Luigi Speranza -- Grice e Ciliberto:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del principe -- il
suo principato– scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese. filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting way:
confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not explored the
irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate that everything I
say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses the
vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del
pensiero di BRUNO (si veda). Si laurea a Firenze sotto GARIN (si veda)
con “MACHIAVELLO (si veda)”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a
Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Presidente di I. R.
I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di
Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento
con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica,
no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile,
Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi
della democrazia rappresentativa. Altre opere: “Il rinascimento. Storia
di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari,
De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo et Bizzarri); “Come
lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel
Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del
tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza);
Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura);
“Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il
dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze,
Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I
contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura); Il teatro della vita (Milano, Mondadori); Il laico Il libero dell'Italia
moderna, Roma-Bari, Laterza); Democrazia dispotica – etimologia di dispotismo –
(Roma-Bari, Laterza); Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), Parola,
immagine, concetto (Edizioni della Normale, Pisa); Croce e Gentile La cultura
italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,.
Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo,
neo-umanesimo, classicism, neo-classicismo come ironia (Roma-Bari, Laterza);
Pazzia e ragione (Roma-Bari, Laterza); Il sapiente furore (Collana gli Adelphi,
Milano, Adelphi) C., Lessico di BRUNO (si veda). Preludio a MACHIAVELLO
MACHIAVELLI (si veda) Mre a dh e im h ol Un TT ‘i 0 annunciato da
Imola dalle legioni
chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma
’ 1 Cum parole non si mantengono li Stati. Ciò troncò gli
ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi
sottopongo ? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 Il Principe
di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda), al libro che io vorrei cHamare Vade
ZldlZtfìl U °™° dt g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà
Slfia ’ a . 8glU f? e ? e cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio-
ftreTdJI VCdra 3 r 8UÌt0 f H ° rilett ° attentame nte il Principe
loe7olnf Z P ? e dd 8rande S, e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem -
po e voionta per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel
Ma chiavelli.Ho voluto mettere il minor numero possi- velh ^ mt0rmedlari
vecchl e nn °vi, italiani e stranieri, tra il Machia- dottrin, e’l^ non.8
uastare la di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta,
fra le sue e le mie osservazioni di n0mmi, e f° Se ’ 3 SU f C k mia
pratica di governo. Quella che mi )t0,\ le Z 8e ™ no « f quindi una
fredda dissertazione scolastica irta di citaziom altrui, è piuttosto un
dramma, se può considerarsi come io credo, m un certo senso drammatico il
tentativo di gettare NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^
cveuti La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa
c’è an- cora di vivo nel Prmcipe? I consigli di MACHIAVELLI potrebbero
ave- * Da Gerarchia, I,i.
•>\fruzione del regime i. iniit
t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? II tl.iic
del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca in >
111 1 11 scritto il saggio, quindi necessariamente limitato e in parte
> I.luco, o non è invece universale e attuale? Specialmente
attuale? I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo che la
dottrina • li MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) è viva oggi piu di
quattro secoli fa, poiché se gli nnpctti esteriori della nostra vita sono
grandemente cangiati, non si h i(io vcrificate profonde varia^ioni nello
spirito degli individui e dei itopoli. ln politica è l’arte di
governare gli uomini, cioè di orientare, uti- li znre, educare le loro
passioni, i loro egoismi, i loro interessi in < nin di scopi d’ordine
generale che trascendono quasi sempre la i'iin individuale perché si
proiettano nel futuro, se questa è la poli- lioi, non v’è dubbio che
l’elemento fondamentale di essa arte, è l’iiomo. Di qui bisogna partire.
Che cosa sono gli uomini nel siste- inn politico di Machiavelli? Che cosa
pensa Machiavelli degli uominl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini
dobbiamo Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè
degli Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi
contempora- nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello
spazio o pcr dirla in gergo acquisito sotto la specie della eternità? Mi
pare ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di
po- lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel
Principe, oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli
degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene,
t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del
Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della nntura
umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto
commercio coi propri simili, Machiavelli è uno Kpregiatore degli uomini e
ama presentarceli, come verrò fra poco documentando, nei loro aspetti piu
negativi e mortificanti. (,li uomini, secondo Machiavelli, sono
tristi, piu affezionati alle cose chc al loro stesso sangue, pronti a
cambiare sentimenti e passioni. Nel Principe, Machiavelli così si
esprime: perrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili.imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno e
mentre fai loro bene, ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba,
la vita, i figlioli, come di sopra dissi,.piando el bisogno è discosto, ma
quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel l>rincipe che si è
tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre prepa- rn/ioni,
rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia
mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da uno vincolo
di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di
propria utilità (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che
non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le
Carte varie quanto segue. Gli uomini si dolgono piu di un podere che sia
loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la
morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione ò pronta;
perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può
risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere. E al capitolo terzo
dei Discorsi. Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e
come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una
Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere
cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità dell’animo loro,
qualunque volta ne abbino libera occasione. Gli uomini non operano mai nulla
bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere
licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione e di
disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani
riportati sono sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo su-
gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È
in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di
questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire
tutti i successivi sviluppi dei pensiero di Machiavelli. È anche evidente
che il Machiavelli, giudicando come giudicava gl’uomini, non si riferiva
soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini ma agl’uomini senza limitazione
di spazio e di tempi tempo ne e passato, ma se mi fosse lecito giudicare i
miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare
il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli
non si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e POPOLO,
fra STATO e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu
chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce
logicamente da questa posizione iniziale. La parola principe deve intendersi
come STATO. Nel concetto di Machiavelli il principe è lo stato. Mentre gl’individui
tendono, sospinti dai loro egoismi, all’atonismo sociale, LO STATO
rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere
continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a
non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi [nelle parole di
Urmson – H. P. Grice] — che sacrificano il proprio io sull’altare dello STATO.
Tutti gl’altri sono in istato di rivolta potenziale contro LO STATO. Le
rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di
ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come hii.i enianazione della libera volontà del POPOLO.
C’è una finzione.• tma illusione di piu. Prima di tutto IL POPOLO non è mai
definito. I una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa iltivc cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di
sovrano applicato a popolo è una tragica burla. II POPOLO tutto al piu, DELEGA,
ma non può certo ESERCITARE SOVRANITÀ alcuna. I sistemi rapprenntativi appartengono
più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi
sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non
si domanda piu nulla al POPOLO, perché si sente che la risposta sarebbe
fatale; gli si strappnno le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi
normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione o una
pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al POPOLO non resta che
un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità
elargita graziosamente al POPOLO gli viene sottratta nei momenti in cui
potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è
reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria ainministrazione. Vi
immaginate voi una guerra proclamata per referendum? II referendum va benissimo
quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la
fontana del villaggio. Ma quando gl’interessi supremi di un POPOLO sono in
giuoco, anche i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al
giudizio del POPOLO stesso. V’è dunque immanente, anche nei regimi quali
ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia — che pecca, attraverso
Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio fra
forza organizzata dello STATO e il frammentarismo dei singoli e dei
gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non
esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio oramai
famoso articolo Forza e consenso, Machiavelli scrive nel Principe. Di qui
nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché
la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una cosa, ma è
difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato
in modo, che quando non credono piu si possa far credere loro per forza.
Moise, Ciro, Teseo, ROMOLO non avrebbero potuto fare osservare lungamente
le loro costituzioni, se fussino stati disarmati. IL SINGOLARE SAGGIO
SU MACHIAVELLI DI MUSSOLINI. PRELUDIO DI MUSSOLINI POI FORZA E CONSENSO +
NOTA DE SANCTIS POI UN ARTICOLO SU MACHIAVELLI DI FUSARO CON UN
ARTICOLO – Pellegrino. Mangieri ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE IL
PRINCIPE PREMESSA: Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente
connessa con alcuni nodi centrali della storia del pensiero politico. A parte
una serie di revisioni critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti
fiorentini nel periodo del granduca Leopoldo, un grosso contributo del
movimento riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a
G.M. Galanti, autore di un Elogio di MACHIAVELLI. Galanti fa propria
quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già era stata consacrata
nell'articolo machiavelisme dell'Encyclopededie (scritto attribuito a Diderot)
e nel Contratto sociale di Rousseau (Fingendo di dare lezioni ai re, egli ne ha
date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei
repubblicani). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi in Dei
sepolcri. Contro questa interpretazione Vincenzo Cuoco, con trasparente
riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica, mise in luce il realismo
politico di Machiavelli, che aveva indicato in una monarchia o Stato forte,
l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i partiti. Fuori
dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi machiavelliche come risposta
a una particolare situazione storica e, al tempo stesso, vedevano nell'autore
del Principe un precursore dello stato etico che doveva godere di lunga fortuna
nello storicismo tedesco. In Italia nell'età risorgimentale
l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna dell'immoralità di
Machiavelli e la sua esaltazione come profeta della riscossa nazionale.
Il superamento di tali posizioni si possono considerare le pagine appassionate
di Sanctis (saggio che fra breve riporteremo qui integralmente - e che come
diremo più avanti fu poi molto (pretestuosamente) utile a Mussolini -
leggendolo capiremo perchè). A De Sanctis, Machiavelli appariva non solo
come il profeta dell'idea di nazione ma come fondatore dei tempi moderni, come
interprete lucido e impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni
medievali, e autore di una rivoluzione copernicana nelle considerazioni
dell'uomo, che ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Poi
anche per Benedetto Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore
della politica come attività autonoma dello spirito. Entrammo poi
nel Ventennio fascista e qui una facile strumentalizzazione di Machiavelli e
del suo mito fu fatta da Mussolini che prima un suo articolo lo scrive su
Gerarchia, poi cura a prefazione (che chiama PRELUDIO) di una edizione del
Principe, adornandola opportunisticamente con il saggio - citato sopra – di Sanctis).
In queste pagine su MACHIAVELLI, è piuttosto singolare che per fornire una
comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare MUSSOLINI. Ma singolare non
lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera di Machiavelli ma anche
lo stesso Mussolini e il suo Fascismo. In queste tre paginette del preludio,
c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero
l'idea di una educazione del POPOLO a un nuovo fascismo !! (prima ve ne sono
molti di fasci, creati dai socialisti violenti, che incitano a ribellarsi con i
vari scioperi i lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare
libretto che possediamo lo riportiamo integralmente, perchè all'interno
Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche) sulla dubbia
validità del potere esercitato dalla sovranità POPOLARE, e sulla stessa utopica
democrazia POPOLARE. Per Mussolini il Principe del suo tempo è LO STATO.
E LO STATO è il Principe, cioè - nei tempi moderni - che dopo aver preso il
potere doveva essere Lui e solo Lui. (Siamo lontani da quando prima come
anarchico poi come socialista - lui esalta il proletariato come futura classe
dominante, e fa l'apologia della rivoluzione violenta indicata dalla dottrina
di Hegel che presenta nella sua teoria la morte dello Stato. E nell'organizzare
gli scioperi, lui è un vero e proprio fascista socialista violento, così chiamano
fin dai primi fasci i socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi sono QUI
in Togliatti E nel farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui
era un violento socialista, e anda più volte anche in galera come sovversivo.
Poi improvvisamente lui diventa inter-ventista nei confronti dei suoi ex
socialisti che come ANTI-inter-ventisti si opponeno a quella guerra che diceno
voluta dalla più becera borghesia con nessun vataggio per IL POPOLO ANALFABETO
chiamato SOLO A DARE IL SUO SANGUE. Segue la famosa rottura di Mussolini con i
suoi ex socialisti, uscendo dal giornale Avanti che dirige – ed è poi perfino
cacciato dal partito socialista. Poi durante e dopo la guerra -
soprattutto per come finisce il conflitto per l'Italia - lui va a fondare i
suoi fasci, cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex soldati, i
lavoratori e anche una certa nuova borghesia, che ora guardano a lui che mira a
un socialismo sociale e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi fra operai e
industriali -- soprattutto nelle sciagurate Settimane Rosse. Dove o per i loro
scioperi, o per le serrate degli industriali, a pagare sono gl’operai sempre
più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare la fame. La sovranità,
al popolo - afferma Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo quando è
innocua -- es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la fontana del
villaggio. Mentre quando gl’interessi supremi sono in gioco, anche i governi
ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo. La
sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo tutto al più
delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. Mussolini inizia a
guardare proprio alla forza, che prima è usata dagl’inconcludenti socialisti,
proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti. Ci vediamo in questo suo preludio
su Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del principe; e come
detto sopra, appoggiandosi pure al saggio Sanctis. Abbiamo detto
utilizzo, perchè Machiavelli è stato l'uomo che ha intuito una nuova forma di
filosofia umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella
collettività, nello STATO, il quale così diventa uno Stato etico. È evidente
quindi che in tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del
singolo individuo al proprio utile per l'utile generale dello stato, concezione
questa che viene a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso -- es.
usare la forza -- dando origine a quel
mito del machiavellismo che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da altri
ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la personalità del
singolo uomo. Insomma Mussolini fa del Principe il suo vademecum. Sbagliando
però. La sua storia è poi infatti molto diversa. Lui stesso - nel fidarsi
troppo di quella gente che lo circonda - finì molto male e sbaglia proprio sul POPOLO,
che alcune volte nella storia con la sua vituperata irrazionalità fa quello che
vuole. E suona dunque privo d’effetto quel volerci ricordare Mussolini una
massima di Machiavelli. Quando non credono più, bisogna ricorrere alla forza. È
questo sì l'espediente del suo Fascismo, forse fin dalla sua nascita, ma poi è
perdente. Perchè la sua forza inizia a farla con i suoi imbelli gerarchi e a
dire lui solo tante parole, parole, parole, seguite da riti, proclami,
dottrine, vangeli -- oltre...le pagliacciate di STARACES. Lui - in questo
Preludio - cita due frasi di Machiavelli, ma non ne sa coglierne l'essenza. Cum
parole non si mantengono li Stati. Quel Principe che si é tutto fondato sulle
parole, trovandosi nudo, rovina --- che profezia!!! E Mussolini nudo si ritrova
prima in quel famoso 25 luglio. Lui si aspetta una reazione al suo arresto. Ma
fu una realtà molto amara. Ma come, dice preoccupato, mi hanno abbandonato
anche i 150.000 arditi, di assoluta provata fede? Si, eccellenza, tutti uccel
di bosco - anzi i loro comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e
mettendoli a sua disposizione. Lo aveva abbandonato perfino suo genero: CIANO.
Ma poi - perso per strada anche gli altri amici, andò ancora peggio il 27
aprile del '45, quando il popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel
fare quello che voleva lo appese a un distributore a Piazzale Loreto. Non
sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una
razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci
sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono
dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe
guidare come belanti pecore. I meccanismi politico-sociali ed economici
realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche, perchè
altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli
uomini. L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso investimento
di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno disfarsi
dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale per
organizzare lo Stato delle formiche, questo dio che si crede onnipotente, si
rende responsabile di una degradazione della natura stessa dell'uomo e che se
un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate della formica, non
soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una buona formica. E
ancora (non sempre nell'asservimento (l'azione), la retroazione è
controllabile). Questo non è il ragionamento di un filosofo, ma del Padre della
Cibernetica moderna (Teorie dell'informazione): Norbert Wiener - Mussolini
usa tante parole. Ma quale fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse
accompagnato la civile prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche
il grande Napoleone: qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse
accompagnata la civil prudenza machiavellica Paradossalmente proprio su
Napoleone, Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: lui fallì miseramente
perchè aveva creduto troppo negli uomini. Solo lui credeva di aver capito
gli uomini, credendolo suo il popolo: devono solo Credere, Obbedire,
Combattere. e Quando mancasse il consenso, c'è la forza...Per tutti i
provvedimenti anche i più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini
davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o
subirli. (Disc. Risposta al Ministero delle Finanze - S. e D., E pensare che un Mussolini più razionale
aveva scritto un giorno Io grande? Io forte? Io potente? basta un titolo su un
giornale e ti ritrovi nella polvere. A Piazzale Loreto andò peggio! Fu un
cattivo profeta di se stesso. * ecco qui sotto il preludio di
Mussolini * subito dopo il saggio di F. De Sanctis (datato ma ancora molto
attuale) * seguono alcune note sulla vita, le opere e il contesto storico di
Machiavelli. Mussolini: Accadde che
un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di
una spada con inciso il motto di Machiavelli Cum parole non si mantengono li
Stati. Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi
sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un Commento dell'anno 1924, al
Principe di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo
di governo. Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che
questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho
riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario,
ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in
Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile
di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me,
per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita
vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia
pratica di governo. Quella che mi onoro di leggervi non é quindi
una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un
dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il
tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e
degli eventi. Non dirò nulla di nuovo. La domanda si pone: A quattro
secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del
Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli
Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é circoscritto
all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in
parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia
tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é
viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della
nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde le
variazioni nello spirito degli individui e dei popoli. Se la politica é
l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro
passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale
che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel
futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di
essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel
sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È
egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini
dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè
degli italiani che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o
nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo
acquisito sotto la specie della eternità ? Mi pare che prima di procedere
a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci
appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto
avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in
particolare. Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una
superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei
confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di
continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore
degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro
aspetti più negativi e mortificanti. Gli uomini, secondo Machiavelli,
sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a
cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così
si esprime: Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e
mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i
figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si
appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato
sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini
hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia
temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere
li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é
tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli
egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: Gli uomini si dolgono
più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro
morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione é
pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non
può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere. E al
Capitolo III dei Discorsi: Come dimostrano tutti coloro che ragionano del
vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é necessario a chi
dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini
essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità dell'animo loro,
qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla
bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere
licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine. Le citazioni
potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati sono sufficienti
per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma
fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta
una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale
bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di
Machiavelli. E' anche evidente che il Machiavelli, giudicando come
giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai
fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo,
ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne é passato,
ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in
alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse,
aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra
Principe e popolo, fra Stato e individuo é nel concetto di Machiavelli fatale.
Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico
scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola
Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe é
lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo
sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo
tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i
tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro -eroi o santi -
che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in
istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII
eXVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni
organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione
della libera volontà del popolo. C'é una finzione e una illusione di più.
Prima di tutto il popolo non fu mai definito. E' una entità meramente astratta,
come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca.
L'aggettivo di sovrano applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto
al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I
sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche
nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli,
giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente
che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacce delle
sovranità - buone per i tempi normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare
una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra.
Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi
vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta
nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando
è innocua o é reputata tale, cioè nei momenti diordinaria
amministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per
referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo
più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi
supremi di un popolo sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si
guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque
immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia
- che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo
- il dissidio fra forza organizzata dello Stato e frammentarismo dei singoli e
dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non
esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio
ormai famoso articolo Forza e consenso (vedi subito sotto) Machiavelli scriveva
nel Principe, pagina 32: Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li
disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli é varia ed é facile persuadere
loro una cosa, ma é difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene
essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far credere loro
per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare
lungamente le loro costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati.
POCHI MESI PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU GERARCHIA
MUSSOLINI NEL '23 L'ARTICOLO FORZA E CONSENSO E MERITA DI LEGGERE ANCHE QUESTO
ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI Mussolini, da Gerarchia. Forza e
consenso. Certo liberalismo italiano, che si ritiene unico depositario degli
autentici, immortali principi, rassomiglia straordinariamente al socialismo
mezzo defunto, poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di possedere
scientificamente una verità indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e
situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é l'ultima parola, non
rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di governo. Non c'è in
quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú refrattaria delle materie e
in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non sui morti; non c'è
nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del luogo,
dell'azione. Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente
governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del
XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli
stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata,
in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo. Non é detto che il
liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè,
dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e
l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto
al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che
individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza
piú della dottrina. Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle
che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del
liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di
fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale. Il comunismo e il
fascismo sono al di fuori del liberalismo. Ma insomma, in che cosa
consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano
oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale
e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra
l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in
nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di
tutti? Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo
Stato e lavorano attivamente per demolirlo? E' questo il
liberalismo? Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una
pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come
mezzo deve essere controllato e dominato. Qui cade il discorso
della forza. I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella storia vi fu
governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunciasse a
qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai stato, non ci
sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia in riva al
mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun governo é mai
esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque soluzione vi
accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi della
saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti. Se
finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a
quadrare il circolo. Posto come assiomatico che qualsiasi
provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo
malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo
eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si
renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza
fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel
Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad
abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali.
Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi
e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque
non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di
libertà. Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine
casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima
metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si
affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che
esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia,
disciplina. Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e
battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È
completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi
che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre
invernale. Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario
quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante,
non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il
fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali. Si sappia dunque,
una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è
già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul
corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà. Benito Mussolini, da
Gerarchia. SAGGIO DI DESANCTIS CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la
nuova edizione de IL PRINCIPE Testo integrale originale (che è comunque un
ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato) DE SANCTIS:
Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in luce l'Orlando
furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato
dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto, dei poeti
italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella
sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno
all'altro. Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisionomia
essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era
un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le confraternite e le
liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e
beffardo che vede nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel
Berni. Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario
delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a
Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la repubblica e
nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende,
esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini
e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve molto
il sostenere le torture, poiché tornarono i Medici. In quegli uffici e in
quelle lotte si raffermò le sue tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle
pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò sui fati dell'antica
Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che
l'Italia non potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta o
gran parte, sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a
Firenze, volesse pigliare l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi
servigi e trarlo di ozio e di miserie. All'ultimo, poco e male adoperato
dei Medici, finì la vita tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli
che il nome. Di lui fu scritto: Tanto nomini nullum par elogium. I suoi
Decennali, arida cronaca delle fatiche
d'Italia di dieci anni, scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino
d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini; gli altri suoi
capitoli dell'Occasione, delle Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i
suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o
canzoni, sono lavori letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel
tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi,
sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e spesso monco;
scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato
appaiono le vestigie di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e
di osservazione. Manca l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C è il critico:
non c è il poeta, non c è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e
fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è l'uomo che si osserva anche soffrendo,
e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo
poetare è un discorrere: Io spero, e lo sperar cresce il tormento; io piango, e
il pianger ciba il lasso core; io rido, e il rider mio non passa drento;
io ardo, e l'arsion non par di fuore; io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io
sento; ogni cosa mi dà nuovo dolore: così sperando piango, rido e
ardo, e paura ho di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue
osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle
sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce
d'un Cappon tra cento Galli,.....e qualche sentenza o concetto profondo, come
nel canto De' diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo
dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa
pensoso. Nel poeta si sente la scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in
prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in
quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche
alle confraternite, nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in
bocca ai suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna
in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli
artifici dello stile; ciò che si chiamava eleganza. Ma nel Principe, nei
Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle
Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria
di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai'
periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla
trovò la prosa italiana. E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito
incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana
in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini
e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo
generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a
Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro,
e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti
presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era
l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore
d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della
patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era
spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura
classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle
memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le
lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile
Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli
eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore
della libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più
acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per
la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al
Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna
religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi
passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e
rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e
solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e
l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli
consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide
perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo strumento
della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione, un'ultima
tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia
che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della sua
fede. Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto
sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e
petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e
circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del
patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e
di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu
pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi,
più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta, le
abitudini plebee e fuori della regola, come gli rimproverava il correttissimo
Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della sua grandezza,
disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi artificiali di farsi
via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai mediocri. Ma la sua
influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre
ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome
è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove
generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi. C è
un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che
ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo
libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e
scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un
codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i
mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa
dottrina. Molte difese si sono fatte di questo libro, ingegnosissime,
attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così
n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito. Questa
critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza
di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire
tutta intera l'immagine, e cercarvi i fondamenti della sua grandezza. Niccolò
Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel
movimento, che, nella sua spontaneità, dal Petrarca e dal Boccaccio si stende
sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa,
cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a
quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato
il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio
e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa
sei? dove vai? - L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e
guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare
tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che
si studiava di assimilarsi. Sovrastava per coltura, per industrie, per
ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato
intellettivo in Europa. Grave fu lo sgomento negl'italiani quando
ebbero gli stranieri in casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli,
confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo
pieno di ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e
spagnoli, l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti,
novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei campi i sonettisti
assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro
Aretino. Gli stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di
Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e
corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco
primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata dai suoi devastatori,
come la Grecia fu dai romani. Fra tanto fiore di civiltà e in tanta
apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e
vide la malattia dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi
diciamo decadenza egli disse
corruttela, e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto: la
corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica. La
forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del
linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di
Caterina, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in
tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta
come una salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza,
accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo principal centro la
corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di
quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione
Lutero e i suoi concittadini. Nondimeno il clero per abito tradizionale
tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale
non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il
pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era
armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del
Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun
italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui
allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E
nessuno poteva, non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della
coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei baccanali.
Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita seriamente. Pure
erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera
del concilio di Trento e la reazione cattolica. Rifare il medioevo e
ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una ristaurazione
religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e
purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle
moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a' loro
mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale
italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era
non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza,
vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di
ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo, concorse alla sua
demolizione. L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre
concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la letteratura nel medio evo,
de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole. Anche
nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento ironico quando parla del
medio evo, sopratutto allora che affetta maggior serietà. La misura del
linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è
visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è
della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua negazione non è
pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella
negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E
perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero, guelfismo e
ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono
demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un
nuovo edificio sociale e politico. Le idee che generarono quelle
istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza,
rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana.
Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a
questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da
lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la
ricostruzione. Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare.
Basti qui accennare la idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa
base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la
virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa
vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non
quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è
l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla
verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologico-etico, uscì
la Divina commedia e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento. Il
simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtà
terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E l'uomo e la
natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o nelle
universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo,
l'universale da cui esce il particolare. Tutto questo, forma e concetto, era
già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di
passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a
base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo,
reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti
visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo
della luna ariostesco. In teoria c' era una piena indifferenza, e in pratica una
piena licenza. Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa
licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è
straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di
erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di
enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo
spirito è tutto nella vita pratica. Nelle scienze naturali non sembra sia
molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle
stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta.
Niccolò non è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno
oltrepassa l'argomento e prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo concepisce,
non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non ha la faccia
tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che
opera e lavora intorno ad uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa
terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non
è contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua
serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena,
darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire
l'uomo nella sua serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia
in tutte le opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme
negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come
la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non
tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte
l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in
immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da
curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come
debbono essere. Quel dover essere, a cui tende il contenuto nel medio evo
e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all' essere
o, com'egli dice, alla verità
effettuale. Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e
come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e
dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli. Risecati tutti gli
elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria.
La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo,
la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel medio evo non c' era il
concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini
nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio:
l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due Soli
stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di
contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio
papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e
perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o
imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù
Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo.
E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo. C'era ancora il
papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro
potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e
l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di
territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di
papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per
riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di
quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli
avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un
sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia.
Combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i
gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima
cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge
largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale, nei
gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo. La
patria del Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua virtù e
non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di
tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de'
grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il Comune era destinato
anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo Comune
gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti a quelle potenti
agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano Stati o Nazioni. Già
Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che
assicurasse l' equilibrio tra i vari Stati e la mutua difesa, e che
pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone
addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo
d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non
è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca
è il giardino dell'impero; nell'utopia del Machiavelli è la patria, nazione autonoma e
indipendente. La patria del Machiavelli è una divinità, superiore
anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici
assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli
eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata
sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. Ragion di Stato e
salute pubblica erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo
diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo
in terra e si chiamava la patria, ed era
non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era suprema lex. Era
sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere
collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi
la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini
alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della
libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era lo
strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto
la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato
sull'arbitrio di uno solo. PATRIA era dove tutti concorrevano più o
meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi
repubblica. E dicevasi principato dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma,
repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo
assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.
Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e
analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate dalla
coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua
immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva
alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello
Stato. La patria assorbe anche una religione. Uno Stato non può vivere senza
una religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo
perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri,
ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel
popolo l'autorità della religione. Ma egli vuole una religione di
Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era
perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli
statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza
della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla
patria; e se le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come ostacoli, li
spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de'
buoni principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in quel fondo
ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei
un sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che vediamo le cose
di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla
teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e
'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce
dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua
legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di
subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto
divino. Il fondamento delle repubbliche è vox populi, il consenso di tutti. E
il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata
dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze
atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli
non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che
hanno disarmato il cielo ed effeminato
il mondo e che rendono l'uomo più atto
a sopportare le ingiurie che a
vendicarle. Agere et pati fortia romanum
est. Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire
che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e
contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani
inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza
della patria. La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa forza,
energia, che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi
imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri
riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come egli
dice, i buoni ordini e le buone armi,
che fanno gagliardi e liberi i popoli. Alla virtù premio è la gloria.
Patria, virtù, gloria, sono le tre parole sacre, la triplice
base di questo mondo. Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così
anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono
atomi perduti, numerus fruges consumere nati. E parimente ci sono nazioni
oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni
storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità o, come
dicevasi allora, nel genere umano, come
Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la
tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza
morale. Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando
le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si
fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre
nazioni. Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo
spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il
fato storico non è la provvidenza e non è la fortuna, ma la forza delle cose, determinata dalle leggi
dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed
immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento di fatti
fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti,
il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e
dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo
campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il
mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere
e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa
calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini. La grandezza
e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti
necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E
quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli
che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o
la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che
muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro,
diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o
diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la
guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai.
Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue
leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di
questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica,
determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del
genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò
che poi fu detto filosofia della storia.
Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non c è nel
Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con
chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la
storia. Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i
poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le
conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista,
ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e
fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non
parvero nuovi nè audaci, vedendo ivi formulato quello che in tutti era
sentimento vago. L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo:
anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e
imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è
severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica miracoli della provvidenza, come preparazione
all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i
buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalmente alla
virtù. Di lui è questo motto profondo: I
buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici
successi delle imprese. Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto
alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di
Dante c'è il misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il
nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito
moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi
tempi, dove non è cosa alcuna che gli
ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio, e non vi è osservanza di
religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione
bruttura. Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter
rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in
molte sentenze senti le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene
anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare
un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci
troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.
Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo
dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso
dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E'
in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de'
tempi moderni. Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa,
morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione,
è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la
caduta del mondo: è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge
l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo,
le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla
quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua,
la storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già
una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli
altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un
presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i
primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in
Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro,
dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della
Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla
religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due
reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la
profondità dell'ironia. La religione, ricondotta nella sua sfera
spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione,
come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa
nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della
nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la
santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il
Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno
severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è
la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la
vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più
simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O,
per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si
rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli
non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e,
quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal
suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base
l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore
della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso cogito, nel
quale s'inizia la scienza moderna. E' l'uomo emancipato dal mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la
sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il
Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce
autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di
etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è
la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata
con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti. Tutto il formolario
scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte
dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali,
sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni
generali, le maggiori del sillogismo, sono capovolte, e compaiono
in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In
luogo del sillogismo hai la serie, cioè a dire concatenazione di fatti, che
sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città
di Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre,
fu necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le
occupava era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun
risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite,
insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una
magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con
loro come se fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti
sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una
doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo
intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e
superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte
l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica
la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella
natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi
sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il
suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta
la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione:
sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche
pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo
alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti
intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra
nulla. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da
un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di
questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di
tutti, com'è quel ritirare le cose ai
loro princìpi, o quell'ironia de'
profeti disarmati, o gli uomini
si stuccano del bene, e del male si affliggono, o gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli.
Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un intero
arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie.
Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e
peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica
rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il
periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata
dalla sua maggiore e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi dimostrazione, se
la materia era intellettuale, o
descrizione, se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici
proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive e non dimostra; narra o
enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma
letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo nel secolo della
forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto perchè ha piena la
coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è
nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua
verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che
a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che la
sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se
possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è
il Nosce te ipsum, la conoscenza del
mondo nella sua realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il
moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati
all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto,
etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto
è: Nil admirari. Non si meraviglia e non
si appassiona, perchè comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede
e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le
circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i
periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via
più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non distrae. Ti dà
una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee
medie, tutti gli accidenti e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che non
curat de minimis, di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia
di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un
artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale
chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli
spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza,
ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere
gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli
oziosi. La sua semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è
magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel
nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina
prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze. La
prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna
coesione vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto.
Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura,
la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel
lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione
interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e
scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori.
Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti
gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o
frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo
vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a
Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che
qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti
riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel
tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di
fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la
principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche
l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza
della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale,
un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo.
I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti
petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico,
con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o
indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di
tutta l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu
considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che
dicevasi forma letteraria, nella piena
indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore.
Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del
Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è
lo scrittore, o c è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che
ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o
convenzione. Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il
letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è - una
produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro: cose e
impressioni, spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e
sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e
presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con
le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata
d'ironia, di malinconia, di indignazione, di dignità, ma principalmente lei
nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma
un marmo qua è là venato. E' la grande maniera di Dante che vive là
dentro. Parlando dei mutamenti introdotti dal medio evo nei nomi
delle cose e degli uomini, finisce così: Gli uomini ancora, di Cesari e Pompei,
Pieri, Giovanni e Mattei diventarono. Qui non c è che il marmo, la cosa ignuda;
ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da
quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei il
disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla
scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici,
e a quell'ultimo ed energico diventarono, che accenna a mutamenti non solo di
nomi ma di animi. Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta
pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto, emancipato da elementi
mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica
o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del
mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il
mondo è quello che è: un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi
proprie. Ciò che dicesi fato, non è altro che la logica, il risultato
necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie,
interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il
pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva
dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è
l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è
scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna intendere - dice Machiavelli.
L'anima del mondo dantesco è il cuore, l'anima del mondo machiavellico è il
cervello. Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è
essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato: non è
sentimento morale, ma è semplicemente forzao energia, la tempra dell'animo; e
Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè
di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il
cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello. Ora possiamo
comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto
forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso,
con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso
morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutti i
trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti
nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di
filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti
nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia
drammatica. L'autore non è sulla scena nè dietro la scena, ma è nella sua
camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua
apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto
in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. E' l'apatia
dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi
delle passioni. Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale.
L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena e ispirazione.
I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi
quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto,
comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne
spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti
lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel
dir cose che a' volgari sembrano paradossi. Quei pensieri sono come una
schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori a turbarvi l'ordine. Non
è una mente agitata nel calore della produzione, tra quel flutto
d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione, come avviene
talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di gioventù e di
freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò che non è
lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi, perplessità di
posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e
generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica
inflessibile. Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice che ti pare
superficiale. Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli uomini non sanno essere nè in tutto buoni nè in
tutto tristi, e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno
velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni,
superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò stanno
volentieri in sull'ambiguo, e scelgono le vie di mezzo, e seguono le
apparenze. C è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile, che lo
tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini
non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a un'altra, e prima si difendono
e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono
infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti. Quello che degli individui, si
può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia o classe. Nella società non
c' è in fondo che due sole classi: degli
abbienti e de' non abbienti, de'
ricchi e de' poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi
non ha. Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi.
E sono liberi quando hanno a fondamento l'
equalità. Perciò libertà non può essere dove sono gentiluomini
o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica non è
possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a
esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte
di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli
ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli
spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di
osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il carattere, cioè quelle forze che muovono
individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue osservazioni sono
frutto di una esperienza propria e immediata, e perciò freschissime e vive
anche oggi. Poiché il carattere umano ha questa base comune, che i
desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù di
conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le
oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di
condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la
virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa
grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo. Questo punto di
vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma
intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il
cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa e più osa. Quando la
tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa quello
che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni,
com'è proprio del volgo. Un'applicazione di questa implacabile logica è il
Principe. Machiavelli biasima i principi che per frode o per forza tolgono la
libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano
mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del
principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato.
L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare
buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza de' cittadini. Deve
mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i
gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma
studiandoli e comprendendoli: non ingannato da loro, ma ingannando loro. Come
stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le buone apparenze, e, non
volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti
e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente
semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il
principe miri a farsi temere più che amare. Sopratutto eviti di rendersi odioso
o spregevole. Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna, vi
troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi
legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico,
fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è, come natura,
sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma
secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare non è se quello che egli
fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i
mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla
forza come intelligenza. L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino
ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era
l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle
passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto
punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione
dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e
lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La
chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da elementi soprannaturali o
fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo eroe è il domatore
dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e
umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e
se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome
del genere umano.Vedasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti
che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è
senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità
morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel
non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il
terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per
libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la
debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che
pur bisogna andare. Quando Machiavelli scriveva queste cose,
l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con lo straniero in casa.
Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta.
Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti puzzava il barbaro dominio; ma
erano solo velleità. E si comprende come il Machiavelli miri
principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella sua radice.
Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario,
quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la
tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto
chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon
Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. anima sciocca, che per la sua incapacità
e la sua fiacchezza perdette la repubblica. Ma, se in Italia la tempra
era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base
della vita l'essere uomo, iniziando letà
virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico
dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza
incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco,
com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo: che si presentava
all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza
serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più
seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa.
C' erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa
degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici
non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire,
di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a
Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello
che aveva fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: fu naturale ferità di core. - Lo
spirito italiano dunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un
giuoco disordinato di forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su
questo principio virile: che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di
mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza
intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo. Ma in Italia c'era
l'intelligenza e non c'era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale
di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima ma
astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la
scienza per la scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non c'era più
uno scopo nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e
la tempra è fiacca, anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento
dello spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più
facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere
degli stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro
superiorità intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza
fisica e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci
tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a vivere e a morire per
quella. Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o,
com'egli diceva, corruttela: Qui - scrive - è virtù grande nelle membra, quando
la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi,
quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con
l'ingegno. Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava di forze morali, e
perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è
questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari nè le
fortezze nè i soldati, ma le forze morali o, com'egli dice, il patriottismo e
la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il
pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero
era il comento: La... religione, se nei principi della repubblica cristiana si
fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli
Stati e le repubbliche più unite e più felici assai ch'elle non sono. Nè si può
fare altra maggiore congettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come
quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione
nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse
l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza
dubbio o la rovina o il flagello. Certo, non è ufficio grato dire dolorose
verità al proprio paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la
grandezza: Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia
oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi. Per
lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo
abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in
Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' franchi, il regno de'
turchi, quello del soldano, e le geste della
setta saracina, e le virtù de'
popoli della Magna al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale,
passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù. E quando getta l'occhio
sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove
narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane, in tanto fiorire
degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli
sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la
malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio di uomo dabbene. Questo sentimento
del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale: Se la virtù che
allora regnava e il vizio che ora regna non fussero più chiari che il sole,
andrei col parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa così manifesta che
ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di
quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani, che questi miei
scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli...
Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che per la malignità de' tempi e
della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè,
essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.
Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante.
Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del
papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi:
Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per
averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non
avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano mutarsi... quando poi vennero i
tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi. Degli avventurieri De
Sanctis scrive: Il fine della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa
da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;...
tanto che essi hanno condotta Italia schiava e vituperata. Ne è meno severo
verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa
maravigliosa pittura Gentiluomini sono
chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni
abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare o di alcun'altra
necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni repubblica ed
in ogni provincia : ma più perniciosi sono quelli che, oltre alle predette
fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di
queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la
Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai stata
alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali generazioni d'uomini
sono nemici di ogni civiltà. Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il
fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio
che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema
ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto:
che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei molti. Un uomo, che con una sagacia
pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, poteva ben
dire, accennando a Savonarola: Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito
pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i
peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi
ch'io ho narrati. Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la
sfortuna. Anche allora dei mali d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli
scrive: La fortuna... dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a
resisterle, e quivi rivolge i suoi impeti dove sa che sono fatti gli argini e i
ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia, che è la sede di queste
variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza
argini e senza alcun riparo. Essendo l'Italia in quella corruttela,
Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o
Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda
l'opera di uno solo, a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i
romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non
vede altro scampo che nella dittatura: Cercando un principe la gloria del
mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla
in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo. Di Cesare -scrive un
giudizio originale rimasto celebre: Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria
di Cesare, sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo
laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza
dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli
scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli
scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è
più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che
quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano
Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano
il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il
mondo abbia con Cesare. Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la
forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo: Considerino
quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie:
l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende gloriosi; l'altra li fa
vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna
infamia. Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle
sue ferite, e ponga fine... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie
del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo
infistolite E' l'idea tradizionale del
redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il
veltro. Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di
Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove il
salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua
Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di essa era straniero,
barbaro, oltramontano. Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da
Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col
Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma. L'idea del
Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile
assegnarne le ragioni. Patria, libertà, Italia,
buoni ordini, buone armi, erano
parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e
di educazione. Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita
privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagli
interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia
di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva
quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia
degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando
la sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e
indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro poeti, signori del
mondo e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli stranieri ce n' era,
ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una
redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu
una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio, per giungere alla sua
attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e
poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile
cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva
l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, è
di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere
stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e
della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno
lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la
verità del futuro. Non è meraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza
del mondo, con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto illusioni, perchè
nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con
l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a
picca e a trie trac : E... nascono mille contese e
mille dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte un
quattrino, e siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano. Questo non
è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi: Rinvolto
in quella viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia
sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne
vergognasse. Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un
Dante, libertineggiare con lo spirito, fantasticare, abbandonalo
alle onde dell'immaginazione: Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel
mio scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di
fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente
entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto
amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui;
dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro
azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di
tempo alcuna noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi
sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. Quel trasferirsi in loro, quel libertineggiare sono frasi energiche di uno spirito
contemplativo, estatico, entusiastico. C'è una parentela tra Dante e
Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito
del Boccaccio, che si beffa della divina
commedia e cerca la commedia in questo
mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e
divinatrice. Ecco il principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! ---
a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua
immaginazione: Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero
l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe
l'ossequio? E finisce co' versi del Petrarca Virtù contro al Furore
prenderà l'arme, e fia il combatter corto : chè l'antico valore negl'italici
cuor non è ancor morto. Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la
bella immagine di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e
disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi
biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà,
ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti
ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo: è
l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia dell'osservazione, lo
chiariscono uomo del Risorgimento. De' principi ecclesiastici scrive:
Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano,
e gli Stati per essere indifesi non sono loro tolti, e i sudditi per non essere
governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo
quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiugne,
lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe
ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il discorrerne. In tanta riverenza di
parole, non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio
ironico che trovi nei contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per
l'originalità e vivacità dell' osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive:
Il francese ruberia con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e
goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di
quello che ti ruba mai ne vedi niente. Da questo profondo ed originale talento
di osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel
quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni. Dopo i primi
tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di
Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di Ferrara; il Cardinale di Bibbiena
scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con
molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli. Fu
pur troppo nuova cosa - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un
palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e
ciò che fece mai Menandro. Accompagnamento alla commedia era la musica, e
intermezzi o intromesse erano le moresche, balli mimici. Le decorazioni
magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un
tempio... tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile
a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con
istorie bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le
cornici d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di
marmo...: colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era
finta di marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In
cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un
bello atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi. L'Italia
si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura,
pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro
intromesse, una moresca di Iasòn o Giasone, un carro di Venere, un carro di
Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione:
La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella scena da un capo
ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima;
dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero che alcuni
pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A questi
s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro; e poi
seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini armati
all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una
fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare,
s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se
n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando
eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.
Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò
con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa
di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con
un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la
festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide;.....dice sempre il
Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad
ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi
Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un
facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone,
rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante
o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e
una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna,
generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il
furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il
cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e
Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come si
vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica,
lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche
novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e
fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di Lorenzo
de’MEDICI (si veda). E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I
caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti
più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili
a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che
quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la
loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta
nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie
dette d'intreccio, sullo stesso stampo
delle novelle. A prima vista, ti pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche
qui vi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani.
Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha
concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna
di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato.
L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è
il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo
istruito e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor
dottrina dì lui ma più pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più
profondo che non in Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo
dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera
Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli
antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto,
sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria,
risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina.
Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli
ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie? Scusatelo con
questo: che s'ingegna con questi van pensieri fare il suo tristo
tempo più soave, perchè altrove non ave dove voltare il viso;
chè gli è stato interciso mostrar con altre imprese altre virtue, non
sendo premio alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è
frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e
Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da
Bibbiena, assassinato di amore, e il
Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolanie l'altro
la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando; e non
udito e non curato, fece come gli altri: scrisse commedie, ed ebbe l'onore di
far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si
associa all'impresa Ligurio, un parassito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è
Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene
le fila in mano, e fa muovere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il
loro carattere, ciò che li muove. Ligurio è un essere destituito d'ogni senso
morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere
Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare mariuolo, che con un po' più di
spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo di uomo che
abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più
spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo
spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico
è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda. Un altro
associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai
ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto; ed ha aria di non udire,
non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo ai' suoni. Ma questo lato comico è
poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo: ciò che non guasta nulla,
essendo una parte secondaria. Colui, che è dietro la scena e fa ballare i suoi
figurini, è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di
nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se
stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di vista. Callimaco è un
innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è
riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i deliri. Non è amore
petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi,
rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico... Mi fo
di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte mi assalta tanto desio
d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo
tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si
sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi
abbarbagliano, il cervello mi gira. Ma queste sono figure secondarie.
L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che
diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al
letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra
il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a
metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta presunzione di
saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne
accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la
candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene c' è
una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e
moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione,
così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela
inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il
confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa
dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente
ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche
pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e
avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni
della figliuola risponde: - Io non ti so
dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà,
e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol
bene. - E non si parte mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: - Io t'ho detto e ridicoti che, se fra Timoteo
ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi. -
Il confessore sa perfettamente che madre è questa. -... E'... una bestia - dice
- e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie voglie.
Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo: meno
artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del
purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega redde poco. E lui
aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la
reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: Io dissi il matutino, lessi
una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta,
mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi
frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi se la devozione manca... Oh
quanto poco cervello è in questi miei frati! Il suo primo ingresso sulla scena
è pieno di significato: colto sul fatto in un dialogo con una sua penitente:
pittura di costumi profonda della sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perché
in chiesa vale più la sua mercanzia. E' di mediocre levatura, buono a uccellar
donne:...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e
tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire due parole,
e' se de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore. Conosce
bene i suoi polli: Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le
più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene,
ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele senza le
mosche. Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del
mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio,
che, promettendo larga lemosina, gli richiede che procuri un aborto, risponde:
- Sia col nome di Dio, si faccia ciò che
volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari,
da poter cominciare a far qualche bene. - Parla spesso solo, e sì fa il
suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile: Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da
ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia
segreta, perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io
non me ne pento. Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia Dio sa ch'io
non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio
officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di
Ligurio, che mi fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il
braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi
conforto che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura. Questo
è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua
industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa
del Vangelo e della storia sacra: Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non
credo mai esser viva domattina. E il frate risponde: Non dubitare, figliuola
mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol Raffaello, che
t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, chè si fa
sera. Rimanete in pace, padre - dice la madre; e la povera Lucrezia, che non è
ben persuasa, sospira Dio m'aiuti e la Nostra Donna ch'io non càpiti male. Quel
fatto il frate lo chiama un misterio, e
il mezzano è l' angiol Raffaello !
Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In
Italia faceva invece ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male
diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e
non vi è rimedio. Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria,
passatempo. Nel riso del Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che
oltrepassa la caricatura e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia
confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne
sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida,
senz'immaginazione e senza spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori
troppo crudi e cinici. Lo stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che
di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e
ritrattista. Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il
suo tempo. E' troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più
reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono,
non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza
sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non
possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella
pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia
piuttosto un anatomico che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini.
Nella sua immaginazione non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di
Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o
l'avventuriero o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso
osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle
emozioni e alle impressioni. La Mandragola è la base di tutta una nuova
letteratura. E' un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità,
come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si
nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso
dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta
conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come
una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle
forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il
soprannaturale, il meraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il
carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora
nell'arte. Si distinsero due specie di commedie : d'intrecci e di caratter.
Commedia d'intrecci fu detta dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione,
come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si
cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. Commedia di carattere fu detta dove l'azione è mezzo a mettere in
mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie
sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa
povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una
vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da
forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o
risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come
qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le
forme più allegre e più corpulente, fino della più volgare e cinica buffoneria,
come è il don Cuccù, e la palla di aloè. C'è lì tutto Machiavelli,
l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio. Di ogni
scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta: quella
per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua parte più grossolana, è la
sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così vitale che
è stata detta il machiavellismo. Anche oggi, quando uno straniero vuol
dire un complimento all'Italia, la chiama patria di Dante e di Savonarola, e
tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci figli di Machiavelli. Tra
il grande uomo e noi c'è il machiavellismo. E' una parola, ma una parola
consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse
l'orco. Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato
petrarchismo quello che in lui è un incidente
ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato machiavellismo quello che nella sua dottrina è accessorio e
relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così
è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno
interessante. E' tempo di rintegrare l'immagine. C'è nel Machiavelli una
logica formale e c'è un contenuto. La sua logica ha per base la serietà
dello scopo, ciò ch'egli chiama virtù :
Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. Essere
uomo significa marciare allo scopo. Ma nella loro marcia gli uomini errano
spesso, perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da
sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli
quelli che stimano le cose come le paiono e non come le sono, a quel modo che
fa la plebe. Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo
scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo,
aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo
buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo.
Ciò che riguarda Machiavelli è di vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le
radici alla pianta uomo, in
declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il
vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione. Si comprende che in questa
generalità c'è lezioni per tutti, per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso
libro sembra agli uni il codice dei tiranni e agli altri il codice degli uomini
liberi. Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il
resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma
da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e
de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di
questo nome se non sia anche esso una forza intelligente, coerenza di scopo e
di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente
all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio
e con mezzi precisi. Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del
Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: c'è un contenuto, che
abbiamo già delineato ne' tratti essenziali. La serietà della vita
terrestre col suo strumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo
principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione; col
suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale; col suo
organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina delle forze;
con l'equilibrio degl'interessi: ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente
nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del
genere umano, ed è di base la virtù o il carattere: altere et pati fortia. Il fondamento
scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza
e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così
perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica : nasce la
scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. E' il
programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno
realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siano dunque
alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte
dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo
! In questo momento che scrivo (1870), le campane suonano a distesa e
annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si
grida il viva all'unità d'Italia. Sia
gloria al Machiavelli ! Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle
sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale,
antifeudale, civile, moderno. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi
mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e
di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il
mondo è fatto così, la colpa non è mia. Ciò che è morto del Machiavelli
non e il sistema, è la sua esagerazione. La sua patria mi rassomiglia troppo
l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il
suo Stato non è contento di essere esso autonomo, ma
toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano
i dritti dell'uomo. La ragione di
Stato ebbe le sue forche, come
l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la salute pubblica le sue mannaie.
Fu Stato di guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe
la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da
quelle lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e
più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi,
vogliate chiamare machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si
trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni. Gloria del
Machiavelli è il suo programma; e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia
indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica
del mondo. Fu più facile il biasimarli che sceglierne altri. Dura lex, sed ita
lex. Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non
sarebbero più tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne
attendeva Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il
tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a
scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sono più
possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato
e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e
non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel
programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce,
presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. Ma
siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E non è con i
criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo
giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: -
Crudele è la logica della storia; ma quella è. Nel machiavellismo c'è una
parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo,
allo stato della coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che
riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà
radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè
fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si
sviluppa quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per base
l'intelligenza e il calcolo delle forze che muovono gli uomini. E' chiaro che
in queste forze c'è l'assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli,
comunissimo a tutti i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto
tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile. Il
machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo
considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua
natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua
grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base
sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi della
scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica
unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il
machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la
sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del
medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i
vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla
nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e
serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la
storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e
condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo
e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il
linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e
ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. E'
l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima
Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola
fiorentina e veneta; poi GALILEI (si veda), con la sua illustre coorte di
naturalisti. GUICCIARDINI (si veda), di pochi anni più giovane di Machiavelli e
di BUONARROTI (si eda), già non sembra della stessa generazione. Senti in lui
il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha
scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli.
Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà,
concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si
avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri,
e non metterebbe un dito a realizzarli. Tre cose - scrive - desidero
vedere innanzi alla mia morte; ma dubito che io viva molto, da non vederne
alcuna: uno vivere in una repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia
liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi
scellerati preti. Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle
nazioni, l'affrancamento del laicato: ecco il programma del Machiavelli,
divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di
tutta la parte civile europea. Si può credere che questi fossero i desidèri
anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso nella
pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che
scrive: Conoscere non è mettere in atto.
Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi,
ma fai come ti torna. La regola della vita è
l'interesse proprio, il tuo particulare. Il Guicciardini biasima l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de'
preti e il dominio temporale
ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre questa caterva di scellerati ai tempi debiti,
a restare o senza vizi o senza autorità
; ma per il suo particulare è
necessitato amare la grandezza de' pontefici e servire ai preti e al dominio
temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si
mescola, lui, non combatte con la
religione nè con le cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa
forza nella mente delli sciocchi. Ama la gloria e desidera di fare cose grandi
ed eccelse, ma a patto che non sia con suo danno o incomodità. Ama la patria,
e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè così ha a essere, ma per sè, nato in tempi di tanta infelicità. E' zelante
del ben pubblico, ma non s'ingolfa tanto
nello Stato da mettere in quello tutta
la sua fortuna. Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare
mutazioni, perchè mutano i visi delle
persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo, e, quando la vada
male, ti tocca la vita spregiata del
fuoruscito. Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che governano non ti abbiano in sospetto e
neppure ti pongano fra' malcontenti. Quelli che altrimenti fanno sono
uomini leggeri. Molti, è vero,
gridano libertà, ma in quasi tutti prepondera il rispetto
dell'interesse suo. Essendo il mondo fatto così, devi pigliare il mondo com'è,
e far in modo che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile.
Così fanno gli uomini savi. La
corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava
ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della
vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui,
ma c'è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini,
come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto
che sieno conciliabili col tuo
particulare, come dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla
virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne'
più prepondera l'interesse proprio, e mette sè francamente tra questi più, che
sono i savi ; gli altri li chiama pazzi,
come furono i fiorentini, che vollero
contro ogni ragione opporsi, quando i
savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta, e intende dell'assedio di
Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano
Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non
dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella
generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e
non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel
Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché
non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua
saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana
codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo
particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo
Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso,
morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla
scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo non
è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e
inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio del
Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con
l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: Quanto si
ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere una
città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo:
il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto
sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo. In questo
concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso
e non mostra la minima esitazione, e guarda con un'aria di superiorità sprezzante
gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o
altezza d'animo, ma per debolezza di
cervello, avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle
vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge
lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e
l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come dice il
Guicciardini, ingegno positivo. Perché
l'ingegno sia positivo si richiede la
prudenza naturale, la
dottrina che dà le regole,
l' esperienza che dà gli esempli, e il naturale buono, tale cioè che stia al reale e
non abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la discrezione
o il discernimento, perché è
grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e
assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi tutte hanno
distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano
scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione. Il vero libro della
vita è dunque il libro della discrezione,
a leggere il quale si richiede da natura
buono e perspicace occhio. La dottrina sola non basta, e non è bene stare al giudicio di quelli che scrivono, e
in ogni cosa volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a
mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di
corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di
dotti. L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che ai volgari
pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli
che scrivono le cose sopra natura o che non si vedono e dicono mille pazzie : perchè in effetti gli uomini sono al buio
delle cose, e questa indagine ha servito e serve più a esercitare gli ingegni
che a trovare la verità. Questa base intellettuale è quella medesima del
Machiavelli: l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo speculare
o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello
che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa; e ammette quello che il
Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il
mondo com'è, crede un illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe
di cavallo quando esso le ha di asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e
ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò
che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua
vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con
tutti, perchè gli uomini si riscontrano.
Stai con chi vince, perchè te ne viene
parte di lode e di premio. Abbi appetito della roba, perchè la ti dà
reputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, quando sia il caso
di simulare, più facilmente acquisti fede. Sii stretto nello spendere,
perchè più onore ti fa uno ducato che tu
hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi. Studia di parer buono, perchè il buon nome vale più che molte ricchezze.
Non meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i
buoni, credi poco e fidati
poco. Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con
qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un
codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza e sull'interesse
individuale. E' il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica,
intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e alle regole della
cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza, trovò un altro più
saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui
istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine
e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno
nobili, meno degni della posterità, perchè si riferivano al suo particolare.
Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il Guicciardini usò gli ozi a scrivere la
Storia d'Italia. Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più
importante che sia uscito da da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la
scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizi
rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti più
meravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura, come
di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commuove più di
nulla. Non ha simpatie o antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure
ha programmi o preconcetti intorno ai risultati generali dei fatti e alle sorti
del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi
entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con
quelle qualità che abbiamo notate e che in lui sono egregie: la prudenza
naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.
Meravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere
principi nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in ciascun
fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno
esser quello e non un altro; dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo
d'ingegno. Con queste disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena
che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha
comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si
dice il parere; e lo studio dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si
vede. Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la
loro preparazione: li vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e
vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi più
nobili. Ciò che l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la
loro azione sui fatti. Il motivo determinante è l'interesse, ed è sagacissimo
nell'indagine non meno degl'interessi privati che degl'interessi detti
pubblici, e sono interessi di re e di corti. Ma gl'interessi hanno la
loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più nobili, come la
gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si
vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni,
una specie di rettorica ad usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che
non guardano nel fondo e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e
gli eserciti vi stanno come strumenti, e i veri e principali attori sono pochi
uomini, che li muovono con la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini
loro. Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei
Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e
semplicità e perfetta evidenza che l'avvicina agli esempli più finiti della
prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi
due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non
è stato più raggiunto. Ma GUICCIARDINI (si veda), di un giudizio così sano
nell'andamento de' fatti umani, aveva de' preconcetti in letteratura: opinioni
ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come
per i letterati di quel tempo, la tradizione del parlare e del discorso
naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi
facesse allora per la prima volta le sue prove. Molti uomini mediocri,
quali il Casa e il Castiglione e il Salviati e lo Speroni, vi riescono con
minore difficoltà, come disciplinati ed educati a quella forma. La sua
chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con
quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici
diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue
intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo.
Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono rettorica le sue
circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze morali,
un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa solennità di tuono.
Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura
solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la
meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi
seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore. La Storia
d'Italia comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di
Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo
terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo
storico si può chiamare la tragedia
italiana, perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi
passa in potestà dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore
dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è
l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità
che colpiscono gl'individui: le arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali
della guerra. Avvolto fra tanti
atrocissimi accidenti, sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel
carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge. La
Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la
trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di
Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti
generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri
pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi
erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro
fisiologia, che li fa essere così o così. L'uomo vi appare come un essere
naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da
passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa
necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere
vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a questo
modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e
indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali.
Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più
interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua
attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che
l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi
interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come
riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò
chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha mal
calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica
non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di
macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti,
perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e
tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno. Il
Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si
direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gli individui, ma la
società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi
sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gli
interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo
trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare nelle
sue opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino
ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno
mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza
intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù
sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di
partenza nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512
quando ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da
antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e
veniva inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico
perchè tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al
servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva
riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle
vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi
scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva
iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa
col rogo l'avventura savonaroliana), ottenendo l'incarico di segretario della
seconda Cancelleria. Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul
piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di
acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di
quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e
della nostra indipendenza e lo scontro, sul nostro territorio, delle due nuove
potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò
numerose volte, tanto da conoscere molto bene la struttura di questo stato e da
poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del prestigio dei
Francesi e, insieme, le cause dei loro insuccessi. Ma non meno importanti
furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia, l'inquieto
spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI, che aspirava
alla creazione di un forte stato nell'Italia centrale e minacciava direttamente
e indirettamente Firenze. Presso il Valentino (così era chiamato il
Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell'ottobre del 1502 in
occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio fiorentino (
ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni potè trarre
argomento di ammirazione per l'energia, l'audacia, le capacità diplomatiche di
questo signore molto splendido e magnifico che diverrà poi quasi l'incarnazione
del suo principe. D'altra parte egli non fu solo testimone della fortuna del
Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue ambizioni, perchè, dopo
l'improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III, fu
inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere
all'elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua ultima ruina. In quella occasione, e in una
successiva legazione nel 1506, il Machiavelli potè anche rendersi conto del
temperamento del nuovo papa, dell'energia e del
furore che lo misero al centro
degli avvenimenti politici di quegli anni. Se si aggiunge che il 1507 il nostro
segretario si recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi per
oltre sei mesi ), che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto, alla
disfatta della maggiore potenza italiana, Venezia, e che, dal 1506 in poi,
negli intervalli fra una legazione e l'altra, fu incaricato di arruolare e
istruire un corpo di truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse
l'esperienza di Machiavelli. I problemi di fondo della politica europea
gli si erano così progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario
moderno, la necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione
italiana e della inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi
egli era già venuto elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del
modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto
da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i
popoli della Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del
denaio fatto in loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di
Firenze in armi; Discorso sopra l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto
delle cose della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il
Decennale secondo. E' del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli
vedendosi mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua
completa maturità e poteva guardare le cose dall' alto di una ricchissima
esperienza. Ma i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo
imprigionarono ( e lo torturarono pure ), sospettando che avesse partecipato
alla congiura del Boscoli, poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni, sino
al 1520, e infine gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un
parere a riguardo della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso
sopra il riformare lo stato di Firenze ), di narrare la storia della città ( di
qui le Istorie fiorentine ), di andare come ambasciatore presso la repubblica degli Zoccoli, cioè presso il
capitolo dei Frati minori di Carpi. Solo nel 1526 gli venne
affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori delle
mura, preposti alla difesa di Firenze. Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e
Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte.
Durante gli anni del suo ozio forzato, Machiavelli si ritira in una villa
presso San Casciano. Qui egli passava la giornata a caccia di uccelli, o nella
lettura dei poeti latini, o imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste,
il mugnaio, il beccaio, o infine standosene sulla porta dell'osteria e
scambiando impressioni e notizie coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo
studio e leggeva le antiche storie e interrogava gli antichi scrittori: e non
sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la
povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E' dalle
meditazioni che ispira questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi
passanti e i loro vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini
dell'antichità, che nascono quasi d'un sol getto le grandi opere
machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di LIVIO (si veda),
i dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castracani, La Mandragola.
Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è questo che fa
grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza più alta del
Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma
profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo - nei suoi
elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello
stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che lo
circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal presente.
Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche
quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si pongono sul piano
delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e così via), ma sono
problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una situazione
storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del sec. XVI
Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e distinta
dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero
machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto
alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al
capitolo del principe dedicato a coloro che per scelleranza sono venuti al
Principato con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione
del Valentino - ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi
delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i
principi debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il
Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la virtù
- sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di
energia e capacità - con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non
manifesta più dubbi. La politica ha alcune leggi che non coincidono
sempre con con quella della morale: essere buono può sovente procurare la ruina
di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso
può salvare uno stato. Di qui l'accusa di immoralità che gli venne presto
rivolta, e la formula del fine che giustifica i mezzi che gli viene attribuita.
In realtà Machiavelli si limita a costatare scientificamente le due sfere
diverse in cui agiscono politica e morale. Si rende conto con chiarezza
dell'autonomia di una rispetto all'altra, non ne individua il punto di
congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava: la realtà effettuale
italiana non suggeriva certo un discorso sulla morale. Per questo l'interesse
del Principe si accentra tutto, invece, sulla figura del principe nuovo come la
sola che possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi
italiana: anzi fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare.
Contraddizioni inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto
il problema della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di
quel periodo e i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento
dello stato, dei suoi ordinamenti migliori. Per la stessa ragione nei Discorsi
al popolo si dà un posto che non ha mai nel Principe, fino all'affermazione che
il popolo é più prudente, più stabile e
di migliore giudizio che un principe e
che se i principi sono superiori a'
popoli nello ordinare le leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini
nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate. Così
Machiavelli può arrivare a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle
concezioni politiche moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non
indebolirono Roma, ma le permisero di raggiungere ordinamenti sempre più
perfetti. Insomma nei Discorsi l' argomentazione é più distesa e distaccata e
può, quindi, abbracciare un campo più vasto anche se meno omogeneo. Così
Machiavelli può riprendere il discorso sulla religione non tanto considerandola
uno strumento del potere costituito, quanto un costume morale che regola i
rapporti civili fra i cittadini come individui privati e, di conseguenza, rende
più ordinati e stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato. Può riprendere
anche il discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi,
ripudiando in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e
sostenendo la necessità di uno stato con una larga base territoriale. Tale
collegamento alle cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si
rivelano pienamente nella prosa e nello
stile stesso del segretario fiorentino, in questo tipo nuovo e liberale di
prosa in cui la sintassi é già consapevole della sua libertà ed
individualità e il ragionamento a piramide degli scolastici cede il posto al ragionamento a catena della prosa scientifica moderna. Il lettore
ha costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare
a un laborioso processo di ricerca, irto di dubbi e di contraddizioni. La
prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna
agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso
; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore, cui si rivolge, di frequente,
con un tu perentorio e aggressivo, a farsi compagno e
sodale del suo autore, lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo. In
tal senso la prosa di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) é eminentemente
moderna. E quando d' improvviso il periodare serrato e incalzante del
segretario fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o
formule condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera, il lettore
ha la sensazione di assistere al germinare di un' intuizione nuova preparata e
resa possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale, si sente partecipe
della gioia della scoperta e, al tempo stesso, stupito della semplicità
rivoluzionario della medesima. Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà
mortificante, la ruina d' Italia, nelle
sue istituzioni comunali o signorili, nei costumi dei suoi principi, nell'
avvilimento del popolo. Di qui il pessimismo della sua intelligenza, quel
contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco, impastato
di bassi appetiti, di astuzie meschine, di stupidità e di ingordigia che sta al
fondo della Mandragola, il capolavoro del teatro del '500. Egli, però, ha
compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in
Europa, sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é
consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere
il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e
corrotta. Machiavelli non è un puro teorico, inteso a costruire
freddamente una teoria politica per così dire
in laboratorio : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con
la realtà storica, in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli
incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina, e mirano a loro volta ad
incidere in quella realtà, modificandola secondo determinate prospettive. Il
suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la
teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa. Alla base di tutta la
riflessione di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che
l' Italia contemporanea sta attraversando : una crisi politica, in quanto l'
Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le
maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e
cittadini deboli e instabili ; crisi militare, in quanto si fonda ancora su
milizie mercenarie e compagnie di ventura, anzichè su eserciti cittadini, che soli possono garantire la
fedeltà, l' ubbidienza, la serietà di impegno ; ma anche crisi morale, perchè
sono scomparsi, o comunque si sono molto affievoliti, tutti quei valori che
danno fondamento saldo ad un vivere civile, e che per Machiavelli sono
rappresentati esemplarmente dall' antica Roma, l' amore per la patria, il senso
civico, lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico, l' orgoglio e il senso
dell' onore, e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e
rinunciatario, che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio
mutevole della fortuna, senza reagire e senza lottare. Perciò, come hanno
dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi, gli Stati
italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire
satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio della
penisola. Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così straordinaria gravità de' tempi é un principe dalla straordinaria virtù
capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle
genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da
contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini. A questo obiettivo
storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di
Machiavelli, la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio
di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio
paese. Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano
porterebbe a travisarne completamente il senso. Tuttavia quel pensiero non
resta limitato a quel campo così contingente, poichè altrimenti non avrebbe la
forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella situazione
particolare, cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei
problemi di traumatica urgenza, Machiavelli elabora una teoria che aspira ad
avere una portata universale, a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e
tutti i luoghi. Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore,
quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere
uno straordinario valore letterario, ma poi la sua speculazione assume anche la
fisionomia di una vera teoria scientifica. Concordemente Machiavelli é
stato definito come il fondatore della moderna scienza politica: innanzitutto
egli determina nettamente il campo di questa scienza, distinguendolo da quello
di altre discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo, come l'
etica. Machiavelli, poi, rivendica vigorosamente l' autonomia del campo dell'
azione politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche, e l' agire
degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre
cioè, nell' analisi dell' operato di un principe, valutare esclusivamente se
esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica,
rafforzare e mantenere lo Stato, garantire il bene dei cittadini. Ogni altro
criterio, se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele, se sia
stato fedele o abbia mancato alla parola data, non é pertinente alla
valutazione politica del suo operato. E' una teoria di sconvolgente novità,
veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale.
Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella
politica, non di delineare degli Stati ideali
che non si sono mai visti essere in vero. Proclama infatti di voler
andar dietro alla verità effettuale della cosa anzichè all'immaginazione di
essa, proprio perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione
teorica, ma scrivere un' opera utile a
chi la intenda, fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilità
alla politica reale e di sicura efficacia. Oltre al campo autonomo su cui
applica la nuova scienza, Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo. Esso ha
il suo principio fondamentale nell' aderenza alla verità effettuale: proprio perchè vuole agire
sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica
parte sempre dall' indagine sulla realtà concreta, empiricamente verificabile,
mai da assiomi universali e astratti. Solo mettendo insieme tutte le varie
esperienze si può poi giungere a costruire principi generali. L' esperienza per
Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta, ricavata dalla
partecipazione personale alle vicende presenti, e quella ricavata dalla lettura
degli autori antichi. Machiavelli le definisce ( nella dedica del
Principe ) rispettivamente esperienza
delle cose moderne e lezione delle antique. In realtà si tratta
solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un
politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa, cambia
solo il veicolo della trasmissione dei dati, dell' informazione su cui lavorare,
ma il contenuto é lo stesso. Alla base di questo modo di accostarsi alla storia
vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l'
uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi
comportamenti non variino nel tempo, come non variano il corso del sole e delle
stelle. Per questo ha fiducia nel fatto che, studiando il comportamento
umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta, si possa arrivare a
formulare delle vere e proprie leggi di validità universale. Proprio per questo
la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la
prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi
può essere di modello. Per lui gl’uomini
camminano sempre per vie battute da altri, perciò propone il principio
tipicamente rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi
tempi l' imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative,
nella medicina, nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella
politica. Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di
Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico, che sappia
individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi
sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica. Il punto di partenza
per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell'
uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne
teorizza filosoficamente le cause, non indaga se lo sia per natura o in
conseguenza ad una colpa originariamente commessa, ma si limita a constatare
empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà. Gli uomini
sono ingrati, volubili, simulatori e
dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e dimenticano più facilmente l' uccisione del
padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse
materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili. Tra tanti
uomini malvagi il principe non deve nè può
fare in tutte le parti la professione di buono perchè andrebbe incontro alla rovina : deve
anche sapere essere non buono laddove lo richiedano le necessità dello
Stato. Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro,
ossia un essere metà uomo e metà animale, deve cioè essere umano o feroce come
una bestia a seconda delle situazioni. Tuttavia Machiavelli sa bene
come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un
principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente
é malvagio in politica diventa buono, perchè uccide per difendere lo Stato e le
sue istituzioni ; allo stesso modo i buoni moralmente sarebbero cattivi politicamente perchè non uccidendo e non
compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato. Machiavelli quindi non é
il fondatore di una nuova morale, anzi, moralmente parlando é un
tradizionalista e considera cattivo chi uccide o non mantiene la parola data ;
egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su
altri criteri, non il bene o il male, ma l' utile o il danno politico. E'
interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe
é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene, in favore dello Stato ; tiranno,
invece, é chi li usa senza che ci sia necessità. E' solo lo Stato che può
costituire un rimedio alla malvagità dell' uomo, al suo egoismo che disgregherebbe
ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle
altre. Per quel che riguarda il rapporto con la religione, a Machiavelli
non interessa nella sua prospettiva concettuale, come contenuto di verità, nè
tanto meno nella sua dimensione spirituale, come garanzia di salvezza, ma solo
ed esclusivamente come instrumentum
regni, ossia come strumento di governo. La religione, in quanto fede in certi
principi comuni, obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere
la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi
degli antichi Romani, secondo Machiavelli. Tuttavia nei Discorsi Machiavelli
muove anche un biasimo alla religione, accusandola di essere spesso stata
colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati, di far sì che essi
svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo. La forma di governo
che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella repubblicana,
che argina e disciplina le forze anarchiche dell' uomo. Il principato é per
Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria, indispensabile solo in certi
momenti, come quello che l' Italia sta vivendo ai suoi tempi, per costruire uno
Stato sufficientemente saldo. La forma repubblicana é la migliore perchè non si
fonda su un solo uomo, ma ha istituzioni stabili e durature. Dall' esilio
dell' Albergaccio, Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto
un opuscolo de principatibus, in cui si
trattava che cosa é principato, di quale
spetie sono, come e' si mantengono, perchè e' si perdono. L' indicazione fissa
il momento in cui l' opera può dirsi compiuta, ma lascia aperti altri problemi
di datazione : in quale periodo sia stata composta, se sia stata scritta
unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano
ai Discorsi sopra la prima deca di LIVIO (si veda). Oggi gli studiosi tendono a
collocare la composizione in una stesura di getto, mentre si ritiene che
posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo de' MEDICI (si veda) e
probabilmente anche il capitolo finale che, nel suo carattere di appassionata
esortazione a liberare l' Italia dai
barbari, sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto
del trattato. Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la
stesura di tale opera sia iniziata precedentemente e sia stata interrotta nel
luglio per far posto alla composizione del trattatello, che rispondeva a
bisogni di maggiore urgenza, agganciandosi direttamente ai problemi attuali
della situazione italiana. Il principe é un' operetta molto breve, scritta
in forma concisa e incalzante, ma densissima di pensiero. Si articola in 26
capitoli, di lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino come è usanza
dell' epoca. La materia é divisa in diverse sezioni. Esamina i vari tipi di
principato e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di
mantenerlo, conferendogli forza e stabilità. Machiavelli distingue tra
principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi
ultimi a loro volta possono essere misti, aggiunti come membri allo Stato
ereditario di un principe o del tutto nuovi; a loro volta questi possono essere
conquistati con la virtù e con armi proprie, oppure basandosi sulla fortuna e
su armi altrui ( capitolo VII, in cui si propone come esempio il duca Valentino
). Tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze, e qui
Machiavelli distingue tra la crudeltà
bene e male usata : la prima é
quella impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella
maggiore utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che
cresce con il tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio
del tiranno. Machiavelli affronta il principato civile, in cui cioè il principe riceve potere
dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei
principati e nell' XI si tratta dei principati ecclesiastici, in cui il potere
é detenuto dall' autorità religiosa, come nel caso dello Stato della Chiesa. I
capitoli XII - XIV sono dedicati al problema delle milizie : Machiavelli
giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari ( cosa che per altro
aveva fatto già Petrarca ), abituale nell' Italia del tempo, perchè essi
combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle
cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte
subite nelle recenti guerre ; di conseguenza, per lui, la forza di uno Stato
consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto
dagli stessi cittadini in armi, che combattano per difendere i loro averi e la
loro vita stessa. Machiavelli tratta dei modi di comportarsi del principe con i
sudditi e con gli amici. E' questa la parte in cui il rovesciamento degli
schemi della trattatistica precedente é più radicale e polemico, in cui
Machiavelli, anzichè esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero
auspicabili in un principe va dietro alla
verità effettuale della cosa :
poichè gli uomini sono malvagi, avidi, mancatori della fede e violenti, il
principe che é costretto ad agire tra loro non può seguire in tutto le leggi
morali, ma deve imparare anche ad essere
non buono, dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al fine, che é
vincere e mantenere lo Stato: i mezzi se vincerà saranno sempre considerati
onorevoli. Sono questi i capitoli che hanno immediatamente suscitato più
scalpore, ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l' esecrazione e la
condanna. Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani, nella
crisi (il crollo della libertà italiana ) hanno perso i loro Stati. La causa
per lo scrittore é essenzialmente l'
ignavia dei principi, che nei
tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo
Savonarola aveva avuto l' intuizione ) e porvi i necessari ripari. Di qui
scaturisce naturalmente l' argomento, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la
capacità, che deve essere propria del politico, di porre argini alle variazioni
della fortuna, paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le
campagne e devasta i raccolti e gli abitati. L' ultimo capitolo é, come
accennato, un' appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed
energico, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai
barbari. (il testo sopra è di F. - visitate il suo sito di filosofia ).filosofico. Pellegrino.
Mangieri IL PENSIERO POLITICO DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA
LETTA ANDIAMO ALLORA DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE IL
PRINCIPE. STORIOLOGIA. Grice: When I created Deutero-Esperanto, I felt like the
principato senza il principe! --. Michele Ciliberto. Keywords: il principe, intelletuale
fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico
europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il
libero, despotismo, immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il
pazzo, il ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la tradizione
italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia rappresentativa,
concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla rappresentazione. Il
primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il barone della camera
alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di cricket rippresenta
Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non puo fare: gioccare
cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool
Library. Ciliberto.
Luigi
Speranza -- Grice e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Crotone). According to
Giamblico. C. seeks to join the circle of Pythagoras. He is rejected because
Pythagoras sees in him a tendency to violence and tyranny. In response, C. leads
the people of Crotone in a campaign against the sect -- as a result of which
Pythagoras has to decamp to Metaponto. “At least he left with his judgment
vindicated – Pythagoras did.” Archita said. Cilone.
Luigi Speranza -- Grice e Cimatti:
l’implicatura conversazinale del pooh-pooh and other products -- il
non-naturale -- fondamenti naturali della comunicazione – scuola di Roma –
filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice:
“I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes
seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on
animality!” Si
laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di
Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale
e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà
nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia
semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano
gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali.
Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per
una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita.
Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la
parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet, Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la
morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni”
(Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente
comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che
verrà. Biopolitica per Homo sapiens,, ombre corte, Filosofia della
psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia
dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A
come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio
e pulsione di morte, Quodlibet);
Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot,
La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per
una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il
linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata);
“La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto,
l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet te di distinguere anche tra il
linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per
altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione di "voce"
(phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che
un suono può essere definito una "voce" quando è emesso da un essere
animato ed è dotato di significato -- semantikos. Ora, un suono emesso da un
animale non umano, per quanto definito psophos (''rumore" – cf. gemito,
riso, pianto), ha tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li
distingue dalla voce emessa da un uomo sono due fattori: non è “convenzionale” --
e di conseguenza non può essere né simbolo né nome -- ma è "per na
tura" (De int.); ed è “a-grammatos”, cioè "inarticolabile" o
"non combinabile" (Pot.). La nozione di combinabilità, del resto,
come mostra Morpurgo-Tagliabue, è al centro stesso del carattere di semanticità
del linguaggio umano, i cui suoni semplici -- adiafretoi,
"invisibili" -- possono articolarsi in unità più grandi dotate di
significato. L’animale non umano, invece, emette solo un suono indivisibile, ma
non combinabili (Pot). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del
linguaggio umano in contrapposizione al suono emesso dall’animale non umano,
attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi
indivisibili combinabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di
significato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi
indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl)
qualcosa - non simboli - non nomi. Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità del suono emesso dall’animale non umano è espresse dal verbo
dlofìsi (''rivelano", De int.), fatto che conferma l'idea che per Aristotele,
quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del suono da un animale,
torna di nuovo in primo piano il carattere SEMIOTICO – SEMANTICO d'una
espressione. Il suono dell’animale è SINTOMO che rivela la loro causa. IDel
resto, l'opposizione convenzionale/naturale permette di distinguere anche tra
il linguaggio umano e il suono (vox, Grice’s ‘sound’, ‘groan’) emesso dall’animale,
questo ultimo essendo, per altro, ugualmente vocale (vox, vocatum, ‘sound’ –
the characterization of a product, groan) e interpretabile. Già la nozione di
"voce" (phone, vox – cf. Grice’s ‘sound’ ‘characterisation of a
product’, groan) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si
dice che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice – ‘I shall use utterance to include
the characterization of a product (e.g. a sound)] può essere definito una
"voce" [phone, vox] quando: (i) sia emesso da un essere animato
(II); (ii) sia dotato di significato (semantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, un
suono emesso da un animale, per quanto definito psophos (''rumore"), ha
tuttavia le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalls voce
emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale (e di
conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per natura" phusei
(De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili"
o "non combinabili" (Poet.). La nozione di "combinabilità",
del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e sgg.), è al centro stesso del
carattere di semanticità del linguaggio umano, il cui suono (‘sound’) semplice
(“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi in unità più grandi dotate di
significato. L’animale, invece, emette solo un suono (Grice’s ‘sound’) in-divisibili,
ma non combinabili (Poet.). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri
di una lingua come il inglese linguaggio umano in contrapposizione al
repertorio di suoni emessi da un animali, attraverso uno schema. Lnguaggio
umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per convenzione, or decisione. II. Formato
di questo o quello elemento in-divisibile ma combinabile e questo o quello elemento
divisibili – fonema, lettere (cfr. Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning,
word-meaning – below the word – meaning), di questo o quello elemento dotato di
significato - simbolo – nome. Questo o quello suono di questo o quello animale:
I. per natura. II. Elemento in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento
che rivela o manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve
rilevare, tra l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è
espressa dal verbo delofìsi (''rivelare", De int., 16 a, 28), fatto che
conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la
decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio
comunicativo di un animale, torna di nuovo in primo piano il carattere
semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo
o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima. The Bow-Wow Theory. According to the bow-bow theory theory, language
began when our ancestors started imitating the natural sounds around them. The
first speech was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash,
cuckoo, and bang. What's wrong with this theory? Relatively
few words are onomatopoeic, and these words vary from one language to another.
For instance, a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and
wang, wang in China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin,
and not all are derived from natural sounds. The Ding-Dong
Theory The ding-dong theory, favoured by Plato and Pythagoras, maintains
that speech arose in response to the essential qualities of objects in the
environment. The original sounds people made were supposedly in harmony with
the world around them. What's wrong with this theory? Apart from
some rare instances of sound symbolism, there is no persuasive evidence, in any
language, of an innate connection between sound and meaning. The La-La
Theory The Danish linguist Jespersen put forward the la-la theory. He suggests
that language may have developed from sounds associated with love, play, and
(especially) song. What's wrong with this theory? As Crystal notes
in "How Language Works" (Penguin, 2005), this theory still fails to
account for the gap between the emotional and the rational aspects of speech
expression. The pooh-pooh theory holds that speech begins with an interjection
– a spontaneous cry or GROAN of (naturally meaning) pain ("Ouch!"),
surprise ("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba
do!"). What's wrong with this theory? No language contains
very many interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of
breath, and other noises which are used in this way bear little relationship to
the vowels and consonants found in phonology." The Yo-He-Ho
Theory According to the yo-he-ho theory, language evolves from the grunt,
the groan, and a snort evoked by heavy physical labour. What's wrong with
this theory? Though this notion may account for some of the rhythmic
features of the language, it doesn't go very far in explaining where words come
from. Wikipedia
Ricerca Origine del linguaggio umano come, dove, quando e perché è nato il
linguaggio Lingua Segui Modifica L'origine del linguaggio umano è un argomento
che ha attratto una considerevole attenzione nel corso della storia dell'uomo.
L'uso della lingua è uno dei tratti più cospicui che distingue l'Homo sapiens
da altre specie. A differenza della scrittura, l'oralità non lascia tracce
evidenti della sua natura o della sua stessa esistenza, perciò, i linguisti
devono ricorrere a metodi indiretti per decifrare le sue origini.
Secondo la Genesi, la grande varietà di lingue umane si originò dalla
Torre di Babele con la confusione delle lingue (immagine dalla Bibbia
illustrata di Gustave Doré). I linguisti si trovano d'accordo che non ci sono
lingue primitive esistenti, e che tutte le popolazioni umane moderne usano
lingue di simile complessità[senza fonte]. Mentre le lingue esistenti si
differenziano nei termini della grandezza e dei temi del proprio lessico, tutte
possiedono la grammatica e la sintassi necessarie, e possono inventare,
tradurre e prendere in prestito il vocabolario necessario per esprimere
l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono esprimere. Tutti gli esseri
umani possiedono abilità linguistiche simili e relative strutture biologiche
preposte innate, ma nessun bambino nasce con una predisposizione biologica ad
imparare una data lingua invece di un'altra[3]. Le lingue umane
potrebbero essere emerse con la transizione al comportamento umano moderno
circa 164 000 anni fa (Paleolitico superiore). Una supposizione comune è che il
comportamento umano moderno e l'emergere della lingua siano coincisi e fossero
dipendenti l'uno dall'altro, mentre altri spostano indietro nel tempo lo
sviluppo della lingua a circa 200 000 anni fa, al momento in cui apparvero le
prime forme di Homo sapiens arcaico (Paleolitico medio), o addirittura al
Paleolitico inferiore, a circa 500 000 anni fa. Tale questione dipende dal
punto di vista sulle abilità comunicative dell'Homo neanderthalensis. In tutti
i casi, è necessario presumere un lungo stadio di pre-lingua, tra le forme di
comunicazione dei primati superiori e la lingua umana completamente sviluppata.
L’origine del linguaggio negli studi di Schelling e GrimmModifica Il problema
dell’origine del linguaggio fu una tematica fondamentale del Romanticismo.
Schelling (filosofo dell’idealismo) e J. Grimm (glottologo, grammatico e autore
di fiabe insieme al fratello) sono due autori che hanno due posizioni
differenti sull’origine del linguaggio. Schelling, nel suo testo, parla di tre
ipotesi fondamentali: Ipotesi teologica, secondo la quale il linguaggio
ha origine divina e viene tramandato di generazione in generazione. Ipotesi
istinto-naturalistica, secondo la quale il linguaggio ha avuto origine grazie
all’istinto, che è una qualità innata dell’uomo. Ipotesi secondo la quale
l’uomo ha imparato a parlare progressivamente: partendo, cioè, dall’urlo e dai
gesti, l’uomo è andato a mano a mano costruendo il linguaggio. Il testo di
Schelling rimane però indefinito, non arriva cioè ad una conclusione. Il testo
di Grimm[5] è stato scritto in contrapposizione al testo di Schelling: egli
parte nell’analizzare l’ipotesi teologica, suddividendola in due sottoipotesi,
una secondo cui il linguaggio è stato creato insieme alla creazione dell’uomo
ed una quella secondo la quale il linguaggio è successivo alla creazione
dell’uomo. Entrambe fanno comunque giungere alla conclusione che la lingua
appartiene solo alla specie umana e che il linguaggio sia una conquista
dell’uomo. La lingua è una conseguenza del pensiero ed inizia nei bambini
insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il linguaggio nella sua evoluzione,
suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è quello delle prime produzioni
vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio vi è il passaggio dai
monosillabi a parole composte da più sillabe e la composizione del linguaggio
non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è in grado di esprimere
pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel terzo stadio, migliora
sempre di più e si possono esprimere liberamente i propri pensieri[7]. Grimm
conclude affermando la grande complessità del tema riguardo all’origine del
linguaggio e riconosce che il linguaggio è una proprietà fondamentale dell’uomo
strettamente connessa con il pensiero. Parola e linguaModifica I
linguisti fanno distinzione tra il parlare, il discorso e la lingua. Il parlare
comporta la produzione di suoni dall'apparato fonatorio. I volatili parlanti,
come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare parole umane. Ad ogni modo,
quest'abilità di imitare i suoni umani è molto diversa dall'acquisizione di una
sintassi. D'altro canto, i sordi generalmente non usano il discorso parlato, ma
sono in grado di comunicare usando la lingua dei segni, che viene considerata
una lingua moderna, complessa e pienamente sviluppata. Ciò implica che
l'evoluzione delle lingue umane moderne richiede sia lo sviluppo dell'apparato
anatomico per produrre foni sia specifici mutamenti neurologici necessari a
sostenere la lingua stessa. Comunicazione animaleModifica Sebbene tutti
gli animali usino una qualche forma di comunicazione, i ricercatori
generalmente non classificano questa comunicazione come una lingua. Ad ogni
modo, il sistema di comunicazione di alcune specie animali condivide alcune
caratteristiche con le lingue umane. I delfini, ad esempio, sono in grado di
comunicare come gli esseri umani, chiamandosi per nome. Linguaggi dei
primatiModifica Non si sa molto a proposito della comunicazione tra i primati
superiori nell'ambiente naturale. La struttura anatomica della loro laringe non
permette alle scimmie, come ai bambini, di produrre la maggior parte dei suoni
di cui sono capaci gli esseri umani. In cattività è stata insegnata alle
scimmie una rudimentale lingua dei segni e l'uso dei lessigrammi — cioè simboli
astratti corrispondenti a una parola del vocabolario - e l'uso delle tastiere.
Alcune scimmie, come Kanzi, sono riuscite ad imparare ed usare correttamente
centinaia di lessigrammi. Le aree di Broca e di Wernicke nel cervello dei
primati sono responsabili del controllo dei muscoli della faccia, della lingua,
della bocca e della laringe, così come di riconoscere i suoni. I primati sono
noti per le loro "grida vocali", che vengono generate dai circuiti
neurali presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema limbico.
Nell'ambiente naturale, la comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la
più studiata[9]. Esse sono note per la produzione di dieci differenti
vocalizzazioni. Molte di queste vengono utilizzate per avvertire gli altri
membri del gruppo di predatori in avvicinamento ed includono un "grido del
leopardo", un "grido del serpente" ed un "grido dell'aquila".
Ogni allarme mette in moto una diversa strategia difensiva. Gli scienziati sono
stati in grado di ottenere risposte prevedibili dalle scimmie usando
altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre vocalizzazioni vengono
probabilmente usate per l'identificazione. Se un cucciolo di scimmia grida, la
madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie si girano verso la madre per
osservare quel che essa fa[10]. Antichi ominidiModifica C'è una
speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi.
Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni
di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un
tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe
relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei
suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri
studiosi invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i
neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di
suoni delle lingue dell'Homo sapiens. Un altro punto di vista considera invece
irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della parola. Una
proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista Derek Bickerton, è una
forma di comunicazione primitiva, a cui manca: una sintassi pienamente
sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un vocabolario chiuso (cioè
non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio nell'evoluzione del
linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati superiori e le lingue umane
moderne pienamente sviluppate. Le caratteristiche anatomiche come il
tratto vocale a forma di L erano in continua evoluzione, piuttosto che apparire
improvvisamente[13]. Anche se i primi ominidi utilizzavano una rozza tecnologia
basata sulla pietra, era già più avanzata di quella degli scimpanzé e dei
gorilla. Da ciò si deduce che probabilmente gli esseri umani possedessero già
una forma di comunicazione più sviluppata degli altri primati. Neanderthaliani La
scoperta nel 2007 di un osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea
che i neanderthaliani potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni
simili a quelli moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il
canale ipoglosso degli ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli
umani moderni. Il canale ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si
ritiene che la sua dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che
vivevano prima di 300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli
di uno scimpanzé che a quelli umani. Comunque, anche se i neanderthaliani
fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio
che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò
il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra.
Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli
attrezzi in pietra cambiò molto poco. Klein, che ha lavorato intensamente sugli
antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli antichi esseri umani
come impossibile da separare in categorie basate sulla loro funzione ed afferma
che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso interesse per la forma finale
dei propri attrezzi. Klein sostiene che il cervello dei neanderthaliani
probabilmente non aveva raggiunto la complessità necessaria per una lingua
articolata, anche se l'apparato fisico per la produzione dei fonemi era già ben
sviluppato. La questione sul livello di sofisticatezza culturale e tecnologica
dei neanderthaliani rimane tutt'oggi controversa. Homo sapiens. I primi
esseri umani anatomicamente di tipo moderno apparvero per la prima volta nei
reperti fossili di 195 000 anni fa in Etiopia. Nonostante fossero
anatomicamente di stampo moderno, però, i ritrovamenti archeologici disponibili
non indicano che si comportassero diversamente dagli ominidi che li avevano
preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi in pietra grezza e cacciavano
meno efficientemente degli esseri umani che li avrebbero seguiti[20]. Ad ogni
modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa meridionale, ci sono prove di
un comportamento più sofisticato e, da quel momento, si ritiene si sia
sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel punto, una vita di tipo
costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata rimanda evidentemente ad un
consumo di molluschi. Questo stile di vita può essere dovuto a pressioni
climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione. Gli attrezzi in pietra del
periodo mostrano caratteristiche regolari che furono riprodotte o duplicate con
più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi fatti di materiale osseo e
corna. Questi artefatti possono essere facilmente suddivisi in base alla
funzione, come punte per scalfire, attrezzi di incisione, coltelli e attrezzi
per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole o ad altri membri del proprio
gruppo come produrre tali strumenti dettagliati sarebbe stato difficile senza
l'aiuto della lingua. Il passo più grande nell'evoluzione del linguaggio
fu probabilmente il passaggio da una comunicazione primitiva di tipo pidgin ad
un linguaggio di tipo creolo, con la grammatica e la sintassi di una lingua
moderna[9]. Molti studiosi ritengono che questo passaggio può essere stato
compiuto solamente insieme ad alcuni cambiamenti biologici nel cervello, come
una mutazione. È stato ipotizzato che un gene come il FOXP2 potrebbe aver
subito una mutazione che permise agli esseri umani di comunicare. Le prove
suggeriscono che questo cambiamento ebbe luogo in un punto imprecisato
dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai 50 000 anni fa, cosa che
apportò cambiamenti significativi nei resti fossili[9]. Non è ancora chiaro se
le lingue si svilupparono gradualmente in migliaia di anni o apparvero
relativamente all'improvviso. Le aree di Broca e di Wernicke apparvero
anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi cognitivi e percettivi,
la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli stessi percorsi neurali ed
il sistema limbico degli altri primati controllano i suoni non verbali anche
negli esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che suggerisce che il centro
del linguaggio umano sia una modifica dei percorsi neurali comune a
"tutti" i primati. Questa modifica e le abilità per la comunicazione
linguistica sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò implica che
l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato dopo che il
ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri primati. In tal modo,
il linguaggio parlato è una modificazione della laringe unica degli esseri
umani. Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa"
("Uscendo dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"),
circa 50 000 anni fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette
nella colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe,
che non erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni
scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di
allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il
linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone
sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a
lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua,
attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri
umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente
a che fare con le condizioni climatiche. MonogenesiModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La
teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una
singola protolingua (la "lingua primigenia" o protolingua mondiale)
dalla quale si sarebbero poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri
umani. Tutta la popolazione umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini,
possiede delle lingue. Questo include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o
gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000
anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue
moderne si siano evolute indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi
considerata non plausibile dai sostenitori della monogenesi. Tutti gli
esseri umani odierni discendono da una Eva mitocondriale, una donna che si
ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la
possibilità che la lingua primigenia possa essere datata approssimativamente a
quel periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a collo di bottiglia sulla
popolazione umana, soprattutto la teoria della catastrofe di Toba, la quale
ipotizza che la popolazione umana ad un certo punto, circa 70 000 anni fa, si
sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale
effetto a collo di bottiglia sarebbe un eccellente candidato per il momento
della protolingua mondiale, anche se ciò non implica che sia anche il momento
in cui sia emerso il linguaggio parlato come capacità. Alcuni sostenitori
di tale ipotesi, come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua
primigenia. Ad ogni modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi
tentativi ed i metodi utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per
varie ragioni. Scenari dell'evoluzione della linguaModifica Teoria dei
gestiModifica La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano parlato si
sia sviluppato dai gesti che venivano usati per la semplice
comunicazione. Due tipi di prove sostengono questa teoria. Il
linguaggio dei gesti e quello vocale dipendono da sistemi neurali simili. Le
regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della
bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. I primati usano
gesti o simboli per una forma primitiva di comunicazione, ed alcuni di questi
gesti assomigliano a quelli umani, come la "posizione di richiesta",
con le mani allungate in fuori, che gli esseri umani hanno in comune con gli
scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un considerevole supporto per l'idea che il
linguaggio verbale e quello dei segni dipendano da strutture neurali simili.
Pazienti che usano la lingua dei segni e che hanno sofferto di una lesione
all'emisfero cerebrale sinistro, hanno dimostrato gli stessi disordini
linguistici nella lingua dei segni dei pazienti capaci di parlare.[31] Altri
ricercatori hanno rilevato che la stessa regione sinistra del cervello è attiva
sia durante la produzione di una lingua dei segni, sia durante l'uso di un
linguaggio vocale o scritto. La questione più importante per la teoria dei
gesti è per quale motivo ci fu un passaggio allo strumento vocale. Ci sono tre
possibili spiegazioni: I primi esseri umani cominciarono ad utilizzare
sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza poterle usare
per gesticolare. La gesticolazione richiede che gli individui si debbano vedere
tra di loro. Ci sono molte situazioni in cui gli individui hanno bisogno di
comunicare senza contatto visivo, ad esempio quando un predatore si avvicina a
qualcuno che è su un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di cooperare
effettivamente con gli altri per sopravvivere. Un comando dato da un leader di
una tribù di 'trovare' 'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe creato un
gruppo di lavoro e una risposta più potente e coordinata. Gli esseri umani
utilizzano ancora i gesti manuali e facciali quando parlano, specialmente
quando le persone che comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti
usano lingue composte interamente da segni e gesti. Pidgin e
creoliModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa
come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi che non parlano la medesima
lingua, in situazioni come il commercio, il cui vocabolario è generalmente
derivato dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è
d'interesse per comprendere le origini del linguaggio verbale umano. I pidgin
sono lingue significativamente semplificate, con una grammatica rudimentale ed
un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono
soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con
pochissime preposizioni e congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza
ordine fisso e senza desinenze di declinazione. Se questi contatti tra i gruppi
si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono diventare
pian piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i bambini di una
generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa una lingua
creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con una
fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia di
tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano dalle
lingue da cui sono nate. Gli studi sulle lingue creole del mondo hanno
dimostrato che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono
sviluppate uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste
somiglianze sono evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua
originale. Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono
sviluppate isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche
includono l'ordine delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua
creola nasce da lingue con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un
ordine SVO. Le lingue creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli
articoli determinativi ed indeterminativi e regole di movimento simili per le
strutture frasali anche quando le lingue-genitori non le hanno.[9]
Grammatica universaleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente
responsabili della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e
Noam Chomsky hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica
universalegià inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste
di un'ampia gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi
grammaticali di tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa
grammatica universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle
lingue creole. Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini
durante il processo di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua
locale. Quando i bambini imparano una lingua, dapprima apprendono le
caratteristiche più simile a quelle creole, e poi quelle che entrano in
conflitto con la grammatica creola.[9] Un'altra questione che viene
spesso citata come supporto per la grammatica universale è il recente sviluppo
della lingua dei segni nicaraguense. Il governo del Nicaragua dette inizio al
primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini sordomuti. Prima di ciò
non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un centro d'educazione speciale
stabilì un programma inizialmente seguito da 50 bambini sordomuti. Questo
centro non aveva accesso alle strutture di insegnamento di una delle lingue dei
segni usate nel mondo; perciò non veniva insegnato ai bambini nessun
linguaggio. Il programma linguistico invece enfatizzava lo spagnolo parlato e
la lettura delle labbra, nonché l'uso di segni da parte dell'insegnante che
assomigliassero alle parole dell'alfabeto. Il programma ebbe uno scarso successo
e la maggior parte degli studenti non riuscirono a comprendere il concetto
delle parole spagnole. I primi bambini arrivarono al centro con
pochissimi gesti sviluppati in precedenza all'interno delle proprie famiglie.
Ad ogni modo, quando i bambini vennero messi insieme per la prima volta
cominciarono a costruire una forma di comunicazione usando i vari segni di ogni
bambino. Più bambini si aggiungevano più la lingua diventava complessa. Gli
insegnanti dei bambini, che avevano avuto uno scarso successo nel comunicare
con i propri studenti, guardavano meravigliati i bambini che riuscivano a
comunicare tra di loro. In seguito il governo nicaraguense sollecitò
l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta della lingua dei segni alla Northeastern
University. Quando Kegl ed altri ricercatori cominciarono ad analizzare la
lingua, notarono che i bambini più giovani avevano preso le forme pidgin dai
bambini più vecchi e le avevano portate ad un alto livello di complessità, con
un accordo verbale e altre convenzione della grammatica. Approccio sinergico La
Azerbaijan Linguistic School ritiene che il meccanismo per la nascita del
linguaggio umano moderno, sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo
evolutivo della scrittura. Lo sviluppo della scrittura ha vissuto differenti
fasi: Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase II: Grafema =
parola o sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema = sillabario
(scrittura sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica) Allo stesso
modo una lingua avrebbe passato stadi simili: Fase I: Fonema = frase
(linguaggio pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma (linguaggio
ideografico) Fase III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico) Fase IV:
fonema = suono (linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido, all'inizio
sostituiva l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e poi la
parte della parola. Storia La ricerca delle origini della lingua ha una lunga
storia, come testimonia anche la mitologia classica. Storia della
ricercaModifica Verso la fine del XVIII secolo od agli inizi del XIX gli
studiosi europei ritenevano che le lingue del mondo riflettessero i vari stadi
dello sviluppo da una lingua primitiva a quelle più avanzate, culminando nella
famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La linguistica moderna non
nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi romantiche di Johann Gottfried
Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero molto influenti. La questione
delle origini della lingua si dimostrò inaccessibile agli approcci metodici, e
nel 1866 la Società Linguistica di Parigi vietò clamorosamente le discussioni
sull'origine della lingua, ritenendola un problema irrisolvibile. Un approccio
sistematico alla linguistica storica divenne possibile solamente con
l'approccio neogrammaticale di Karl Brugmann ed altri a partire dal 1890, ma
l'interesse degli studiosi per la questione riprese gradualmente piede a
partire dal 1950, con idee come la grammatica universale, la comparazione
lessicale di massa e la glottocronologia. L'"origine della lingua"
come materia a sé stante emerse dagli studi di neurolinguistica,
psicolinguistica e di evoluzione umana in generale. La bibliografia linguistica
introdusse l'"origine della lingua" come un capitolo separato nel
1988, come un argomento minore dalla psicolinguistica, mentre istituti di
ricerca di evoluzione linguistica emersero solo negli anni novanta.
Esperimenti storiciModifica La storia ha un vario numero di aneddoti su persone
che tentarono di scoprire le origini della lingua per esperimento. Il primo
tentativo viene riportato da Erodoto, che racconta che il faraone Psammetichus
(probabilmente Psametek) fece crescere due bambini da pastori sordomuti,
volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero parlato senza influenze. Quando
i bambini furono portati di fronte a lui, uno di essi disse qualcosa che al
faraone suonò come bekos, la parola frigia per pane. Perciò Psammetichus
concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si racconta che anche il re
Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e questi bambini avrebbero
infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale Federico II ed Akbar, un
imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un esperimento simile ma i bambini
utilizzati alla fine non parlarono e morirono. Nella religione e nella
mitologiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Lingua sapienziale. Le religioni ed i miti etnici spesso danno delle
spiegazioni per le origini e lo sviluppo del linguaggio verbale. La maggior
parte delle mitologie non ritengono l'uomo inventore della lingua, ma credono
in una lingua divina, antecedente a quelle umane. Lingue mistico-magiche usate
per comunicare con gli animalio gli spiriti, come la lingua degli uccelli, sono
pure state analogamente ricercate, ed erano di particolare interesse durante il
Rinascimento, per la loro capacità di penetrare l'essenza della realtà tramite
un'apprensione immediata di natura intuitiva anziché discorsiva. Uno dei
migliori esempi nella cultura occidentale è il passaggio della Genesi nella
Bibbia riguardo alla Torre di Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi
abramiche, racconta di come Dio punì gli uomini per aver costruito la torre,
confondendo la loro lingua e creandone di nuove (Genesi). Un gruppo di
persone dell'isola di Hao, in Polinesiaracconta una storia molto simile a
quella della torre di Babele, parlando di un dio che, "in preda alla
rabbia scacciò via i costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua,
così che parlassero differenti lingue". Primitive
languages, su Language Miniatures. Pinker, The Language Instinct: How the Mind
Creates Language, New York, Harper Perennial Modern Classics, The Handbook of
Linguistics, eds. Aronoff et JRees-Miller. Oxford: Blackwell. Vorbemerkungen zu
der Frage über den Ursprung der Sprache (Premesse alla questione sull'origine
del linguaggio), in: Schelling, Werke (a cura di. M. Schröter), 4.
Ergänzungsband (volume supplementare), Monaco; Über den ursprung der
Sprache", ristampato in: J. Grimm, Kleinere Schriften, Vol. 1, Berlino; Grimm,
F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Grimm, F.W.J.
Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Dolphins 'Have Their
Own Names', su BBC News;Diamond, The Third Chimpanzee: The Evolution and Future
of the Human Animal, New York, Harper Perennial, Wade, Nicholas, Nigerian
Monkeys Drop Hints on Language Origin, su nytimes.com, The New York Times,
Fitch, W. Tecumseh, The Evolution of Speech: A Comparative Review isrl.uiuc.edu;Ohala,
The irrelevance of the lowered larynx in modern man for the development of
speech Archiviato il 29 giugno 2011 in Internet Archive.. In Evolution of
Language - Paris conference, Internet Archive. Olson, Mapping Human History,
Houghton Mifflin Books, 2Ogni adattamento prodotto dall'evoluzione è utile solo
nel presente, e non in futuro indefinito. Così l'anatomica
vocale ed i circuiti neurali necessari per la produzione dei suoni delle lingue
non possono essersi evoluti per qualcosa che ancora non esisteva ^ Merritt
Ruhlen, Origin of Language, Earlier human ancestors, such as Homo habilis and
Homo erectus, would likely have possessed less developed forms of language,
forms intermediate between the rudimentary communicative systems of, say,
chimpanzees and modern human languages ^ Jungers, William L. et. al.,
Hypoglossal Canal Size in Living Hominoids and the Evolution of Human Speech,
in Human Biology, DeGusta, David et. al., Hypoglossal Canal Size and Hominid
Speech, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States
of America, Hypoglossal canal size has previously been used to date the origin
of human-like speech capabilities to at least 400,000 years ago and to assign
modern human vocal abilities to Neandertals. These conclusions are based on the
hypothesis that the size of the hypoglossal canal is indicative of speech
capabilities. ^ Johansson, Sverker, Constraining the Time When Language Evolved
( PDF ), in Evolution of Language: Sixth International Conference, Rome, Hyoid
bones are very rare as fossils, as they are not attached to the rest of the
skeleton, but one Neanderthal hyoid has been found (Arensburg), very similar to
the hyoid of modern Homo sapiens, leading to the conclusion that Neanderthals
had a vocal tract similar to ours (Houghton; Bo¨e, Maeda, et Heim, Klarreich,
Erica, Biography of Richard G. Klein, in Proceedings of the National Academy of
Sciences of the United States of America, Klein, Richard G., Three Distinct
Human Populations, su Biological and Behavioral Origins of Modern Humans, Access
Excellence @ The National Health Museum; Schwarz, J. uwnews.org uwnews Risorse
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breakfast, The evolutionary origins of belief; Minkel, J. R., Skulls Add to
"Out of Africa" Theory of Human Origins: Pattern of skull variation
bolsters the case that humans took over from earlier species, su sciam.com,
Scientific American; Klein, Richard, Three Distinct Populations, su
accessexcellence. You've had modern humans or people who look pretty modern in
Africa by 100,000 to 130,000 years ago and that's the fossil evidence behind
the recent "Out of Africa" hypothesis, but that they only spread from
Africa about 50,000 years ago. What took so long? Why that long lag, 80,000 years?
^ Wade, Nicholas, Early Voices: The Leap to Language, The New York Times, Sverker,
Johansson, Origins of Language - Constraints on Hypotheses su arthist.lu. Ruhlen,
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linguaggio, Milano, Marinotti, Lingua (linguistica) Linguaggio Oralità
Tradizione orale Teoria bau-bau Language and Social Organization, su evolution-of-man.info.
PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria linguistica che postula che i
principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e siano innati
per tutti gli esseri umani. Rilessificazione Origine africana dell'Homo sapiens
Wikipedia Il Grice: “I share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a
semiotic continuity, and more important that it’s psi-transmission that
matters: a pirot perceives that the a is b, and communicates that the a is b to
another pirot, who perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think
that the other pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’
may do, to cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Felice
Cimatti. Keywords: fondamenti naturali della comunicazione, homo sapiens,
storia innaturale, non-naturale, unnatural – non-natural, naturalization, animale,
bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica, prodi, corpo, codice, mente,
cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia
innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione,
percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita,
psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool
Library. Cimatti.
Luigi
Speranza -- Grice e Cincio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Firenze). A philosopher of the Porch.
Luigi
Speranza -- Grice e Cinna: il portico a Roma -- il tutore del principe – filosofia italiana (Roma). A member of the Porch and tutor to Antonino. The emperor claims to have
learned from C. the value of friendship, children, and praise. Cina
Catulo. Cinna.
Luigi Speranza -- Grice e Cione: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del corporazionismo -- Dedalo
ed Icaro – l’idea corporativa come interpretazione della storia – scuola di
Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me of
Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a
failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well,
such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! –
and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a
Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of
‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! –
especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze
socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce.
Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di
Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo
indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale
Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende
esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica
indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano
Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso
Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del
Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa,
tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato
per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a
dichiarare: Per ingannare i nostri
avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia
fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra
l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di
C. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando
di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato
di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni
partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana.
Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di
Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto
consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato
con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso
dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una
militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il
messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la
cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso
con una completa della sua opere e degli
scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera
filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica”
(Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore);
“Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea
corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli
e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale
italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi);
“Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele);
“Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce”
(Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia
degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi,
Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica
editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta
di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli
Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un
"partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini
di Silvio Bertoldi. Per ultimi ma non meno importante ricordiamo anche
l’esperienza della rivista La Verità diretta da Nicolò Bombacci, tra i
fondatori del partito comunista e in seguito avvicinatosi al Fascismo, pur con
posizioni indipendenti tendenti al socialismo nazionale, e dove ne sarà
portavoce anche nella successiva esperienza di Salò assieme ad altre
personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la magistrale figura del
poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò positivamente il modello politico
ed economico dello stesso Fascismo. Home Cultura Cultura (di
G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di C. By Redazione 4
anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale ItalianaIl sigillo della
Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una caratteristica tipicamente italiana,
ma da noi persino le guerre civili lasciano molto, moltissimo spazio alle
mediazioni e ai tentativi di compromesso. Vi furono diversi tentativi, tutti
falliti, di dare alla guerra fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più
indirizzato verso un passaggio “indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento
partigiano e, infine, al Regno. Si trattò di operazioni sotterranee molto
complesse, spesso contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la
possibilità che una parte del movimento partigiano (i socialisti, e neppure
tutti) potessero staccarsi dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi
gestite dal Pci e realizzare una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel
Nord Italia in nome di un socialismo che avrebbe dovuto riunire tutti, da
Mussolini a Nenni. Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un
po’ ingenuo, un po’ velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da
parte fascista, i ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i
sindacalisti Manunta e Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo Montagna, il
capo della Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da parte
socialista, Bonfantini,Vigorelli, Silvestri, Zocchi e soprattutto Andreoni,
autore di un confuso ed equivoco tentativo di “collaborazione militare ma non
politica” (!!) tra fascisti di Salò e socialisti di sinistra contrari alla
egemonia comunista nel Cln. Punto di raccordo di molti di questi fiumi
sotterranei è C., filosofo, collaboratore di Croce, antifascista liberale,
confinato politico, il quale alla vigilia della guerra civile decide di puntare
sulla riconciliazione degl’italiani. Un progetto ambizioso, non sempre
sorretto da una vera lucidità politica, che comunque portò a tre risultati
importanti, nel crepuscolo della Rsi: in primo luogo, C. riuscì a catalizzare
attorno a sé un gruppo di fascisti e di antifascisti che opera per il passaggio
indolore dei poteri. In secondo luogo, riusce ad avere la fiducia di Mussolini
che gli finanzia un quotidiano, “L’Italia del Popolo”. Infine riusce a
costituire un movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale, il
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo
segnale verso la liberalizzazione dei partiti in Rsi. Naturalmente ciò
avvenne con l’approvazione dei fascisti “moderati”, come Borsani, Agazio
e Pettinato, e con la violenta opposizione degli intransigenti, come Pavolini,
Mezzasoma ed Almirante. La dettagliata storia di queste più o meno
sottili trame, di questi tentativi è il filo conduttore del volume di C., STORIA
DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (Altergraf). Si tratta di una storia che, tra
le prime, ricostruisce le vicende della Rsi e il suo valore è soprattutto
questo. Il mondo variegato e talvolta contraddittorio di quelli che
cercarono di costruire dei ponti tra
fascismo e antifascismo è complesso ma, in genere, comprendefascisti di
sinistra -- più moderati e aperti al pluralismo -- e socialisti -- insofferenti
al peso del Pci. Che qui ci si trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio
un elemento di novità. Perché un liberale e, pur con tutti i distinguo,
crociano accetta di sostenere i punti di Verona, la socializzazione, l’ultimo
fascismo mussoliniano, rivoluzionario, socialista e anticapitalista? Si tratta
effettivamente di un problema non da poco che può essere spiegato solo con il
costante richiamo alla CONCORDIA nazionale.
Una concordia che non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia
di un elemento a nostro avviso centrale: la necessità del superamento
dell’antitesi fascismo – antifascismo, considerando C. il fascismo un elemento
essenziale nella storia italiana, del quale è indispensabile tenere conto -- non
per esaltarlo ma piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale
senza parentesi e senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per C., è
quello di ritenere di potere cancellare il periodo fascista dalla storia
italiana e soprattutto di potere non considerare con attenzione le
soluzioni che il fascismo, pur in un quadro autoritario, individua allo scopo
di contribuire a fare ritrovare unità e concordia nella società italiana. In
questo senso l’esperienza corporativa, che C. intese sempre in senso
produttivistico piuttosto che in termini rivoluzionari, può essere interessante
da recuperare in una chiave pluralistica. Più complessa la risoluzione
dell’altro problema che lo assilla e che, in qualche modo, è correlato con la
ricerca della concordia: il persistere, nella dinamica politica italiana, della
categoria del nemico assoluto da abbattere. Essendo più FILOSOFO che storico, C.
non si rende conto che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non è più quella
precedente. Il pretendere che le contrapposizioni, giunte fino alla guerra
civile, si componessero con un semplice richiamo alla concordia, dimostra quello
che acutamente aveva colto Artieri, e che cioè C. pensava e scriveva come se
vivesse nell’Italia di Giolitti e di Scarfoglio. In questa sua incapacità
di leggere fino in fondo la lezione della storia si trova la inattualità
politica del saggio di C. sulla Rsi, ma
anche il fascino dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie
convinzioni anche se esse non sono più in grado di produrre effetti
politici. La sua originalità risiede anche in un ultimo aspetto. Se è
vero che in Italia il filosofo tende a correre verso il carro del vincitore,
la storia di C. è quella di un filosofo che pur provenendo dalla parte dei
futuri vincitori, volle stare dalla parte dei perdenti per cercare, senza
riuscirci, di rendere meno dura la vendetta finale. C. compiuti i suoi
studi prima presso il consolato germanico, poi presso il Liceo-ginnasio
Vittorio Emanuele II, si iscrive al collegio militare della Nunziatella. C.,
sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa
disciplina scolastica, manifesta idealmente i primi segni di ribellione
rivolgendo precocemente il suo interesse verso la filosofia e allontanandosi
dall'ambiente autoritario della Nunziatella. Grazie a Secolo comincia a
frequentare la casa di Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno
le idee e gli insegnamenti. Un saggio suo, pubblicato a Napoli e
intitolata "Il dramma religioso dello spirito moderno e la
Rinascenza", in cui prende posizione contro Gentile, gli procura violente
critiche da parte dei fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì
tuttavia, di collaborare con alcuni giornali e periodici del regime. Consegue
la laurea e concorsa a un posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne
l'incarico presso la Biblioteca di Venezia, poi trasferito presso la Biblioteca
di Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni
esponenti dell'opposizione liberale come Sforza, Vinciguerra, Casati ed altri. A
causa dell'intercettazione di una sua lettera, il cui contenuto era stato male
interpretato, C. è arrestato dalla polizia e internato nel campo di
concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in seguito confinato a
Montemurro Lucano. Revisa le sue idee antifasciste e decide di abbandonare le
posizioni liberali. Eento non meno significativo nella vita di C. è la rottura
dei suoi rapporti con Croce, a causa della revoca da parte di Croce della
compilazione di un volume celebrativo, che C. aveva preparato sull'opera e sul
filosofo. Il volume è poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari
con il titolo "Croce". Dopo l'internamento e il confino,
ritornato in libertà, C. è in servizio come bibliotecario presso la Biblioteca
Braidense di Milano. Collabora alla rivista diretta da Chabod
"Popoli", dell'Istituto per gli studi di politica. Ottenne la libera
docenza di storia della filosofia. Tra i suoi saggi, il volume edito a Milano e
intitolato "Croce", la cui polemica prefazione era stata pubblicata
anticipatamente sul Corriere della Sera, procura a C. numerosi consensi anche
da parte di MUSSOLINI, che C. incontra personalmente grazie alla mediazione
dell'allora Ministro della Cultura Biggini. Cione fonda, col consenso di
Mussolini, il "Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il
giornale "L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala
fascista più estrema, dopo soli 12 numeri è sospeso a causa di una polemica con
l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della seconda
guerra mondiale, C. è reintegrato nel suo posto di professore di filosofia a Napoli.
Entra nel Movimento Sociale Italiano e fonda la rivista "Nazionalismo
popolare". Eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della
Giunta di Napoli, che ha alla sua testa Lauro. Dopo essersi candidato al Senato
come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entra nelle file della
Democrazia Cristiana. Collabora con numerose riviste filosofiche e con diverse
testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il
"Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra
le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" -- nella
quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere DI Croce e le
opere SU Croce --; "Sanctis e i suoi tempi” -- vincitrice del Premio
Napoli --, e due volumi di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e
"Fascino del mondo arabo", pubblicate la prima a Napoli e la seconda
a Bologna. In esse l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente
attribuiva all'esistenza umana. Muore a Napoli. Fra le sue ultime volontà vi fu
quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli il suo archivio personale,
affinché esso non andasse disperso e perché fosse messo a disposizione degli
studiosi. documentazione collegata. C. fonti Incarnato, in Dizionario biografico
degli italiani. Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia, Torino, Bollati
Boringhieri. C., Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani’ Condividi Pubblicità
C. Nato a Napoli da Stefano, avvocato di origine pugliese inurbatosi di recente
e artefice della sua fortuna, comincia a studiare presso il consolato
germanico, poi al liceo ginnasio "Vittorio Emanuele II", per
iscriversi infine alla Scuola militare della Nunziatella. L'accurata istruzione
integrò la severa educazione familiare tesa a salvaguardare una dignità ed un
decoro con fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città come Napoli
in permanente e gravissima crisi economica. Alla Nunziatella si tende a
sviluppare l'attitudine al comando ponendo l'accento sull'educazione fisica
intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni di C. ne sono frustrate
accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di tanti meridionali e
l'indirizzo precoce agli STUDI FILOSOFICI nella ricerca di un'identità
ristretta al piano culturale, dati gl’ostacoli frapposti dall'ambiente
circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e meno unilaterali. Le
stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle gerarchie che provocano
la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da cui uscirà, lo allontanarono da
un'adesione piena al fascismo. Introdotto in casa CROCE (si veda) da
Secolo, ne accetta pienamente le idee, attirandosi col suo saggio, “Il dramma
religioso dello spirito moderno e la Rinascenza,” Napoli, di cui già manda una
parte a CROCE (si veda), in cui prese posizione contro GENTILE (si veda), gli
attacchi violenti dei coetanei fascisti. Lo difende Marzio che gl’apre le porte
del Meridiano di Roma ne gl’evita guai peggiori. Sono gli anni del consenso al
regime. La pregiudiziale antifascista e la frequenza di casa CROCE (si veda)
non impedirono a C., come ad altri, la collaborazione a giornali o periodici
del regime, ormai tanto forte da poter controllare e tollerare la fronda
liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo gratifica e sembra soddisfarlo
pienamente. I numerosi saggi su SANCTIS (si veda), culminati nella
biografia, la continuazione dei lavori sulla Rinascenza e la Riforma sfociati
nel lavoro su Valdés e infine le ricerche sulla vita culturale di Napoli
rivelano tutti l'impronta di CROCE (si veda). Tuttavia si può cogliere una
costante della filosofia del C., la tendenza alla mediazione, non tanto
espressione di debole sincretismo, quanto costante rifiuto di ogni estremismo,
che gli fa preferire il sereno misticismo di Valdés ai rigori di Calvino ed il
tentativo di mediazione della cultura umanistica col vecchio mondo della Chiesa
e della cultura medioevale alla rottura drammatica della Riforma. 16 un
equilibrio raggiunto a fatica, non scevro di contraddizioni, presenti
soprattutto negli studi su Napoli. La ricerca appassionata e puntuale sulla
vita napoletana (Napoli romantica, Milano) non puo non approdare alla
constatazione del suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine
comparse di secondo piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui
protagonista è lo sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico
europeo, non propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano
interpretato come un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle
malinconie romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La
mediazione, eterno mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei
giusti per la salvezza e lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio
dell'ultimo De Sanctis, di cui, a conclusione di numerosi saggi e la
pubblicazione (Milano) del famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. C. si
laurea in FILOSOFIA. Le fortune familiari registrano un tracollo che lo spinse
a concorrere ad un posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno
per il quale non vienne ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Ètrasferito
alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti con
l'opposizione liberale al fascismo; corrisponde con SFORZA (si veda) ed aveva
rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli, Casati,
Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse
frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti
intrinseci. L’adesione al sistema crociano è del resto indiscussa. Malgrado una
tendenza all'accentuazione dei valori individuali emergente dagli studi su
Berdjaev (di cui lo colpe durevolmente la critica al marxismo), su Valdès e dal
taglio stesso degli studi su SANCTIS (si veda), l'emancipazione non è così
consapevole come tenta ad affermare in seguito. L’intercettazione di una
lettera da parte della polizia, che ne interpreta malamente il contenuto,
provoca il suo internamento nel campo di concentramento di Colfiorito di
Foligno, i cui rigori sono mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui matura
la sua crisi politica e la rottura col CROCE (si veda). La convivenza con
oppositori socialisti, anarchici e comunisti ha su di lui un effetto
contraddittorio. Il contatto con uomini che, non solo si opponeno al fascismo
sino alle ultime conseguenze, ma che non disdegnano nei loro programmi di far
uso degli stessi mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici,
lo induce alla revisione e all'abbandono, dell'anti-fascismo. La
compilazione di un volume celebrativo di CROCE (si veda), una laboriosa ricerca
degli studi sul filosofo dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì
la rottura definitiva con questo, anche se un compromesso rende possibile la
pubblicazione, L'OPERA FILOSOFICA, storica e letteraria di CROCE (si veda),
Bari, dopo strascichi giudiziari. Risolto il dissidio col fascismo, torna
nelle biblioteche, stavolta alla Braidense di Milano. Collabora alla rivista
Popoli dell'Istituto per gli studi di politica, diretta da Chabod. Consegue la
libera docenza in storia della filosofia; è professore di ruolo di storia e
filosofia nei licei, ed ottenne, sia pure non a pieni voti, un giudizio di maturità
in un concorso, poi annullato, a professore di storia della filosofia a Napoli.
Consegue la libera docenza in storia moderna. L'armistizio lo colge a
Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di Martini, anti-fascista
di tendenze moderate e conciliatrici. Il movimento venne poi stroncato in
seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finisce trucidato alle Fosse
Ardeatine. C. ritorna a Milano con un giudizio negativo sull'anti-fascismo del
quale coglie solo gli atteggiamenti scomposti di una fazione politica che per
spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A Milano stampa il suo CROCE (si
veda). Il momento ed il luogo della pubblicazione, cui venne data ampia
risonanza con l'anticipata apparizione della polemica prefazione di C. sulle
colonne del Corriere della sera, nella Milano della ormai condannata Repubblica
di Salò, gli offrirono la soddisfazione di una momentanea popolarità.
Mussolini mostra d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione di Biggini,
ministro della Cultura, s'incontra con C., libero docente all'università di
Milano, proprio in virtù dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera a
Biggini C. Scrive. Il Duce ha scelto il momento buono per parlare il linguaggio
della conciliazione sconfessando così quello della minaccia e
dell'intimidazione usate da molti gerarchi e gerarchetti. Gl’anti-fascisti
hanno dubbi perché temono di avere a che fare con un movimento di copertura a
sinistra del fascismo. Il Duce si deve liberare del passato e puntare sulla
vecchia fama di socialista. La gente odia la Muti ed ha fatto buona impressione
l'eliminaziene della banda Koch, una polizia costituita da masnadieri"
(Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione, 73). Sembra che Mussolini mirasse a
servirsi del C. per attenuare e confondere i rancori degli antifascisti.
Il C., sfruttando le tendenze "liberali" favorite da MUSSOLINI (si
veda) dopo il discorso alla brigata Resega, fondò, col suo consenso, il
Raggruppamento nazionale repubblicano socialista, col motto "Repubblica e
socializzazione" ed un organo di stampa dalla testata mazziniana
L'Italiadel popolo. Al movimento non erano estranee connivenze e
strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni dirigenti democristiani, operato
a fini puramente propagandistici. Si attirò così l'ostilità violenta dell'ala
estremista del fascismo ormai troppo compromessa. Spinelli, direttore dell'Ente
italiano audizioni radiofoniche gli nega la pubblicità per il giornale,
considerando il suo un tentativo di conciliazione sul piano dell'antifascismo.
Una polemica con l'Associazione dei mutilati provocò l'assalto all'Italiadel
popolo e la sua chiusura dopo appena dodici fascicoli, che riprese, ancora per
un numero, le pubblicazioni il 24 aprile, un giorno prima della Liberazione.
Il C. dovette sottostare ai rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa
ammissione meno duri del previsto. Venne reintegrato al posto di professore e
riammesso nel servizio universitario a Napoli. I numerosi attacchi ne
stimolarono il temperamento di polemista che si esercitava con virulenza a vari
livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A. Giannini, e nei giornali locali
("6 e 22" e il Monsignor Perelli)offrono un quadro comico ed
esasperato di troppi disinvolti opportunismi. Sulle colonne del Brancaleone e
del Meridiano v'è un'appassionata difesa della sua azione al tempo della
Repubblica sociale che lo spingeva a scriverne la storia (Storia della
Repubblica sociale italiana, Caserta). C. pubblicato a Roma La filosofia
della personalità ove la polemica anti-crociana si stemperava in una graduale
adesione a valori tradizionali e nel recupero del cattolicesimo cui approderà,
salutato con soddisfazione, ma non con convinzione, dagli organi ecclesiastici.
Del resto non rinunciava alle premesse storiciste e restava a mezza via tra
l'adesione mistica al cristianesimo ed un'accettazione piena del neotomismo. I
numerosi lavori filosofici sono le tappe di questo processo (Dall'idealismo al
cristianesimo, Napoli 1960, Fede e ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa
dell'opera sul Valdés, Napoli 1963, e Leibniz, ibid. 1964). Collaborò
alla rivista di C. Ottaviano Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di
filosofia all'università di Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei,
prestò servizio presso la Direzione generale dell'istruzione media non statale.
Aderì alle illusioni provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo
qualunque" ma ne uscì per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento
sociale italiano con una posizione personale espressa con la sua rivista
Nazionalismo popolare fondata nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli
organi ufficiali del partito con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo
d'Italia. Rimproverava al gruppo dirigente l'esasperazione del
nazionalismo e della gerarchia e l'abbandono delle tendenze socializzatrici
dell'ultimo Mussolini. Sospetto ai superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi
sforzi, non entrò mai nella direzione nazionale dei partito. Sull'onda
dello spostamento a destra, espressione soprattutto dei disagio del Sud, venne
eletto prima consigliere e poi assessore allo Stato civile della giunta di
Napoli capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si presentò candidato al Senato, senza
essere eletto. Ormai deluso dei Movimento sociale aderì alla Democrazia
cristiana, ove però non svolse una milizia attiva, pur collaborando nel 1960 a
Europa sociale di S. Riccio. Nel 1953aveva iniziato la collaborazione al
Roma (Napoli) di Lauro, cui si, aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di
Angiolillo e alla Gazzetta del Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il
contenuto sociale del messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate
dal mito di Chruščëv, di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della
cortina, Napoli 1962). Intanto portò a termine la Bibliografia crociana
(Roma-Milano 1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli)
per cui ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi sul
concetto di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione di
personaggi e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano
1949, Il suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di
impressioni di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo
(Bologna 1962). Il C. morì a Napoli. Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di
Napoli, Carte C. (finora sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F.
Penati, Metodo storicoe ricostruz. storicistica..., in Cronache della FACOLTÀ
DI FILOSOFIA dell'Istituto magistero di Napoli; A. Manno, Dall'idealismo al
cristianesimo, in Studi francescani; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di
Salò, Torino Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino Capanna, Di una
polemica Croce-C., in Il Ponte; E. Santarelli, Storia del movimento e del
regime fascista, Roma Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre
1943-Maggio 1945, Bari La Repubblica di Mussolini, Bari Sulla bibliografia
Fascista Molti sarebbero i lavori di
carattere descrittivo meritevoli di essere ricordati i quali espongono e
commentano l’azione del fascismo in tutti i campi. Ottima la
Bibliografia del Fascismo, pubblicata a cura della Confederazione
Nazionale Professionisti ed Artisti, Poma Qui ricordiamo le
pubblicazioni riassuntive e quelle in Occasione del decennale: La civiltà
fascista, con introduzione di B. Mussolini, a cura di G. L. Pomba, Torino
1928 (complesso di 35 studi dei vari aspetti ed attività del Fascismo,
con saggio bibliografia fascista a cura di Màdaro); Il Libro (Vitaha; nel
decennale della Vittoria, Milano; Mussolini e il suo Fascismo, cur. Gutkind,
con introduzione di Mussolini, Heidelberg; Firenze. Studi vari : Opere e
leggi del Regime Fascista, Roma; Mussolini e il Fascismo, Roma; Dottrina e
Politica Fascista, Venezia, 1930 (scritti vari). Lo Stato Mussoliniano e
le realizzazioni del Fascismo nella Nazione, pubblicato a cura
della Rassegna Italiana Politica
Letteraria », Roma. Il Bilancio dello Stato e la Finanza Fascista a tutto Vanno
Vili. A cura del Ministero delle Finanze, Roma, Polig. dello Stato,
1931. Questo studio è aggiornato a tutto l’esercizio con la seguente
pubblicazione annuale a cura dello stesso Ministero: Il Bilancio e il
Conto Generale del Patrimonio dello Stato per l’esercizio
finanziario 19... ecc. Per la storia finanziaria fascista si vegga :
De Stefani A. La Restaurazione finanziaria. Bologna, Zanichelli; Volpi di
Misurata: Finanza Fascista, Roma, Libreria del Littorio; Gangemi: La
politica economica e finanziaria del Governo fascista nel periodo dei pieni
poteri, Bologna, Zanichelli Gangemi La politica finanziaria del
Governo Fascista, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi L.: Le Società
Anonime miste, Firenze, La Nuova Italia
». Opere Pubbliche (pubblicazione a cura del Ministero dei Lavori
Pubblici). Roma, 1934. La Nuova Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del
Ministero delle Colonie, con prefazione di Mussolini). Mondadori, Milano.
Nei riguardi della difficile questione meridionale, si vegga l’esauriente
volume di Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno d’Italia,
Milano, Treves, 1933. Fra le pubblicazioni straniere quelle
tedesche sono le più ricche e meglio informate. Le opere e
gli scritti dei seguenti autori sono più conosciuti in Italia come quelli che
meglio compresero il Fascismo e la sua organizzazione economica, e
cioè: Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.; Eberlein G.; Ermarth
F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.; Heller H.; Leibholz G.; Leinert M.;
Mannhardt J. W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting F.; (per i particolari
bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo, Voi. 1., a cura della
C. N. P. A., Roma). Si vegga inoltre: Beckerath (von) E.:
Wirtschaftsverfassung des Faschismus; Singer (von) K. : Die
geistesgeschichtliche Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi
pubblicati in Festgabe fùr Werner
Sombart », lierauegegeben von Arthur Spiethoff, Munchen; ed anche: Die
fascistische JCirtschaft - Problema und Tatsachen, herausgegeben von G.
Dobbert, Berlin, Hobbing,(è una raccolta di studi dovuti ad italiani, tedeschi
e svizzeri). Bibliografia essenziale sulle interpretazioni
dell’azione economica corporativa Per una rassegna delle
interpretazioni dell’azione economica corporativa si veggano i nostri :
Lineamenti di politica economica corporativa. Catania, Studio Editoriale
Moderno Sono ivi ricordati i contributi più notevoli, teorici e
descrittivi, nel campo dell’azione economica corporativa. Si vegga pure il
nostro studio : Homo Oeconomicus » e
Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti Riportiamo qui la bibliografia
essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia corporativa,
tralasciando di segnalare gli studi, numerosi, di carattere polemico e
giornalistico, ma privi di consapevolezza scientifica e, spesso,
deformatori della stessa realtà politica corporativa : Alberti L’ Homo
Oeconomicus di H. P. Grice e l’esperienza fascista in Giornale degli
economisti; Arias G. : L’Economia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del
Littorio, 1929, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze, Poligrafica
Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’ Stefani A. : Scritti cit. ; Arena C. :
Scritti, cit. ; Benini R. ; Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria
della politica economica, in
Giornale degli Economisti ». Febbraio 1934 (Classifica le varie
politiche economiche. Carattere di quella corporativa: autogoverni
economici particolari, con il compito di emanare misure rispondenti, nei
rami particolari, alla politica economica generale emanante dal governo
economico centrale. Le corporazioni sarebbero gli autogoverni economici
particolari). Bruguier G. : A proposito di interventi statali, in Archivio di
studi corporativi, Pisa; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. :
Lineamenti di politica economica corporativa; Carli F. : Teoria generale della
economia politica nazionale, Milano, Hoepli; e dello stesso: Le crisi
economiche delV ordinamento corporativo della produzione, in Atti del II Convegno di studi sindacali
corporativi», Ferrara; Chessa: Caratteri e forme delT attività economica,
in Rivista di Politica economica. (Secondo questo autore J economia
corporativa non è altro che un’ economia di complessi economici, che dev’
essere studiata nella sua realta concreta, prescindendo da erronee
identificazioni dell individuo con la società e di questa con lo
Stato). Dello stesso autore: Vecchio e nuovo corporativismo economico in
Saggi di Storia e Teoria economica, in onore di Prato, Torino. In questo
studio l’autore conclude che il corporativismo italiano pur traendo alcuni suoi
elementi dalle teorie enunciate dal Genovesi, dal Bastiat e dal List si
differenzia da queste in quanto che inquadra le sue idee in una
concezione piu larga, che non tiene solo conto degli interessi dei
singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale, che per essere
sempre più aderente ai bisogni ed agli interessi della Nazione, viene
organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e
la sostanza della economia corporativa, Firenze Poligrafica Universitaria; Del
Vecchio G.: Teoremi economici deW ordinamento corporativo.
Comunicazione alla XIX riunione della Società pel Progresso della
Scienza», riassunta in Lo Stato; Einaudi
L. : Trincee economiche e corporativismo in
La Riforma Sociale; e dello stesso: Corporazione aperta in La
Riforma Sociale ». Fanno M. scritto cit.; Fasiani M.: Contributo alla
teoria delVuomo corporativo, in
Studi sassaresi; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di
vista economico, Padova, CEDAM,; Fovel M.: Economia e
corporativismo, Ferrara, S.A.T.E. e dello stesso: La rendita e il Regime
Fascista, Milano, Ediz. dei Problemi del
Lavoro; Politica economica ed economia corporativa, Ediz. Diritto del lavoro;
Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara; Fossati A.: Premesse
per lo studio di ima economia e di una pplitica economica corporativa, in
: Rivista di Politica Economica.
Ritiene questo A. che tanto la politica economica corporativa,
quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica degli individui dei
gruppi animati di una coscienza corporativa sono teorizzabili: il secondo per
definizione, e in tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla
coscienza corporativa (all’autore parendo il più adatto perchè conforme
alle direttive del Regime quello che ha a base 1 interesse della Nazione,
ossia il massimo be¬nessere individuale compatibile col benessere della
Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano sufficiente chiarezza
(univocità) e costanza da consentire una costruzione logica di
conseguenze possibili. Purché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio,
non si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente legittimo
fare della economia corporativa una
economia » astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto
empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della economia
corporativa, Giornale degli economisti;
Galli Corso di economìa politica, Firenze, Poligrafico Universitario, e
dello stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze, Poligrafico
Universitario; Jannaccone P.: La scienza economica e Vinteresse nazionale
(Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di
Torino), e dello stesso : Scienza, critica e realtà economica, in La Riforma Sociale »; Lanzillo A.: Studi di
economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso A.: Il contenuto dell’
economia corporativa, in Rivista Bancaria », novembre 1928, ed Economia
corporativa e politica economica, in
Giornale degli Economisti »; Lo Stato come fattore di produzione,
in Rivista Bancaria » (Lo Stato
come inserzione di volontà nell’ attività economical. Anche Ettore
Lolini, a parte la sua antipatia per la scienza economica tradizionale e
la notevole incomprensione degli economisti ortodossi i quali riescono
interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee lierali o di altre
tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce che per dare un carattere
di socialità, che concili l’interesse privato con quello sociale o
nazionale, alla economia privata, non è necessario giungere alla totale
abolizione dell’economia privata ed alla identificazione dell’ economia
pubblica, come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente al
centro dell attività economica umana la produzione e non lo scambio non
ha visto che nello scambio si ha la sintesi dell’ interesse individuale e
dell’interesse sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è
individuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto, come
vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei valori economici ed
il movente egoistico dei fatti economici e identificare F iniziativa economica
privata coll’ iniziativa economica pubblica o statale, bisognerebbe
trasformare la psicologia umana, abolire la personalità economica umana e con
essa tutte le diff erenze di bisogni, di desideri e di gusti che esistono
ed esisteranno sempre fra gli uomini, differenze che costituiscono la
base dello scambio e la molla del progresso economico e che nessun
sistema di economia socialista è mai riuscito a sopprimere. Il
porre a fondamento dell’economia corporativa la produzione e quindi
l’organizzazione e la gestione economica della produzione invece dello scambio,
inteso nel senso della ripartizione del prodotto di ogni grande
ciclo produttivo fra tutti i fattori della produzione mediante l’accordo
contrattuale dei prezzi del lavoro, del capitale, della direzione tecnica
e dell’opera degli intermediari, porta a delle conseguenze pratiche
fondamentali per la definizione dei fini e delle funzioni della
Corporazione. Nel primo caso, infatti, si dovrebbe giungere alla
Corporazione organo di gestione economica col passaggio di tutta l’iniziativa
economica privata alla Corporazione e con la conseguente trasformazione di
tutta l’economia privata in economia pubblica. Nel secondo caso, invece, la
Corporazione non assumerà la direzione della gestione economica della
produzione, ma avrà la funzione economico-sociale di eliminare il classismo o
particolarismo economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si
facciano la parte del leone nei confronti con gli altri fattori e di
adeguare l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al
consumatore. Cfr. di questo A.: Il problema fondamentale dell’economia
corporativa, CRITICA FASCISTA; Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di
teoria e metodologia economica, Catania (Sono raccolti con lievi
modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.: A proposito
di un tentativo di teoria pura del corporativismo, in FIAMMA ITALA e dello stesso: Strumenti teorici di
corporativismo, in Giornale degli economisti», (in questi scritti
il Pagni critica a fondo la costruzione teorica corporativa di Fovel. Contro
questi si schiera anche Bruguier nel saggio sopra citato ed anche noi nei
nostri scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.:
L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corporativisti, Lo
Stato; Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in Educazione Fascista », e,
dello stesso: Economia corporativa e agricoltura, in Atti del II Convegno di studi sindacali
e corporativi», Ferrara; SPIRITO (si veda), La critica dell’economia
liberale, Milano, Treves, dello stesso: I fondamenti dell’ economia
corporativa, Milano, Treves, e Capitalismo e corporativismo,
Firenze, Sansoni. L’interesse suscitato degli scritti filosofici di
questo A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente
polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo. Nella critica
all’economia liberale, infatti non fa che ripetere, con sintesi
brillante, quanto è stato detto dai seguaci della scuola storica tedesca
e dagli istituzionalisti americani contro la economia liberale. È confusa
la scienza economica con la praxis dei governi liberali e demoliberali.
Nella critica al capitalismo non fa che ripetere, in linea essenziale,
quanto il Sombart ha espresso nella sua opera monumentale sul
capitalismo e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto
contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene dal ricordare.
Nè è fatta alcuna discriminazione, fra capitalismo e capitalismo, senza,
per es., ricordare che m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio.
Nei tentativi di costruzione teorica del corporativismo fascista tiene
conto, in particolare delle dichiarazioni della << Carta del
Lavoro» che rincalzano la propria tesi per Ja quale vede la soluzione
corporativa n clini entità assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia
Hegel e Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la
quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammissione della corporazione
come proprietaria. Propugna, inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio,
altro espediente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi passati. Ma,
con buona volontà, si può Scorgere nel sistema di Spinto anche un
liberalismo assoluto per cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del
corporativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non m tenrnamo quii
su altri grossolani errori espressi dall A. nel campo delle realizzazioni
pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il
nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la emissione di
prestiti esteri, una politica commerciale che sara forse realizzata
nell’anno 2000, ecc (Tutte queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo
e Corporativismo, Sansoni, Firenze. Contra a Spirito, si vegga: Arias,
cit., Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci,
appresso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’economia filosofata e
attualizzata, in Critica; Galli R. : SulF identità delV individuo con lo
Stato in La Vita Italiana; (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella
concezione corporatina, m Atti del Secondo Convegno di Studi Sindacali e
Corporativi, Ferrara; Brucculeri A.: L economia corporativa, in La Civiltà
Cattolica», e Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc.
Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e Stato nelle
Corporazioni ( Archivio di Studi Corpora .V'iV-’i) mostra come la
formula dell identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e dei
liberali. L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad
essere sè stesso. Il grande significato del Corporativismo è la
disciplina economica nazionale. Con il Corporativismo si passa dal
soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è
affidata, sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche. Il
nuovo modello della realtà economica non potrà non essere anch’eseo,
naturalistico e deterministico: non c’è scienza senza determinismo.
Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello
Stato Corporativo non vi saranno più disoccupati!). La nostra
divergenza ideale con l’economia degl idealisti non va assolutamente confusa
con le invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi
chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni di coloro che
hanno gli occhi sulla nuca! Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii
della Scienza Economica e l’economia corporativa (Rivista di
Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. rifiuta 1 identificazione fra
Stato e Individuo. Integrando ® correggendo le opinioni di Arias e Fovel
considera l’economia corporativa come una economia non
euclidea. Papi U. : Un principio teorico deW economia corporativa, in Giornale degli Economisti, e più
diffusamente in Lezioni di Economia Generale e Corporativa», Gedam,
Padova. (Il P. ritiene che il sistema corporativo si possa
considerare come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i
(risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.). Rossi L. :
Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il concetto di concorrenza e mostra
i caratteri della teoria dell’equilibrio economico generale.
L’ordinamento corporativo traduce nel diritto positivo un complesso
di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale della
ricchezza. Ne risulta un diritto corporativo, definizione giuridica della
libertà economica c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e
la figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero.
L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un
sistema organico, razionale di politica economica. L’economia corporativa
risolve il contrasto fra l’essere e il dover essere della vita economica.
Dover essere: razionalità (teoria economica pura), eticità (politica
economica). Le forze direttrici corporative devono fornire al dinamismo
economico il volano regolatore). Vinci F. : Il corporativismo e la
scienza economica (Rivista Italiana di Statistica» etc.. Questo A.,
conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di produzione e fra le varie
imprese e delle condizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che
la disciplina unitaria e
l’autodecisione, ove conducesse fino ala determinazione delle produzioni
e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni dell’uria o
dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti reciproci, non solo fra
due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle
Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione e di
conciliazione in base a valutazioni complicatissime, a criteri di difficile
determinazione oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa. Si
espressero anni addietro a favore del contingente : Griziotti, Finanza di
guerra e riforma tributaria, in La Riforma Sociale. Contro il
contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze, Torino. Ed oggi, a
favore del contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini, loco
cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in Echi e Commenti, e dello stesso : Ordinamento
corporativo e ordinamento tributario, in
Atti del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara;
Bonanno: L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello Stato,
Dir. e prat. trib., e dello stesso: Lo Stato corporativo e la sua
finanza, in Diritto del Lavoro; Uckmar : Ordinamento Corporativo e
ordinamento tributario, Relazione al I
Convegno nazionale di Studi Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso:
Verso una revisione corporativa della pubblica finanza, in Diritto del Lavoro », Roma; Riforme
tributarie e Stato corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma; Finanza
corporativa, in Diritto e Pratica Tributaria. Roma, ed infine, sempre
dello stesso: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti
del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi, Ferrara. I ra questi autori
la corrente radicale trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.
Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e perciò la vorrebbe riformata
in un senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte
che trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente, che
riconoscono doversi inserire nell’ordinamento corporativo anche la finanza allo
scopo di raggiungere quei fini che gli conferiscono caratteri
fascisti. Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Evasione
fiscale e riforma tributaria («Augustea»), e Genco («Comunicazione al II
Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i quali vorrebbero
arrivare all’abolizione o per lo meno alla riduzione degli organi
finanziari statali ed alla loro sostituzione con le Corporazioni!
Uckmar, contingentista moderato, riconosce che il potere imposizionale
tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori
di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle
Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza oltre a
presentare un contenuto politico, riveste un contenuto tecnico con il quale
male si accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la
soddistazione di essere considerati rivoluzionari al cento per cento,
mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non avere incoraggiato i
salti nel buio che in materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione,
e perciò si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non
meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali.
Il tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti
scritti fra i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma
tributaria in ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino CaProblemi
di Finanza, Torino, Giappichelli; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato
Corporativo in « Echi e Commenti, e dello TTr- A r-,ane r e
in «Giustizia tributaria», giugno 1929; Gangemi L rinanza
Corporativa, in « Rivista di Politica Economi Stato C e dell ° stesso: La
finanza nello Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, e
S“,° £ r” cernii in
«Rivista di Politica Economica (e una carica a fondo contro la
funzione graduale, ransitona e limitata del contingente come è propugnata
da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo ha espresso la sua tesi
nella Rivista «Il Commercio» f, 7 iarzo \ a f, rlIe)i Toselli Colonna:
Teoria e problemi della- economia finanziaria corporativa, Alessandria
Colombani (è questa una diligente rassegna dei problemi corporativi della
finanza). Infine, si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le
funzioni WaC “ f ’ in Lo Stato e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t
SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare
all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari a gin
associati. Le associazioni sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure
molto disposte ad assumersi tali compiti, ohe spesso non sarebbero
neppure in grado di svolgere efficientemente data la limitatezza e
l’inadeguatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione, anche a
prescindere dal giusto timore dei dirigenti di potersi creare m tal modo
animosità lesive di quella compattezza dell’Associazione Fascista, che
costituisce uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai
fini propostisi dal nostro legislatore». Un chiarimento sulla tesi
riformista del Benini. La ritorma propugnata da questo autore (studio
cit.), per quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa:
due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una sul reddito totale di
famiglia, l’altra sul patrimonio-. Senza dubbio, la scienza
finanziaria ed il procèsso evolutivo della legislazione fiscale degli
Stati moderni pongono in evidenza i tributi globali e personali
come il fondamento di un corretto sistema di imposizione diretta in luogo
delle imposte reali imperfette e causa di sperequazioni gravi ed
inevitabili. Il nostro sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali,
integrati da una imposta personale, la complementare, che con i
procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung presenta una struttura che le
consente di assolvere agli importanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la
riforma proposta dal Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro
sistema d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa,
lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione, sulla
distribuzione e sul raggruppamento dei redditi, sulla organizzazione
tecnica della nuova amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed
attuare una riforma così vasta e complessa che le condizioni del1 economia
nazionale e della pubblica finanza entrino in un periodo di sufficiente
tranquillità e stabilità. Tutte cose queste di cui il Benini è
consapevole. Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra
le due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il
contrario che questa non esiste sostiene una terza e differente che trova
riscontro nei seguenti scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche
nello Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee
generali sulla trasformazione del nostro sistema tributario, esposte al
Primo Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del
Consi. glio Prov. dell’Economia di Pavia; Le finanze pubbliche e
l’ordinamento corporativo, in « Economia. Il Griziotti, se non erriamo,
desidera un sistema di imposte congegnate in modo da rispettare le
esigenze della produzione. Vuole un sistema tecnico e razionale che sodisfi
anche i criteri della giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici.
Rico Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia. nosce che l’opera del
primo periodo della finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della
produzione. Queste idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un
fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non ci trova
consenzienti è nei dettagli (ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva
delle rendite e dei sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il
discorso. Secondo un distinto allievo del Griziotti, il
Pugliese (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati
Moderni, Padova, GEDAM) « Nello Stato Corporativo l’economia continua a
basarsi fondamentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè
alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista viene
apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un elemento che è quello del
controllo sociale che, sulla iniziativa privata e sul suo svolgersi,
viene attuato dallo Stato. Nello Stato corporativo anche la politica finanziaria
deve necessariamente seguire le direttive, che non coincidono nè con
quelle del sistema liberale-capitalista (benché ad esse siano assai più
vicine) nè con quelle del sistema collettivista. Essendo
l’imposta uno dei principali strumenti di cui lo Stato qualora rispetti il principio della proprietà
privata si può valere, per intervenire nel campo dell’economia, individuale, è
logico che ad essa faccia più largo ricorso uno Stato, che ha per
principio l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale lo
richieda. E essenziale rilevare che nel sistema corporativo,
mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale: mentre nel sistema
liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e prosperità, che
vengono attuati mediante la protezione di tutte quelle forze
individuali che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato corporativo,
oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa esso stesso agente
diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti, non solo proteggendo
e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma facendosi iniziatore
dei provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali all’obbiettivo
prefisso. Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare il
contributo che, anche in questo campo ha dato Pantaleoni col suo scritto:
Finanza fascista, in « Politica, scritto che i nuovatori sistematici ed i
creatori di schemi astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se veramente
sono, come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Capitoli
della storia: “Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La respnsabilita della guerra
ed il “tradimento militare”; “La preparazione del colpo di Stato”,
“L’antifascismo del Governo Badoglio e la capitolazione”; “La liberazione di
Mussolini”; “La proclamazione della Repubblica Sociale”, “Il Manifesto di
Verona”, “In lotta per la difesa dell’onore italiano”, “La lotta per la difesa
del patrimonio nazionale italiano”, “La politica di conciliazione nazionale;”
“Conati di revision in senso liberale della tendenza autoritaria e per la
instaurazione della legalita”; “Il processo di Verona e quello degli
Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed economica”; “Il regno d’Italia”,
“I comitati di liberazione”, “La guerra partigiana”, “Il Ragrgruppamento
Nazionale Repubblicano Socialista”, “La catastrophe militare”; “L’instruzione
dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e Mussolini, contributo a ”Gentile” –
“Nazionalismo Sociale” – contribute alla rivista La Verita (fascista).
“Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come INTERPRETAZIONE della storia –
con una conclusion politica di Augusto de Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico
Edmondo Cione. Keywords: ICARO, l’idea corporativa, corporativismo, storia del
nazionalismo sociale, icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la
civilta greco-romana, corporativa, principio corporativo, principio cooperativo,
corpotivismo, corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservativo come
corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione”
– The Swimming-Pool Library.Cione
Luigi
Speranza -- Grice e Citrone: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). A member of the Cinargo and a friend of Giuliano. Chytron
Luigi Speranza -- Grice e Civitella: la ragione
conversazionale e ’implicatura conversazionale – scuola di Teramo – filosofia
abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montorio al Vomano). Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Montorio al
Vomano, Teramo, Abruzzo. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al
Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on Roman
jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s, not
Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them days
of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in
‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes the
world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is
the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive
it!” C. è giustamente ritenuto il Nestore
della filosofia napoletana. Questo illustre filosofo, autore di molte opere di
storia e di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta
istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che
interessa la sua terra; e possede l'ancor più raro merito di saper comunicare
le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e
semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le
ricevono. Figlio di Berardo C. nasce nella villa di Leognano, in provincia di
Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno a quando Pir (o Pyr)
Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della
famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in
posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Savorini, il cognome è “de
C.”. All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto
ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito
inviato a Napoli, per il completamento
degli studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per
le materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno
per il diritto e Mazzocchi per l'archeologia. Nella città partenopea si
laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito
diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se
ne spogliò subito per motivi di salute. Nella prima parte della vita si
dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia
politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel
miglioramento e l'abolizione di molti abusi. Con il ritorno in patria si
inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di
Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le
premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del
territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi,
Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio C., il figlio di Giamberardino, che fu
allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto
noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di
libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente
del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio
della Repubblica Partenopea. Caduta la Repubblica Partenopea anda in
esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza.
Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima
storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una
serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale
di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio
territorio. Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del
Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali. Restaurato il
governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e
successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne
eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della
Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia
di C. si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano,
dando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La
filosofia di C. si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del
diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte
da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i
principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di
eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una
valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale
logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità
invadente. Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a
cui si richiamò l'opera del C., permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla
compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto
dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del
regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione
dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole
della morale corrente. Come politico e come giurista, e eminentemente
pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori
del suo tempo. Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto
nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede
nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a
filosofo. Altre a Teramo e alla frazione
di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla
Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo;
Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche
intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato
massone. Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non
esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie
relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo
all'appendice del volume di Eugeni, Forti, allievo di Fergola. I principali
indizi si possono così riassumere: I maestri ed amici di C., come
Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni; In un diario del
curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente
a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove
un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella
rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski
ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda
il nipote Orazio C., futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare
a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.
Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti
massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo
nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre saggi: “Saggio
filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria
sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita
de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso
Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul
bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città
di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo,
Angeletti). Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita Perrone, La Loggia della Philantropia. Un
religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni,
Sulla vita e sugli scritti del commendatore C., in Giornale arcadico di
scienze, lettere ed arti, Raffaele
Liberatore, Melchiorre C.. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie,
Ristampato come C. in: De Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia,
Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù di C., Teramo,
Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo,
Angeletti, Aurini, C., in: Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo,
Teramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda
editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano,
l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario del
Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di
ricerche storiche, Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un
moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS,
Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli
prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani. Il DRITTO ROMANO è sempre
incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè, sebbene non gli mancassero
ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità -- incertezza e arbitrarietà
-- sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse specialmente
imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce LA VANTATA GIURISPRUDENZA
ROMANA. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la
storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra i lumi i
più importanti. Fra gl’innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo
quello di cui tutti I FILOSOFI si servirono, quasi di testo alle loro ricerche
e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del giureconsulto SESTO
POMPONIO, della quale si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo,
rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tutto cid che il nomato
giureconsulto raccolgeo su tal oggetto nel suo manuale. E poichè POMPONIO incomincia
la storia del dritto da ROMOLO e dagl’altri seire di Roma, dello stesso momento
conviene seguirlo. In questa prima epoca, abbastanza oscura, non vi sarà pero
materia di dispute, poichè SESTO POMPONIO parlando conformemente alla ragione
ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte leggi e con dritto
incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve intendere per
quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia – GL’OTTIMAT -- nella qual
forma Roma ha il suo incominciamento. Quindi POMPONIO si espresse nelle precise
parole. POPVLVS SINE LEGE CERTA SINE IVRE CERTO PRIMVM AGERE INSITVIT. N’altrimenti
dove avvenire, poichè quella prima associazione essendosi formata di gente
malatta al vivere socievole, e non avendo ancora positiva forma di società,
dove essere piuttosto REGOLATA DALLA FORZA DEL COMMANDO che da un stabilimento
positivo. Ciascuno sa che ROMOLO, per accrescere il numero de primi suoi
compagni, prese l’espediente d’APRIRE UN ASILO da era retto ve s9 da che si puo comprendere quali fossero i
primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e
questi divenneno i padri della patria, i forti, i primi quiriti, e formano il SENATO.
Dopo questi primi tratti caratteristici relativi alla legge, POMPONIO segue a
raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, ROMOLO
divide il popolo in tante parti chiamate “LE CURIE” e col voto di esse prende. LA
CURA DELLA PUBBLICA COSA e in seguito FA LA LEGGE CHE CHIAMA “LEGGE CURIATA” -come
ne fanno ancora i sei re successivi. TUTTA LA LEGGE CURIATA è raccolta da SESTO
PAPIRIOS, il quale viv al tempo di TARQUINIO il superbo – e, dal nome dell'autore,
quella raccolta è chiamata il “DRITTO PAPIRIANO”. Non m'impegno nelle dispute
storiche e critiche delle quali si occuparono gl'interpreti di POMPONIO, ma
osservo che, sebbene da principio, parla dello stato informe di Roma e
dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come è data una
forma, non una costituzione, alla città, e come dai re è promulgata la legge
curiata. Per quanto durano i regii signori, Roma non ha dunque che QUESTA O
QUELLA legge occasionale, e LA SOCIETÀ È MANTENUTA PIÙ COL GOVERNO CHE COLLA
LEGGE. Prima intanto di passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi
seguenti, non è inutile il presentare lo stato politico del popolo romano sotto
l’epoca dei re, e quale è l’indole della legislazione per tutto quel tempo. E
poichè di cose che non hanno autori contemporanei o vicini, non è possibile il
ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle
circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto
il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che
quella società incomincia da un ADUNAMENTO DI PERSONE APPARTENENTI A VARI
POPOLI -- non solo ITALICI, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria
associazione, avendo ROMOLO per capo vive, da principio, di prede e di rapine, gusto
che fa il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di
conquiste, come gli avoltoi comparsi a ROMOLO nel prendere gli’auguri sono
poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose, da principio NON
VI È BISOGNO DI LEGGE, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma è fondata
come LIVIO si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute sono decise
dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e nelle società de’
briganti è sempre avvenuto. Avviene similmente che, nel formarsi tali
associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia – GL’OTTIMATI -- e così
avvenne di Roma. Il palagio di ROMOLO è una succida capanna. Il di lui TRONO
quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il SENATO è la scelta de’
commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare
certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto è vile
plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie
nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ sono nomi di versi appartenenti alle
stesse persone secondo i va apporti ne' quali sono considerati, o di Senato
consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata sulle
divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia
non ha alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi
autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle
parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagl’antichi autori,
parlando dell’origine del CLIENTE, si esprime in termini rappresentativi della
verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. PATROCINIA
APPELARI CAPRA SVNT CVM PLEBS DISTRIBVIA EST INTER PARES. Ne si devono contare
per un ordine intermedio di cittadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati
fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato
militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società
nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma
nella quale da principio è stata abbozzata. Sotto il re NUMA vediamo i primi
passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale:
la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei
ministri e degl’interpreti della divinità. In somma, il principio di un GOVERNO
TEOCRATICO, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare
sulle cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che
specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo hanno i primi
principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar
gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gl’atti umani e farli
nascere ancora in UN POPOLO QUANTO IGNORANTE TANTO SUPERSTIZIOSO. Così par che
fa Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel
natural corso del sociale andamento. Cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia
sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del
sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale:
GL’OTTIMATI. Su questo piano Roma cresce successivament sotto i re. L’aristocrazia
è sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali
mezzi crudeli e sacri sa sostenersi. MASSACRARONO ROMOLO E NE FECERO UN DIO.
Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta. Il primo
per quanto io so a darne l’idea è VICO, il quale, riunendo alla multiplicità
delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali,
fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degl’antichi
costumi sa scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso
delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale
nasce dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della
compagna superstizione. Le luminose tracce di VICO sono poi seguite da DUNI, e
fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nasce
aristocratica – Gl’otimati --, che il RE non è che il capo dell’aristocrazia,
che i soli patrizi – gl’ottimati – hanno la quarta di cittadini che sono in perfetto
stato di combinazione l’aristocrazia POLITICA e l’aristocrazia sacerdotale, e
che il nome di ‘POPOLO’ ne’ primi tempi ai soli patrizi (ottimati) appartenne,
come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza – CIVES, POLIS -- i
quali poi sono gradatamente dalla PLEBE acquistati. DUNI concilia luminosamente
la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto POMPONIO e fa vedere
che il re NON HA CHE UNA *PARTE* del governo o dell’amministrazione, ma che LA
SOMMA DELL’AUTORITÀ, LA VERA SOVRANITÀ, il
potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedeno nel corpo de’
patrizi – L’OTTIMATI -- come anche il dritto di eliggersi il loro re o
principe. Sono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (DUNI, Orig.
del Citted. Romano) ministri ed interpreti. E, siccome per un’eterna verità, l’aristocrazia
– GL’OTTIMATI -non si sostiene che sull’appoggio della SUPERSTIZIONE POLITICA. Cosi,
dal corpo aristocratico – Gl’OTTIMATI -- si sceglievano i vari sacerdozi, e fra
essi il corpo de’ pontefici è specialmente destinato a dar i giudici alle cose
umane. Quindi la CONOSCENZA della legge e l’amministrazione delle medesima è un
dritto esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia
del mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente CUSTODITA
NELL’ORDINE de’ patrizi – GL’OTTIMATI. Codesta emanazione della prima ‘teocratica’
idea non solo si conserva per quanto ha di durata il governo del re ma per
quanto vive la Roma. Una repubblica, colla sola differenza pero che come crescheno
le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e da essi RIFLESSI DELLA
RAGIONE POLITCA nasceno i sentimenti di libertà e d’eguaglianza, così quelle
idee si andano a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli
simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva
influenza. È necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo
stato della legge, dell' amministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’
primi tempi di Roma. Senza impegnarci nella particolari legge sotto il re
emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge è
minima, eventuale ed incerta -- e che l’interpretazione delle medesine essendo
stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire
ancora che la giurisprudenza è incerta, irregolare, arbitraria, e quale AD UNA
NAZIONE IGNORANTE E SUPERSTIZIOSA può solo convenire, e per conseguenza esser
stato pur vero ciocchè POMPONIO scrivee, che sotto i re sine lege Gerta – SINE
IVRE CERTO -- ine jure certo viveno i romani. Lascio agl’ambiziosi di glorie
filologiche legali l’andar raggruzzolando i pochi superstiti frammenti della
legge regia, poichè i stessi antichi giure-consulti ne fanno poco conto e le
lasciano perire. Chi vuole però riconoscerle, trova in esse la conferma di
quell’idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche
associazione. Espulso il re col ratto di LUCREZIA, si crede comunemente che il
governo di Roma cangia d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gl’eroi
della libertà. Ma chi giudica senza
prevenzione non vi trova che gl’eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano
di libertà; della propria libertà però non della libertà pubblica -- per
servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio sugl’altri.
Quindi, Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge
e l’amministrazione politica e civile rimaneno nella stessa condizione.
L'incertezza è seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio. Ciocchè ci dà
manifestamente ad intendere POMPONIO dicendo: EXACTIS DEINDE REGIBVS AE
ITERVMQUE CÆPIS POPVLVS ROMANVS INCERTO MAGIS IVRE ET CONSVETVDINE ALIQVAM PER
LATAM LEGEM IDQVE PROPE SEXAGINTA ANNIS PASSVS EST. L’aristocrazia è stata
alquanto abbassata dall’ultimo re, per cui ha fine il suo governo. Ma dopo la sua
espulsione ritorna presto nel primiero vigore. Quindi gl’effetti doveno essere
conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infattim si sa che DALL’ANNO
FATALE AI TARQUINI FINO AL TEMPO DELLA LEGGE DECEMVIRALE, il potere legislativo
ed il potere giudiziario sono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo è
ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i
plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della
forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale sono tenuti, tentano
de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi.
Ottenuto il TRIBUNATO si avvidero ben presto che esso è troppo debole ostacolo
contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente è annidata dentro la
stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo che fieramente la difende.
L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo
ancora dell'opinione, sono più volte ripetute. Ma le loro domande sono incerte,
le loro querele generali, ed i loro desideri si riduceno ad essere considerari
come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo
stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi può essere migliore
per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè
la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser
riguardati come uomini cittadini. Strano ed ARROGANTE sembra al patrizio il
desiderio della plebe, e strano pare sempre al possessore del potere arbitrario
il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio
non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e
persuaderli che i patri costumi sono sufficienti e che di nuova legge non vi è
bisogno – MORES PATRIOS OBSERVANDOS LEGES FERRE NON OPORTERE. Sono intanto
inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trova detta suo
questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul
modo di sedare le civiche discordie rispose loro. Fatevi la legge; i Romani
plebei senteno l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je
gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche
sono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposa colla più buona
fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali
doveno mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a
raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occultano in qualche
luogo d'Italia, e la legge poi è tirata dall’arche pontificali e perchè nulla manca di condimento
aristocratico, si fanno poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da
Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle
XII tavole se è trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, è un
articolo sommamente istruttivo. Ma questa ricerca veramente politica è stata
molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dove
servire e che non dove aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata
autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde
che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastano l’usanza, no la legge. Il
popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso
parla per bocca de buoi e d’altri animali, del linguaggio de quali si fa un
merito d'essere interprete. I plebei vuoleno che la legge si fa dal popolo
legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi è altra
legge che quelle ch'essi stesse fanno: darurum legem neminem, nisi ex parribus
ajebant. Il popolo vuole una legge d’uguaglianza. Il patrizio le promette in
parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente, dopo
tante vicende le X tavole furono pubblicate – E SUCCESSIVAMENTE L’ALTRE DUE -- come
ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e
resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il
popolo la esamina e la approva solennemente. Ma la storia stessa ci dice che
quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno che sconvolsero tuttol'ordine
pubblico e secondo LIVIO nihil juris in civitate reliquerant, che PER QUELLE
LEGGE OGNI CONSUETUDINE ARISTOCRATICA È CONSERVATA, che la vantata uguaglianza
resia in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconosce d'
essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata
pienamente scoverta da molti autori e specialmente da VICO, da Bonamy e da DUNIi:
la favola d;essere state leggi d’uguaglianza e di giustizia, la può scoprire
facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia gl’avanzi di quelle
leggi. La scovri ancora il [VICO, Scienza
nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris; Duni: Dėl Cittad.
Rom.] popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato può
tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse
la gente come uomini e come cittadini, non trova che UNA LEGGE CIVILE, una
legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco
l'interessano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognano UNA
LEGGE COSTITUZIONALE che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse
egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi.
Niente di tutto questo. E la plebe resta delusa della sua troppo malfondata
speranza. Ma sa rinnovare le giuste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler
fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto
portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gl’elogi de'
quali sono state ciecamente onorate dagl’antichi é da moderni; ed osservare in
seguito, se ne provenissero quegl’effetti felici, ai quali produrre sono
destinate. CICERONE in più luoghi esaltandole sopra tutte le leggi conosciute,
non è poi molto felice nel darne le pruove. Così condanna Solone, per non aver
imposto pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo
tale per onore dell'umana natura; ed eleva la seviezza della Romana
legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola,
sem sapientiam! esclama CICERONE dopo aver lungamente ragionato con logica
forense. Tale è la saviezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi;
poichè se si riguardano per la parte criminale esse sono aristocratiche,
ingiuste, severe, é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale
poch’indizi ci sono restati, andano alla conservazione dell’aristocrazia: se
per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi
concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, doveno
esser analoghe alle leggi ed all'usanze: se per la parte testamentaria, è
facile il vedere, ch' esse conteneno la massima ingiustizia politica, per
conservare in forza gl’aristocratici dritti. Della stessa indole sono le
indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche
nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al CONTRATTO, la
legge è pur sempli ci, come dove essere in un popolo barbaro con pochi rapporti
civili. Ma l’usure d'ogni specie sono terribili. Chiunque vuole esaminar quelle
leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi dove
avere colla natura e collo stato civile, trova senza fallo ingiusti ed
irragionevoli gl’encomj alle medesime attribuiti. Ma forse neppur in Roma si
pensa tanto favorevolmente di esse, poichè col tempo par che sono del tutte neglette
e dimenticate. CICERONE stesso riferisce che, al suo tempo neppure erano ben
intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse apprese a memoria, era poi
passato di moda tal costume -- discebamus enim pueri XII. ut carmen necessarium,
quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio sono cadute. in tale
disprezzo ed obbllo, che sono derise come fossero le leggi dei Fauni e degl’aborigeni.
Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gl’antichi
panegiristi delle leggi decemvirali. Poichè per quanto fossero selvatiche
quelle leggi, godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' antichità; e
paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degl’ultimi tempi della Repubblica,
il paragone risulta in favore della prima. Ma che i giure-consulti moderni, e
quelli specialmente della setta degl’eruditi riguardino ancora lo studio dei mi
peri frammenti superstiti come il più interessante per la conoscenza del
giusto, e rincariscano sugl’elogj degl;antichi, cið non può essere che
l'effetto d'un letterario fanatismo Se LIVIO chiama le leggi delle XII tavole
fonté ogni equità è troppo credulo all’espressioni ed alle promesse degl’iniqui
decemviri. Qual nie è infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed
ingiusta costituzione non è cangiata, e da quella vantata uguaglianza la plebe
neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata. Per quel principio teocratico,
di sopra accennato, ciò che distingue in tutti gl;effetti civili tanto pubblici
che privati, il patrizio dal plebeo, è il dritto degl’auspicj. È questo dritto
che da la vera qualità di cittadino negl’affari civili; ed incominciando dal
primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produce il
connubio o nozze solenni, dalle qua li deriva il carattere di padre di famiglia,
la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze è de' soli
patrizi, poichè gl’altri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj
auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e
propriamente gl’auspicj maggiori poi sono i soli mezzi per aver drito alle
Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento
è fatto da quelle vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella
costituzione nella quale tutto è sacro; e la Storia c'insegna, quanto poi
costasse di tranquillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo
l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più
antichi di Roma, pure si può asserire ch ' esse non hanno propriamente la loro
origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole. Si crede intanto che quel
prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser PUBBLICO
e generale, avesse resa certa e stabile
la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie, ciascuno
dove trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti la
legittimità de' suoi dominj. Ma su questa conseguenza ci fanno nascer gran
dubbj gl’antichi autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che
il principal caractere delle prische aristocrazie è la misteriosa custodia
delle leggi o consuetudini, e della religione, ciocchè forma il privilegio
esclusivo, o la privatiya di quella sola sapienza che gode del bujo et del [(Det
ZE =]; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza romana è fondata
parte sull’ingiustizia, parte su l'errore. Su questo, perchè la loro scienza
sacra ed arcana non consiste nel celare al volgo i misteri della natura,
l'origine della cose, l'energia della forza motrice, la fecondazione
dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni:
la loro scienza arcana si raggira sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo
degl’uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose,
alle quali non può appartener mai il nobile titolo di scienza o sapienza, ma
quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo fanno servire all'ingiustizia,
poichè con tali mezzi si manteneno nell'assoluta disposizione delle leggi,
facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè
alla sovversion ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi
qualunque sono pur pubblicate, una parte della scienza arcana e dell'
aristocratico potere anda a svanire, se non si trova un modo col quale si
ripara una perdita si grave. Quessto si effetrul col conservare il potere
giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za 7 bid
SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non sono avvalorate
dalla doro recondita sapienza. Essi doveno spiegarne il senso; essi conoscere
qual dritto nasce da una tal legge; qual era l'azione che ne provenne, quale il
modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che può impedirla; e finanche
si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si può amministrar la
giustizia senza offendere i numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il
mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una legislazione.
Essa vanta un origine aristocratica, un origine che si confonde coll' errore,
colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza è nata
subito che vi sono leggi incerte ed arbitrarie; pu e non si conferma, estese e
stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo
prezioso compendio dei dritti degl’uomini. POMPONIO conferma le mie parole.
Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente
avvenir suole, s'incomincia a desiderare per l'interpretazione delle medesime
l'autorità de' giurisprudenti, e le necessarie dispute del foro. Tali dispute e
tal dritto non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però
un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con vocabolo comune è
chiamato DRITTO CIVILE. Quasi nel tempo medesimo da quelle stesse leggi si fanno
nascere le azioni, colle quali si dove discettare a litigare: ed saccia non è in
libertà di ciascuno il farne uso, si pensa a farle essere certe e solenni; e
questa parte del dritto è denominata azioni della legge, o sia azioni legittime.
E cosi quasi ad un tempo nasceno queste tre specie di dritto cioè leggi delle
XII. tavole; dritta çivile derivato da esse; ed azioni della legge, composte
sui s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle leggi quanta
dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse è riservata al collegio de
Pontefici, quali in ogni anno destinano persona che presedesse ai privati affari
o litigi; e con questa, consuetudine vive il popolo per cento anni in circa. Quale
orribile contradizione! Appena pubblicata una legislazione tanto vantata per la
sua perfezione, è trovata cosi insufficiente che ha immediato bisogno di
sostegni e di interpretazioni. E codesto è il codice superiore a tutte le
biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di POMPONIO contiene una contradizione
alle idee di leggi e legislazione che somministra il buon senso il più comune.
Il dritto civile tanto encomiato non è altro dunque che il risultato dell’interpretazioni
de'Giurisprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti sono mai
quelli! Ciascuno sa che quella è l’epoca della più crassa ignoranza; la spada,
la zappa, i polli e le usure sono le sole idee che fiorisceno in quelle teste
leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi
qualunque è stato quel dritto consuetudinario può pur ridursi in massime o in
principj di giustizia, e cosi divenire di comune intelligenza e di un uso
generale. Si pensa il modo onde questo non avvenisse, e si mantenne sempre le
leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið è sicuramente per una vanità dottorale,
ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitraria, qual è il grande
scopo dell'ordine aristocratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportuno
è quello d'inventare le azioni, cioè delle formole colle quali non solo si dove
agire o eccepire in giudizio, ma secondo le quali si dove regolare i contratti
e gl’altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non
basta loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colla legge certa
difficilmente si può abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso
e della nuova pratica una nuova legislazione da surrogare all'antica scienza
mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá custodia, colla quale
prima delle XII. tavole tenne le antiche consuetudini. E perchè non si manca di
venerazione a tale straordinario stabilimento, i pontefici ne sono fatti
depositarj egualmente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di
legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diretta non a
dispensar giustizia, ma a conservare ľaristocratico dispotismo, da segno, di
non aver mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si
tratta già di fare la legge, si tratta solo di tener il popolo in schiavitù:
perchè se avendo già esso acquistato i dritti di privata cittadinanza può
godere anche quello d'ISONOMIAI, cioè dell' eguaglianza delle legge, qual'è il
suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione, ha un gran passo
verso quella libertà che tanto F ambe, ma che più sente che conosce. Escla. md
esso sovente contro quella specie di occulta o privata legislazione, dicendo,
che la sua condizione de ea in questo assai peggiore di quella dei popoli vinti;
essendogli negato il poter sapere cioc che riguarda i più comuni affari çivili,
e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agl’altri non è ignoto: segno sicuro
che l'aristocrazia romana e inolto più feroce o severa di quella delle altre
città o popoli vicini. Il dottissimo VICO con gran proprietà d' intelligenza
pensa che quel notissimo motto di Solone: conasciti, è piuttosto un précetto
politico che morale. Pieno l'animo di tutti i sentimenti della vera giustizia
Solone ricorda con quel motto all'oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè
di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il
popolo romano non ha un Solone, che gli da così utili ricordi; ne forse ne ha bisogno,
poichè abbastanza si riconosce, ed agl’insulti de'patrizi risponde, che non sono
fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe
però avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la
quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degl’abusi del potere aristocratico,
ma non giunse mai a formare una pefetta repubblica, fondata su i veri rapporti
sociali e su i dritti primitivi della giustizia naturale e positiva: per cui se
Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde
anche presto nella voragine del dispotismo. Ma ritornando a quella giurisprudenza
che succedè immediatamente alle XII tavole, e che da nascita a quel nuovo
dritto così stranamente amministrato, dico che, sebbene da quanto semplicemente
espone POMPONIO, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza
aggiungerd, che l’illustre GRAVINA, tuttochè pieno d' entusiasmo per la romana giurisprudenza,
non sa nascondere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'quali ragionamo.
Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum
prodiit: aspera quidem illa tenebricosa et tristis non tam in æquitate quan in
verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiudizj filologici,
vuole mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. F 2 di giudicare giustamente,
come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe riconosciute per
arbitrarie e maligne le successive giurisprudenze dette media e nuova, ed
avrebbe disconfessato gl 'inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse
tributare. Per quanto però si è finora ragionato, non ho toccato che
leggermente la nequizia della giurisprudenza e della giustizia sacerdotale; ma
chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie
maggiori in fatto d'amministrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e
conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani
misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile, è precipitar gli
uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità
d'espressione si chiamano LA RAGIONE CIVILE la, onde il celarle, il corromperle,
val lo stesso che privare gl'individui del corpo politico di quella ragione che
loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurisprudenti
non lasciano mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo
coll'inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le
leggi e le guastarono; ma de' nuovi stabili menti anche s'impossessavano per
poterne disporre a loro talento. LIVIO n'è amplissimo testimone dicendo: institutum
etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut senatusconsulta in ædem
Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante atobitrio Consulum supprimebantur
vitiabanturque. Non è però sufficiente questa legge, e i giurisperiti
seguitarono ad essere veri monopolisti della legge. Dobbiamo credere però che i
più virtuosi romani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di
soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali
quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti
rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa
che Roma allora e per alui secoli non presenta alcuna occupazione che potesse
allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scienze, e
dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non
ama l'intrigo, nè la vita oziosa soffre, in vece di darsi alla cabalistica (LIVIO)
e viziosa giurisprudenza, si ripara nella esercizio dell'agricoltura sempre
preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire,
mostrandoci, che la famiglia la più infesta allo stato, la perpetua
persecutrice della libertà popolare e della giustizia pubblica è una famiglia
di giurisprudenti. Tale è LA CLAUDIA; e sempre si è veduto che dove dottori e
forensi sono, la discordia prende il luogo della pace e della naturale
tranquillità. Ma ritorniamo a POMPONIO. Egli ci dice che quella mistica
giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero agl’altri autori
dicono, che ha una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene alcune
differenze dalle quali non è alterato il fondo del la cosa. Seguita dindi POMPONIO
a raccontare come quelle formole ed azioni, essendo RIDOTTE IN FORMA D’APPIO
CLAUDIO, cotal mistico libro gli è involato da GNEO FLAVIO, figlio d'un
libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e fattone un
dono al popolo, questo gli è si grato, che lo fa pervenire ad esser tribuno
della plebe, senatore, ed edile. Questo libro contenente quelle azioni delle
quali si è già parlato, dal nome dell'editore è deno. Si po, mitato DRITTO
CIVILE FLAVIANO, benchè egli nulla vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in
Roma la popolazione e nel multiplicarsi gl’affari maticando alcune specie di formole,
SESTO ELIO non » guari dopo compone nuove azioni e ne pubblico co un libro
chiamato DRITTO ELIANO,. trebbe" ragionevolmente pensare, che pubblicate
le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto cívile, le azioni, la
pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo
illuminato su i principj legali, sulla condotta degl’affari, sul modo di
amministrar la giustizia, sull’ordine giudiziario, non avesse più bisogno della
maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo.
Ma tuu ' altrimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj –
gl’ottimati -- perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella
scienz'arcana, che forma la base principale del loro ingiusto potere, trovano
il'modo, onde far rimaner il popolo defuso. E come nelle sette se si vengono a
scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, presstamente si
cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi
Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti
dell'ordine, e conservano il grande arcano della giurisprudenza. Le formole e
le azioni sono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero
rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma
ascoltiamone, CICERONE, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento.ERANT IN
INIGNA POTENTIA QVI CONSVLEBANTVR A QVIBVS ETIAM DIES TAMQVAM A CHALDÆIS
PETEBANTVR INVENTVS EST SCRIBA QVIDAM GNAIVS FLAVIVS QVI CORNICVM OCVULOS
CONFIXERIT ET SINGVLIS DIEBVS EDISCENDOS FASTOS POPVLO PROPOSVERIT ET AB IPSIS
CAVRIS IVRISCONSVLTIS CORVIN SAPIENTAM COMPILARIT ITAQVE IRATI ILLI QVOD SVNT
VERITI NE DIERVM RATIONE PERVULGATA ET COGNITA SINE SUA OPERA LEGE POSSET AGI
NOTAS QVASDAM COMPOSSVERVNT VT OMNIBVS IN REBVS IPSI INIERESSENI (CIC. PRO
PUR.) Non è d’alcun utile dunque l'aver trafitti gli occhj a quelle cornacchie
poichè in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi
prosegue, la storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro
secoli gli stessi sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes cha stessa
condotta. La Giurisprudenza è latente, incerta, arbitraria, ignota al popolo, e
privativa del solo ordine patrizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù
che sola consiste nella beneficenza »da quella sapienza che cerca il vero, per
render lo di comune demanio; da quella giustizia trova i principj nella
ragione, e gli espansivi sentimenti nel cuore; da quella naturale benevolenza e
da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uomo civilizzato; da'veri
sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla giustizia; lungi
dico da tutte queste qualità e gl’eroi del Campidoglio non sembra che provassero
altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario,
anzi distruttivo de' sentimenti sociali, dal vile interesse personale e
pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso d’un illegitimo potere.
E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza! Seguitando quindi POMPONIO
ad esporre i fonti del dritto romano ci accenna l'origine de' plebisciti e de'
senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal senato, e delle quali
si vedeno gli effetti ee'l'l valore, e soggiunge, che nel tempo stesso anche
dai magistrati nasce un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè,
tecid saw pessero i cittadini, di qual dritto i magistrati in si sarebbero
serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura, e perchè vi andassero premuniti,
pubblicarono degl’editri, da quali si costitui IL DRITTO ONORARIO, cost detto
perchè proveniya DALL’ONOR del pretore. E dopo aver parlato finalmente
dell'altra parte del dritto che nasce delle costituzioni de' principi, cost ri-epiloga
tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano., Nel la nostra Città dunque
dice egli ) la legislazione è costituita del dritto o sia legge; da quello che
propriamente si chiama DIRTTO CIVILE, che non è scritto, è consiste nella sola
interpretazione de' prudenti: dalle azioni della legge le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti
che sono fatti senza l'autorità del Senato, dagl’edini de'magistrati, da' quali
nasce il dritto onorario; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge
particolare; e finalmente, dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la
Storia seguita, che POMPONIO ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla
quale presso a poco gl’autori tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale è
il dritto é la giurisprudenza romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e
quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1
caratteri d'irregolarità, d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la
ragion popolare andasse acquistando qualche dritto su l'aristocrazia, puro
questa sostenuta dal sacerdozio, qnantunque per necessità cede in qualche cosa
de’dritti pubblici, fa perð ogni sforzo per tener recondita le legge, e sotto
le chiavi del mistero tutto quello che riguarda l'anministrazione della
giustizia. Conoscheno ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno
veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle
leggi e della giustizia, e che tanto più diventa tale autorità efficace quanto
più la legge e oscura, incerta, ed arbitraria. Ma per vedere come questo
continuassets e come la giurisprudenza segue ad esser sempre della stessa
indole, prima di venir a ragioniare de' plebisciti e de' senatusconsulti ch'
ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto cui si volle dare
il titolo di ONORARIO, ma che vedremo' non essere stato degno di alcun onore.
Se si vuole parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole, che costituivano
la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di
buon senso e CICERONE stesso le. derideno e teneno in altissimo disprezzo,
credo che dopo due mille anni potremo far noi altrettanto, e chiunque non sia
un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e giurisprudenza.
Rifletterà solamente che quando di cose semplicissime si vogliono far misteri,
allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si devono
involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare impropriamente le
immagini e le finzioni alla semplicità e realità delle cose e delle idee:
specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura
Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di
Roma, mà solo indicare il corso infelice delle legge e della giurisprudenza,
cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i
patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e questi per
allontanarli, fanno tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi IL FORO ROMANO. Ma
accennerò solamente ciocchè importa, per passare all'origine del dritto
onorario. La forza dell' opinione non ha più molio. scevano valore contro la
forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad
alcuni di quegli officj che fin allora sono privativi de patrizi, come è quello
della questura e de' TRIBUNI MILITARI, non parve foro di aversi assicuraii i
sospirati dritti, se non otteneno la massima delle magistrature, vale a dire il
consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col
manto della religione i patrizj cercao coprire le loro pretese, o tependone
lungi il volgo profano, ailontanarlo da tutte le magistrature che de' sacri
auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al consolato,
si rende necessario l’ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar anche
essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni
che fecero cor endo alla fine il quarto secolo di Roma, sono queste cose
combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de
Decemviri, e che di questi V patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella
nuova elezione de consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro patrizio.
Invano APPIO CLAUDIO montà in tribuna per fare non arringa ma una predica teologica
contro le nuove idee filosofiche sorte negl’animi della plebe Romana: invano
ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minaccia d anate ma
quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma, dice egli, è fondata
cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano,
in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare:
che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del
dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo è mai creato cogl’auspicjse
che in fine canto è il creare i Consoli dalla plebe, quanto il rovesciare
interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non
ostantino però tante e si gravi rimostranze LUCIO SESTIO ottenne finalmente il
consolato. Se questo colpo è doloroso a sostenere per i patrizi, è facile
l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo efficace,
si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel
privativo potere che dipende dal consolato. Pensano dunque sta (12 ) Lir. lib.
YI. cap. 36 mabilire una nuova magistratura che può conservare nell'ordine
patrizio l'amministrazione della Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò
che riguarda l'esecuzione della legge civile. Quindi col pretesto che i consoli
sono quasi sempre fuori di città alla testa degl’eserciti, onde non possono
adempire agl’ufficj della giudicatura, proposento di stabilire un nuovo
magistrato che adempisse e questa parte dell'amministrazione, ed è ordinato che
si traesse dai patrizj e si chiamasse PRETORE. La pretura dunque è stabilita
per conservare nell'ordine de' padri tutto il sistema giudiziario o forense del
quale hanno facto fin allora uno scempio cosi crudele. La legge e la
Giurisprudenza segueno ad essere malversate, ma per poia chi anni dura
privativamente nelle mani de' patrizj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel
quale si può fissare veramente l' epoca di quella Giurisprudenza che passo di
mano in mano fino agli ultimi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il nome
Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato POMPONIO,
nasce dagl’editti, che emanano į pretori nell'entrare in esercizio della loro magistratura,
ed essa fa il maggior latifondio della scienza forense. L'importanza dunque
della medesima ci merte nel dovere di portarvi sopra uno sguardo particolare,
seguendola brevemente nel corso della Storia, ve derne in qualche modo l'uso,
il carattere; e gl’effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della
comunicazione a tat officio delle plebe, e più dopo eseguito il censo di FABIO
MASSIMO il governo di Roma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse
lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse
mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà
popolare è molta, e qualche volta eccessiva a segno che degenera in licenza,
poichè essa non era limitata dalla legge; ed il dritto de' suffraggj ed il
potere legislativo non hanno mai quela regolarità ed uniformità, che può
rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo. E non è mai tale il
popolo Romano, poichè la forma del suo governo non è costituita su d'un piano
antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti
sociali si fosse rimontato alla necessaria divisione del pubblico potere, e
questo ripartito in modo che le varie parti non si potessero nuocere fra loro,
e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte
coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione
sociale. Non avremo perciò quind' innanzi frequente occasione di parlare dei
disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del
disordine e della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo
adattato alla facile germinazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki,
non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione.
Ma passiamo finalmente a vedere quale fosse stato il fato della Giurisprudenza
in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più
accuratamente trattarono degli editti pretorj sono da distinguere il celebre
Giureconsulto Eineccio ed Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per
trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo
articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono
ricerca alcuna conducente al loa G TO Heinec. Hist. Edict. Memor. de l'Accadem.
des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per l'Impero
ancora non solo quelli che propriamente Mangistrati sono detti, ma diverse
altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To pure il
dritto o il costume di fare deg’edinti Quante che fossero adunque le divisioni
e suddivisioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti diversi
rapporti fossero esse costituite, prendendo un tal dritto, hanno l'uso e la
facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai pontefici e
dai tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai
Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vollero avere il
dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà
o prerogativa è compresa. Fra tanti Magistrati però che hanno o si arrogano
cotale autorità, gl’editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare
una nuova Giurisprudenza sono quelli de'Pretori. Dai patrizj è inventata e
fatia stabilire questa nuova Magistratura a consolazione ed indennizzamento
della perdita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi
ottennero, che il pretore dal loro ordine dove essere prescelto Non dura mol, (99
molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza
fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche paratecipare a
tal carica, mentre ancora è unica e non divisa nei due Pretori Urbano e
Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo. Coll’andar del tempo si
multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori
Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni sono addetti a
rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la
origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da LIVIO e da altri, cioè
che essa è surrogata al potere giudiziario, che i Consoli esercitano, si
dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione
nell'antica Giurisprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto
per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la
loro giustizia meritata la conferma della pubblica autorità, e passate quindi
in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si potrebbe
facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e
d'una nuova Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essendo essi semplici
giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per
tal modo usurpare l'autorità legislativa, che il dritto è cangiato, e gl’editti
più che la legge sono osservati, e maggior uso ed autorità hanno nel Foro. Ma
se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro
officio è solo di applicare la legge al caso particolare, o sia ve der i
rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si disputa. Un Giudice non può
creare un dritto colle sue sentenze, poiché esse altro non sono che la
dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si
verifica per la tale azione o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo,
cioè esercitando l'attualità della Magistratnra non può crear un dritto, molto
meno dee ciò poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della
Magistratura. Gl’editti pretorii dunque per i quali si alterano, si cangiavano
le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci presentano degl’atti d’autorità
arbitraria, temporaria, ed incerta che non possono formar mai una parte del
dritto, il quale può solo emanare dalla potestà legislativa, e dev'essere certo
generale o perpetuo, fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando
dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion
pubblica quelle facoltà, che devono essere divise da limiti insurmontabili, si può
dire che tal carica contenga almeno in potenza, come diceno i scolastici, i
principj del disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che
l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre
un mostro di tal fatta, ma come codesta carica è surrogata al potere
giudizionario che avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere
esecutivo, cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall’ordine
da cui erano tratti, non è difficile il farvi passare di tali abusi. A
considerar dunque giustamente la cosa non nasce nella Pretura tale abuso dal
semplice potere giudiziario, ma da quello di far gl’editti. In fatti se si va
all'origine di questo dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli
antichi) quod jubemtis fieri: espressione tanto generale, che potrebbe
comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la legislativa; e
perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti sono di uso promiscuo:
Ma PAPINIANO è quello che più nettamente
ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che è introdotto a
pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il dritto civile. Jus
prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter
publicam utilitatem introducium. Ecco dunque la vera origine del dritto
Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gl’editti. Ajutare
intanto indica debolezza, supplire, mancanza, correggere, errori. Si dice ch'è
nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si
trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del
Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro
piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o
nociva alla Repubblica. Ma che altro è mai il dispotismo, l'odio de' popoli
czualmente e de' buoni regnanti: Se la legge manca, bisogna farla, e non solo
il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare
alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge,
ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle
erronee, nè ad interpretarle oscure. Lascio le tre prime condizioni o
circostanze delle leggi, sopra le quali non può cadere alcun dubbio che il
restituirle in qualunque modo non possa spettare ad altri che al Sovrano. Ma in
quanto all'interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia
stabilita la sua autorità, rifletterò che l'interpetrare o interpatrare da
principio è in Roma del soto ordine del patrizi, quando tutti i poteri e
specialmente il legislativo sono ristretti nell'ordine aristocratico. Essi
dunque che fanno la legge sono i soli che potessero interpretarle, uno e
l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato.
Quando una legge è oscura, non vuol dir altro, che il non sapersi precisamente,
ciocchè essa comandi o prescriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stessa
autorità, che l'ha emanata, sola interprete legitima di se stessa. Ne i giudici
dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale
è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e GIUSTINIANO stesso
ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le leggi bisognose di
sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti, de' quali di
sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da esse prodotto è d'
aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la corruzione della
giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani furono cogli Ebrei
sotto lo stesso parallelo. Or l'autorità data ai pretori cogl’editti prova
visibilmente due punti: il primo che la legge è così incompleta, come è quella
dei popoli barabari; e che i Romani lo furono a tal segno, che non seppero
conoscere, quanto il confondere le potestà, ed il lasciar il poter arbitrario
ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon
governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle
Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù, e che connobbe più delle
altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma gl’onori che merita. Essa
è la prima inventrice degli editti, essa è la sola Re. Heinec. De prohib. a
Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia, che li
avesse in costume. A vedere quale è il dritto Pretorie lungi dal dover credere
i Pretori Magistrati giudiziarj, dovremmo anzi prenderli per riformatori o
correttori delle leggi. Tali sono in fatti, ma non per uno stabilimento
autorizzato dalla potestà legislativa: lo furono solo per abuso, vergognoso ai
costituenti di sì strana Magistratura, e pernicioso sommamente al popolo
soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi, e l'incongruenza
nella quale dovevano essere per la differenza de' tempi, e per i politici
cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i stabilimenti d’Atene,
avrebbe trovato più opportuno mezzo a
correggere e modificare la sua barbara legislazione. Ciascuno sa che in Atene
vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propone annualmente i
cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste sono poi approvate o
riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia che
la pretura s' introducesse con tali abusi e tant'autorità straordinaria, se
rifletteremo che quella. Magistratura è da principio stabilita privativamente
per l’ordine patrizio, il quale la conserva in suo potere per anni. Per sapere
poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi sono IV
specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa: translaticia:
nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino alla sazietà
da molti autori è stato eseguito, mi ristringo ad alquante osservazioni più
importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali dovevano contenere il
sistema giudiziario attuale del la pretura, sono quelli appunto, da'quali
derivarono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei
quali il pretore espone nell' albo le formole delle azioni, delle cauzioni,
delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che
la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole è compreso,
chi è autore delle formole, lo è in conseguenza del dritto medesimo. Chiunque
nell'agire in giudizio manca a quelle formole per qualun que causa, cade dall '
azione, o rimane con inutile eccezione cioè perde la lite anche che
intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle
leggi. Ecco dunque il Magistrato divenuto legislatore, ed arbitrario it sistema
di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse fatto senza principj, e
che non avendo idee certe e generali de' principj del driito, facessero gl’editti
ciascuno secondo le proprie cognizioni ed idee: poichè come le ultime
derivazioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta
ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero
derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annuali, ma avrebbero
avuta una continuazione o vera perpetuità. NÈ SI FACCIA ILLUSIONE IL NOME DI
PERPETVÆ IVRISDICTIONIS, POICHÈ QUELLA PERPETUITÀ ERA RISTRETTA AD UN SOL ANNO.
Il Pretore o Pretori che succede alla carica, ha il dritto assoluto di proporre
nel nuovo albo un nuovo sistema giudiziario, e cangiare a lor grado la formola
ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sempre nè in tutto, poichè
spesso i succes'sori conservano integralmente o parzialmente gl’edirii an
tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, è
sempre però in libertà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo conio, che perciò
portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj.
si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare
agl’amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipende solo dal
capriccio pretorio, e gl’attori in giudizio dovevano essere ben intrigati in
variar le loro formole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le
disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo porta col tempo, che
fossero molte le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè fa un nuovo intrigo, ed
accresce l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pretori
sono varj, e vi è in Roma quasi una popolazione di Magistrati, poichè ciascuno
a suo modo proponendo gl’editri, quel ch'era giusto presso di uno, si trova
ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi
particolaramente è dunque così incerta che non ha per regola che le opinioni o
il capriccio, e si dilata o ristringe, allungava o accorciava secondo le
sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sempre dall'arbitrio e dalla
corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Amministrazione
giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non
avrebbe potuto 1 diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza
dell' arbitrio: ma gl’ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano
ragioni sufficienti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della
Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari,
per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistrature e le
Giurisdizioni. Esempio pur croppo funestamente imitato nei vari stati di
Europa! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la popolazione o il
numero degl'individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e
necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se stessi. Non
crescendo i rapporui non devono multiplicarsi e variarsi le leggi, le quali ne
sono I espressione; ne devono quindi crescere e diversificarsi in varj generi e
classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori. Possono crescere in
numero bensi ed in divisioni, ma de vono essere costantemente della stessa
specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj criminali e civili in
tante varietà, giurisdizioni, e legislazioni differenti è il produrre
volontariamente una confusione, e multiplicare gl’abusi dell'arbitrario potere:
ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti
del cittadino. In questo caso, la legislazione sarà univoca, generale, uniforme;
i limiti del potere giudiziario resteranno distintamente marcati; e le
giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno stabilite e divise sopra rapporti
immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di
corpo per cui sono in continua contesa o guerra fra loro, e, per conseguenza
col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inversa della
grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti
della picciolezza, più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della
forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e
convenevolmente diviso, senza gelosia e senza interessi contrarj avrà la
dignità che deve aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto
però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non
sembro loro ad ogni caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o
mal circoscritte dalla legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non
fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per
quella perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere
Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una
magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il dritto di can.
giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione, e farne
delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo leggislativo farebbe, ma di
propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva
nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi
magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a quello sostituito. Pensi
chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos. ļa, o la surrogazione d'
idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i
pretori, nol fecero per altro che per favore, per interesse e per altre tali
cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio,
il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto
pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati
talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero
scempio della giustizia, si svegliò finalmente un'anima virtuo sa
compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi
riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli
stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente
e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra
sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva
con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto
nelle più infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli
oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole
della Romana virtù. Sdegnò egli, come rapporta PLUTARCO, i studii che la nobile
gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non
comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po
polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i
suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere
per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di
corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le
sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la
pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i
loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti prætores ex
suis perpetuis edictis jus dice teni. PAULO
EMILIO fu in dovere di partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli
trion fi su i lontani nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva
dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non
è raro che i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più
efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal
danzire alle spese della Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto
vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in
disordini correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma
tra i disordini, la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto
insopportabile. A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati, poiché i
mezzi di salvarsi erano molto conosciuti. Quello però a cui un Console non potè
riuscire con ef fetto susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con
tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. CORNELLIO
SILLA il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato
specialmente dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili
leggi, propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata
cupidigia de' Pretori. LIVIO e DION CASSIO ed altri autori ci attestano in que'
tempi non solo la sfrenatezza pretoria,
ma il grand' interesse de nobili specialmente a conservarsene il
possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj, che i
fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi sentire più delle vo
ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più
tranquillo. Infatti secondo ASCONIO PEDIANO la legge passò = Multis 12 mon
invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere
assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto impedirla,
rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e Cornelio fu
debitore della sua salvezza alla facondia di CICERONE: Troppo tardi perd pel
popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era già spirante i
disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro
Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla,
nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla
eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori, e se
nuova Legislazione, nuova Giurisprudenza e nuovo metodo giu diziario furono
introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza, l' ordine
giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar
te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove
parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la
giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se
stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di
considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le
finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza.
Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione
per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni
della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que'
moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far
sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’ALTESERR, il quale offerendo a Lamoignon
l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones,
quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus difficiliores casus
expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur? = e peg
gio altrove. Tale fu EINECCIO ancora il quale nel la Dissertazione, De
Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le
finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di
conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà consultare i cita ti autori
e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo aggiungero soltanto, che
esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne, che nei
progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de'
tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che fosse cangiata la
realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati. Per la
secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro
prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente
par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo VICO portando
le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai
loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè le
immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi
espressioni più semplici e più adattate.
In con , fum tà di tali nature (dice il lodato autore ) l'antica
Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva i farti non facii, i non
fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i viventi, i morti vivere nelle
loro giacenti eredilà: introdusse tan, te maschere vane senza subjenti, che si
dissero, » jura imaginaria; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la
sua riputazione in rim trovare sì fatte
favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti somministrassero la
ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza furono verità
mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per le loro
circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre si
dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3
bara sia: 99 he: (VICO Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la
paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,,
ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti,
o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era
appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò
si rileva, che sebbene la Romana Repubblica progredisse in quanto allo stato
politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in
quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in
quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo
stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la
cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel
perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono
essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi
dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le
novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora,
la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse
meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno
sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose
e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del
Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di
molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti
sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell '
obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata
dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto -
ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader
suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative
', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le
leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda
dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono
ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che
ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel
tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente
circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio
abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza
equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali
qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del
potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più
usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e
coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià
pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo
valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando
le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci
com parirà molto giusto che GIUSTINIANO le chiami favo le cioè azioni
Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano
innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem
instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis
discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della
Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero
rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può
sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di
mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte
della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs et libram,
le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di nuove opere,
le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni et c. non solo erano
faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere, me con azioni e
rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le processure giudiziarie.
Questo però non significa altro, se non che, nei tempi d'ignorana ga si
sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale delle idee e de
sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le gesticolazioni furono nei
tempi barbari il supplemento della lingua parlata é divennero poi il linguaggio
rituale solenne e sacro; in che principalmente consisteya la Giurisprudonza
Romana quindi conobbero mai i sentimenti di sociabilità, i piaceri della
società, le regole che all'adempimen to di essi prescrive la Natura. Perciò e
per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si disputò, si discusse, si
combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a
generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione
de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo
passaggio maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici
furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai sentimenti univoci, e se la
plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la
sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che vergognosamente li
caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino.
Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi non poterono averla
della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato censo, non diro
quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica non fu una
invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue
in rapporto al soggetto della Giurisprudenza Romana, rispondero, che tali non
sono poic (Det poichè quando si parla delle leggi, convien neces sariamente
avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore, dei suoi sentimenti, e
della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà sembrare strano il
dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno nell'altro, e che il potere
legislativo fosse diviso in due corpi o anche in tre, e che poi quelle leggi
fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma nel tempo in cui fu più
celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella undecima delle dodici tavole
fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani, dobbiamo pur riconoscere che fu
la più negletta e la meno rammentata, poichè i fram menti o le quisquilie che
di essa ci rimangono sono le più meschine. E quantunque io sia nell' idea, che
quella tavola non contenesse che i prin cipali dritti dell' Aristocrazia, qual'
era appunto la legge de'cornubj, tanto detestata dalla plebe, e ro versciata
vittoriosamente da CANULEJO; pure in un frammento rimastoci, troviamo quale
avrebbe dovuto esser il vero stabilimento del dritto Legisla tivo, cioè QUOD
POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $ TO. Ma se vogliamo seguire, la
ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni, la parola popolo non fu ivi
presa nel senso proprio; e nel significato generale, per esprimere la collezio
ne di tutti gl'individui componenti lo stato, ma di quelli soli che godevano il
dritto, e meritava no il vero nome di Cittadini, quali erano i soli Patrizj.
Quando poi la plebe gradatamente venne a partecipare alle qualità civiche, la
parola po. " polo divenne generale, e non essendovi più di visione
privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di classi, ciocchè la cennata legge
prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso e valore, cioè, a far, sì che
legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea prescritto e comandato. Se
tale è però il principio costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina
il più convenien te ancora alla natura umana, vi devono esse re delle regole,
accið lespressione della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale,
onde ciascun cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano, dello
Stato, e della Patria: Tali sono le leggi costitu zionali, che riguardano il
dritto del suffragio, o la maniera di communi care la propria volontà al corpo
sociale, e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le
volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque
principalmente la qualità di cittadi. no, e il modo di darlo, forina quasi una
misura di graduazione del Cittadino mede simo. cioè che tanto più si è
Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale. Troppo lungi
mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia, come questo
drit to si stabilisse in Roma:, cioè nella formazione casuale di quella
Repubblica, alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle
sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e di ragione. Dirò solo, che quel
popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di
queste idee, che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue
alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo,
dove si radunava, per compir l'atto il più degno, il più glorioso p er un
popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma cotai nomi ed usanze erano avanzi
dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e mandre sono correlativi
necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf DIONYS.
ANTIQV. ROMANARVM e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che
fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè i Comizj delle
Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere legislativo; ed i Comizj
centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu
inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto, che di esaminare o
consultare, si arrogo pure in parte il potere legislativo. O la Nazione dunque
radu nata per Tribd, o essa stessa convocata per Centurie, o il Senato ebbero o
in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo. Le risoluzioni per
tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo molte contese la vera for za di
leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni, giacchè da principio non
obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un
altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto
far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol to tempo non le fecero
valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè
nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da
se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. el 3 2 tiva. Quelle
risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi,
furono le de cisioni dei Comizi centuriati, delle quali non oc corre ripetere
nè il metodo nelle proposizioni, nè quello della convocazione, nè quello delle
deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca, e si può trovare
presso mille autori, che del governo Romano anno ragionato. Ho voluto solo
ricordare queste poche notizia per mostrare, come il potere legislativo fu
stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la
realità, e come il dritto di suffra. gio, non fu lo stesso nè uguale nei
diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misurata su le
ricchezze, e non si può dire, che fosa se la volontà del maggior numero de'
cittadini, che rappresentasse la volontà generale, come don vrebb' essere per
natura. Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le
decisioni del minor numero, e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva
già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile
e, delusa. Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente
gli Entusiasti, ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione:
Dirò di più, e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione, che
quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà
governativa', ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario; ciocchè
indica, qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema. Fu
sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire,
che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati, perchè non avevano nè imperio
nè dritto di vocazione, nè giu risdizione, nè auspicj, ma in verità se non
erano magistrati nominali, lo erano in effetto, ed eser citavano un potere
amplissimo su la plebe, sul Senato, e sopra tutta la Repubblica: ad es si
apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero
corpo le gislativo, se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente
ed integralınente ad ogni. cittadino. Il Cittadino vi figurava come Citra dino
libero, e non era il rango o la ricchezza, che davano la preponderanza. E pure
questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge, come l'ebbero
le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo non decido pai se al paragone le leggi
Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato, che quelle
proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori. Possiamo però ri
Aettere, che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica, o relative
alla libertà ed al lo stato popolare, le quali si possono chiamare leggi di
Umanità e di Giustizia uni versale, furono tutte o quasi tutte proposte dai
Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le
leggi naturali della libertà, e quindi necessarie e costituzionali per un
popolo che voleva essere libero, Nè è da imputar loro che non fos sero migliori;
giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai
ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo, non potè
far a meno, di con fessare, che se si avessero voluti annoverare i misfatti de'
Consoli, non sarebbero stati pochi, ma che toline i due GRACCHI, non si
potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono
salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni
promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio. La maggior parte però
delle leggi, dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi
volanti o temporarie, essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari; ¢
sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne, non si
riducevano però in un corpo, che avesse l'autorità d'un codice di legislazione;
ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di
bronzo, come pur ci vo. gliono far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto
a pensar cosi da varie testimonianze, e spes cialmente da una di CICERONE.
Possiamo da esse raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de'
Patrizj e de' Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con
mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come
abbiamo veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a
ciò destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le
corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica,
gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la
custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta CICERONE, assicurandoci, che per
saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti =
Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri
volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam
nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi
solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta
hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria,
che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la
conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero,
che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che TACITO caratterizza
con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità
e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re
golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori,
prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i
co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le
leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la
confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la
cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da
privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito
dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges,
etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et
adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava,
per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo
detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti
encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e
giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della
posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci
avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della
Storia, e sce vri (TACITO, Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile
prevenzione tutt'altro abbiamo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen
" ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli
alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri
mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le
qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi
successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare
su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini
civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo
una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le
consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie
società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi
de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per
diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio
espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono
dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere,
che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che
assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono
prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con
cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima
formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e
tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili
affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna
particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l'
incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca
vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi
furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia
il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre
più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque
poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma
na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed
indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che
poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna
della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio;
ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del
resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si
fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente
ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli
edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di
durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di
Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e
nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi
l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso,
credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio
quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione
arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione
della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo
della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della
imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il
gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere
complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il
sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment
morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà.
Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere
morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler –
self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La
giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di
Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza
romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione
della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto
gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia.
Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica
della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al
capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue
memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo
decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto
il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo
decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento
delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo
politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati
nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi
delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed
abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei
del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati
dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti
dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine
dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte,
ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale.
Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del
bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli
su le origini italiche. Alla reale accademia ercolanese di archeologia e
a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società
Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri
nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte
sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D.
Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca
Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio
istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della
milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere
uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità
di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria.
L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla
medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità
organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale
Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali
bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di
pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di
Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica
di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti
(Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene
(Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo
Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre C. Gaetano Filangieri a M.
C. Pietro Borghesi a M. C. F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani all'abate
Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M. C.. Luigi Grimaldi a C
Toaldo a M. C...Spannocchi a M. C..V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle].
Michele Torcia a G. Berardino C...Mollo a M. C.. Carli...Mùnter a M. C. Mùnter
a C. in Napoli. Mùnter a M. C...Filippo Mazzocchi a M. C...Gazola a M. C...Giuseppe
Micali a C...Bertola a G. Bernardino C...Il medesimo a M. C...Brugnatelli a M. C...Anutos
a M. C...Gio. Andrea Fontana a M. C.. Il Duca di Cantalupo a C...Palmieri a M. C....Gargallo
a M. C. in Teramo...Galante a M. C...Amaduzzi a M. C...Zarillo a M. C...Giovene
a M. C...Amoretti a M. C.. Francesco Soave a M. C...Acton a M. C. (Teramo).Fortis
a M. C...Zannoni a M. C. Bossi a M. C...Tommaso Frantoni a C...Felici a M. C. Napoleone
a. M. C..Trivulzio a C...Melzi a M. C...San Severino a C...Il duca di
Sant'Arpino a C. Tracy a M. C.. Antonio Canova a M. C...Ricci a M. C...Gioli a
M. C...Dragonetti a M. C...Zurlo a M. C. Michele Arditi a M. C....Orsini a M. C....Burini
a M. C....Taranto a M. C. Sorricchio a C...Cicognara a M. C...Santangelo a C....Ciampi
a C. Tommasi a M. C... Il Duca di Laurenzana a M. C. Grimaldi a M. C. Santangelo
a M. C...Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre C..Niccolini a M. C.
Rangone a M. C...Pilla a M. C. Il Duca di Gualtieri a M. C. II Barone Poerio a
M. C...Armaroli a M. C. Neroni a Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. C. Micali a
Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig.
Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a
Orazio C... Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. C..
Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana. Stati Romani.Napoli. Memoria per
la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo.Discorso
del Cav. Comm. Gian Berardino C. letto in occasione del solenne giuramento
prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e
Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di Melchiorre C.. I titoli
nobiliari. Episodi della vita del C.. Opere ignorate del C.. Il contenuto delle
opere. Catalogo per materia delle opere di M. C.. Lettere del C. e al C.. La
Repubblica di S. Marino in onore di M. C.. M. C. a Gaspero Selvaggio. A Paolo
D' Ambrosio M. C.. Il teramano Melchiorre C. è uno dei più cosmopoliti e al
tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali
della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli,
interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane
intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il
gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate, che costituisce il
fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da
Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere
una benefica scossa alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un
serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo
le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado
contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico. È
soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle
lettere e delle scienze, considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano,
in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che C. matura una nuova
concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva
Genovesi, più pratica che teoria» , e la convinzione della necessità di un
impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e
giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana e di eredità genovesiana (8),
egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura la sua attività di
scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di
Benevento, sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266
annesso allo Stato ecclesiastico. Nelle due Memorie denuncia le tendenze
temporali dell'autorità ecclesiastica, dimostrando false o insussistenti» le
pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già
per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo vergognoso»
perché prodotto per dolo o per frode. Sebbene notevole sia stata
l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le
molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta
possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano.
Anche per i rappresentanti della corrente più provinciale», più tecnica e
descrittiva della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre
costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso C., sebbene riconosca il suo
debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la propria
ragione gli faceva desiderare, bensì il pubblicista che ricerca e analizza i
mali economici e sociali della sua terra. La fortuna però - scriverà più tardi
- avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di
Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi
una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti. Già
nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo, alcuni anni dopo il suo
ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore
abruzzese basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti
umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo
nell'Index librorum prohibitorum. L'opera è una vera e propria esaltazione sia
dello stato coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere
fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau, C. considera il vincolo
matrimoniale una fonte continua di sensazioni e di sentimenti aggradevoli e
sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo
e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione
per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui sostiene
l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a
rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i
sessi. Sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore
Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i
quali svelano assai più a fondo e gl'ideali politici di C. e la sua cultura»
(15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione
all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei
due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato
alla dottrina sensistica. Confessa ad un amico: Dopoché il mio spirito soffrì
la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi
vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le
quali hanno potuto migliorarlo. Egli riconosce alla morale il fondamento
empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti
morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gl’uomini acquisiscono le
prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne
consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si
dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità
di comprensione della qualità degl’oggetti e gli individui sono messi nelle
condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. È nel
passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare, scrive, che le nazioni godono
del colmo della virtù e nasce quella gara d’Eroismo che è difficile a trovarsi
nelle Monarchie e che si verifica ogni qualvolta l'interesse di tutti i
particolari va a riunirsi col pubblico e i cittadini partecipano maggiormente
alla sovranità e al potere. L'affermazione non si concreta in una scelta
della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti
politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica.
L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di
un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria
simpatia per il despotisme éclairé. Vi è, da parte sua, una svalutazione della
politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più
immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti.
Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato
attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di
trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha
niente a che vedere con la fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di
eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche
costituiscono una imprescindibile componente, consente a C. di condurre a fondo
l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora
assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del
potere che da quello delle ricchezze. Conosciuti i mali che provengono
dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve
essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad
altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria. Al
contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre lusso e
corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati
della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino la vita,
l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri. Dopo il sequestro
degli Indizi di morale e la messa all'Indice del Saggio filosofico, C. incorre in un nuovo spiacevole episodio con
le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e
dell'assessore Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è
ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero
di S. Matteo di Teramo. L'exequatur del
Tribunale del capoluogo abruzzese con il conseguente ordine di carcerazione,
emesso nei confronti suoi e di altri lajci seduttori presunti responsabili
dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a
Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda
giudiziaria, giunta con l'indulto regio. Questo secondo soggiorno partenopeo,
avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo
per lo scrittore teramano che ha l'occasione di rinsaldare i legami con
gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti
della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi,
Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura
l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali
prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica
governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra
capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella
Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di
riforme. Ritornato a Teramo, C. pubblica il Discorso sullo stabilimento
della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo, la nomina ad
Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico FILANGIERI,
inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore
di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza politica,
avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva
assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo spirito di corpo» dei
militari, quel sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile
e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli
mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della società, non
soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile,
riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di
cittadino, così che i due termini diventino sinonimi fra loro. Ad
alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul
piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello
dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze
e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del
Supremo Consiglio delle Finanze. Il Consiglio si prefiggeva di riformare gli
antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla
Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso
C. vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella
provincia di Teramo, pubblicata a Napoli. Considerato forse il più limpido e
ragionato dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una
dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di
certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione
in uno stato di sottosviluppo. La risposta delficina è in favore di un
ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli
ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la
realizzazione di un'economia di mercato. È di nuovo a Napoli, dove si
fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole.
All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda
amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende coscienza
della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di
risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile
terremoto calabrese. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai
improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni. Ritornato a
Teramo è raggiunto dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio
Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio che ne rievoca il pensiero
e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere, lo scrittore abruzzese si
sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a
Napoli. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane
sull'uguaglianza tra gli uomini, correggendo quei paradossi»,
scrive C., che fra molte vere e nobili osservazioni sono racchiusi nel Discours
sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene
l'ineguaglianza essere presque nulle dans l'Etat de Nature, Grimaldi ne afferma
il principio dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini
nascono eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto
lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in
lui l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per gli
oziosi e gli annojati», ma in funzione d'un utile presente per l'umanità e, in
particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più
il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del
momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita
morale delle nazioni. Alla fine di giugno del 1785 C. si trasferisce di
nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città
natale. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca,
Friedrich Münter, venuto in Italia con l'incarico di propagandare l'Ordine
degli Illuminati di Baviera. A Münter, con il quale visiterà assieme a
Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà
da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che
trentennale, accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la
numismatica. A Napoli C. pubblica la Memoria sul Tribunal della Grascia,
considerata, assieme a pochi altri testi, il vangelo del liberismo napoletano»
(34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il terribile mostro» del
Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato
pontificio e simile per alcuni versi a quello più odioso dell'inquisizione»,
che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti,
fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in un
languore di dissoluzione. Vi è nella Memoria l'affermazione del principio della
libertà di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito
del quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre
Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle
nazioni. Vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia in cui C.
rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e
il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei
contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata
alla pastorizia. In un Paese così infelicemente» amministrato, dove regna una
troppo marcata diseguaglianza e una ripugnante ed infelice» contrapposizione
tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non
soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato.
Tutti i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei
proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino. La proprietà
infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei
proprietari sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di
riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra
classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta
applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia
l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nella pur breve ma
incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero desolato» che va
dal Fortore al Tronto, in cui denunciava le gravi avarie» commesse dai
governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il libero
scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre
più. Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di C. al
liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è
chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di
scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli
affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni
Ottanta, in cui esalta il principio del laissez-faire contro le
regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di ogni
coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione,
di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo
economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato
stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che
ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche
si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte
al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della
ricchezza e del benessere individuali. In quest'ultimo soggiorno
napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, C. si attiva non
poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e
soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non
sempre trovano il riscontro desiderato. Ciò non fa che accrescere in lui un
sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza,
quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà ad
allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima
però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la
vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la
giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e
inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o
di usurpazione della sovranità stessa non solo un atto nullo, ma anche
ingiusto. La notizia della rivoluzione francese raggiunge C. lontano dal
Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato per
accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la
guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare
gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il
filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista
senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed
economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un
rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi
informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia
a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si
conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la
rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti un
esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla
strada delle riforme. Rianimato da queste speranze dopo aver fatto da
poco ritorno nella sua città natale, C. si trasferisce a Napoli, dove dà alle
stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi in cui,
ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più
diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in
particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della
giurisprudenza romana e de' suoi cultori, che rappresentano la più forte
manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto
romano, cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema
legislativo nuovo, uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza
di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente
all'indole delle nazioni e dei governi presenti. Sull'esempio di quanto accade
in Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile
e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne
costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si
fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul
conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica
senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione
della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e
provinciali. Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale C. non si
allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le
condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua
predilezione per la monarchia si ravvisa nel Teramano un conflitto tra
l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora
nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo
nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di
rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende
sempre più spesso scontentissimo». Il rientro a Teramo, nel dicembre del
1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al
termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese
imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un
periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come C., avvertono i limiti
della politica ferdinandea. La consapevolezza che la grande stagione
riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna
l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma
di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi
sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia
diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la
primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più
forte agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta
all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini.
Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera
innocente e spera invano venga presto scagionato. L'accentuarsi del
carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in C.,
come in altri illuministi, il passaggio da regalista in giacobino» o
repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più
nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione
per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico
che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase
della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una
fase successiva, il '93, caratterizzata da tanti orrori. C. lascia di
nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a
Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla
primavera successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e
Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato
francese Miot. A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica
per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che
ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo
raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia.
Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova
non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le
innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati. Nella
seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la
Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la
possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di
trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse
che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un
viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua
partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della
Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese sul quesito Quale
dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà
vincitore il piacentino Gioia. Immutato è invece il giudizio sulla corte
napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di
dialogo con il governo borbonico, non scorge alcun cambiamento nella sua
politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici,
soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo,
con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà
nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile
invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse
di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già
nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico
in seguito a delazioni da parte di alcuni malevoli di Napoli fra quali il
Vescovo in unione colla magistratura. Sempre più si alimenta il sospetto di una
sua cospirazione antimonarchica, tanto che è tratto in arresto, nel proprio
palazzo, assieme a tutta la famiglia. Liberato l'11 dicembre successivo
dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi, è dapprima posto a capo della
Municipalità della città e successivamente nominato presidente
dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Èchiamato a presiedere a
Pescara il Supremo Consiglio, l'organo politico più importante esistente in
Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due
nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo -
in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso
il territorio regionale. Non vi è dubbio che la collaborazione di C. con
i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di
reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre
confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore
teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella
repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella
vera e propria lacerazione» e rottura» nella sua biografia intellettuale che è
stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione.
Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la
parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del
passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei
Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni ( del 24 piovoso anno, l'atto
legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene
introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza
egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni
precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di
riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva,
in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità
giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale
per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia
e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che
collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la
prontezza» e l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme;
l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la
frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la
possibilità di ricorrere in appello. Volentieri egli si sarebbe portato
nella capitale partenopea dove è nominato membro del Governo Provvisorio dal
comandante in capo Championnet. Ma a Napoli C. non potrà recarsi mai a causa
delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare
all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver
non solo abbandonato» ma addirittura obliato» le province abruzzesi, lasciando
che ovunque si verificassero le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di
scorribande antifrancesi. Non è da escludere a questo punto che proprio durante
il periodo pescarese C. abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa
in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri
dell'uomo e del Cittadino. Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi
dei diritti, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti
inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i
doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle
leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi
rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la
costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma
di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione,
ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori
dell'ordine pubblico, per odio forse delle sommosse che si stavano
verificando e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.
Di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla
partenza dei Francesi da Teramo, C. preferisce, prima ancora della caduta della
Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti
riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo
San Marino. Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe
Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la
carica di consigliere di Stato. Durante il soggiorno sammarinese C. si
interrogherà a lungo sulla tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come CUOCO
(si veda), critica l'immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il
metodo rivoluzionario, ritenuto distruttivo. La confusione dei princìpi,
l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle
idee politiche così mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano
potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni
politici falsi e irregolari». L'Italia, abbagliata ed attonita - scrive - non
ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le
provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi
politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa
veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza
del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze
intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia.
Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria C. trae l'indicazione della
necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: Se si fosse
consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo
spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede
della libertà nei secoli più remoti. A questo senso di moderazione l'Italia deve
continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi devono
persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua
felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in
definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non
miri alle magiche trasformazioni ma proceda per proporzionate graduazioni» alla
realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare. Tutta
l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e
convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche
stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana,
nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il
suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni,
rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, mostrava
non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società. Dalla
piccola Repubblica C. uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca
pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del
marchese Belmonte, la cui amicizia risaliva, o per andare a Bologna dal suo
amico Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Soggiorna
ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Si porta a Milano per seguire la
stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove
sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale d’Avenstein,
rivedrà CUOCO (si veda) e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe
Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a
Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in
contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana
Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale
resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno
all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo
fratello. È, quello sammarinese, un periodo in cui C., fuori dalla vita
politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808,
vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta
relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova
nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore
dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione
di coloro i quali riguardano la storia come maestra della vita e dispensatrice
della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente
e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del mito» di San
Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria
libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere
a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico
Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della
piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le
vicende di un popolo che poteva costituire un esempio degno d'imitazione.
Questa rivalutazione» dell'esperienza storica appare quanto meno strana in un
pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo
italiano. Nei Pensieri C. affronta il problema della conoscenza storica
in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire se la scienza di ciò che
fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza. Con quest'opera esprime
l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che
indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo
avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione
storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici
inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del
passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet,
Volney, delle cui Leçons d'histoire risente la stesura dei Pensieri, nega che
le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in grado di
riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la storia non
presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone principalmente
il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia
illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora
permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata
degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un
ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica.
Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il secco e nudo racconto» di
pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad
indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause. Essa
dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti
dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo gradatamente
giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che mostrandoci i due estremi
c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca
delle altre verità desiderose di venire alla luce. Così concepita, l'indagine
storica permetterebbe di recuperare positivamente l'eredità del passato, che
cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante
del processo storico contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma
in un successivo scritto delficino, Discorso preliminare su le origini italiche
(79), in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e
registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di
cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più
interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre
scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e
morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste
funzioni conoscitive si richiede che essa sia qual non esiste», cioè una
disciplina nuova, ancora intentata, che C. chiama anche storia delle scienze».
Le cognizioni storiche perdono allora il carattere di sterile nozionismo, che
hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: Sobriamente conoscendo
quel che fu», afferma a conclusione della sua opera, potremo facilitarci la
strada a saper ampiamente quel che è» (80). Un atteggiamento polemico
egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui origine sarebbe dovuta a
superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire una spiegazione
razionale a fenomeni naturali. È il caso degli incantatori di serpenti e del
loro presunto potere antiofidico, contro cui egli insorge in una Lettera di
poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali
del Regno di Napoli di Grimaldi e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi. La
dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di
confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli impostori»
serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non
avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza
particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali. Una
diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti favoleggiatori». Come il
virtuoso» Socrate e il divino» Platone, C. tiene in grande considerazione il
racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle
favole esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze
necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà
di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di
giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero
acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così la morale dell'infanzia
dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal
momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non
soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima
dell'errore» e del pregiudizio», si trova in uno stato più infelice» (84) di
quello dei secoli remoti. Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio
del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso
rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che era ormai
tempo che si facesse e che lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno,
dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà
parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età
napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello spirito di
ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la politica
dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di
sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze
dei reazionari. Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3
giugno 1806), C. viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare
alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro
presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il ministero
dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni,
per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in
Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei
demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli
Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due
Sicilie, viene insignito da Murat del titolo di Barone. I numerosi
incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale,
tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni.
Evidente appare il suo debito nei confronti di Cabanis, sostenitore della
sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei
Rapports du physique et du moral de l'homme, l'opera più importante del
filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità
imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e
del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni
e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio
fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue,
l'anno successivo, la Seconda memoria. Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche
sul Bello, pubblicate a Napoli da Agnello Nobile. Con la restaurazione
dei Borboni, nel 1815, C. dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò
nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I
gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito
dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta
provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo
insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che
vivrà solo fino a quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre
fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario.
Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti
governativi. Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non
soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si
interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale,
avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese.
Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della
ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede
profilarsi la minaccia di rendere il mondo stazionario» se non addirittura di
farlo a grandi passi o salti retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso,
ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non
ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali
ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per C.
l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del gran politico
pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così,
agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune
dottrine politiche del Segretario fiorentino, nate dall'esigenza di
confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la
libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni
pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua potente autorità, senza
tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili
per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o
meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni
positive. Dell'illustre autore» C. sottolinea il realismo politico e
l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta
speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una
particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico
contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi
un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo
un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la
viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre
fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione
di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale
Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati
italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le
tesi del Segretario fiorentino: Se si possono giustificare le sue intenzioni, e
la persona» afferma questo non vale per le sue dottrine. Infatti, se da un lato
egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di
una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali,
dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico,
non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e
politica e il principio che per regnar tutto lice. Divergenze emergono
anche dal tentativo che C. in seguito compie di ricondurre il pensiero
machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie
convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII
e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera
ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei conflitti
sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità
tra gli umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo
antisociale dei gentiluomini», di quegli uomini cioè che, oziosi», vivono dei
proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a
Machiavelli il merito di aver legato la questione militare» alla questione
politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella
dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra
governanti e governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di
assicurare la propria affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore
stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi,
migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta
originalità C. fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica
politica, è concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata
la forma più conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta
soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale,
di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione
francese, risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza
politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la
sicurezza reale e personale. C. torna a Teramo, ma nell'autunno successivo
si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino a quando lascia la
Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre il
resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua
a studiare e a scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora
inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari)
ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni
fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale, in cui ribadisce la sua
concezione materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come
strumento critico e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare
l'essenza delle cose e tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi
alle cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e
gli scritti sulla numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Angeletti con il
titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare
su le origini italiche. Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore
che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera
franca in Pescara e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla
foce del fiume Pescara, con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività
produttive in questa zona ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare
a tal proposito un rilancio del commercio, considerato la sola sorgente
inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie», non senza però aver
prima creato le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di
queste potrebbe essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca,
che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma
assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera,
senza l'imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai
negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non
senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a
quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che
ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente divenir
attivo e moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o
migliorare e accrescere quelle esistenti. La creazione di uno moderno
scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce l'oggetto della
riflessione che C. conduce nel Brevecenno. L'idea che il mare anziché separare
riavvicini le Nazioni fra loro, permettendo infinite comunicazioni tra i
popoli, costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove
per sostenere l'utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti
rivestirebbe per l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in
generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova
giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con la foce
più ampia e di essere punto centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia
delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe
costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le
province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di
una piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle
merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che
aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli
imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia, la
Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali. A metà
degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours,
principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un
Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles), di cui uscirà una traduzione
italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione
dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e
dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata
ordita da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone
Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il
nome soltanto del conte Luigi Corvetto, justement regardé comme un des
meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre C., un des hommes les plus
vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al
Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M.
l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, sulle
condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto
servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo
dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte
delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una
partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia. C.
pubblica la lettera Della preferenza de' sessi alla contessa Chiara Mucciarelli
Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna
affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli
ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali.
A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da
numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il Fondo C. della Biblioteca
Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo
Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i
progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti,
il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende
rivederlo. Riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno,
e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore
dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese C. muore. Dopo la
notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte C. cade in un lungo e
ingiustificato oblio. Uscito grazie a GENTILE (si veda) dal ristretto ambito
locale, che lo rende un filosofo sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in
una dimensione più ampia, nazionale, C. è oggetto di una diversa
considerazione. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il
rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia, e, in
particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative
dell'illuminismo. Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e
legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del
movimento riformatore napoletano. Una lettura che ha privilegiato il C.
riformatore, la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni
critiche precedenti, sia della storiografia neo-idealistica che del ventennio
fascista. Llinee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali
della biografia intellettuale di C. (alcune delle quali scarsamente
scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario o quelle che
contrassegnano la sua evoluzione durante la Restaurazione, da riformatore
nutrito dell'illuminismo napoletano a FILOSOFO della storia e della politica. Nato
in un paesino vicino Teramo, LEOGNANO, dove il genitore, Berardo C., si rifugia
durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Muore a Teramo. Per le
notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-C.,
Della vita e delle opere di C., Angeletti, Teramo, arricchita di un'elencazione
dei saggi editi ed inediti del Nostro, alcuni dei quali successivamente
pubblicati, nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta,
l'opera continua sul Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», col titolo
Notizie intorno alle OPINIONI FILOSOFICHE ed alle opere di C. e, sempre sulla stessa rivista, col titolo
Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre C. Molti degli amici e dei
discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli
Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre C., il teatino Romualdo de Sterlich,
Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto
Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e
Troiano Odazi di Atri, che succede al Maestro nella cattedra di economia. Sulla
presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il partito
genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo borbonico. Cultura, società,
economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto; U. Russo, Studi sul
Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti, Diaz, Dal movimento dei lumi al
movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna.Sul riformismo borbonico, cfr. F.
Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma; I Borbone di
Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli Chiosi, Il
Regno, in Storia del Mezzogiorno, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni
del Sole, Roma, e la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in
Storia della società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme,
Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa contenuta. Lo scritto, dedicato a
Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più
necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla
Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla
di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli. GENOVESI (si veda), Lettere
accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati
(Napoli), Lettera, Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G.
Savarese, Feltrinelli, Milano Per una valutazione dell'influenza di Pietro
Giannone sulla cultura napoletana oltre al lavoro sempre valido di L. Marini,
Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della
coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr.
G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di GIANNONE (si veda),
Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R.
Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La
tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, Sulla posizione di
Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr.
E. Pii, GENOVESI (si veda). Dalla politica economica alla politica civile»,
Olschki, Firenze; G. Galasso, LA FILOSOFIA in soccorso de' governi. La cultura
napoletana del Settecento, Guida, Napoli Le due Memorie, dal titolo Intorno a'
dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle
ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella
Marca, furono commissionate a C. dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon.
Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di
Stato di Teramo, Fondo C. fasc. dal titolo Del territorio beneventano. La
seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su La Rivista abruzzese di
scienze e lettere, preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del
manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, Fabbri,
Teramo. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei
quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo a cura
di Pannella e Savorini. M. C., Del territorio beneventano, Venturi,
Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi,
Milano-Napoli G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C., C., Memoria
autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo,
fondo Manoscritti C.», Misc. C., Saggio filosofico sul matrimonio, in
Opere complete. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il
Carducci, Edizioni di Comunità, Milano Lettera di C. a Dragonetti, in
Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a
cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale,
Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. C., Indizi di
morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr.
M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia,
Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino.
C., INDIZI di morale. Per una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. L'attività di C. presso
il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma; L'espressione
è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione
del Concilio, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. Cfr.
C., Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in Opere complete,
F. Venturi, Nota introduttiva (a M. C.), in Riformatori napoletani; Favorevole
ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica
della sua provincia, C. assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento
decisamente contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente,
Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in
Itinerari», C., Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso
Vincenzo Orsino, Napoli, Opere complete, C. ammira soprattutto la Vita di
Ansaldo Grimaldi (Napoli), poiché in essa l'Autore era riuscito a saldare la
vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello Stato stesso e
a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi fondamentali tenesse
lo Stato in continua rivoluzione» (Elogio di GRIMALDI (si veda), C., Elogio di
GRIMALDI (si veda), Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité
parmi les hommes, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris. C., Elogio di
GRIMALDI (si veda). Su tale associazione, fondata ad Ingolstadt da Adam
Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in Storia della
massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia,
Firenze. Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere
complete di C.; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel
Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten,
Andreasen, Haasse, Leipzig. Due di queste ultime sono state riprodotte in
appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre C.. (Studi e
ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi G. D'Annunzio», Facoltà di
Lettere e Filosofia, Chieti, il quale ha pubblicato altre lettere di C. a
Münter, assieme ad alcune lettere di C. alla sorella del Danese Federica Brun.
Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di
Teramo. C., Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche
nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli, Opere complete. Solari,
Studi su PAGANO (si veda), cur. Firpo, Giappichelli, Torino. Sullo stesso piano
l'Autore pone l'altro scritto di C., Memoria sulla libertà del commercio, e
l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata
anonima a Palermo; C., Memoria sul Tribunal della Grascia. C., Discorso sul
Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e
non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere
complete; C., Discorso sul Tavoliere di Puglia Il testo è stato pubblicato da
L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre C. a Michele Torcia, in Nord e
Sud. La lettera è datata Teramo, su invito dell'Accademia di Padova agli
scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la
Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis,
Scrittori classici italiani di economia politica, cur. Custodi. L'opuscolo è
stato recentemente riedito (De Petris, Teramo) con un'introduzione di M.
Finoia. Sul problema C. tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le
carestie, in cui apporta alcune modificazioni e moderazioni» al principio della
libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l'intervento
diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il terribile
flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto nella Reale
Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato negli Atti, è stato riedito a
Teramo assieme alla Memoria sulla libertà del commercio. Se, dopo varie
insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima
nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di
Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, il
ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più
agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno
invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del
1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo
fisico» ed orientamento laico. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si
vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università
Abruzzese degli Studi G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo, la
quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un
nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. C., Una
piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo. La
Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'amaro della
feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli, Guida,
Napoli; C., Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, Memoria
delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la
Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo Manoscritti C.», Ined. In Lombardia C.
si trattenne per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in
seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, rientra in patria. Su questo
viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare,
cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.. Opere complete. L'opera,
che provocò subito molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia
per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso
Porcelli, ristampata a Firenze e Napoli; Ghisalberti, La giurisprudenza romana
nel pensiero di C., in Rivista italiana per le scienze giuridiche. C., Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete. Odazi,
nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani
della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi ne cura l'edizione
milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato PROFESSORE
DI ETICA – non ‘moral philosophy,’ come a Oxford -- nel Reale convitto della
Nunziatella, è chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era
stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della
massoneria napoletana, è coinvolto nel fatti. Arrestato, muore suicida nelle
carceri della Vicaria. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Odazi. La prima
vittima del processo politico in Napoli, in Archivio storico per le province
napoletane», CROCE (si veda), La rivoluzione napoletana, Laterza, Bari, Sulle
tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.
Si veda la lettera di C. a Fortis da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per
l'epistolario di C., Rassegna della letteratura italiana. L'ipotesi di una
partecipazione al concorso origina da De Filippis-C., il quale riporta tra le
opere delficine non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di C., un
opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito:
Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia,
sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella
ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda Carletti, A
proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di C.
al concorso, in Trimestre. Sono le delficine Memoria per la Decima imposta
al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla
cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli
ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto
al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte
inedite. Lettera di C. a Fortis in M.G. Riccobono, Contributo per
l'epistolario di Melchiorre C.. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli,
nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo
e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia C.. Nella Relazione risponsiva alle
accuse (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in Archivio
storico per le province napoletane», egli era costretto a difendere la propria
reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di vaghe» e calunniose
imputazioni» di qualche delatore. La denuncia, pur non avendo gravi
conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che C. succedesse al fratello nella
presidenza della Società Patriottica di Teramo. Una nuova denuncia anonima èall'origine
del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del
titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con
decreto Murat gli avrebbe conferito quello di barone. Il pretesto è
fornito da alcune lettere rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da
poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna
avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli,
entrambi frequentatori di casa C.. Si veda in proposito la Memoria della
persecuzione subita dalla famiglia C., scritta presumibilmente da Giamberardino
C. allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei
propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro i
rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era
stato liberato in seguito all'indulto generale. Il testo è stato pubblicato da
Clemente su Storia e civiltà. L'episodio che portò all'arresto dei C. è a. I
Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre
1798. Arrivano a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi
riconquisteranno la città, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne e Chieti.
Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L.
Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, Vecchioni, L'Aquila, Consorzio
Nazionale, Roma. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr.
anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli
avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo in L. Coppa-Zuccari,
L'invasione francese negli Abruzzi; G. Tullj, Minuta relazione dei fatti
sanguinosi seguiti in Teramo, con postille e con la continuazione del canonico
Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita
teramana, Storia e Civiltà; C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal
1798 al 1809, Teramo Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a C., i
lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Madonna, entrò in funzione subito dopo
e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta
il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo. Una
repubblica giacobina, in Rassegna storica del Risorgimento, La Repubblica
napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma; Sull'esperienza
pescarese di C., cfr. anche F. Masciangioli, C. e Pescara. Per una storia
del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in
Trimestre», Sullo spirito di moderazione di C., interessato a trovare una
mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G.
Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato
meridionale, ETS, Pisa; Cfr. Galasso, I giacobini meridionali, in Rivista
storica italiana», ora in La filosofia in soccorso de' governi.Il testo è stato
pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte
abruzzesi con documenti e note, in Rivista abruzzese di scienze, lettere ed
arti. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di C., Proclama sulla
sicurezza pubblica del ventoso anno, con il quale venivano fissate alcune
disposizioni per combattere il vagabondaggio. I due testi sono stati
recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La
Pescara» di Melchiorre C., Edizioni Tracce, Pescara. Cfr. la lettera di C. al
Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep., Il Monitore
Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli. Sulle insorgenze nella
regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età
moderna, in Storia e politica, e Per una rilettura socio-antropologica
dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli. Per il
testo cfr. G. Carletti, C.. Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica
sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre C. e la Repubblica di San Marino,
Arti Grafiche Della Balda, San Marino. Cfr. V. CUOCO (si veda), Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia
di Francesco Sonzogno, Milano. Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie
storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete. Il saggio,
il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide
la luce due anni dopo che C. l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali.
La seconda e la terza edizione uscirono a Napoli. C., Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino. Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le
riflessioni sulla storia: Melchiorre C., in Itinerari», Cfr. GENTILE (si veda),
Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della Critica», Napoli, il quale afferma che
nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano.
Un estremo radicalismo nell'antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da
CROCE (si veda), La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo
decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia» e 2. Il
nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», rielaborati nel volume Storia
della STORIOGRAFIA ITALIANA, Laterza, Bari, e da RUGGIERO (si veda), Il
pensiero politico meridionale, Laterza, Bari. C., Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima, in Opere complete. Il titolo per esteso dell'opera
è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République
française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris. Sull'affinità di vedute
dei due autori, cfr. Rosso, De Volney à C.: l'histoire, une discipline aussi
inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues,
Angers, C. Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima,
Opere complete. C., Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima. Porcelli, Napoli, Epoca. Grimaldi
si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella
Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali
relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata nella
recensione al volume di Grimaldi, Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto
probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis. Per un esame
critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata
dissertazione di Melchiorre C. sugli incantatori di serpenti, in «Lares, ora
anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella
tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma. Lo scritto, ideato e
posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è
stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium»; C., Discorso sulle favole
esopiane, Lettera ad Onofri, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre C..
Lettere sammarinesi, Arti grafiche Della Balda, San Marino. Sull'attività
del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre C. e
il decennio francese, Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila , il quale riproduce
in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia
amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli Ora in
Opere complete. Ora in Opere complete. Ripubblicate nelle Opere complete, le
Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni,
Ediars, Pescara. Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e
dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume,
notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione, di A. Valente,
Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino, cfr. Villani, Il
decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, Il Regno dagli Angioini ai
Borboni. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio
francese, cur. Lepre, Liguori, Napoli. Rimasto inedito, il testo finale è
tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da A.
Marino, Scritti inediti di Melchiorre C., Solfanelli, Chieti, C., Osservazioni
sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino. Cfr. N. Machiavelli,
Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario
fiorentino, Italia. Cfr. MACHIAVELLO [si veda], Discorsi sopra la prima deca di
LIVIO [si veda], in Opere, Opere complete. L'opera, notevolmente ampliata, fu
ristampata a Napoli, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica
Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini
italiche, ora in Opere complete. Pubblicati nelle Opere complete, i due testi
sono stati riediti da Carletti, La Pescara di C.. C., Breve cenno. C., Fiera
franca in Pescara, Breve cenno. Ora, tradotto, in Opere complete, Rapporto
sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a C. C., Della preferenza de'
sessi. Lettera a Simonetti, pubblicata a Siena ed ora in Opere complete. Cfr.
la lettera di C. a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio
letterario e politico di Dragonetti. Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi.
Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto, Ricuperati,
L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Bari, e la ricca
bibliografia in esso contenuta. Per una ricognizione degli studi
delficini, cfr. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica
della storiografia delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico sul matrimonio,
segnato nell'indice de' libri proibiti, INDIZI di morale, proibito prima
di pubblicarsi. Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale.
TeramoMemoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo Napoli Porcelli Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi . Napoli, presso Orsino Memoria sul tribunale
della grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno. Napoli presso Porcelli. Memoria sulla necessità di
rendere uniformi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti Napoli presso
Porcelli. Memoria su’ regii stucchi, o sia su la servitù de’ pascoli
invernali nelle provincie marittime degli Àpruzzi, Napoli; Discorso sul
tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale
presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli; Memoria
per la vendita de’ beni dello Stato d’Atri. I. yol. in 4 * Napoli, stampata
una col reai dispaccio di approvazione. Riflessioni su la vendita de’ feudi
umiliate a S. R. M. Napoli, presso Porcelli . Ricerche sul vero carattere
della giurisprudenza romana e de’ suoi cultori, Napoli, presso Porcelli, ristampato
in Firenze ed in Napoli; Lettera di Cantalupo su feudi, Napoli Memorie
storiche della repubblica di San Marino, Milano dalla tipografia di
Francesco Sonzogno . Memorie sulla libertà del commercio : (
stampate nella Collezione de classici italiani di Economia politica : parte
moderna : Milano i Pensieri su la storia e su la incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì. Pensieri sopra alcuni articoli relativi all’
organizzazione de’ tribunali: stamperia reale di Napoli. Lettera a Selvaggi
sulla Tragedia. Pubblicata dal Giornale enciclopedico di Napoli An. Nuove
ricerche sul Bello. Napoli. Ricerche sulla sensibilità imitativa considerata
come il principio tìsico della sociabilità della specie, e del
civilizzamento de’ popoli e delle nazioni ( Memoria letta nella reale
Ac- cademia delle scienze di Napoli il: pubblicata tra gli Aiti della
medesima Napoli, insieme alle altre due seguenti Memorie. Memoiia su la
perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell’
educa- zione, con alcune vedute sulla medesima : Seconda memoria
sulla perfettibilità organica ec. Ragionamento su le carestie, letto
nell ’ Accademia delle Scienze di Napoli, e pubblicato negli Atti della
medesima voi. II. Napoli. Poche idee su V accusa de' ministri
. Pubblicate in uno de' giornali costituzionali di Napoli. Dell*
antica numismatica della città d’ Atri nel Piceno con un discorso
preliminare su le Origini italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i
Tirreni, Teramo, con tavole in rame .Rischiarimenti ad alcune osservazioni
fatte dal Micali su la stessa, e di una Lettera a Zuroli su le antiche
ghiande missili di piombo, Napoli, dalla tipografia di Angelo Trani
: con più tavole in rame . Della preferenza de’ sessi. Lettera a Simonelti.
Siena, Ristampata in Napoli insieme ad alcune poesie del Conte di Longano.
Lettera all’ autore delle Memorie intorno i letterati e gli artisti ascolani. (
Stampa- ta in fine delle stesse Memorie, Ascoli. Espressioni della parlicolar
riconoscenza della provincia e città di Teramo dovuta alla memoria
dell’ immortai Ferdinando I. Annali civili del regno delle due Sicilie
Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul- la città di Benevento. Memoria. Intorno
a’ diritti sovrani di Napoli sul- la città di Ascoli. Memoria. Lettera a' fratelli sulla eruzione del
Vesuvio Estratto ragionevole del trattato degli animali. Lettere sulla
cavalleria ed i romanzi. Lettera al sig. Michele Torcia sul tratto
di paese che si estende dal Fortore al Tronto. Supplemento alla Memoria
su la gra- scia, per rapporto all' estrazione degli animali vaccini
. Memoria per lo ristabilimento del tri- bunale collegiato nella
provincia di Teramo . Memoria per lo stabilimento d’ una uni-
versità in Teramo. I titoli in carattere corsivo sono per quegli scritti
che 1’autore lasciò senza una denominazione . S’ intende per lo più
di pagine scritte, come si dice, alta spagnola, ossia nella sola metà.
Pel resto si troverà sod- disfacente spiegazione nel prosieguo del libro
. Su' danni de' terremoti in Calabria nel iy . - 0 sii ministro
Corradini sulle maioliche de' Castelli. Lettera. Appendice al discorso
sul Tavoliere di Puglia . Sull’ aumento de' soldi a.' magistrati
nel iygo; Estratto ragionato del Saggio analiti- co su le facoltà dell’
anima di Bonnet. Seconda Memoria sulla vendita de’beni allodiali. Breve
Saggio su l’ importanza di abo- lire la giurisdizione feudale, e sul modo
di eseguirlo. Supplemento alla Memoria pe’ regii stucchi .Degli Appalti.
Memoria. Per la città di Teramo intorno d beni dell' abolito convento di
Agostino. Memoria per la decima impesta al regno . Memoria intorno a’ danni sofferti nella
provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e
de’ mezzi opportuni da ripararli. Osservazioni su la nuova
monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio
delle provincie confinanti del regno . Discorso sulle Scienze morali, pag.
ira. Novena di San Marino . Intorno all’ imposizione per la caccia, ( Questo
ed i selle seguenti scritti si suppongono composti in Napoli dal Rapporto
alla reai società d’ incorag- giamento sul progetto di stabilire nelle
provin- cie del regno altre società simigliatiti, Considerazioni sul
debito pubblico, e su’ beni nazionali relativamente alla legge; Breve
esame dell’ indole delle dogane interne; Rapporto per gli stabilimenti di
uma- nità e di pubblica beneficenza Osservazioni su d’ un progetto d’
istruzione pubblica Sulla tassa fondiaria . Osservazioni sulle procedure
criminali die si chiamano Nullità. Parere intorno ad un’ opera del
Sig. Biie D. Davide JV'uispeare, intitolata : Storia degli abusi
feudali. Delle cause perchè siano molto scar- si i buoni scrittori .
Opuscolo, Lettera sulla imputabilità de’
muti. Pochi cenni su’fondamenti delle Scienze morali. Discorso letto nella
reale Accademia delle Scienze di Napoli nel iSlij, e destinato a stamparsi nel
voi. III. degli Aiti della medesima, insieme al seguente Opuscolo )
.Sulla necessitò di cangiare i metodi d’ istruzione usati in Europa
. Alla Giunta preparatoria del Parlamen- to nazionale . Allocuzione
. Memoria in favore di alcuni impie-gati destituiti Osservazioni sopra alcune
dottrine po- litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi
economici per supplire agli attuali bisogni dello Stato. Deli’ importanza
di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia
intellettuale . Discorso ( mandato alla reale Accademia delle Scienze di
Napoli. Elogio in morte della Duchessa di S. Clemente. Lettera al Cav. e
Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri sulla Sto- ria e sulla incertezza
ed inutilità della medesi- ma, per risposta alle obiezioni di Amaury D
revai pubblicate nel Mercurio straniero tom . A ( Questa lettera, e tutti
gli altri scritti che seguono nella presente classe furono compo-
sti dopo V ultimo ritorno dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i
progressi delle So- cietà ossia Saggio filosofico sulla storia del
genere umano Proposta di alcune riflessioni sulla filosofia medica ed
intellettuale. Opuscolo, Giudizio sulla storia fi losofica di Da - miron.
Lettera. Lettera su cF un manoscritto comuni- cato, riguardante politica.
Due biografie di se stesso; Delle cagioni per le quali il civilizza-
mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla perfettibilità. Sulla guerra.
Lettera Sulla medicina omiopatica . Lettere due. Sulla dottrina medica di
Samuele Hanhemann. Memoria sul riso secco cinese, Sullo stesso argomento
. Lettera al Mse. Tommasi. Sullo stesso argomento. Lettera polemica. De'
confini del regno di Napoli nella linea del Tronto ; ossia : Sugli
antichi confi- ni del regno, Sugli stabilimenti di beneficenza.
Lettere. Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral ; civile, ossia trattato
pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto naturale delle genti, ossia
della morale delle nazioni, Sistema di ragione e benevolenza uni-
versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle Capitali. Opuscolo, Degli affari
fiscali. Memoria. Sulle proprietà. Sugli stabilimenti di umanità, Deir unione
della Ideologia colla Fi- losofia. Dissertazione, Dell’ eguaglianza de’
diritti delle donne, considerati specialmente nelle successioni,
Distinzione fral merito c la gloria. Dritti politici e dritti civili, Sul
quesito : Quale sia il miglior de governi per 1'Italia? Opuscolo; Ricerche
su le teorie fisiche della ragion degli Stati, o sia de’ veri principi
della Politica, Delle leggi e del regimento de’ comu- ni. Sulle
leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione della provincia di
Teramo. Memoria. Ricerche su le leggi coniugali, considerate ne’ rapporti da’
quali devono sorgere, nelle cause produttrici, e negli efl’etti
inorali e civili; Sulla Vita e la Vitalità, Della specificità in
medicina. Pensieri; Osservazioni sull’opera intitolata De’principi della
scienza etimologica. Saggio filosofico su la guerra e su la pace. Igiene.
Fritmmitttt iti Di ciò che si chiama quadro dello stile. Su ORAZIO
(si veda). Critica, Pensieri divèrsi filosofici e letterarj. Qualche
osservazione sull' opera di Neker Sur 1’administration; Del Vesuvio; Del
tempo musico e filosofico, Idea d’ una legislazione, Per le origini civili,
Alle nobili fanciulle mie concittadinc. Prefazione per una raccolta di
aneddoti. Sulla Città di Reggio, Sul travaglio. Progressi dello Spirito
Orgoglio nazionale - Viaggiatori - Filosofia Eccesso di tipografia; Su’pastori.
Saggio sull’ adulazione (Progetto di un'opera ). Ricerche
storico-filosofico-poliliclie su la nobiltà (Progetto di un'opera ) .Istoria
dell’ anima. Sugli ospedali. Molti pensieri non legati. Progetto d’ un
nuovo giornale delle mode. Notizie su le opere impresse nel pri- mo
secolo della stampa, per ordine alfabetica. Qualche pensiero di dritto
pubblico, Delle raccomandazioni. Articolo morale. Considerazioni su’
magistrati municipali. Della Solitudine, Qualche osservazione sulle
Lezioni di Filosofia de Laromiguiere. Qualche osservazione sull’ opere
fisiologiche di Spurzheim. Della civiltà, Catechismo universale. Della ragion
di stato, Estratto della politica d’ Aristotile. Morale nelle leggi, Piano
di scienze morali. DELL’origine e SIGNIFICATO della parola morale, e delle
varie applicazioni della medesima Frammenti diversi sulle Leggi, Osservazioni sulla risposta di Serbatti ad
una lettera del cav. Monti sulla lingua italiana, Esame de' classici
italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’ opera di Lemercier
riguardante i teatri, Osservazioni sul passato secolo ad uti- lità del
presente Viste politiche e morali sugli effetti della rivoluzione Frammenti
diversi sugli affari politici L’ obolo della vedova . All’ Italia Qualche
ossen’azione sopra alcune espressioni di Romagnosi. Rapporto storico su’
progressi delle Scienze naturali, pag. io. A Jannelli.
Dell’uso vero della Storia, Meditazioni d’ un solitario che vive in mezzo
alla società. Sull’Inghilterra. Sopra un libretto che riguarda la
divozione pel Sangue di Gesù-Cristo Miscellanea di cose Jìsiologiche .Miscellanea
di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche Miscellanea di cose
politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Delfico.
Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords:
giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico, l’imitazione della
natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia
romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta
della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale
tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool
Library.
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