Luigi Speranza -- Grice e Casotti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del volere –
filosofia fascista – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo
italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Casotti; of course, he reminds me of my
master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did
Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti
tried to systematise WHAT you have to teach: his first volume is telling:
‘l’essere’, which of course reminds me of my explorations on the multiplicity
of being in Aristtotle – a human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N.
Flew would scorn philosophers who use
a verb with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word
meaning ‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello.
Studia s Pisa sotto Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La
concezione idealistica della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta
adesione alla dottrina gentiliana dell'attualismo. Dopo aver aderito all'appello Per un Fascio
di Educazione Nazionale in vista di un rinnovamento della scuola italiana,
indirizza il proprio percorso professionale in direzione della pedagogia,
orientata alle teorie idealiste di Gentile, da lui riprese e rielaborate anche
nelle prime esperienze a Pisa e Torino. Collabora nella redazione delle riviste
Levana e La nuova scuola Italiana. Motivazioni
personali, unite all'esigenza di approccio più realista all'educazione, lo
portano il ad allontanarsi in maniera piuttosto repentina dalle posizioni
idealistiche precedenti e ad aderire all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando
una filosofia ispirata a Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis
philosophia” dell'aristotelismo aquinista.
Egli avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando
l'importanza della «lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di
insegnamento rivolta all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro
reinterpreta il rapporto tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate.
Contesta la pretesa dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee)
in unità, concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di
crescita, incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come
un'arte, che consente il passaggio dalla potenza all'atto. Fonda la rivista Supplemento pedagogico a
Scuola italiana moderna, rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi
una sintesi della sua filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come
arte» e “come disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale,
sia da uno speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da
seguire e adattare alle difficoltà del contesto. Altre opere: “La concezione idealistica della
storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La
nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla
religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita
e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali
di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia
dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di
pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La
Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue
basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia
generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La
pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La
Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e
l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La
Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione
Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia
nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea:
il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico, Filosofia e pedagogia nel
pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni, Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra C. e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona, Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia
nel pensiero di C., «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vita e
Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa,
«Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni, Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona, Dizionario biografico degli italiani. 40 L’Appello per un
Fascio di Educazione Nazionale, in « L ' Educazione Nazionale , L ' Idea
Nazionale. vedere C., Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra Scuola , 1920,
nn. 1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli
insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la...
Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti, il quale
riconosceva l'opportunità di abbandonare... Casotti Mario, La nuova
pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Vallecchi, Firenze, 1923.
Mazzoni Elda, L ' idealismo... GENTILE Il Fascismo al governo della Scuola,
Sandron, Palermo, Casotti makes a dramatic break with actualism early in his
career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a
conversion in the 1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924.
There he worked with Neo-Thomist scholars and produced works on education with
a distinct orientation. He is particularly remembered as the founder and
director of the review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance
in the postwar years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he
is considered a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin;
he underwent a conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He
produced critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually,
he began a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or
end); anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that
later became more widespread among Italian philosophers. AQUINO Saggi
di filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il
secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non
aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi,
piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche
più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar
criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri
ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con
minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi.
Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il
titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il
pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima
unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia
di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico,
quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato
glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero,
eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo
si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non è molto,
giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso
asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna,
si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito
completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle
teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole
vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di
creazione, quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del
bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia
sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale
che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in
voga, di autoeducazione, va meditata, seriamente, se non si vuol correre il
rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche,
tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere
amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale
che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi
annoverava fra gli attivisti. Sì, "attivista", se così volete: ma
alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite
a mettere il termine attività al posto del termine autoeducazione, e il termine
spontaneità al posto del termine creazione, che conviene solo a Dio.Amico
vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella
scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico,
cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio,
disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi -
uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - naturalistico, anche se
giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi
preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando
gabellate il cristianesimo per un tetro moralismo, e gli volete sostituire un
dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci
manca, con l'élan vital bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle
immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è
tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma
non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi,
se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto
tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango
che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e
là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la
mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico AQUINO BRESCIA, Editrice “La Scuola”, La Pedagogia
di S. Tommaso d'Aquino L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie Pedagogia
cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari Non c'è nulla al
mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare
ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella
maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri
lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un periodo
indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre
tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con
sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che
doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San
Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo
le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non
fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o
non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non
si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E'
cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso
giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale
osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo
povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia
dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere
rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a
cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una
realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che
discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e
toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e
censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano
prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor
fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi.
Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia
di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno.
Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active,
qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa
l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima,
che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e
superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo
riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di
autoeducazione, di libertà, di creazione, quell’ingenuo ottimismo
naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo
denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San
Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua
critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di autoeducazione, va meditata,
seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di
accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école
active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al
Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole
parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli
attivisti. Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera di S.
Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a
mettere il termine attività al posto del termine autoeducazione, e il termine
spontaneità al posto del termine creazione, che conviene solo a Dio. Amico
vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella
scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico,
cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio,
disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi -
uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - naturalistico, anche se
giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi
preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando
gabellate il cristianesimo per un tetro moralismo, e gli volete sostituire un
dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci
manca, con l'élan vital bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso
d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici
accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di
risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici
s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in
questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia
cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato
verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e
generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non
sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per
arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una
conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore
Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese e tentato di
rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri avversari
vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un passato
morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo pieno di
speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero di S.
Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà e
l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume
Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e filosofie
nelle scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la
pedagogia cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno
nuovo illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna
educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche
come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose
opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le
faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri
mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o
rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed
intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore
(Piacenza) Convento di S. Francesco, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. I
saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario
intervallo di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna.
Eccezion fatta pei seguenti: L'Educazione naturale (Relazione presentata alla
XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli
Atti); L'anima della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e
Pedagogia cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso
d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza
temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso
ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a
tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato,
anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo
ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina
al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi
a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge
colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di
sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in
quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in
ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma
c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore
scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella
storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso
problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso
affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile
che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i
pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la
chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di
solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e
delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più
urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i
metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere
senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso
permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di
discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e
didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo
direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la
storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri
sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive
della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in
concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci
nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga
ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere
che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia
dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data
dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità,
della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo
occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso
lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo
De magistro, è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto
quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: che cosa è l'educazione?
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: come è possibile
l'educazione?. Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e
descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che
cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo
rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna
cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi
tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è
offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte
quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi,
nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre
l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente
essenziale e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è
possibile, davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente
l'educazione medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto
fra un soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che
possiede determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve
queste stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro,
cioè, e lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non
significa altro che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti
pensanti, in virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate
cognizioni ed attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la
ricerca del De Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua
rigorosa impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più
moderne e scaltrite filosofie dell'educazione. Posto così, il problema dell'
educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche
pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il
formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno
sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un
soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate
cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una
contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine
trasmettere o comunicare o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a
definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se
non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico
del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale,
allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o
cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò
che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la
scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano trasmettere, nel
significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto
interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto
impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è
impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia
spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato
problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la
difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due
soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa,
e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di
ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo
meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la
maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su
salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza
(mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava
interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a
dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello
stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi
fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al
discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più
tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la
dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione:
dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la
concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria
dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più
contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di
giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che
immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo via
via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al
soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la
sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall'
insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir
meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua
essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che
potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne
aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto
diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una
profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma inconsistenti
sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da Sant'Agostino nel
suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella interpretazione di
Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita attraverso il
commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in un sistema
panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava anticipare in
pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto soffrire il pensiero
moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere subito il diverso
atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e verso l'altra delle
due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a ravvicinarle nel corso di
quella discussione dalla quale dovevano limpidamente scaturire i concetti fondamentali
della pedagogia tomistica. Il De Magistro di Agostino è a sua volta, non
meno del De Magistro tomistico, tenuto conto, si capisce, d'ogni differenza e
di tempo e d'ambiente e di mentalità, un modello nel suo genere. Modello d'una
ricerca che non si arresta neppure essa, come non si arresterà poi l'indagine
di Tommaso, ai particolari problemi della pedagogia e della didattica, ma
ascende subito al problema massimo su cui s'appoggia la filosofia dell'
educazione. “Come è l'educazione possibile?” S. Agostino, né più né meno d’AQUINO
(si veda), incomincia da questa domanda. “Come è possibile, cioè che un
soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate
cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende in esame il mezzo
principale e più appariscente, che sembra appunto garantire tale comunicazione
tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in genere: il
linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o scritta, con
tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche ond'è
accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale, se
così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette la
mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente
critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente
l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul
linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può
rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva
(spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una
esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica
realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col
dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della
scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta,
tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più
concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa,
per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha
sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo intuitivo od
oggettivo, ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento
molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non
ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi
accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia
il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia
deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere
che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare
l'equivoco devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché,
effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non
sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete
la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un
segno della parete: né più né meno della parola trisillaba parete [Cfr. S.
agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura
del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno
appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo
già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo,
allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se
non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La
parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente,
proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di
copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non
col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i
copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola capo la
prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in
relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri,
per intendere il suo significato [Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni
che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i
segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben
lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può
significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il
che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva:
la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal
maestro allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono
essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili,
invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della
mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono
date Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo
attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose
intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore. E che cos'è
questa verità? ...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto
abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio;
chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre,
quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà. Che
significa, appunto, concludere a una vera e propria autoeducazione nella quale
non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il sapere allo spirito umano,
ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta, una delle possibili
giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e si trova, un pò come
tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e, in questo
caso, della sua celebre teoria della reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico
maestro dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo quella tale
difficoltà della comunicazione fra soggetto docente e soggetto discente.
Affermazione giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto non solo si
deve riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella mente il
lume intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero divino
debba essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma
affermazione insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a
negare addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il
problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e
scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce
che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso,
cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una
soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De
Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare
dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare
così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura:
l'impostazione rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico
riprenderà tale e quale. III L'altra corrente filosofica alla quale
guardava San Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo,
ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di
manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al
pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e
l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una
tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano
fatto gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute negli
scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo stato di
cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi
conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi
di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di asserire che
l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più reale e
concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare chiaramente, per
non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo ordine di idee, fra il
trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S.
Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo
modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei
peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una dottrina avversaria ben
costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che
abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia
pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione
di San Tommaso, ed è certo da augurare e da sperare che nuovi testi
averroistici possano essere dati alla luce in un prossimo avvenire. Cosa che
permetterebbe di studiare con maggior esattezza la stessa filosofia
dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata De Veritate
(della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della Summa
Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso attacca l'averroismo
intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e della possibilità che
un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente
prodotto qualche opera nella quale quel problema fosse, di proposito,
esaminato, oppure, come adesso sembra più probabile, si trattava di conseguenze
implicite in tutta la dottrina averroistica? Evidentemente, solo i progressi
futuri della storiografia filosofica intorno all'averroismo potranno permettere
una risposta definitiva a questa domanda. Comunque, se circa questo
problema della possibilità dell’educazione, i precedenti storici del pensiero
tomistico in ordine all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun
dubbio vi può essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo,
cioè, non solo che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda
all'averroismo come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole,
benché con intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina
agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo
già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la
tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella
incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità,
non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie
incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo
benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e
che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi
fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque possa
essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo
fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si
potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura
dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda
la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani
dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a
un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella
mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e
dell'io trascendentale. Quod intellectus omnium hominum
est unus et idem numero [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1°
pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate
dallo stesso Arcivescovo nel 1277: Quod scientia magistri et discipuli est una
numero... Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro,
all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270
dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo definiva la prima proposizione
riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci nelle sottili questioni di
interpretazione aristotelica che questa dottrina coinvolge: basti notare,
adesso, la soluzione del problema della conoscenza ch'essa richiede. In
sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San Tommaso sia da
un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la maniera colla quale
interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su ragioni
speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non potersi
attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare, ma
doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì variamente
attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma che, ciò
nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i vari
oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli
soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli
averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano
diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria:
differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al
massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo
a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo,
qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del corpo.
Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben
merita di essere chiamato, pur colle debite differenze d'ambienti e di
problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe
chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato
del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi
dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se
l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e
nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo,
almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal
difficoltà della comunicazione fra maestro e scolaro che tanto aveva
tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno
collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella
maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in
ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al
trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia
e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in
modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso
titolo del maestro - nell'intelletto unico. Così la teoria averroistica
accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era
dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria
capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema
dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro,
costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli
averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella
quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di
creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non
basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze
circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte
energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi
riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se
stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli
abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro,
finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle
difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e
fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia
agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di
questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il
maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo
scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo
l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare una linea
ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé con
Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo
rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una
fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna. Ma la teoria
dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si
considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si
riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori
arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche
condannate affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non
conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi
gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma
alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i
commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa
affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare
di creazione da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo
l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato
la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le
superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità,
se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata
riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto
diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol
perché si sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero
spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà
d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle
intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che
sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e
indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre,
anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere
addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause
prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo,
questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta
insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce
in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il
De Magistro d’AQUINO (si veda). Il quale S. Tommaso due volte, nelle due
diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere
la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la
teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle
teorie metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, l'averroismo è,
infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti fra
maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè, dice S.
Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò ammise
che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da quella che
quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi nella sua
immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce dell'unico
intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et secundum
hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero aliam ab
ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse habet, per hoc
quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc quod sint
disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove bisogna tener
presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale appartengono
la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a differenza dell'anima
intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e molteplice secondo la
molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si può attribuire all'uno o
all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro, non in quanto puro atto
del pensare (nel qual senso va attribuito solo all'intelletto unico) ma in
quanto pensiero che si riflette e, per così dire, s'incorpora nei fantasmi, i
quali appartengono in proprio all'uno o all'altro individuo o soggetto
particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non sta, dunque, nel
fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la scienza e l'altro no,
dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per natura, lo stesso
intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel fatto che il
maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo che essi
rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico; mentre
lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il
maestro, quindi, non comunica né trasmette scienza nel senso vero e proprio
della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e
ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla
luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come
adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la sua chiarezza.
Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura impressionante a certe
dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il vantaggio di non formulare
sempre chiaramente le ultime conseguenze cui giungono, ma le quali, viceversa,
ammettono un Io unico per tutti i soggetti particolari, e debbono poi rinviare
alla sensibilità quando vogliono spiegare la differenza, almeno apparente, fra
un soggetto e l'altro, proprio come già faceva, a suo modo, la teoria
averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie moderne sono pronte a coprire
col divenire e la dialettica ogni loro deficienza; più ingenuo e grossolano,
l'averroismo si lasciava subito sbarrare il passo da questa formidabile
difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e separato dalle singole anime individuali,
come si può poi attribuire a queste singole anime, e ai singoli soggetti,
Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per
definizione affatto diverso da loro? Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti
tentavano di vincere questa difficoltà amalgamando l'intelletto unico con
l'anima individuale attraverso il termine medio dei fantasmi e delle forme o
specie intelligibili. Ma si tratta di una soluzione che non risolve nulla,
poiché tale continuatio vel unio come la chiama S. Tommaso non spiega in qual
modo l'azione dell'intelletto si possa attribuire a questo o quel soggetto
particolare. Il fatto che le specie o forme intelligibili siano nei fantasmi
dell'anima individuale non significa punto che siano da essa pensate, così come
l'essere il colore in una parete non vuol dire che la parete vegga il colore, o
che si debba attribuir alla parete l'azione del vedere. Per avere in sé il
colore, la parete non vede, ma è veduta; per avere riflesse nei suoi fantasmi
le forme o specie intelligibili, l'individuo, Tizio o Caio, non penserebbe, ma
piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1
(in corp.)]. Difficoltà, si noti bene, che non si risolve col far entrare
a forza l'intelletto unico dentro i soggetti particolari, o col renderlo, come
oggi si preferisce dire, immanente. Poiché la questione non è di lontananza o
vicinanza, di continuità o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità
logica e metafisica. Si chiede appunto se sia possibile rendere immanente un
intelletto unico nei singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la
difficoltà insolubile. Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta
critica che San Tommaso fa alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che
gli accade di trattare dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né
di enumerare i poderosi argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2)
ch'egli stesso richiama alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver
criticato quella teoria averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco,
nel quale altre teorie, ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero
poi cadute. Questo: che, nell'insegnamento, perché si possa garantire la
comunicazione fra maestro e scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre
che la scienza del maestro sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la
proposizione condannata nel 1277] con quella dello scolaro, quasiché il
medesimo sapere dovesse passare da una mente all'altra come un pezzo di legno
passa di mano in mano. Ma basta soltanto che la scienza dello scolaro sia
eguale o simile a quella del maestro: identica per la identità delle cose
conosciute pur attraverso due processi mentali distinti e diversi e non per una
materiale coincidenza e sovrapposizione della mente del maestro a quello dello
scolaro, ...non si dice che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come
se la stessa scienza - numericamente la stessa scienza - che è nel maestro
passasse nel discepolo; ma che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una
scienza, simile a quella che è nel maestro... [De Mag. Art. I ad 6.tum ...docens
non dicitur transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero
scientia quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in
discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in
sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria
dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema
della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti
pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che
se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in
rapporto fra loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non
è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in
generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa
prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è
Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui
che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato,
considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio,
e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di
idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il
problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che
le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e
da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti
individuali. Accanto a questa dottrina AQUINO (vedasi) ne ricorda, per
criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica,
se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione della Summa. Altri
credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme,
scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e
venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali:
come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. Quidam
vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita,
nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem
manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu
in materia latentes [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della
Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella
secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che
la materia acquista per partecipazione delle Idee. Sic etiam ponebant, quod
agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit
materia corporalis per participationem specierum separatarum [S. Theol. I, q.
117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è
efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di
questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia
concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non
consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin
dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè
precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come
sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica. La
dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la
dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto
contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una
idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un
medesimo idealismo. E, infatti, quanto all'insegnamento, che differenza
ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di
stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la
luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e
la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che
il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che
già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe
aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno
che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi
di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa
scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza
oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più
chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e
autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in
senso averroistico, AQUINO (si veda) ha effettivamente innanzi a sé già i
motivi fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra
mentalità, la pedagogia idealistica moderna. E all'autodidattica e
all'idealismo che ne è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in
questi suoi scritti sul magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma
che derivava loro dal presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere
sul serio tutte le difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le
altre, si capisce, quella riguardante la possibile comunicazione fra maestro e
scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come
potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento
fondamentale contro l'efficacia didattica dei segni ond'è intessuto il linguaggio
era proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non
le conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le
conosce, non capirà nemmeno i segni. A ciò S. Tommaso risponde negando
senz'altro il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della
conoscenza, che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un
processo che si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha
lo scolaro in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In
un certo senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve
avere in sé non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche
alcuni concetti primi, alcune forme o categorie come più modernamente si
direbbero (l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al
materiale offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti
gli altri concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo
fermarsi su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un
innatismo simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio
apriorismo capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con
una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi
la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che
aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'a
priori nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra a
priori ed a posteriori]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un a
priori nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra
ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della scienza
(benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per partecipazione
dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole, nell'animo nostro,
ma solo in potenza ed implicitamente. L'attività dell'intelletto nostro ha in
sé alcuni germi di scienza quaedam scientiarum semina, cioè alcune,
virtualità, o disposizioni a formare immediatamente, appena stimolata
dall'esperienza sensibile, i principi primi, o le categorie. Che contengono
già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni scienza possibile, passata,
presente o futura, appunto perché sono i concetti primi e più universali
dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto e senza i quali
nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così come, per servirsi
di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono contenute, in
potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o sia mai per
escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette note musicali sia
contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente, esplicitamente non c'è
nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto vuole i tasti del
pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta tutta la scienza,
e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in atto ed esplicitamente
non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata o, meglio, vi è quella
sola scienza che riguarda i primi principi stessi, poniamo il concetto
dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro sa o non sa, ha o
non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro gli insegna? Sa
e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza ed
implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto
possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa
cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è,
secondo AQUINO (si veda) uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza
umana: essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una
attività sintetica. A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto
a tutti i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale
che percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta
egualmente nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose,
come quelle che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente
alcune altre che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non
esplicando per mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente
contenute [De Mag. Art. I (ad XII. mum) ...non se habet aequaliter ad omnia
intelligibilia consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se
nota, in quibus implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest
nisi per officium rationis ea quae in principiis implicite continentur
explicando ]. L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi,
e poi, mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e
immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed
è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella
scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi
mediante il processo del ragionamento. Tanto che se si propongono ad alcuno
cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse,
non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede. VI. Sia
concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria d’AQUINO
(vedasi) riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato origine a
delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta neppure
dalle più audaci e radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali, sebbene
abbiano protestato contro l'immediatezza dei primi principi e ci abbiano voluto
vedere quasi un segno di umiliante passività dell'intelletto, non hanno,
viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto loro, né dei primi principi,
né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima analisi,
nel cambiare il nome dei primi principi serbandone, più o meno, immutata la
sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le categorie di Kant, l' io
di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli idealisti moderni. Ma anche
nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le categorie ad una sola,
quella dell'io, resta sempre vero che esse così si sono credute di poter
ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l' io solo fosse un principio
immediatamente per sé noto, e tale che tutte le altre cose potessero esser note
solo in quanto da lui si deducono e a lui si riconducono. Che è precisamente,
con molte parole diverse e qualche asserzione assai discutibile per di più, la
stessa posizione nella quale si trovano i principi primi della teoria
tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è dunque tanto moderna e
critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di tal nome potrà mai
negare il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni e immediato quanto
ai principi, della conoscenza intellettuale. Appunto per questo
l'attività intellettuale ha bisogno di un motore (indiget... motore) che la faccia
passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il processo
della scienza pel quale dai principi si ricavano le conclusioni, non è un
processo che si svolga per una necessità meccanica e fatale, cosicché posti da
Dio nella mente umana i primi principi debba conseguirne senz'altro la scienza,
così come un grave lasciato a se stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto
umano d'altra parte non è come l'intelletto angelico che scorge immediatamente
nei principi le conclusioni e che con un solo e semplice atto coglie la verità:
esso, invece, scorge immediatamente la verità dei primi principi, e quella di
tutte le altre cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il
ragionamento, ai primi principi stessi. Ora, proprio in questo processo di
riduzione ai principi e deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia
perché può sbagliare, sia perché può non avere la forza e la maturità mentale
sufficiente per effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai
quali rimedia il maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle
conclusioni: inquantum proponit
discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non
haberet tantam virtutem collativam [S.
Theol. loc. cit]. Ma il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di
conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra
maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi
principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro
animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al
primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi
non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati
che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di uno, di essere, ecc.
(primi principi) io non posso formare i concetti di animale, di vegetale, di
uomo ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini,
vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali
comuni io formo appunto il concetto di animale, vegetale, uomo ecc. Processo che S. Tommaso descrive così:
Cum autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua
particularia, quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per
inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae nesciebat... Non basta,
cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni
particolari da ridurre ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima,
col quale la mente umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la
conoscenza di queste particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed
imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria esperienza sensibile
molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro modo col quale il
maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle nozioni o
proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare da sé al
lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti ed
esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse
[...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex
praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua
sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus
intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae. S. Theol.
loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro:
procurare allo scolaro aliqua auxilia vel instrumenta aiuti e strumenti di
lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile, sotto
quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur senza
diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li adopera.
Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo la quale è Dio
che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che da Dio appunto
viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume intellettuale, i primi
principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa facoltà e il suo
passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per intervento diretto della
Causa Prima, sibbene per intervento di una causa seconda, qual è precisamente
il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la potenza o la dignità della
Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause seconde, fra le quali i
maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un effetto decorativo, ma
perché davvero causassero, cioè producessero qualche cosa ...prima causa ex
eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum quod sint, sed etiam
quod causae sint [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha conferito alle cause
seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser cause. Onde
significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza di Dio,
supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi
sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto
l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e
platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico,
o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli
agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale.
Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del
maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva
d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore:
nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. Ma, e quel
tale, difficile problema della comunicazione fra maestro e scolaro? E quella
tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni
sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto? Per rispondere a
queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni
tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti
all'autodidattica. E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal
maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio
di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa
parlare, in genere, di passaggio della scienza dal maestro allo scolaro? Un
oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso
oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando
sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa
scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e
contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del
maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra
loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre
anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come
due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto
unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza
passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri
come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo
animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla
scienza del maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche
oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo
sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno
dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti,
nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo
della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza,
anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una
scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e
basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale
apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del
modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol
dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né
uno di numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce
l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche
dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto
è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di
medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo
altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo
intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico
per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e
fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi
intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé,
tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa
questo? Soltanto che ...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo
operatur ars, et per eadem media, quibus et natura [De Mag. Art. I (in corp.)]
il che, come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o
sia identica alla natura. Come la natura chi soffrisse per il freddo
riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che
l'arte imita la natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della
scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose
ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto
[Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la
somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell'
insegnamento come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte
non esista, o si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal
problema della comunicazione? Com'è possibile che il maestro, imitando la
natura, possa, sia pur non trasmettere nel senso materiale della parola, ma
anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla
sua? Ecco, come S. Agostino, anche AQUINO (vedasi) non mette in dubbio
che lo strumento principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il
linguaggio e siano i SEGNI ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla
difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la
materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e
l'interiorità della scienza. Poiché il segno del linguaggio ha, per S. Tommaso,
una fisionomia tutta speciale: è sensibile, sì, ma d'una, se vogliamo così
chiamarla, sensibilità affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle
qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile
della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il
fantasma o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed
immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il
fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle
sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già
l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò,
con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della
sensazione coi medesimi concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge
fisica: il calore dilata i corpi. Che è quella legge? Niente altro che una
forma. Nella natura é la forma di quel processo che è, appunto, la dilatazione.
Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in generale le
forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un
determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è,
appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne
abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si
dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della dilatazione
partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che
potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il
corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste percezioni particolari,
un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione. E come posso
arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua volta i
corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della
dilatazione. Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo
processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli
corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti
videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione
universale! E si capisce: quella forma che è la legge della dilatazione esiste
nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma d'una
materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma
bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne
seguono. Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è
formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste
precise parole: il calore dilata i corpi. Anche qui essa viene espressa con
segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole. Segni tanto sensibili
quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza.
Che per poter dire o scrivere le parole il calore dilata i corpi si è già dovuto
formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge della
dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere
materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente
del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto
un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge
scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o
concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a
dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire
dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole il calore dilata i corpi
(udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la
legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e
della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e
cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non
è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o
della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle
quali il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della
gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così,
patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi
regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne
ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no. È
questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia
delineata d’AQUINO (si veda) Per la quale, a differenza di ciò che succede in
moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né,
tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere,
all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei
vari metodi intuitivi od oggettivi escogitati dalla pedagogia moderna, da
Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza
- abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca
tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono
variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S.
Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima
puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo
scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole
dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza
nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e
dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili".
Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano
scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori
dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De
Mag. Art. I (ad XI.nium). IPSA VERBA DOCTORIS AVDITA VEL VISA IN SCRIPTA HOC
MODO SE HABENT AD CAVSANDVM SCIENTIAM IN INTELLECTV SICVT RES QVÆ SVNT EXTRA
ANIMAM QVIA EX VLTRISQVE INTELLECTVS INTENTIONES INTELLIGIBILES ACCIPIT QVAMVIS
VERBA DOCTORIS PROPINQVIVS SE HABEANT AD CAVSANDVM SCIENTIAM QVAM SENSIBILIA
EXTRA ANIMAM EXISTENTIA INQVANTVM SVNT SIGNA INTELLIGIBILIVM INTENTIONVM. E
sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius)
che non è punto indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto
che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già
astratte dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o
"intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli
oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere
senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere dalle
cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente, attraverso un
complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato finale resta, in
ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari forme e verità
che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo, è ancora la
giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e sviluppa da par
suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo scolaro, questi
non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli elementi essenziali
e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo
voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da
questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo,
alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può
metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere
l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri
oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere
l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina,
l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e valore. È risolto,
così, quel tal problema della comunicazione fra maestro e scolaro? Certo, ed è
risolto proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima vista
parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in genere,
dei segni fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per operare ab
estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere affatto
intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro medesimo,
poiché vera causa di scienza allo scolaro - San Tommaso non si stanca di
ripeterlo - sono non già i segni del maestro, ma il lume intellettuale e i
primi principi dello scolaro stesso, il quale scopre la verità (o la falsità)
di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo soltanto le forme
intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i primi principi,
mercé quella attività collativa nella quale consiste il raziocinio, attività,
senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il maestro può stimolare e
aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire. L'opera del maestro
altro errore che AQUINO (vedasi) combatte continuamente negli argomenti acclusi
al primo articolo del De Magistro non è già un'opera creativa; come se il
maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale e i primi principi.
Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e inesistente: crederlo, è
l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla creazione, l’operare col
trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo qual è il maestro
un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi
attività od operazione. L'arte dell'insegnamento non crea la natura
intellettuale; la presuppone. Ma la natura stessa dell'intelletto umano è così
fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o,
almeno, realizzata attraverso un processo assai lento e malsicuro. La
dimostrazione esauriente di questa tesi si trova nel secondo articolo del De
Magistro, che è una delle critiche più brillanti e spregiudicate che siano mai
state fatte all'autodidattica. Articolo paradossale in apparenza, e che suona
stranamente agli orecchi di noi moderni abituati ormai da una lunga tradizione
a ritenere l'autodidattica non solo un fatto evidentissimo e una realtà
incontrastabile, ma addirittura il centro e il principio vitale di ogni educazione.
Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che
tutti e non soltanto qualcuno, siano, in certo modo almeno, maestri di se
stessi. Ebbene, San Tommaso risponde senz'altro di no; e val la pena che, prima
di scandalizzarci o di spaventarci, intendiamo bene il principio sul quale
l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo
stesso principio sul quale ha fondato la dimostrazione precedente. E,
anzitutto, si faccia bene attenzione alla differenza che c'è fra queste due
espressioni, apparentemente simili: acquistar scienza da sé ed esser maestro di
se stesso. Che cosa vuol dire acquistar scienza da sé secondo la dottrina
tomistica? Niente altro se non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il
lume intellettuale e i primi principi. Applicando tale sua attività al
materiale offertogli dalla esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre
certi concetti, cioè ad accogliere nella sua mente come pure forme
intelligibili quelle stesse forme che, nella natura, esistono solo come forme
di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a proposito della
gravitazione e della dilatazione. È questa, così ottenuta, scienza vera e
propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui estensione e complessità non ci è
dato mettere un limite a priori. Supposta, da parte del soggetto umano, una
continua e indefinita esplorazione della esperienza sensibile e una correlativa
astrazione di forme, nulla si oppone a che ne risulti una scienza anch'essa in
via d'indefinito accrescimento e a che chiunque si possa costruire, per questa
via, un sapere teoricamente illimitato. Tale è l'acquisto della scienza che si
ha per opera della natura, quando, cioè, la ragione naturale per se stessa
giunge a cognizione delle cose ignorate [De Mag. Art. I (in corp.)]. E questo
modo S. Tommaso lo definisce, per evitar confusioni, con un termine suo
proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma se questo processo é,
innegabilmente, acquisto di scienza, è poi anche insegnamento, o magistero? Qui
la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si svolge mediante
il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme intelligibili come
forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle forme non possono
averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono soltanto forme d'una
materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di
colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli non imparerebbe e
ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un altro, ossia del
maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso soggetto non può
esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne consegue: perché
dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le forme intelligibili
e i concetti, averle, dico, non in potenza e come possibilità di formarli, ma
in atto, già formati e come principi positivamente esistenti e operanti. Per
potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge della gravitazione
universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei corpi che cadono e
astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e non insegnamento;
ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura legge; il che è
assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non avrei bisogno di
cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di parole, e non lo
è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi l'acquistar scienza da sé
(inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina) per il solo gusto di
complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene due concetti che gli
sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di estendere a una
vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è caratteristico, invece
di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e l'invenzione? Abbiamo
cioè, il diritto di considerare anche il naturale acquisto della scienza che
avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno per il solo fatto
d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e propria completa
azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto l'argomento sul quale
tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per potersi parlare di
vera e propria azione (azione perfetta) é necessario che l'agente il quale fa da
causa, contenga in sé in maniera essenziale e non accidentale ciò che produce
poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)]. Così, ad esempio il fuoco è
agente di sanità, per colui che soffre di una malattia guaribile col calore, ma
agente accidentale (imperfetto) poiché non contiene se non fortuitamente e per
accidens ciò che in quel dato caso produce la guarigione. Ma lo stesso fuoco è
agente essenziale (perfetto) nell'incendio d'una casa, appunto perché, come
fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è necessario agli effetti della
combustione. E dunque se l'insegnamento ha da essere una vera e propria azione
(azione perfetta) occorre che nell’agente sia già contenuto tutto ciò che sarà
poi prodotto dall'azione. Il che accade soltanto se il soggetto maestro è
diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in sé in atto, esplicitamente e
perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà poi nel discepolo: la scienza.
La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio è azione solo imperfetta, cioè
non vera e completa azione, poiché in essa la causa, sia l'intelletto e i primi
principi, sia l'esperienza sensibile, contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto
(la scienza, le forme intelligibili come forme pure) ma lo contiene solo
implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere di scienza e di forma
pura. E questa non è - si badi bene - un'astratta escogitazione teorica
senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S. Tommaso c'invita ad
osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo. Noi siamo, è vero,
portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo all'autodidattica un
valore superiore, in certo senso, a quello del semplice insegnamento. Ma nel
far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che dovrebbe, se ben
interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a quella che
abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e giustamente,
l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no non avremmo
ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste precisamente
nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura, il processo
normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita
elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e spedito modo di
camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo tutti che
l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per camminare,
uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche
dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo
migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e
che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà
l'autodidatta merita lode ...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la
ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si
segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più
perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento [De Mag. Art.
II (ad 4.tum.) quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit
perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad
sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per
doctrinam]. Né si creda che quel ridurre a scienza più speditamente, sia
solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di principio, così
importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la
differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe
filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo. C'è
la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a
questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della
filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa,
s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si
crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la
filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente realizzato,
ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito sempre
facendosi altro da quello che era prima. Ora, un atto di questo genere:
un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che non è,
insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di
completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la
filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero
nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e
futura, ma in potenza o come pura possibilità di conoscere, non già come atto,
o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser causa
reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo può, ma
in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il seme può
dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra pianta. Non è
la pura possibilità di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di un altro essere
in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il supporre che la
scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero in quanto è una
pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come supporre che il
figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla possibilità di vivere.
Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere già stata, la scienza in
atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta completa. Ecco la
differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo
questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura potenza, da un
germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa
o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la
realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel
quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab
aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi
rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed ecco,
quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e
l'autodidattica, fra lo scoprire e l'imparare. Si capisce che per coloro i
quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga l'inventio:
se prima non abbiamo scoperto o tratto dal nulla la scienza, che cosa potremo
mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è vero il
contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè, scoprire una
scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che cosa
scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà la
natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure forme
nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire come
a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la
scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il
valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento,
poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore
a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si
potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella delle
rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico
dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno,
non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della
scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo
atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. Andare più oltre
vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in
una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e concisione
del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di dottrina, il
cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria della educazione
da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve saggio [Chi
desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro e
Scolaro. - Soc. Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1930]. Basti qui ricordare, per
concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a
quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della scienza e
dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in cui il
sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda disciplina
intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto
che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba avere la sua
funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore, il mezzo più
elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per ammaestrare il genere
umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume intellettuale e i
primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze d'una ricerca
puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata dapprima ai
Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e a tutta la
Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i secoli. I
geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della scienza come
procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere sull'azione diretta
e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello Spirito che agisce,
soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in luce, piuttosto,
l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio medesimo ha voluto
stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione, oltreché nella scuola
come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche per S. Tommaso, come
per S. Agostino, il problema dell'educazione e dell’insegnamento non si vede
tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto
l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro tomistico non
s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi della scienza qual è nella
mente divina, nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si
trova nella Summa Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli
articoli che trattano della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi
sempre il grande metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la
legittimità e l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione
per estendere, disciplinare, consolidare l'opera della ragione. Taluno,
certo, obietterà che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a
nulla l'attività e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a
ricevere passivamente un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il
Medio Evo, come l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità.
Obiezione tanto impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e
fondata sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel
conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve
dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione,
anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa,
colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria
violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che
riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma
libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e,
perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più
sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina
rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella
sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un
pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento
della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben
lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto
liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia
moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto
diversi come quello di attività o libertà e quello di autodidattica, quasiché
per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia
di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto
medioevalisti, come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo
scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa
pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa,
oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro
caso un antico più vero e, perciò, più moderno del moderno: l'effetto di una
novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa
come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato?
Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o
soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel
primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od
atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice
esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato,
soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti,
normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i
quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti
dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che
s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via
nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e,
viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della
lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma
soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la
pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi
generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro
possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente
costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù,
potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza
dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o
l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con
l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi
s'assimila attraverso le specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un
maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo
in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale
per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché
nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un
libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la
nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile
alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una
rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito
attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce
nella religione i suoi scolari. Evidentemente, oltre questi due casi in
cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e
viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il
metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo
tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti
considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e
attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia
vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono
agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così
numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o
mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti
che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe,
nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un solo, ma tipico esempio: la
discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e
quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino
allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro
inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e
risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le
lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i
rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo
che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così
profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con
quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto. Io non
parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto
soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto.
Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e
neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi
limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II Sarebbe
abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto
trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli
studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero
umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in
un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che
tutte le più importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso,
naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo,
in una immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi
colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa
stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come
l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata,
appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e
nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle,
l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la
verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra,
come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o
le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la
natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto
varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i
maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non
si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche
nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità
del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi,
libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa
legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi
naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la
pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia
del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui
attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato
come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento
del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando errori
la filosofia e peccato le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo
come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così,
invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté
mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue
Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare
intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi,
giustamente orgogliosi. Ma, oltre questo naturalismo ch'è, in fondo, una
ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé delle
tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto
spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non
è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie
moderne, hanno in sé un altro naturalismo niente affatto utile o necessario
all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha
nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento:
afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura
umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a
riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al bene,
cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione
dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché
appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro
rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo bene
possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una
educazione naturale dell'uomo, ma respinge come assurda e satireggia come
ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un
elemento soprannaturale nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due
cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione
naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi,
sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti
gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli
uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene,
almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua
esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui
tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra.
Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo
ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità,
che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo
all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere
umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è
facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente,
o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità
e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità
delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé,
esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la
delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante
come il tipo dell'uomo educato? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta
da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo
Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in
ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo
tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i
fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e
le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione
dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo
inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto
dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva
affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa
possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal
genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole differenza
che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione effettiva.
Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a
portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e
alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli
scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci
lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è troppo
facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili l'istruzione è
obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci
delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli
ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non
conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non
insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro
innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la serenità soltanto
tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta
dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come
nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in
maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i
fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata
l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine
al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le cantonate! Ma poi, badiamo,
non si tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che la
scienza non si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione
universalmente diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci,
tutti intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo -
fosse uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io
dico che quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne
smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si
vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo -
uno solo - circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e
affidato ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose
abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia -
quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere -
l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di
fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far
diventare realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al
vero che esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando
si è persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei
non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano,
irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la
natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare
coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si
mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a
tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso
contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV Finora abbiamo parlato
in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena
la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo,
anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in
certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee,
mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente
dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato attento, se i ghiribizzi
della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha
intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la
chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro
imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi
che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare
andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha
già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle
idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni,
le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il
maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando, sventuratamente,
così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il
linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare
di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri,
quaderni, appunti, riassunti e così via. Ebbene, la storia della
pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a
questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre
servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire.
La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa
trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e
chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto
interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il
paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e
già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è
ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a
questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un barbaro che
vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad
astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo
in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena
di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue
un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più
lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee semplici, che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a
chiarire, spiegare e semplificare, tanto più diventa impossibile al discepolo
ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la pedagogia
moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione al
procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee astratte.
Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso all'intelletto,
dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza la cosa, l'idea
senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito: procurare, anzi, che
l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea sotto lo stimolo
della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo intuitivo che
innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da
augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le
istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo
effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e
applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza
sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un
oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun
significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto
assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel
prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della
sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è disattento, se si
rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se non vuole
ascoltare, nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di
immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima
analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta
l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la
genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome
i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di
conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non
artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile
la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo intuitivo possa, da
solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è,
poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo,
troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto
superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la
teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile
ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche,
nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando
occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi
garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate:
sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i
pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il
deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che sapere scolastico
è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo
a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione
scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni
istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi privilegiati.
Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta spiegazioni
verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni e parole che
gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per ripeterle tal quali
agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio scientifico cosi
evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare per secoli una
parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità pedagogiche più
astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon andamento
dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano messe in
pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione
s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili; supponiamo
tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo rimosse le
condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a taluno la
frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità sufficientemente
istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo conoscere? Ahimè,
non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà che non è in
poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un Galileo può
formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i più perfetti
metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti dalla
impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un altro
gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno, falliscono con
un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita risposta: dipendere
il successo dell' educazione o dell' istruzione, da circostanze imponderabili
le quali variano caso per caso. Il che significa, in fondo, riconoscere
l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i sistemi e i metodi
dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più ideali e favorevoli
condizioni. Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà dire per l'educazione,
intesa come formazione morale e, in genere, formazione della volontà? Se pare
tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà della lotta contro la
pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro l'egoismo, contro
tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la storia della
pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di questa
educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini dotti, pur
coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono abbastanza,
ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi verso il
prossimo? E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla cieca,
senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale sono in
certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione, e per
l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le ragioni or
ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente istruzione
morale: che, cioè, il non rubare, non dire il falso testimonio, non desiderare
la donna d'altri e simili precetti della morale naturale siano appresi da
tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad altro, ma
come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione. Ma, anche se
questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse dimostrare con
eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si sarebbe
raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei precetti:
occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e applicarli;
e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli diventare
abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante,
appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza
ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non significa
certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha
più criticato nella educazione morale corrente, si è appunto il vecchio
pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere libri o novellette
morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona
lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è
praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio
effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base
solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono,
per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee
scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari. Ma
questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad
organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne,
tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i
muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più
specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio
della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria
pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle
conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per
converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia
esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale
teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei
casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che
il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla
rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della
finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il
mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero
del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il
rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo,
cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia
dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere
quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare
l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si
tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare,
pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe
peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle
piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha
riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a
proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo
ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in
questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato
dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole
questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci
garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e puerili
i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare per
conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre
verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In
teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale
probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che
raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica.
In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che
variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta
per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si
fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono
sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma
l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di
quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale
ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta
proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla
virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di
addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di
falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce
ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce
l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si
tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo
sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a
giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e
fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E
chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre,
nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri,
tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a
favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni,
delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina?
VI Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare,
emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona
scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze
imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi
elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato,
quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un
grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo
senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non
può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e
ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche
essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo
senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo
d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure,
nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto,
meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di
produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi
superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie,
l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e
morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione:
e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la
civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la
compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale
dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur
difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più
che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte
merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più
cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini
hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a
mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che
di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi
di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può
mai abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono,
secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si
ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso
desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un
figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità
ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con
tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere
feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli
altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e
realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in
quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe
giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo
fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi
è che realizza quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose,
l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È la
razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'io immanente ed
onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle
loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue
istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono
ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza
sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo
della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire
nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro
pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore
alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la
storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde
nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si
possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così
perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari
è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto
ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi
è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la
ragione. Materia, spirito, evoluzione o storia, sono tanti nomi del mistero:
tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro singolo
raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta. Ma sono nomi oscuri e
contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso,
dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe
come il giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le
carte o la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione
fra possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha,
invece, un significato ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno
sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa
sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei
suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di
cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche parte. Potere che
compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione del genere umano
anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo
nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il
delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per abbattere la civiltà.
Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della misteriosa equazione che
si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra possibilità e realtà.
La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe
entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia
compiuto e compia la Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a
tutti gli uomini le verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le
incertezze della scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia
di cui attraverso la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in
quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma
la pedagogia e la filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno
questa importante conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale,
l'educazione, anche nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile
e, nello stesso tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire
assolutamente necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una
educazione naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna
contraddizione intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale
nell'educazione, necessario di una necessità relativa e morale: utile
nello stesso senso in cui i teologi parlano della utilità della
rivelazione. Ecco una sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo
all'idea ch'essa debba indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto,
questo dovrebbe accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un
certo punto, arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno
assorbito la forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione
naturale. La natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è
indefinitamente educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il
suo progresso. Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori,
dall'interesse, dalle passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in
cammino, e ci vogliono tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per
farla progredire, per dare ad un uomo solo, anche la più modesta educazione,
così come ci vogliono macchine complicate e delicate per dare ad un solo
oggetto una limitata quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale
volesse far marciare tutti i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di
macchine? Che, perciò, di un pedagogista il quale voglia educare tutto il
genere umano colle scuole e i maestri, i collegi ed i libri? L'educazione
naturale è, come il moto perpetuo, possibile solamente in teoria. Ma per
realizzarla, per realizzarla in modo che tutta l'umanità abbia il suo vero e il
suo bene, i suoi giorni laboriosi e i suoi riposi meritati, le sue messi e le
sue industrie, il pane del corpo e il pane dello spirito, la sua dignità e la
sua fede, è necessario il braccio di Colui che sospese negli spazi, fiammante
tappeto ad un trono invisibile, la corona di soli che i nostri occhi
intravedono in un lontano luccichio dorato, nella notte. L'Anima della
pedagogia. Discorso tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico
nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata il 17 dicembre 1924. È importante che il
lettore tenga presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo
studio rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e
democratica, che sono com'è ovvio assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi. Domando
scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così
poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove
si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e
nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da
quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi
capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un
organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti,
tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come
l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come se mi perdonate il
brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani,
mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è
dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità
riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la
curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da
un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più
mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole
di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano
qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare
nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano
immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non
abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto
dei discorsi sull'anima della scuola, sulla sacrosanta necessità di educare
oltreché istruire, sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione
un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei
discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana
nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera
quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor
scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa
all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé
l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei
ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario.
Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o
della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere
nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti
forse per ironia di concetto, nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa
che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le
nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da
rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui
capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria
soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla
punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e
neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo
non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde
traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma
è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la
noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali,
l'analfabetismo morale insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni
scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o
interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali
e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti
cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non
dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza
d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non
averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati
deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di
cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma GENTILE (si veda):
i benefici effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel
loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che
accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto
spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora
paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi sperdo in un
mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del
mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina
eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come
la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome
tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le
lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae
dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di
amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel
volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una
larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie alle Suore che
l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli
edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno
spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il
pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali
idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come
notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli
istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola
universitaria? Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti
si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non
presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da
sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro
futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro
tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la
ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi,
per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto
il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un
differente senso dello sforzo gioioso base d'ogni cultura, i primi rudimenti,
ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione
ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con
sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita.
Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi,
un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo
visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in
materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha
infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno
come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le
bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha
trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare
che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra
cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto
Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo
sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la
cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già
compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia
perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in
sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole
ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e
gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole
elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare
che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione
del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici
non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano
ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar
giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi ponga mano ad
esse, ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde
non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi,
a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che
ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una cultura nel senso
di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello
spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della
scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza
un pubblico che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse
in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella
stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la
formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un
lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel
mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza
interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed
eccoci a quello che dicevamo prima sull'analfabetismo morale, ben più
pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee
il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o
l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e
difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il
bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina
spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari,
e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le
sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica,
e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e
di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con
passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli
anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o
iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad
apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca
d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei
propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo
ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra
nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe,
forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti
menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni
vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina
romana, le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in altri
tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati,
avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime
lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non
fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e
l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri
accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una
cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione
scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro pedagogici
cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare non fosse
mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E quando un
simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel miglior senso
della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se non disertare
la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior tempo
libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni socialiste
del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi intellettualmente, sebbene
a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con mentalità pescecanesca, stoffe
costose e gioielli. Come vedete la questione intellettuale si trascina dietro,
inevitabilmente, la questione morale, e direi anche, se voi non interpretaste
la parola in cattivo senso, la questione politica. Sì, perché quel
professionista, quel funzionario, quell'impiegato che, finito il proprio
lavoro, invece di godere le vere libertà del raccoglimento e della
meditazione, va a divertirsi in un modo più o meno discutibile, si forma
poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle, ossia la mentalità
adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè, del cinematografo,
dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore dei problemi
seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso, l'insofferenza d'una
vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio moralmente analfabeta che nei
suoi salari che gli hanno permesso il pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti
costosi trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i
quali, assoggettandolo al suo duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo
da quella pantagruelica gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera
vita. Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente
alla coscienza morale dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui
necessariamente debbono pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica
d'una nazione, che vuol lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di
pensare e spirito di sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi
ai superiori dettami del caffè e del cinematografo, della pochade e
dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi
problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza delle cose più elementari;
ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco
la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità
dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà e consistenza. Come
meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina in un ambiente
simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella con tutti gli
annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico, quello dello
stellone, non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla
discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se
non aveva il fattaccio con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio,
a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti
che sono i bocciati alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi,
non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi
dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché
degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran
parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il
vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante
volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la
settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra,
fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea l'analfabetismo
morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri di quel che
poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo alla
degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri di
famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto il
manganello dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i signori
padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una pedagogia
ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze, degnassero
finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e finalmente
sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non sia quello di
fornire diplomi ai loro figli. La gravità della situazione che vi ho
prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale siete
chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi, future
insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori
riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo,
fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle
dure necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale delle sue
condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle
città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci
permettono ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento
incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo
stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una
cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre classi
dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il
libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del
circolo, avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto
quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel
sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del
mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano
fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il
mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo
aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando
intelligenze, opponendo ai divertimenti dissipatori il gusto d'un nobile lavoro
dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il
Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le
conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa
farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che
ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere
nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle —
sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un
fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un
più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa
grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che
ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a
questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima
comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre.
Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e
delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili
valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel
contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo
la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema
d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri
pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che
tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle
favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni
preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come vedete,
è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani
generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se
aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho
cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia,
essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello
alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi
annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura,
l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre
migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si
offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza
italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il
nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo
marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la
parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è
parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un
altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema
pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale,
noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui
si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire
d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia
scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini
e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto
e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e
degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune
discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro
funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie,
alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora,
secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il cattolicesimo è vecchio,
miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato.
Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri
e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi
tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la
cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe
sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e
greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica
formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre
medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le
vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato...
Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella
scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella
scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie,
disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man
mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali
deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che
agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana
elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario
come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica,
l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica.
Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge
sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro
l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere
classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza,
daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e
Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da
riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai
positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di
scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato
l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni
civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone,
attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle
letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque
risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la
cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo
scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un
nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia
idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il
medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario.
Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica
che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei fatti e delle
notizie e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria,
superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo
dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo
contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un
Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi
metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera
piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento
“ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare
chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi,
onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai
tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare
i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella
rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con
cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori
umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i
criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il
segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il
realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema
pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior
cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo
avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue
classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al
realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione,
della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel
proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui
metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una
cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di
risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che
è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia
laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi
quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di
ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi
inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola
realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale,
anche la scuola neoumanistica? La ragione? Ma la ragione sta nello
stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per
umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta
una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come
“uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli
ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema
educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività
umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè,
dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia,
esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o
l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività
umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel
senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito,
ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista,
cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi
ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una
cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella
letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso:
Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise
attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure
per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore:
che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della
sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri,
deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno
egoista? No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo
decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo
riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una
cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente
a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri
preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare
a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori;
anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno
all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di
sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non
se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi,
nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare.
L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso
parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura
scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche
tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più
caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est,
vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di
spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre.
Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un
circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una
realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro
forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini
v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in
un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una
cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento
della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento
della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo
naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per la
cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per
cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona
infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha
sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana
avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala
infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo
multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità d'una
esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno
dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa
di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale nutrita
dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi
va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”,
alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime
che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può andar mai
disgiunta dallo spirito cristiano. Ed ecco, infine, la ragione
dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre
reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo,
una scuola veramente liberatrice. Non basta. Il problema della cultura
non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un
problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie
laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella
ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella
“consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo
pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica
via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé
l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: che faremo dunque,
degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare?
Negheremo loro la qualifica di uomini? Problema, si noti bene, assai più facile
in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le innumerevoli
forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla società
moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che poche
ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i bisogni
della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad occupazioni
intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte ore del
giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i mille
servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di
polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un
intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo
le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle
scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li
lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare,
insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo
antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri
beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è
condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni
dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti
agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia
fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i
lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo
che mina le basi delle nazioni moderne. Anche qui la storia ci ammaestra.
Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal
Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla
giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro
intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di attività
umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che rompano la
dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo è
socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci
ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e
di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget
semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso,
alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre
rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la
gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava
compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo
aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta
attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per
la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno
per fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che
non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al
mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del
lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile tritume
di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da realizzare;
concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo numero di
studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale sollecitudine, alle
moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della buona novella
queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla rivolta i beni
che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un ricco
interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che
quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od
esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla
via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per
la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli. Né questo
deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo,
trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto
fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha
sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti
della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica
cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio dei poveri e degli
ignoranti, sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in modo
specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli evangelici, Essa
non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto
distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna
primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita
cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha
mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e
ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e
pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo
fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale
cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi
le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la
Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché
le condizioni materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica
del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione
intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più
ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo
ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito
eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che
tutte le soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza
(razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa
disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite
nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più
sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai
grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile
d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo,
impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene,
da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo
ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che ecco la vera parola barbara distruzione della libertà
umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto
del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non
avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da
dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei giorni che
sono di Dio appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro
interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del
proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni
fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo spingono la
brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna vita
irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone, lascerebbe
esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei così detti
“divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più adeguati
alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo,
con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta
della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e
suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe
arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i
grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la
prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha
affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti
architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti
potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio,
dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e
delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima
dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i
principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli
illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico,
nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più
profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica
che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da
spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni,
considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la
partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura,
la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? Oggi si raccomanda il metodo attivo, si
biasima il verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del
lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni
medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano
del medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi
si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i
pedagogisti moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e
cattolica le congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le
considerino in una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella
parte ove esse hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti
da loro, ma forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non
si capisce, ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i
manualetti della pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della
educazione cristiana e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza
avesse loro assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla
propria testa tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce
ancor meno perché mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti
deplorati dai pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero
effettivamente stati, i Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in
base all'opera dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero
fatto per l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi,
che pur cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di
educazioni effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali
indelebili, non è mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo”
spiritualmente altrettanto originale, ottenuto però con una educazione efficace
per lo meno quanto quella da lui vantata negli antichi? E che il benedettino,
il francescano, il domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e
non sono pochi!- la Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi”
spirituali non meno ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere
un'idea guardando a qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo
completamente se non là dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti
alla sua piena realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle
congregazioni insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi
brillantissimi: ma si consideri che quelle congregazioni, in quanto si
proponevano d'esplicare una larga azione sulla società laica circostante,
dovevano forzatamente accettare sistemi e metodi consacrati dall'opinione
pubblica, sia pur per volgerli, in quanto era possibile, ai propri fini. Così i
gesuiti trassero tutto quel bene che si poteva trarre, da un punto di vista
cristiano, dall'umanesimo letterario e dalla vita moralmente corrotta che nelle
classi sociali dirigenti si accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa
loro se la scuola umanistica era, per intima costituzione, una scuola oppressiva,
e se, in fatto di morale pubblica e privata, il mondo e la famiglia
s'incaricavano di erudire l'alunno uscito dai collegi con una serie di lezioni
ben altrimenti significative? Ma si guardi il rovescio della medaglia, si
prenda l'educazione gesuita nella formazione del gesuita, così come, risalendo
nei tempi, si prende l'educazione francescana nella formazione del francescano
e l'educazione benedettina nella formazione del benedettino, si prendano, cioè,
tutti quei sistemi educativi in quanto hanno la libertà di foggiare interamente
l'educando secondo i propri principi informatori. E poi si dica quale
educazione laica, in qualsivoglia condizione, saprebbe, non solo plasmare,
nella rigorosa unità d'una dottrina ferma come la cattolica, tanta e così varia
ricchezza di spiriti quante sono le diverse famiglie religiose; ma, quel che
più conta, indurre in una tal moltitudine di persone un dispregio dei propri
comodi e dei propri interessi, un amore della sofferenza e del sacrificio, una
devozione al dovere, una infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita
se non al di là della sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle
legittime soddisfazioni per cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria
spesa in servigio di superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa
opinione mondana ammira quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili,
della suora di carità o del missionario. Né bisogna poi credere che, anche
nelle difficili condizioni presentate dal dover trattare con gente già imbevuta
d'idee e d'abitudini anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che
la Chiesa impartisce a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa
meno della pedagogia razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle
anonime folle che, anche nei tempi più difficili per la religione, si stringono
intorno alla Chiesa e ne ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote,
la parola, il consiglio, l'ammonimento che trasformano anche la disperazione
della più sventurata esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a
Dio, nella nobiltà d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore
torbide della storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è
travolta dal turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla
e gli stessi nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare,
quando la burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano
dovuta ascoltare, è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io
concluda questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani
una conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una
conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie
scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il
nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e
sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i
maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi
richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e,
possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie.
Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con
gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle
tormentose crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle
esigenze della pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla
quale sarete uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le
altre scuole universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente,
in quanto ciò è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di
raccogliersi sotto l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto:
sotto l'altissimo nome di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio,
umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia,
religione e "filosofie" nelle scuole medie L'introduzione
dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita
dichiarazione del Concordato secondo la quale la dottrina cattolica deve essere
il necessario fondamento e coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere,
strano a dirsi, nell'animo di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la cui
eco si è sentita nell'ultimo Congresso di filosofia, e si sente tuttora negli
scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio,
amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto
lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio,
quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo
quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire
maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa
o quella singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica;
cosa che non potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto
dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione religiosa. È
bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i
problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne
condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento religioso
cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di
circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di
cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal
considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene dal non
aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il problema
filosofico che della questione stessa sta al fondo. Per convincersene
basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale corre, si può
dire, sulle bocche di tutti. Che
significa si domandano molti questa dottrina cristiana che deve essere
d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa forse che si debbano
escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e quegli
autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure. Ma
allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante, anzi, dove
andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che si svolge, è
vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle Università, ma
che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie, senza ridurre
l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni
vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual differenza fra il
Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio del Cattolicesimo!
Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di pareri e di teorie dalla
quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza cui non v’è scienza,
anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare;
l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente, nel suo capace seno,
ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un momento e un aspetto
necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il filosofo moderno, anche
il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di portare nella scuola il
suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo moderno, ben lungi dall'avere
questo diritto, deve esser cacciato e tenuto fuori dalla scuola come un
individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte stia la libertà e la vera
tolleranza: mentre il prevalere della filosofia moderna apre alla scuola tutte
le conquiste del pensiero, il prevalere del cattolicesimo implicherebbe il
ritorno al più gretto e ristretto oscurantismo, segno di remoti e barbari
tempi. che la civiltà moderna ha, e vuole avere, per sempre superato. E,
poste queste premesse, ecco che molta brava gente già si sente venire i brividi
addosso. Che, già le par di vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del
braccio secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi,
e, afferrato per il collo con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e
voler sapere per filo e per segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa
pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e
sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia
col color locale, o meglio, storico, una buona dose di tratti di fune applicati
sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non le persone, che non li usa
più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò, a consolazione della gente
devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni sacri, all'edificante
spettacolo. Ora, i timori - più o meno irragionevoli - sono timori, e la
filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa tanto difficile a questo mondo
quanto il persuadere certe brave persone che i timori vanno trattati da timori
e la filosofia da filosofia; che le questioni filosofiche non si risolvono coi
timori, ma cogli argomenti. Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se
ne sono fatte da che mondo è mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei
secoli; sarebbe dunque puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma
giustizia vuole che di queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento
e il valore, prima di sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima
cosa, ma finché non vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente
parole: segni, o suoni, siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta
avvinca a sé i cuori, o gli stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi
stordiscono, sulle piazze, la moltitudine. Sia dunque lecito porre, al
presente studio, questo fine: domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e
su quali argomenti poggino quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si
vorrebbe sequestrare il cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per
relegarlo nei musei d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe
inonoratamente seppellire. Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi
quali si cerca di carpire il consenso attraverso la mozione degli affetti e
guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci che alla forza dell'evidenza e della
ragione. Cerchiamo, se è possibile, di ridurre la questione a un tale stato di
chiarezza che chiunque ci segue, amico o avversario, possa senza disperati
sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la
nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci
sia avvenuto d'incappare. Cominciamo con l'osservare subito che la questione
che ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono
nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente
tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti
amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca
neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di
filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda,
invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi
diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse
concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità,
diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare
insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della
religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei
diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno
di produrre, nel modo stesso di concepire la religione. Ma quali sono
queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e
lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al
cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che
la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile
una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di
una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire:
e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si
accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna
delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle
quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta. Ecco dunque
le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte;
verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte,
verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra;
verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e
riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal
pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa
antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in
alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da
una parte ed AQUINO (si veda) dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro
armati, la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica.
Contro, si capisce, per modo di dire poiché, chi crede tutti i sistemi
filosofici veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso
e alla scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della
immortale verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la
verità come un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi,
offrirci a modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a
preferenza di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo
noi. Kant ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso
parla o scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia
della filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che
intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di
maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la
concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per
necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella
tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione
infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre
filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni
soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si
proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che
quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo
nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto,
colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano
della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa
imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della
filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non
è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa
scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo moderno non
ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire
appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più
opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura
può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando
liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se
così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per
le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi
delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e
gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo
sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o
scolastico, “tomista” e filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere
oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o
di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i
personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che
le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”,
di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un
grande effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e
ciò accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere,
in questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare
stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli
uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è
un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci
venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non
crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua
asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di
ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser
progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere
ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di
progresso e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II.
Il procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la
filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica,
come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed
artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra
filosofia non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di
vituperi. E se queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa
da quella che vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese,
diremmo che tale procedimento è assai simile a quella “illusione
cinematografica” del pensiero per la quale si pensa d'aver afferrato e
ricostruito un organismo vivente quando se ne sono raccostate alcune immagini
parziali e frammentarie. E, infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo:
quando alcuno dice di ritener vera una filosofia, sia essa scolastica o
antiscolastica, religiosa o irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica
o scettica e così via, è costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci
danno, per forza, di essa soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E
tanto più approssimativa ed inadeguata, quanto meno è possibile condensare in
una breve formula verbale, qual è quella per cui uno si dichiara scolastico,
materialista, idealista o naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale
nella filosofia: gli argomenti coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie
tesi. E questo stesso carattere di approssimazione e di inadeguatezza si
estende, in un certo senso, a tutte le parole, e a tutte le frasi, e a tutti i
libri che sono stati scritti per esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per
importante che sia, non si può mai dire che esaurisca in sé tutta quella
dottrina che pure insegna, o possa considerarsene un equivalente materialmente
completo. Tanto è vero che da che mondo è mondo si continua a scriver libri per
esporre e difendere le varie dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né
si può finire. Poiché una dottrina filosofica è un insieme di concetti e di
ragionamenti: e benché concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole
e con libri, e si possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule,
pure, non i libri e le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti
costituiscono l'essenza della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire,
non deve fermarsi alle parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire
ai concetti e ai ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto
pel quale si costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è,
evidentemente, lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o
s'impara a memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice
“siate idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e
vi scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della
filosofia quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele od AQUINO (si veda), come
quelli coi quali il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere
davvero così sciocco ed insensato da volervi indurre solo a ripetere
pappagallescamente “siamo scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere
tal quali le sue parole, e ad imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto
Empirico, di Aristotele e d’AQUINO (si veda). Ma pretende, invece, che i suoi
uditori o lettori, da quelle formule e da quei libri risalgano ai ragionamenti
in essi contenuti, e, mediante u n positivo lavoro del loro intelletto, li
riscontrino veri e se li approprino, facendo così un'opera di ricerca che è
certamente originale, benché riesca (nihil sub sole novi!) a conclusioni già
scoperte da altri pensatori, siano essi Hegel o Sesto Empirico, Kant od AQUINO
(si veda). Né questo riuscire a conclusioni già scoperte da altri menoma in
nulla l'originalità e la libertà della ricerca; giacché la libertà del pensiero
non consiste punto nel non aver nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare
nulla che non sia dimostrato vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la
libertà dell'intelletto è garantita, in altro non consistendo tale libertà se
non nell'esser fatto l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser
libero e attivo sol quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa
fanno, rispetto alla scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici
poco esperti, o male intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i
filosofi scolastici siano, essi soli, così insensati da far consistere la loro
filosofia, non nel pensiero ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici
esser “scolastici” significhi non già compiere quell'effettivo e originale
processo di pensiero pel quale ognuno può riscontrare col proprio intelletto la
verità della filosofia scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza
mutare una virgola, l'una e l'altra Summa d’AQUINO (si veda). Onde, la facile
accusa agli scolastici d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò,
diseducare il pensiero umano, riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica
fatica di ripetere frasi, o libri altrui, con quelle pessime conseguenze per
l'educazione e per la scuola che già abbiamo udito deplorare. Accusa alla
quale, evidentemente, non si può rispondere altro che negando l'arbitraria e
cervellotica supposizione dalla quale è partita. Nessun filosofo scolastico,
infatti, s'è mai sognato di voler indicare col termine “scolastica” soltanto la
parola e non la cosa, i libri, e siano pur d’AQUINO (si veda), e non la
dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il concreto processo di
pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo scolastico, quando dice agli
altri “siate scolastici” vuol loro imporre la irragionevole schiavitù di una
dottrina senza dimostrazione e senza ricerca. Nessun filosofo scolastico,
infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse altro che un concreto
processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano vere alla luce della
ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale di colui che studia.
Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non d'un pezzo di legno,
non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così com'è, ma dovrà bene
arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e ripensando, e non
smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo, sillogizzando,
dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non c'inganniamo, i modi e
le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma la propria attività e
originalità, garantendosi di conoscere il vero, e respingendo da sé il falso.
Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la dottrina scolastica differisca
dalle altre dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o
scettiche. Che se appare diversamente, è sempre per quel tale equivoco fra il
pensiero e le parole, sul quale gli avversari della scolastica si compiacciono
d'insistere. Infatti, una dottrina, come or ora s'è visto, la si formula
in parole e in libri che, naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi
dall'esterno, debbono per forza apparire un puro dato, esterno anch'esso;
esterno, ben inteso, finché colui che esamina la dottrina proposta non
sia in condizione di passare all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la
propria ricerca, la dottrina medesima, persuadendosi così anche della bontà ed
esattezza di quelle espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli
erano apparsi qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così
vogliamo dirla, imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può
afferrar la verità immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a
raggiungerla per gradi, non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì
appartiene a tutte le dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche
o scettiche che siano. Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e
in libri che, in un primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato
dato esterno, finchè colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera
la rispettiva teoria idealistica o positivistica, materialistica o
scettica. Il che è ancor più manifesto quando si tratta della scuola e
dello scolaro; che, appunto perché scolaro non è ancora in tali condizioni da
poter riscontrare da sé e colle sue sole forze la verità della dottrina
insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e
formule delle quali non scorge, o scorge solo imperfettamente la ragione. Che
se in questo fatto cosi semplice si vuol trovare a tutti i costi una
oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero umano, allora non soltanto
la scolastica, ma anche ogni altra dottrina, idealistica o positivistica,
materialistica o scettica e, magari, eclettica, si dovrà dire oppressiva e
restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in quanto tale, oscurantista
e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara svisceratamente amica della
libertà e del progresso. Non si vede infatti perché il proporsi come testo di
studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant,
Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni e formule scolastiche debba
esser più avvilente che imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche,
vero essendo che in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è
dato trovare una via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in
alcune formule e in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono,
necessariamente, allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo
sull'autorità altrui (salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta
dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta
d' insegnare la scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il
positivismo o di prendere per testo San Tommaso così come altri può prendere
Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica diventa, certo, una
dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero umano,
ma anche l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino l'eclettismo
diventano dottrine altrettanto retrive e incompatibili con l’attività e la
libertà del pensiero umano. Ciò è tanto vero, che, in ogni tempo, ci sono
stati autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per essere
imparziali e non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato oppressiva,
antiquata e insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia tendenza o
dottrina appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la loro vita
intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei sistemi.
Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di non
credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non avere un
sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche altro tipo
simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo medesimo dal
quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina rigorosamente
definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior modo, anzi,
l'unico modo di non opprimere il pensiero sarà addirittura quello di non
formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né
materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale
dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri
e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere
inattuabile. Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale cadono,
dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la
filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da
ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così
come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una
dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o
arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che
mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe
nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio
avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di
essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti
filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una
rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione
religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono
trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito
e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia
molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia
scolastica che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi ultimi
termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che non è
ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica,
laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la
filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre
altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver
adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della
Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di
questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la
ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione
religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli
argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che
una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica.
Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare
filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del
discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne
occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che,
perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e
l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica
appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né
più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si
possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire,
nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è
soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità
delle filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo
avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre
riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché
solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della
persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle
quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che
riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò,
nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica,
qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di
libertà colle quali si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci
ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche
col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro
la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a
quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più notevole
fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente pericolo che
la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di oppressione e
di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già detto: per la
scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori del pensiero
che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre debbono per
forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità e la realtà
medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano, si
svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una sola
dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre un
atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora, a quelle
tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo scolastico non
potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua, il filosofo
moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia della
filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il discepolo a
“crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame più attento,
questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si rivela
almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo, esso
cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il gran
numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si direbbe
scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una pillola
faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di guarir
subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il dottore,
ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge previsioni. I
sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno malinconico - non sono
già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da mille, che più se ne ha
meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte dottrine filosofiche coincida
per lo scolaro con l'originalità, col progresso e colla libertà dello spirito,
mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto diverse come il “progresso” e il
“mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto diffuso ai giorni nostri, e che
nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra loro due ordini di realtà così
diversi come il materiale e l'ideale. Se, infatti, una dottrina filosofica,
poniamo la scolastica, fosse un campo o un orto, si avrebbe ragione di dire che
chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto lo spazio ch'è al di là dei suoi
confini, come il misantropo che se ne sta dietro i cancelli di casa sua e non
vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina non è un campo o un orto, bensì un
atto immateriale del pensiero, e in quanto tale non ha altri confini che
il suo riuscire o meno a colpir la verità. E se riesce a coglierla, essa non si
lascia fuori più niente, né ha bisogno di cercare altrove che in se stessa i
motivi d'un infinito progresso e sviluppo: ché essendo la verità per sua natura
infinita, non c'è mai un momento nel quale si possa dire d'averne esaurito la
conoscenza; ed essendo la filosofia un atto immateriale, non viene mai il
momento in cui si possa metter da parte in un cassetto per riprenderla
meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè pensarla davvero, con una
attività la cui originalità e spontaneità è inesauribile. Approfondire la
verità, questo è il progresso. Per contro, è proprio l'errore che ci presenta
una indefinita molteplicità e un continuo cambiamento di sistemi; poiché, dove
la mente non può acquietarsi nel tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina
vera, è costretta a cercare un simulacro di progresso nel mutamento, e a
ripagarsi colla illusoria ricchezza dei molti sistemi, della effettiva miseria
inerente alla loro falsità. Per cui dal momento che la verità è una e gli
errori sono molti, le parti vanno invertite e quei filosofi che si vantano di
permettere, anzi, di introdurre nella scuola molte dottrine, o non sanno quel
che si dicono, o si vantano d'una cosa assurda com'è insegnare l'errore e
mettere al bando la verità. E viceversa, quei filosofi che vogliono nella
scuola una sola dottrina, non solo fanno onore alla loro intelligenza di
filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno spirito sanamente progressivo
e inventivo qual è quello che può aversi dalla conoscenza della verità.
Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro ragionamento ha il solito
difetto: presuppone arbitrariamente la vostra concezione della verità ed esclude
la nostra. Si capisce che se la verità è tale che possa esser colta da una sola
dottrina ad esclusione di tutte le altre, voi avete ragione nel voler che
quella sola dottrina venga insegnata. Ma, e se la verità non fosse tale che
potesse coglierla una sola dottrina, ma si trovasse in tutte le dottrine, come
appunto sosteniamo noi? Non avremmo, allora, ragione noi di sostenere che la
presenza, nella scuola, di tutti i principali sistemi filosofici, sia utile e
necessaria? La risposta a questa obiezione non può essere che una sola:
non esistono due concetti differenti della verità, benché esistano le parole
colle quali ci si illude di esprimere un concetto della verità diverso dal
nostro. Ma sono vuote parole; e la dimostrazione ce la forniscono gli avversari
stessi. Quando essi dicono, infatti, di non creder vera una teoria filosofica
ad esclusione delle altre, ma di tener vere tutte le teorie che la storia della
filosofia registra, che cosa fanno essi mai se non sostenere e difendere come
vera una loro teoria filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i
sistemi filosofici, non è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito
argomento contro lo scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia
di non creder vera alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto
cominciano, sotto mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la
contraddizione è evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire
ritener vere anche quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia
vera e tutte le altre esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire
distruggere appunto quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e
che esclude assolutamente potersi sostenere la verità di una sola filosofia,
cioè distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle
due: o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano
fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le
filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il
concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma
eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e
allora la loro famosa tolleranza e larghezza di vedute è finita, ed essi
sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la
verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e
precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo,
cioè, in ultima analisi, in un sistema solo. La libertà, dunque, che la
filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla
libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché,
però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di
scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia
l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale
dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere
tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo
concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non
sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi in
considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente
ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più
importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di
necessaria conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in
un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con
l'altro, e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità
inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che
in quelle tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una
o l'altra costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che
ciascuno si diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della
propria dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli
stessi uomini politici che detengono effettivamente il potere. Così la
storia della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta
larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza
di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai
giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il
concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero
umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia.
Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S.
Tommaso, di Kant e di Hegel, di Mill e di Spencer, e che ognuno vi può spaziare
entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e del
kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un
dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta
variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele ed AQUINO (si veda),
Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a
rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista
in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista
evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma
prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso,
sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme,
circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza
sia sempre quella. Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un
filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che
l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del
vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per
risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa
dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in
luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una
dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur
questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il diritto di
giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più
intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non
precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che
cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono
davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi
dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono,
parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o
no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la
storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle
aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano,
come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia scolastica?
Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte, la posizione della
scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella di qualsiasi altro
sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la propria verità coi
mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la scolastica meriti più
di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di dogmatismo o di
oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto d'una verità
omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente accidentali. Quali
sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici riconosciuti vicini
alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per la scolastica, o che
sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel secolo XIII o XIV
anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né caldo né freddo,
poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o colla cronologia, né
si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al XIII, o perché debba
esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da molti sistemi anziché
da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e codino debba averla vista
meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e cintola. E ciò anche a
prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci mostrerebbero che la
scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non meno che nel secolo
XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente moderatissime - non meno di
qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra modernissima “novità”
filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e così via.
Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che l'arte d’ANNUNZIO
(si veda), o di MARINETTI (si veda) è superiore a quella d'Omero e di Pindaro.
Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte moderna: ora, dai tempi
antichi, dei greci, ad oggi si sono effettuati innegabilmente dei progressi;
dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso su quella d'una volta. Un
tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe scolaretto che
non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto che un'opera d'arte è
venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche migliore dell'altra,
e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze naturali, nella vita civile
e nella produzione economica, si vorrebbero inferire i suoi progressi in un
campo del tutto diverso qual è l'artistico. Ora, lo stesso errore che è
derisibile applicato alla storia dell'arte, non è meno derisibile se applicato
alla storia della filosofia ove il professore X od Y, autore di un novissimo
sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato
tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la storia della
filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è l'espressione del
temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come temperamento
individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e
da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una verità universale
ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e progredire. Ma si
dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il
progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo
fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali
condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle
passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto
personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo,
da individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce
sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista
sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché
se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere
arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno
d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere espressione
anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi, il più delle
volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento individuale
d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la verità e il
fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde segue che il
filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter l'ala vicino
alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché, nel suo caso la
mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e la filosofia
vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non ammette
sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai grandi
e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe saputo
scoprire. In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi,
come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche che la
Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione cronologica né
del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le sue buone
ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di filosofi, come
la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e che l'opposto
criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo capace di
“creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E può essere
anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della filosofia, così
come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo scovare i poeti a
decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la vera arte e la
vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo la grande
maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta, invece,
di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. Possiamo dunque riconfermare, senza tema
di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico, idealistico o
scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni sforzo
contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale
necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il
sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si
rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi
consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio,
dello scetticismo e dell'eclettismo. La verità di questa proposizione
risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano
di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola
moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e
il cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il
pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più
ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data
dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o
“giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina
e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla”
storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i
bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel
primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare
come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma
è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema
simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo
l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto
l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di
“giustificare” nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il
gusto di fare una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono
stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e
ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti
nascere e ne hanno garantito il successo, corredando il tutto con un grande
apparato di erudizione critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi
il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della
verità molto più severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi
moderni, è sollecita più della formazione mentale, che della brillante
informazione ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro
questa disgrazia: necessaria non norunt, quia superflua didicerunt: il che la
conduce a limitare, nella scuola, più che sia possibile questa parte
storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i sistemi moderni, perché
tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed eclettismo. E allora la
discussione sarà, non più sulla necessità di tener per veri o meno questi o
quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare, nella scuola media,
un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e, specialmente, alla
sua parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della quale adesso non
intendiamo occuparci. Ma l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente
pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può
facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri avversari perché la
scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi che hanno avuto
fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha
dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E come allora ha potuto
svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per tanti rispetti
superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa
domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono fra i
sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà,
poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che
solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto dell'umanità è una
trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra
i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono
effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea del loro
sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante
l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso
coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende,
per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale
che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come
sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è
organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è libero di seguire le
proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i
sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema
d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di
specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella
sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità progredisca
e costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi dotti sono
errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in forma
imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze
stesse. Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione
degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non
solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un
sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa
verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è
una dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui
verità o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una
religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta,
seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la
maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una
azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e
sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non
meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che
sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del
mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di
Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno
conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata
sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua
vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che
in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver
affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il
cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema.
Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro
sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il
cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde
precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione
divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che
si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non
è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma
nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con
diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il
cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale tanto
poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo
attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo,
sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre
filosofie di cenacoli intellettuali, quasi a darci una riprova della
costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed
assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del
cattolicesimo. E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta
la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per
opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad
esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione
e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico?
Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia
a storia d'errori, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la
filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana
della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di
Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle
tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori
bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal
cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia,
soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che
tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale
concepiscono tale rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero
della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di
moderna è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non
ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel
non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua
rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia
moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica
quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al
pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e
la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si
accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in
sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa
entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del
pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva
simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama
irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto
parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo
oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad
esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero
medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo
storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che
l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il
semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano,
lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza,
volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che
è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di
certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la
scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione
apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile,
ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare,
per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine,
niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e
progredire: Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus
est : ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che
consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso infinito.
Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia moderna non è affatto
disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e disparate dottrine. Che,
anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un suo ideale, e si propone
- né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola alla sua propria fede.
Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva
delle altre, perché non sa di essere una fede e una dottrina anch'essa, e con
tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più
si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata della verità
e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante, affatto
inconciliabile colla sana libertà della ricerca scientifica, e addirittura contraria
ad ogni effettivo progresso e svolgimento dell'anima umana, nella sua
educazione e nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se
così si potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto, bisogno
dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio, non può darle che vani
trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere infranti subito dopo
che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia
cattolica Credo che a parlare di un'opera come questa Rinnovamento
dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano di Crispolti, possa valere quale
sufficiente giustificazione non soltanto la ben intesa libertà che va tenuta
nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un fatto di più immediato
interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche di Crispolti non hanno finora
avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene d'una discussione, d'una
recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano o dovrebbero occuparsi
di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il Crispolti onestamente
dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e nemmeno professore; anzi,
di non avere in vita sua addirittura frequentato mai alcuna scuola fuori dell'
Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver appreso da altri che
certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del bourgeois-gentilhomme quando
lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto della prosa e non invoca per sé
altro diritto che l'esperienza della vita. Probabilmente, i pedagogisti di
professione hanno preso queste dichiarazioni alla lettera e hanno creduto,
quindi di poter condannare il libro del Crispolti alla congiura del
silenzio! Noi, per conto nostro, diciamo subito di non credere a quelle
dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per annettere all'opera del
Crispolti un pregio anche maggiore. L'esperienza in materia educativa è
certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa; ma quando è vera
esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope professionalismo,
quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente del mestiere,
proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si celebra e
acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone poi tutte
le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa, talché
l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da una
intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici
forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza,
all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come Crispolti,
ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a
ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano
col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato
quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa
di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con
piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se
così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero
riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart,
bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici.
Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”,
nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita,
prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente
lievito d'una personalità vivissima, aperta a tutte le voci dello
spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze
che maturavano nei nuovi tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare
il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine
sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo
cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una
presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è
manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno
tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano
lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano,
risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo
stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il
secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema
morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a penetrare
di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto la quale
il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che egli,
pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto
filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi”
e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina
religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta
a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se
con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto
metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una
dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della
storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del
procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui
c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche
s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con
mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla
formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo
intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci
perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba
avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una
educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga
conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito
umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia,
delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui
nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il
Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha
affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice
aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è
quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro
e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far
fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è
rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai
“laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio
vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita. Si
direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue
lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una
malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva
sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle
concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo,
grande importanza a tutto il complesso delle doti spirituali che, pur non
interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o
rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al
senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di
siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è,
secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la
religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima
analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli
esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il
coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un
villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a
ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi,
o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di
applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste
loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o
cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale,
pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una
conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è
disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche
senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta
di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto,
condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad
esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane
troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o
quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non
essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché
così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo
delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel
cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né
l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna,
dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al
laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via
quella che l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna
abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo
religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia
cagione e valore (p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto
programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla
morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di
perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in
contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la
religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari
raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la
grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo
rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere
appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo
d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha
anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente,
consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso
dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della
virtù”, definì or non è molto CROCE (si veda) il concetto sostituito dalla più
recente speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non
impossibile sterminio di tutte le umane passioni e tendenze sulle cui
rovine si erga la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio
della moralità stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la
legge morale deve sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può
comunque risolversi nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere
senz'altro questo concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una
soluzione superiore del problema, la santità che non ha bisogno d'una politica
della virtù poiché non raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò
che loro contrasta, correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro
serrate con un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme,
per un ardore che tutte le supera e le fonde (p. 16). La carità, l'amore di Dio
possono, nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina stessa,
essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il
sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti
umani. Ma, giustamente ammonisce Crispolti, la santità eminente non è da tutti.
Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa complicazione
dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità, dalla quale può
venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi d'infonderla
negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature chiamate a
santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio timore,
temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle qualità
naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio,
l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca
la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere
tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a
rischio di più frequenti discordanze (p. 19). Timore, secondo il Nostro,
ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a
mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla
puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli
altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di
solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. Eppure ogni
metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché
i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri (ibid.) e
questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità,
ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali.
Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella
di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don
Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso
di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile
l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli
umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata
educazione del coraggio materiale. Poniamo che Don Abbondio fosse stato un
ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in
cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero
voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce: che cosa
avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il
calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui una qualità terrena
che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli
esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più
facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura. E
allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più
alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato
innanzi alle minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria
coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello
di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli
ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro
l'educazione cristiana stessa la necessità d'una politica della virtù. Poiché
Crispolti rammenta certo che sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo e
che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie
della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la
saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla ben
intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di difese
contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore
dovrà dire: “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati
perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa
preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto
ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è
una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a
mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e
consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi,
seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla. La strada più modesta è
appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso diverso da
quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come quella di CROCE
(vedasi). Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era fine
morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori richiesta
dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano della
parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e proprio
terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma altresì
quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito, come
poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono necessariamente
avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere umano:
allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé,
soddisfazione, che le rende tutte più o meno passionali perché presentano
all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio
sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse
sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per
sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio.
Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare,
facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso
ricorrere già ad una politica della virtù: non perché si sia facilitata la
virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica,
ma perché, esorbitando la virtù pura dai mezzi di educazione umana, si è ricorso
per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù umane e perciò già in sé
stesse passionali. Conclusione di tutto ciò è dunque per il Crispolti che
l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti umane, deve e
può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente quell'economia
delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere
d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere anch'essa in
considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando due errori
egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal fine
religioso e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio
riesca eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo
dall'educazione fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su
l'educazione cristiana del coraggio materiale per riprendere acutamente, dal
proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia moderna secondo cui
il rinvigorimento del corpo non è già la formazione del robusto ed agile
animale, bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare
il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei
propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene osserva Crispolti,
parlando delle società cattoliche di educazione fisica, il loro carattere
religioso dover consistere, non tanto nel titolo di cattoliche o nel
compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener sempre presente alle
menti giovanili lo scopo di far servire le membra fortificate all'adempimento
degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù sopravanza l'obbligo...
cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti limiti la loro
progressiva vigoria. E quindi ai troppo facili satireggiatori della ginnastica
cattolica, il Nostro può con ragione rispondere che, oltre a una ginnastica,
ben vi può essere anche una cucina cattolica, da quando in alcuni giorni della
settimana si preparano nelle case dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa
non sdegnò di porre il suggello religioso su un'operazione umile come il
mangiare, perché la pedagogia cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su
qualsiasi attività umana? Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che,
sviluppando per mezzo della stessa educazione religiosa il pieno valore della
persona umana, questa diventi superba? No certo, se teniamo presente che la
pedagogia cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella
superbia ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà;
cultura che e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente
pedagogico. L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben
osserva Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'ansia costante
e smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi
scoprire dei pregi e provarne compiacenza. È un concetto negativo dell'umiltà
ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella tradizione cristiana
e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a Beatrice), secondo cui
invece l'umiltà è concepita in forma positiva, come un avanzare non come un
fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di precauzioni e consiste nel
dimenticarsi di sé stesso a tal punto da non aver tempo di starsi a
considerare, ma insieme nel sapere che il proprio valore e la propria bellezza
accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a Dio. Sentimento che, fatta la
solita riserva dell'ardente amor divino il quale assorbe d'un subito in sé la
creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio, si può raggiungere
pedagogicamente in grado meno splendido col solo riverire la verità, quella
verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la difficoltà di
misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di qualsiasi maggior
pregio che ci elevi sopra di essi. Ogni cosa nel mondo dello spirito è frutto
di umiltà, le grandi opere sorsero sempre in un'ora di umiltà, ossia
d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa che era fuori di noi.
Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata umiltà verso la scienza,
l'arte, la patria, l'umanità o che so io. La filosofia qui rincalza la
religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere queste parole.
Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato irrevocabilmente
appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà. Questa
introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della
pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato,
che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di
preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti
leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere
automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della scienza,
dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum
pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana
sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a
renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di
fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di
avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del
carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio
e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo tentare Iddio pretendendo
ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che solo in
casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché, tratte le
somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di addottrinare
l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di rivolgere la
sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura religiosa
quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il Crispolti,
la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla fede, fra
l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale. Le quali
sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a salvarla da
tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda la formula
stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è un carcere
che si chiude; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi; moltiplicano i
nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere; procurano
all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che unico dura
oltre la giovinezza e la maturità degli anni. Ch'è, in fondo, lo stesso
principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda la
pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che
meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un
potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a
beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione
del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo
risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette
precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali
di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti
ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che,
cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o
della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione
dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere secondo
spirito e verità è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della
religione stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro
applicazioni; così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla
diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare
un'espressione cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso:
essere sentimento, pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento
sempre importante per quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento
religioso vero e proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno
illuministico quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga
religiosità circolante un pò dappertutto nella vita spirituale. Qualcosa
di simile al già detto per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura
estetica ove il principio dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione
pedagogica nella lettera su i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove
Crispolti ha avuto sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi
una letteratura o una poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai
propri motivi d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su
l'altra letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui
il cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'aNNUNZIO
(vedasi) o ad un PASCOLI (vedasi)? La ragione è sempre la stessa: pretendono
gli artisti cattolici di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni
artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro. Tutta la fatica,
secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di
soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore
della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od
avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di LEOPARDI (si
veda) così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno
come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se
stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti
gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni
interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa della luce ma
della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta i figli delle tenebre
sono stati più prudenti dei figli della luce. Ciò è quanto dire che, dal punto
di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito
tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda
applicazione dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti,
viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e
pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione
dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a
una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di
esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è
sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana:
della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i
pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti parchi e lontani
da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così
facilmente il nido alla vanità gli scrittori classici: umili tutti coloro che
non pensarono a scriver bene, ma presi da alti pensieri, da alti affari o da
alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la
parola si facesse umile innanzi a quello riuscirono, perciò solo,
necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non
soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì uomini in qualunque
campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia
dovuto umilmente ubbidire: talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a
far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco di
Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi
dell'estetica moderna quale si è affermata da Croce in poi avrebbe in più per
Crispolti questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe
l'introduzione dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di
vita. Ma sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti
viene con tanta finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli
molto spesso arriva a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal
pensiero pedagogico e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero
una conoscenza diretta ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera
su Le precauzioni intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel
parlare delle ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il
positivismo e lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico
postkantiano). Ciò riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento
se anche qua e là porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone
degli esempi, scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere
pedagogiche. Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la
morale, Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il
fine della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi
per attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza
data dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle
situazioni spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In
linguaggio più propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre
sospesa a una concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato
quello che il nostro chiama appunto il fine. Ma ciò non implica soltanto
superiorità gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia.
Poiché il legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica
e con tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e
la filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da
preoccuparsi, cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere
possibile la educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe
mai accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente
predestinazionista del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da
lui dato ai problemi pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da
quel punto di vista non è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare
di educazione. È questo proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni
recentemente dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle
scienze filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella
lettera tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee
intorno al fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi
educativi moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi
sorvola su senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e
immaginativa del fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale
degli adulti, oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel
suo mondo fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: voi vedrete — dice il
Nostro — che in tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi
immediatamente di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare
le parole esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate
ch'egli incomincia a pronunziare. È il principio del “punto di partenza” da
trovare nell'animo dell'alunno. Ma Crispolti, con queste sue parole, viene a
dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione
assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come
vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di
educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite
precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Crispolti giustifica qui, in
certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e
di altre simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna.
Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene
le ragioni. Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla
piacevole urbanità con cui Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una
quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere,
come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere
ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua
lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il
pensiero moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i
preconcetti naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna,
non per questo ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e
d'abitudini diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari
di natura e di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua
specifica fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver
dimenticato questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice
piaga che Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e
quella delle donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto,
secondo il Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è
istruita, la donna, cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati
efficaci per l'uomo, come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse
nessuna via di mezzo. E invece non si è pensato alla differenza di abitudini
mentali per cui l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi
interessi è più spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo
pedantismo del sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre
la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla
scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo
inconveniente c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo
i primi indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale
la cura di fare il resto. La più elevata e piacevole erudizione delle donne è
quella acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per
un padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle
partecipare in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare
in loro non soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma
l'interesse verso di esse, ciò che è più difficile. Non importa se per questa
via la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra
loro: per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo
campo dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle
singole idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo;
elevazione per cui la donna non pretenda di scoprire né di classificare, ma
giunga a compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare
il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore.
Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel far
assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace
quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del
valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna è una
difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma
dell'animo. Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con qualche ben intesa
riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai, sarà questa: che vi
sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore ha suscitato il
bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile rifiutare la stessa
cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in quella interessi tutti
propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella repubblica delle
lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con l'uomo per
fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora necessaria alla
donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra gli uomini ci sono
in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie di un colto
professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla moglie d'un
grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i quali di
necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione mentale e una
ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati, seguiti, intesi
nell'esercizio delle loro attività. Ed eccoci ora al dissenso. Parlando
della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi
indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e
pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la diversa
formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di pensiero,
nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma
appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo
intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del senso
pratico? Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente senza
posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la vista,
ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata dalla
ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e nelle
scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che facesse la
vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici, nei quali la
mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non acquistava nessuna
verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di baloccarsi colle
parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle scienze e alle
lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi istintiva di
sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava intatta. E
che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò rappresenti
la soluzione più spiccia del problema della cultura pratica, che nella maggior
parte dei casi viene appunto risolto lasciando inaridire nell'uomo le opposte
tendenze alla speculazione, va bene. Ma che possa diventare, sia pur a titolo
d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le soluzioni più spicce non sono sempre,
in educazione, né le più efficaci né le migliori. Crispolti qui si è fatto
prender la mano, mi sembra, dalla natura stessa degli esempi che arreca a
conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un Bismark, d'un Napoleone che, pur
forniti di mediocri attitudini alla scienza e d'un mediocre sapere in materia
di dottrine politiche, riuscirono più vastamente pratici ed efficaci nel
governo degli uomini, di altri magari più di loro valenti nel campo dottrinale,
sia pur della cultura politica stessa. Dove giusta è l'osservazione, ma
ingiusta la conseguenza pedagogica che Crispolti sospetta se ne possa trarre.
Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima questione se davvero quegli
uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se, invece, la vera cultura
politica non fosse proprio da parte loro e da parte degli altri soltanto
l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione. Limitandoci, invece, solo
agli aspetti del problema che possono offrire qualche maggior interesse di novità,
Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo un criterio per scoprire il punto
di vista sotto cui la innegabile grandezza di quegli uomini ci si rivela
inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX infatti (per restringere solo
ad esso il discorso) produsse queste grandi personalità tutte assorbite dal
fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o addirittura diffidenti ed ostili verso
ciò che non interessasse la loro opera pratica (si pensi allo spregio di
Napoleone verso gli ideologues !). E che
siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione
storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi
stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi
barbarica e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del
dominio, dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che
innanzi alla morte di Napoleone si domanda: fu vera gloria? e non sa rispondere
se non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due
secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine,
là, dove è silenzio e tenebre la gloria che passò: lo sgomento del Manzoni
temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi che
cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi concordi nel
richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi
anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà
di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento
interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero,
che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis,
potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma
finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso
dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una
realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano edificate
sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità e
unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia pur
ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è andato,
del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento, innanzi
alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un Napoleone per
districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte all'esagerazione e
tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i suoi grandi uomini,
c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica richiesta nel
complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di grandezza più umile,
meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo meno reale. È grandezza
più, nel buon senso della parola, democratica, che aspetta meno dalle
personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di ciascuno, dalla illuminata
dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità per ciascun uomo di
scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio per sobbarcarsi a
compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica gl'impone; è la
necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di fare gli sforzi
richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui bisogna operare.
Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la democrazia e
l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno attraversato le
grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura e semplice
capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli
ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche
con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il
suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi
personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un
subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della
retorica accademica sembra a Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e
lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito
altri pedagogisti - ad esempio Gabelli - abbiano attribuito al genio italiano
carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica come
eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle doti
pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia difficile
raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si sono venuti
formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma ciò dimostra
anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle grandi
personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un singolare
incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi personalità sono
spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente individualiste: la loro
attività politica si consuma in sé stessa come un sogno, o come - fu già notato
a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte che non ha risultati fuori della
sua bellezza; raramente si inquadrano nell'armonico insieme d'un sistema che le
perpetui e le fecondi. E in quanto esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano
appunto che l'abitudine della retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico,
un difetto dello spirito europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica
della pratica, consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola,
finisce col non esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una
religione e una filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo,
della Realpolitik, dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo
sotto tutte le possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà
in servigio dei puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo
stesso sano istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa
ciò, forse, che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini
pratiche? No certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto
l'uomo, e che attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e
sono, distinte, ma non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte. Non è ancora spenta l'eco delle discussioni
suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione dell'Istituto
fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi autorevolissimi
(come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato il loro contributo.
Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel quale è meglio che le
competenti autorità politiche e religiose siano lasciate libere di esporre come
meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni altra minore e,
necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che I Diritti della Scuola
hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia pur
contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la
scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo,
sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi,
a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta
cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, I Diritti della Scuola
che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua
definizione precisa. A norma del decreto, doveva trattarsi, come pare ovvio,
d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della chiesa cattolica.
Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del gennaio 1924
sembrano invece, al redattore de I Diritti, ispirati a una ben diversa
concezione. Non arido dottrinarismo o meccanico formalismo ma poesia e quasi
canto della fede, doveva essere l'insegnamento religioso; e non più la Chiesa,
ma l'opera religiosa di MANZONI (si veda) e le figure più edificanti del suo
romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E il
significato di quelle espressioni è, sempre secondo i Diritti della Scuola,
molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: La tendenza era
dunque sempre più verso una educazione religiosa che parlasse al cuore
del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua dei sentimenti più
puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé e per gli altri.
Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella sua veste
letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il proiettare la
luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il fanciullo dovrà
percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a poco
l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia, nei
dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo catechistico,
anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal sacerdote; e
poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre il giudice del
maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come la religione si
impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse non deve)
dalla lettera dei sacri testi. Noi non vogliamo rivolgere a I Diritti
della Scuola alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante altre
volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi, e con
noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile
trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata,
quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i
suoi ministri. L'argomentazione de I Diritti
si basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso
come incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello,
potrebbe minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la teologia, la liturgia, i
dogmi e i misteri costituiscono, non già la religione ma un suo irrigidimento:
il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica,
ma un arido dialogo, e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili
con l'anima ingenua, le aspirazioni sante, i sentimenti puri del fanciullo e
dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non possono portare
nella scuola che arido dottrinarismo o meccanico formalismo: se volete la
poesia e il canto della fede, dovete rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che
prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile, insegnerete la religione
secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il
bagaglio del Catechismo, della Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete
l'arido dottrinarismo che si voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai
programmi didattici o alla circolare, avrete il canto, la poesia, i sentimenti
puri e l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la chiesa, i sacerdoti,
la teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due
posizioni così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto
domandano, con molto rispetto ma con molta fermezza, I Diritti della
scuola. Ripetiamolo ancora: sarebbe ingiusto addossare a I Diritti la
responsabilità d'un cuore così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più
corrisponde a un pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli
stessi cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla
poesia ed al canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni
generose! Ma brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un
messale? Avete mai sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia
religiosa? Intendo, assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma
comprendendone davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete
che il messale è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che
quelle sacre scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli
atti degli apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei
Padri, i più begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come
poesia e come canto ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le
persone di più difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni
e della sua opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o
Davide siano a loro modo poeti non certo inferiori al grande nostro italiano:
il quale, del resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla
sua vasta cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio,
l'ispirazione dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia
delle sacre scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra
parte, è evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in
una volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è
solo nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e
degli assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del
tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che
riescono quanto mai plastici, sensibili ed intuitivi e parlano all'animo anche
delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli elementi
sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato d'animo cui
si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia, quelle della
Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste, colla loro
trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro pensoso
raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa serenità
costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la natura
medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo intuitivo
e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei suoi templi e
il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi illetterate quando
ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali e poeti erano di là
da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa della liturgia non è,
neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe desiderare. Ma il
movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile zelo e delle autorità
ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va facendo ogni giorno progressi.
E basti qui ricordare l'opera della Società francese di San Giovanni
Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele Caronti per la
volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei molti, ottimi
testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto opportunamente, una
parte notevole. Per gli amatori di curiosità pedagogiche ricorderemo gli
esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo Montessori; la
partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa, mediante un'offerta
che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il grano e la vite
coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie sacramentali, e via
dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e giovevolissimi, ma che sono
ben lungi dal costituire, come forse taluno potrebbe credere, una novità
rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa, che ha sempre chiamato i
fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere persino nelle più remote
parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le panchettine, le pilettine,
gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario a scala ridotta del metodo
montessoriano. E passo all'altro, apparentemente più scabroso argomento
della teologia o del catechismo, che sarebbe, in fondo, una teologia elementare
per fanciulli, come la teologia è un catechismo degli adulti. Ora, la teologia
è il pensiero di cui la liturgia è la esterna e multiforme espressione, è
l'anima di cui la liturgia è il corpo. Evidentemente, chi ignora l'una non può
afferrar bene l'altra, a meno di non essere un filosofo o uno scienziato
così abituato a muoversi fra i concetti puri, da potervisi collocare
stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e anche allora l'ignoranza della
liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei mezzi che la Chiesa ha messo a
nostra disposizione appunto per comprendere e praticare la sua dottrina)
produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in fine l'uomo, anche
scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di anima e corpo, di
senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di sorreggere il proprio
pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque, facilmente, che presso
coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o comunque hanno trascurato
di completare la propria cultura religiosa con una buona cultura liturgica, il
catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia, cioè, quell'impressione di
arido formalismo e di dottrinario schematismo che tanto dispiace, e nella
scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze dell'anima infantile. Ma
ricostituite quella unità che avete spezzato: ricongiungete la teologia alla
liturgia, secondo, appunto, la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, e le
verità del catechismo, aride in apparenza, si vestiranno dei più smaglianti
colori: diverranno verità, non solo, apprese o ripetute a parole, ma vissute,
sentite, amate, alle quali neppure l'anima del più rozzo analfabeta saprà
rimanere insensibile. È difficile il concetto della transustanziazione? Eppure
anche il fanciullo e la donnicciola cantano e sentono il Pange lingua. È
difficile l'idea della resurrezione della carne? Eppure nessuno, che non sia un
idiota o un deficiente, può ascoltare senza fremere le parole del vangelo
giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum resurrectio et vita. Questo non
vuol dire, d'altra parte, che anche il catechismo puro e semplice non possa dì
per se stesso costituire la base d'un insegnamento vivo, agile, plastico,
intuitivo ed attivo condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta
nel modo con cui viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla
carta, costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità
l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi
o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto
dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo,
la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica
odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni
inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state
discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani,
le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa
la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con
imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione
catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero
attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi
una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza
di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del
maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in
abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che
le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo
spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le
definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il
segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di
poesia, e perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile,
sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento
genuino della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione
fra il decreto Gentile e la circolare dello stesso ministro, o i programmi
didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica
nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al fanciullo la
"poesia", il "canto" e tutte le altre belle cose annesse e
connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni, il laico così
geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di molti sacerdoti
suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o GIOBERTI (si veda). Che
se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il decreto e i
programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che nella realtà
delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della filosofia
italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il cattolicesimo, non è
il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo duro pei denti dei
filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo in
poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto, la
nota de I Diritti è, per noi, molto significativa e confortante: è il sintomo
d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter introdurre il
cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una verità
filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono
passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì,
colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che
minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due
bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo
energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano
riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le
ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte
delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. La
Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della
pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie
163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary.
Il problema della dialettica oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere
soltanto come è possibile che il tutore (Socrate) comunichi al tutee
(Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra implicare, se non
addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato
che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi
altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su
Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in
maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del
processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o
corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse
"co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una
moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si
"tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale,
non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto
proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo
complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia
tras-mettere, nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere
trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come
Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto
di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del
soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile
che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade! XI suo soggiorno in Italia Terminata la sua opera,
Schopenhauer non si decise a tornare nel Nirvana, come torse si sarebbe
potuto credere; al contrario senza nemmeno aspettare le prove di stampa, egli
partì pel paese più bello e più ottimista che vi sia sotto il sole, per
la. véna terra promessa, per il paese dei paesi, per la bella Italia, Con
ragione si è detto che ! abitudine di vedere la vita in nero, sparisce e sembra
innaturale sotto il cielo splendido d’im paese meridionale. Dintorni poco
graziosi spesso diventano Ja causa d’un falso pessimismo; ma de v ? esser
genuino il pessimismo che persiste anche in un ambiente bello ed incantevole.
Il fatto che Schopenhauer non ismani il suo pessimismo è una prova
convincente, se prova ci vuole, che il suo pessimismo era sincero. Questo
pessimismo era piuttosto comprensibile nel freddo settentrione; ma é un
altro conto ritenerla in mi paese ove tutto sorride, ove la natura stessa
c’invita a prendere con leggerezza resistenza ed a gettare lontano da noi ogni
cura, ove Paria stessa respira la leggerezza di cuore, ove il dolce far
niente è il programma di vita degPindigeni, T resoconti del suo viaggio in
Italia sono tutt ? altro che blandi. Schopenhauer, più si faceva vecchio,
pili si rinchiudeva in se stesso, e non vi sono nè giornali nè lettere
che possano colmare questa lacuna nella sua biografia. D’ora innanzi era
il suo espresso desiderio di sfuggire alla pubblicità. Non voglio che la mia vita
privata formi mPesea per la
curiosità fredda e maliziosa del pubblico , così rispose molti anni più
tardi a coloro che lo esortavano a fornire maggiori informa’ zioni su se
stesso ai dizionari biografici. I suoi notiziari presero il posto del
giornale, ma siccome contengono piuttosto riflessioni suggerite dagli
avvenimenti senza raccontare .questi, non spargono sugl 5 incidenti del
suo viaggio che poca luce. Schopenhauer attraversò le Alpi persuaso d 3
avere scritto una grand'oliera per Pumanftàp stava ora ad aspettarne il
risultato. Non era tanto indifferente in quanto alla accoglienza della
sua opera quanto voleva far credere. Il trattato sulla Quadruplice
Radice era stato ben accolto dai critiei, -ed. aveva chiamato all 5 autore
l’attenzione generale più di quanto sogliono farlo le dissertazioni
universitarie; era giustificabile che sperasse che la sua opera maggiore
dovesse suscitare almeno lo stesso interesse. Egli corresse le prove di stampa
che gii furono mandate ed a petto k pubblicazione, sfogando intanto i
suoi sentimenti in linguaggio poetico. Unv er schami e Vers
e. A us ] anggehegten, tiefgefuhlten Schmerzen Wand sich’s
einpor aus meinetn innern Herzen, Es festzuhaHen haMch lang
gemngen, I>och weiss ich, dasz zuletzt es mir gelungen. Mogi
Euch drtim irnrner, wie Ilir wollt, gebar cleri, Des Werkes Le ben
kòimt ihr nìcht gefahrden; Àufh&ffieii kònnt Ilir's, mirini
ermehr vernichterq Ein Denkrnrj! wird die Nachwelt mir ernchten.
Nel frattempo visitava le principali città <MP Italia
settentrionale; frequentava i musei ed il teatro, continuando a studiare
la lingua italiana die egli già sapeva assai bene. E* in Italia die egli s 5
invaghì cosi profondamente della musica di Rossini, di cui andava spesso
a sentire le opere. Degli autori italiani egli predilìgeva, -— ed è
questo un fatto abbastanza curioso, — PETRARCA (vedasi), il poeta di
Laura e dell 5 amore. Fra tutti gli scrittori italiani, preferisco il mio
caro PETRARCA (si veda). Non vi e in tutto il mondo un poeta che lo abbia
mai superato nella profondità e nell’ardore del sentimento; le sue parole
vi vanno dritto a al cuore. Per' ciò in preferisco i suoi sonetti, i suoi
trionfi e le sue can- a zoili alle follie fantastiche dell 5 Ariosto ed
alle orrende contorsioni d’ALIGHIERI (vedasi). Trovo il fiume naturale delle
parole, che sgorgano dal cuore,
molto più opportuno del linguaggio ricercato ed affettato di
Dante, a Petrarca è sempre stato e rimarrà per sempre il poeta del mio
cuore. Quello che concorre a
confermarmi nella mia opinione è il tempo a presente, a quanto pare,
tanto perfetto che osa parlare con disprezzo a di Petrarca. T T na prova
sufficiente sarebbe il confronto di Dante e Petrarca nel loro costume intimo e non
ricercato, cioè in prosa, eon- K frontando per esempio i bei libri di
Petrarca, ricchi di pensieri e di
verità, De \ ita solittì-rui, De Coafemptu mundi, De rimediu
ufrius- z que fortume eoe., colla scolastica sterile ed asciutta di
Dante. Dante coi suoi modi didattici non corrispondeva al gusto rii
Schopenhauer che considerava tutto Pinfenio come un’apoteosi della crudeltà. ed
il penultimo canto come una glorificazione della mancanza del sentimento
d’onore e di coscienza. Non aveva neppure alcun affetto per Ariosto e
Boccaccio; anzi più volte espresse la sua meraviglia in quanto alla fama
europea di quest’ultimo, il quale dopo tutto non aveva scritto che Delle
ehtonique.s scandaleuse*. Gli piacevano PAlfieri ed il Tasso, ma li
considerava come autori tli seeoncVordine; egli non riteneva il Tasso
degno d'essere posto come quarto in una linea coi tre grandi poeti
italiani. Per quanto riguardava Parte, egli si sentiva maggiormente
attirato dalla scultura e dall'arekitettura che dalla pittura. Ciò non
potrebbe sorprendere e non sarebbe in contraddizione coll 1 indole
generale della sua mente* se la sua intimità con Goethe non lo avesse
fatto entrare nello studio dei colori. Schopenhauer non volle
mai ammettere che i due anni possati in Italia fossero stati per lui due
anni felici, sosteneva, che mentre gli altri viaggiavano per
divertimento, egli lo faceva per raccogliere nuovi materiali in appoggio del
suo sistema, e nel suo notiziario scrisse has- stoma di Aristotile
: 6 TQ aAuTCtfO orò TU fiSìl. Però ricordava con
piacere questi due anni, dico con piacere e s'intende fin dove Schopenhauer
ammetteva il piacere; negli ultimi giorni della sua vita non poteva mai
menzionare Venezia senza che la sua voce tremasse, il che prova che
Pamore che ivi lo tenne stretto, non era interamente dimenticato, sebbene fosse
morto. Senza dubbio, la seguente nota scritta a Bologna in data del 19
novembre 1818 tradisce qualche contentezza. Appunto perchè ogni
felicità è negativa, accade che non ce ne
avvertiamo affatto, quando ci troviamo in uno stato di benessere; lati
sciamo tutto passare dinanzi a noi liscio, e con dolcezza fino a che tf
questo stato è passato. La perdita soltanto* che ci si fa sentire
con chiarezza, pone in rilievo la
felicità, svanita; è allora soltanto che ci a accorgiamo di ciò che
abbiamo trascurato di assicurarci, ed il rimorso si aggiunge alla privazione, b
Schopenhauer fece il soggiorno piu lungo a Venezia- In quel tempo
vi èanche Byron, ritenuto esso pure da vezzi femminili. E J strano che
essi non s'incontrarono mai. Schopenhauer nutriva pel genio di Byron
la più grande ammirazione ed intelletti al mente entrambi sarebbero
andati d f accordo. Egli non incontrò neppure Schelley, nè Leopardi. Un
dialogo secondo il modo di Leopardi in nni egli ed il giovane conte erano
confrontati, fu pubblicato nella rivista contemporanea del 1858, e
Schopenhauer non si diede pace prima che non sì fosse assicurato di
averne una copia. Gli procurò una vivissima soddisf azione il trovarsi
associato col giovane che egli ammirava così profondamente (ed a cui, diciamolo
tra parentesi, Io scrittore De Sanctis, non ha reso giustizia); gran
parte della sua soddisfazione, proveniva vinche dal fatto die egli vedeva
elio la sua filosofia si era fatto strada fino in Italia. Non avveniva spesso
che egli fosse contento di quanto sì scriveva sulle sue opere, non trovava mai
che lo avessero letto con sufficiente attenzione; ma quest 1 uomo, così diceva,
lo aveva assorbito in sucóurn et tangm nem .Quando -Schopenhauer arrivò a Venezia
per la prima Tolta, e pii scrisse : chiunque si trova repenti nani ente
trasferito in un contrada
totalmente straniera, ove prevale un modo di vivere e di parlare differente
da quello a cui e pii è abituato, ha il sentimento di chi inaspettata mente ha
messo il piede nel F acqua fredda. Egli avverte subito la differenza di tempera
tura, sente una forte influenza che agisce dal di fuori e che lo rende
infelice; egli si trova in un elemento
estraneo in cui non sa muoversi comodamente, A questo si
aggiunga che egli si accorge come
ogni cosa attira la sua attenzione e che teme di essere a ne Ir e gl i osservato da tutti.
Ma dal momento che si è ealmaio, che ha incominciato ad assorbire la. nuova
temperatura e ad abituarsi al
nuovo ambiente, egli si trova bene come difatti si trova un uomo nell’a equa fresca. Egli si è
assimilato a!1 J elemento, ed averir do perciò cessato di occuparsi della
propria persona, rivolge la sua a attenzione esclusivamente a ciò che lo
circonda: ed ora, appunto perche lo contempla con oggettività neutrale, egli si
sente superiore al suo ambiente come prima se ne sentiva
schiacciato, Viaggiando le impressioni dlogni genere abbondano, ed il
nutria s mento intellettuale ci viene in tale quantità che non ci rimane
tempo c per la digestione. Ci rincresce che le impressioni le quali si
succedono a rapidamente non possano lasciare una impronta permanente. In
real- tà però avviene qui quello che ci accade quando leggiamo.
Quante volte ci lamentiamo di non essere capaci di ritenere la millesima
parte di quanto abbiamo letto! W confortante però in ognuno dei due casi
il sapere che ciò che abbiamo visto e letto, ha fatto sulla nostra mente
un'impressione, prima d'essere dimenticato, impressione che concorre a
formare e nutrire la mente, mentre ciò che riteniamo a memoria serve
soltanto a riempire i vuoti della testa con materie che ci rimangono
sempre estranee, perchè non le abbiamo mai assorbite; il recipiente
dunque potrebbe anche essere rimasto vuoto come prima. Schopenhauer era d’opinione
elle, viaggiando, possiamo riconosce- re quanto areno radicate le
opinioni pubbliche e nazionali., e quanto sia difficile di cambiare il
modo di pensare d T un popolo, Mentre cerchiamo d'evitare uno scoglio, ne
incontriamo un altro; mentre fuggiamo i pensieri nazionali di un paese, in
un secondo ne troviamo degli
altri, ma non dei migliori. Il cielo ci liberi da questa valle di miseria!
\ i a gg ian do veciiamo 1a vita umana sotto ni olle fori ne diverse : ed
è questo appunto che rende i viaggi così interessanti. Ma, vinggiando, non
vediamo che il lato esteriore del la v if a u ni ana ; cioè ne scorgiamo soltanto quello che se ne vede
generalmente. D'altra parte non
vediamo mai la vita interiore del popolo, il suo cuore ed il suo centro,
cioè il campo in cui Vazione del popolo si svolge, in cui il suo carattere
si manifesta, quindi, viaggiando, vediamo il mondo a come un paesaggio
dipinto con un orizzonte vasto che abbraccia molte <i cose, ma che non
li a personaggi spiccati. Di lì, nasce pure la stantìi ehezza del viaggio.
Schopenhauer studia profondamente gl’Italiani, i loro costumi e la loro
religione. Di quest’ultima dice: La religione cattolica è un ordine per
ottenere il cielo mendicando, giacche sarebbe troppo disturbo doverlo
guadagnare. I preti sono i mediatori di questa transazione. Ogni religione
positiva dopo tutto non fa che usurpare il trono che per diritto spetta
alla filosofia; i filosofi quindi la coniti attera uno a sempre, anche se
dovessero considerarla come un male neccessario ed inevitabile, un appoggio per la debolezza
morbosa della maggior purte degli uomini. a La nuda verità non ha
la forza di frenare le menti rozze e di cote stringerle ad astenersi dal male e
dalla crudeltà giacche esse non santi no afferrare queste verità. Di lì il
bisogno di storne, di parabole e di dottrine positive. In dicembre ièlS la
sua grande opera vide la luce per la prima volta. Schopenhauer ne mandò
una copia a Goethe. Poi nella primavera del 1819, egli si trasferì a Napoli;
Goethe accusò ricevuta del dono per mezzo di Adele Schopenhauer, una delle
predilette del vecchio poeta. Goethe ha ricevuto il tuo libro con
grande piacere, scrive Adele, a Egli immediata mente divise V opera
voluminosa in due parti e corniliciò a leggerla. Un’ora dopo egli mi mandò il
biglietto qui unito, dieendomi che egli ti ringraziava molto e credeva che
tutto il libro .dovesso esser buono, giacche aveva sempre la fortuna di aprire
i libri nei posti più notevoli;
così egli mi disse d'avere letto le pagine indicaie ed egli spera di poferii
scrivere quanto prima la sua opinione completa. Intanto egli desidera che
io ti dicessi questo. Alcuni giorni dopo Ottilia mi disse che il di lei padre
leggeva il tuo libro con un interesse che lessa fino allora non aveva mai
osservato in lui. Egli le Ka detto che ora aveva. un divertimento per tutto
ranno, giacché intendeva leggere il tuo libro da capo in fondo e credeva
che ciò lo avrebbe occupato per un
anno. Disse a me ch’egli si sentiva proprio felice di saperti
sempre a lui devoto, nonostante il
vostro disaccordo sulla teoria dei colori. Disse pure che nel tuo libro
gli piaceva sopra tutto la chiarezza della rappresentazione e del linguaggio, sebbene la
tua lingua differisce da quella degli altri e che occorresse prima
avvezzarsi a chiamare le cose come tu lo vuoi. ila, continuò, quando una
volta si é pervenuto a queste, allora
la lettura procede con facilità e comodo. Anche la disposizione
della materia gli piaceva ;
solfante la forma immaneggiabile del libro non a gli dava pace, e si
convinse che F opera dovesse consìstere di due vo- a fumi. Spero di
rivederlo solo ed allora egli mi dirà iorse qualche cosa di più soddisfacente ; ad ogni mudo tu sei il
solo autore che Goethe legga in questo modo e con tanta serietà Nondimeno
Schopenhauer ritenne F opinione che Goethe non lo legasse con sufficiente
attenzione ; che il poeta avesse già speso il poco interesse che aveva per le
questioni filosofiche. A Napoli Schopenhauer fu principalmente in rapporto con
giovani inglesi. L’elemento inglese aveva per lui, durante tutta la sua
vita, un fascino speciale; credeva che gl"Inglesi erano quasi giunti
ad esse)e il più gran popolo del mondo, e che soltanto alcuni loro
pregiudizi si opponevano, acciocché infatti lo fossero. La sua cognizione
della loro lingua ed il suo accento erano tanto perfetti che anche gl T
Inglesi stessi per- qualche tempo lo prendevano per un loro cOmpatriftta,
un errore die sempre lo esalta. Tutto quanto vide, concorse a confermare
ed a sviluppare il suo sistema filosofico. Rimase specialmente colpito
dal quadro di un giovane artista veneziano, Hayez, esposto a Capo di Monte ; di
questo quadro illustrava la sua dottrina per quanto riguarda le lagrime
che, secondo il nostro filosofo, si spargono sempre per compassione di sé
stesso. Il quadro rappresentava, il passo dell 1 Odissea, ove Ulisse
piange alla Corte di re Alcinoo, il feaco, sentendo cantare le proprie
sventure, Questa è l’espressione più alta idi e possa avere la compassione
di se stesso. Schopenhauer aveva oramai raggiunto la piena maturità e
forza dell’uomo. Secondò lui il genio dell’uomo non dura più della
bellezza delle donne, cioè quindici anni, dal ventesimo al trentesimo
quinto et La ventina e la prima parte della trentina sono per Fintelletto
quello che è il 'uose di maggio
per gii alberi, questi durante la stagione prh <t maverile emettono
soltanto dei bottoni che poi diventano frutti L’esteriore, di Schopenhauer
doveva essere caratteristico, ma la sua bellezza stava nell 9 animo e non nella
faccia; i suoi occhi vivaci, ed ardenti anche nella vecchiaia, nella
gioventù rischiaravano quella testa potente col loro sguardo acuto e limpido.
Verso quel tempo un vecchio signore a lui perfettamente estraneo, gli si accosto
in istrada per dirgli che egli, Schopenhauer, sarebbe stato un giorno un
grand’uomo. Anche un italiano, che pure non lo conosceva, venne da lui e gli
disse: € Signore, lei deve aver fatto qualche grande opera; non so cosa
sia, a ma lo vedo nel suo viso. Un Francese che alla tal)le cVhote, gli
sedeva dirimpetto, ad un tratto esclama, Je ooudrais savorice qu il penrse de
nous autres j nous devom par altre hien petit s à ses yeiux ! Un inglese
rifiuta assolutamente di cambiare posto con le parole: Voglio stare qui,
perchè mi piace vedere la sua faccia intelligente. Nel riposo egli rassomiglia
va a Beethoven; entrambi avevano la stessa testa quadrata, ma il cranio
di Schopenhauer dev’essere stato piu grande come lo prova la misura elle
ne fu presa dopo la sua morie e che recai un’idea delle prò pozioni
straordinarie eli questa testa, E notevole la distanza che correva tra un
occhio e V altro; egli non poteva portare occhiali ordinari. Era di
statura media, tarchiata e muscolosa, aveva le spalle larghe ; In sua
bella testa era portata da un collo troppo breve per esser bello* Capelli
biondi e ricci Liti circondavano la sua fronte e cadevano sulle sue spalle;
quando era giovane, mustacchi biondi coprivano la sua bocca ben formata,
che coll'accrescersi degli anni perdette la sua bellezza a misura che
perdeva i denti. Il suo naso era di bellezza speciale e cosi pure le sue
piccole mani. Egli stesso faceva una distinzione fra la fisionomia,
intelletuale e morale à- un uomo; cercava la prima nelPocchio e nella fronte,
la seconda nelle forme della bocca e del mento. Era soddisfatto della sua
fisionomia intellettuale, ma non della sua fisionomia morale. Veste
sempre bene e con eleganza, il.suo contegno era aristocratico e leggermente
altero. Portava Senili re V abito, cravatta bianca e scarpe; i suoi abiti erano
sempre dello stesso taglio senza riguardo alla moda, eppure egli non
pareva mai strano, talmente aveva adattato il vestito alla persona. He il
popolo in istrada spesso lo seguiva collo sguardo, ne era causa il suo
esteriore animato dal fuoco dei genio, e non il suo vestito. Più tardi fu
fatto il suo ritratto con la fotografia e colla pittura; la tradizione soltanto
ci parla dèi suo esteriore, quando era nel fiore degli anni virili. Velia
biografia, del laborioso antiquario e storico I. E. Bolline! troviamo runica
menzione fatta del viaggio di Schopenhauer a Roma. Allora era un'epoca di
misticismo per Parte e per la religione della Germania, epoca che
produsse nella storia un Biniseli, nell’arte un Cornelius ed un Qverbeck.
I giovani artisti tedeschi, chiamati dal loro console ad ornare la di lui
villa sul monte Pine io, avevano l'abitudine di riunirsi quotidianamente
con certi poeti e giornalisti nel caffè Greco, diventato il punto
d'incontro per tutti i Tedeschi di Bontà. Il poeta Ruekert ed il
novelliere L, Schefer, ottimisti per professione, frequentavano allora quella casa.
Molti degli uomini più importanti della Germania allora viventi, si trovavano
nella eterna città. Schopenhauer, come gli altri, frequentava il caffè
Greco, ma pare che il suo spirito mefistofelico fosse un elemento
disturbatore per i visitatori ordinari che desideravano che egli si
allontanasse. Un giorno egli annunciò alla società che la nazione tedesca
era la più stupida di tutte, ma che era in un punto a tutte superiore,
cioè che era arrivata al pùnto di poter fare a meno della religione.
Questa osservazione suscitò una tempesta ili disapprovazioni, ed alcune
voci gridarono: fuori! alla porta mettetelo fuori ! Dà quel giorno in poi il
filosofo evitò il caffè Greco, ina le sue opinioni sui Tedeschi rimasero
inalterate. La patria tedesca in me
non si è allevato un patriota , disse un giorno ; e spesso anda dicendo ai suoi
compatì lotti a francesi ed a inglesi che egli si vergoigmva di essere tedesco,
piaceli è questo popolo era tanto stupido, a Se io pensassi così della mia nazione , rispose
un Francese, almeno non lo direi. Questo Schopenhauer è un
sala miste) (N&rr) insopportabile, scrive Bòhmer. Questi filosofi
antitedeschi ed irreligiosi, dovrebbero essere tutti quanti rinchiusi pei
bene comune, Schopenhauer non menava una vita santa ed ascetica, uè
pretese die gli altri lo credessero. Egli sprezzava le donne; considerava
ibi more sessuale come una delle manifestazioni più caratteristiche della
volontà; tuttavia non era dissoluto. Sospirava con Byron : Più che
vedo gli uomini meno mi piacciono;
tutto sarebbe bene se potessi dire lo stesso delle donne. Egli differiva dagli
uomini ordinari, parlando di ciò che gli altri sopprimono. I suoi
discepoli troppo zelanti die credevano vedere qualcosa di divino in tutte le
sue azioni, trassero alla luce del giorno anche questi suoi discorsi e
quindi attirarono sul maestro un’imputazione che egli non ha mai meritata. Le
idee di Schopenhaner coincidevano con questa osservazione di Buddha ; Non v ? è
passione più potente di quella dei sessi : di fronte a. questa
nessun’ultra merita d’essere menzionata; se ve ne fosse un'altra di
questa forza, per la carne non vi
sarebbe più salute! E di lì nacque senza
dubbio il timore di Sdì operili auer di
non poter raggiungere il Nirvana , come egli disse con rincrescimento al
dottor Grwinner. In mezzo a questi trastulli leggeri colla bellezza
femminile gli giunse ad un tratto la notizia che V antica ditta di Danzi
e a, in cui era implicata gran parte della sua sostanza e tutta quella di
sua madre, era minacciata di bancarotta. Senza indugio si trasferì in
Germania; ia perdita del suo avere era il male che Schopenhauer temeva
maggior- mente., il male che egli sapeva di poter sopportare più
difficilmente, tenuto calcolo del suo temperamento. Egli non era adatto a
guada' gnarsi il. pane; la sua intelligenza non era di quelle che si
possono dare in affitto. L’indipendenza materiale che egli aveva
ereditata gli parve sempre uno dei più grandi beni della sua vita, dacché
s ! era tutto dedicato a suoi studi. Nei Par erga, sotto il titolo V on
(lem was Einer hai, egli scrive : Non. istimo indegno della mia penna di
raccomandare hi cura della fortuna
che si è acquistata per lavoro o per eredità. E 5 un vanfaggio inapprezzabile
il possedere fin da principio quanto occorre per vivere, sia anche solo e senza famiglia,
comodamente ed in vera im.1L
pendenza, c 1 o è se iiz a 1 avocar e ; quèsto stato rende huomn esente
ed immune dalla privazione e
quindi dalla servitù universale, sorte caie ninne dei mortali. Colui soltanto
che dal destino fu favorito in questo
modo è veramente nato uomo libero, giacché soltanto egli è vwr
j.arix, padrone del suo tempo e
delle sue facoltà e può dire ogni mattina ; il giorno è mio. Per questa
ragione la differenza tra colui che hn mille ai a scudi d’entrata e
colui clie ne La centomila- è molto minore di quella che corre tra il
primo e colui che non La nulla. La fortuna ereditari si acquista un sommo valore, quando cade in mano
ad un uomo il quale, dotato di capacità intellettuali d’ordine elevato,
segue tendenze incompatibili col lavoro pel pane quotidiano. Tale uomo
ricevette da! destino un doppio corredo e può vivere pel suo genio; ma
egli coniti pensa cento volte il debito contratto verso- V umanità, effettuando
cosa che nessun altro potrebbe
effettuare, e producendo qualcosa pel bene ed anzi per V onore comuni, TTn
altro in questa condizione privilegìata con tendenze filantropi eh e saprà
meritarsi la gratitudine d elee l’umanità. D’altra parte sarà un pigro
spregevole colui che si trote va in possesso d’ una fortuna ereditaria e non
cerca in nessun modo, neppure acquistando a fondo qualche scienza, di
rendersi utile all’umanità, a Questo ora- è riservato al più alto grado di
perfezione iute Ilei- ft tuale che noi al solito chiamiamo genio; il
genio solo si occupa escili- sivamente dell’esistenza e della natura
delle cose, per poi esprimere a i suoi concetti profondi, secondo la
propria inclinazione, per mezzo dell’arte, della poesia e della filosofia.
Pei uno spirito di questo genere il commercio non interrotto con sé stesso, co’
suoi pensieri e colle sue opere è
un bisogno urgente. Ad esso è cara la. solitudine, e l’ozio è il suo bene
maggiore; il resto non gli è indispensabile, anzi talvolta gli è gravoso. Di
tal uomo soltanto possiamo dire con ragione che abbia in sé stesso il suo punto di gravità.
Cosi si spiega perchè queste
persone tanto rare, anche se hanno il miglior carattere del
mondo, non mostrano per gli amici, per la famiglia e pel bene comune
quella a -simpatia ardente ed illimitata, di cui dispongono tanti altri;
giacche dopo tutto possono
consolarsi d’ogin cosa finché hanno sé stessi. In loro vive un elemento d'isolazione tanto più
attivo quanto meno gli altri possano dar loro soddisfazione; questi altri
uomini, essi non li considerano interamente come loro pan; e dal momento
che corniticiano a vedere che tutto a loro è eterogeneo, prendono l’abitudine
di camminare in mezzo agli nomi ni, come se questi fossero esseri da
loro diversi; nei loro pensieri ne
parlano come di terze persone, dicendo: essi, loro, e mai noi. Tln uomo
munito di questa ricchezza interiore non chiede al mondo esterno nulla, all*
infuori d'un dono negativo, cioè la libertà di svilappare e di migliorare le
sue facoltà intellettuali, di godere la sua ricchezza interiore, vale a dire di essere
interamente a sé in ogni gioì no. in ogni ora e durante tutta la sua vita.
Quando un uomo è destinato a lasciare l’impronta del suo intelletto all’intera
razza umana, egli non può conoscere che una sola gioia, cioè quella di
vedere le sue facolt-a riconosciute e di trovarsi in grado di compiere l’opera
e sua; oppure un rammarico e cioè d J esserne impedito. Ogni altra, cosa
« è insignificante ; e intatti troviamo clic in tutti i tempi le menti
più elevate abbiano pregiato sopra ogni altra cosa E ozio, ed il valore
di quest'ozio equivale appunto al valore deli-uomo stesso. Volentieri
Schopenhauer cita questa massima di Mienstone: la libertà è un cordiale
più fortificante del Tokay, Pieno dei più cupi presentimenti egli si portò
con fretta in Germania, (tra zi e alla
sua energia e alla siili diffidenza d ogni prò Fessio- nej riuscì a
salvare la maggior parte della propria sostanza. Sua in mire non volle
prendere consiglio,, e quando venne la catastrofe finale essa ed Adele
rimasero quasi senza un centesimo, Questo incidente dimostra die
Schopenhauer non era filosofo (/truche e poco pratico; egli certamente
non avrebbe inciampalo, guardando cri ammirando le stelle ; al genio egli
univa il senso pratico, una combinazione molto rara, la cui origine egli faceva
risalire a suo padre negoziante. Ed è questa qualità che fa di Schopenhauer il
vero filosofo pei bisogni d’ogrii giorno, lasciando da parte il -suo
pessimismo. Egli aveva vissuto nel mondo e non era uno di quegli studiosi
che vivono rinchiusi nel loro studio ; egli conosceva i bisogni e le richieste
del mondo i suoi aforismi ed assiomi non sono troppo elevati per essere
messi in pratica s oltreché sono esposti in linguaggio chiaro ed
intelligibile ed esprimono spesso le percezioni d’ogni mente che pensa.
Though man a tlilnkmg being is ci e fine d,
Few use thè great prerogative oi minti; How few thiiik jusUy
oì thè tliiriking few; II ow manv n e ver inmk, who think they
do. Sfortunata
incute il loro numero è infinito ed a loro non occorre nè filosofo, nè
poeta, uè artista; ginstinti sono per loro nella vita una guida
sufficiente. Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate si tramuti in
Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” die welt as will
–volere – filosofia fascista -- la
volonta di potere, un invento della sorella di Nietzsche che piaceva a Hitler
---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casotti” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Casalegno, paolo. Italian philosopher author of “H.
P. Grice” in “Filosofia del linguaggio.”
Luigi
Speranza -- Grice e Cassio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma)
Filosofo italiano. Tribuno della plebe della Repubblica romana C. (a destra),
Marco Giunio Bruto (col volto girato) e gli altri congiurati pugnalano Giulio
Cesare alle Idi di Marzo; particolare del dipinto di Camuccini, Morte di Giulio
Cesare. Nome originale. Nascita: Roma Morte: Filippi Coniuge: Tertulla Figli:
C. Gens: Cassia Tribuno militare sotto Marco Licinio Crasso Questura. Tribunato
della plebe. C. Roma – Filippi) è stato
un filosofo e politico romano, tra i promotori della congiura che causò
l'uccisione di Gaio GIULIO (si eda) Cesare. Appartenne alla gens Cassia, una
famiglia patrizia riuscita ad accedere al consolato. C., dopo il matrimonio con
Tertulla, figlia di Servilia, sembra avvicinarsi al partito degl’optimates
guidato da CATONE (si veda) Uticense. Moneta coniata da Longino. Prende
parte alla guerra contro i Parti, al fianco di Marco Licinio Crasso, salvandosi
dal disastro di Carre, e riuscendo a respingere una loro successiva invasione
che si era spinta fin sotto le mura di Antiochia. Nominato tribuno della plebe,
allo scoppio della guerra civile si schierò dalla parte di Pompeo, che gli
affidò il controllo di parte della sua flotta nelle acque del Mediterraneo.
Dopo la battaglia di Farsalo e la morte di Pompeo in Egitto, egli decise di
beneficiare della clemenza di Cesare: lo raggiunse dunque in Cilicia, vicino
Tarso, da dove il dittatore sta pianificando l'attacco a Farnace. Nonostante il
suo rapporto con Cesare si consolida, C. decide d’allontanarsi dalla corrente
politica di Cesare per essere uno degl’organizzatori del complotto che portò
costui alla morte. Dopo l'assassinio del dittatore, C. insieme a Bruto,
figlio di Servilia, fugge da Roma, timoroso delle rappresaglie messe in atto da
MARC’ANTONIO (si veda), luogotenente di Cesare, e dall’emergente OTTAVIANO (si
veda), futuro primo imperatore di Roma con il nome di Augusto. Come si apprende
da un'epistola scritta a CICERONE (si veda) poco prima della battaglia di
Modena, C. ottenne brillanti successi in Oriente. Recatosi ad Apamea, dove è
assediata dai cesariani una legione pompeiana al comando di Quinto Cecilio
Basso, riuscì a convincere i capi cesariani sul posto, Lucio Staio Murco e
Quinto Marcio Crispo, a defezionare con le loro sei legioni e passare dalla sua
parte. Poco dopo giunse dall'Egitto Aulo Allieno con altre quattro legioni, che
a sua volta si unì a Cassio. Secondo alcune fonti Marcio Crispo tuttavia
rifiutò di servirlo. C. disponeva ora di numerose legioni e si mosse per
affrontare il cesariano Publio Cornelio Dolabella, che in precedenza aveva
vinto e ucciso il cesaricida Gaio Trebonio. Tuttavia i due cospiratori non
riuscirono a farla franca. Nel frattempo era stata emanata la lex Pedia, che
condannava all'esilio i cesaricidi. Cassio e Bruto vennero affrontati
nella battaglia di Filippi da MARC’ANTONIO (si veda) ed OTTAVIANO (si veda). C.
fu sconfitto da Marco Antonio; pensando che anche Bruto fosse stato sconfitto
diede ordine ad un suo schiavo, Pindarus, di ucciderlo, usando la stessa daga
con cui aveva pugnalato Cesare; Bruto, nonostante la parziale vittoria ottenuta
su Ottaviano, fu successivamente raggiunto ed accerchiato dagli uomini di Marco
Antonio. Il 23 ottobre del 42 a.C. Bruto, vedendosi sconfitto, si
suicidò. Plutarco riferisce che Cassio era seguace di Epicuro.
Cassio viene definito da più fonti come Ultimus Romanorum, l'ultimo dei romani
a incarnare i valori e lo spirito romano: il riferimento è in Tacito, che cita
a sua volta lo storico Cremuzio Cordo: «Sotto il consolato di Cornelio Cosso e
Asinio Agrippa fu sottoposto a giudizio Cremuzio Cordo per un reato di nuovo
genere, noto allora per la prima volta: negli annali da lui scritti, dopo aver
elogiato M. Bruto, aveva chiamato Cassio l'ultimo dei romani"[5].
Letteratura Dante lo pone nell'ultimo girone dell'Inferno (Inferno), la
Giudecca, ove si puniscono i traditori dei benefattori. Assieme a Giuda
Iscariota ed a Marco Giunio Bruto, è costantemente maciullato dalle fauci di
Lucifero. Cassio è uno dei protagonisti della tragedia Giulio Cesare di
Shakespeare. Note ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, Syme, La
rivoluzione romana Cassio, epistola a Cicerone ex castris Taricheis, in Charles
Chaulmer, Les Epitres familières de Ciceron en latin et en françois., edd. Antoine e Horace Molin, 1689 ^ Broughton, T. Robert S., The Magistrates
of the Roman Republic, Annales, Sermonti, Inferno, Rizzoli. Bosco e
Reggio, La Divina Commedia - Inferno, Le Monnier 1988. Voci correlate Gaio
Giulio Cesare Marco Giunio Bruto Battaglia di Filippi Marco Antonio Augusto
Ultimus Romanorum Altri progetti Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Càssio Longino, Gàio (uomo politico e questore), su
sapere.it, De Agostini. Gaius Cassius / Gaius Cassius Longinus, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Gaio Cassio Longino / Gaio Cassio
Longino (altra versione), su Goodreads. V · D · M Guerra civile romana V · D ·
M Guerra civile romana V · D · M Cesaricidi Portale Antica Roma
Portale Biografie Portale Età augustea Categorie: Politici
romani del I secolo a.C.Morti nel 42 a.C.Morti il 3 ottobreNati a
RomaCassiiGovernatori romani della SiriaMorti per suicidioPersonaggi citati
nella Divina Commedia (Inferno)EpicureiCesaricidi[altre] Cassio, one of those
who assassinated Giulio Cesare, was a follower of the philosophy of The Garden.
He converted to the sect after an earlier interest in
the Porch, and defended his new philosophy in correspondence with his friend
Cicerone. Gaio
Cassio Longino. Cassio.
Luigi
Speranza -- Grice e Cassiodoro: -- vide under Briuzi --. noble Italian philosopher. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Cassiodoro," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
Luigi
Speranza -- Grice e Castelli
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