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o le libertà indi viduali (libero volere è libertà ), ma, appunto perchè in ogni momento della sua esistenza è tale, si afferma come autoritario, contro chi rompe o cerca di rompere l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano. Il contratto sociale eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è convergenza di volontà e di diritti particolari, dà allo Stato il diritto generico della difesa e della conservazione. In ciò la filosofia giuridica del Cuoco si differenzia dalla filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni punti di contatto con quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di alcuni pensatori germanici. Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e di suddito, in quanto lo Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà ge nerale, che non ammette peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta sottomissione. In ogni atto giuri (1 ) Notiamo che persino la costituzione inglese ha tolto al re e al potere esecutivo ogni possibilità di disporre della forza armata. Il principio è stato superato durante la guerra, date le condizioni eccezionali, ma resta sempre base degli ordini ci vili dell'isola. 151 dico dello Stato è implicita la volontà generale, la quale volontà generale non permette che alcuno possa evitare la sua autorità. Ecco il principio della forza, che integra il consenso; ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani festazioni sovrane diviene militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di una volontà generale e sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa, sono anche soldati, cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la cui genesi, ripeto, è nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena e sintetica nel monarca, sim bolo della continuità nella vita giuridica e storica della nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la filosofia dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza armata —; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze della vita, è in senso altamente nobile milita ristico. La milizia, sotto i Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani, dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano: « L'anti militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII, permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo; e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche più frequenti e più crudeli » (1 ). Con un governo costituzionale, lo Stato sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per (1 ) M. ROMANO, op. cit., p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti. Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo, allorquando il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale del popolo nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani esercizi bellici. E passiamo ad altro. « Il terzo vantaggio » continua il nostro autore « e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con dannava all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta una volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili, questo farà sì che il primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si reputava paradosso in Francia. L'industria inglese era figlia delle rivoluzioni che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle altre. È un'osservazione costante che, quando le rivoluzioni finiscono in bene, l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno, osservato negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia. L'in dustria, e specialmente agricola, fa grandi progressi, ed i progressi dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale. Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile, diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale; afferma la volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità, ma lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa, s ' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività, che non coinvolga l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti: il commercio, l'industria, la navi gazione, l'agricoltura, l'istruzione, con riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti, non si può dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato sul principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato monopolistico, come quello che mirava ad un utile particolare e non collettivo, di classe e non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante di libere forze individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste attività. Ciò che è, è quanto di meglio si possa concepire. Questi princípi liberali, che noi troviamo sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo, in Giovan Battista Say, ecc. non sono in antitesi notiamo ai principi della filosofia cuochiana, per meata di vichismo. Le nazioni, dice il Cuoco col Vico, le società umane, i popoli sono governati da leggi naturali eterne, che hanno un proprio sviluppo, un proprio spie gamento, dietro un impulso originario ab antiquo. Gli uomini non possono mutare queste leggi, perchè ciò che è dato dalla natura stessa meglio soddisfa le esigenze umane, quindi rappresenta ciò che, date le condizioni sociali e civili, di migliore si possa imaginare. È l'ordine delle cose che determina l'ordine costituzionale, e non la nuda filosofia: è l'ordine delle cose che determina l'or dine economico, e non l'astratta economia. Di ciò ab biamo una prova diretta nel Cuoco. Esiste, secondo il nostro, una vera scienza economica, ma, appunto perchè questa scienza ha una base non dommatica ed apriori stica, ma di fatto e storica, i princípi che la governano sono pochi, di loro natura « tanto semplici e pochi» che « scompagnati dall'esperienza » divengono « incerti e fa cili ad esser corrotti » (1 ). I princípi dell'economia sono (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 89. 154 pochi, perché sono i princípi stessi della natura. La na tura determina l'ordine e lo sviluppo delle cose umane, in tutte le loro conseguenze. Lasciamo operare la natura, e questa condurrà a sviluppi, che sono quanto di meglio si possa immaginare ed operare per predeterminazione umana, ammesso cioè che gli uomini, lasciato da parte ogni intendimento utilitario individuale, mirino apriori sticamente ad un fine utilitario generale. La disarmonia di contrastanti interessi porta all'armonia dell'utilità col lettiva, ad un utile generale, lo stesso che si avrebbe, qua lora gli uomini abbandonassero, ed è mera astrazione, l'egoismo economico nativo, che li porta alla ricerca della soddisfazione maggiore de' propri bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato cuochiano quindi è Stato liberista: il prin cipio però notiamo è tutt'altro che chiaro, e lo stesso no stro autore lo intorbida e spesso lo rinnega. Il legislatore interviene a limitare l'attività economica individuale, solo in quanto quell'attività lasciata a sè stessa, in de terminate circostanze sociali anomali, possa risolversi in un danno collettivo, o in quanto quest'attività indivi duale, nel rimuovere gli ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal lecito giuridico. Il Cuoco è troppo for temente concreto per potere formulare princípi astratti e crederli validi per un'universalità di fatti. I princípi economici, ha detto sono pochi, perchè poche sono le leggi eterne della natura; i casi concreti invece sono molti moltissimi: quindi il principio economico trova nella realtà mille limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri solvere un problema positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo? Questione fino ad un certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni reali può ren dere necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono pur de' casi, come un male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare le libere forze economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di vendere. Or, perchè gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con vantaggio, è necessaria una certa potenza politica nello Stato. È necessaria, perchè possa ottenere dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si otten gono se non quando taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro sua voglia. I popoli, dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano nulla. Se non siete forte, sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete condizioni giuste, ma sarete costretto a soffrirne delle ingiustissime. Come mai il Cuoco, di cui abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza liberista, sembra tradire così i suoi princípi? In realtà, la concretezza del suo pensiero non può permettergli apriorismi nè costituzionali, nè econo miei, ond’ei bene intende quanto necessario sia il prote zionismo in certe contingenze politiche. Non dimenti chiamo, poi, che non si può parlare di liberismo asso luto in un'età, in cui ferve continua la lotta tra la Francia e le coalizioni europee, fra la Francia e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in un'età in cui ogni mezzo politico diviene spietato per vincere economicamente, e le armi del contrasto non sono più la libera concorrenza tra im prese nel campo internazionale, ma il sequestro marit timo, il boicottaggio, il blocco. La realtà dell'èra napo leonica, tragica nel conflitto tra il genio e le forze avverse, impone all' impero il protezionismo. Il Cuoco lo crede ne cessario per evitare danni maggiori, senza però condurre questa tattica positiva a princípi generali e valevoli in eterno. Ma dove il pensiero cuochiano attinge una verità eco nomica di prim'ordine è in un principio, al quale il no stro accenna ne' Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, (1 ) Giorn. ital., a. 1806; 5, 6, 7, 8 gennaio; n. 5, 6, 7, 8; pp. 19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32; Politica: (ristampato in M. ROMANO, op. cit., in Appendice; ed ora negli Scritti vari, v. I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l'Italia ). (2 ) Mi sembra che anche il ROMANO, op. cit., p. 155, creda così. Dopo aver riportato in nota il brano da me sovra ci. tato aggiunge: « Anche qui è palese che il protezionismo del Cuoco non moveva da teoriche astratte, sibbene dall'esame delle condizioni storiche del suo tempo. E che avesse ragione allora.... non è chi non veda », 156 principio, al quale egli stesso non dà alcuna elaborazione, ma in cui è il germe di dottrine, che nella stessa nostra Italia hanno avuto così bello sviluppo. « Una nazione si dirà virtuosa, quando il suo costume sia tale che non renda infelice il cittadino; e se tutte le nazioni potessero essere sagge a segno che, invece di farsi la guerra e di distruggersi a vicenda, si aiutassero, si giovassero, questa sarebbe la virtù del genere umano. Il fine della virtù è la felicità, e la felicità è la soddisfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desidèri e le forze. Ma, siccome queste due quantità sono sempre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio o scemando i desideri o accrescendo le forze. Un uomo, il quale abbia ciò che desidera, non sarà mai ingiusto; perchè naturale e quasichè fisico è in noi quel senti mento di pietà, che ci fa risentire i mali altrui al pari dei nostri, e questo solo sentimento basta a frenare la nostra ingiustizia, sempre che la crediamo inutile. L'uomo selvaggio non cura il suo simile, perchè non gli serve: egli solo basta a soddisfare i suoi bisogni, che son pochi. Debbono crescere i suoi bisogni, perchè si avvegga che un altro uomo gli possa esser utile, ed allora diventa umano. Per un momento nel corso politico delle nazioni le forze dell'uomo saranno superiori ai bisogni suoi; allora que st'uomo sarà anche generoso. Ma questo periodo non dura che poco: i bisogni tornan di nuovo a superar forze; l'uomo crede un altro uomo non solo utile, ma anche necessario: ed allora non si contenta più di averlo per amico, ma vuole averlo anche per schiavo » (1 ). Per il Cuoco la felicità è ciò che con linguaggio più pro prio possiamo dire soddisfazione de' bisogni, possibilità di sfruttare le qualità fisico - chimiche de ' beni, dati de terminati bisogni individuali. L'uomo è felice, cioè sod disfa interamente i suoi bisogni, realizza uno stato di ap (1 ) Framm. VI, p. 262. Errerebbe colui che nel brano citato volesse vedere un abbozzo di morale utilitaria: il problema mo rale ben altrimenti è impostato da V. Cuoco. 157 pagamento, trova un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto tra desideri e forze. La visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni, aggiunge lo scrittore, non sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo dargli il modo d’esplicarsi. « Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il nostro lusso, i no stri capricci, l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti ammireremo, e ti lasceremo solo ». L'economia privata e pubblica dà l'esempio continuo di nuovi bisogni che sorgono, che non trovano soddisfazione che parzialmente, e poi per le mutate condizioni delle produzioni vengono soddisfatti sempre meglio. Il progresso civile è una ca tena ininterrotta di bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate che si sviluppano. Che vale gridare catoniana mente contro le troppo molteplici esigenze della vita moderna? Quel che è non si discute. Passarvi sopra sa rebbe un condannarsi ad una eterna infelicità. L'equi librio tra i desideri e le forze non può mantenersi che per breve tempo, perchè tosto che si realizza, intervengono nuovi bisogni impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è impossibile concepire un vero e proprio equili brio: quel che più ci dà l'idea di questo mondo eco nomico è una serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze preesistenti, tra bisogni nuovi, che dan luogo a nuove domande di beni atti a soddisfarli e lo stato della produ zione, che s'adatta all'oscillazioni delle domande. Qual'è il comportamento naturale dello Stato in tali contin genze? « La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono; e verrà a capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene ». Il Cuoco continua in una esaltazione del lavoro agricolo ed industriale, e in una deplorazione degli impieghi, che chiama pericolosi per chè fomentano le ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla pura indagine economica. L'autore lascia intravedere la possibilità d'un intervento statale in un campo che noi ne 158 vorremmo libero. Ma nel molisano, purtroppo, i concetti economici non sono chiari: il Cuoco indulge troppo spesso a forme d'economia statale, che portano ad un interven tismo e ad un protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte spiegabili come espressioni di circostanze ano male, non hanno mai ragioni scientifiche tali da imporli per una pratica economica generale. Bisogna pur riconoscere che elementi estrinseci interven gono a turbare la mera analisi economica, onde il Cuoco so stiene forme d'economia statale e d'intervento per altre ragioni, nobili e spiegabilissime. Dopo gli studi del RUGGIERI (op. cit., p. 39) e del Cogo sopra tutto (op. 13-23, pp. 59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera statistica Operazioni sul di partimento dell'Agogna anzichè al cittadino Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal frontespizio dell'opera (Dalla tip. Nobile e Tosi, 8. d. ), debba attribuirsi al Cuoco, che la scrisse per incarico dell'amico tutta di suo pugno, sia pure consigliato dal Lizzoli. Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica, p. 107) il Cuoco tratta dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi che da questa specie d'educazione si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi « i servi degli esteri fin che crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha perduto la stima di sè stesso, ha già perduto tre quarti della sua indipendenza. Or questa stima di noi stessi non si perde tanto ammirando i genî che ha prodotto, e le grandi azioni che ha fatte una na zione estera, quanto ammirando di soverchio alcune cose che sono per loro natura indifferenti, e che forse anche sarebbero migliori tra noi, se come nostre non fossero disprezzate. Pochi sono sempre presso qualunque nazione coloro che intendono e pregiano le prime, e questi pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione che impedisce l'abuso dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che ammirano le chincaglierie, i ventagli, le fibbie, i mobili, le stoffe, e che aspettano da Lione, o da Londra il figurino della moda. Tra cento uomini convien trovare cin. quanta donne, e quarantotto altri esseri inferiori alle donne, i quali ragionano così: in Inghilterra le fibbie, i mobili, le scarpe sono migliori delle nostre: dunque gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora tutto è perduto. Le nazioni estere attaccano sempre la parte più numerosa e più debole di un'altra nazione, e l'at taccano per le vie del comodo e del bello; e quindiè che un go verno savio deve procurar sempre di dare alla nazione propria gran facilità di mezzi, onde poter vincere in questa concorrenza, e questa cura deve formar la parte principale della pubblica istru zione ». 159 Abbiamo studiato come il Cuoco concepisca lo Stato, Stato di diritto basato sul consenso e realizzante la sua sovranità nella maggior pienezza, Stato militare e forte; abbiamo anche studiato come questo suo Stato sia in fine lo Stato che egli vede sorgere per opera di Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il teorizzatore di quel tipo di Stato, che alla storia è passato col nome di napoleonico. Abbiamo già dato in parte la giustificazione di ciò che i legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma che per il nostro è lo sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un processo storico: occorre però ritornare sul l'argomento per una più vasta documentazione. La storia non s'interrompe. Il primo console diviene presto imperatore di Francia e poi re d'Italia (1 ). Tutto il movimento spirituale che porta dalla repubblica ita liana al regno italico, trova la sua spiegazione negli scritti cuochiani. Sul Giornale italiano il molisano manda fuori le sue Considerazioni sopra il senato - consulto (2 ), scritto denso di pensiero politico, ove la monarchia napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella natura stessa delle cose, nel corso della storia, che tra due estremismi, la tirannia e l'anarchia, trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità. I contemporanei non possono intendere Napoleone: la sua figura complessa sfugge ad essi, perchè la conside rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui opera e dal quale è determinata, moto storico, che solo la po sterità potrà intendere. Avevamo una repubblica. Come va che dal direttorio, dal consolato decennale, dal conso lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al regno? « Noi diciamo, pieni di stupore: – Come mai ha potuto avvenir questo? — E coloro che ci han preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean predetto (1 ) M. Rosi, op. cit., p. 230 e sgg. (2 ) Giorn. ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; pp. 260, 264: Considerazioni sovra il senato - consulto (ristampato dal Ro MANO, op. cit., in Appendice; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 103-108, col titolo Napoleone imperatore). 160 inevitabile ». L'impero è sorto, perchè tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di tutti i precedenti storici, senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è fatta dal nostro con una lucidità mirabile. La rivoluzione francese, prima di scatenarsi sulle piazze e sui patiboli col terrore, aveva tentato un esperimento costituzionale. Una monarchia moderata sarebbe stata quanto di meglio potea avere in quel momento la Francia. « La rivoluzione scoppiò, perchè era inevitabile. Tutte le idee degli uomini non ebbero allora altro scopo che quello di formare una monarchia costituzionale; ma si errò nel circoscrivere il limite del potere esecutivo, e se ne creò uno troppo debole e troppo poco rispettato ». Si inde bolì costituzionalmente il potere centrale, togliendo così ogni difesa agli stessi ordini civili, aprendo la via alla licenza trionfante. Gli errori in questo campo furono in numerevoli. Il potere legislativo esercitò un predominio eccessivo, inframettenze internazionali, in campi che pra ticamente, se pur non logicamente, spettano all'autorità amministrativa. La forza ' armata fu divisa, parte al re, parte al popolo: la monarchia fu esautorata, ma il paese resto senza presidio alcuno. Il potere esecutivo perse ogni autorità sul legislativo, e si giunse all'assurdo di togliergli parte sia diretta sia indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella decretazione e nella sanzione delle leggi. Si separò ancora interamente il potere esecutivo dal giu diziario, e al re fu vietato l'ultimo residuo d'autorità: il diritto di grazia e d'amnistia, che pur tanto serve a sanare situazioni in via strettamente giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne? La monarchia costituzionale, simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde ». S'immaginò poi la costituzione del 1793. Un altro ec cesso. Per non cedere la Francia il potere esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla stessa conven zione nazionale. « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni potere esecutivo, si può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la guillottina ». « Eravamo giunti all'estremo. Era necessità retroce dere. Si comprese l’errore della riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795, furon di nuovo separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea esser una sola, e che questa dovea dipendere dal governo. Le at tribuzioni della guardia nazionale furono limitate; il co mando della forza armata, il pieno comando, fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che al re ». Come ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso: un estremo porta all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa spontaneo un supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio. La costituzione del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla: la lentezza e la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di comando; l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio; l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del sistema: vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e all'estero. La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in parte. Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale, inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale; il potere fu prolungato per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi; s'evitò ogni ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere amministrativo restituito così alla sua sovranità. Una volta preso questo cammino, le idee andarono fino alla fine: per rendere l'ambizione privata meno nociva, si ebbe il consolato a vita e si diede al console il diritto di nominare il successore. L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata nella storia. V'è perfetta reciprocanza: gli uomini deter minano la storia ed operano per la storia; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono schiavi perchè soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto posteriormente non è che il com pimento di tali istituzioni. L'eredità rende il potere più 11 - F. BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende l'esercizio più dolce; la responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che dal l'eredità potrebbe avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si riuniscono due cose che paiono di loro natura inconciliabili: la libertà e l'impero ». Quand' io ho analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero cuochiano, ho avvertito come da questa critica nasca tutto un sistema politico, di cui la storia è la con sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al punto, in cui ciò che il Cuoco ha preveduto trova la sua realtà e la sua riprova materiale. La storia ha un processo dialet tico eterno, le cui grandi linee approssimativamente si possono cogliere, pur quando l' ineffabilità de' partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha osservato le idee, che sono eterne e non fallano; ha trascurato gli uomini, che brillano un istante ed ingannano, se li si astrae dal corso ideale delle cose: le sue deduzioni fondate sulla natura umana non sono fallite, ed hanno avuto la più piena sicura conferma. Com'ognun vede, siamo giunti a Napoleone attraverso uno spiegarsi logico delle cose. Bonaparte è la risultante di tutta una convergenza d'elementi, che allo storico e al politico acuto non isfuggono, e de ' quali noi abbiamo descritto la natura. Bonaparte è il creatore di quel tipo di Stato, che, pur lasciando il più vasto campo alle atti vità individuali, esercita unitariamente il suo compito sovrano, e, pur riposando consensualmente su un con tratto sociale, in ogni istante vero nella convergenza delle volontà subiettive, sa trovare la sua difesa in una forza attiva che non falla. Un'esperienza rovinosa di frammen tarismo e di debolezza porta all'impero (1 ). Si è avuta troppo lunga pratica d'anarchismo costituzionale, d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa continuare sulla stessa strada. I popoli non possono prosperare, quando gli or dini civili non rispondono alla vita stessa. La vita è vo lontà unitaria; lo Stato è sovranità, cioè estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla base d'ogni atti (1 ) V. FIORINI (F. LEMMI, op. cit., p. 619. 163 vità umana coordinata in società. Ogni menomazione del principio porta all'anarchia. Le costituzioni debbono ri spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili, senza le quali gli organismi sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è osservare come ugualmente nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di altre figure in signi di capitani e di uomini eletti, il duca Valentino, Cromwell. Mi si permetta la parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni che illuminano direttamente il nostro argomento. In uno scritto (1 ) il molisano immagina che un suo amico possegga un manoscritto antico, descrivente un viaggio per l'Italia nel secolo di Leone X, secolo aureo e grande nella sua pura italianità: dall'opera egli desume un collo quio tra l'anonimo autore e il Machiavelli. Non istard qui a riferire il dialogo, che si svolge animato e profondo di politica, tra i due, nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione di quell'atteggiamento del grande fiorentino, che i secoli hanno battezzato con l'epiteto di machiavel lismo. L'Anonimo' nota al Machiavelli che il mondo lo accusa d'avere insegnato massime di tirannia ai Medici e di avere presi per suoi modelli uomini scellerati, Ca struccio e il Valentino. Alla prima obiezione il Machia velli risponde che egli tanto poco è stato fautore dei signori della sua città, che questi al contrario lo han per seguitato come troppo caldo fautore della libertà della patria; alla seconda obiezione oppone un ragionamento assai acuto, sul quale merita fermarvisici un po '. « Ascolta. Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua Vita, non ebbi altro pensiero che quello di ridestar gli animi degl'italiani, inviliti tra l’ozio e la cura de' cani, della caccia, delle donne e dei buffoni, all'amor delle cose militari, mostrando loro coll' esempio di un uomo illu stre che per questa sola via si può ascendere alla gloria e all'impero.... ». (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 42-52 sotto il titolo Due frammenti d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca Valentino?... » « Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più scellerati di lui.... Tra tanti scellerati io preferiva quello che almeno dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano. L'Italia non avea altro più da sperare: niuna virtù ne' popoli, niun ordine di milizia. Quei tanti tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la guerra; ma questa guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un sol lievo diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande, sarebbe stato più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del nuovo impero. Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza crudeltà. L'Italia avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe incominciato ad avere anche la virtù.... ». Il pensiero del Cuoco è chiaro. La giustificazione del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva questi mezzi, e da essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per iscopo di realizzare la sua personalità, non po teva non agire in quella maniera. Oggi la storia è cam biata. Napoleone non è il Valentino; Napoleone è un ambizioso, il nostro autore non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce la gloria alla virtù. Coloro che lo han preceduto sono inetti metafisici, incapaci di portare la nazione ad un fine grande. Qual è la ragione etica e storica, che possa impedire al genio di farsi strada e di trovare nella sua stessa personalità la sanzione del l'impero? Nessuna. Tutte le cose invece additano Na. poleone come il restauratore degli ordini civili sconvolti, come colui, che può dare allo Stato un potente indirizzo unitario È curioso ed interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e legittimi Cromwell. In un articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo, n. 28, pp. 111-12: Considerazioni sul libro in. glese « Uccidere non è assassinare » e sul diritto delle genti (ri stampato in Scritti vari, v. I, pp. 81-85 col titolo L'assassinio politico e le violazioni del diritto delle genti) scrive, a proposito 165 Napoleone ha inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più nobile, il quale sta maggiormente al cuore di Cuoco: egli ha dato all'Italia quell'unità, e in parte quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti pensatori e di tanti martiri della Partenopea. Vedremo, in seguito, quando verremo a parlare della pedagogia e dell'ita lianismo del nostro, come il problema unitario italiano sia anzi tutto un problema spirituale, cioè educativo, e poi un problema politico. Limitiamoci ora a vedere la cosa piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla meglio nel suo intimo. Bene o male s'è costituito nell'Italia settentrionale uno Stato unitario. Quel che al Cuoco interessa è che, nella nostra patria, si cominci a vivere italianamente, a pen sare nazionalisticamente. Altri dirà: il nuovo organismo è accodato al carro di Napoleone ! Che importa ciò, se quest'uomo grande ha di mira il bene comune dell'Italia, sua patria d'origine, e della Francia, sua patria di ele zione. Il nuovo regno non ha con l'Impero' se non quel vincolo di solidarietà reciproca, che lega il benefi cato al benefattore: Napoleone è il pegno tra i due po poli, comune sovrano di due nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così irrimediabilmente antifrancese ora è così strettamente francofilo, incline ad intendere i benefici dell'alleanza e dell'amicizia franco- italiana, fino a ringraziare Iddio, che ha voluto porre Italia e Francia sotto il comune scettro d’un uomo solo? La risposta è implicita in tutto il pensiero politico del no stró scrittore. di un'operetta del colonnello SEXBY, Killing is no murder e dell'attentato contro Napoleone del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla posizione storica del lord protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze degli evangelici, de'puritani, de' livellisti e di tutto quell'infinito numero di sette religiose e politiche, che si agitavano allora in Inghilterra come igra nelli di sabbia quando spira il vento di mezzogiorno ne' deserti dell'Arabia,... era inevitabile che sorgesse finalmente un uomo atto a ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò che è ine. vitabile è sempre il minor male », 166 La Francia, che il Cuoco non ama, è la Francia repub blicana, sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am mannisce ai popoli parole vacue di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e intanto depreda musei archivi bibliote che, saccheggia case private, taglieggia le stesse città che dice d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria, che egli descrive con così foschi colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità. La Francia, che invece esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha ricostituito gli ordini pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi superba della sua rinascita. L’unità che il molisano osserva realizzata nel nuovo Stato è, però, un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che intima. Bisogna dunque operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno salde ed eterne, bisogna formare quel che manca: la coscienza dell'italianità, la volontà unitaria, un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco, pedagogo dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza nazio nale » (1 ). Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di partenza per estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È il gran sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli, temperamento posi tivo, ovunque veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano, per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità. Ma, tutto è fatale necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione istessa fa sì (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in Italia se non per mezzo dell’unione; e questa unione, non essendo più figlia della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto tempo distrutta? » (1 ). La repubblica non fa per noi, come non fa per i francesi: essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa a sè stessa, non potea essere benefica per poi: i suoi rapporti con l'Italia eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua vittoria; ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la sorte d'Italia non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la condizione de' paesi conquistati o dominati dalle repubbliche. Par che la somma delle libertà tutta si concentri entro le mura, e fuori non rimane che l'oppressione. Forse è inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de 'mali non si possa evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni, a quell'ottimo che si chiama con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi in quella mediocrità che forma la base de governi temperati. La Francia, quando ella stessa non avea governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al suo: con promesse, per tutt' i popoli, fallaci, perchè non poteano eseguirsi; per l'Italia, an corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo per vero che i costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme repubblicane, rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli cane l’Italia, il di cui male più grave stava nella divi (1 ) Giorn. ital., 1805, 1, 3, 6 aprile; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul regno d'Italia (ripubblicato in, parte da G. Cogo, op. 134-136; ed ora in Scritti vari, V. I, pp. 149-158). 168 sione, avrebbe potuto mai riunirsi; e se, non riunendosi, poteva acquistar forza e vera indipendenza; e se, senza indipendenza e senza forza, preda del primo che volesse invaderla, avrebbe mai potuto perfezionar gli ordini suoi? ». Ritorniamo alla critica rivoluzionaria di cui abbiamo parlato. Il popolo italiano, pur diviso e suddiviso, ha una sua fisionomia speciale, bisogni propri, antichi ordini na zionali, che non possono mutarsi ed adattarsi ai sistemi nuovi d'oltralpe. Napoleone agisce diversamente: crea in Italia un Regno nuovo e lo pone direttamente sotto il suo scettro, ma nello stesso tempo gli dà, almeno in parte, una certa autonomia governativa, che intenda i bisogni e gli interessi locali, gli dà un esercito proprio, che sol levi lo spirito popolare depresso e lo riabiliti dopo un fiacco passato; gli dà istituzioni, leggi proprie. V'è una politica imperiale, politica estera, amministrazione ge nerale, la stessa in Italia e in Francia, dipendente dalla volontà del monarca. V'è poi una politica locale, diretta alla soddisfazione di esigenze specifiche, che varia da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle popolazioni, che intanto s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni civili, dalle quali sino ad oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento di governo che è avvenuto in Francia, per quanto sia stato necessario ai francesi, si può dire però che sia stato egualmente utile agl'italiani. Di tutti i legami che univan questa a quella non rimane che l'al leanza; alleanza, che, se alla Francia è utile, all'Italia è indispensabile. Il Regno dell'Italia è divenuto proprietà dello stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande uomo del secolo: egli saprà, egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà farlo prosperare. Questo uomo avea già due titoli i più giusti alla sovranità: quello di creatore e di restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del l'Europa gliene dànno un terzo, più giusto di tutti: la necessità di difendere ancora per altro tempo lo Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha questa nazione dei benefíci suoi », 169 H In Italia non si è formato ancora uno spirito pubblico nazionale, una comunione d'idealità, un italianismo in somma. L'unità, che Napoleone ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra ragione che nel suo genio. L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è un as surdo: in Italia non c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e della sua forza. L'unica possibile ri soluzione del problema italiano è quella che la storia ha sancito. Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani, come la convivenza comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa; come essi uniti siano più forti che non separati; come essi abbiano da sperar tutto da un avvenire libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori. I germi di quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la storia non ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è davvero il profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto che ci riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha potuto realizzare in maniera affatto pratica, e, nella sua stessa génesi, estrinseca. Prima però di venire a questo problema, che formerà un capitolo del presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene rale europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune poche insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata storia del secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza di forze politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai interrotto processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po litico, appare, senza dubbio, come una grande questione europea. L'Italia è il centro del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi, il transito tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po sitivo; il paese destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni di predominio commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in quanto nessuna grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio incontrastato sulla penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e commerciali europei. L'unità italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio europeo. Le guerre cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince ranno di questa grande verità: l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile d'un assetto europeo duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto animatore della politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che non amava, la rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza d'indipendenza e di unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina, potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser af fidato se non all'indipendenza italiana; a quell'indipen denza, che tutte le potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella gran lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà vincitore che più sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » (1 ). La visuale politica di Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le grandi nazioni s'impernia sul Mediterraneo: la questione unitaria cessa di essere, come per molti patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra in problemi più complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento, purtroppo, non intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò per virtù naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente dotate. Per lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di importanza limitata. Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese, nell'im presa garibaldina del '60, s'accorge dall'atteggiamento in (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178. 171 glese quanto importante sia il problema meridionale nel gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o minore bontà della politica delle varie nazioni europee, vien giudicata dal Cuoco alla stre gua di questo fine superiore, secondochè abbiano esse più o meno favorito l'equilibrio internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno scritto cuochiano, già innanzi ci tato, assai interessante per la comprensione integrale del suo italianissimo pensiero politico, scritto del quale io darò un largo riassunto, poi che mi sembra che non sia stato considerato dagli studiosi a sufficenza (1 ). L'arti colo, Osservazioni dello stato politico dell'Europa, è una sintesi mirabile delle intime ragioni della storia europea negli ultimi secoli, delle lotte per il predominio, dell'as setto italiano. Lo studio è determinato dalla lotta, che si riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma il Cuoco supera le contingenze politiche e risale a notazioni di ca rattere assai ampio. Nella vita moderna due sono le pietre miliari dello sviluppo storico, il trattato di Westfalia e il trattato di Amiens, i quali segnano come due epoche ben distinte della vita europea, dopo Carlo V. « Quello che si chiama in Europa tempo di pace non è che il tempo della minor guerra possibile. L'equilibrio politico dell'Europa è la causa principale di tutte le guerre e di tutte le paci: gli uomini e le nazioni travagliano con una mano a distrug gerlo e coll' altra a ristabilirlo. Vi sono sempre due na zioni preponderanti, le quali, a calcolo sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed un altro no; e la guerra dura finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra una su periorità tale che sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini della bilancia e faccia nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le potenze, che fino a Westfalia detennero il dominio in Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla pace di (1 ) Giorn. ital., Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (vedi in precedenza, p. 143 ). 172 Westfalia si scoprì la ragione della debolezza spagnuola, a Nimega questa si riconfermò: l'Inghilterra surse a prendere il posto della Spagna nella rivalità con la Francia. Queste le linee sommarie della storia. Vediamo, e qui sta il punto che a noi interessa, quale sia la posizione della Spagna nella vita continentale e quale l'intima ra gione della sua fiacchezza. La Spagna e la Francia erano due nazioni di forze quasi uguali, l'una più grande, l'altra meglio preparata: la Spagna poteva ' trionfare, ma non riuscì. Perché ! La Spagna diventò potente, perché la fortuna delle successioni riunì sotto uno stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le donò l'America, perchè potè guadagnare in un primo tempo gli animi degli italiani divisi, discordi, e contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un dominio enorme, attese più ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo, ad arricchirsi materialmente anzi che moralmente: l'espulsione degli ebrei, le persecuzioni religiose, le dispute teologiche, i governatori rapaci furono le piaghe della sua compagine. La mancata risoluzione del problema italiano, e qui vo glio insistere, fu secondo il Cuoco la causa prima della mancata affermazione della Spagna. « Se la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi un grande Stato, l'avesse fatto, avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo alleato. Ma il fato avea riserbato ad altri tempi l'uomo grande cui era commesso questo disegno. La volle ritenere distruggendola. Montesquieu dice che la ritenne arricchendola: da troppo impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la storia nostra ! Dopo averli impoveriti e spo polati, questi paesi divennero per la Spagna cagioni di spese e non di forza. Difatti la Francia attaccò sempre la Spagna, non già nel centro della monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre, nell'Italia, nelle provincie lon tane, le quali non si potevan difendere per loro stesse, ed i successori de' bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si perdettero inutilmente sulla Mosa e sul Po. La Spagna s ' indebolì per conservar ciò che conservar non poteva ». L'errore politico, causa della rapida decadenza spa 173 gnuola, è il non aver voluto costituire uno Stato d'Italia, libero ma alleato, onde colpire la Francia avversaria da ogni lato; l'errore politico della Spagna sta dunque nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie ame ricane, anzi peggio, perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo grande colto e capace, mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare, tribù selvagge. La politica francese nella lotta per il predominio, secondo il Cuoco, fu l'opposto di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando di proteggere gli italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi dell'Impero: così detta le condizioni a Munster; sostiene il Portogallo, si allea con l'Inghilterra: indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale. I francesi sono forti, desiderosi di dominio, ma non si lasciano accecare dalle ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca, non giunge mai ad aspirare al dominio del mondo; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui moderato nelle vittorie. « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci tare sempre un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere il Portogallo e l'Olanda; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla. La Prussia, con popolazione più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza, della giustizia e della generosità ». Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria, ma non crea un Regno d'Italia: ecco la causa del suo non completo trionfo. « Vediamo che han fatto gl'inglesi ». Battuta la Spagna, la cui insufficienza si fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il Cuoco, di tutte le guerre in Europa: per la sua stessa natura non può mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati: con questi conserva la sua superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace; così gl'inglesi deb bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra ». Dalle guerre di successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco: « l'Inghilterra tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione ». Il Cuoco, senza dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione d'insieme a me sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile. Gl'inglesi prolungano le guerre, oltre il necessario, avidi desiderano troppo. Nella guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso ciò che Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà della magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga di più felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara stessa, nella guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così oggi: così nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali di oggi. E dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va perdendo i frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e di libertà ! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama « naturale irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de' popoli, « o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi ». « L'Inghilterra è giunta ad un grado di prosperità immenso; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in terna sua amministrazione era superiore a quella degli altri popoli: ce lo attesta un uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli della Francia, il signor di Joinville. Perchè? Perchè l'Inghilterra fu la prima 175 à riconoscere la proprietà e la libertà civile. Perchè i papi furono fino al secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa? Per chè, in tanta barbarie e ferocia, erano i soli che predi cavano la pace; perchè abolirono la schiavitù; perchè, dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro tempi, e senza i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII secolo cangiarono massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la Fran cia e la Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni? Perchè sostennero il partito della tolleranza, dell'umanità, delle idee liberali de'popoli tutti. Nell'ordine eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti; anche i popoli hanno la loro morale: chi la trascura, chi la calpesta, o presto o tardi ruina. I francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti; non quelli che la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si chiamava di riforma ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava da quel disordine dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti- sogliono incominciare per lo più da vivissime commozioni; ed errano egualmente coloro che, amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di Raffaello, di Virgilio, di Cicerone? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » (1). Il Cuoco s'esprime chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista, in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di paragone in tutta questa (1 ). A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909 ), p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che tutti intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che questa visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro scrit tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia non è che un buon cominciamento, che attende ulteriori sviluppi. Non è così. Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola non è servile. « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio « per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non toccarla. Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla Francia una continua inutile guerra.... L'Italia è più utile alla Francia amica che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi, che ha liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati, dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria; ma molto altro ancora può e deve fare (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178, nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella Lettera del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico,' a mo' di prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le sia rapito il tuo dono ». Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi, che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non c'è, e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia, possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al grande molisano, in minima parte gli ha dato torto. La questione italiana, a chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente nazionale. Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i creatori, videro poco: noi storici e critici possiamo affermare certi fatti con maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa rato da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione civile, di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea menomamente un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il Risorgimento s’è manifestato come un movimento altamente spirituale da un lato, come un problema d'equilibrio europeo dall'altro. Mazzini e Gioberti sono stati il lievito della rinascita, ma essi non s'intendono se non si comprende il pensiero del loro precursore Cuoco. L'equilibrio politico è stato la causa prima, per cui il terzo Napoleone discese nel '59 in Italia contro l'Austria; l'equilibrio mediterraneo è stato la causa, per cui l'Inghilterra permise l'opera di Garibaldi nel '60, opera che l'imperatore de francesi prima osteggiò, e poi, inconscio e gabbato dal Nigra e dal Cavour, finì per per mettere. Il Cuoco intravide il problema, e, se errò ne' partico lari, nessuno può condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la nemica naturale del l'unità italiana. È ciò vero? La storia ha dimostrato di no. La stessa politica, che egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli per farne alleati ed opporli ai suoi rivali, è stata la politica dell'Inghilterra, quando nel '60, di fronte al Piemonte vincitore della guerra contro l'Austria, preferì un Regno d'Italia, signore del mezzo giorno della penisola, grande e forte, ad un Regno di Sardegna, grande sì da dominare tutto il settentrione, ma non tale da sottrarsi al vassallaggio della Francia. L'Inghilterra dopo il '59, durante l'impresa garibaldina, favorì l'Italia per le stesse considerazioni, di cui abbiamo parlato: suscitiamo un forte organismo statale contro la Francia, aiutiamolo ad esimersi dal legame con Napo leone III, esso ci sarà riconoscente, e non ci nuocerà La storia procede così: uno Stato crea un altro Stato, questo dapprima debole è legato all'astro del suo geni tore, poi s ' ingrandisce aiutato sia dalla sorte e dalla sua intima virtù, sia da altri che abbia interesse a svilup parlo, poi, un bel giorno, divenuto potente, saluta i suoi padroni, inizia il suo corso fatale, la sua naturale evolu zione. Egoismo, mancanza di riconoscenza, diranno i mo ralisti, che nella vita vogliono attuate le idee del loro cervello ! È della storia, rispondiamo. L'.Italia sorge na zione dal conflitto austro - inglese, trova ausilio nella Francia, nell' Inghilterra in seguito contro la sua stessa 179 antica protettrice, oggi è autonoma e forte: sarebbe ri dicolo che oggi seguisse la politica de' suoi vecchi mag giori amici, essa che ha in sè forze latenti è, in isviluppo, più esuberanti e vitali che non l'Inghilterra e la Fran cia. La storia consacra interessi, bisogni, volontà e non precetti) filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella storia vegga uno spiegamento di bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa facilmente, se riguardiamo la condanna, che egli fa di organismi storicamente gloriosi, un giorno potenti, oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta dell'antica repubblica di San Marco nel Saggio storico è espressa nella sua gelida obiettività, un sospiro, senza un rimpianto. L'Italia di fronte a Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri mavolta da noi, si trova « divisa in tanti piccoli Stati », che", uniti potrebbero però opporre qualche resistenza. Il papa propone un'alleanza difensiva. I Savii di Ve nezia rispondono che da secoli nel loro paese non si parla di alleanze, che è inutile quindi far proposte. Venezia con ciò sottoscrive la sua condanna di morte. « Per qual forza » si domanda il Cuoco « di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù dei propri sudditi? ». « Non so che avverrà » conclude « del l'Italia; ma il compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene » (1 ). Quanto diverso il politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda obiettività interpreta la storia presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene di luce e di epopea, e sulle ruine della senza (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 22. 180 patria, non trova di meglio, disperato dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i colpi di Napoleone un altro antichissimo Stato cede: il potere temporale de' papi. Il trattato di Tolen tino ha una importanza senza pari per la storia. Mentre ne' tempi trascorsi, i papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono sempre di porre a base delle trattative la benchè minima particella del territorio della Chiesa, a Tolentino per la prima volta per la storia si fa uno strappo, si passa sopra ai diritti inalienabili e imprescrittibili della Sede Romana. L'organismo antico invero è tarlato: un pro cesso storico di disgregazione s'inizia, di cui il Cuoco non può vedere le conseguenze, ma che noi oggi possiamo ben studiare. « La distruzione di un vecchio governo teocra tico » non costa a Bonaparte « che il volerla » (1). La politica di Napoleone dal '97 in poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con cui egli impianta il nuovo ed antichissimo problema delle relazioni, merita un acuto studio, che non possiamo fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo apprezzi e giustifichi la visuale ecclesiastica dell'imperatore. Non dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel Regno di Napoli, che nello stesso secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte contro la Curia, in cui il giu risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica non solo in iscrittori insigni come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio, Conforti, ma anche in ecclesiastici eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe Capeceletrato (2): l'atteg. giamento cuochiano solo tenendo presente tutti questi precedenti può apparirci chiaro. Prima però di venire a discutere questo aspetto del pensiero del nostro, dobbiamo intendere quale posto egli assegni alla religione nella vita dello spirito e nella vita dello Stato. Lo Stato deve avere una base spirituale, la quale non può essere data che dall'istruzione umana da un lato, dalla religione dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, GENTILE, Studi vichiani, p. 391. 181 etico, sintesi di volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue funzioni, se non nelle volontà particolari stesse che determinano la volontà generale; esso non può essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno degli elementi che costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base della sua vita. La funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del Cuoco, concepito come so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione, anche se lo Stato non volesse occuparsene per principio, rientrerebbe nel quadro civile e pubblico, cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che essa non può nè vuole prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato agnostico di fatto deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera nel terreno vivo della pe dagogia, nella sfera perciò delle coscienze singole. Che cosa è per il Cuoco la religione? In una sua nota scritta su un foglietto, lasciato inedito e pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte da me ci tato volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una delimitazione tra la morale e la religione (1 ). Vediamo. « In questi ultimi tempi » egli scrive « si è domandato se si dovesse o no separare la religione dalla morale, e si è risposto da tutti che si dovea; si è domandato se si po tesse, e mille han risposto che si poteva; si è tentato di separarla, e quasi nessuno vi è riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i quali hanno tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una profonda analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla dignità dell'uomo; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende queste cose meno del l'esistenza di una divinità !... Persuadiamoci: per esser ateo ci vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro che, restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di dire: questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe (1 ) G. Cogo, op. cit., p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 653. 182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea della divinità, han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta; perchè di fatti che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti? » In sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad una affermazione: il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben nota Giovanni Gentile (1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico, capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico, al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema co stituzionale; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi, e il Cuoco ci dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non possono opporle che parole le quali s'intendono meno ». La religione ci appare come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno avuto della di vinità è stata quella della forza; la seconda quella della giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo loro una divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non comanderanno quello che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è potente sullo spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità per quelli della religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di cui il Saggio ci offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso » (1 ). E perchè un popolo non può restar senza religione? Perchè la re ligione è la morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche cosa che lo guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco. L'uomo colto può superare la religione nella filosofia, il semiconcetto nel concetto, trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico (2 ); il popolo, invece, ha ancora bisogno d'una morale d'autorità, e quindi parzialmente estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle origini la religione è tutto: diritto, cosmologia, morale: nella religione tutte le forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva. La religione per lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale, d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà, perchè non trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità. Il legislatore deve porsi da un punto di vista pratico, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit., p. 411. (2 ) Questo superamento, come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale. Il Cuoco non crede possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto concettualizza ciò che pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si arresta pur esso. La filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza ordine, ma non rinnega la religione, 184 e rendersi interprete della natura dei subietti, che vuol disciplinare: se egli vuol regolare tutta l'educazione, in staurare una morale uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni concreti, egli non può prescindere da quest'elemento dello spirito, la religione; anzi su questo elemento- base, nativo ed originario nella natura umana, edificherà il suo edificio civile. Ecco come un problema di natura filosofica si è con vertito in un problema politico, anzi nel problema poli tico per eccellenza, come quello che involge tutta la vita giuridica della nazione. Da quanto abbiamo detto derivano due corollari im portanti. Lo Stato, che combatte la religione entro le sue stesse terre, quando la religione è la religione di tutti, è uno Stato che ha sbagliato grossolanamente tattica: egli concepisce la religione come mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio, ignora che essa è nello spirito dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato agno stico, lo Stato neutrale in materia di fede, è ugualmente uno Stato senza base, come quello al quale il problema fondamentale d'ogni vita civile viene a sfuggire, cioè il compito educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al popolo un'educazione interamente laica. Il popolo è quello che è. La religione è radice di ogni suo convinci mento, opera della natura e non de' preti. L'educazione popolare non può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su base religiosa. Date al popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non vi comprende, perchè egli, eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il linguag gio della ragione. Date al popolo miti, leggende, precetti in forma sensibile semifantastica, egli non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha potente la facoltà fantastica dello spirito, e tutto intuisce prima di pensare, e tutto vede e crede prima di rendersi conto di ciò che vede e crede. Un'educazione popolare non può non informarsi a questi principi. Chi ne prescinde, e va predicando l'istruzione areligiosa e civile, naviga nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come problema pedagogico e statale dovremo occuparei in seguito; qui notiamo la 185 prassi politica dello Stato di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo Stato, se vuole avere un fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al popolo, e, se al popolo vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui familiari, cioè il linguaggio fantastico della favola, il linguaggio semi concettuale della religione, in quanto solo questo intende e non altro. Lo Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini la religione, come ogni altra realtà umana. Nulla di odioso. Lo Stato fa il suo proprio bene, che collima con gli interessi della popolazione che si vede meglio com presa, con le aspirazioni universali della religione. Co loro, che credono di potere far la guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una lotta impari, poi che esso non può contare che su pochi, mentre la religione ha dietro di sè masse compatte di credenti, non sono che de' vol gari astrattisti. Qui noi possiamo ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico della rivoluzione e segua una strada tutta sua. Il giacobinismo è anticlericale; il Cuoco non è nè clericale nè anticlericale, guarda la vita nel suo con creto, e si accorge che lo spirito umano ha esigenze re ligiose. Il Lomonaco urla, s'inquieta, scara venta invettive contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa cerdoti; il Cuoco analizza, studia, infine edifica: due tem peramenti, due mentalità diverse, due metodi antitetici: l'uno caduco, l'altro eterno. La nota, sulla quale io vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare d’una importanza grande, con tinua ancora: « Io dirò a questo proposito un mio pensiero. Coloro i quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli dalla società non hanno inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in questa guerra non vincesse quella causa che piaceva ai (sic ) Dei. Se fosse dipeso da me, mi sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » (1 ). (1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri portare: cfr. Cogo, op. cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta incrollabili, edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto, pur mantenendosi ben distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i suoi fini (1 ). Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli gione, anzi, come può notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro, egli in ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida bile incognita della divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un nucleo di trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata (2 ). « Il savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che la nostra mente è una particella della divinità, che noi non riamo. Vede in questa massima il fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e diffonderla, non con misteri ristretti agli abitanti d'una sola città....; non con istorie, che ciascuno può credere e non credere; ma con ragioni tratte dall'intrinseca natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun uomo possa opporre altro che l'ostinazione. Ecco il primo dovere del savio. Il se condo è quello di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose sensibili, ed i filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al desiderio del volgo » (3 ). Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa della mo rale non può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi dinanzi al mistero della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione; il volgo ha bisogno di vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile della fantasia. Solo la religione può rendere vicina agli uomini la sublime norma della morale: la religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a renderla viva nella coscienza. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 84 e sg. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 133. 187 Non posso negare che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza. La verità è che il Cuoco non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può darci un'esplica zione adeguata. La questione per lui è tutta politica e pratica, e, se s'ingolfa in discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più agguerrito sul terreno pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa contamina zione di morale civile e di religione, di politica e di reli gione, vengano a scapitarne sia lo Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra, si dice, in una sfera non sua, la religione viene ad essere subordinata ad un fine mon dano. Non è così, ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta delimitazione di fini, tra Stato e religione, in quanto il primo persegue un fine politico e gli trova la base sua naturale nello spirito e nella natura umana, mentre la seconda dal fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi limitandosi ad un'opera meramente interiore. Sul terreno politico non v'è possibilità di conflitti, ammesso che la religione si volga all'eterno ed obblii il mondano. Sul terreno spirituale v'è identità d'oggetto, il miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi. In ogni caso v'è vi cendevole vantaggio: lo Stato deve favorire, pur essendo tollerante, la religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la religione deve aiutare lo Stato, perchè questo possa in terra fruire materialmente d'ogni miglioramento morale degli uomini: l'uomo veramente in ispirito reli gioso non può non essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Da quanto abbiam detto è evidente come il Cuoco non cada affatto nell'errore di molti, proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola religione, ed è intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue un fine politico ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza quindi anche, col vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della religione dominante la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come li darebbe ad un qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo e civile, senza che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri culti, che possono pur essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col fine statale. Lo Stato agisce nel suo interesse pratico, ond'è chiaro quanto sia necessario un controllo continuo da parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche, controllo che non può essere altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di fesa pubblica e di polizia. (1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione come fa coltà dello spirito, come insopprimibile realtà umana, e il caso di conflitti tra Stato e religione non poteva a noi presentarsi se non come un caso abnorme. Ma il problema politico particolare e il caso d'un conflitto nella sfera pratica può presentarsi, quando noi non consideriamo la religione, ma la Chiesa, l'istituto universale, che può porsi e si pone di fronte allo Stato con uguali caratteri d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a volta usur pano le facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale. Date le premesse che abbiamo poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo dello Stato e la subordina zione entro i suoi confini d'ogni istituzione ecclesiastica alla legge. L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello Stato: l'attività ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune. Il Cuoco differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello spirito nella sua vita politica » (2 ). Con questa sua concezione dello Stato come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico », ma non possa ne (1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af fermazione di B. LABANCA, op. cit., p. 409, che il Cuoco non abbia mai approfondita la questione religiosa. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 189 ammettere che la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare a competere con lo Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà di culto e d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato ! Lo Stato agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una tutela: la religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle norme giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si traduce in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si siano svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al Concordato tra Francia e Santa Sede (1801 ), come il papa presenziasse all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni (Ancona, 1805; Civitavecchia, 1807; tutte le Marche, 1808), con l'arresto brutale del Pontefice in Roma (1809), con la di chiarazione della fine del potere temporale (maggio 1809). Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di seguire il Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo stare allo spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi certezza dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone contro Pio VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de' rapporti tra Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo, Considerazioni sul concordato del febbraio del 1804 (1 ). La pace religiosa è uno degli elementi indispensabili della vita civile. Una nazione, che serri in sè discordie chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che alimenti in sè le fazioni, poichè, mentre queste sono (1 ) Giorn. ital., 1804, 1, 4, 6 febbraio; n. 14, 15, 16; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63: Considerazioni sul Concordato (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 62-70 col titolo Stato e Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime traggono origine da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I turbamenti di molti Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura religiosa si possano vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le sedizioni. La Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una tristissima esperienza: la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte dell’utilità sua; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità. «.... Chiunque ha un cuore deve applaudire (siamo, quando il Cuoco scrive, nel 1804, e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato ) all'umanità colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù del posto eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele, ne hanno data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha trovata la via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e l'impero ». Fin qui, come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi d’occasione, a concetti ben noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi nello stesso Saggio storico. Gli Stati sono tanto più forti, quanto più gli elementi della vita materiale e spirituale convergono ad un fine unico. Lo Stato, ove diritto e religione non cozzano in sieme, ma da punti opposti realizzano una stessa verità, è lo Stato più forte che si possa immaginare. Guardiamo la storia: le nazioni floride sono quelle, ove l’armonia tra diritto e religione, autorità e libertà, s'è meglio pre sentata. Nel 1804, commentando la storia che Melchiorre Delfico avea scritto della repubblica di San Marino, dopo aver ricordato che negli Stati non è tanto l'ampiezza del territorio, il numero degli uomini, la forza degli eserciti, che conta, quanto la virtù de ' cittadini e la giustizia degli ordini, scrive riferendosi al fatto che il fondatore del pic colo Stato fu un religioso: « Sulla porta della maggior chiesa leggesi questa iscrizione: Divo. Marino. Patrono. Et. Libertatis. Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto col quale gli Ateniesi dichiararono Giove arconte perpetuo della loro repubblica; iscrizione forse unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno la religione di 191 visa dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del l'una e dell'altro » (1 ). Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno di Dante e di Marsilio da Padova: una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza, riaffermante novellamente col divino Maestro che il suo regno non è di questa terra: impero e papato, Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi, l'uno terreno, l'altro celeste, operano concordi in terra per assicurare il benessere dei popoli. Il Con cordato, al quale specificamente si riferisce il Cuoco, è il documento del nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel 1804 è fiducioso di un avvenire religioso di pace, che non sarà, crede sinceramente che le antiche lotte giurisdizionali siano definitivamente della storia e non più della vita: l'analisi, perciò, che vien facendo, è meramente storica, è uno sguardo su un passato, che, pia illusione, non ritornerà più ! Nei primi secoli, riassumo il pensiero del nostro, si disputò pochissimo di giurisdizione. Il divin Maestro aveva detto che il suo regno non è di questa terra, onde non si potette confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a Cesare. Le dispute furono sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine nelle dispute, ma i suoi successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia rono ad esse, e l'impero ne fu turbato: lo stesso Giusti niano cadde nell'errore. In Italia solo Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio deve alla religione. Egli la rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore dell'autorità regia, fu giusto giudice nella controversia tra il pontefice Simmaco e il suo competitore Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano egualmente e de’laici e de ' preti ». Ma anche i suoi successori non ebbero la di lui virtù. Surse così in Europa un nuovo ordine di cose. « Delle vicende della giurisdizione ecclesiastica nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra i quali un gran nu mero forse non è stato esente da ogni spirito di partito. (1 ) Giorn. ital., 1804 25 giugno, n. 76, p. 308: Memorie stori che della repubblica di San Marino, ecc. 192 ) ). Noi crediamo che l'indicar le ragioni, per le quali si con fusero i limiti delle due giurisdizioni, sia il più giusto elogio che far si possa e del nostro governo e della Santa Sede (! ), che con tanta prudenza li hanno ristabiliti. Tutto ciò  scrive San Bernardo ad Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò che tu hai ricevuto non da Cri sto, ma da Costantino, io ti consiglio a ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a pretenderlo come un diritto Il consiglio, che il molisano ripete al Pontefice, è un consiglio altamente politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in determinate contingenze storiche, il papa, posto tra barbari armati, crudeli, pronti alla violenza, abbia dovuto far ricorso alle armi per difendersi, abbia quindi desiderato il potere temporale; oggi le condizioni sono mutate, l'autorità regia non vuol menomare il prestigio della Chiesa, anzi vuole accrescerlo, difenderlo, arric nirlo; a che dunque serve il potere temporale? Il po tere temporale ci appare come il resto inutile d'età sor passate, poi che, la base del rispetto e dell'autorità non è più nella forza e nelle armi, ma nella giustizia e nella virtù. Il patrimonio di San Pietro è intangibile ! Ma perchè? Serve alla difesa della Chiesa.... Serviva: ora non più ! Le parole che il Cuoco ripete sono le parole della sa viezza, le parole che la storia, che non torna indietro, consacra nella realtà della vita. L'abdicazione ai diritti antichi significa potenziazione della Chiesa nelle coscienze degli uomini, ritorno alla purezza antica degli Apostoli. La Chiesa Romana ha in sostanza un duplice elemento: un elemento dommatico, che nessuno pensa a menomare, specie l'autorità pubblica, che non intende penetrare in una sfera che non è sua; un elemento politico, determi nato dai tempi, soggetto a flussi e a riflussi, ma sul quale il conflitto con il potere civile è stato e può essere sempre facile. Il punto di minore resistenza è il dominio temporale, che oggi è una vera barriera per una (1 ) Si riferisce sempre al Concordato. 193 comprensione tra Stato e Chiesa, e che occorre superare, perchè i rapporti divengano da buoni ottimi. La Chiesa abdichi ad ogni temporalità, lo Stato riconoscerà tutta la grandezza della religione, la potenzierà praticamente, le darà tutti i mezzi per attuare in terra il compito antico. Certo le ragioni del dominio temporale sono profonde, ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre le ragioni della grandezza spirituale della religione sono eterne, cioè presenti alla nostra coscienza umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han reso il dominio temporale necessario per la religione e il suo bene, siano sorpassate, il Cuoco lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita fermarsi. I barbari, discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano, permisero, essi meno civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere secondo le loro leggi, le loro usanze, i loro istituti. Nacque così, crede il molisano, quella specie di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde poi scaturì la distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si avvezzarono a concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro Stato ». I vescovi professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai nuovi bisogni, divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi sovrani. L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione. La Chiesa insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre. Essa predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi che un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli ordini ec clesiastici. La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo superfetazioni antisociali. « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini pubblici ritornavano verso la loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la sola infelicità de' tempi avea consi gliato, introdotto, tollerato; e dovean segnarsi di nuovo quei confini entro de' quali la sovranità temporale fosse più energica e meglio ordinata, e l'autorità religiosa più augusta e più sicura. Così dal caos emerse l'ordine, e fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ». Questo or dine il Cuoco vede avverato in un giurisdizionalismo con fessionista, che tende a volte ad un vero e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli elementi di questo sistema non possono essere esposti brevemente, onde occorre pas sarvi su, Vincenzo Cuoco, se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e cerchiamo di raccogliere le fila di ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa come un fermo sostenitore dei diritti dello Stato, concepito come sostanza etica, sostenitore che non ammette alcuna menomazione di quei caratteri salienti che abbiamo veduto. Egli si pre senta come un vero e proprio giurisdizionista, rappre sentante di quel giurisdizionalismo, che lo storico co nosce nelle forme del leopoldinismo, del giuseppinismo e sopra tutto del tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio nalista nel senso sovraccennato, molti elementi lo testifi cano. Egli è giurisdizionalista, ma nello stesso tempo il suo Stato è confessionista, sebbene tollerante: anzi il nostro lo consiglia ad essere più confessionista che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e dell'autorità ec clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova una Chiesa dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi sacerdoti come pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni pubbliche, esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma subordina al suo controllo: la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli organi centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in conchiu sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito religioso e scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato; ma soltanto a risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e pratico di co teste forme superiori dello spirito, le quali, se sono ideal 195 mente sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti sociali, materia del diritto » (1 ). Questo giurisdizionalismo confessionista del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto (2 ), all'affermazione d'una supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato. Il giurisdizio nalismo napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira più all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri conoscendo l'altezza etica della Chiesa. Nulla ci induce a credere che egli fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia, di cui ci dà' notizia il Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il Vico, suo maestro ideale, avea già superata (3). Egli differisce dagli scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito. Da noi la religione dominante è la cattolica: non vi è legge che da essa e dalla sua morale possa prescindere. Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. (2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico vigente, 1923, Cortona, v. I, p. 19 sg. (3) G. GENTILE; Studi vichiani, p. 385. Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I, pp. 297-302. 196 rispettare la religione de' padri suoi; il primo dovere di chi ama la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui non vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità, ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano ». Le origini della nuova Italia. Il concetto di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso Vincenzo Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e nazionale. - Mezzi per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella prima parte di questo studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di Vincenzo Cuoco, quale egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei giacobini franco- italiani sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel Saggio storico, che resta ancora il più mirabile documento dei terribili giorni che passarono alla storia col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria d'eroismi non emulabili. Nel nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il molisano si è fatto dello Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu ridica e politica, e, infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema dei rapporti tra l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa nostra analisi abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore, che abbiamo definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni forma, ad ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle nostre esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo del Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi non avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento nuovo che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli immediati ' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito nazionale. È que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente Benedetto Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice che chi cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità rifarsi ai fatti della Partenopea (1 ). Il tragico fato della repubblica disperde per la penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto dottrinaria, astratta, più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò non pertanto ha una fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria. È il polline vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti, e poi s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti. Sarebbe facile fare dei nomi e degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro posto: ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in primo luogo perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee sull'indipendenza e sull'unità della nazione italiana; in secondo luogo perchè dal con fronto, che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la diversa posizione spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex ufficiale di Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione per ragioni politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18 giugno 1799, essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le sorti repubblicane volgevano al peggio (il 17 giugno Ruffo accorda la resa alla città di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei Patriotti Italiani ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere espresso numerose lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto la misera CROCE, La rivoluzione napoletana, p. XII. 199 condizione dell'Italia tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con profetiche parole. « Legi slatori e Direttori, invoca, osate alfine di soddisfare il voto universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza e la sua riunione, il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli del Vesuvio, nello spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno invano ritenuto dei figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti i rifugiati Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra alternativa, che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella tomba, o di crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata, il felice avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e Direttori del popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà. Un'assem blea Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel centro dell'Italia, saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle contrade; un'armata ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà nell'aria ac canto al vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno sventati ancor questa volta; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due astri vittoriosi e protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto Brittanico la vicina distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti delle tre isole, ormai troppo serve, la prossima loro libertà (1 ). Il documento è importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si pensa che è esso stato ver gato, quando le sorti non solo di Napoli e d'Italia, ma anche di Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano. Lo stesso pensiero, un po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno scritto, enfatico e gonfio di forma, ma caldo e commosso d'amor patrio: il Rapporto fatto al cit tadino Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte degli (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 335; M. Rosi, op. cit., v. I, p. 215 e sgg.; V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 151 e sgg 200 stessi francesi in Italia, malefatte, che non ebbero altro effetto che quello di allontanare sempre più le simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria. Anche il vesuviano Lo monaco sente che in Italia si sta formando una volontà che non era per l ' innanzi, ma invano si sforza di spie garsela filosoficamente, troppo imbevuto com'è di rigi dismo giacobino. Egli enumera i diritti, quelli che egli almeno dice diritti del popolo italiano, all'unità e all'in dipendenza, quegli elementi che l'indagine sistematica del secolo XIX poi preciserà come i presupposti del con cetto di nazionalità. L'Italia, non divisa da grossi fiumi nè da grandi mon tagne, separata dalle Alpi e dal triplice mare dagli altri popoli, forma una indissolubile unità geografica: è questo il primo elemento della nazionalità. Gli abitanti che l'a bitano hanno la stessa tinta di passioni e di carattere, godono d'un eguale germe di sviluppo morale e di fisica energia, hanno gli stessi interessi, la stessa lingua, la stessa religione: tutto li addimostra per membri della stessa famiglia: sono questi nuovi e complessi elementi della nazionalità, elementi etnici, linguistici e religiosi, che si pongono accanto al primo elemento geografico. Aggiungete a ciò una ininterrotta tradizione storica, per cui uno è il processo evolutivo della stirpe, uno il fasto e la sventura, come uno l'avvenire, ed avrete l'ultimo elemento, che informa di sè un popolo e cementa quel che possiamo dire d'una nazione (1 ). Gli italiani hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno acquisito, all'unità e all ' indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo stesso scrittore, può e deve riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia, dopo tanti secoli potrà vedere sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la tormentarono e la tormentano. « Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali? Qual rimedio a piaghe sì profonde? Come imprimere alle de (1 ) F. LOMONACO, Rapporto al cittadino Carnot, ecc., in se guito al Saggio storico di V. Cuoco, Laterza ed., Bari, 1913, p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie italiane il suggello dell'an tica grandezza e maestà? Uno dei principali mezzi, se condo me, è l'unione. Perchè termini il monopolio in glese, e i vili isolani cessino di arricchirsi su le rovine del continente; perchè si oppongano argini all'ambizione del l'Austria, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’im pero russo stia immobile ne ' ghiacci del nord, la Spagna divenga stabile amica della gran repubblica; perchè, in una parola, vi sia in Europa bilancia politica e si disec chi la sorgente delle guerre, è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo governo, facendo un fascio di forze. Rea lizzandosi quest'idea, gl'italiani, avendo nazione, acqui steranno spirito di nazionalità; avendo governo, diver ranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertà e di tutti beni che ne derivano; ecc. » (1 ). La ragione prima dell'unità italiana così è un fattore esterno, quello di un presunto equilibrio europeo, quello d'una nuova armonia tra i popoli, tra le genti del nostro belligero vecchio continente. Questi gli antecedenti dell'idea unitaria, queste le sante origini di quel concetto di nazionalità (2 ), che troverà poi in Giuseppe Mazzini il suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse ed operò, che con tutti i patrioti di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non agitare gli stessi senti menti. Ma questi da lui come vengono trasformati, in lui quanta nuova luce acquistano ! Esule dalle sventure della Partenopea, visitato Marsi glia, Chambery, Parigi, dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco è a Milano, ove presto pubblica il Saggio e i Fram menti (3 ). Io non mi indugierò neppur brevemente sul l'attività del molisano nella Repubblica cisalpina (poi italica ) e nel Regno italico, attività vasta e complessa di (1). F. LOMONACO, op. cit., p. 327. (2 ) Chi vuole avere notizie più ampie veda La rivoluzione napoletana del CROCE, ove vi è un largo studio sull'argomento, pp. 329-342. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 3 ]. 202 studioso, di cui sono documento le Osservazioni sul Dipar timento dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L. Lizzoli, sebbene siano, come è stato indiscutibilmente dimo strato (1), del nostro scrittore, e i frammenti su la Sta tistica della Repubblica italiana, opera scientifica di vasto respiro (2 ), che dimostrano quanto alto fosse il bisogno del nostro autore d'esaurire ogni forma di realtà umana, poichè solo sovra una conoscenza adeguata di essa si può fondare un coerente edificio politico e legislativo. Sono punti questi oramai acquisiti alla storia e su essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro punto, la fonda zione del Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella formazione della nostra coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della gloria napoleonica, il problema unitario. In quel periodo tumultuoso, che comprende i primi decenni del secolo XIX, Milano è il centro culturale più cospicuo d'Italia. Napoli, dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa, dopo il fiorire della sua Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri, Galiani, Pagano, Cirillo, caduta la breve repubblica del 1799, colla restau razione del Ruffo, aveva visto disperso tutto quel te soro di sapienza che cinquant'anni di attività scientifica aveano accumulato. Torino era un centro troppo ristretto, ancor provinciale e particolaristico, sebbene già comin ciasse a dar segno di nuova e più ampia vita, ma non poteva offrire assolutamente nulla, dato che con le vit torie del Bonaparte aveva perduto l'antica libertà. Di Venezia, di Firenze, di Roma inutile parlare. Milano dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il centro più attivamente colto d'Italia. Grandi in essa sono le memorie del popolo, grande la tradizione recente. « Ivi si era formata prima la scuola del giansenismo, e poi la scuola de' diritti dell'uomo »; ivi « la 6 Società patriot tica ”, divenuta poi Società popolare, aveva lavorato alla diffusione delle idee nuove ». Come rileva Francesco (1 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 40; G. Cogo, op. cit., pp. 13-23, (2 ) G, Cogo, op. cit., p. 24 e sgg. 203 De Sanctis (1 ) ivi s'era espresso, contemporaneamente forse ai primi tentativi giurisdizionalisti del Tanucci, un moto, diretto principalmente contro la curia romana, per sonificata nei gesuiti, e contro l'aristocrazia, che pur non avendo portato ad immediati mutamenti politici, annun ciò importanti riforme civili per il miglioramento del l'uomo, che già erano concrete conquiste civili, allor quando il turbine rivoluzionario si scatenò, distruggendo tutto, l'antico e il nuovo, il cattivo e il buono, ciò che doveva crollare e ciò che era degno di restare. A Milano aveva scritto il Beccaria, instaurando nel campo penale nuove dottrine, che, reagendo a tutto il sistema degenere del medievale processo inquisitorio, preludono ad un mi rabile fiorire delle dottrine criminalistiche; il Verri aveva disputato di economia, di finanza, di sociologia; il Caffè aveva agitato nelle menti più illuminate i nuovi pro blemi filosofici e scientifici, le nuove posizioni artistiche, che appassionavano non solo l'Italia, ma la Francia e l'Europa tutta. Questa la tradizione, che ne' primi anni del nuovo se colo Milano rinnova in una vita sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni vi hanno fatto affluire esuli non solo da Napoli, ma da ogni parte d'Italia, poeti e filosofi, soldati e commercianti, giureconsulti ed econo misti (2 ). È il periodo grande della vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre illustri nomi, appena da poco spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni. Nulla da meravigliare se in questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle questioni, che poi lo stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà insomma nell’azione politica. L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa società così vivace ed attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua natural pigrizia, che lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves ed., 1918, v. III, p. 2. (2 ) R. SORIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della Società pavese di storia patria, a. XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121, 204 lui notava, e della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su citati, sono testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli pubblica il 2 gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806, fino cioè al suo ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due valentuomini, Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello (1 ). Seguendo il nostro metodo di non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza, sorvoliamo sulla fon dazione del foglio milanese (2 ), e vediamo piuttosto che cosa esso rappresenti nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo rapporto con i precedenti ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in Paribelli e Lomonaco. Che cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È qualcosa di già acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa da acquisirsi, da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un processo inin terrotto? Esiste realmente e storicamente una naziona lità italiana, che è formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi e quelli, e nulla più? E quali sono questi elementi? Abbiamo noi perciò un diritto na turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono contestare, donde scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la nostra unità nella forma d'uno Stato indipendente e sovrano? Sono questi al trettanti problemi, ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi ritorniamo col pensiero agli scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo in essi uno sforzo a definire concretamente gli elementi costitutivi di questo concetto di nazionalità, che poi alla resa dei conti finisce per man care e per sfumare, proprio nel momento, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e fissato. Nè è a dire che (1 ) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 655. (2 ) Cfr. A. BUTTI, La fondazione del Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall’Ar chivio stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII); vedi pure N. RUGGIERI, op. cit., p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit., pp. 30-34. 205 l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura. Uomini di ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente il contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra quelli da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della nazionalità, ma poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale costi tutivo. Ancora: vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono; altri che operano storicamente con una certa intensità, ed altri con una intensità maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici, etnici, lin guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro concetto, del concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani sono fatti per essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma come la base concreta, sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che l'Italia sia un solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la conseguenza che ne scaturisce è una sola: il popolo italiano ha una superiore ragione a divenire indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un reggimento uni tario; gli stranieri non debbono che riconoscere positiva mente quel che Dio o la natura, o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste delle montagne e nel corso de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre patrie, facendo si che essa, geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare, sia abitata da una sola gente, parlante un solo idioma, avente una sola religione, una sola storia, una sola mis sione, una sola somma d'interessi. Ecco perchè il Paribelli e il Lomonaco si rivolgono ai francesi. Essi sono i più forti, essi possono perciò estrin secamente donare all'Italia quell'unità statale, a cui senza dubbio ha diritto, perchè la nazionalità è una realtà non da farsi, ma già fatta e perciò statica. Quel che ancora non è fatto ma da farsi è lo Stato uno ed indipendente, considerato come esterno alla nazione, quasi come una sua sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia o non sia, lascia inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non esservi lo Stato, e viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed esteriore d'una 206 realtà già concretizzata, e quindi definitiva, che è la na zione con quegli elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il Cuoco Nessuno de gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale al concetto di nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci apparirà fallace e transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra la sabbia. Che è la terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè non ha che una importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur fuori dal territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono dispersi per il mondo? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione comune di tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia ecclesiastica, se non un astratto? Ma d'altra parte ognuno di questi ele menti, ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza, se noi li guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma se li consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto noi li compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è più allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal Mediterraneo, dal l ' Jonio, dall'Adriatico, e separata dagli altri popoli da una catena di monti inaccessibili », ma bensì quella terra che ci vide nascere e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri, bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente, sempre viva e rin novantesi. 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi, che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è co scienza ed energia. La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi; non è materia o natura, ma spirito; non è contenuto, ma forma del più vario contenuto. Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La nazionalità non è, diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra determinata energia spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e generata in ogni suo momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco esprime in quel Disegno di un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al vice- presidente della Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril (1 ). La nazione, egli dice, non è formata; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non si tratta di conservar lo spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le menti degli italiani a pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne avvedano, alle idee che la loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini di uno Stato coloro i quali sono nati abitanti di una provincia o di paesi anche più umili di una provincia » (2 ). Da ciò è facile vedere come la con cezione naturalistica sia superata: la nazione non esiste (1 ) Il documento tratto dall'Archivio di Stato di Milano è stato pubblicato dal prof. ATTILIO Butti in appendice alla sua op. cit., nonchè ristampato da G. GENTILE: VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e rari, Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909, p. 3 e sgg.; e poi da N. CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed., 1924, v. I., pp. 3-12. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 208 in natura, come mera entità di fatto, ma nello spirito, come superiore unità ideale. Quest'unità dello spirito, che poi è energia plasmatrice e volontà realizzatrice, come abbiamo detto, consiste di due parti principali: « la prima è la stima di noi stessi e delle cose nostre; la seconda è l'accordo de' giudizi di tutti su quegli oggetti che possono essere utili o dannosi » (1 ). Io direi: è in primo luogo autocoscienza, consapevolezza di noi e delle nostre pos sibilità; in secondo luogo quell'atto, per cui il nostro io particolare, coincidendo con tutti gli altri particolari in una sola volontà, s'afferma come universale. La nazione così null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con cretamente la volontà è in noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che noi amiamo, sospiriamo, che noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo cantata ne' grandi poeti, che desideriamo grande e possente nel futuro come lo fu nel lontano passato, che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro pensiero ed atto, onde ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un superiore carattere, che è il carattere di nostra gente. La stessa così detta tradizione nazionale non è, non ha alcun valore, se non nel presente, se non in quanto la poniamo come presente, e perciò solo operativa di grandi cose, incitamento a maggiori grandezze. Se noi l'assu miamo come passato, essa null'altro è che retorica, sban dieramento inutile di grandi fatti, su cui tutti possono meritamente ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può mille volte al giorno ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà sempre creduto. Un giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo sizione, desterà il riso; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice Shaftesbury, non può produrre mai più verun buon effetto » (2 ). Anche la tradizione, come tutti gli elementi della nazionalità non deve essere fuori degli uomini, ma veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera erudizione passiva inerte, se la riguardiamo (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 209 come un frigido insieme di fatti; ma se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior consapevolezza di loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà di dominio, allora la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la tradizione ben'intesa diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima di loro stessi » scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi nazioni e quella energia, per cui han fatto le grandi operazioni; e quella pazienza, per cui han sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell' affezione al proprio governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso non operi bene o che un altro operi meglio; e finalmente quella costanza ne' pensieri, ne' disegni e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che abbiamo per i nostri maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti. Quando si analizzano le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli errori sono misti egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e l'altra non dipende da altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di sentire » (1 ). Posto ciò, allorquando la nazione non si è ancora con cretata nella forma di uno Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato unitario, che noi possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un corrispondente dovere al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di nazionalità, ma non riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima affermazione della nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e dire volontà di Stato nazionale è la stessa cosa: affermare la nazione val quanto affermare lo Stato nazionale. E siccome la nazione non è, ma diviene; lo Stato non è, ma diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando giuridicamente non è riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo poniamo ed operiamo per realizzarlo, e lo realizziamo continuamente in ogni nostro atto. Come si tratta di fare lo spirito pubblico, la coscienza nazionale, si tratta di Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. 14  fare lo Stato, e lo si fa, facendo lo spirito pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda parte della nazionalità, dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da aggiungere: è il pro blema dell'accordo di più uomini nelle idee utili (1 ), onde la loro volontà si può considerare come una sola volontà. Basta presentare queste idee utili, presentarle caldamente sinceramente, presentarle spesso, perchè tutti siano d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini convengano in tre cose: in rispettar i governi, in rispettar la religione ed in praticar la morale; e se tra queste cose si potesse stabilire una progressione, io non avrei veruna difficoltà di dire che la corruzione della morale porta seco il di sprezzo prima della religione e poscia del governo. È na tura dell'uomo trascurar prima i doveri, indi conculcar le leggi che sanciscono i doveri, e finalmente disprezzar coloro dai quali ci vengono le leggi » (2 ). Dato che lo Stato moderno null'altro è che nazione, coincidendo la volontà di Stato con la volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di noi, ne viene che la volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui intima e connaturale: anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in quanto que sta si pone come universale, una ed armonica con tutte le altre. Il rispetto al governo non deve essere una coa zione, ma un'accettazione libera, poichè nell'atto go vernativo vediamo l'espressione di posizioni da noi con divise, anzi da noi volute. Il rispetto quindi allo Stato è in quanto nello Stato vediamo la sublimazione di quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato del Cuoco è stato etico, e, in termini giuridici, professionista, ne scaturiscono come conseguenze inderogabili: il bisogno che i soggetti rispettino la loro religione che è anche religione di Stato, pratichino la loro morale che è anche morale di Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato unitario che è la Repubblica italica, poi Regno italico, si pone (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 8. 211 dinanzi una sublime missione, un compito titanico: for mare la coscienza di quel che sarà o diverrà la nazione italiana. Il problema che abbiamo esaminato nei napo letani del '99 è invertito. La rivoluzione imponeva una unitarietà estrinseca, mirava a formare un sentimento vuoto ed astratto di pseudo - solidarietà umana; il Cuoco invece s'affisa nell'interiore degli uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella coscienza che il nuovo secolo XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è che un atto d'energia volitiva, che plasma e fonde in sè ogni parti colare contenuto. V'è il popolo, quel popolo che i giacobini idolatravano e levavano alle stelle, ma a questo popolo la patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta e grande, attraverso l'opera di pochi disinteressati idealisti, o italiani o stra nieri; no, questo popolo deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi problemi del tempo, acquistarne la cono scenza, prepararsi liberamente l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo come elemento indispensabile della vita civile, come il grande operatore della storia in tutti i suoi sviluppi. La rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma di fatto ne ha poco rispetto; poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e fargli subire i nuovi sistemi politici, come già subiva i vecchi, vuote sovrastrutture, in cui può vibrare ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine è ne' giacobini, che sono i pochi, non nel popolo, che è la molteplicità. Il Cuoco crede ciò un grande errore, ed è questa la grande sua trovata, ond’egli meritamente s’as side tra i grandi del nostro paese. Se vogliamo creare quella realtà spirituale che è la nazione, non possiamo prescindere dal popolo, dal popolo che abbiamo visto nel Saggio essere il solo autore delle rivoluzioni e delle con trorivoluzioni. Il principio della storia è in lui, e in lui sono tutte le più remote scaturigini della vita. Parlare al popolo, dunque, e ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa pubblica, fargli acquistare dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le istituzioni o non sarà ad esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè stesso, ma le amerà come sue, espressione della sua più alta eticità, 212 e con le istituzioni amerà la morale e la religione, che con le prime vedrà intimamente legate. Oggi, dice il molisano, esiste bene o male una Repub blica o un Regno italico; il popolo però ancora ne è fuori: bisogna unire i due termini, perchè solo così il primo sarà veramente un ente vitale, il secondo un'unità cosciente e non una molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani, il Cuoco non lo dice ma noi lo intendiamo, vicende storiche nuove distruggeranno la mal connessa unità napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno il bel suolo d'Italia, se in questo domani il popolo sarà ancor sopito o morto alla vita pubblica, ohimè, non vi sarà speranza più di unità e di indipendenza; ma, se per av ventura questo popolo noi lo avremo educato, istruito, reso elementó vero dell'attività sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di lunghissime lotte perchè la volontà co mune di nazione, la volontà di Stato libero si concreti, s'imponga in giuridiche affermazioni dinanzi agli stra nieri, che le subiranno e le riconosceranno ! Così il problema politico in Vincenzo Cuoco diventa sopra tutto problema pedagogico, anzi il problema peda gogico per eccellenza, come quello che è destinato a creare un popolo, una nazione, uno Stato (1 ). Ben nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere spirituale dei moti, che dalla rivoluzione si espressero, sfuggiva ai rivoluzionari, anche ai più eletti, il Cuoco intende la nuova esigenza e vuol essere educatore: nella sua grandezza come peda gogista intendiamo la sua grandezza come storico e po litico (2 ). Certo gli ostacoli a questa missione, a questo fine sono grandissimi, ma non per ciò il molisano si sbigottisce: quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più bello sarà il premio nell'avvenire. Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è senso unitario; siamo poveri, pochi, disgregati, senza un esercito vero e (1 ) P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. (1924 ), Torino, p. 106. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 175. 213 proprio; non importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed esce in una profetica dichiarazione di fede, che, ancor oggi, commove e rende superbi nello stesso tempo. « Ogni Stato » scrive « ha un periodo da correre. Tutte le nazioni piccole son destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non periscono, le quali dispongon per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini futuri; onde, quando il corso de gli avvenimenti loro presenti le occasioni opportune, esse, per mancanza di preparazione, non si ritrovano impo tenti » (1 ). L'unità d'Italia prima sia nello spirito, poi certamente sarà nella vita giuridica: ma noi non possiamo presu merla in questa se non ci sforziamo di concretarla in quello. Dalla frase che io ho richiamato appare chiaro quanto caldo sia in Cuoco il pensiero unitario: non basta quella parvenza d'autonomia che la Francia ci dà e Na poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che è Italia a Milano sia Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè lo Stato nazionale. Questo non è un di ritto del passato inestinto e inestinguibile, sacra eredità di generazioni trascorse, ma unità da formare ex novo attraverso un'opera diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è diritto e storia antica deve rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e storia nuova, perchè nuova volontà e nuova consapevolezza. La storia in un certo senso è peso bruto, se non si vince come passato; è atti vità propulsatrice, se noi la riviviamo e ne ritragghiamo incitamento. Perciò tutto il Giornale italiano è pieno di storia, di memorie antiche, di riesumazioni dotte, d'in formazioni nazionalistiche: ma tutto ciò non è materiale d'archivio, da biblioteca, bensì esempio da prospettarsi ad animi italiani, ond'essi vibrino di un legittimo orgoglio, che non è comodo adagiarsi in una indiscussa superiorità o antico primato italico, ma incitamento a nuove opere. Ecco ciò che si propone all'incirca il Giornale italiano: un'alta opera di pedagogia pubblica. (1 ) Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 7. 214 Questo giornale, divenuto rarissimo, per lungo tempo è stato dimenticato dagli studiosi, ma oggi ad esso si è ritornati, e in esso si sono rinvenute le vere ideali origini, di questa nostra Italia, di cui il Risorgimento è stato la cosciente affermazione, non l'estrinseco dono di questo o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il Gabinetto britannico. La direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni: sono tre anni d'un apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un minuto di riposo. Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o storico, econo mico od agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di Vincenzo, e tutto egli rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso osserva, « per formar la mente de’ lettori, è necessario che l'opera istessa, abbia una mente, cioè un fine unico, e parti tutte corrispondenti al fine » (1 ). L'importanza di questo foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco. Già il Romano lo proclamò « un nobi lissimo apostolato di italianità », e, come il Cogo ri leva, questa affermazione il sopra detto critico convalida con prove sicure, sebbene sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato un po' di più la sua atten zione (3 ). Parimenti sul Giornale italiano ha scritt oltre il Cogo, Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito ha ben visto quanto il Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto rigidamente affermi la sua na zione (). Ma, nonostante il loro acume, il Romano, il Cogo, l'Hazard, non poterono avere quella sensazione sicura della grandiosa importanza di quel giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare dopo che ulteriori studi hanno messo in luce come quegli scritti della gazzetta milanese, spesso non firmati, o sottoscritti con la sem plice sigla C., fossero letti da un giovanetto idealista ap (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 136. (3 ) G. Cogo, op. cit., p. 32. (4 ) P. HAZARD, op. cit., p. 231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li trascri veva, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco. Per raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si propone, e che esplicitamente di chiara: in primo luogo, « presentare al pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi: non, come talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che abbiamo »; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero, colle altre nazioni »; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre », onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei nostri vizi (1 ). Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di poterlo divenire », lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio 1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli pur non troppo ammira come personalità morale (3), scritto col quale il poeta cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre », ma bensì per la novità che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento, che alla gloria succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, (3 ) Vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 163; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 131 e sgg., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II, p. 259, n. 3, ai quali il Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza » (1 ). « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante all'occasione solenne che Monti celebrava; di Dante il quale forse il primo incominciò a illuminar le opre infi nite degli antichi italiani per ammaestramento de' mo derni; di Dante il più zelante dell'antica gloria degli italiani; il più severo censore della corruzione nella quale ai suoi tempi l'Italia era caduta; di Dante che tutti i suoi studi e tutte le sue cure dirigeva al solo fine del risorgimento dell'Italia; e con quali arti vi tendeva ! Col predicare tra gli abitanti delle varie parti nelle quali era allora divisa l'Italia l’unione, e negli ordini pubblici la concentrazione del potere moderata dalle leggi ». L'alta coscienza del Cuoco vede in Dante il simbolo d'ogni attività della stirpe, e per il divino poeta ha un vero culto, come lo hanno e l'avranno tutti i grandi fattori della nostra storia e della nostra civiltà, da Manzoni a Carducci, da Mazzini a Gioberti (2 ). E la sua volontà d'esaltare tutto ciò che è italiano, e in Italia ha avuto origine e nascimento, si compenetra con un felice intuito storico, per cui il fenomeno politico (1 ) Giorn. ital., 1805, 27 maggio, n. 63, p. 274: Visione del professore V. Monti. Per altri accenni del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti vari, v. I, p. 235, 257; v. II, p. 267. (2 ) L'alto concetto che V. Cuoco avea della grandezza di Dante si addimostrò chiaramente in una circostanza spiace vole, in una di quelle tante polemiche, con cui gli stranieri cercano di menomare quel che è nostro e di impicciolirlo. Avendo un giornalista dei Débats scritto che una vita di Dante poteva ritenersi a priori una lettura sonnifera, e che la Divina Commedia era l'opera di un piccolo politico, di un poeta bar: baro, del quale solo pochi frammenti potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca: « Sia permesso all'autore dell'articolo di ignorare la storia, e non saper quanto Dante fosse politica mente grande. La gloria del sublime poeta ha offuscata quella del profondo politico, ed il maggior numero degli uomini ram menta l'autor della Divina Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia, libro che, ad onta delle spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude pensieri profondi, e, ciò che più importa, non è molto lontano dai nostri attuali bisogni ». Vedi Giorn. Ital., 1804, 25 gennaio, n. 11, p. 45. 217 e culturale è mirabilmente rappresentato. Esalta il se colo XVI, « il secolo in cui rinacquero tutte le arti e tutte le scienze, e tutte rinacquero in Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il resto ancor barbaro dell'Europa; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e tanti beni si aggiunsero all'antico; sursero nuove sette religiose, ed il fermento che esse produssero fecondò li primi semi di quella libertà di pensare che dovea col tempo produrre e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo »; ma subito si entusiasma, e, quasi a suggellare tanta gloria, esclama: « e tutti questi avvenimenti o nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per l'Italia o per l'opera degli italiani...! » (1 ). Il secolo XVI è il secolo di Leonardo, di Raffaello, di Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto, di Tasso, di Machiavelli. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino. E chi mai, se si eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente l'autore del Prin cipe e delle Deche? Anzi astraendo e generalizzando un parallelo tra il Cuoco e il Machiavelli si può fare, ed è stato fatto (2). « Più di uno » nota Giuseppe Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli, perchè al pari di lui trovò i princípi e le formule di un rinnovamento della coscienza nazionale: e come il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori umanistici si incarnano nella realtà della vita politica, e, svestito il paludamento retorico, si rivelano nelle linee semplici e precise di un nuovo ideale, così il Cuoco, dopo un secolo di vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura esperienza, per la quale si fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela rinnovata e con sapevole di sè la coscienza italiana » (3 ). (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà: (vedi in precedenza, p. 163 ). (2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese, 1903, Ap pendice B. LABANCA, op. cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit., p. 4. 218 « Le ragioni che possono suggerire il pensiero di una certa affinità tra i due scrittori sono parecchie: 1° la tradizione, superficiale e scolastica più che al tro, della trasmissione dell'ideale unitario; 2º una certa affinità nelle circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di attendere alle fatiche dello scrivere; 30 il comune intento di ricamare sul tessuto della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » (1 ). Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno sempre un valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni dei tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si può mai raffrontare col Risor gimento, fenomeno soprattutto politico sebbene anche culturale. Quel che a noi invece interessa, ripeto, è la nuova luce che il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi ». A ciò immagina che un suo amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo: in questo manoscritto l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico. La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura. « Il maggior numero (degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè pieno di passioni e servo de' partiti. Io (1 ) G. OTTONE, op. cit., p. 51. Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico, laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza passione veruna; non ho seguito nessun partito, e li ho offesi tutti. Ho scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto: gli uomini ragionevoli son pochi ». Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il Machia velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da ogni giudizio a priori (1 ). Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia ai Me dici, ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il duca Valentino? Nulla di tutto ciò. Egli ha visto i costumi e gli ordini dei suoi tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi: che fate? voi non sapete essere nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete; voi non avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per distruggerle negli altri. Ha detto: siate giusti, e, se pure qualche volta vorrete permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi soli permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano dell'uomo foscoliano: che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. (1 ) Che questa sia proprio la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire ad una esatta comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un passo di un altro suo articolo: Giorn. ital., 1806, 5, 6, 7, 8 gennaio, n. 5, 6, 7, 8; p. 19, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32: Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia ). « Quelli li quali leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla stessa attenzione colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo giudicano senza averlo letto (com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la scuola ge suitica ) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o abbia voluto rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo ebreo. Io son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra cosa, ma vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente la quale era superiore ai tempi suoi, e che in conseguenza doveva esser per necessità ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben compresa ». 220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai popoli? Ha tentato di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe parlato, dati i tempi, invano. I principi si muovono per il loro potere, i popoli per la loro virtù. Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha potuto dir loro: fate uso della vostra virtù; essi non l'avevano. Invece si è rivolto ai principi ed ha detto: fate uso del vostro potere; e questo precetto prima o dopo avrebbe dovuto produrre gli stessi effetti del primo, « perchè è tanta l'efficacia della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre gli animi e gli ordini delle nazioni ». Ma perchè ha scelto come suo esempio il duca Valentino? Perchè quelli che il duca oppresse e distrusse erano più scellerati di lui, e fra tanti scellerati ha preferito quello « che almeno dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano ». Da queste notazioni scaturisce ben netto il giudizio che il Cuoco fa del Machiavelli, giudizio ben diverso da quello che ne davano tutti gli storici e ne dà lo stesso Foscolo, che si arresta sbigottito di fronte alla crudezza e alla rigidità delle massime politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano troppo vigile senso storico e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il suo giudizio infine coincide con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe questi proprio lo scritto cuochiano? Io ne du bito assai; ma certo è che i due critici si incontrano, spinti forse ad un punto comune da un solo ideale, da studi similari sovra la grande opera vichiana, da un eguale temperamento meridionale, più nobilmente concreto nel suo idealismo critico che non astratto in un nebuloso atomistico positivismo. (1 ) « C'è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo va. lore morale. E hanno trovato che questo libro èun codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il Cuoco risulta da questo nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche, ma la sua esaltazione non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente illuminata da fine senso storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni fenomeno politico, glorioso od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove trova le sue radici, cioè la sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo tempo; Machiavelli è Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una ragione, per noi può anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere dinanzi a loro passivi, ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro esperienza no stra, affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo ma si saldi con la nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità umana di Vincenzo lo differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori. Ben rivela a questo proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa esercita nel giornale una propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 50). « Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidato da elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com prende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la sua am mirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso e lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione e per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 69 ). 222 lianità esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua metodicità, che fa pensare al partito preso. Si tratta di geografia: sono gli italiani che hanno scoperto India ed America (1804, n. 6 ); si tratta del sistema di Gall: esso è stato preceduto da trovate di italiani (1804, n. 140); si tratta d'arte tipografica: il primato italico con i vari Bo doni è indiscusso (1805, n. 55): e così in materia di belle arti, di poesia, di teatro (1 ). Il Cuoco ha un altro metodo, spesso esagera sull'infe riorità dei suoi connazionali di fronte agli stranieri, ma esagera non per altro che per provocare una specie d'emu lazione, una specie di slancio a cose più alte. Nè è a dire però che la lode manchi al Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non solo ai grandi antichi, ma anche ai contemporanei più eletti o a coloro che da poco sono mancati ai vivi. E in quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e le sue osservazioni sono quanto di più giusto si possa concepire. Esprime un giudizio su Verri, ed il giudizio gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu » scrive « sublime filosofo, profondo letterato; il primo storico della sua patria, la quale avanti di lui non aveva avuto che cronichisti privi per lo più di filosofia, di cri tica, di gusto; magistrato zelante, attivissimo, autore o almeno parte principale di tutte le utili riforme che can giarono quasi interamente la vita politica della Lom bardia austriaca ». E il Verri richiama alla mente un altro grande, che in una disciplina delicatissima, come quella dei delitti e delle pene, segna l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve l'Europa Beccaria. Egli fu quasi l'oste trico di un genio grandissimo che taceva compresso dal l'indolenza a cui era portato per fisica costituzione » (2). Spesso sono nomi, grandi ma non abbastanza noti, quelli ai quali si riferisce, e allora il Cuoco si accalora e la parola diviene incitatrice ed eloquente, sebben dolorosa (1 ) P. HAZARD, op. cit., p. 235. (2) Giorn: ital., 1804, 4 luglio, n. 80, p. 323-324, Scrittori clas sici italiani di economia politica. 1 223 nello stesso tempo per la incomprensione degli italiani. Parlando d’economia trova modo di ricordare un pio niere di questa scienza e di richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria Ortez. « Chi era questo Giammaria Ortez? Ecco una domanda che tutti gl'italiani fanno, e che intanto farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto merito quanto Ortez, non avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non sapremmo dir se per mo destia o per orgoglio; modestia sempre lodevole, orgoglio spesso nobile in un secolo corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro eccedenti quei limiti tra quali si contiene la virtù » (1 ). In questa difesa del nome italico il molisano muove contro tutti gli stranieri che a lui ingiustamente s’oppon gono e divengono dispregiatori delle glorie nostre. Recen sendo infatti nel giornale un opuscolo di Vincenzo Monti, Del cavallo alato d'Arsinoe, nel quale il poeta si scaglia contro Salvatore De Coureil, che con gallica fatuità aveva osato menomare glorie purissime d'Italia, il Cuoco lo loda assai di ciò. « Noi non entriamo in questa disputa.... Ma il sig. De Coureil chiama Parini cattivo poeta; Alfieri, se non mediocre, almeno non degno di tante lodi quante gliene dànno gli italiani sol perchè non hanno altri tra gici; ecc. ecc.... Haec non sana esse, non sanus juvet Ore stes. Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 573: Economisti italiani. (2) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 574: Il cavallo alato di drsinoe di V. MONTI. Nè la tutela vigile che il Cuoco fa del buon nome italico s’ar resta qui: allorquando « un Lalande dice con pueril sangue freddo, che l'Italia non ha oggi un solo (un solo? ) uomo di merito»; allorquando il tragico -comico, drammatico -sentimen tale e memorioso Kotzebue tratta tutti gl'italiani da ignoranti, da incolti e quasi da canaglia » (Giorn. ital., 1805, 18 agosto, Sup plemento al n. 98, pp. 577-8, Necrologia ), egli è là, e s'appa lesa bellicoso difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di Luigi Bossi, in cui questi vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà dal sig. Akerblad », egli pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la difesa delle nostre intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso il Giornale italiano appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab biamo un maggior numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non li conosciamo neppure per la nostra apatia: « longa urgentur nocte, carent quia vate sacro » (1 ). La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non la coltivano; e, se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si disconoscono. « Dotati gl' italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo ingegno, non mancano di cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto si ritrova talora un uomo il quale vale per dieci accademici. Che pro? Le sue osservazioni, le cognizioni sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i confini di una picciola terra e muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma l'Italia rimane picciola » (2 ). E così gli stra nieri si avvantaggiano su noi: scoperte che furon fatte da italiani, poi vengon ripresentate come novità francesi o inglesi, e magari da noi ammirate, da noi che forse le avevamo vilipese e trascurate. E nel rilevare ciò Cuoco non esita a discendere a problemi pratici, per dimostrare, per esempio, come un ramo d'industria, la pastorizia « tanto utile » e largamente sfruttata all'estero, sia stata esercitata tecnicamente per la prima volta da un italiano, il Dandolo, il quale poi l'ha diffusa con grande dottrina e ripetuta esperienza (3 ); come, ancora, certe pratiche agricole generalizzate in Inghilterra o altrove, siano po steriori d’un buon secolo a ricognizioni nostre, del tutto (Giorn. ital., 1805, 22 luglio, n. 87, p. 470: A proposito della « Lettre » di L. Bossi allo SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e Akerblad vedi G. Cogo, op. cit., p. 89-90, ove di essi si parla esaurientemente, dando biblio grafia e notizie. Giorn. ital., 1804, 28 marzo, n. 38, p. 152: Scrittori italiani di economia politica. (2 ) Giorn. ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566: Biblioteca di campagna, ecc. (3) Giorn. ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p. 96: Del governo delle pecore spagnole e italiane, ecc., saggio di VINCENZO Dan. DOLO: sovra il Dandolo vedi G. Cogo, op. cit., p. 88. 225 nostre secondo il giudizio degli stessi stranieri (1 ); come, infine, addirittura pretese scoperte fisiche intorno a cui inglesi e galli si disputano il primato siano scoperte, ri trovati di un filosofo il cui nome va per la maggiore, nientemeno di Giambattista Vico (2 ). Tutte queste osservazioni rispondono ai mezzi, con cui il Cuoco si propone di raggiungere il suo fine: la formazione della coscienza nazionale e dello spirito pubblico. Bisogna cominciare a misurarci con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. (1 ) Giorn. ital., 1805, 31 ottobre, 2, 4 novembre; n. 148, 150, 152; p. 874, pp. 882, p. 889-90: Giudizio sopra tre istituzioni agrarie. A proposito di questo articolo vedi G. Cogo, op. cit., (2 ) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da un inglese della virtù che hauna sfera magnetica nuotante nel mercurio di rivolgersi intorno al proprio asse, e d'indicare così la la titudine e la longitudine. Ora i francesi disputano agli in glesi l'onor della scoperta, e pretendono che questo fenomeno trovasi descritto nelle Efemeridi geografiche di Busch, 1803. È pur graziosa cosa veder altri popoli disputarsi la gloria di ciò che è italiano. Nella Vita che Vico ha scritto di sè stesso (e la scriveva circa il 1730, quasi un secolo prima di Busch e del l'inglese ), quest'uomo parla di una nuova teoria che egli avea imaginata per ispiegar il fenomeno della calamita, e da questa sua nuovateoria trae la conseguenza che la calamita non solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde vien poi la rotazione intorno al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del giro della terra, ecc. Ķico conchiude dicendo che questa nuova proprietà si sarebbe osservata tosto che si fossero fatte dell'esperienze, in modo che la calamita avesse potuto svilupparla. Non parliamo della ragione che mosse Vico a far questa congettura: essa era figlia di una ipotesi forse falsa. E qual altra ragione può aver altro fondamento che un'ipotesi, o qual altra ipotesi può dirsi vera? Del resto Vico proponeva un'esperienza: dovea farsi e non si fece. Ma già da due secoli l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè questi li producono il suolo ed il cielo: però l'italiani più non navigavano, più non commerciavano; i overni non si curavano di nulla ed i privati curavan solo lo studio delle leggi o della medicina, dal quale speravan ric chezza, quello della teologia, che li promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto, unico mezzo che un uomo d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un grande... ». (Giorn. it., 1804, 6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo: vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 244. 15 appariranno sempre meno grandi di quello che presu mono di essere, e noi appariremo sempre più grandi di quel che noi stessi non crediamo. Se essi poi di fatto « sono oggi più grandi di noi »; « non importa: appariranno sem pre tanto meno grandi quanto più ci saranno vicini, e perderanno quella riverenza che suole aversi per le cose lontane » (1 ). Ma in quest'esaltazione dell'italianità l'autore del Sag gio storico non è cieco, anzi, laddove vede una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con crudeltà e freddo sguardo d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno rinvenuto quella filosofia delle lingue che è una scienza tutta nostra, ma i piccoli nipoti, i discendenti di quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non che curarla, l'hanno abbando nata: gli italiani hanno creato i più splendidi melo drammi e libretti, che si conoscano, orbene, oggi essi stessi non sono capaci di darci nulla più di buono, e la deca denza del libretto porta seco la decadenza della musica (3 ): gli italiani un dì maestri nella difficile arte della sacra eloquenza, oggi sono inferiori agli stranieri che da noi hanno appreso (4 ). Questa posizione critica, che tanto distingue l'italiani smo del Cuoco da quello del Benincasa o del Lomonaco, si rivela anche nel terzo mezzo dal molisano adottato per creare un sentimento unitario: il ragionar di frequente delle cose nostre. « Delle cose nostre o non ne abbiamo parlato, o ne abbiam parlato con insensato disprezzo e con più insensata lode; cose le quali, sebbene opposte, pure per la natura dello spirito umano, che oscilla sempre tra gli estremi, non sono inconciliabili tra loro ». Delle cose nostre occorre invece ragionare obiettivamente, senza (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5. (2 ) Giorn. ital., 1804, 25 febbraio, n. 24: Sullo studio delle lingue (ristampato in Scritti vari, v. I, p. 78 e sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle lingue come documenti storici). (3 ) Giorn. ital., 1804, 8 ottobre, n. 121, p. 493: Spettacoli. (4 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (ristam pato in Scritti pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 89-92, col titolo di Eloquenza ecclesiastica ). accenderci troppo, con scienza e ragione, e allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte motivi di renderci migliori e non mai di crederci pessimi » (1 ). A questi princípi superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei più importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio, un libro dell'avv. An tonio Corbetta sulla malavita, (2 ) ritiene che tra le altre cause, che questa alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione insufficiente. « Noi non abbiamo costume ». « Noi non abbiamo educazione fisica ». « Noi non abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non imparan da fanciulli nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono adulti». Ecco come Cuoco getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal fenomeno risale alle cause, anzi alla causa per eccellenza, più remota, ma più vera. Provvedimenti di sicurezza? Ma questi sono insuf ficienti per eliminare il male, una volta note le cause de terminanti. Se volete estirpare la delinquenza, consiglia Vincenzo, i mezzi non sono la reazione e il carcere, ma le istituzioni sociali con una intensa opera di pedagogia preventiva. Che abbiamo fatto, si domanda, in questo campo? Nulla. Ecco come un problema giuridico diviene un problema di natura superiore, pedagogico, anzi filosofico: l'educa zione del popolo, di cui il Cuoco è il più strenuo soste nitore, e che egli pone sovra basi nuove e geniali. Ma questo problema, che poi è il fulcro del pensiero del mo lisano, il problema insomma per eccellenza, noi esamine remo più a lungo, quando verremo a parlare del Rap porto e Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica istruzione nel regno di Napoli. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 6. (2) Giorn. it., 1804, 20 agosto, n. 100, p. 410: Osservazioni di un ex giudice, ecc.  L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica e nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”, nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di morir per la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”,  mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso: creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in Italia” nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in una lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di Cuoco perciò è un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulteriore valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del “Platone in Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se ne accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un viaggio culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il suo scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto, Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente o indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana. La lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro. dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte, disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco anzi è nello stesso tempo viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera, più pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace; immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da' costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi, tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere, a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui, visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v ' impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone un limite, che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine che avete in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente, manca del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno, buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2 ). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico, perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa, ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS, Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital.: Varietà (vedi p. 163 del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e didascalici. E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non sono. Noi li vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in azione, in atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo scolaro italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi antichi componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o sarà e fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore: il rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici, he furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum sapiential” si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo essere professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa. E come chi voglia intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto del suo titolo e del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci latine, per considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco pretende rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima italica, e che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere costruita da esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone in Italia” di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso non esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco, scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno, per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile. L’opera del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici, e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L. SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così, passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia, innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico, perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico, senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p. 375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto; e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di tinte forti calde sfumanti; poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI apparve degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in quel poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava, quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno? — mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento, che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti.... Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora.... Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio; sia che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda ai fatti moderni, e indirettamente dica della rivoluzione francese e de' popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo. Noi dimentichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana trae un non perituro insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non parla al suo discepolo Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio non parla ai suoi sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano, ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le ripetizioni non appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco, di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga, spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero. L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi, vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne' tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa, l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della prim. Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone, riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco. Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco; l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de' vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario, onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome “etrusco”. Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero origine grandi mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de' costumi produce la corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti, e poi generò la corruzione della religione, la quale, corrotta, accelera la morte delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò per legge naturale di cose. Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino Platone, qualunque altro impero ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non cessa la disunione tra le varie città che la compongono, tra gl’uomini che abitano ciascuna città. Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità. All'unità si tende ovunque è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili. Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gl’esseri non è se non lo sforzo degl’elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran giornate alla morte. Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano. Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si ripopola di genti, di città, si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta composta all'ammirazione universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire pitagorea, nella sua essenza è pur essa autoctona, se pure apparentemente ellenistica. Quando le colonie si sono stabilite in Italia, le stirpi indigene dalle montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi disputiamo, osserva un italico a Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra regione sono state forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune degl’elleni e degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non gl’ellenici, che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili, i maestri degl’italiani in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato italico però ancor si conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta. Su questo primato italico il Cuoco insiste, insiste, insiste calorosamente. E la sua tesi nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco, fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona, riempiendo di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani nemici [Furono gl'italiani che primi danno opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro filosofia. Prima che Teodoro reca agl’elleni la scienza degli italiani, in Grecia, le idee geometriche sono puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani, potenti per un istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla quantità: nella geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed hanno spinte al punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan sulla qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici mantengono indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è duello, scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio urto di masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola la convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’ dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io! Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti stadi e valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le ha. Tre quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l’imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti belle, tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani. Ben poche olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo, contate dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gl’italiani ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le italiche finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma, l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi, antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali materiali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare un'altra volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola gente, un nome unico: ‘Italia.’ Pure, se tu osservi attentamente e con costanza, ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine, cangiano ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello.  È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia, dice Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora volea far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli e la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E l'energia di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente difender la patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di barbari a tutti coloro che s’intromettono armati in un paese che non è loro patria, e chiama poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri. Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripete agl’elleni. Tra voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria, dovreste arrossire. Sia stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico insieme. A questa meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili. Onde non vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla. Ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che diserta le campagne: spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre bisogno di una mente per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire. Ma quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera, cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si volgono alla stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un popolo, dicono alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi di tutta la terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e formatene una città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde il Cuoco o Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini. La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario perciò ai fini dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la subordinazione. Diversa sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti. Ma una educazione per i primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. Non perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi. Tutt’i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i filosofi che credono opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto con i sublimi princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto filosofo e del popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. Se è vero che gl’esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi, debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi possono sembrare inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli per i quali furono immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza: la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi, gl’errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità piantare con mano potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il popolo a ragionare, convien comandargli di credere. E, per convincerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità più utili. E, se talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso. Sono queste conclusioni che già sono implicite nel saggio storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e la costume sono i principali oggetti di tutta la scienza politica. La prima risponde all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male, spesso lo sancisce, e la sua opera pedagogica manca. La legge è sempre una, perchè la natura dell'intelligenza è immutabile. Mutabile è la natura della materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che il costume inclina sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque, conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo formati, onde sapere per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime; il che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione. Nn di quella educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o, conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo legno tra gli scogli.  La legge però resterà sempre un astratto, se gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore, anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî » dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione. La legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità. Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città, per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa èla parte più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi. Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e di tutti. Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico, cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi, religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione, lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione e costumi, Stato e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno; nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria, potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più, breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli Stati, ove si giunge ad una reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina politica, che nel suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in Italia,” si rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi non è vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro: e che invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città? Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto, fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla plebe, poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma due volte ma guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei. Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello stato. I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città, avviliti sempre dalla miseria. Ecco qui ritornare il concetto da noi già esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissension. Ove avvien che siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de' primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua. Soltanto attraverso questa coscienza politica dei diri genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco: fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è possibile un contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno, poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria; nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge unica. Il primo effetto della filosofia, dice il Cuoco, è quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug gersi, ma di difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora morte. La conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina, missione il cui spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le riferisca all'autore del romanzo, non possono non commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano. In una prima età, scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi; e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche..., così veggo che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più lungamente la pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di molte città il numero de' cittadini, prima e principal parte di quella forza, contro la quale la virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ». « Non pare a te » continua il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura, colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna regione: — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola?  Da ciò scaturisce la necessità della conquista come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del divino posto fuori di noi: questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia, intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza. Grande sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non ritornerà più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del 1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei commerci e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente poli tico, prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spirito pubblico italiano. È l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro, la musica, la scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento: ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia, a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Platone e un altro grande libro, il Primato morale e civile degli italiani, come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia politica. Questo parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani P. HAZARD, op. cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice che il “Platone in Italia” è la preparazione del Primato morale e civile degli Italiani. Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione non può esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana, pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico, insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare. E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini, tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. - I tre caratteri di una educazione nazionale: universalità, pubblicità, uniformità. - Tre gradi in una completa educazione: scuola elementare, media, universitaria. - Morale e religione nella scuola. - Educazione filosofica. Quanto sopra abbiamo detto segna ben precisa la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno italico. Il Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti luminosi del periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli una gloria non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una amicizia intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzon. Con il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede in patria, preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali del governo di Milano per quello meridionale. È l'ultimo tratto della nobile vita del molisano, che, attraverso una fiera ma LABANCA, op. cit., p. 409; N. RUGGIERI, op. cit., p. 48; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172; G. GEN TILE, op. cit., p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà il 13 dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme (1 ), nonchè di un'opera dottrinale e pratica nello stesso tempo (2 ), il Rapporto e il Progetto di decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico speciale.... agli inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc casione, poichè come vedremo, risponde nelle linee prin cipali, a idee profondamente maturate dal Cuoco in tutta (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (2 ) Oltre il Rapporto il Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile, e della sua attività sono documento varie pagine raccolte nel secondo volume degli Scritti vari. Del Rapporto e del Pro getto di decreto esistono numerose edizioni: una prima, senza data e senza frontespizio, fatta a spese del governo prima del 10 ottobre 1809 per tenere il luogo del manoscritto nelle distri buzioni che del Rapporto e del Progetto si fece al re, ai mini stri e ad altre autorità, e quindi non pubblica; una seconda, che dovea essere il primo volume delle Opere di V. Cuoco, raccolta iniziata nel 1848 a speso di Luisa de Conciliis, nipote del gran molisano, e naturalmente non venuta mai a compi mento, edizione che porta il titolo: Progetto di decreto per l'or dinamento della pubblica istruzione seguito da un Rapporto ra gionato per V. Cuoco (Napoli, Migliaccio, 1848); una terza infine, che uscì alla luce nel primo tomo della Collezione delle leggi, de' decreti e di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di Napoli dall'anno 1806 in poi (Na poli, Fibreno, 1861). Sovra queste edizioni, tutte e tre scor rette, il Gentile trasse la sua edizione critica del Rapporto e del Progetto, corredata di documenti e note bio -bibliografiche illustrate, che inserì negli Scritti pedagogici inediti o rari (pa gine 49-276 ). I criteri critici di collazione delle tre suddette edizioni, seguìti dal Gentile, non furono dismessi da N. Cortese e da F. Nicolini, che dovettero far posto sia al Rapporto che al Progetto negli Scritti vari (v. II, pp. 3-161 ), correggendo ta lune sviste e supplendo in talune omissioni il loro illustre pre decessore. Nonostante che gli Scritti vari abbiano visto la luce, allorquando questo lavoro era già compiuto, le citazioni sono state su di essi rivedute definitivamente anche per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera di scrittore e di uomo politico, in rela zione con le questioni fondamentali del tempo suo. Evitando di entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap porto precedettero e che perciò lo determinarono, perchè oramai sufficienza noti, vengo a studiare le idee che in esso si agitano ed i loro addentellati con tutto il pen siero cuochiano. L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema po litico. E, come ogni sistema politico mira al benessere sociale, in quanto questo è realizzato eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol attuato, deve ope rare col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol rendere grande uno indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo di formarsi una coscienza na zionale. Ma praticamente come? Con la scuola. « La sola istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » (2 ). Il termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili, alimentate da un lato dall'opera giorna listica, dall'altro dalla scuola. Per comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola? Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita, era assente anche nella scuola. Di chi dunque? Di pochi fortunati, dotati dalla sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una cultura: i nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti nelle grandi città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato l'attenzione dei governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver compreso che solo queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla cosa pubblica equi vale eternare lo Stato stesso. Ma la rivoluzione non po (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 336 e sg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 3. 263 teva dare nel campo educativo, e in generale formativo, buoni risultati, dato il suo astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista, lontana com'era dai bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di contro accetta il postulato rivoluzionario, per cui dal popolo non si pre scinde, ma lo rinnova col suo concreto senso storico della realtà: bisogna, dice, non elevare il popolo alle nostre supreme idee di libertà, di virtù, di moralità, che, in quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a lui, entrare nel suo spirito, nel suo sistema men tale, e, attraverso un progresso graduale e lento, mostrar gli l'utilità, oltre che la necessità ideale, della libertà, della virtù, della moralità. Questo compito, essenzial mente pratico, si può assolvere con la scuola, che prende l'uomo fanciullo, e lo conduce all'adolescenza, e magari alla gioventù, maturandone i sentimenti con un processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato. Sol tanto così il popolo entrerà nello Stato, rafforzandolo e potenziandolo. Sentite come ragiona il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il gran segreto della forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol esser la parte pas siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in istato di produrre grandi beni e grandi mali: la sua condizione è cangiata in gran parte degli Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato e delle leggi senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò che non sa fare. Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo stesso che voler condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è difeso da’ cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo sette palmi di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro doveri l'amarla ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni politiche non hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e, se questo maggior numero non è istruito, o non ha volontà o spesso ne ha una contraria alla legge.... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al popolo, e specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una nuova educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria nazionale » (1 ). Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le loro buone ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non potranno mai negare al popolo, quello che a lui si deve: l'educazione, A coloro che obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di passioni è facile rispondere. « E pure tra questo popolo noi viviamo; questo popolo forma la parte più grande della nostra patria, da cui di pende, vogliamo o non vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra; e noi abbiam core di dormir tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa nostra a colui che noi stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni virtù? ». A coloro poi che dicono il popolo essere senza mente, o che ripetono il vecchio sofi sma aristotelico, esservi uomini nati a servire ed altri nati a governare, è pur facile controribattere. « Ebbene questo popolo nato a servire, questo popolo che non ha mente, è quello che tante volte vi fa tremare con quei delitti, ai quali lo spingono quella miseria, quell’ozio, quella roz zezza in cui, per mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la religione non avesse presa un poco di cura della educazione sua, qual sarebbe mai questo popolo? ». Oggi non si può tornare indietro: il bisogno dell'edu cazione è immanente, sentito da tutti, sovrani e sudditi, governanti e governati. « Non mai il bisogno dell'educa zione è stato maggiore. Tutti gli usi antichi, che tenevan luogo di precetti, vacillano: gli uomini, dopo i troppo vio lenti cangiamenti di ordini e d'idee, soglion cadere nel l'anarchia de'costumi, che è peggiore di quella delle leggi. Non mai vi è stato bisogno maggiore di educare quella (1 ) Giorn. ital., 1804; n. 61, 62, 75; 21, 23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-304: Educazione popolare (ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e sgg.; ed ora in Scritti vari v. II, pp. 93-102 ). 265 parte della nazione che chiamasi popolo e diffonder l'istru zione ne' villaggi e nelle campagne ». Per queste sue considerazioni il Cuoco si ricollega al grande pedagogista prerivoluzionario, a Jean- Jacques Rousseau, il solo forse che primo sentì le vive pulsanti forze del popolo nuovo ed il bisogno di provvedere alla di lui istruzione, riferendosi alla sua natura e all'evolu zione delle sue facoltà (1 ). A chi noi daremo mai questo alto compito di creare degli uomini consapevoli del loro posto nella società ! La risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il carattere etico -giuridico che egli attribuisce allo Stato, è ovvio che l'educazione debba essere impartita, o almeno control lata, dallo Stato. L'educazione mira a formare buoni cit tadini: è naturale dunque che lo Stato » volontà collet tiva, somma di volontà individuali, da essa non possa prescindere. « Posto questo bisogno nello Stato » osserva giustamente il Gentile « di consolidare sempre più le pro (1) Del resto il concetto di natura e quello d'educazione e di Stato nel Rousseau hanno un significato ben più profondo di quanto generalmente non si creda. Vedi a questo proposito il libro di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del contratto sociale, Bologna, Zanichelli, 1906, p. 32. « È.... massima (del Rous seau ) che nella realtà si distingua ciò che è fattizio, ossia sopravvenuto per arbitrio ed arte dell'uomo, da ciò che è na turale, ossia fondato nell'essenza medesima della cosa. Questo ha valore di norma rispetto a quello. La natura è dunque per Rousseau il principio del dover essere, più ancora che quello dell'essere. Essa esprime la realtà in un senso filoso fico e non già fisico; rappresenta la sua ragione e non la sua contingenza ». Ma questa concezione della natura, propria del Rousseau, nel Cuoco viene integrata e corretta, come nota il GENTILE (Studi vichiani, p. 419), con la concezione storica dello spirito. « Ed è in verità non una contaminazione delle due filo sofie, ma la schietta pedagogia del Vico, che aveva più salda mente fondata (benchè con fortuna storica senza paragone minore) che non il Rousseau, il motivo di vero del suo natu ralismo: l'autonomia dello spirito ». A due distinte fonti oc corre ricondurre la pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso dell'essenza prima d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione della stessa realtà allo spirito nella sua dialetticità. 266 prie basi nella coscienza nazionale, è evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti della Rivoluzione francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo Stato democratico, è funzione di Stato. Poichè lo Stato si regge sulla coscienza nazionale, e questa si forma con l'istruzione pubblica, rinunziare a questa è per lo Stato un assurdo: sarebbe come rinunziare a sè stesso. Il compito educativo certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende: l'ecclesiastico, il filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito e al suo sviluppo, ma la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in tegrata dall'attività generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche od ecclesiastiche, possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli, e le adatti sempre meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le riconduca a questo, ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello Stato, in cui il sa cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di ac cordo, e concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il punto primo che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione religiosa, fissiamo i suoi caratteri: essa deve essere in primo luogo univer sale, poi pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il Cuoco concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico. Vita non è vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo, perciò è innanzi tutto attività dello (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 408. Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di Stato qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato educatore. « Quando il Rousseau parla (Vedi DEL VECCHIO) della « nature du corps politique », non intende con ciò di riferirsi alla guisa onde lo Stato si presenta nei fatti; ma alla ragione dell'essere suo ingenerale, all'esigenza suprema, cui esso ha da corrispondere.... La libertà e l'uguaglianza, fon date nell'essenza stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato la loro assoluta sanzione ». E la libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in un senso spirituale e non empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito. Lo spirito è qualcosa di inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere inscindibilmente uni taria. Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali e scienze morali, debbono convergere ad un sol centro, lo spirito. I secoli barbari potranno dire « non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (1 ); i secoli di pro gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà mirano ad unire le disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella scienza a noi precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione dello spirito, una nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale. Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio significato; ed in ciò, oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la gloria di se guire gli esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi istruttori di tutta l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla pubblica istruzione » (2 ). L'educazione, in secondo luogo, deve essere pubblica. L'Italia è sempre stata una terra feracissima di ingegni, ricca di uomini grandi, ma costoro, maturatisi in am bienti apatici e morti alla cultura, hanno molto contri buito alla propria gloria, poco alla gloria dello Stato e al benessere della collettività. Poichè « la nazione non era istruita, essi fecero molto per la gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria; tra essi ed il popolo non eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di comunica zione » (3 ). Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi cittadini, onde le loro forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e meglio ad un fine unico,. il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione sia pubblica e statale si gnifica dunque la morte delle scuole private, specie in un paese come l'Italia ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha una storia nobilissima? No certo: le scuole private sussistano pure gestite da chiunque, ma (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. (2 ) Cuoco, Scritti vari, v. II, p. (3) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. 5. 268 lo Stato ha l'alto controllo a che i maestri siano degni e moralmente e culturalmente, a che la materia d'in segnamento sia comune a quella delle scuole pubbliche, a che non si propaghino per mezzo loro dottrine con trarie all'ordine pubblico e alla moralità media della società. Il fatto però che l'ente pubblico, cioè lo Stato, dia una educazione ai suoi cittadini non significa che tutti i cit tadini debbano divenire altrettanti dotti. Lo Stato non pud perseguire questo fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel Platone in Italia, laddove osserva che una città di soli savi non meriterebbe nemmeno il nome di città, perchè le mancherebbe ciò che solo tramuta una congre gazione d’uomini, in città, in Stato: « la vicendevole di pendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stra nieri » (1 ). Accanto al savio è necessaria la coesistenza della massa dei non savi, e in questa è poi necessaria una ulteriore differenziazione di funzioni, per cui l'agricoltore non sia calzolaio, il muratore non sia mugnaio. Coloro che si propongono un assoluto illimitato eleva mento intellettuale del popolo cadono nell'errore, poichè vogliono l'impossibile e il dannoso: l'impossibile, « per chè non si può giungere alla perfezione nelle scienze se non per la stessa via, per la quale vi si perviene in tutte le arti, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu pandosi di un solo; il che da un popolo intero non si può fare, poichè, per sapere, dovrebbe egli rinunciare ai mezzi di vivere »: il pernicioso, « perchè rimanendosi il popolo a mezza strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed un mezzo sapiente, diceva il Chesterfield, è unpazzo intero » (2 ). Da ciò consegue che l'istruzione, sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e come nel paese vi deb bono essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i filoneisti, Cuoco, Platone, v. I, p. 86. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 5. 269 così vi debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i meno colti. Vi sarà perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta, una per molti, che diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo elementare o pri maria. La prima è destinata al progresso delle scienze, la seconda ha per iscopo di diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita commerciale industriale agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare allo Stato fedeli sud diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione della scuola rivela il gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta gamma della vita umana nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si ferma qui. Occorre che l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia diversa da quella, che impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse sianvi pure le tre forme o gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne? È questo un tema caro al Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il grandioso compito di allevare figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso comune, cioè di nutrirli, ma di istillare in essi i primi sensi della vita sociale, i primi germi, che poi nell'interiorità dello spirito si svilupperanno. Esse, che hanno un così alto compito, conviene che abbiano una adeguata preparazione. Infatti, scrive il Cuoco, « non può dare al figlio l'educazione di un cittadino colei che ha la condizione e la mente di una serva » (1. ). Perciò lo Stato si deve preoccupare dell'educazione femminile, e provvedervi in modo da non turbare l'ordine della natura e la sua essenza: educare le donne da donne, ed educarle secondo la diversa posizione sociale che nel mondo esse avranno: e « quando le donne saranno educate, sarà com piuta per metà l'educazione degli uomini » (2 ). Una questione subordinata è quella della gratuitità del l'istruzione. Deve essere questa gratuita per tutti? No. L'istruzione inferiore o primaria, appunto perchè ha i (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 25. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 21. 270 caratteri della più vasta generalità, è offerta dallo Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma l'istruzione media e superiore, siccome risponde ad utilità non solo sociale, ma altresì particolare, deve essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre a fare condizioni di favore a chi, essendo sfornito di beni di fortuna, s'addimostri degno per altezza d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo Stato, che un giorno o l'altro con le opere sue glo rificherà. Infine, in terzo luogo, l'istruzione deve essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto l'uniformità dell'istru zione appare chiara: in ogni suo grado, inferiore medio e superiore, in ogni suo aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve essere uniforme, svolta con gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con gli stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso d'un simile sistema: le scienze possono anche arrestarsi, poichè la discussione e il contrasto sono il vero e più efficace stimolo al progresso: si può generalizzare un abito di servilità verso il passato, che è quanto di più nocivo per la vita, che si sviluppa in un irrefrenabile superamento dell'antico nel nuovo. Perciò questa uniformità non si può intenderla in un senso assoluto, ma bensì relativo. Ognuno che insegna deve insegnare, previa autorizzazione dello Stato, ed in segnare sulla base di un programma -metodo anteceden temente presentato alle superiori autorità pubbliche. I corsi impartiti da privati non avranno effetto accade mico, se non in seguito ad un esame dinanzi ai docenti di Stato. Lo Stato inoltre esamina e giudica i libri di testo che andranno per le mani dei giovani. Certo questo sistema potrebbe portare con sè il più grave degli inconvenienti, lo staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for mule, in programmi, in metodi, cioè in quanto di più astratto si possa immaginare. Per eliminare tutto ciò il Cuoco propone una direzione o ministero di tecnici, che aperto a tutti gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua di controllo riconosca meriti e punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di mira il progresso e lo sviluppo del l'attività spirituale (1). Posti questi princípi fondamentali, Vincenzo Cuoco abbozza un suo vero e proprio progetto di riforma sco lastica, particolareggiato e minuto, monumento insigne di sapienza pedagogica, in cui davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola moderna. Noi non possiamo seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci proponiamo di astrarre dall'opera quei princípi generali, che più hanno relazione con l'assunto politico. Caratterizzando la scuola primaria il nostro scrittore dice che questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della scrittura, mira a formare una morale, volendo significare che mira a formare una moralità media so ciale. È un punto importante. La morale è necessaria per gli aggregati umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo anzi osservare che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone. Questo pro cesso di formazione è un processo spontaneo. Lo Stato non può ignorarlo. O esso interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli nelle prime scuole e li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e riplasmando le loro coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi spirituali, dai quali può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si dia (una morale ]: altri. menti se la formeranno da loro » (2 ). Questo compito, il dare al popolo una morale, è af fidato alla scuola primaria, allorquando l'uomo è tenero ed atto a ricevere le più svariate nozioni e a compene trarle di tutto il proprio afflato spirituale. Se questa mo rale « la riserbate all'età adulta, quando già l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela darete tardi; egli si tro verà di aversene già formata un'altra: siete sicuro che non sia diversa dalla vostra, e che, essendo diversa, vi riesca di distruggerla? » (3). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 14. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. (3 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più pro fonda. Il fanciullo la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in sublime stato d'innocenza, scevro di passioni conturbatrici, e non la dimenticherà mai più, poichè essa gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con naturale al proprio esssere. E, se tutti i fanciulli saranno stati educati dallo Stato allo stesso modo, l'opinione dei singoli sarà coincidente con l'opinione universale. Qui si rivela un grande senso pratico. Non basta im porre la legge ai singoli, occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è possibile, l'utilità, perchè essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella coscienza collettiva: e questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di Cuoco non si preoccupa dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra tutto, del l'istruzione morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si preoccupa « perchè appartiene ai di lei ministri » (1 ). Ma quest'affermazione non bisogna assumerla in senso rigido. Dato il sistema politico del Cuoco, per cui lo Stato è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato non può disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga fuori dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini, che sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an corchè non sia l'educazione stessa. Come può lo Stato ri manere indifferente dinanzi ad essa? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del cittadino. È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per insinuarvi la virtù e la saviezza » (2 ). Ma d'altra parte la stessa educazione di Stato deve (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 12. (2 ) Giorn. ital., 1804, n. 61, 62, 75; 21, 29. maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro ). 273 avere carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non s'insegnerà nelle scuole: va bene: ma l'in segnamento, ' specie il primario, non sarà efficace se non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla alle anime semplici. Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle sue esigenze di libertà; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella morale rivelata ed oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale italiano il Cuoco, par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi maestri, scrive che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto: ad ottener ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli de' maestri egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria; met terli in tutt'i punti dello Stato, onde sieno.in contatto col popolo, nè il popolo abbia bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più sacro, cioè del carattere religioso » (1 ). Quindi anche l'istruzione ele mentare, ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può prescindere da quel carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come quello che meglio risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto senso e fantasia e poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare una mo rale civica, poichè chi è buon credente in massima sarà buon cittadino, e sulla morale poi si assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato. Ma la base di tutto è la religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa dapertutto a fare sì che vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più importa che sieno comuni e concordi, così dia una norma anche per le istruzioni che fanno i ministri dell'altare; le quali, se non sono concordi colle altre, sa ranno inutili; se sono discordi, diventeranno nocive ». Da tutto ciò una illazione. « Riuniamo (esse non si avreb bero dovuto separar giammai) le istruzioni della casa, (1 ) Giorn. ital., 1804, 29 ottobre, n. 130, p. 528-29: Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA. 274 del fòro, del tempio; tolgansi una volta quelle diversità di princípi, per cui ciò che la legge economica di una famiglia richiede è condannato dalla legge politica di tutta la città, e ciò che la patria impone è indifferente per la religione; facciam sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol fine, che è quello di render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice » (1 ). È la naturale logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei rapporti tra Stato e Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione nella vita dello spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente liberale, se si pensa alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante una sua libera finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante in sè tutte le varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti punti di contatto con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta » nota giustamente il Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica, il valore ideale e morale dello Stato (il che avviene quando piuttosto si guarda all'idea di esso o a uno Stato futuro, che non quando si abbia sott'occhio un determinato governo, il quale di tanto è imperfetto a rappresentare realmente lo Stato, di quanto è inferiore alle idealità che nello Stato pure si agitano, senza raggiungere la forma giuridica ), così della religione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile, si fa necessariamente uno strumento del fine politico » (2 ). Laddove l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia e al senso, e perciò deve essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione superiore deve essere filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più elevate manifestazioni razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in quanto spirito, l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben diretta non ha tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di meno, quanto (1 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (vedi p. 226 del presente nostro lavoro ). (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 275 d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore a comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo: giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee tiene quante se gliene son date; mentre al contrario il carattere della mente è quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle, saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ). Il concetto realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto tutto, la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio macchinario formalistico deve essere bandito: il giovane deve essere posto a tu per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di quei cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle carceri di idee, che sono le retoriche e le poetiche: il giovane deve mirare al contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente un metodo acquisitivo, ma che in sostanza null'altro è che una forma dello spirito inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve offrire l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole speciali e di cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono, ma « l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta ben ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi trattenerci intorno a quella che più ci piace » (2 ). Messo dinanzi ai mezzi con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere, perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 25. (2) Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 53. 276 Se ora l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l' innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora, osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza. Nè è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle idee presentate al nostro spirito » (1 ). Perciò quello che nella riforma del Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza, diviene una vera filosofia del bello o este tica, che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica, che insegni il meccanismo di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana (2 ). La stessa filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei monumenti antichi, sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la sua parte filosofica; perchè ha (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p. Qui più che mai si palesa quel concetto della natura, per cui nelle cose occorre distinguere quel che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed originario, che il Cuoco attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra con una sicura intui. zione dello spirito in ogni suo aspetto o attività di vita, che de riva certamente dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili ai fatti di tutte le na zioni. » (1 ). Bisogna uscire dallo studio del fatto in sè e per sè, sia esso un documento grafico o un rudere ar chitettonico, risalire allo spirito, all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo. E come nello spi rito umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni particolari ad un popolo occorre risalire a conclusioni più vaste, a generalizzazioni più audaci, investenti il nu cleo della universalità, seguendo questi stessi princípi, che il Vico ha divinato nella sua Scienza nova. Giambattista Vico, analizzando la filologia dei greci e dei romani, ha così fissato le norme per ogni filologia, ha stabilito leggi sicure, addimostrando non le leggi che governano il linguaggio dei singoli, ma bensì quelle che governano il linguaggio delle nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme giuridiche, per i riti. « In tal modo la scienza dell'erudizione diventa veramente filosofica; e ciò, che sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa utile ad intendere ciò che della filologia delle altre nazioni o ignoriamo o conosciamo imperfettissimamente » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. Conclusione. Ed ora che abbiamo analizzato la personalità di Vin cenzo Cuoco in tutte le sue manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia lecito concludere, pur sapendo quanta parte del pensiero del molisano sia rimasta fuor dalle linee tracciate. Qual'è la posizione del nostro scrittore nella storia culturale d'Italia? Posto a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX è il più importante rappresentante di quel che un critico francese, Paul Hazard, ha detto l'italiani smo, e che, se nel secolo XVIII s'impersona nel pen siero storicista, e perciò antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente contro l'astrattismo razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo di altri minori, in nome di supreme esigenze dello spirito; nel secolo XIX si impersona nel Cuoco, che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro ogni forma di vita, che italiana non sia, e quindi non connaturale a noi, e perciò non veramente storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni vibrante contenuto umano. È un'ideale continuità quella che lega il Vico al Cuoco, è la gloria perenne del pensiero italico rinascente, quando le straniere infiltrazioni sempre più sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo rinnovamento nella filosofia, e perciò in tutte le attività umane, che dal me todo filosofico non possono prescindere: la politica, la storia, la giurisprudenza, l'economia. Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà morale, asserisce la vera libertà, libertà che nè il Medio Evo nè il Rinascimento, moventisi ancora nell'antico dualismo dell'essere e del divenire, potevano assolutamente concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello spirito e pone le grandi proposizioni della filosofia moderna: il mondo del l'arte sensuoso e fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato nelle istituzioni e nelle leggi, il mondo della religione e della moralità s'originano da noi, in noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile, nella continua attività dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto ci si discopre trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato, morto diviene intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e diverso processo: la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi nelle più varie manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire discendendo al vero storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e remota scaturigine: l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso la molteplicità, e viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per il tramite dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im mutabile, di ciò che non è transeunte e contingente; chiamiamo filologia la scienza dei fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico: occorre con ciliare l'una con l'altra, la filologia con la filosofia. È il grande assunto del Vico: porre questo nesso correlativo: non v'è filosofia senza filologia, nè filologia senza filosofia. La mente umana è l'origine dell’una e dell'altra, produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto umano, il vero storico. Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo degli uomini, in cui siamo nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo foggiare la nostra individualità ed agire per noi e per gli altri, per il nostro particolare e per lo Stato, in cui vive il nostro miglior noi. E questo il Vico esprime nella notissima icasastica frase: « questo mondo civile certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le modificazioni della nostra medesima mente 280 umana. Questo il nucleo profondo della filosofia del Vico, che Cuoco acquisisce e fa sangue del suo sangue, movendo da esso a rinnovare la struttura della politica e della pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso rigido non è filosofo vero, come colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti reliquati intellet tualistici nonchè contraddizioni insanabili, per cui in qualche punto è ancor più indietro del suo istesso maestro; ma il suo grande merito è l'aver posto in termini poli tici quel che in Vico era filosofia, e l'aver visto quale inesauribilità di situazioni poteva germinare dalla vec chia esperienza vichiana. In un mondo vuoto e falso quale quello della rivolu zione italo - francese, egli, riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso storico che le mancava, e le ridona * quella comprensione sicura della realtà, quella fiducia, che solo può scaturire da una ferma credenza in noi, nelle nostre possibilità, nel nostro avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è detto con felice frase sono i germi dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo dal punto di vista estrinseco, ma dal punto di vista anche intellettuale. Con il cadere della Partenopea, diecine e diecine di esuli si diffondono per il Nord d'Italia, ed ivi portano il loro sapere, la loro cultura filosofica più o meno permeata di vichismo, il loro diritto, la loro economia: da ciò nasce una più intima comunione di spiriti, una più attiva fratellanza di idee tra italiani ed italiani. E chi resta insensibile a questo gran movimento cultu rale, in cui sono non pochi e piccoli germi di quel che sarà il Romanticismo? Nessuno, direi: non v'è alta co scienza che per effetto di questa propaganda non vi chianeggi. È un po' la moda, ma una moda benefica, che porta ad una migliore intesa tra uomini di diverse regioni d'Italia, che erano per secoli rimaste quasi estranee tra loro. Più gli studi si approfondiscono e più questo fenomeno (1 ) G. Vico, Scienza nova, v. I, p. 172. 281 appar vero, ' e, notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera stessa di Vincenzo Cuoco. È di ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava, che ci informa di una rivista, fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima dunque dell'esilio del nostro molisano, il Mercurio d'Italia, in cui Ugo Foscolo giovinetto fa le sue prime armi e pubblica i suoi precoci scritti, La Croce, l'Ode a Dante, La morte di *** ed altri componimenti di minore importanza (1 ). Ebbene in un articolo anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del progresso dello spirito umano del Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine del francese e quelle di Giambattista Vico. È proprio ca suale questa coincidenza? E il Foscolo giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come dimostrano molte idee dei Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile al richiamo di questo grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori della sua Napoli »? (2 ). Ma i veri apo (1) Luigi RAVA, Le prime armi del Foscolo giornalista: il Mercurio d'Italia, in Rivista d'Italia, a. XXVII (1924), v. I, fasc. III, pp. 257-279. (2 ) Un certo quale influsso vichiano forse inconscio si può rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue ce lebri Fiabe contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta una tradizione veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma che a lui pareva una volgarità, troppo permeata di verismo com'era. Lastessa ricerca del fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba della infinita sicurezza dell' intelletto, è una posizione vichiana. « Il contenuto » scrive il DE SANCTIS, (Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo poetico com'è concepito dal popolo, avido del meraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle, romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita, ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto: questo osò Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo degli spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale gli esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce (1 ), sono Vin cenzo Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano ebbe relazioni, anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi non potè ignorare l'autore del Saggio storico (2 ). Ma sia o non sia stato il Cuoco od altri (3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E riuscì ad interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto e risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ». Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, (Le memorie inutili, Torino, 1923, vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. CROCE, La filosofia di G. Vico, p. 289; B. CROCE, Storia della storiografia, v. I, p. 12. (2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana, a. XII, v. XXIII, pp. 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere che C. Botta, U. Foscolo, V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno, Giovanni Giulio Robert (poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo sono delle mere com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo, l'altro un anonimo, che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia il Lomonaco. Da ciò si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con meridionali e con amici diretti del Cuoco. Vedi a proposito G. PECCHIO, Vita di U. Foscolo, Città di Castello, Lapi, ed., 1915, p. 170, p. 210 e passim. P. HAZARD, op. cit., p. 241 osserva: « Son influence se répandra même dans la littérature pure, où en trouvera des traces chez Monti et chez Foscolo. Toux ceux lacomprennent les articles que Cuoco consacre à son maître (Vico] ». Ora F. NICOLINI nella Nota agli Scritti vari di V. Cuoco, v. II,p. 397, dice che gli 283 gli scritti del poeta stanno lì a testimoniare come pro fondamente nutriti essi siano di pensiero vichiano: così il processo dell'incivilimento descritto nel carme, per cui furono nozze e tribunali ed are, che diero alle umane belve essere pietose di sè stesse e d'altrui, è derivato di-. rettamente dalla Scienza nova, ove è meditato il pas saggio dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e così pure il costume che tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li provvide di sepoltura (2 ). Parimenti articoli del Giornale italiano furono letti attentamente, « molto letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da U. Fo scolo, e allo scopo di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il molisano parla del libro Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli, in cui « è, come si vede, il medesimo fondo di idee vichiane, a cui.... s’ ispirò il Foscolo nei Sepolcri. CROCE, La filosofia di G. B. Vico. Confronta i su citati brani foscoliani con i seguenti di Vico: à Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lon tane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matri moni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; nè tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che reli gioni, matrimoni e seppolture. Chè per la Degnità, che « idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon avere un principio comune di vero, dee essere stato dettato a tutte, che da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità, e perciò si debbano santissimamente custodire da tutte, perchè 1 mondo non s'infierisca e si rinselvi di nuovo » (Scienza nova,). « Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini uno stato ferino nel quale restino insep polti i cadaveri umani sopra la terra ad esser esca de corvi e cani; chè certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonchè disabitate le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, colte dentro il marciume de’ loro morti congionti. Onde agran ragione le seppolture con quella espressione su blime Foedera Generis Humani ci furono diffinite e, con minor grandezza, Humanitatis Commercia ci furono descritte da Ta cito ». (Scienza nova, I, p. 177 ). Notiamo che nel primo brano citato il rinselvarsi sta per 284 lo stato ferino dei figli della terra, duellanti a predarsi, primi avi dell'uomo, quei cannibali che s ' imbandiscono convito delle carni umane, così vivi nel mondo rifinito de Le Grazie, non si intendono, se non riferendoci ad un sistema filosofico che è certo quello del Vico (1 ), si stema che siffattamente compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e si riflette in tutti gli scritti pro sastici, sia pure storici e critici (2 ). Onde tutta la sua cri tica trova il nucleo originale nei nuovi portati dell'este significare il ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola selva significherebbe lo stato stesso, e che precisamente in questo senso il primo e il secondo termine sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre Orazione inaugurale: « le umane belve ancor vagabonde per la grande selva della terra » (Opere, Monnier); nonchè ripetuti da un gio vane, pur esso destinato a divenire un grande scrittore, da GIOSUE CARDUCCI: « fuggendo per la gran selva de la terra il nato de la donna ululò già co' leoni a la preda cruenta: indi con vitto ferin la vita propagando, incerti videsi intorno i figli: e lui cedente de la materia a le vicende eterne l ' immane salma, per lo gran deserto dilaceraro i lupi ». (Rime, San Miniato, Tipografia Ristori, 1857, p. 84). (1) La vita preistorica è con viva arte descritta dallo stesso Vico nelle prime pagine dell'opera sua, laddove accenna alle prime trasmigrazioni marittime: «.... gli antenati di coloro che furono poi gli autori delle trasmigrazioni medesime: furono dapprima uomini empi, che non conoscevano niuna divinità; nefari, chè, per non esser tra loro distinti i paren tadi co' matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole; e, finalmente, perchè, come fiere be stie, non intendevano società, in mezzo ad essa infame comu nion delle cose, tutti soli e, quindi, deboli e, finalmente, miseri ed infelici, perchè bisognosi di tutti i beni che fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita. Essi, con la fuga de propri mali, sperimentati nelle risse, ch'essa ferina comunità produ ceva, per loro scampo e salvezza, ricorsero ecc. » (Scienza nova). (2 ) Il vichismo del Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia civile nella letteraria, Torino, ma certo non com preso, troppo imbevuto, com'era il critico, di passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false idee d’un'arte pedago gica: il brano, al quale intendiamo riferirci, è stato raccolto nell'antologia del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti da A. ALBERTAZZI, Napoli, Ricciardi ed., s. d., p. 192 e sgg. 285 tica vichiana, che prima scuote le vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di poetiche per penetrare nello spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte. Ma l'influsso più importante e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul Monti col quale ebbe rapporti epi stola, nonchè disappunti letterari, dovuti al fiero" giudizio che l'autore del Saggio faceva circa il carattere del poeta cesareo assai volubile in politica; e sul Man zoni di cui fu davvero intimo (3 ). Le lezioni universi tarie, dal primo tenute a Pavia, specie la prolusione Della necessità dell'eloquenza, il Discorso sulla storia longobarda del secondo (5 ), sono la prova sicura della dif fusione delle dottrine del Vico. Vedi a proposito come Foscolo intende l'eloquenza e confrontala con il modo come l'intende il Cuoco: G. PECCHIO, op. cit., p. 210, nota; B. ZUMBINI, Studi di letteratura ita liana, Firenze, Le Monnier ed, p. 267; G. A. BORGESE, Storia della critica romantica in Italia, Milano, Treves ed., p. 248 e sgg., sopra tutto p. 266: « non è una scoperta, dice quest'ultimo, quella dello Zumbini che anche le lezioni di eloquenza siano tutte nutrite di concetti vichiani; anzi fa rebbe una scoperta chi indicasse uno scritto capitale del Fo scolo, nel quale la filosofia della Scienza nova non abbia bene o male la sua parte ».  G. Cogo, op. cit., p. 181; N. RUGGIERI, op. cit., p. 47; P. HAZARD, op. cit., p. 241; vedi anche V. Cuoco, Scritti vari v. II, pp. 318, 367, passim. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 48, il quale in nota richiama G. CAPITELLI, Patria ed arte, Lanciano, Carabba ed., 1887, p. 182 e sg.; vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 285; v. II, pp. 318, 358, 367, 397, passim. (4 ) V. MONTI, Prose e poesie, Firenze, Le Monnier, 1847, v. IV, p. 31 e sgg. A. MANZONI, Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed., s. d., p. 22 e sgg. Allorquando questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe l'opuscolo di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso nel primo centenario della sua morte, Roma, C. De Al berti ed., *1924. L'influsso vichiano, per il tramite del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela « non solo per l'alto concetto in cui dimostra di tenere il grande filosofo napoletano, ma anche e principalmente per la forma definitiva della sua mente, per alcuno dei caratteri più significativi della sua individualità di 286 n Nè questa si arresta qui, ma plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte la nuova storiografia, rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di diversi paesi, specie con i canoni romantici di Germania: a chi legge gli scritti del Berchet (1 ), del Torti (2 ), del Di Breme (3 ), non sarà difficile rinvenirvi idee e proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco e di pochi altri napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso un apporto di storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore, quale è rappresentata sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e scrittore è un realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo mini e li rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di Platone e neppur feccia di Romolo; ideale col suo limite, come diceva De Sanctis: tutto determinato, vero e certo: e così in questa determinatezza e limitazione e storia, tutto segnato dal dito di Dio, tutto,come aveva insegnato Vico, governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma opera naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli uomini. (1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p. 105: « il Berchet s'era nutrito degli scrittori più audaci d'oltremonte: la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel erangli familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca; dei nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla nuova letteratura;.... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza accostata alla letteratura, col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile: e, se forza di filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente ». BORGESE, op. cit., p. 189: « il Torti fu uomo di non co mune coltura e d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si richiamò alle leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande ». (3 ) L'ampia influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di Breme e su quella di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa in luce dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA (L. d. B., Polemiche, Torino, Unione tip. - editrice torinese, s. d. ], che dell'idealismo dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi filosofici, dei loro studi, fa un'ampia disamina. 287 nale al positivismo e al razionalismo settentrionale. È certo un processo lento e faticoso, ma nondimeno si curo, le di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto nel campo critico e storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico. « Eppure si come giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la propaganda del Cuoco,... quantunque i germi da lui seminati sian caduti in intelligenze delle maggiori del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco come banditrice della verità vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto del secolo. Altri scrittori, segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare le menti italiane al realismo poli tico; altri filosofi, segnatamente lo Spaventa, hanno la vorato a sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi chiana; ma fino ai nostri giorni nessuno ha visto in questa filosofia così nettamente e fermamente come Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente rivoluzionario, " del pensare storico e politico e un potente irresistibile argo mento per un programma politico nazionale. Egli, per questo rispetto, rimane sulla soglia del secolo XIX, maestro unico solitario: un veggente » (1 ). Con ciò vo gliamo semplicemente dire che se le dottrine vichiane nel campo estetico, attraverso la propaganda del Cuoco, dànno subiti e luminosi effetti, nel campo politico, que sti effetti sono più lenti e tardi, quasi misconosciuti al lorquando si manifestano: Vincenzo Cuoco è un maestro senza discepoli, o meglio, con un solo discepolo, e per avventura grandissimo, Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco abbiamo detto realismo politico, derivazione stretta di tutto l'insegnamento della Scienza nova, non è destinato a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi porta alle più grandi conquiste del secolo: « primo, a riconoscere e a mettere in rilievo l'individua lità insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se condo, a negare che un popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di fuori, e che possa progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato sulla stima di sè e sulla GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 13 e sg. 288 fiducia delle proprie forze » (1 ). Questi due postulati gran diosi e veri, posti dal Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più da essa, e formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la pratica po litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi di F. L. Mannucci circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene in luce come il genovese non solo si sia nutrito del Vico per il tra mite del Michelet (3 ), ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto estratti de ' numerosi e vivi articoli, che (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 14. (2 ) L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta in luce prima che dal Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era, come il Foscolo, lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal Tommasèo di trarre vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era in condizioni più felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione pel Vico, e se ne disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne persuase lo studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il vuoto esistente nella filosofia », egli la mentava, « deve naturalmente ripetersi nella critica letteraria, che è la filosofia della letteratura »; e la filosofia ch'egli desi derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo », disse altrove, paragonando le antiche congerie erudite che usurpavano il nome di storie letterarie con quelle che venivano in onore per effetto del rinnovamento romantico, « il vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere e i progressi della civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro Vico, fu posto in chiaro, sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una sola scuola, il cui scopo santissimo or s'irride da chi non sa, o non cura comprenderlo ». E si compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero il Vico da quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le baieerudite e l'inerzia degli animi». MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario: l'aurora d'un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma, ecc. Il Mannucci ci rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui due sono aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo del Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la philosophie de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un discours sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur, ecc., Paris, Renouard, 1827. Vedi a proposito di questa versione fran cese, CROCE. La filosofia di Vico. Cuoco anda pubblicando sul Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C. E in questi zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva zioni sullo stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in cui Vincenzo getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente d'Italia, ma anche nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra basi giurisdizionali il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, dall'altra la questione dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure, come il Mazzini, po stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da noi a più riprese richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di Firenze il duca Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe potuto rimanere solo, nota: oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne più facilmente di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe rimproverato e che lo stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato ! Sicuramente.... Ma io amo pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal l'università, chino sulle pagine del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui le sorti della patria e la sua redenzione morale non attraverso giuridici compromessi o speranze d'equilibrii europei, ma attraverso un'azione che è pen siero, perchè guidata dal pensiero, attraverso un pen siero che è azione, perchè mirante agli uomini e alle loro coscienze. Il grande merito del Mazzini è precisamente l'avere accettato le ultime conclusioni politiche cuochiane ed averle con un apostolato senza pari concretate nella vita. Il popolo, il popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire nucleo vibrante della patria, diviene il fondamento della repubblica del Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia Il fatto che gli articoli non siano firmati che con una si gla, il fatto che negli zibaldoni il Mazzini non citi espressamente il Cuoco fa pensare al Mannucci che il grande agitatore non abbia mai pensato che gli articoli da lui letti nel Giornale italiano fossero proprio di Cuoco: così pure GENTILE, V. C.: commemorazione, p. 26. In quanto poi al Saggio storico il prof. Gentile sostiene nella stessa pagina che il genovese non solo lo conobbe ma lo menzionò. B., 290 diviene dopo tante lotte una e indipendente, diviene nazione e Stato. Il Cuoco intuisce che il problema unitario è un problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel binomio Pensiero e azione redime l' Italia. Questa vasta trama d'influssi, che la dottrina cuo chiana, in tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter ferenze politiche, ha esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale, meriterebbe uno studio a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee, il filo conduttore, perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta all'unificazione d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va al Mazzini e che un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra zione graduale e lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo salda, perchè alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso d'interessi antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi il non ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota bibliografica. Ho seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico, cioè: Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a cura di Fausto Nicolini, Bari, Laterza ed., 1913, che ho raffrontato con l'edizione milanese del Sonzogno, e con quella fiorentina del Barbèra; VINCENZO Cuoco, Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza; VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari raccolti e pubblicati da Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed. Gli articoli del Giornale italiano ho veduto sul testo originario, ma spesso mi sono servito delle ristampe in appendice alle opere critiche del Romano e del Cogo. Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due volumi di scritti cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori d'Italia laterziana il Saggio e il Platone: Cuoco, Scritti vari a cura di Cortese e Nicolini, Bari, Laterza. Con questa stampa quanto di meglio è stato scritto dal grande molisano è oramai stato dato al pubblico, e ben poco resta da fare nel campo dell'ine dito. Non tutti gli articoli del Giornale italiano invero hanno tro vato l'attesa ripubblicazione, ma, sebbene alcuni scritti di una certa importanza siano stati posti fuori, quei ventisette che il Cortese e il Nicolini hanno scelto, uniti al catalogo ragionato dei 292 rimanenti, bastano a dare un'idea più che sufficiente al let tore dell'attività pubblicistica del nostro autore. Va data lode ai due insigni editori Cortese e Nicolini per non avere lasciato da parte gli articoli; che il Cuoco ha pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore delle due Sicilie, i quali, sebbene assai meno interessanti di quelli del Giornale italiano, pure possono essere utili, e per avere di essi pure offerto un catalogo ragio nato. S’ intende che ho riveduto il testo di tutti gli scritti minori di Vincenzo Cuoco sovra la nuova edizione laterziana, che offre i migliori affidamenti di serietà e di rigore, sopra tutto per la ortografia, che, specie nei fogli originari del Giornale italiano, è la più volubile e ineguale. P. ALBINO, Biografie e ritratti degli uomini illustri della pro vincia di Molise, Campobasso; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e gli studi della gioventù italiana in Rivista Bolognese; BATTAGLIA, Critica rivoluzionaria e tradizione nel pensiero di Cuoco in Studi politici; BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano, Cogliati ed. (estr. dall' Arch. stor. lomb.), alla quale operetta si riferisce la recensione di OTTONE in Riv, stor. it.; A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella miscellanea Dai tempi antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo- Negri), Milano, Hoepli; A. BUTTI, L'Anglofobia nella letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI, p. 434 e sgg.; C. CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e comparativi, Torino, Civelli; N. CAPRARA, Cuoco, Isernia; L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia che ho potuto vedere manca del frontespizio: del resto si tratta di uno scritto di mero inte resse bio - bibliografico. 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e documenti, Napoli, Jovene ed.,  (cfr. le recensioni di G. GENTILE in Archivio stor. Nap., poi ristampata in ap pendice agli Studi vichiani, Messina, Principato; di G. GALLAVRESI in Il Risorgimento italiano; e ancora di GALLAVRESI in Arch. stor. lomb., CONFORTI, Napoli nel 1799, critica e documenti inediti, Napoli, De Falco, (una confutazione di molte affermazioni ingiuste dell'autore è in RUGGIERI, Cuoco, Rocca San Casciano, Cappelli, nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia); B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed., 1911, passim; CROCE, La rivoluzione napoletana, Bari, Laterza; CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza; R. DE RENZIS, Il risveglio degli studi intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905; G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza; SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves (accenni ); F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves; A. FRANCHETTI, Storia d'Italia, Milano, s. d., Vallardi; GENTILE, Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915 (in cui è ristampato lo studio Un discepolo di Vico: Vincenzo Cuoco pedagogista, già pubblicato in Riv. pedagogica); G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, edizione della Critica, GERINI, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed., 1910, Torino,; F. GUEX, Storia dell' istruzione e della educazione, trad. o note con app. su Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico di G. VIDARI, G. B. Paravia ed., s. d., Torino; e HAZARD, La révolution française et les lettres italiennes, Paris, Hachette ed., 1911, p. 218 e egg.; B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cattolici, Napoli, Pierro ed., LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 228; G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier; F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario; l'aurora di un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma, (cfr. recensione di G. GENTILE in Critica, MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi del ' 700, Bergamo; A. MARTINAZZOLI E CREDARO, Dizionario illustrato di peda gogia, F. Vallardi ed., 1901-5, Milano); MASTROIANNI, Ricerche storiche pubblicate per delibera zione del R. Istituto d' incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed.,.; P. MONROE ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S. CARAMELLA, Vallecchi ed., 8. d., Firenze, NATÁLI, Nel primo centenario della morte di V. Cuoco in Rivista d'Italia, G. NATALI, L'idea del primato italiano prima di V. Gio berti, Roma, 1917 (estr. dalla Nuova Antologia ); G. NATALI, La letteratura italiana nel periodo napoleonico, 1916 (estr, dalla Rivista d'Italia ); G. NATALI, La vita e il pensiero di F. Lomonaco, Napoli, San giovanni ed., 1912 (estr. dagli Atti della R. Accademia di sc. mor. di Napoli: cfr. GENTILE, Studi vichiani, p. 361 ); L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815 in Nuova Antologia, L'articolo Cuoco è fifmato A. Martin azzoli. 295 1 OTTONE, V. Cuoco e il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tip. vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni di A. LEONE, in Riv. stor. ital.; di A. Butti, in Giorn. stor. d. lett. it.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. létt. it.; e infine di G. G[ ENTILE) in Arch. st. per le prov. nap.); G. OTTONE, La tesi vichiana di un antico primato italiano nel « Platone » di Cuoco: contributo alla storia del risveglio nazionale nel periodo napoleonico, Fossano, Rossetti, 1905, (cfr. recensioni di A. Butti, in Giorn. st. d. lett. it.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it.); G. OTTONE, Mario Pagano e la tradizione vichiana del secolo scorso, Milano, Trevisini; PEPE, Necrologia: Cuoco, in Antologia (riprodotta dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba di Torino ); I. RINIERI, Della rovina d'una monarchia; relazioni storiche tra Pio VI e la Corte di Napoli, Torino; ROBERTI, Lettere inedite di C. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it.; M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, politico, storiografo, ro manziere, giornalista, Isernia, Colitti, 1904 (cfr. recensioni di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it.; di A. BUTTI, in Giorn. st. d. lett. it.; infine di G. GENTILE, in Critica, III (1905), p. 39 e sgg., ristampata in Scritti vichiani); M. ROMANO, Una pagina inedita di V. Cuoco su G. B. Vico, nella miscellanea: Scritti di storia, di filosofia e d'arte (nozze FEDELE- DE FABRITIIS ), Napoli, Ricciardi.; P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed., s. d., Torino, pp. 102-124; N. RUGGIERI, Vincenzo Cuoco: studio storico critico con una appendice di documenti inediti, Rocca S. Casciano, L. Cappelli (cfr. recensioni di B. CROCE, nella Critica; di G. R[OBERTI), in Giornale st. d. lett. it.; di F. TORRACA, in Rass. bibl. d. lett. it.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a..; di C. R [INAUDO), in Riv. stor. it., a. XXI, 3a 8., vol. III (1904), p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Mo rano; R. SÓRIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della società pavese di storia patria; TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite in Rass. crit. d. lett. it. (cfr. RUGGIERI, op. cit., p. 94; ROMANO; A. Zazo, Le riforme scolastiche di Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed., 1924, (estratto dalla Rivista pedagogica, a. XVII ). « Nel 1905, scrive iGENTILE (Studi vichiani), l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli bandì un concorso sul pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei mss. acquistati dalla Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria, ancora inedita, di M. ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico e dei mss. recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli (sulla quale vedi PERSICO, Rel. sul concorso per il premio sul tema « Di Vincenzo Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc., tornata del 22 dic. 1906 ». Circa questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch., nonchè RUGGIERI, op. cit., p. 63; Cogo, op. cit., p. 45, n. 13, il quale ultimo di essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute asserzioni, e infine CROCE nella Critica. Del Cuoco si sono occupati varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui citerò soltanto alcuni più noti: V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico, in Storia politica scritta da una Società di professori, Milano, Vallardi, s. d. passim; LEMMI, Le origini del Risorgimento italiano, Milano, Hoepli; Rosi, L'Italia odierna, Unione tip.- editr. torinese, 1922, v. I, p. 206, p. 238, passim; G. MAZZONI, L'Ottocento, Milano, Vallardi, in Storia letteraria scritta da unasocietà di professori; V. Rossi, Storia della letteratura italia na, Milano, Vallardi; A. D' ANCONA e 0. BACCI, Manuale della letteratura italiana, Firenze, Barbèra; F. TORRACA, Manuale della letteratura italiana, settima ed., Firenze, Sansoni. Il primo centenario della morte di V. Cuoco è stato degna mente ricordato agli italiani, oltre che dalla pubblicazione dei due volumi di Scritti vari per cura di N. Cortese e di F. Nico lini, dalla commemorazione di Campobasso tenuta da G. GEN TILE (Vincenzo Cuoco, Roma, Alberti). Preannunziando o annunziando la ricorrenza scrissero del grande molisano S. ARCOLESE, Cuoco, in Il popolo molisano; G. COLESANTI, Un realista; Vincenzo Cuoco, in Il mondo; F. BARIOLA, Vincenzo Cuoco, in Gazzetta delle Puglie; F. Mo MIGLIANO, Commemorazione di V. Cuoco, in Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima sotto ogni rapporto è la prolusione al Corso di Fi losofia Giuridica tenuta nella R. Università di Firenze da G. DE MONTEMAYOR: La buona politica: dal Vico al Cuoco al Risorgimento Italiano (Roma, Soc. Anonima Poligrafica). Altra raccolta di scritti per uso scolastico. V. CUOCO - Educazione e politica (Bemporad 1925 ) fu composta, pre ceduta da una larga introduzione, da G. MARCHI. V'è una duplice inesattezza: ad BUTTI sono riferiti gli scritti, Un articolo dimenticato di V. Cuoco sugli scrittori politici italiani, in La Critica, e Una pagina inedita su Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181, la riesumazione dei quali spetta, del primo a B. CROCE, del secondo a M. ROMANO. (2) L'articolo del Colesanti era presentato su Il mondo come facente parte di un numero unico cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho potuto avere nè vedere. La tradizione italica Frammenti di lettere a V. Russo » e la critica rivoluzionaria. Il « Saggio Storico sulla rivoluzione di Napoli » Napoleone e la sua politica generale. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano » Il « Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano Conclusione Nota bibliografica.Felice Battaglia. Keywords: valori italiani, essere italiano, valori italiani,  “spirito nazionale in Italia” -- ius, giure. – spirito nazionale, spirito italico, spirito italiano, spirito nazionale in Italia, Vicco, Cuoco, roma antica, Etruria, ‘la tradizione italica’, il ‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero filosofo’, Gentile, Schelling, volksseele volksgeist, anima di una nazione, anima universale, animus di una nazione.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Battaglia” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Battista: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della la percezione – scuola di Nicosia – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Nicosia). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Nicosia, Etna, Sicilia. Grice: Very good. – Giovanni Battista – he assumed the name “BONOMO” Gabriele Bonomo Frate Gabriele Bonomo o Bonhomo – Appartenente all'Ordine dei Minimi. Scrive un saggio sulla “trigonometria”.  e inventò un orologio automatico.  Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo.  Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica italiana; Editore Soliani, Antonio Muccioli, Le strade di Palermo, Editore Newton et Compton, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Biografie:  di   biografie Categorie: Teologi italianiMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore Nicosia (Italia) PalermoMinimi. Batista. Giovanni Batista. Giovanni Battista. Battista. Keywords: percezione, trigonometria, orologio automatico, la filosofia della trigonometria, Comte, la trigonometria nella matematica italiana, Venezia, la filosofia illustrata, la teoria causale della percezione. Refs.: “Grice e Battista” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Bausola:la ragione conversazionale  e l’implicatura convrsazionale della solidarietà – scuola d’Ovada – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Ovada). Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Ovada, Alessandria, Piemonte. Grice: “I would call Basuola a Griceian – he speaks of the ‘reasons for solidarity,’ which is exactly the point I want to make, alla Kant, in ‘Aspects of reason,’ as people kept asking me for the rationale – i. e., literally, the rational basis – for conversational cooperation – People agree that conversation is rational; but my stronger thesis is that it’s cooperation which is rational. That is Bausola’s point.” “Basuola has also explored the topics of ‘inter-personal relation’ from a philosophical rather than sociological perspective – and therefore into the compromise between self-love and other-love, or freedom and responsibility --. A genius! That he also admires my latitudinal and longitudinal unity of philosophy (‘storiografia filosofica,’ as the Italians call it) is a plus, or bonus!” – Figlio di Filippo, scultore cieco di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una formazione cattolica attraverso le scuole primarie delle Madri Pie, fondate da Paolo Gerolamo Franzoni, e dei Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a Novi Ligure al Classico Statale "Doria" dove «la materia che veramente fu per lui una rivelazione è la filosofia».  Sceglie così la facoltà all'Università Cattolica a Milano, dopo un incontro con Padre Agostino Gemelli e Monsignor Francesco Olgiati, vincendo anche il concorso per un posto gratuito nel Collegio Augustinianum. Fra i suoi docenti emergono due figure che per lui sono «maestri di vita e di pensiero», esponenti di spicco del movimento neotomista: Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi. Diventa così libero docente di filosofia morale. Vincendo la cattedra di storia della filosofia viene chiamato alla Cattolica, è ordinario di filosofia morale passando poi, ad ordinario di filosofia teoretica. È preside della facoltà di lettere e filosofia. Chiamato a far parte del Pontificio Consiglio della Cultura istituito da Giovanni Paolo II. Dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ne diventa il Rettore.  È stato anche direttore della Rivista di filosofia neo-scolastica, ininterrottamente, della rivista Vita e Pensiero e condirettore della Rivista Internazionale dei diritti dell'uomo. Inoltre ha diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei Classici della Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del Centro di metafisica istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la collana di pubblicazioni Metafisica e storia della metafisica.  Tra gli altri incarichi e funzioni è stato:  Socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto LombardoAccademia di Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società Filosofica Italiana; Vice Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani; Consulente della Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica; Presidente di una delle Commissioni del Convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana a Roma; Moderatore di uno dei cinque ambiti del Convegno ecclesiale Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto dal Papa per l’anniversario del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano teorico, le direttive di indagine di Bausola sono soprattutto quella etica (fondazione della morale), quella antropologica (il problema della libertà; il tema della cultura e della cultura cristiana in particolare), e quelle della metafisica e della gnoseologia. I suoi interessi principali di studioso sono rivolti, sul piano storico all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello internazionale di Schelling e di Pascal i suoi studi sono rivolti anche a Brentano, John Dewey e al pragmatismo, alla tematica esistenzialista. Caratteristico delle opere di B. là dove si tratti dello studio di filosofi del passato, o del nostro tempoè il legame tra ricostruzione storica e ripensamento critico, secondo criteri teoretici: un orientamento volto, attraverso il dialogo con alcune delle più importanti prospettive della filosofia moderna e contemporanea, ad un ripensamento della concezione classica del sapere. La sua attività pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico, politico-culturale, etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste di cultura.  Altre opere: “Saggi sulla filosofia di Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di Dewey, Milano, Vita e Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano, Vita e Pensiero); “Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling, Milano, Vita e Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Croce, Milano, Vita e Pensiero); “Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in Franz Brentano, Milano, Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia. Da Leibniz a Moore, Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di Schelling. Ricerche, Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella filosofia analitica, Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema della libertà. Introduzione a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione. Federico Guglielmo Giuseppe Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia); “Filosofia Morale. Lineamenti, Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto dell'uomo: riflessioni sul dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero); “Libertà e relazioni interpersonali: introduzione alla lettura di L'essere e il nulla, Milano, Vita e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise Pascal, con Remo Tapella, Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano, Vita e Pensiero “La libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà, le ragioni della solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica, Milano, Vita e Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinaria Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana —Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — Roma; Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno nastrino per uniforme ordinariaCavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno. Grillo, B. nei ricordi della sorella, ne Atti del convegno "Studi di Storia Ovadese", pubblicazione dedicata alla memoria di Adriano Bausola, Accademia Urbense di Ovada, Avvenire, su swif . Quirinale: dettaglio decorato.  Quirinale: dettaglio decorato.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato. Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, in URBS Silva et flumen, Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini, Atti del Convegno Studi di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense, Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno su archiviostorico.net. Flavio Rolla, B., filosofo. Ricordo dell'illustre ovadese, URBS silva et flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, su accademiaurbense. Dal sito filosofico.net: B. Fusaro, su filosofico. net. blog philosophica. Wordpress Cortesi Predecessore Magnifico Rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore Successore Stemma UCSC.png Lazzati Zaninelli Filosofia Università  Università Filosofo Accademici italiani Professore Ovada RomaBenemeriti della scuola, della cultura e dell'arteCavalieri di gran croce OMRI Commendatori OMRI Studenti dell'Università Cattolica del Sacro CuoreRettori dell'Università Cattolica del Sacro CuoreProfessori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Adriano Bausola. Keywords: solidarietà, storia in Croce – “The problem with Bausola is that he is a Roman!” – Grice. Croce, fascismo, totalitarismo, utilitarismo, egoita, noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione, soderale, anche solidaria, Butler, egoism, altruismo, self-love, other-love, self-love, benevolence, ichheit, wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita – Archivio di Filosofia – noi-eta, noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bausola” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Bazzanella: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del luogo dell’altro – scuola di Trieste – filosofia friulana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, per il Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Trieste). Filosofo triestino. Filosofo friulano. Filosofo italiano. Trieste, Friuli-Venezia Giulia. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different background from mine, but we can communicate – I have focused on conversational communication; he specializes in televisional communication; he has used Heidegger’s concept of contamination to elucidate that of structure .” Grice: “My favourite of his tracts must be one on ethics and topology, broadly understood, which is all that my theory of conversational helpfulness is about – Bazzanella entitles his essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the strictness of his topological approach as applied to the ethos that results when ‘ego’ meets and communes with ‘alter.’”  Partecipa a tre edizioni della Biennale di Venezia e a una edizione della Biennale di Architettura. Di formazione fenomenologica e tutee di Rovatti, inizia la sua attività filosofica a con un saggio su Jankélévitch, per poi approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl, nonché di autori francesi del secondo dopoguerra quali Derrida, Foucault, Lacan, Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea una echologia. Ipotizzando che l'ontologia non e che una finzione o un dispositivo di tipo immunologico, storicizzabile e tipico della società occidentale. Successivamente elabora l’echologia inserendola nel contesto più ampio del senso -- applicandola al consumo.  Espone a Udine "Size".  Il suo sviluppo della performance introduce nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle installazioni di Tony Oursler. Alla  Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone) che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del, invece, propone un'installazione (Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in cui 16 iPad riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande generate da un software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia" nel quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella declina la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della metafisica a un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in Husserl, Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non viene più interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il tentativo di articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende a scardinare l'impianto della logica aristotelica.  L'echologia è un termine che Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi delle Categorie di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui soltanto in una seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione "usiologica", “ouisologia” -- cioè basata sulla centralità della "sostanza" (ousia, stantia, essential, izzing, x izzes y.  Questo passaggio è decisivo poiché segna il definitivo abbandono delle suggestioni della filosofia presocratica (Velia, Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da Girgentu) ponendo le basi di quello che sarebbe stato l'impianto della filosofia occidentale. La lateralizzazione, dunque, della categoria di “échein” (hazzing – habitus) nel suo duplice significato di "avere" (Grice: x hazzes y”) e di "essere in relazione" ha comportato il privilegio dell'"essere" e di un'ontologia che impone un principio ed una gerarchia verticale, colla, suddivisione tra la "cosa" ed il "oggetto" (Grice’s ‘obble’). x Fid y.  La relazione diadica x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”. L’echologia e decostruttiva. L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di senso, prima che “onto-logica” od ‘ontica’ e fondata sull’ente e  articolata sulla relazione o, come li definisce Bazzanella, sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del concetto di “aletheia” (disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo la quale il senso non può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso. Ciò significa che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della non-contraddizione, e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una superficie illogica. La legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon” (‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a, non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una relazioni senza referenza a le due relati.  La preposizione "in" (‘jack IN the box). La preposizione "con" (p et q, p con q). La preposizione "di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna). Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il "con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià” del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno. Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto,  sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’ ‘da-da’). L'impostazione relazionistica che è partita da una fenomenologia dell'orizzonte per articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova il suo significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e, soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato" nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una "mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti (l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io" pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva, e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera  nello stalinismo. Il fascismo dai un presupposto  socialista diviene un totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note  A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut aut»,  La Nuova Italia, Firenze, Bonami, La dittatura dello spettatore, Catalogo generale dell’Esposizione d'Arte. La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Storr (a c. di), Pensa con i sensi, senti con la mente, Catalogo generale della 52. Esposizione Internazionale d'Arte. La biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Birnbaum, Fare Mondi, Catalogo generale della 53. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France, Feltrinelli, Milano, Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino, Tempo e linguaggio. Studio su Vladimir Jankélévitch, Franco Angeli, Milano, Orizzonte. Passività e soggetto in Husserl e Merleau-Ponty, Guerini e associati, Milano, Contaminazione. L'idea di struttura in Heidegger, Angeli, Milano, Spazio e potere. Heidegger, Foucault, la televisione, Mimesis, Milano, Il luogo dell'Altro. Etica e topologia in Lacan, Angeli, Milano, Idee per un'echologia fenomenologica, Franco Angeli, Milano, Echologia. Introduzione a una fenomenologia della proprietà e a una critica del pensiero ontologico, Asterios Editore, Trieste, Fede, echologia, sapere, Asterios Editore, Trieste, La Fabbrica, Trieste, FrancoPuzzoEditore,  Trattato di echologia, Mimesis, Milano, La fabbrica, FPE Editore, Trieste, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari, Mimesis, (Milano). Il tardocapitalismo. Decorsi e patologie di una rivoluzione permanente, Asterios Editore, Trieste, Etica del tardocapitalismo, Mimesis, Milano, Logica e tempo, Abiblio, Trieste, Autoscrittura, Asterios Editore, Trieste, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo, Mimesis, Milano  Religio II. La religione del soggetto, Mimesis, Milano. Indignatevi, Asterios Editore Trieste. Oltre la decrescita. Il Tapis Roulant e la società dei consumi, Asterios Editore, Trieste. Lacan. Immaginario, simbolico e reale in tre lezioni, Asterios, Trieste. Filosofie della paura. Verso la condizione post-postmoderna, Asterios Editore, Trieste. La filosofia e il suo consumo. Nuovo realismo e postmoderno, Asterios Editore, Trieste. Religio III. Logica e follia, Mimesis, Milano. Eros e Thanatos. Senso, corpo e morte nel XX Seminario di Lacan, Asterios Editore, Trieste,. Come. Linee guida per una immuno-fenomenologia, Asterios Editore, Trieste,. Il numero e il fenomeno, Asterios Editore, Trieste. Il tragico e il comico nell'epoca del grillismo e del trumpismo, Asterios Editore, Trieste. Simbolo e violenza, Asterios Editore, Trieste. Del fallimento. Simbolo e violenza II, Asterios Editore. Filosofi italiani Filosofi. Emiliano Bazzanella. Keywords: il lugo dell’altro – etica e topologia, L’echologia di Grice (dal greco ‘echein,’ avere, hazzing), essema, essematica, inessema, coessema, diaessema, riessema, aritmetica. Esposito, communita, immunita.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bazzanella” – The Swimming-Pool Library.

 

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