Luigi Speranza -- Grice e Dòdaro: la ragione
cconversazionale e il convito, ossia, tracce di un discorso amoroso – scuola di
Bari – filosofia barisese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bari). Filosofo barisese. Filosofo
pugliese. Filosofo italiano. Bari, Puglia. Grice: “Dòdaro is an interesting one
– totally cryptic of course! It is as if he were Nowell-Smith, Austin, and
Donne, combined into one! Recall Nowell-Smith’s challenge to Austin: “Donne is
incomprehensible,” “He surely ain’t!” Costretto a riparare a Turi per sfuggire ai bombardamenti.
A Bari si legò a Maglione, Castellano, Piccinni e, assieme allo zio Silvio, prendeva
parte agli incontri artistici e letterari del caffè-pasticceria Il Sottano (in quegli
anni frequentato da Moro, Albertazzi, Scotellaro, Bodini, Calò ecc.), fondato
da Scaturchio, e agli incontri di Laterza e del circolo La Scaletta di Matera.
Nello stesso periodo conobbe Nazariantz, il quale rappresentò per Dòdaro una
sorta di guida, fu lui, infatti, a introdurlo per la prima volta agli incontri
del Sottano dove ebbe modo di stringere amicizia con Bodini, Calò, Scotellaro.
Abbandonò presto Bari, tentando una prima fuga a Parigi, città in cui sarebbe
tornato a vivere altre volte, prima di tornare a Bari per poi trasferirsi a
Lecce. Altre tappe, prima del trasferimento a Lecce, furono Milano e Bologna.
Divenne allievo di Morandi, presso l'accademia, infatti, prime espressioni
della sua attività artistica furono la pittura, praticata per una manciata di
anni, e il teatro, poi diluito nelle successive esperienze poetiche e
narrative. Come pittore produsse alcuni quadri in cui all'informale materico
univa le combustioni, applicate, di fatto: Verri riporta in suo intervento: arriva
con la novità dei colori "bruciati". Di questo ciclo di opere faceva
parte "Svergognato incantesimo di barca", che gli valse,
successivamente, la segnalazione presso il premio "Il maggio di
Bari". Prima del trasferimento a Lecce, lavora presso l'ufficio stampa
della Fiera del Levante, a stretto contatto con Fiore, figlio di Tommaso,
venendo influenzato dal meridionalismo. Sempre nel clima della Fiera del
levante, strinse un ottimo legame con Tot. Al suo arrivo a Lecce riallacciò i
rapporti con Bodini e Calò, oltre che con Suppressa, conosciuto in occasione
del premio Il Maggio di Bari, entrò, inoltre, in contatto con quelli che
sarebbero stati poi suoi amici e compagni artistici: Durante, Massari, Candia, Pagano.
Ebbe frequentazioni con Bene e strinse importanti sodalizi amicali e letterari
con Verri, Gelli, Caruso, il quale, in corrispondenze private, ebbe modo di
rinominare la loro amicizia e collaborazione come il "sodalizio Caruso-D.".
A Leccesi rese protagonista, con Candia, di un grande falò in cui i due
bruciarono tutti i quadri realizzati fino a quel momento. Per quanto riguarda
l'opera pittorica "Svergognato
incantesimo di barca", insieme a pochi altri, si salvò dal falò perché
all'epoca custodito presso la casa dello zio Silvio. Dopo questo iniziale
periodo di ricerca e sperimentazione, abbandona la scena artistica per circa
vent'anni, anni in cui si dedicò allo studio intenso nel tentativo di scoprire
il perché del linguaggio, rompendo il silenzio con la fondazione del Movimento
di Arte Genetica con sede a Lecce, Genova e Toronto. Con tale movimento, rintracci
l’origine dell’italiano o romano nel battito materno ascoltato in età fetale,
teorizzando il romano o italiano come una congiunzione volta a rifondare la
dualità dell’essere umano non un regressus ad uterum, bensì la coppia, la
dualità, ovvero la dimensione originaria della comunione con l’altro e come lutto,
annodandolo alla mancanza di Lacan. Il movimento si doterà di due riviste:
“Ghen”, giornale modulare ideato da D. con sede a Lecce, e “Ghen Res Extensa
Ligu” con sede a Genova e diretta da Mignani. L’idea del modulo come unità di
misura sarà alla base della struttura modulare di “Ghen” oltre che della
concezione dello spazio, mutuata sempre dagli studi sulla dimensione pre-natale,
fino a sfociare nel manifesto "Incliniamo l’orizzonte”. L’italiano o il
romano diventa una congiunzione, una dichiarazione onomatopeica in cui si
alimentava il trionfo del lutto e la mancanza. L’orizzonte diventa orizzonte
mediale: poesie per i treni, per gli altoparlanti e più in là romanzi in tre
cartelle, romanzi su cartolina, collane spaginate, poesie e poesie visive da
proiettare per le strade, poesie per internet, net.poetry, narrazioni su
leaflet, romanzi da muro-narrativa concreta, romanzi di cento parole da
pubblicare in store, nelle vetrine dei negozi. Al Movimento di Arte Genetica
aderirono, o ruotarono attorno alle sue riviste e attività, un numero considerevole
di autori provenienti dalle sperimentazioni poetiche e poetico-visive,
performative, sonore, plastiche: Miccini, Marras, Mignani, Fontana, Munari,
Fiore, Dramis, Perfetti, Pagano, Gelli, Noci, Greco, Lorenzo, Marocco, Massari,
Miglietta, Center of Art and Communication (Toronto), Giorgio Barberi
Squarotti, Toshiaki Minemura, Xerra, Sicoli, Souza, Alternativa Zero,
Experimental Art Foundation (South Australia), Block Cor (Amsterdam),
Genetet-Morel, Lepage, Martini, Valentini, Restany, Etlinger, Caruso, Verri,
Miglietta, Nigro ecc. Con la nascita del movimento di Arte Genetica,
avvia una personale riflessione sull'oggetto-libro e le sue modalità fruitive,
avviava il progetto "Archivio degli operatori pugliesi", per una
catalogazione degli operatori estetici e culturali. Crea e anima «il centro di
ricerca (strutturato, nel nome, sulle
coordinate della Classificazione Decimale Dewey, ad indicare i percorsi di
ricerca: filosofia, linguistica, arte, letteratura), ospitato dalla Libreria
Adriatica di Lecce, e con il quale coinvolge numerosi operatori del territorio
(docenti universitari, il gruppo Gramma, il Centro ricerche estetiche fondato a
Novoli da Greco e Lorenzo, il gruppo Oistros di Durante e Santoro, gli autori
del gruppo di Arte Genetica da lui fondato ecc). Ha diretto la casa editrice
Conte di Lecce, ha fondato a Lecce, il movimento letterario New PageNarrativa
in store. La sua attività letteraria ed editoriale è stata caratterizzata da uno spiccato senso
per la formazione di gruppi e la ricerca di autori da lanciare, rappresentando
sul territorio pugliese un autentico volano per operazioni di ampio respiro che
andavano spesso a coinvolgere autori del panorama letterario internazionale. Idea
e dirige una mole notevole di collane editoriali volte al rinnovamento
dell’oggetto-libro, fra queste: «Scritture» (Parabita, Il Laboratorio),
«Spagine. Scritture infinite» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni)
scritture di ricerca formato poster, spaginate, «Compact Type. Nuova narrativa»
(Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) ovvero romanzi in tre cartelle,
«Diapoesitive. Scritture per gli schermi» (Caprarica di Lecce, Pensionante de'
Saraceni) scritture di ricerca da proiettare, «Mail Fiction» (Caprarica di
Lecce, Pensionante de' Saraceni) romanzi su cartolina, «Wall Word» (Lecce,
Conte Editore,)tradotta in giapponese ed esposta all’Hokkaido Museum of
Literature di Sappororomanzi da muro, ovvero collana di narrativa concreta,
«International Mail Stories» (Lecce, Conte Editore), «Internet Poetry» (Lecce,
Conte Editore) una delle primissime esperienze italiane di net poetry, «Walkman
Fiction. Romanzi da ascoltare» (Lecce, Argo), «E 800 European Literature», in 5
lingue (Lecce, Conte Editore), «Pieghe narrative» (Lecce, Conte Editore),
«Pieghe poetiche» (Lecce, Conte Editore), «Pieghe della memoria» (Lecce, Conte
Editore), «Foglie nude» (Doria di Cassano Jonio), «Locandine letterarie»
(Lecce, Il Raggio Verde), «Romanzi nudi» (Lecce) in unico esemplare, «Carte letterarie»
(Lecce, Astragali), Mail Theatre (Lecce, Astragali), «New Page. Narrativa in
store», (Lecce) narrativa breve, poi anche poesia e teatro, in cento parole,
collana che guarda alla comunicazione pubblicitaria con i testi applicati su
crowner, pannelli cartonati in uso nella comunicazione pubblicitaria, ed
esposti in store, nelle vetrine dei negozi. Nell'ambito della poesia
verbo-visiva e del libro-oggetto, è presente in numerose manifestazioni di
«Nuova scrittura»: Ma il vero scandalo è la poesia. Un salto di codice,
Ferrara, Ipermedia; Attorno a noi poeti in gruppo, Strudà (Lecce), Ospedale
psichiatrico; Dentro fuori luogo, Casarano, Palazzo D'Elia; Centro
internazionale Brera, Documenti di gestione alternativa. Appunti sulla Puglia,
Milano, Chiesa San Corpoforo; Artigianare '81, Lecce; Cercare Bodini, Bari /
Lecce, Ab origine, Martina Franca; Parola fra spazio e suono. Situazione
italiana, Viareggio; Le brache di Gutenberg, Caruso, Visco, Livorno; Far libro.
Libri e pagine d' artsta in Italia, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Il
segno della parola e la parola del segno, Milano, Mercato del sale, Breton et
le poeme-objet, Ugo Carrega, Milano, Mercato del sale, Le porte di Sibari,
Sibari, Visibile Language. Numero speciale sulla poesia visuale. Sezione
Italia, E. Minarelli, USA; Cartoline d'artista, Livorno, Belforte, Terra del
fuoco. Intersezioni per Adriano Spatola, QuartoNapoli, La parola dipinta.
Rassegna di poesia visuale, Belluno, Comune di Gallarate Civica galleria d'arte
moderna. Casa d'EuropaSede di Gallarate, Pagine e dintorni, Libri d' artis ta, Gallarate,L.
Pignotti, “La poesia visiva”, L'immaginazione (Lecce), S-covando l'uovo,
Firenze, Terra del fuoco, QuartoNapoli, Musei Civici di Mantova, Poesia totale.
Dal colpo di dadi alla Poesia visuale. Mantova, Sarenco, Palazzo della Ragione,
Archivio libri d' artista. Laboratorio, G. Gini e F. Fedi, Milano, È presente
in Musei, Biblioteche, Archivi. Tra i più importanti: Biblioteca Nazionale
Centrale di Firenze“Libri e pagine d'artis ta”con l’opera Mar/e amniotico,
1983; Galleria d’arte moderna di Gallarate, con le opere Mourning Processes.
The word, e Processi di lutto. Notizen: dis; Museo S. Castromediano di Lecce,
con l'opera Matram psicofisica, Archivio Sackner, Miami Beach, e Archivio Della
Grazia di nuova scrittura, Milano, con varie opere; Hokkaido Museum of
Literature, con la collane “Wall Word”, nteramente tradotta in giapponese;
Imago mundi-Visual poetry in Europe (Fondazione Benetton, ) ecc. Altre
opere: Dichiarazione onomatopeica (Lecce); Progetto negativo (Lecce,); Disianza
Congiuntiva (Livorno); Disperate Professore (Parabita); dis/adriatico
(Caprarica di Lecce); Tracce di un discorso amoroso (Caprarica di Lecce);
Compact Type. Nuova narrative Con Verri, (Caprarica di Lecc); Sconcetti di luna
(Caprarica di Lecce); Mail Fiction. Free Lances Con A. Verri(Caprarica di Lecce);
Navigli (Caprarica di Lecce); Void Fiction (Sibari,); Street Stories (Lecce)tradotto
in giapponese(SapporoJapan); Parole morte. Dead Words (Lecce); L’addio alle
scene (Lecce); Antonio Verri. Schegge del contestocon M. Nocera (Lecce); 18 i
titoli pubblicati su leaflets (Lecce), 16 «Pieghe narrative» e 2 «Pieghe
poetiche»: “Pieghe narrative”: Vento, vento, I colombi della clausura, Il
figlio dell'anima, La Balilla, Graziato, Il monumento, Dove volano i gabbiani,
La mimosa, Ricordanze zigane, Franco, Cocker, All'ombra del grande vecchio,
Reparto «P», Il tradimento, 27 marzo, L'esame. “Pieghe poetiche”: Rosa
virginale, Il solista; Dichiarazione d'innocenza (Lecce); 7 i «Romanzi nudi»,
titoli in unico esemplare (Lecce, Dis, Era d’autunno, Il falò, L’Objet trouvé,
Silenzi, Why, Ballata migrante, Uscita in marasma (Lecce); Di viole. D’incanti.
Astragali teatro (Lecce ); New Page: In un bosco di frammenti (Lecce), La
parola tramava (Lecce); Le prime notti stellate (Lecce) interrogatorio violento
(Lecce, ) I suoi ramaggi (Lecce, ). Grigiori dell’anima (lecce, ), Di un
solstizio d’amore (Lecce, ), Maria la magliaia (Lecce), Teresa. L’Altrove,
(Lecce), La mer. Ma mère (Lecce), Una notte senza stelle (Lecce). Le distese di
grano, (Lecce), Gastronomia da asporto (Lecce), Una sua lettera (Lecce),
Trincee matricali (Lecce), Compagno d’accademia (Lecce). Tra i gabbiani (Lecce),
Cioccolatini di Chicago (Lecce), Cantata duale (Lecce). La tromba dell’altrove
(Lecce), Il nipote violoncellista (Lecce); ‘Operatori culturali contemporanei
in Puglia. Archivio storico divulgativo, Lecce); “Ambivalenze genetiche”, Ghen
(Lecce) ora in “Genetic Ambivalencie”, Art Communication Edition,
Toronto-Canada) “Links”, Ghen (Lecce), “Il complesso di Edipo e quello di Caino”,
Quotidiano (Lecce); “I processi di lutto. La Weltanschauung ghenica” in, La
parola tra spazio e suono. Situazione italiana, Viareggio, “Codice yem: le
origini del linguaggio, ovvero la rifondazione della coppia”, Ghen (Lecce) (ora
in Regione Puglia, Creatività e linguaggio. Atti del Convegno, Maglie);
“Dis-astro”, in A. Massari, Dis-astro. Loos, Lecce, “L’area inter-media”, in F.
Gelli, Transitional Objects. Mutter Fixerung, Lecce; “Ipotesi interpretativa
del fenomeno droga, formulata da una coscienza che opera nella poetica. Della
scissione. Della prevenzione” in Tossico-dipendenza: progetto di lotta Centro
studi giuridici M. Di Pietro. Convegno. Lecce; “Mater externata”, in L. Caruso,
Mater: poesia. Madre e signora dell’acqua, Lecce; “Lontananze genetiche. Ad
cantus enclitico”, in Manifesto mostra gruppo Ghen, Milano; Progetto
negativo, Galatina (ora in Ab origine. Presenze pugliesi nell’arte contemporanea,
Roma-Bari); “La letterarietà di Caruso”, in E. Giannì, Poiesis: Ricerca poetica
in Italia, Arezzo; “La poesia totale di Spatola. Il convegno di Celle Ligure”,
On Board, Lecce; “Wall Word: parole da muro, romanzo da muro”, in F.S. Dòdaro,
Street stories, Lecce; “Dodici haiku. Dodici punti di rilevamento”, in E.
Coriano, A tre deserti dall’ultimo sorriso meccanico. Three deserts from the
shadow of the last mechanical smile, Lecce; “Una pagina diversa, up to date”, in
Pieghe narrative, Lecce; Schede d'arte contemporanea. Implicatura e Mappatura
schedografica degli Autori contemporanei, Lecce; “L’ampliamento della
flessione”, in Archivio libri d’artista. Laboratorio 66, Milano; “Le anime
narranti di Alberto Tallone”, in Tallone. Manuale tipografico, Alpigiano
(Torino), New Page (Lecce); L'ortografia è morta. L'apparato pausativo, in New
Page (Lecce). Francesco Aprile, Già così tenera di folla, in Intrecci, Napoli,
Oèdipus, Edoardo, un cavaliere senza
terra, su bit. Antonio Verri, Edoardo, Un cavaliere senza terra, su bit. Francesco Aprile, Poesia qualepoesia/06:
Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce, su Puglia libre, Testi di
teoria letteraria/editoriale, su utsanga.
Archivio di nuova scrittura, su verbo visual virtuale.org. Cantata duale, Imago mundi-Visual poetry in
Europe, su imagomundiart.com. Antonio
Verri, Una stupenda generazione, SudPuglia, Antonio Verri, Edoardo, un
cavaliere senza terra, SudPuglia, Aprile, Già così tenera di folla, Napoli,
Oèdipus, Francesco Aprile, La parola
intermediale: lineamenti di un itinerario pugliese, in Aprile F.-Caggiula C.,
La parola inter-mediale: un itinerario pugliese, Cavallino, Biblioteca
Rizzo, Aprile, Fra parola e new media,
in Aprile F.-Caggiula C., La parola intermediale: un itinerario pugliese (atti
del convegno), Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo, Cristo Caggiula, Intersezioni asemiche nel
movimento di Arte Genetica, in Aprile F.-Caggiula C., La parola intermediale:
un itinerario pugliese, Cavallino, Biblioteca Rizzo, Visual poetry: A short anthology, in utsanga,
L'ortografia è morta. L'apparato pausativo, in utsanga, Testi di teoria
letteraria/editoriale, Codice Yem, le
origini del linguaggio: ovvero la rifondazione della coppia, in utsanga, Letterarietà
di Caruso, in utsanga, La poesia totale di Spatola/Il convegno di Celle Ligure,
in utsanga Francesco Aprile, Il rapporto D.-Verri attraverso la critica, in
utsanga Francesco Aprile, Dal modulo all'internet poetry, in utsanga, Aprile,
L’Arte Genetica, in utsanga, Aprile, New Page: Narrativa, Poesia, Teatro, Scavi
in store, in utsanga, Aprile, New Page: la poiesi come approccio etnografico,
Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo, Aprile, New Page, collana di critica
letteraria, Sondrio, Edizioni CFR, Intervista
a Vincenzo Lagalla, Francesco Aprile, in utsanga Lamberto Pignotti,
Introduzione, L'addio alle scene, Lecce, Argo,ora in utsanga Lamberto Pignotti,
Rebus, iper-rebus. Parole da vedere, immagini da leggere, in utsanga, Caruso,
Frammento, in utsanga Julien Blaine, Omaggio alla "O" in D., in
utsanga Ruggero Maggi, Dedica, utsanga Alessandro Laporta, cercarlo dove non
appare, in utsanga, Mignani, Ghen against again. Risarcimento dei supporti o
della signatura dei segni, in utsanga Egidio Marullo, F. S. Dòdaro. L'ultimo
mentore, in utsanga Omaggio, in
utsanga Cantata plurale, materiali 01,
Caprarica di Lecce, Utsanga. AP01-L0T30R0 g lift rhe mi domandate,
U-» [U quello che « svista, mi Inon son pre molto ch’io
mi trovavo a risali Filerò, in città-, ed ecco, .
j.^^-jania da staimi riaonosctoo J d.=«o ^ ^ H,,e- 1 fu/rirt™
't-irràT,t punto poco fa, che ^ guita tra Agatone
contarmi la conversazione seg e Socrate e Alcibiade ® ‘j discorsi,
sai, di allora parte al convito ^S)> ^ perché me gli Amore; o
che vi si disse C ^ ggntiti da Fe- rapportati un altro che g detto
che nice, figliuol di Filippo (7)> B Convito
li conoscevi anche tu. Ora, egli non nii dir nulla di chiaro.
Sicché ridimmeli tu tu sei proprio quello a cui si conviene rifèr’'
discorsi deir amico tuo. E per prima cosa,
mi domandò a quella conversazione t-r; Ed io gli risposi : Si vede davvero, che dite ne ha fatto il
racconto, non t’ha rapporta/' nulla di chiaro, se tu credi che la
conversazióne della quale mi chiedi, sia succeduta da poco tanto
che io ci avessi potuto essere. Ma si. 0 come mai, Glaucone, dissi
io ; o non lo sai, che sono anni parecchi che
Agatone non è più tornato qui? Mentre da quando io ho dimestichezza con
Socrate,' e ho fatto mia cura di sapere giorno per giorno ciò ch’egli fa
o dice, non sono ancora passati tre anni: Prima giravo a caso di
qua e di là, e immaginandomi di far qualcosa, ero l’uomo più misero del
mondo, non meno di te ora che credi di dover fare qualunque altra cosa piuttosto
che filosofare. E lui Non celiare, disse: ma dimmi: quando
ebbe luogo quella conversazione? Ed io Mentre eravamo ancora
ragazzi risposi quando Agatone vinse per
la prima solta nella gara della tragedia, il giorno dopo e ie egli
e i coristi celebrarono il sacrifizio di ringraziamento. Un
gran pezzo, dunque, si vede. Ma chi 'Socrate stesso? B
niVff-'1 cl medesimo che a Fe- un certo Aristodemo, Cidateneo, un
omet !h adatta a a s _ in t^'^'' ’ „ ai auei discorsi,
C '?'cosi '! > '' ' rircipio, O P ?.
f. com 'i' ' t nUssario che io h siccità’ Se
duirque ta ^, >50 quanto alla sprovvista. Cli 'O.! fuor di
misura; ment q gente 1 discorsi, e in ispecie a e, me. e
; acca e d’affari, e 1. ne ru, 1 sento compassione,,uUa. E
forse, pare di far qualcosa 1 gtimate me uno sforc> -.- jtrc-cdi e il vero-,,e lunato; e credo,
c do ma lo so. non die io di
voi non lo credo, ni amico dici Sei sempre lo stesso,
Apollodor ^ sempre male e di te nic esimo ^^iseri, da par propriamente,
die tu £ di dove :ratciii fuori, conlinciando io ti sia
venuto il soptamm ^osi dnvvero ; ma cer ne’ discorsi; aspro
con te e coa-1! .fu con Socrate. 'o
fuorci,(, APOLLODORO E Già s’intende, carissimo; perchè ia e
di me e di voi, sono furioso e deUro^
AMICO Non mette conto, Apollodoro, qugsj- ora di ciò; però,
quello di cui t’abbjan chiesto, fòlio e non altrimenti, ma
raccontac'i T discorsi si fecero. APOLLODORO Furon su
per giù di questo tenore. Ma piuttosto (9) mi proverò a raccontarvi ogni cosa
dal principio, come quello fece a me. Egli, dunque, mi
raccontò, d’essersi incontrato con Socrate, lavato (io), e anche calzato,
cosa che a Socrate non succedeva spesso; e d avergli domandato dove
s’avviasse così rimbellito; e quello gli rispondesse: A cena da Aga-
Olle. oiche ieri a’ sacrifizi del ringraziamento 0 scansai, per paura
della gente; ma gli proson ^ d un bello Ma'em' è il tur, r-
disse, che sentimento tato?
(12) mudare a una cena non invi^d m disse vuoi. ' sposi: Quello che tu
perchè noi’si mm? fiFtese anche proverbio, sicché dica
che buono P^r guerriero, C ? aue o ' ,otetò il ré ' ' ^ ^he io, Socrate, cor
presentarmi, f '' £i,. Tcinvuó di un,a r;. ona di P . ,ó-
Guarda tu d,e m. D uomo, non mvi^ ^hì;, quanto a 0^,6 rveici non inviuro, bensì
italo da te. ^^nsuUerem V ,::t:;tdi'ci6 he . 0,0,
dire, su, anScambiate che si furono queste narono. ' Ora, Socrate
^soenava, siero, fermandosi per istrada, ^ ® che gli
ordinava di andar pure innanzi. trovò quando fu giunto alla casa di
Aga o, aperta la porta, e gli venne incontro caso
ridicolo. Perchè gh Un ragazzo e lo condusse dove e Convito i giacere, e ii
colse, che stavano per nf- cenare (17). E appena Agatone T j
disse : O Aristodemo, tu arrivi in punt
^ ' 'sto nare, s’intende, insieme con noi. venuto per
qualche altra cosa, rimettila Anche ieri t’ho cercato per invitarti
^ m’ò riuscito di vederti in nessun luogo (ìst come mai non ci
conduci Socrate? ' Ed io
disse mi voltai addietro e non in nessun luogo Socrate che mi
seguisse; Si risposi che io ero venuto appunto con Socrate invitato
qui a cena da lui. Hai fatto bene ripigliò Agatone, ~ lui dov’ è ?
Dianzi, egli era per entrare dietro a me - 0 dov’è? Son tutto
stupito. Ragazzo, o non t’affretti a guardare, riprese
Agatone e non ci meni qui Socrate? e tu,
Aristodemo, dice, sdraiati accanto a Erissimaco, E, mentre il
ragazzo gli lavava i piedi, perchè si mettesse a giacere, un altro dei
ragazzi, raccontava, tornò annunziando, che questo Socrate, ritiratosi
nel vestibolo della casia accanto, se ne stava li fermo, e per quanto lui
lo chiamasse, non era voluto entrare (20). 0 che strana cosa tu
dicil disse Agatone. 0, dunque, non lo chiami da capo e non seguiti?
Ma nientaffatto lasciatelo stare. riferiva d’aver
detto; anzi Perchè lui ha
quest’usanza-; dovunque si trovi, ira ( ’ Ja
las ripresa 1 ’fs - 1
dStènoùUsi. iP : M '’ÈbbePe.
Sf he vói volete, gi e tg ' ' 7urittura ?rleervi-, il dte io on siedili fate COMO ìSSU’’^’
. epoi mai invitati da voi, 'C’ppe 'T S ve
11- eSble a l to'ìttateci iti ssi principiarono a
c, raccontava, ess p ^„atone pm ^ m Socrate ^X' socrate, ma Aristoè 'r^ór óhft.ie.ilopo hmd S .oaonlope™' ,„a,emte; s era
tanto lungo, con ^ Aratone- si. che a mezzo della . Qua,
Sopiva solo a giacere ti ^ e _ disse idea sapiente, che
vXlo; giacchi. ^ ?::róhtóvó.a,euti-ip™' mosso. ^ S.,rebbe pur
bene, dis- Socrate sede, e Sa V -Agatone, se la
saptcì . rete dal più P''™ t,ei Wechtol l’ l i'r tdo ci tocchiamo; come p,u
„„ filo di latta, scotte ^ P' ^ j
rosi, io 0 . Chi, se 1' : forchi di molta ;o molto lo starti a ’
^jj,|,j,pito da te. Ila sapienza io sarò, pcn sarebbe tti, la
mia, quando j. siccome un so-hina c disputabile, g'^c rigoglio la
mentre ò splcmhda e pien, ^ 1., ITONE, Voi. /-Vt
Convito tua, che da te ancor giovine ha sf„i COSI gran Juce
ed ha brillato diana^'® co pm d. trentantila Elleni per testiSo?'
Tu sei un impertinente, Socrat ^’ 5 ). Agatone; se non che questa dell^. f'^Ose .
quistione che decideremo anch’essr qui a poco, prendendo Dioniso^
ce (27); ora, per prima cosa, mettif^'^'^ a cena. Dopo ciò, raccontava, Socrate si
mettessi- giacere ; e quando lui e gli altri ebber finito a -
cenare, facessero le libarioui, e cantato l’innò all Iddio, e compita
ogni altra cerimonia ('28') si voltassero al bere; ma qui Pausania
principisi a parlare in questo tenore: Bene sta, amici disse come
faremo a bere fi p,u a comodo? Io vi so dire in ve- ità che mi
sento molto aggravato dal bere di cri. ' POSO, e cosi, vate ’ ’ g'^^chò
jeri ci erabere ! in che modo
potremmo bere fi pm a comodo. bene rispose : Di ciò tu
dici certo nel bere . comodità li jeri ' vocile io sono
degli annaffiati ^euiiieno ^^ tito Erissimaco figliuolo di
uùa cfsf ~ bene davvero; si sente in fnr,,' f gna sapere da voi, come per bere
Agatone? c neanclie io ^rispos^^'
^ f ^oC.„.„--rep '>®Sre’p (tra per me e po ne una . ^„3tra, P
.entissrmt ne rci''’^ se v ' ’ ' } ntianto
a nor > „ ci alto. perche, q^t^n ^i m t strac '''Socrate
e aU’altra, >:rradatto ^'7:,n. to, delP-i, si chiamerà
dunque, li arante^ o 1 altra. g-i
senta vogha ? a eh nessuno tie’fcse^ Olfo vi. , ? r sia
vai.™- ^ aire la
medicina La ta o %5lS'3sri- giorno innanzi. j^pse
Fedro acanto a me, di obbedirti, prendendola
parola massime, in . ;';^bediranno anche gh altri,
medicina; ma ora ti odo se si consigliano bene. unti di non
Sentite queste della lor rmfare dell’ubriacarsi il ^ piacere ’
nionc, ma di bere cos ^ poiché s’e
Or bene, - ripigliai Jo^.pole, e non a deciso che ciascuno beva q _
pp’ altri sia nulla di forzato, fo dopo proposta; cd è che si
congedi la son trata or ora; lei
suoni per conto suo ^''® piace, alle donne di dentro, e noi si n’ il nostro tempo a conversare. E su
qn^p getti, se siete contenti, ve lo proporrei ’ AI che tutti
diceva acconsentissero c 1 ' tasserò a fare la sua proposta; sicché
Eriss' riprendesse: II principio del mio disco^r! conforme alla
Menalippe di Euripide h > non è mia, bensì di questo Fedro
qui, la / che son per dire. Fedro, di fatti, se'ne lag sempre meco.
Non è intollerabile, dice, 0 Eris'' siraaco, che ad altri Dii si sian
composti da’ poeti inni e peani, e all’Amore, che è cosi antico e
cotanto Iddio, nessun poeta mai, di tanti che B ce n’è stati, abbia
composto un elogio; aiui se vuoi guardie a quei bravi sofisti,
scrivano’ si, gli elogi di Ercole e di altri eroi in prosa per
esempio l’eccellentissimo Prodico ; è questa è anche meno da stupire, ma
io stesso mi sono g.à imbattuto in un libro d’un sapien- l’mTfA’
lodato soprammodo per c drpcV simili cose tu ne veconto 'Tiolte.
Fare un cosi gran al mond ^ l’Amore, nessun uomo <i esto
inneggiarlo fino a così! (ir') n ' Uu tanto Iddio trascurato
n ragione ’ Fhk^ ^'PPosgio
e\l'l ’- P '’e, che nelli „ e
insieme mi '' 1 che siamo occasione s’addica, a . se
pare eli l’ecidio. Sic >nchca voi, c’intratterremo Erissi '^ ' ;rLrto
l^on ti direi di ó ®.ri ' Ù™^™ì di niente sostengo di ot j, Agatone c ®,U amore U?- .-^„fone. t,e sostengo u. . . ^gaiuL^v- '
’ fi di cose di Vende, Aristofane, ! e neanche, /,, nè alcun altro
E Mutto Dioniso e A to 1 ^^unque la parafa io vedo qui. f Jo
l'ultimo CsiaP-VP-ritrimi avranno detto,.tiPlU Clic . Ug
auDiuiiw ;’n. rie peri P iranno detto nsto- se non che, _,
Su via, con bbastanz oa (S)’,uona
fortuna C39;> P 'Amore. . assentirono tutti, e feA ciò anche gh
Però, di tutte cero lo stesso invito di Aristodemo si rile cose che
omscun > „,ia, di cordava appuntino, t P_^ P^^ tutte quelle che npet _ ' ehe a me parve di memoria e i
discorsi d quelli c fossero tali, un per uno (.qOA VII
discorso di FEDRO, a-,co raccontava che E per il primo, come
dm, Fedro cominciasse a un n maravighoso tra grande
Iddio fosse l’Amore, e mar ® r Convito gli uomini e tra
d;: 7 ' B 1 essere tra i più antichi T la- g’AMORE ni vi
sono, ni si citano j, ''S' itotì di nè prosatore nè poeta; Està
prima fosse il Caos, dice, nni I ^ terra Dal largo
petto, d'ogni cosa sede' In eterno sicura e Amor. Afferma, che dopo
il Caos queste dn. nascessero, Terra e Amore. Pannenide che la
Generazione Pnraissimo l’Amor di tuttiquanti Iddìi pensò. con
Esiodo s’accorda Acusileo ; da tante i'chiss antichissimo. Antichissimo, poi,
com’egli è. ci è causa dei nulfa^dr ’Op eli certo, non so
di un appena giovine giovi più diunorr !-^^' ^
all’amante viro di tri ^^PPoichè ciò che deve ser'’ene Qiip f intera
vita a chi sia per viverla la ricchezza Parentela, nè gli onori, nè
benencll’nn ^ 'ont altro può insinuarlo cosi tiuesto?
La' come l’Amore. Ora, che è egli 'azione
nei brutti, l’emu nè privato qualità
nè C tlà nè privato ' v .. u,. ijuam.i > c belle Opere pui S^ado di
compiere grandi i o ' ac è tróv affermo che un uomo ^ crarla da ^ qualche brutta cosa ti
senza difendersi per vi hcri .'' ^ dagU amici nc n^cche egli soprattutto da
E li^,/da ^i-U’amato, che ^ Q^to vediamo neh, d
esser feria' Pantano, n.i Sechi:, se aie vi ( f ts.
P Ji ;.
iiez^a esercito si c P modo di reg T^’non ci i-orc di quello
di con uS tre I Sauendo gli 11 ' i;c r;bbcro,
s.o pe, dire, li accanto a„ ^mjni tutti quanti ( 44 )- Idre
in ponW S'' esser sdsro disertsre i,è un nonio che ’/.e' lo ammetterebbe Vsr he eWrrrrriue nitro i 1.,,.
persoir direbbe morire più volre^ ; prima
che questo, ^ in un pencolo I serro, bbnmlo r^„
„ „ ehe aon dargli ajuto, no
.^g^be d’un divino l’Amore di per se P di pm vaspirito di virtù da
che Omero B lorosa indole (46). E, coraggio m dice,
nvere un Idd P^ ^p,,ato taluni croi, questo 1 An da lui negli
amanti. Vili fi sono disposti a E si, che soli .
8 Xe
uomini, r morire per sli-^i ?''^'’testimonianza,
quanto le donne. E di ciò,-,inla di Pelio, che basta, agli Elleui
Alceste Sglmola C sola consenti a morire per il marito s pure
aveva padre e madre; i quali essa, pe f d’amore, tanto superò
nell’affetto da farl- rere estranei al figliuolo, e non appartenen lui
che per il nome. E per aver compiuto a ^ st’atto, parve n’avesse compiuto
un cosi bei[' agli uomini e agli Dei, che, avendo pur niohi
compiuto molti e belli atti, ad assai ben pochi det tero gli Dei
quest’onore, di ricondurne quassù l’aninia daH’Inferno, ma la sua la
ricondussero D compiaciuti dell’atto suo. Tanto anche gli Dg;
pregiano sopra ogni altra l’osservanza e la virtù di Amore (49). Invece,
Orfeo, figliuolo di lagro, lo rimandarono via dall’inferno a mani
vuote mostrandogli un fantasma della donna per la quale era
disceso, anziché dargli questa stessa, poiché, come un citaredo che era,
s’era chiarito di animo molle, e gli era mancato l’ardire di morire
di amore come Alceste, anzi s’era ingegnato d’entrare vivo nell’inferno. Sicché
per questo gl’inflissero una pena, e lo fecero mo- E rirc per mano
di donne; in quella vece Achille, figliuolo di Tetide, onorarono e
mandarono alle isole de’ beati; perché egli, saputo dalla madre, che, se avesse
ucciso Ettore, sarebbe morto, dove, non uccidendolo, avrebbe,
tornato a casa, finito vecchio i suoi giorni, 80 osò prescegliere,
andando in ajuto a Patroclo amante suo e traendone vendetta, non solo
morire per lui, ma soprammorire(53) ^ lui già uscito causa gli Dei, soprammodo anci
essi compiaciuti di lui, l’onorarono partico- rmente, perchè egli aveva
tenuto in cosi gran Conv <’
racconta fiaBd Escbf \„,ante di
i o^di Patrono era te?'®? col d> ’ ’ non solo -j^n. :!^àoi^^\fdcgy^
^ZXo^to, come dice %eUe> giovi ® ^Lhe -llE>cio o’'^: AMARE ;
per6 0 n arato >1 „uage
dell’amante, an :.3 '' mv 0
a f r '' ri 17) E P ? Setok
de’beati. - S^te^idS ret ato e in morte
W). Di questo tenore / ùssero termi altri ehe „., dopo im ei
li saltando recr-,sìrieordav.gran ta m. ’.j^„,l, dicesse, a il discorso
di t'ausa oisoonsQ m DlSCUi<e2>v \ e ci si
sin lon bene, o Eetoo- ^ P-'J,èssere,osto il soggetto f ^ i,re
Amore. Foi plicemcnte invitati ad elog^^^^^e bene, ma %e l’Amore
fosse uno^^^,gU uno, 0, e’ non è uno. or, n
lSi Convito coiivieii meglio dire prima qual^ i
amndi io „,i sforzerà a corregge^
cloanrc quale Aurore bisogna lodare P-i ;,n erodo degno dell'Iddio. Perche,m’,f d. che Afrodite non è senza Amore PP'
''^o fosse una, uno sarebbe Amore- due C6o), anche due è necessità
che ^ siano ( 60 . E come non son due le De ? più antica e senza
madre, figliuola di Ciel„ appunto nominiamo celeste - l’altra da
Giove e Dione, che appuntò chiamTainr^l gare (62). Quindi, è necessario,
l’Amore J deU’una, chiamarlo a buona ragione volcrare ^1 leste
l’altro. ^ Ora, gli Dei si devono bensì lodare tutti (6A-
pure, ci si deve provare a dire le qualità sortite da ciascuno dei due.
Imperocché (64) ogni azione ha questa natura; di per sè nè buona è
ne cattiva. Ciò per esempio che noi facciamo o il bere 0 il cantare o il
discorrere, son cose di cui buona non è per sè stessa nessuna; ma
ne -tra, per il modo com’è fatta, riesce tale; perche fatta bene e
rettamente diventa buona, così appunto l’amare im ^ buono c
degno d’elogio; quello che bene incita ad
amare. L’Amore, veracemente icello con
cui veracenii quello CC IL X
adunque dell’Afrodite volgare è vo gare, e opera a caso; ed esso
è amano gli uomini abbietti. Amano cUc i S'O'.
iricoo 1 ^ ^ piuttosto I costo^ ''%i che più stoUac P '^ ^àrdavtdo che a sod- o non
ng^'^^'^Xintenù. Onde Dtr' i,e P ^^ \orc, se V occasione,
sen'- '’ '^,cUo di cn' ' il contrafa
®’ //>! ^Perocché es ^p\\’altra, e p.<oca „„iH nascita sua celeste da
contro >’A' . '%Tfe ,mto, .00
t'p tési 0 poi cruna e „,aschio > P appunto si rivol 5 ' ' li
lascivia ( 69 ) prediligendo dtscl.io 8Vispi. ^Tme8'lo lofo, fc per natura pw forte iigenaa. ^
^l'^^^^rnte riconoscere jelh T afooo® i,c oaiotcn- 1>
t® ' Scindono gii ' ?„'lata.'>r>
Sfitto,SO g.-J ;jSrrro pcchò q o i. frisoUtto 0 ot ad amare, sono P „„„,e l’intera '.to. col tancinllo e
vvere n co orto e non gii,dopo 'f ; ; óra di senno,0. come giovine, co P uotsi
di corsa prendersi beffe di 1 . 'ol,,,o, fan altro. Vi dovrebbe '' on
fosse i cMli non si amino r afffncbl n^^,,^ ^
a cosa spesa di mo ta cuta^ P .poanto a ' 0 fine dei tandnlli dove 6 ’ ora.
> e virtù d’animo e d. corpo Convito mettono
essi questa legge a sè proprio volere; se non che bi sogneS lor cotesti amanti volgari, come appunta,82
il pm che per noi si possa, a non . libere (73). Chò essi son
quelli volto l’amore in vituperio, tanto che tal dire che turpe
cosa sia il gratificare T ti C74). E dicon così, avendo l’occhio V
di cui vedono l’intempestività ed poiché, di certo, nessun atto compiuto
ordin mente e conforme alla legge potrebbe co.rrT gione arrecare
biasimo. E appunto la legge, che governa 1 amore nelle altre
città, è Exdle ad intendersi poiché nei! concetto uno solo ; ma
qui varia. Dappoiché nell’Elide e nella Beozia e dove non sanno
ragionare, unica legge è questa che é bene gratificare gli amanti, e
nessuno^ nè giovine nè vecchio, direbbe che sia male ; affinchè, credo,
non abbiano a durar fatica a persuadere i giovani con ragioni, inabili
come'sono ^ ragionare; invece, in molti luoghi di Ionia, c m molti
altri è riputata cosa turpe, tra quelli lutti che son soggetti a’ barbari
(80). Di fatti, Ira 1 arbari, per ragione delle tirannidi, si
reputa ^ turpe questo, e così ancora ogni studio di sapienza e di GINNASTICA.
Poiché quivi, m’im- giova a chi governa, che si gene- o alterigie
grandi nè amicizie d’offnt g^giiarde, quello che, non meno
prattuttn l’Amore so’^sperienzrfirr^^^' ii^parato per ini anche di
qui; chò l’amore di -.rnona- Cosi dove disciolse la lor sig
^^^^fjcare gli salda, di cosa sia il g ^,.^,,c7.^a r SSo
delUsoverchlena jiriaa^'’ ' l’hanno effemminatezza dei
dei quella vece, dov^_ a sia in ^n n V.cposto hanno (84) fo
di quelli che cosi dispo^ p., bella, e com XI
I,uperocchè (85) chi nJii bello r amare aper ottimi,
:s„!esop„ o>£frs -. e ancorché sieno pm cabile
incoraggia altra parte, chi -a nqualcosa mento da tutti,un
innamodibrutto; c che il co brutto, e la rato par bello, non cO q
lode, legge ha dato licenza a chi j quah, ;?ndo sia per
conquistar^ ; ^\,„que altra chi osasse fare per correr
raccoglierebbe ca da ' 'dfppoUtó, s P ''^ i maggiori biasimi,- , q q averne u di cavar denaro a
qualc^'^J^ ^solvesse fido (90) o un altro g^Jo I 9 amati, 1
a fare quello che g > un quali nelle lor richieste dormite
sulle implorazioni e giuramenti C
i) ), e servono ' servo tollererebbe serv,v
^ dagli ann-ci e’daC,''' sua adulazione e abL ^ elli vJ monendolo e arr^ ^ '^'ezione
fq.x ' Petatid! f-- li cosrreT
'' .? > li i- P rn. „ Sr,^ me a
q„dIo che effetti L ' ^ to. E il pii, tecribile r' ' S
a meno dice )a geme, s„,o J,,? ' 'l ,
co . gli_ Dei perdonano, se trasgredisci poiché giuramento
Afrodisio i f^. CosihannoefhDefri, licenza accordato a chi ama ogni
legge di qui. Da questo lato terrebbe, che nella citf\ nn t 1 ®’ o
ne l’amore7- ' '' simo e
amore e il mostrarsi amici agli amanti. Ma Jlh VV’ P^dri,
preponendo pedaS g I 3 gh amati, non permettono che discorrano cogli amanti, e
i coetanei e gli amici ) \ itnperano quando vedano succedere
qualcosa di simile, e i vecchi, d’altronde, non inter icono cotesti
censori, nè Ji biasimano, come se non dicessero giusto, uno, che per
opposto ^ardi^ a tutto ciò, stimerebbe che qui una simile cosa si
reputi bruttissima. Ebbene, la cosa, credo IO, sta così ; non è a mi solo
modo ; eh’ è ciò e ie s è appunto detto in principio, eh’essa non
sia bella nè brutta; ma fatta bellamente bella, ruttaniente brutta (100).
Ora, bruttamente è, belT^ gratifichi un malvagio e in malo modo;
niodo^'^'^p'^ quando un uomo probo e in
probo malvagio è quell’amante volgare, che Convi 0
„on L i r< >'
^^' „;, la ìia. P '' '^ '
1 /Ilfscors f fprmo Ip IpfTffC l>
' nresto, perchè s' L' r esser preso p crrutinitore, truuo 1 esse p scruti
tempo Aprp da denari e ua- P l ' òl il lasciarsi prendere da
s, sgo;;Ucii è brutto, sia eh (loa) non menti e non resista, s^ e
par disprezzi. senza dire che da cJ sia nè ferma nè
stabile, s .^^Ha i sauna
nobile rbellan.entc deve
leiTge nostra una sola y Dappoiché a noi Saio gratificale n.i d questa è la legge; ^'f Vrervitù verso l’amato servire
spontanei qualunq ^^ulazione, cosi s’è concluso, che non,està non
vitupeun’ altra servitù sola spon oggettorcvole, quella che ha la v'rtn p
Chò appunto ò ammesso n quando uno si risolva a niH ^ ii noi, perchè egli creda di diventa^r^m
ài',''di lui o in sapienza o in qualun
virtù, questa servitù spontanea no pur essa brutta, nè sia
piaggeria ? ? Pqueste
due leggi, - quelf ch^ regf/? dei fanciulli e quella che regge Pai
sapienza e di ogni altra virtù (foj) IT4 correre al medesimo, chi voglia
che to™^?' Il compiacere l’amato all’amante. Chè qual? insieme
s’incontrino l’amante e l’amato, ree nt ciascuno la sua legge - quello
che qualunque servizio egli renda agli amati che lolompTc! ciono,
giustamente lo renda, questo, che a chi sapiente lo faccia e buono,
qualunque ufficio egli presti, giustamente lo presti, e l’uno, potente
d’intelligenza e d’ogni altra virtù, ne dia, a tro manchevole in coltura
e in ogni altra sapienza, ne acquisti, allora si, queste due concorrendo
in uno, egli accade, e sol- tamo cosi, che bello sia il compiacere l’amato
all amante, ma in altro caso no. In questo, persino il trovarsi ingannato non è
punto ùi ogni altro, o che tu sia ingannato 0
^,0. ti porta bruttura. Perchè, se uno che a\- ricco avesse per
ragion di ricchezza perto i?' '^ ’ ^™vasse deluso per essersi sco-
n^en brutto^-^'^^ Povero, non perciò gli sarebbe ’ perchè un siffatto
uomo dà a di B I anin .0
suo. a>ep perché buono c P .j„y;ore egU stesso,
diluì diventare Lll’ ' '^ ' poi deluso, P bello
l’ÌBga’ anche questi da a divede^ I,£t 0 V P™ ^T'r^ ''^.1 diventare mighore 5 .^ontro,
e la ter chicchessia; e quest . bello per '. ?ella cosa di
tutte. Cosi, £ di virtù comptacere ^ Celeste, I ' Questi
ù r Autore della D 1 di gran pregio alla \ amante ' ài
.Uri -
sopra dì st q volgare. E qaesK sono dell’ultra
Deu.d ^ all’improvviso sono, 0 Fedro, le ’ ^ er la mia parte.
intorno all’a\more IO t arreco p „ aiacchè i
sapienti Fatto pausa assonanze - avrebbe m’insegnano a fare di
q a. ^ere Aristofane; dovuto, disse Aristodemo discorre ^ se
non che gli era o per _ p ^ altra causa venuto il ^aco il
medico: -di parlare, sicché disse ^ ^^i O EriS’siquesti giaceva nel letto op
cessare (m) maco, il dover tuo e ^naié il singhiozzo, o
di P^^' Erissimaco rispose; non mi sia cessato „..rché parlerò m
E io farò tutteddue le cose, l n' ™cc, c sato, in vece mia, p „pi, SP'onao
li . guarda se il f P che ì jg r . nendo,1 fiato per „„
peaaetto .t S' E gargarismi coll’acqua. Se o. fa'^ lascia vincere, e
letichi il naso e starnutisci ; e quando ®olqiiesto una volta o due, ti
cesserà molto forte. _ O parla d„„,re Stofane io farò
così. ^n- Ed Erissimaco principiò a dire : Dunque, siccome Pausania,
prese bene le mosse del di- i86 scorso suo, non l’ba compiuto a dovere,
mi par necessario che io mi deva provare a metter la fine al
discorso. Di fatti, che l’Amore sia duplice, pare a me si sia distinto
bene; però, eh’esso non risieda soltanto negli animi umani nè abbia
soltanto i belli per oggetto, ma molti altri siano gli oggetti suoi, e
risieda anche altrove, nei corpi, cioè, di tutti quanti gli animali, e
nelle piante della terra, e per dir cosi, in ogni cosa che viva, a
me pare averlo appreso dalla medicina, 1 arte nostra, come grande e
maraviglioso Iddio egli sia, c a tutto si distenda e per le umane e
le divine cose(ii2). E comincierò a dire dalla medicina, anche per fare
onore all’arte. La natura dei corpi ha il duplice amore aneli’essa,
cd è questo: il sano nel corpo e l’ammalato Convito 5
.-no per consenso di tutti,
cosa diversa e dissi- rnile- e il dissimile desidera ed ama cose dissidi
i sicché altro è l’amore che ha sede nel
sano. -Itrò t quello che nell’ammalato. Siccome, dunque,
secondo ha detto or ora Pausama e bene gratificare i buoni tra gli
uomini, male i Snaiosi; e cosi anche ne’corpi é bene gratificare quanto
v’é di buono e di sano in ciascun Spo e si deve, - e questo fe ciò che si
chiama arte medica - e invece male il gratificare quanto v’é di
cattivo e di morboso, e gli si ^^ ve far brS 0 amore, questi è
l’uomo sopra tutu intenderne d medicina. E chi sa farli mutare, in modo
dm in ricambio di un amore si acquisti J Mi; ;n
cui l’amore non sia, ma bi- tro, e in farcelo nascere, o, quando
sogni generarlo., -uesti sarebbe davvero un valente artenc i,- ip
rose che vi sono di f7^ ^n-unaanù
l’altra nemicissime, e la -nnnste il freddo 0 U ™ ' , 'vi vi. -sr
aX tra tali „„asti(ii7)
PO^ti ed pio, secondo la L credo, dico io, è
T,.a\rco. r gìnnaSca O'ii e l’agricoltura.
La musica poi. Convito' per poco che ci si badi, si vede chi.
stesso tenore, come forse anche p ’deiu .87 dire;chè, quanto alle parole,
egh^n me bene. Giacché dice che
l’uno si accorda con sé, come armonia lira. Ora, é grande assurdità
17 i'
un’armonia discordi n rieri,,: j. ’c,
che B discordanti. tuttora
derivi da cose tu Se non che forse voleva dir sto, eh’essa nasca
dall’ acuto e grave discordi; priiTiii e dopo consenzienti per opera dell
musicale; ché, certo, armonia non nascerebb ^ dall’acuto e grave
discordanti tuttora; ché armonia é consonanza, e consonanza é un consenso; ora,
consenso è impossibile che provenga da cose discordanti, finché
discordano; e quello d’altra parte, che discorda e non consente, è
impossibile che armonizzi : appunto come il ritmo nasce dal veloce e dal
lento, discordanti da prima e poi consenzienti. In tutte queste cose é la
musica quella che mette il consenso, come in quelle altre la medicina,
generandovi un amore e concordia vicendevole. Sicché la musica, alla sua
volta, é scienza dell’amoroso nell’armonia enei ritmo. E nella
composizione stessa dell’armonia e del ritmo non è punto difficile
discernere l’amoroso, né costì v’è il duplice amore : ma quando
bisogni usare del ritmo e dell’armonia cogli uomini, sia componendo, che
e quello che chiamano niclopea sia usando rettamente di melodie e metri
composti ciò che s’é detto educniione qui c é la difficoltà e c’ é
bisogno di buono artefice. Poiché torna da capo lo stesso discorso, che
gl> Convito fine che diventino più uomini J non son
tali in tutto, perbene quelli che tenerlo
caro, e bisogna_ gffceleste, l’amore della ce- E invece
quello di Polimnia leste Musa Ci 7 j> jj deve amministrar con t
il volgare, n qnm ci col< a bensì cautela a chi 3’, ?n-eneti
punu incon11 nostrale gran cosa l’usar tinenza, i-ome nei -scinte
dall’arte della rettamente nè colga il piacere .cucina,
per modo e nella musica : dJsrdS’1
-™-' ^'^enl^l^X'ddu^qtes\e indura-^ JlTrquando le
co^ caldo e il freddo, coll’altra, e forin un 'ontempéranza sapiente. nVmo un’armonia
e una coma ^ vengono apporta ne ^ pinate, e agli
uoniiiu c nrln in
quella vece non fanno punto diventa il più fo e rumore
infetto di molte cose c fa nelle stagioni dell ann ^ jogUono esser
generate danno. Di lam P malattie
diverse d. ..di cagiom. d. <>, le
piade; c 1 tanto negli aiiiniali c _gù miscono dal brinato 1 '';„ „ Labpr0PP V accesso e disordine
risp amorose, la cui scienza de' jielle stagioni degli anni si'
c1h; as^i ^ Di pu. ancora,
ci sacrili.! tutti e presiede I arte divinatoria, p ® a cui vicendevole comunione degli
dei'èoar'a non hanno altro oggetto, se non Pose. risanamento di
Amore. Chè >' suol generarsi, quando uno
non grati£ ordinato, e onora e venera in ogni suo questo, ma
l’altro, si rispetto o VIVI 0 morti, si rispetto agli Dei; dove aT
punto è commesso all’arte divinatoria di vigilare gli amori e sanare;
sicché, da capo, 1>arie divinatoria è operatrice di amicizia tra gli
Dj! c gli uomini mediante la scienza di quali tra le propensioni
amorose di questi tendono al lecito e quali all’empietà. Cosi molteplice e
grande, anzi, in breve, una universale potenza ha ogni Amore; però la
maggior potenza la possiede, si presso noi e si presso gli Dei, quello la
cui sodisfazione è nel bene accompagnato di sapienza e giustizia; esso
appresta ogni felicità, e ci mette in grado di convivere gli uni cogli
altri e diventare anche amici agli Dei, migliori di noi. Ora, ancor
io (136) forse nel lodare Amore tralascio molte cose, non però di
proposito. Ma se ho tralasciato qualcosa, spetta a te, Aristofane, di supplire;
o se tu hai in mente d’elogiare l’Iddio in qualche altro modo, e tu 1’
elogia ; ché ti é anche cessato il singhiozzo. Q.UÌ,
Aristofane, presa la parola, cominciò) raccontava, a dire: Si, è appunto
cessato, non file io ali abbia applicato lo star: richiedi iili roihoti e
ptent, quii l tr ;Ó Lrnu.0 . Pd
’W'
ho dppliccto lo su,™ . c nW -
g p 1 d '
'; ';'i ™ rl sV 'per cominci ™ P ' >
' Tu burli, man ^ ^j^ella al
discorso tuo, ’^ioTcX Vdire' qualcosa di ridicolo, mentre ^
avresti potuto parlare bene, E Aristofane, ridendo, P istare Erissimaco, e sia per
non a farmi che me n esca SI stanno per . che sarebbe
un guarg o to’S;.™ >i ' _ e or cedi di f p 'dj (' >
r:.:o„rpdrrr.rm-.p .Mn. d
stare. Discorso di Aristofake cominciò a dire E in
vero, ménte di discorrere in Aristofane lO q^jella che tu e
una maniera diversa ^ pare che gh Pansini die
fitto. pottor uomini non abbiano pu Convito di
Amore, chè. se l’avessero con,„ mnakato in onorsuo i maggiori ' fcbbcf, e celebrato i maggiori sacd£i,
noS che di tutto questo non gli si fa SI dovrebbe fare più che
altra cosa D Perchè è, tra gli Dei, il più amico dcel essendo
soccorritore loro, e medico di ^ dalla cui guarigione deriverebbe la
felicur giore al genere umano. Io, adunque, mi sCf^ . a dimostrarvi
la potenza di lui, e voi ne sarct maestri agli altri. Ma vi bisogna per
prima cosi intendere la natura umana, e i casi di essa. Ab antico,
di fatti, la natura nostra non era quella medesima d’ora, bensì diversa.
Chè da prima E erano tre i sessi umani, non due, come ora, maschio e
femmina; ma vi se ne aggiungeva un terzo, partecipante di tutteddue
questi, del quale resta oggi il nome, ma esso stesso è scomparso.
Allora, di fatti, v’era e la specie e il nome uomo-donna che partecipava
di tutteddue, maschio e femmina ; ora non ne resta che il nome a vituperio.
Di poi, l’intera figura di ciascuna persona era rotonda, colle spalle e i
fianchi tutt’intorno, e di mani n’aveva quattro, c gambe quante le mani, e sul
collo tondo due visi, simili da ogni parte ; su ciascuno poi de’
due visi posti 1’ uno di rincontro all’ altro una 90 sola testa, e quattro orecchi, e due
membri, e il rimanente, quale da ciò si può congetturare. Camminava poi si
ritto, come ora, per il verso che voleva, e si quando si metteva a
correre, reggendosi sulle sue otto membra andava via lesto facendo la
rota, a modo di 57 Convito quelli che,
\MssT,'’poi. ^ ^ s ’ Xchè il Maschio fu in origine protre e
siffatti, p, della terra, e il terzo genie del sole, ^ ^^eddue,
della luna, giacche partecipava d’i quello e di questa)- ^^gVianza co’loro progenitori,
cammino, per ® ® terribili per forza e per Sicché in
principio grandi e assalirono gli Dei. r .litri Dei si
consultarono Sicché Giove e g i ^ stavano che cosa occorresse
loro^dj in dubbio ; che nc a fulminarla nt di farne J P^^^bhero scomparsi insieme come t
celebrati dagli uomim; e gli onori, e 1 imoerversare. Infine, „ea„d, volevano If f 'X ,4
E' mi pa- Giove si formò a fané. uomini esire disse
avere un LholffU?). cessino stano e insieme, P ra - disse - H
spardalla petulanza. Giacdr tirò ciascuno m dtie, ^ noi perranno pib
deboli, e mstenmj^diritti ché cresciuti di nunier^, . ^j^e contisopra due
gambe. Ght P luiino a imperversare, e non vogliano stare quilli, e
io, disse, li segherò da capo ''' due, sicché cammineranno sopra una
gamba s 7 saltellando. E detto questo, tagliò gli ®
mini per il mezzo, come quelli che tagliano ] sorbe per salarle 0 quelli
che tagliati le povj E col capello (149): e a quelli che tagliava,
comanda ad Apollo di girargli il viso, c metà del collo dalla parte del
taglio, peròhù r uomo, guardando il taglio fatto di lui, si conducesse
con pili misura; il resto lo medicasse. E Apollo girò il viso, c col
tirare da ogni parte la pelle verso il ventre, come si chiama ora,
vi fece, a modo delle borse a nodo scorsoio, una sola bocca, c la
legò nel mezzo del ventre, tgi quello che si dice ora l’ombelico. E le
altre grinze ve n’ era rimaste
tante le spianò, e rassettò le costole, servendosi di un
istrumento, su per giù come quello dei calzolai nello spianare
sulla forma le grinze delle pelli, e ne lasciò alcune poche, nel ventre e
nell’ombelico, per ricordo dell’antica jattura. Or bene, quando la
creatura umana fu tagliata per il mezzo, ciascuna metà desiderando l’altra
le si faceva incon- gittandole attorno le braccia, e avviticchiandosi
runa all’altra, poiché si strugge- H vano di risaldarsi, morivano di fame
e d’ogni altra sorta d’ozio per non voler fare nulla l’unO senza
dell’altro. E ogni volta che una delle metà morisse, e l’altra
sopravvivesse, la sopravvissuta ne ricercava un’altra c le si
avviticchiava) 0 che s’imbattesse in una metà d’una intera
onna, quella ^i^g chiamiamo donna
Mio,. Giove, omo; 0 I o ''
^ li oerchc sino avendo ® oonip
pudende, pej rfn terra,
come le che meSin^e, così sul negli nlm, diante quelle la femmina
niediame .tll’abbraccio. se un uomo con questo fine, eh
onerasse, e la specie s> imbatteva J^ttesse maschio con
esistesse, e se im ^^are insieme, maschio, venisse 1 ’' ^ a operare.eprene smettessero, e si rnolg
dulia vita. \\ Tini è un contrasse Ciascuno, dunque, come
le gno d’un uomo, ulte eiasogliole; uno due. S inten scuno
cerca il contrassegno insieme uomini che sono come un taglio di
qu che allora si chiamava i(omo-ioM a, son di donne e i piti degli adulteri da
questo sess son proveiiun; e così q^- sesso, Convito 6o sono
taglio di donna, le non badano di molto a^Ii uomini queste, ma hanno
piuttosto il cuore alle donne ed il sesso loro è quello da cui prò.
vengono le tribadi, aitanti poi sono taglio di maschio, vanno dietro al
masclùo ; e sinché sono ftnciulli, come particelle che sono di
maschio, amano gli uomini e si compiacciono di giacere - con questi
e tenerli abbracciati, e son costoro ’ i migliori fanciulli e giovinetti,
chè non v’è nature più virili di loro. E v’é chi afferma, che
questi sieno degli svergognati! bugiardi; non è già per svergognatezza
che cosi fanno, ma per ispirito di,baldanza e virilità e ma-
sciiiezza, appetendo il simile a sé. Una gran prova n’è questa; soltanto
costoro fatti giovani riescono uomini da attendere agli affari pubblici E
diventati maturi, mettono amore ai fan- li ciulli, c di nozze o di far
figliuoli non si danno pensiero di per loro, ma la legge ve li costringe;
quanto ad essi, son contenti di vivere gli uni cogli altri senza
ammogliarsi. Sicché un siffatto uomo diventa addirittura amante (i
i) di fanciulli od amato, appetendo sempre nei due casi quello che
gli è congenere. Ora, poi, quando C un amante di fanciulli, o
chiunque altro s ini colla sua propria metà di prima, allora è
una maraviglia come si struggano di amicizia e m trinsichezza ed
amore, tanto da non volere, per cosi dire, separarsi gli uni dagli altri
neancie per un minuto. E questi son coloro, che riman gono insieme
l’intera vita, e non saprebbero neppur dire, che cosa mai vogliono che
per opera dell’uno succeda all’altro. Giacché non pn' t Siòn rinsien''® . .v, ciascuno dei esprimere,
Lm ^ralcos’ altro, cbe tjo ^ ^-ee ^’ 'Tl nrc%ti ^ /' eoel’instr'if^'' „ia ha £ se Elesto, cogl
in cnimm sopra di > {. rnai, niano, si domandasse onera delI.icceda all’altro? ^dasse da
incerti della risposta, ^.^^nrel’uno nello stessissimo luogo
n nt notte - potervi lasciare l’un liqnefarvi e eoachè se desiderate nhe
siete, diven^ilarvi insieme,,n tiate uno, e sinché >
morti, comune come uno \i,m invece di due anche laggiù
nei reg ^^^^^date. se è questo morti uno solo (i6 ^^ddisfatti,
quando lo che ’ inmo bene, che, sentito ciò, nessuno,
proprio nessun darebbe di avere strerebbe di volere altro, . ^
desiderava pure propriamente sentito qu,j, ^to diventare da
un penzo, unito e fuso coll ^to di due uno. E la causa nò questa,
cne, nostra natura era si desiderio, adunque, e all.
d;\ nome amore. eravamo uno; E prima d’ora, come dico, i
ora, poi, per la malizia nostra, sia paniti di casa dalla mano di
Dio, come i- Arcadi da quella dei Lacedemoni. Sicchfc^ ' cogli Dii
non ci si conduce come si conviene ^ v’è da temere, che si possa essere
segati da capo’ e si vada attorno, come le figure delineate dj
rilievo sulle tombe, tagliate per il me^o dei nasi, diventati a modo di
dadi cotisunti. Anzi per questa cagione bisogna che ogni uomo
esorti B ogni altro a condursi piamente verso gli Dei, perchè
alcune si sfuggano, altre si conseguano delle cose, a cui Amore è guida e
capitano. A cui nessuno faccia nulla in contrario; e fa in
contrario chi s’inimica gli Dei giacché
diventati amici dell’Iddio e rimpaciati con lui, ci succederà di
ritrovare- e incontrare i propri amati nostri, il che ora accade a pochi.
Ed Erissimaco non mi s’immagini, per canzonare il mio discorso, che
io parlo di Pausania e di C Agatone; forse, anche loro sono di quelli,
e tutteddue maschi da natura ; se non che io parlo di tutti, e
uomini e donne; chè così la stirpe nostra diventerebbe felice, se dessimo
perfezione all’amore, e ciascuno s’incontrasse nel proprio suo
amato, tornando nell’antica natura. E se l’ottimo 6 questo, è necessario,
che di quanto è oggi in poter nostro, ottimo sia quello che più vi
si avvicina. E ciò è il ritrovare un amato, fatto secondo il proprio
cuore. Del che, se s’inneggia autore un Iddio, Amore è quello a cui a
ragione spetterebbe l’inno. Amore che ci è di moltissimo giovamento
nel presente, poiché ci riconduce nel proprio, e ci dà le maggiori
speranze per l’avvenire, se però noi,i .-.età v W sii a
Só-'r-' xvin j il mio discorso tr.rno ad Amore, di'crs ^ ^ canzonatura,
t „%c p- g ; . r, ' ir.„d,c
a pari P' quelli che rimangono P ^ Socrate,
rimangono, di fatti, §, racconta che Ma io taro a tuo n do^ j,,,1
„o rispondesse Enssimaco ^P ^^p^ss, discorso sono
valenti in cose che Socrate e A^a dovessero esd’amore, temerei g' ^
^-ose oramai si sere
impacciati a ’ ^ro fiducia, son dette e cosi
perchè E Socrate rispose; dóve sono 94 tu te la sei quando avrà
discorso,ira..uraro, perché io mi turbi, che il teatro sia in grande
aspettazion me, che io debba discorrer bene. Sarei d^avvero uno
smemorato, Agatone, soggiunse Socrate,
se, avendo visto 1 raggio e Palterczza con cui tu sali su pa^
co insieme cogli attori, e guardi in accia ^ gran teatro, quando tu
devi rappresentare 1 componimenti, e non ti mostri sgomento un poco,
ora credessi, che tu ti debba a cagione di questi pochi che siamo
Ma che !, riprese Agatone, non mi cred Socrate, cosi pieno del
teatro, da ignorare ne che a un uomo di mente fanno più paura n
persone di senno che molte senza. Certo, Agatone, non farei bene, ripigliù
Socrate, se pensassi di te nulla men che gentile Anzi io so bene, che se
tu t’imbattessi in-persone che tu reputassi sapienti, ne saresti in
maggior pensiero che della folla. Ma, bada, che noi non si sia già
di quelle; perchè noi ed eravamo in teatro e facevamo parte della folla.
Però, se tu t’imbattessi in altri sapienti davvero, ne sentiresti
tu rossore, quando tu credessi di fare qualcosa di brutto? (170) o come
l’intendi? Dici il vero rispose l’altro. E della folla
tu non ti vergogneresti, se tu credessi di fare qualcosa di brutto?
Dove Fedro, raccontava, interloquendo Caro Agatone mio, dicesse quando tu
risponda a Socrate, non gl’importerà più nulla di nulla, di quello
che qui succeda comunque succeda, purché abbia soltanto con chi
conversare lui, specie con un bell’ omo. Ora, Socrate io lo sento
conversare volentieri ; ma a me è necessario aver cura dell’elogio di
Amore, e riscuotere da ciascun di voi il suo discorso. Dopo
sodisfatto ddio ciascuno conversi poi quanto vuole. Ma tu
parli bene, Fedro, disse Agatone c
niente m impedisce di parlare ; non mancherà poi occasione di conversare
con Socrate. .v mponÌ!n,tntt, c non li mostri T pocoi
ohi credessi, chr f.® r® ®,, ^<^ ^chc:t;Td:vTiÉ^
cagione di questi pochi che l- ^ ^WÈÉ iS^. . MucheJ rbrese Agatont’' Socrate, cOS\
rneno del teatro, da'i'! ' f^.
-cheuun nòmo di munte.(anno p®, ' itrn> ''.ihr rt \ ^ P'I Jf m Futdjo che:
molte-ci Jo. A.-atc-uc, nonfiiiti htne, - nv'l,> -.MJ.S - se p s I di :c nalla uicn chè£ - t so bc ^,
cho se tu l’imbattessi fe?:tB r.epntf.
-i rapanti, ne Sare.sti inV,.’-1 r^’ero che deiia folla. M.s, bada-
die .UU fiJ, d! c, parchi noi cl tuati-0 e fflceaamo parte della
folla. Petò,fc.,r ^ t’iaib.ittcssì M :iln-it;. p{cnti davvero-, nc
scw.h - tu t-o$.sore, quando in crcdtssi di -fare quaì. -li
brullo? o come rintendi?
rtk'ci 11 Tcro rispose Taltro. . il j- . .in f>>}lii tu non
ti vergognerusti, t ti i di f.)ro qualcosa d! brutta? 4 -’’ l odro, raccontava,
inierioquetido->~ <S^’j^'t UO, -- dicesse quando tu ris;- V
v^:Tàfé. jpon priuaporteri più nulla^ji ' f iUo che ani succeda coinunqyu .^ucc ' M,-i.!:
hb abbia s-^tanto con.chi
convcrj.at5glui5^sj^^' ::;con un bairomo. Ora, Sgcirate/lo
converj^ret'oitn litri ; ma a me è jiccessarww^^ tra ik'ir elogia di'Amore (tyt) ^
erlscuoicr -ciascun di voi il suo disco^-'; .C>opc? C^ ^ l'Iddio
clascuuci conversi poi qyaj 4 l? J Ma in p,i. li bene,.Fedro,
c niente m’impedìsfc di parlarci nph-manv:, poi occasione di cons etsare
cori .Socrate. „ ni AGVrONE Discorso o’ priwa ha?
discorso T’c'ct > P^'^ ^’%arabbiano l’ldd\o poi dire Cn
^ non,. .. ^o dei beni, pvand gli uomini nup\e essendo i
-- 'Chiusi l’Iddio; r/ntsuno
l’ba di n tutti cotesti beni ^% ure, d’ogGi lode go
quale di quali cose E cosi è g^Jf egli u discorso sia
075; stesso quale eg bello, egli ^^/osiff^to. D P^ ge d
più giovine degli Dei, g foggu di 'quesm suo tratto eg smsso,
P,e,oce b fuga la vecchiaia, P dovere ci arrii almeno
assai pih pres p aver a a’ fianchi. Ora, P neanche di
lontano, iu odio e non le si acco, ^ ^ ^^^6) ; -b E
sempre co’ giovani usa e sempre bene sta 1’ antica oute - . consen col simile
s’accompagna ( questa non ziente con phio in conscio,
che lui gc di lapeto O? )- C vanissimo
tra gl’ Iddii c gio\ gli antichi fatti intorno agh Parmenide dicono
(179), esse di Necessità, e non di Amore, se pur sero
il vero; chò non si sarebbero viste
tazioni e legamenti vicendevoli ed altri violenti atti, se Amore fosse
stato tra lor^b^’ ® amicizia e pace, come ora, dal di che sopra i
Numi regna. Dunque giovine eguT P e oltreché giovine, delicato: solo un
poetà gli fa difetto quale Omero, che mostri la delicatezza di lui. Ché
Omero afferma, che Dea Ate sia e delicata, almeno delicati sieno i
piedi di lei, poetando: I piè di lei son delicati; e il
suolo Non tocca; dei mortali ella sui capi Cammina.
Ora, è buono argomento a mostrare la delicatezza sua, ch’ella non sul
duro cammini, ma E sul tenero. E lo stesso useremo noi argomento a
provare di Amore che delicato egli è. Che nè cammina sul suolo, nè sui
crani i quali punto teneri non sono, ma nelle più tenere cose e
cammina e dimora. Perocché nelle indoli e negli animi degli Dei e degli uomini
la dimora pone, e nè in tutti gli animi del pari, ma dove in uno
s’imbatta d’indole dura, va via; dove di tenera, vi s’accasa. Poiché
egli, dunque, e co’piedi e con ogni sua parte è a contatto delle più
tenere g(5 tra le tenere cose, è necessario che delicatissimo sia. Sicché
giovanissimo è e delicatissimo, e di giunta fluido di forma. Ché non
sarebbe neU’enU ' ( !?'. C o s p o^. iorf , M , l ''?Si
AmP pos ' ''’,jvveoen '^ „nso di ^
guerra sempre. .! P T Wer. d
irM chè f del colore, ad
anima e ctó.a So.e o cta ' K' I soggetto la Amore; e
dove f ner£, non s’accoppa A, Todoroso loco sia, 1 P fiorito c ou pernianej
iiMddio e basta sin Orbene, della 0' Jella vlrtì d’A ore
qui e molto resta a g U principaltsconviensi dopo quella P ^ offesa
nt sinio è. cito Amore ^ ^,84> di Dio o a Dto nc -tUre
eo'U stesso, s Perché nfc per violenza non tocca ^ qualcosa
patisce; - eh ^ volontario i; in tutti il servigio ' ^ jj^ reme (t
5) > assente a volente, h legSh, giustizia,
affermano che giusto sm- ^ ^i^sinaa. Peroc; è provvisto di
temperanza ora^^ ^ ^esidern chè si consente che vince P non
sia temperanza, e che p gè sono da me, v’abbia piacere essuno- O questi è forza che sien
soverchiati soverchi : ma se piaceri e desidp t.(. E quanto a coraggio adr^ P^^tut
pure Are contrasta. Chi n (, Amore, ma Amore Are possied^'^am^
Afrodite, secondo è fama (188) or ’l di tiene in poter suo il posseduto
é più coraggioso d’ogni altro, debbe esli certo il più coraggioso
di tutti ^'?®5' della giustizia e temperanza e coraggio dS'r? d.o
s’è toto; resta ddk sapiens,; SI può, bisogna provarsi a non ometterla
(looT E da prima, perchè io per la mia parte lodi l’LÌ nostra, come
Erissimaco la sua, poeta è l’Iddio sapiente per modo che rende tale
altrui; almeno diventa poeta, ancorché pria fosse di Mm privo, quello
cui tocchi Amore. Il qual suo tratto ci si addice usare a testimonianza
che Amore, in somma, è artista buono in ogni creazione che attiene alle
Muse (192); dappoiché le cose, che uno o non ha o non sa, non mai le
darebbe ad altri, nè le insegnerebbe ad alcuno. Oltreché la creazione
degli animali tutti, chi vorrà contradire, che non sia sapienza d’Amore,
quella per cui opera gli animali tutti e nascono e crescono? Ma nel
magistero delle arti, non sappiamo, che quello di cui questo Iddio si sia
fatto maestro, rinomato è riescito ed illustre; quello, cui Amore
toccato non abbia, oscuro è rimasto? L’arti del saettare e del sanare e
del divinare Apollo trova, guidato da desiderio e da amore sicché anche questi
discepolo saria d’Amore, c le Muse ne appresero musica, ed Efesto
l’arte Zi ^^ ’ le cose dCo' amore, s m c
' onpoirto 1 ft-i genererò, vive
d'.C ''chfe^rn brutte..^ ’ jf di bellez5-a. priircipro ^
o;ndc>,„„onzi, _An SI narra (, ai bellez^-' '’, principro u- - inna®'. si ^ ; terribili eventi,
-t^ecessità % i nsi s ; /
ts -s ' Vantare
Amore, es-o Fedro, a \ ^ e ottimo, dipoi 1 sr: Ji ,. .,
mar cairn ,„ ai,caco, . s> D
attesti <i’0B i „ empie che cl atvttOta, e d'ogni mgunate degli
tttt. tmelia, egli. ’S ttnSsero, aeUe e cogli altri instttttl che s, o,gli m. ezaa „ei coti, nel
saenfien g, benevolenza inspira, selvatichezza sband .^^^i^ordioso
ai largo, di lenabile,
buoni (zoo), a sapm ^ custodito d bile-, invidiato da chi n F
. dilettosa, na’rlcco, di re ').'';, '? grazie, di brama, i ^
; m trav g > tore dei beni, timoniere, ' paure, in
pencoli, m ^ ^tore ottmm, di I marinaro, commilitone quanti
gli Dii c uomini adorm bellissimo e ottimo, che ad ogni'?,? '’ seguire
innepiando e prendendo pa?? canzone, eh egli, molcendo ]’intellel
gli Dn e degli uomini, canta (203) 'ti
auesto discorso, dice, o Fedrh sia parte offerto in voto all’Iddio,
dove di s^T dove di misurata seriet.^, in quanto ir, perato. duando
ebbe finito Agatone, tutti, disse Aristodemo gli astanti esclamassero, che il
giovi- netto avesse discorso in maniera degna e di sé e dell’Iddio.
Sicché Socrate, volto ad Erissi- maco, dicesse : O figliuol d’Acumeno, ti
par egli che un timore da non intimorire m’intimorisse poco fa e
non fossi invece profeta nel dire quello che io ho detto dianzi, che
Agatone avrebbe parlato mirabilmente ed io mi sarei trovato
nell’imbarazzo ? DeU’una cosa rispondesse Erissimaco mi pare
che tu l’abbia indovinata, che Agatone par- B lerebbe bene; ma che tu ti
troveresti imbarazzato, non lo credo. E come, beat’uomo ripigliasse
Socrate non mi troverei imbarazzato cosi
io come chiunque altro, che dovesse prendere la parola dopo la recita di
un cosi bello e svariato discorso ? E il rimanente non ò stato
altrettanto maraviglioso; tua sulla fine, quella tanta leggiadria di
vocaboli ® __ me. di clràdo di dir nulla, scndr'^- non
sarò ^^^i^zza, per poco - s> ^-’Cia
^lla vergogna, se C sono t'^g? Vaiscorso m’ha rrchu- \ia. Giacchi-_ occorso 1 caso d’
Omero (ao/b Agatone lanciasse^ e nu faGORGIA, E ho capito
> ''X s. ->^r: '?dS ^ 1 stato davvero ndmo, q p^^te
rSHiSSi che D Sa ; S S lualunQue cosa. biso'^ni dire
il ' ì, _ m’immaginavo, che o ila cosa, quale si
s-^nto; pd, scelto del ; che questo fosse 11 ^ia acconcio vero il
meglio, pot ^,He
avrei di E presumevo gran c del ino scorso bene, ). Invece, si vede d di lodare ogni
cosa ^ era gìcose V’ha 1 VVt
'nenzognere, età cosa^^a mila. Giaccnc s - f., v
Amore, o dascuno di noi paia di lo razzolando a che lo lodi,
n 1'P
X cono ed A . ogni patte, e tale, e aotote i c
affermate eh egli :rj.r ^ T™' n b |,.S i-l.£ M io noncoò c;:o'rn, H'' ' chè non lo conoscevo, mi so no i!
'' '®’P ! r I ?ì ''io
all, M ,S V 3 (zio), questo
modo; non nma chè la lingua ha promeslò la Adunque, addio elogio; che ì„
odare a questo modo ; non potrei. plT lete, il vero, si, non ricuso di
dirlo di nr^®' e non rispetto ai discorsi vostri perché S. rida
dietro. Ora, tu, o Fedr^'^guarj™f discorso COSI ti fa prò ; sentir dire
il vero di Amore c n quei vocaboli e quella giacitura di senteme
che mi verrà per prima alla bocca. E a questo, raccontava, Fedro e
gli altri Pili- virassero a parlar pure nel modo, che a lui paresse di
dover fare. Ebbene, Fedro Socrate riprendesse permettimi anche, che io
faccia qualche piccola interrogazione ad Agatone, affinchè prima io mi
abbia C alcune concessioni da lui, e poi, così, discorra. Ma
si, lo permetto; rispondesse Fedro interroga pure. Dopo di che oramai
Socrate avesse cominciato, su per giù, di qui. Di certo, Agatone caro,
tu ti sei introdotto bene, m’è parso, nel tuo discorso col dire che
prima bisogni mostrare quale egli è, l’Amore, poi E
7 ^ . . „vi va a gen'O . Q^^^sto in ogni altra,re Ji .
via, esposto qnaW HS - 'S’e.WB
’'^ Teg'''r? D up questo t- ^8 ^ nulla ^ D f ' . L> ' di
q0 ' d,c o
di ma ad’a^f jj padre e
cgir P. ondere a dolere. fp^rfi' 5
t ma'drd del pat>’ p
anche a questo. jjspondinti Assentiss ^ . y^^sse gallo ciò
I Or bene, -- tu intenda me„ poche altre cose^ P ^^^. dassi :
O 'r;srid^c;.-o.t-e,,o,.tr 'qualcuno o
no? Rispondesse, c D’un fratello oDicesse di si.
domandasse dis^SSSaSrsulVatttore.^^ Di^qualcosI ciottissimo-
.^„gesse Sotanto questo. 1 lo desidera o O Di certo
r'sp'^ Ora, desidera egli e ai sesso della cosa che desidera
^ j. sedendola? ^ nr,-,-. ama;, 'aoti
Pos. B V D Non possedendola, par
naturale Guarda-riprendesse Socrate natura e, non sia necessario,
che dera desideri ciò di cui è manchevoI ^ desidena dirittura,
quando non ne l ''o role.
Tu non puoi, Agatone, immagi„are ’' ’'-
5 aia necessario a mw ^ Quanto grande, es
paia necessario a me; o a te pare? E anche a me dicesse. Dici
bene : vorrebbe forse chi è ser grande, o forte chi è forte?
Impossibile, dietro l’intesa. Perchè, appunto, non
sarebbe-manchevole di tali qualità chi le ha. Dici il
vero. Percliè, se uno che è già forte, volesse esser forte ripigliasse
Socrate, e veloce uno eh’è veloce, e sano uno eh’è sano... giacché
qualcuno potrebbe credere, che queste e simili qualità, quelli che son tali e
le hanno, desiderano quelle stesse che hanno; sicché questo io lo
dico, peichè non ci lasci trarre in inganno or bene, costoro,
Agatone, se tu la intendi, devono pure avere nel presente ciascuna delle
qualità che hanno, o le vogliano, o no, e queste, oh citi mai le
desidererebbe?. Però, quando uno dicesse : Io che son sano, voglio anche
esser sano; ed io che son ricco, voglio anche esser ricco, c
desidero appunto queste cose che ho, noi
gli risponderemmo Tu, amico, che possiedi ricchezza e sanità e forza,
vuoi possederle anche o
tu le l’^'- .,,,o qtiello eh e ^JpSesse ' V untare
^ ^ O non t in proi^ ’ Z che non si ^ ancora t P^ aò
l^!^ il inantenerntt pe r ksic^®’ j presente? ' 0 no -- '’ 'Tchi nque altro il 1 '' ^ E questi, Lello che non
tiene desUeri tuttavia, desi
J „on ha e t mano e al cui h manchevole. .e
egli d i desiderio e Vamotc n Sr- -tSse. ^,„cr.te-ri.ssu^LLvia.-coimlnd-Socm^^
mianio quello d. OT poi, di co in primo luogo, e u di cui
patisca difetto Si - affermasse. ^ente, Jt che Ora, per
^etto che l’Amore sia. tu nel tuo discorso hai „,ente im
Anzi, se vuoi, te giù questo; che Tu hai detto, credo,assetto
per via d agli Dei le cose ^ ^i bruttezza non amore di
bellezza-, g a detto su p potrebb’ essere amore. giù
cosi? rispondesse AgatoneSi che l’ho detto - risp par]: da
galantuomo . e, ora, se è rnci,>^ 4 ) Socrate; ora e 0 Acconsentisse. ' on s’è rimasti d’arr a CIÒ di cui è in difetto, e che 0 am Si - dicesse. >ia?
É in difetto, dunque, di bellezza a non l’ha? ^aiore, ^
Necessariamente affermasse Che dunque? quello che è in difetto di
1,, lezza, e non possiede bellezza per ness^ì^ ' oh lo dici tu
bello? ^ ^sunmodo^ No davvero. Ebbene convieni tu
ancora, che Amore sia bello, s’egh è cosi? E Agatone Risico,
dicesse - 0 Socrate, di non avere inteso nulla di ciò che ho dettò
dianzi. Eppure hai squisitamente parlato, Agatone - C
Socrate ripigliasse. Ma dimmi ancora una piccola cosa: il bono a te non pare
anche bello? A me si. Se, adunque, Amore difetta di bellezza e
se bontà è bellezza, anche di bontà, dunque, esso
difetterebbe? Io rispondesse non saprei come contradirti; sicché
sia pure come tu dici. Alla verità, amato Agatone concludesse ^ tu non puoi contradire; chè a Socrate non
i punto difficile. e U discorso in- ^ io giorno d Dio£ ora „ r-he sentii nn ^ ^,rno iteXe cose,
e una Tdeila peste, fece, col àP ^''\gli Ateniesi, pt'ttj ^tardasse
loro di olia agli _ .ricrifizio. cbe la_n^e m quella appunto
cit ^ g, eh’essa jgcianni,qu ^ ^ discorso, outi fra ose
d’antore, punti cou tenne, lo, roverò a ripetervel, p
Agatone, nu P c g’intende, Ag ' e il #> '
impano la via. teogo .1 modo che tu hai ape VTcorrere
chi l’Amore J facile £ fcriiua discor ^ che P . ?!
lco.,amo si. quello,^ -t iroono,e,io-og ^'^ „,es.^ Tma
Agaldno a me, '^ Èlei, cose che ora Ag bellezza. f'
'do me'còlle stesse ragioni con cui^t^^^^ sSo cosmi, ., ne n d^o. come l'inmo^ ;r
tinta; ò brutto, adunque, ^.^p^tto? D lei-'' o - /;Sp ciré non s.a
belio, rese o credi, clte 4 brutto? Icbba
necessariamente esser Certissimo. O anche quello che
rante? o non senti, che tra sapienza e ignoranza Coni
E che mai? L’opinar rettamente e senz’essere di dar ragione, non sai, dice, V
sapere; poiché come sarebbe mai coV^- '
naie la scienza? E neanche é ignoranz' '' ®' che apporsi al vero, come
mai sarebbe ranza? L’opinione retta è appunto cosi'®,?' cosa di
mezzo tra intendere e ignorare ’ Dici il vero risposi io.
B Non forzare, dunque, ciò che non è bello a esser brutto, o ciò
che non è buono, cattivo. E ! così anche l’Amore, poiché tu stesso
convieni che non é buono né bello, non credere per ciò che deva
essere brutto e cattivo, ma una cosa di mezzo, dice, tra questi.
Eppure, diss’io si conviene da tutti, che é un grande Iddio.
Da tutti quelli, intendi tu, che non sanno o da quelli che
sanno? Da tutti quanti a dirittura. E lei ridendo O
come, Socrate, disse converrebbero che è
un Iddio grande coloro, i 0 quali dicono ch’egli non è neanche un
Iddio? Chi costoro? dissi io.
Uno tu, risponde, e uno io. E io domandai : Come mai dici tu
questo ? E lei Facilmente rispose : perchè, dimmi ; tutti gli
Dei non dici tu die sono felici? O che ardiresti tu dire, che
alcuno degli Dei non sia felice? io no possiedono 'A'„ oo v.n to, Di non
to’ desidera, appunto, a'^ ,4 e boto '' eoo t in dite
’ 0 come Tni^ r^nt: oto aneto A To'^aedi
un Dio? . dissi .sarebbe maiVa^more? Che,
dunque, tortale? r f; '''ltpto''e-un eto di metto Come
prima V rti! to,Dio.i’’ >^ inno B il demoniaco e un
il mortale. - diss’^E quale possanza ^gU ^ei D’intetpmte '. f oni, degU um, nomini, agli uomn ^
n^^jjjjii, deg’^ smettendo preghi ^^rrifizh . . pgr mandi e
rieambii de. a fb,,„i, nenipm pe t nel meato tra gl’
n Convito modo che il tutto resti colleentr. simo.
Attraverso di lui pasfa 'r? I
na tutta quanta e quella de’ sacS saenfizu c le iniziazioni. Dio
non si ^ ì uomo; però ogni conversazione e coll Dei cogli uomini,
sia desti, sia addormì per mezzo del demoniaco che la si fa p > ^
i che è sapiente in simili cose, è uomo d ^ ^ chi è
sapiente in ogni altra cosa o dUrr'^' ' mestiere, ò un manuale. ^
urte 0 (li 0^a,di questi demoni, 1 Amore è un, 1 ~ ^
CS^i ò suo padre - dissi io - e chi suà ve ne son
molti e diversi : E chi madre ? É lunghetta, risponde,
a narrare; pure te 10 dirò. Quando nacque Afrodite, gli Dei
celebrarono un banchetto, e v’era cogli altri Poro 11 figliuolo di
Meti (218). Quando ebber cenato, ecco che arriva Penia per accattare,
perchè era luogo di scialo; e girava attorno alle porte. Ora, Poro
briaco di nettare, chè il vino non c’era peranche, era entrato
nell’orto di Giove, e vi s’era, sopraffatto dal sonno,-addormentato;
sic- C chè Penia, macchinando per la miseria sua di avere un
figliuolo da Poro, gli si mette a giacere accanto e concepisce Amore. Ed
è per questo che l’Amore diventò seguace e ministro di Afrodite,
perchè fu concepito nel giorno natalizio di lei, e insieme è di sua
natura amante del bello, poiché anche Afrodite è bella. Perciò come figliuolo
di Poro c di Penia, l’Amore s’ebbe questa sorte ; prima eh’ egli è sempre
povero, c tutt altro che delicato c belio, come i più credono, anzi duro,
e squallido e scalzo, e senza 8i D dormendo
avanù | r nò oi i-sofist ’ ^ e\io stesso g' mudre e p Inta
^ada bene del padre, ' T rVa Ìe<l
? Sero Aii >''' Chi h t ® ret e -- ^TXìSn:
Se.' tr fi S>s; . sri'S- Sf' :.,.eh..o.e.0„ _ disse - ^ V e -li ole„„
raBSs . q e ^ apP ' ^jd't '! um e altri, e d q cose pmbell
^rio clic Amore sla filosofo, Convito egli sia un che
di mezzo tra sapiente e rante. E
di ciò gli ò causa anche la sua; perchè lui viene, si, da padre sapiente'
^'’!? molti ripieghi, ma da madre non sapiente e se ripieghi.
Questa, dunque, è, amico SocrateT natura del demone; e l’aver tu
ritenuto Amore fosse quello che tu hai detto, è stata una C svista
da non doverne fare le maraviglie. credevi, come a me pare congetturando
dalle tue parole, che Amore fosse l’amato, non gii l’amante.
Perciò, credo io, l’Amore ti appariva bellissimo. Chè di fatti l’oggetto
dell’ amore è il veramente bello e il delicato e il perfetto e il
beato ; invece, quello che ama, presenta un’ altra idea, quale l’ho
discorsa. Ed io ripigliai Sia pur così, forestiera: chè tu
parli bene. Ma se è tale l’Amore, di che uso è agli uomini? D
Q.uesto, Socrate rispose mi sforzerò d’insegnartelo ora. Dunque è tale l’Amore,
e nato a questo modo, ed è, come tu dici, amore di bellezza. Ora,
se uno ci domandasse O Socrate e Diotima, che è egli mai l’Amore di bellezza?
Ma lo dirò più chiaro cosi: Chi ama la bellezza, che ama egli
mai? Ed io risposi Che la diventi sua. La risposta dice desidera
quest’ altra interrogazione : Qjuello, a cui la bellezza diventa sua, che
n’avrà egli? Io A rispondo'' 1' uundo, si sei- ^ i. 8' ' f p sé ' ' ! S bello e li
down'.rd;iééoo>d,' rs. Socrate, su. diventi suo ^ Snti suo, che n’avrà,.,,nriparpihage-
aos 3 sarà felice. possesso
del bene Di fatti. -- dtsse domandare son feli<^' ' vuole esser felice; an Trite
^bbia qui termine. ^'’dIcì la rquesto amore, credi
Ora, questa vo uomini, e eh ? -noTav t empfe il bene? o come tutti desiderino
di avi. dici tu?, rnmune a tutti. Cosi - dissi to _^-jsse lei
non dt0 perchè mai, Socrate lo clamo che tutti diciamo che
amano stesso e sempre, ma di alcuni e di altri no?
._anche io. Me ne maraviglio -- dissi ^ noi. Ma non te
ne maravig i i^ chiamiamo sceverando una specie e .^ig q nome
t col nome del tutto, ass g nomi. amore; e per le altre
usiamo al Come che? - poUsis (aai) Come questo. Tu sa atto eh
cosa di molto comples causa che una cosa qualunque passi dal n
sere all’essere, è poiesis; sicché le operazic^ ^ pendenti da qualsiasi
arte sono poieseis operatori poieiai tutti. ’ Dici il
vero. Eppure, tu lo sai dissé, non si chiamano tutti
poietai, ma hanno nomi diversi; e una par tirella della poiesis sceverata
da tutte le altre quella che ha per oggetto la musica e i metri’ si
domanda sola col nome dell’intero: giacchi questa sola .si cloiama
poiesis, e poieiai quelli che possiedono questa particella.
Dici il vero, diss’ io. Ora è appunto cosi dell’ amore ; la somma n’
è ogni desiderio del bene e dell’esser felice; ma quelli che vi si
avviano per un’altra delle molte vie, del guadagnare, poniamo, o
dell’esercitarsi in ginnastica o del filosofare, non si dice che amino nè
che sieno amanti; invece, quelli che mirano a una sua specie, e a questa
pongono il cuore, prendono il nome dell’intero, amóre e amare e
amanti. Risichi diss’io di dire il vero. E v’é disse un
certo discorso, che quelli amino i quali cercano la metà di sé
stessi; ma il discorso mio dice, che l’amore non sia nè della metà
nè dell’intero, quando, amico mio, non si trovi essere un bene; dappoiché
gli uomim si tagliano volentieri e mani e piedi, quando le membra
lor proprie le credano malandate. Giacché non è il proprio, credo io, quello
che ciascun uomo ha caro, se già uno non chiami pròprio il bene,
altrui il male ; comecché non sia altro iciò no-'nspos te P ' 'r'di iri - S pu6 di s' 'P' ' dtól- j„e aggl 8 'sTiv.
aSS'ffSdd - di £ non . sempre ^ Verissimo x:^v I Ora, poiché l’amore^
^fo^zo^^dT^chi'vi corre I riprese lei. la cura chiame dietro, in che modo e m q ^o sai
rcbbe amore? che opera e mai q tu dire? . ^isgi taato, o
Diotima, Non t’ammirerei- di ^. per la tua sapienza, m- q
parare appunto questo. ^ . l’opera é parMa te lo dirò io -- tisp j-ome
torire nel bello, nei rispetti deir anima. l’indovino; che
mai Ci vuole diss io vuoi tu dire? hlon ^ ™P^^ -egherò pih chiaro. Ma
io-disse lei -telo spiega Oh uomini, dice, tutf corpo e nell’anima,
e la natura nostra ha desiderio di partorire nel brutto non può
0 E cosa divina è questa - e^in’ siO tale, questo è
inmtomi;, il co .'2; rare Ora. l’uno e l’al„„ j
succedano nel disarmonico. E il ' ’' cht monico da tutto quanto il
divino bello. Sicché Bellezza é Moira ed’Flir Ì. alla generazione. Perciò, quando la?
pregna s’ accosta al bello, diventa ilare gioia sdilinquisce e partorisce
e genera i qu? ! invece al brutto, si rannuvola e per il dolore raggomitola (229), e si raggrinza e non
genera' ma, poiché vieta al feto d’uscire, se ne sente male e qui
appunto è la causa che la creatura pregna e già smaniante è presa da
ansietà molta alla vista del bello, perchè questo libera da gran
doglia chi lo possiede. Giacché Socrate, disse l’amore non è del bello, come tu
credi. Ma e che? Della generazione e del parto nel
bello. Sia pure diss’io. Certissimo rispose lei ; ma 0
perchè della generazione ? Perchè la generazione è un gene’ rato
sempiterno, e, per mortale, immortale, Però, dietro quello che s’ è
convenuto, è neceS’ sario che dell’immortalità l’amore senta si
desi derio, ma accompagnato dal bene, s’esso èamotf dell’ aver seco
il bene sempre. Sicché, conformi a questo discorso, è necessario, che
l’amore anchi dell immortalità sia amore.,pnti dunque, mi dava .
nesti insegnami’’ ’ J A,more; nfS S,i. o Socrate. '8 ' ia mi >
® taesto .mote e iel deM- : sia causa di 0 violenta disposiit' , O non „ jllorchè deside ' 1 enttano gU .t 'ti
q . i olaf''.
^ S8rlS’m reomotosamenm^ ;' ifcoSattere i per
proprio . . p si a venir meno aeiw qualunquealtro atto? ^ facciano
per virtù di ';' ''’-o' S # animali, qoale d c
raziocinio, o g rnsi? Lo sai tu dire ^ struggersi d’amor
saprei. Ed io da capo diss ^ ^ai diin cose dimore, se non
mteod, J'^Ma^ppunto per J^j 2 so''chrho bisogno or ora, io
vengo da te, peretóso ^ di maestri. Ma dimmela m e di tutt’
altro nelle cos amor Ebbene, se tu credi eh P ^ pib vohe
sia di quello che abbiamo c ^^.^a il non te ne ^ale cerca essere, P
L discorso, la natura m gitale
- quanto può, sempre può solo per questa via, per la via dell
razione, perchè lascia sempre un n'^ '^' invece del vecchio ;
giacché anche nel tratt'o '^ tempo che ciascun animale si dice vivere
e rare il medesimo, come, per esempio uno T fanciullo insino a che
sia diventato vecchio t detto il medesimo ; però è cliiamato il
desimo, quantunque non conservi mai b st ig stesse cose, ma parte si
rifaccia sempre giovine parte alcune cose le perda e nei capelli c
nella, carne e nelle ossa e nel sangue e in tutto quanto il corpo.
E non solo nel corpo ; ma anche nel- l’anima il tratto, i costumi,
opinioni, desiderii, piaceri, dolori, paure, tutte le disposizioni
siffatte non sono mai presenti le stesse in ciascuno, ma quale
nasce e quale muore. E, cosa più bizzarra ancora, le cognizioni non solo
alcune nascono c altre muoiono, e non siamo mai neppur rispetto
alle cognizioni i medesimi, ma anche ogni singola cognizione è soggetta allo
stesso. Giacché quello che si dice meditare, ha luogo perchè la
cognizione va via; dimenticanza, di fatti, è dipartita della cognizione :
meditazione, invece, ingenerando una cognizione nuova in luogo di
quella che se n’è ita, salva la cognizione tanto da parere la stessa. Chè
a questo modo tutto il mortale si salva, non col restare sempre in
tutto e per tutto lo stesso, come il divino, ma col lasciare quello che
se ne va e invecchia, qualcos’ altro nuovo, quale esso era. Con questo
mezzo o Socrate dice il mortale partecipa della immortalità, così il corpo come
ogni altra cosa: impossibile in altro modo., „ r n. ' 08 r,o siacchè per .8 xxvn me nc . ito q
! I! ;dio-s pi dubi ^ . j^.dare all’ amor
stupore, '?irfagio'^ -h aie io
ho uoiuim . ^ niente ci
i>j.jnore del di- o come si struggono d amor concependo ccn^^ e
di ventare rin eterno, lasciar di se g ^gnl
pericolo e son pronti per e consumar le sonorto a PATROCLO ^f^no,
se non avessero figliuoli per salvar loro il reg creduto, die una
immorta ppuiito conser a; loro, come apF
_anzi> rimasta memoria ^j^vvero ’ viamo noi oraf i io
credo. per imniortal virtù Convito e per siffatta gloriosa fama,,, cosa, tanto più,
quanto mieiin sono dell’immortale innamorar pS Ora
quelli disse, che so ^ poralmente, si voltano piuttosto allff^ diventano amorosi a questo modo
e diante la generazione dei figliuoli, Immortai vita, insin che il tem, Procurando , ^urì, secondo credono, e
felice e ricordata; i pregni invece nell’anima... giacché vi
sonopu, quelli, dice, che concepiscono nelle anime anche più che
nei corpi, le cose che all’anima s addice e concepire e partorire. E oh!
che le SI addice? La sapienza e ogni altra virtù, cose appunto di
cui sono generatori i poeti tutti, e quanti v ha artisti che si dicono
inventivi: però d ogni intendere dice il maggiore e il più bello è
quello il cui oggetto sono gli ordini delle città e delle case, a cui si
dà nome di temperanza e di giustizia. E quando poi uno, essendo
divino, sia da giovine pregno di tali cose nel- 1 anima, e, giunta l’età,
desideri oramai di partorire e di generare, cerca, credo io, anche lui,
girando attorno, il bello in cui generare ; giacché uel brutto non
genererà mai. Sicché, come pregno eh’ egli è, si compiace de’ corpi belli
piuttosto che de’ brutti; e quando s’incontri in una Della anima e
generosa e di buona natura, si compiace, e di molto, dell’insieme, e
subito con, honda in „ ^he studii prò- ^ ersona poomo buon
venuto ^ette a educarlo.^ ^„„,ersando con della beila
^15 di cui era ^ntan credo,
e gener {Ìa.pa^^;\cnin> ^'^to insieme con quella, %< e
alleva il ^ggior comunanza jU:,rcbe una molto gVi um ’f
figlinoi' (ai?)- ! poicbt in pm cbe e amicir-ia prn
accomunati. ' immortali
ftgbn®^’ lui nascessero nTe avrebbe caro .^ando e a D
chet: 0 se ti piace, .f ^.^eutone, salvatori d ^ I lasciò
Licurgo m L 1 EUade. I tcedemone, 0, per Solone per la g^n
! E presso di voi ;Xi valenti
uomini in altri ' aione delle leggi, ed altr ^ ^.bari, luoghi
parecchi, e tra g^^f/^.ueratori di virtù autori di molte e belle per, ^ furono si.
eretti per via di tali 5 umani sinora a nessuno. E,ta qui, qu A ' cui i.. coi torso, So .’!''y„ìtivo (oi® k; ma in quello P '' queste,
quando uno procede bene IO non so se tu saresti capace. Te dunque,
io dice, e ci metterò tuttrirb ® ’
voglia ; e tu provati a tenermi dietro, se ti Giacché dice chi vuol mettersi per
la via a simile impresa, deve cominciare da gì ad andare incontro
ai bei corpi; e da quando chi lo guida, lo guidi rettamente, ama'r ' ’
uno di quelli, e quivi generare bei pensieri^ e di poi intendere, che il
bello di qualunque corpo è fratello con quello di un altro corpo- e
se bisogna andare in cerca di ciò eh’è bello in genere, sarebbe una
stolteaza grande non riputare una e medesima la bellezza su tutti i
corpi; e quando abbia inteso questo, renderlo AMATORE di tutti i corpi
belli, e rallentargli quello struggersi violento per uno solo,
facendoglielo sprezzare e tenere a vile; e di poi reputare la
bellezza nelle anime più preziosa di quella nei corpi, di maniera che, se
anche uno, ben fatto di animo, abbia del rimanente poca venustà
(241), egli se ne contenti e lo arai e n’abbia cura e partorisca
pensieri e ne cerchi di tali, che facciano migliori i giovani; affinchè da capo
e’sia costretto a contemplare il bello negrinstituti e nelle leggi,
e vedere com’esso è tutto connaturato con se medesimo; c dopo gli
instituti lo meni alle scienze perchè di novo veda la bellezza delle
scienze ; e guardando ormai a un bello già copioso, non sia, servendo al
bello in una singola cosa come domestico, un’abbietta e meschina persona,
che s’attacca alla bellezza d’un fanciulletto 0 d’un uomo o d’un
instituto unico. dclbcUoccontcmdiscorsi e ma rivo'' 'torist^^
filosofia infinita, smo k>' CV' >VTeS cWto,n<.n;.s ’-ga
fcf.a J- e SU sc.c r^ '’';Su -'SS. E gù,
E . ctato educsito sin qui alle cose Qgpetti,
pressoch srs ss qSii
pp ®’.
rrp<;ce nfe scema, e a y e ora
no, tncii cresce u^i- i-tn ne or ^ j. verso e per e
brutto in un JJ nt bello in un spu o g neanche il bello qua bello
e qua brutto come un si presenterà alla sua . p ^tecipa il
corpo, visS 0 mani o nient’ altro cm par neppure come
un discorso .^,erso, m u c eppure come m qual ^,ieio o m
animale, per esempio, uniforme s altro, ma esso stesso di P
belle tutte stesso in sempiterno, e che partecipanti di
esso pe periscono, ess queste altre si generano uà patisce
diventa punto maggior nulla. Sicché, quando uno, per aver am
fanciulli nel buon modo, risalendo dallp .. quaggiù cominci a vedere cotesto
bello all si può dire che tocchi la meta. Giacchi sto è nelle cose
di amore procedere o essT^' condotto bene da altri ; movendo da’belli
sensu^ di quaggiù salire sempre sempre attratto dal bello di lassù,
montando come per gradini, da uno a due e da due a tutti i bei corpi e
dai bei corpi ai begl’ instituti e dai begl’ instituti alle belle
discipline, e dalle discipline terminare in quella disciplina, che
di altro non è disciplina se non appunto di quel bello ; e conosca
terminando ciò che ò per sè bello (244). Questo, se altro mai, disse l’ospite di Mantinea, è il punto
della vita, degno che l’uomo ci viva, contemplando il bello in sè;
il quale, quando tu una volta lo veda, non ti parrà da metterlo nè con
oro, nè con veste, nè con bei fanciulli e con giovanetti, che
vedendo tu ora sei tutto sgomento, e sei pronto, e tu ed altri molti, se
possibile fosse, guardandoli, questi amati vostri, e vivendo sempre con
loro, a non mangiare nè bere, ma solo contemplarli e stare insieme. O che
cosa, dice, pensiamo, che debba essere, se uno abbia la sorte di vedere
il bello per sè, sincero, puro, inmisto, e non già ripieno di carne umana
e di colori e d’altra molta inezia mortale, ma possa riguardare
esso il divino bello di per sè uniforme? O credi tu, dice che sia spregevole la
vita dell’uomo che guardi colà, e quello contempli sempre e stia insieme
con esso? O non intendi, dice, che quivi soltanto, ri9>
con coi C il W' > „ n immagini di <, li non vp.ra., Kiio con a
.W, ..aa' ' ' li parto ma
vitti vera, tocc^^ una virtù vera e ncca il ^di diventare
amico di ^'riisse aVf anche gli ^1 r 70 di persuader _ potrebbe da nessuno siffatto non si
p TC aiuto all’ umana u umj^.
Moro. ' J’l'onoro io atasso (a4 ).
uomo onori Auu esercito soprattutto e c nelle
cose di am^ ^.omio la v’esorto gh ^e a tutto mio pot e.
potenza discorso tu ritienilo C Or bene, o,d Amore’, se
no. detto, se ti piace, m ^^^ba. e tu dagli quel nome,
che Finito ch’ebbe raccontava, lodassero, parlando
aveva a dire qualcosa, perch jq ecco all'imalluso al discorso di
lui- q sentire provviso la porta del au yseiù da^ un un
gran rumore come i ^ una flautista, banchetto, e si ode ^ '^^ „g 22 Ì,
non andate Sicché Agatone dicesse. o entrare se a vedere? e
se è uno di casa no, dite, che nbbiamo finito di ber E di li a poco
si udì nellS,,,! ci :0 frarlirìn urlando SI
riposa di Alcibiade briaco fradicio, che domandava dove è Agatone, e
ordinav^'j tasserò da Agatone. Sicché la flautista reggeva e alcuni
altri della compagnia^ j tarono da loro ; e, coronato di una coróna
f di edera e viole e tutto coperto il capo dì infinità di nastri
(248), lo fermarono sulla po'' ' ed egli disse: Amici, vi saluto; un
uomo, bria proprio fradicio, lo pigliereste con voi a bere 0 ce ne
dobbiamo andar via, dopo avere soltanto coronato Agatone, eh’ è quello
per cui siamo venuti ? Giacché -io dice jeri non ci potetti essere, ma
vengo oggi, coi nastri in capo, perché dal mio capo quello del più
sapiente e deh più bello io ne recinga. Forse, riderete di me
perché son briaco? Ombè, io, quand’anche voi ridiate, pure so bene che
dico il vero. Ma dite su, a questi patti entro o no? Beverete 0 no
con me? E qui tutti strepitarono e gridarono che entrasse e si sdrajasse,
e Agatone ve lo invitò: ed egli, condotto dalla sua gente, venne; e,
poiché a un tempo si levava di capo i nastri come per incoronarne altri,
non s’accorse di Socrate, che pure gli stava davanti agli occhi, ma si
messe a sedere accanto ad Agatone in mezzo tra Socrate e questo ; giacché
Socrate s’era tirato da parte per fargli posto: c cosi sedutoglisi
accanto fece riverenza ad Agatone e lo coronò. E Agatone qui disse :
Ragazzi, levate le scarpe ad Alcibiade, perchè si metta a giacere in
terzo con noi. Sicuro rispose Alci compagno no jo’uj è questo te Socrate,
e al e- - voltato ' f ^ & <r6 Dunque, da capo L ' . ii! 5 ' Tkf
' ' Pl Pi qui
sdtaU'^®.^,improvviso dove meno ffpoi ti sei messo a g^ace^
^P''lcaJto ad Ma tanto hai a o o qua dentro. uarda
luauti sono q Agatone disse, ^& E Socrate, cerchi:
l’amore che to P . nii vieni in aiuto ; P un affar fili
è diventato per m, m:;rDifatti, dal tempo <^e m or..o ' i. „rp -a D ' dTco o re Ln o-, no V sto nessuna, ne di c
invidioso fa cos qui ingelosito di J.peri, e poco manca
strabiliare e mi copr Addosso. Guarda, che non mi metta le
m^n dunque, che non faccia un d,na metti pace tra ^el
furore di costui lenza, difendimi tu, perd è addirittura
e del suo innamoram -pigliò Alcibiade: Pace fra te e me ^ jto
io ti g^ ' no davvero. Se non
ehejer p,,te girerò poi; ora, Agatone questa testa qui
L nnstri, P cM .0 e J
maravìglìosa di ’ oronaw 'e. nien pioverà, che io 1' f
ji,cofii, noi solete viiiee tuni gli 7 Platone, Vo/ 9 ^
Convito tanto dianzi, come tu, ma sempre renato. ’ ho E
qui, prese i nastri, ne cinse So mise a giacere. E quando si
fu sdraiato: Su via, amici disse a noi ; mi sembrate gente che non
T ancora bevuto; questo non va, bisogna bere; cllè cosi è l’accordo
nostro. Or bene, io scelgo a re del bere, insino a che voi abbiate bevuto
abbastanza, me stesso. Agatone porti, se v’è, un gran tazzone. O
piuttosto non occorre- porta qua, ragazzo, quel bigonciolo vedendo che
conteneva più di otto cetili. E riempitolo, tirò giù tutto prima lui;
poi, ordinò, che si mescesse a Socrate, e insieme disse: Con
Socrate, amici, l’invenzione non mi giova a nulla; questi può bere quanto
uno vuole, e non v’è caso che si ubriachi mai. E Socrate, quando il
ragazzo gli ebbe mesciuto, bevve. Qui Erissima- co, Che modo è questo, dive,
Alcibiade ? cosi nè discorriamo di nulla sul bicchiere, nè
c’intoniamo un canto; oh! berremo proprio come assetati ? E Alcibiade di
rimando : O Erissimaco, ottimo figliuolo di ottimo e sapientissimo padre,
salute. E anche io a te rispose Erissimaco; ma che s’ha egli a fare? Il
piacer tuo ; giacché ti si deve obbedire. Un medico vai solo
uomini molti; 1 sicché comanda ciò che tu vuoi. t)a
tS aS 'TSsfAS:: T .Coe ’l > Ti
Tjo che fu W So parli bene; però bad, non hanno
di fronte a discorsi ^ aguale. E insieme, bevuto, può non esser p S
gocrate ha b-ruomo. appunto addosso., disse Socrate? Ti
vuoi chetare Alcibiade -, non Affé di Posidone - P P^ f non v’ è ci metter bocca;
che io in faccia a te, no nessuno al mondo che o crei.
Ebbene, tu fa’ cosi, riprese i. se tu vuoi, loda de_? S’ha a
fare. Come dici -ripetè Alcibiade Erissimaco ? Che io dia lo gastighi davanti a ^ che hai
tu O tu interruppe Socrate ^ per il capo? Mi loderai per
canzo farai? r\ir<S W vprn. Convito An^i, il
vero Io permetto, e t! dirlo. 1
comando dSon pronto disse Alcibiade, Se io dico qualcosa di non vero ^osl
a mezzo, se vuoi, e di che quella 6 giacché di proposito bugie non
ne . Sia; '5 però le cose io le dico, secondo mi c. . in mente
l’una dall’altra, non ti stup non è
punto facile, a un uomo in quesm lo spiegare alla lesta e per ordine
roriginar à B c Socrate, amici, io mi proverò a lodarlo
cosi per via d’immagini. E forse questi crederà, che io lo canzoni;
ma l’immagine in verità avrà per suo motivo il vero, non lo scherzo. Io
dico dunque ch’egli è somigliantissimo a cotesti Sileni esposti negli
studii degli scultori, che gli artisti fanno con zampogna o flauti in
mano;i quali aperti in due mostrano aver dentro immagini di Dii. E dico
per giunta, ch’egli s’assomigli a Marsia il Satiro. E, che tu sia di
aspetto simile a questi, neanche tu, Socrate, ne faresti questione;
ma come tu somigli anche nel resto, sentilo ora. Sei tu petulante o no?
Ché, quando tu non lo confessi, presenterò testimoni. Ma non
flautista forse? Anzi molto più niira- bile; l’altro, di fatti, attraeva
gli uòmini colla potenza, sì, della sua bocca, ma attraverso
istrumenti, e anche ora, chi suona le cose di ui, giacché quelle che
Olimpo sonava, io le D lOI Convito. o di Marsia, .f^eseguisca
un buon, cenate di quello, o fi ^ causa, Si uno si'l’S ’ta'bisogno
degli Di' ;^ono, f\u gli vai tanto innanzi,
d’iniziazioni. ^ ieni quel medesimo che senza istrumen . c y
Almeno, noi, S.0 0 f uii™- Ti quando si ode discorrer^
^i dicitore anche nulla, vi so dire, a un altro, non ne
impor te, o un altro nessuno; gè
anche chi li reciu che reciti i discorsi tuo, ^na sia
proprio un uomo a P^ ^ restiamo sba- d„„L d ua uomo o se non
lorditi 0 ' V,, per briaco, vi rac- velessi passare addinttur
p cornerei con giumme ;
fpoSsento tuttora, risentito dai suoi Che, quando'’SÌ'
XìltnSmi àendo Pericle e altri buoni parlatori, io ero anima
mi ma non provavo nulla di sim, siTer^nrTa’i r^esto Marsia gui mMtanno pib volte
fatto tale renili, non sacrate, tu non dirai ai6 nel
mio stato. E ciò, o S,, mscienza che non sia vero. E che, se
volessi prestare sforza ma mi seguirebbe il medesimo. a
convenire, che, con tanti mancamenti, trascuro me, e attendo agli
aflfari Sicché io, turandomi le orecchie si Sirene, mi fo forza e
fuggo vir ' ^ invecchiare seduto accanto a costui quest’uomo m’ò
seguito quello che nessuno erederebbe di me, vergognarsi di uno. Io di
solo mi vergogno. Giacché sento dentro di non poter contradire,
che non bisogni far quello a che lui mi esorta; ma poi, appena io
mi son staccato da lui, ecco, la voga dell’aura po polare mi vince.
Sicché io lo scanso e lo fuggo- e quando lo vedo, mi vergogno di ciò che
si t caduto d’accordo. E tante volte io vedrei volentieri che non fosse
più tra gli uomini; ma d’altra parte, se ciò accadesse, so bene che
me ne rincrescerebbe assai più, per modo che di quest’uomo io non so che
mi fare. Dunque, dalle sonate tanto io che molti altri abbiamo provato
tali effetti, da questo satiro. Il resto, sentite da me, com’egli è
simile a quelli a cui l’ho raffigurato, e la potenza ch’egli ha,
come sia maravigliosa. Perché siate ben persuasi che nessun di voi lo
conosce ; ma ve lo scoprirò D io, giacché ho cominciato. Voi vedete che
Socrate ha tenerezza pei belli, c gira loro sempre d intorno e n’ è tutto
fuori di sé come mostra la sua figura; e non è da Sileno cotesto?
Eccome 1 Giacché e’se l’é avvolta per di fuori’ ' ù Sto scolpi ; B 8 o> s
r- %A rhe son levai'- ì^rp e noi
altri Ma quapi canzonare la erto, io non so se si mette sul
seno ed t p jo gl qualcuno ha visto t
s'rnulaar ho visti una volta, doversi far m aurei e
bellissimi e m ^;,enendo tutto 50 della mia bellezza, che sul
seno si fo^s^ ^ inaspettato c una mia lo giudicai un guada S P . modo, a tS,.; d' pptendera . .o ci 6 : compiacendo
Socrate ore i che costui sapeva, già ^ Sicché, con ! ne
tenevo non vi so <\ solito di CS4) ursenza
uno accompagnad- allora io P . ^,o^.a B toro e me no i™, bone attenti, e se dire tutta
f sbàttimi. Adunque, io mentisco, tu, bocrate, me ne stavo, amici, ^ meco nei didevo
eh’ egli sarebbe su i o amato scorsi che un innamorato
questo non a quattr’occhi, e ne 8 5^0^52 meco come ne fu nulla,
proprio nu s, .era solito, e dopo, passata cou me tutta nata, se n’andò. Di poi
lo . ginnastica; troverò quivi il bL ;->g-avo. Ebbene fece ginnasdcrt lottò
spesse volte, senza che ci fo nessuno. E che s’ha a dire? No un
passo avanti. Poiché non venivo nessuna di queste vie, mi parve cheV ^dovesse
assalirlo alla gagliarda, e una voir u nn ci ero messo, non smettere,
ma oramai che affare é questo. Sicché lo inlv a cenare meco,
tendendogli un agguato propri! come un innamorato all’ amato. E neanche 0
diede retta subito; pure col
tempo s’arrese. Ora la prima volta eh’e’ci venne, volle, finito dì
cenare, andar via. E per quella volta io ebbi vergogna e lo lasciai
andare; ma la seconda, fatto il mio piano, dopo che ebbe cenato,
conversai con lui molto avanti nella notte, e siccome voleva andar via, col
pretesto che fosse tardi, lo forzai a rimanere. Ora egli si mise a
riposare sul letto vicino al mio, su cui aveva cenato, e nella stanza non v’
erano altri a dormire, fuori di noi. E, sin qui, è un discorso da
potersi fare a chiunque; ma di qui avanti non mi sentireste
parlare, se, prima, dice il proverbio, il vino non fosse veritiero coi
fanciulli e senza 1 fanciulli: e poi mi pare ingiusto, una volta
che mi son messo a far l’elogio di Socrate, di nascondere un suo superbissimo
atto. E per di più l’effetto del morso della vipera ha luogo anche
in me. Giacché raccontano, che la persona che l’ha provato, non vuol dire
com’ egh k stato, se non a’morsicati, poiché questi soli
Convito _ j -inno e compatiranno, 'siccht i -r. £ o- doite s
to'’fare e dire doloroso (jorso fl P potesse essere fTX
®. e'-e'morso da discorsi me gli
s ^ ' no neggio d’una vipera,
ffamio operare Agatoni, Ens-, rte vedendomt davmi Aristofamsimachi,
Pausami, ^nsto ^jj^inarlo, e Socrate stesso, che ^ e dal
delirio tanti altri? Che sen. della filosofia siete m
voi B Poiché, dunque, amici, p^^ve^ che io ; i ragazzi
furono usciti, a P lon dovessi pigliarla larga con ^jgsi;
libera quello ^^tto - quello rispoSocrate, dormi? ^ Che cosa?se - Sai tu
che cosa ho ^ciso disse. A me diss to g ti vedo esitare
innamorato ùo degno ' questa dia farmene
parola. tJr, grande il sposizione-, io ritengo . g y’è altro
che non compiacerti anche melò e se ti faccia bisogno
della sostane-, amici miei. A me nulla è
di . deei: quanto diventare il migliore
che iT'' '' 4 CIÒ io credo, che
nessuno mi sìa aium à di te. Ora, a non compiacere un tua
fatta io mi vergognerei assai più dav persone
di senno, che non davanti alla ge stolidi a compiacerlo. E lui ebbe ascoltato,
con aperta ironia, e proL io'’ è solito, risponde: O caro Alcibiade
rTw m realtà di essere un uomo non dappoco: cade che sieno vere le cose
che tu dici di’ v’è in me una potenza per cui tu potresti diventare
migliore ; una infinita bellezza tu avresti scorto in me, e superiore di
molto alla venustà eh’ è attorno a te. Sicché se tu, avendola
vista, tenti di accomunarti con me e barattare bellezza con
bellezza, non è piccolo il vantaggio che tu pensi di prendere sopra di
me, anzi in cambio dell apparenza tu cerchi di acquistare la realtà
del bello, e pensi di barattare davvero oro con ferro. Ma, beat’uomo, guarda
meglio; che io non sia nulla e tu t’inganni. Appunto, la vista
della mente comincia a vedere acuto, quanto quella degli occhi prende a
scemare del vigor suo; ora tu sei ancora lontano da questo. E io,
sentito ciò. Quanto a me ripigliai, le mie disposizioni son quelle, nè se
n’ è detto nulla diversamente di come penso : decidi poi tu come tu
credi meglio per te e per me. Ma di ciò riprese tu dici bene ; sicché a
suo tempo ci consiglieremo insieme e faremo quello che ci parrà il
meglio cosi in questa, come in ogni Convito cpntite e Ora io.
P'' 'lomTsaW'.'’ ® loi ' reaovo aver lanca ni lafi' ' /' Vr iu. 5o réti C Latori' P jJ era <1 ly™ le mairi
alvino (attorno a q ^ cosi l’m^era no £bffrtrbtare aire,
::tiot-r:it:'t'rpt venustà mia e la P giudici che valesse qualcosa fJ / x\o di
Socrate chè voi siete affidigli Dn. affé delle giacché sappiate,
che 1, dormito con Dee, mi levai da avessi dormito Socrate, to
maggiore. I con mio padre 0 coi Ora i^oPO f 'par;
; rr lataft e la -e^po-a ' U co di lai, io che m'ero rX; ,„ai, goanto come non credevo ?orcr
}^conn^. l^^^niera che a saviezza e fortezza d’animo? Dima
10 non sapevo, come ad neanche vedevo I rinunziare alla
sua compag ’ . conoscevo il modo di conciliarmelo. invulnerabile
bene, che al denaro egli mezzo da ogni parte che Aiace al
ferro, e 1
io8 invito con cui solo credevo che si ni era
sfuggito di mano. SiLSf P^end zato, e fatto schiavo da quest’uo' ’ nbaf
mai nessuno da nessun altrui- <:ome casi m-aran,„.i seguì
cenimo tuttedduela compagna f' quivi fummo compagni di
mensa cominciare, non solo nel durar le mi vinceva, ma in ogni altra
cosa ogni volta che - son casi che succedonot- ra - intercettati in
alcun posto, eravamo os^oT- a rimanere senza cibo, gli altri, quanto
Tre? stervi, non valevano un ette. E d’altra narto banehetti, non c’ era
chi sapesse goderne Se ® lui, cosi 111 tutto il resto, come anche nel
bere- e non ci ha gusto , s’ei
v’era costretto, vinceva tutti; e quello che è più maravighoso,
Socrate briaco non c’ è uomo al mondo che l’abbia visto mai. E del resto mi
pare che di ciò s avrà la prova subito. Q.uanto poi a resistere al
freddo e là gl’inverni sono terribili fa cose mirabili in tanti altri
casi, e una volta, essendo gelato come peggio non si può, e tutti o
non uscendo fuori, o, se pure, coperti tanto da fare stupire, e calzati e
coi piedi rinvoltati in feltri e pelli di pecora, ecco lui, con un
tempo di quella sorta, se n’esce con un mantello come quello che
soleva portare anche prima, e scalzo camminava per il ghiaccio meglio che
gli altt calzati. I soldati lo sogguardavano come uno che li
sprezzasse. D 'tee e tollerò l’uom forte or che merita
di sentirlo. Ve„ giorno all’esercrto^ m un r un pensiero stett
r! iJettendo,epof ;;teri E Csniesse. nta ^ /nomini se
n’accorg;; maravigliati ^l^'^tuminando qualcosa. ente dall’t^lba J
r^g), - poicltè era sefinirla' alcuni Joni era io--' a’estate 1 \nsieroe per
spiare, se lui sa all'aria fresca, e si, in ^ ghette ebbe
stato ritto ^ non si fu levato ritto, sino a che non j^ra al sole il sole; di poi, fatta la preg.
bauase n’andò via. E ’ giusto che gh si glie-giacche questo men^^,
renda -, quando accadd esgenerali
dettero la_ palma PP^^^ nou sun altro uomo ' i salvò volle abbandonarmi
ferito. '50 Socrate, c le armi c me. E j . S si desse la sin
d’allora dichiarai a g rimp^vero palma a te, e di ciò tu n avendo i
gene- e non dirai che io tentisco-
e covali riguardo al mio gta facesti premura lendo dare la palma a
endessi io e non anche piò dei generali che i F no tu. Ancora, amici, valse
templar Socrate, quando ] in fuga da Delio; g sente a cavallo, lui
da f sbaragliati già tutti, egl Lachete, e io
m’imbatto per li à esorto subito a star di buon animo loro di
non abbandonarli. Or hf’no crate mi dette più bello spettacolo che in p
dea giacché quanto a me stavo
meno in pa?' per essere a cavallo prima, in ciò ch’egb perava di
molto Lachete, quanto all’essere p - B sente a sè; poi a me pareva, o
Aristofane,- sai, la tua frase che anche li egli camminasse come
qui, in sussiego e guardando di scancio, sbirciando
tranquillo, e lasciando scorgere a tutti, persin da molto lontano, che,
se uno lo toccherà, e’ farà difesa ben gagliarda quest’ uomo. Perciò se
ne andava via sicuro e lui e l’altro; giacche quelli che in guerra
mostrano questa disposizione, non li toccano, sto per dire, neppure;
invece quelli che fuggono C alla dirotta, questi sì,
gl’inseguono. Ora, di molte altre cose e mirabili uno potrebbe lodare
Socrate, però in altre parti si potrebbe forse dire lo stesso anche di altri,
ma quel non essere simile a nessuno nò tra gli antichi nò tra i
presenti, questo a me par degno di ogni maraviglia. Giacché Brasida e altri uno se li potrebbe figurare
come fu Achille; e come D d’altronde e Pericle, così Nestore e Antenore;
t ve ne sono diversi ; e gli altri uno se li potrebbe figurare del pari;
ma uno fatto in originalità, e lui e i suoi f ;tono. P S ù. r Jbe’ neppn^® a meno che non si asnon a
nessun uomo, ma . vho tralasciato sinora-, che Glacchèquesto to
somigliantissitni a. E nche i discorsi di 1 volesse
Sileni che s’aprono. prima gli pat' jS. p r' tts^òl p
'p ' >' rebbero da ridere, tal propriamente di
I So i 1 „S i t Satiro
petulante, p sempre e calzolai e ’ ^lodo, sicché ogni perstesse
cose nello smss aerebbe sona inesperw e priva 3, beffa
dei suoi discon . rima le vede aperti e p j^^nno lì „ov
à i soli .<!?' ' in sè pia
poi dmn®n ' „.i,o an
di simulacri di Virtù, conviene meditare con mira a tutto per
bene, a chi voglia essere una p lodo Queste, o amici,
son . quelle di Socrate; e in <^he egli m’ha cui lo
biasimo, v ho questo sol- B offeso. E, in fede nnn.non .^ne
tanto a me, ma anche tantissimi e ad Eutidemo di Diocle
^ altri, ai quali lui dando ad intendere di v 1 essere ramante, se
n’è fatto l’amato in camk-'^ d’amante. È appunto quello che dico anche te, Agatone; non ti lasciare ingannare
da lup ma ammaestrato da’ casi nostri, tienti in guardia e non
imparare, secondo il proverbio, come un ragazzo, a tue spese. Quando
Alcibiade ebbe finito di parlare, si fece, raccontava, un gran ridere
della franchezza con cui egli si dava a divedere tuttora innamorato di
Socrate. E Socrate O Alcibiade dice, tu non sei per niente briaco, mi
pare; altrimenti non ti saresti provato, rigirando il discorso con tanta
finezza, ad occultare la causa per cui hai detto tutte queste cose ; e
l’hai messo poi come di passaggio, in fine, quasi non D avessi detto
ogni cosa per metter male fra me e Agatone, giacché, a parer tuo, io devo
amar te e nessun altro, e Agatone deve esser amato da te, e da
nessun altro al mondo. Ma ti sei fatto capire; chè cotesto tuo dramma
satirico e Silenico s’è scoperto. Ma, caro Agatone, ch’egli non ne
profitti punto; anzi, fa proposito, che te e me non ci separi nessuno. E
Agatone risponde: Certo, o Socrate, tu risichi di dire il E vero: e lo
argomento anche da questo ch’egli s’è messo a giacere fra te e me,
appunto per separarci. Or bene, egli non ne profitterà niente
affatto; anzi, ecco, mi levo e mi metto a giacere, dice Alcibiade, q
proposto Jm’ba a dare lascia, to ' Iffarnii in wtto. Ma se ^ d' lomo che
Agatone si lodato niirabd u^'!: Socrate u capo nie, in uomo,
lascia ria me? (^9 onesto giovinetto che sia re e non
invidiare f^pto desiderio di
lodato da me; chè . y, -soggiunse Agatone -, no^ mai. di mutar
posto, risoluto, ora P siamo
alle sohte esser lodato da g^^ate, b mtposrispose Alcibiade, P belle
per sibila a chiunque altro di g persuasivo sene. E ' p^cUi stm
ha trovato e con clie
u giaccia vicino a lui 1 Agatone, dunque dar a
sdraiarsi accanto S ^ue .ir improvviso s i, uscita di uno, si
[ porte; e trovatele aper P ^ ^ g,^eerc, l fecero avanti m ver . ^i
a bere vino I c tutto andò sossopra e SI tu o quello che dicessero,
Aristodemo dichiarasse? non ricordarsene nel resto; poiché non
v’aveS D assistito da principio, e sonnecchia ; ma la som? ma,
diceva, era, che Socrate li costringeva a convenire, che appartenga allo
stesso uomo il saper fare tragedia e commedia, e chi per virtù
d’arte sia autor tragico, sia anche comico; del che costretti a
consentire, senza seguire gran fatto, prendessero sonno, e prima si fosse
addormentato Aristofane, poi, a giorno fatto, Agatone. Quanto a Socrate, dopo
averli messi a dormire, si levasse e se ne andasse via, e lui,
com’era solito, lo seguisse; e andato al Liceo, lavatosi, vi si
trattenesse come altre volte, il rimanente della giornata, e trattenutosi cosi,
andasse poi la sera a riposare a casa. Francesco Saverio Dòdaro. Dodaro.
Keywords: tracce di un discorso amoroso, mappatura, signature, segnatura,
cantata duale, cantata plurale, cantata duale, origine del romano, edipo,
caino, mancanza di Lanca, communicazione inter-mediale, communicazione
inter-mediale e luto, immagine e segno, senso, sensibilia, visibilia, Freud,
Jakobson, Levi-Strauss, Magritte, silenzo
silenzo silenzo silenzo Catullo poema
rima ritmo batto cuore figlio madre padre orale genitale ma-ma etymology of altro’ – Hegel on conscience of ego and
conscience of alter, Sartre on ‘nous’ and love affair – infinito – lingua a
codice – codice come ripetizione – ripetizione dei suoni del cuore – ontogenesi
ripete filogenesi – commune, vacuum del ventre della madre, etimologia di
termine chiave, fonema, unita etica, unita emica, Speranza, Schultz, unita
emica come classe di unita etica – criterio: un accordo o codice di relevanza –
l’intenzione del mittente. Refs.: Luigi Speranza, Grice e Dòdaro” – The Swimming-Pool Library. Dodaro.
Luigi Speranza -- Grice e Dolabella: la ragione conversazionale all’orto
romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.Publio A follower of the philosophy
of the Garden, and the son-in-law of Cicerone. The achieved the distinction of
being pronounced a public enemy by the Roman Senate. He ordered one of his
soldiers to kill him. Publio Cornelio Dolabella. Dolabella.
Luigi Speranza -- Grice e Dommazio: la ragione conversazionale a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A philosopher, known only from
a surviving bust. Dogmatius.
Dommatio. Dommazio.
Luigi Speranza -- Grice
e Donà: la ragione conversazionale e la sessualità – scuola
di Venezia — filosofia veneziana – filosofia veneta -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Venezia). Filosofo veneziano. Filosofo
veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Grice: “Well, Donà has
philosophised on almost anything – I drank wine; he philosophises on it –
‘bacchiana,’ he calls it – he has also philosophised on ‘eros’ for which he
uses the very Italian idea of ‘sesso.’ – And he has also punned with
‘di-segnare’ – ‘di-segno’ – In sum, a genius!” Si laurea a Venezia sotto Severino, presso la Facoltà
di Lettere e Filosofia dell'Venezia, iniziai a pubblicare diversi saggi per
riviste e volumi collettanei, partecipando, lungo il corso degli anni ottanta,
a diversi convegni e seminari in varie città italiane. A partire dalla fine
degli anni ottanta, collabora con Cacciari presso la cattedra di Estetica
a Venezia e coordina per alcuni anni i seminari dell'Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici di Venezia. Sempre a partire dalla fine degli anni ottanta,
inizia la sua collaborazione con la rivista di architettura Anfione-Zeto, della
quale dirige ancora oggi la rubrica Theorein. In quegli stessi anni, fonda, con
Cacciari e Gasparotti, la rivista Paradosso. Negli anni novanta, invece, ha
insegnato Estetica presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia. Attualmente
insegna Metafisica e Ontologia dell'arte presso la Facoltà di Filosofia
dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È inoltre curatore, sempre
con Gasparotti e Cacciari, dell'opera postuma del filosofo Emo. Dirige per la
casa editrice AlboVersorio le collane "Libri da Ascoltare" e
"Anime in dettaglio" ed è membro del comitato scientifico del
festival La Festa della Filosofia. Ha scritto diversi saggi e articoli per
riviste, settimanali e quotidiani di vario genere. Collabora con il settimanale
"L'Espresso". Attività musicale In qualità di musicista, dopo
aver esordito, ancor giovane, con Giorgio Gaslini e con Enrico Rava, forma un
suo gruppo: i Jazz Forms, di cui è leader. In seguito sviluppa il suo linguaggio
trasformando l'idioma ancora bop dei primi anni in una scrittura più articolata
in cui entrano in gioco elementi tratti dalla musica rock e da molte esperienze
etniche maturate nel frattempo con diversi gruppi musicali. Si esibisce in
diverse città italiane con un sestetto, in cui ad accompagnarlo sono una
chitarra, una batteria, un basso, delle percussioni e una tastiera. Nasce così
il D. Sextet. Suona con musicisti che
sarebbero diventati protagonisti della scena musicale italiana. Suona in jam
session anche con alcuni padri storici del jazz, come Gillespie, Brown, Gordon
e Drew. Riprende a suonare professionalmente e forma un nuovo gruppo: il D.
Quintet, con il quale si esibisce in Italia e all'estero. Il quintetto diventa
quindi un quartetto; che è la formazione con cui Donà suona da almeno tre anni.
A tutt'oggi il nostro ha all'attivo ben sette CD incisi con suoi gruppi. La sua
etichetta di riferimento è sempre la "Caligola Records", il cui
responsabile artistico è Claudio Donà, fratello di Massimo e importante critico
musicale jazz. Altre opere: “Il 'bello, o di un accadimento. Il destino
dell'opera d'arte” (Helvetia, Venezia); “Le forme del fare” (Liguori, Napoli); “Sull'assoluto
(Per una reinterpretazione dell'idealismo Hegeliano” (Einaudi, Torino); “Aporia
del fondamento” (La Città del Sole, Napoli); “Fenomenologia del negative” (Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli); “Arte, tragedia, tecnica” (Raffaello Cortina
Editore, Milano); “L' Uno, i molti: Rosmini-Hegel un dialogo filosofico” (Città
Nuova, Roma); “Aporie platoniche. Saggio sul ‘Parmenide’” (Città Nuova, Roma); “Filosofia
del vino” (Bompiani, Milano); Magia e filosofia (Bompiani, Milano); Joseph
Beuys. La vera mimesi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano); Sulla
negazione, Bompiani, Milano); Serenità: una passione che libera, Bompiani,
Milano); La libertà oltre il male” (Città Nuova, Roma); Il volto di Dio, la
carne dell'uomo, con Piero Coda, AlboVerosio, Milano); Dell'arte in una certa
direzione” (Supernova, Venezia); “Filosofia della musica, Bompiani); Il mistero
dell'esistere: arte, verità e insignificanza nella riflessione teorica di Magritte”
(Mimesis, Milano); L'essere di Dio. Trascendenza e temporalità” (AlboVersorio,
Milano); Dio-Trinità. Tra filosofi e teologi” (Bompiani, Milano); Arte e filosofia”
(Bompiani, Milano); “L'anima del vino. Ahmbè, Bompiani, Milano); “Non uccidere”
(AlboVersorio, Milano); L'aporia del fondamento, Mimesis, Milano), “I ritmi
della creazione” (Bompiani, Milano); La "Resurrezione" di Piero della
Francesca, Mimesis, Milano); Il tempo della verità, Mimesis, Milano; Non avrai
altro Dio al di fuori di me” (AlboVersorio, Milano); “Il conciliabile e L'inconciliabile.
Restauro Casa D'Arte Futurista Depero” (Mimesis, Milano-Udine PANTA decalogo” (Bompiani, Milano); Filosofia.
Un'avventura senza fine, Bompiani, Milano); Comandamenti. Santificare la festa”
(il Mulino, Bologna Abitare la soglia.
Cinema e filosofia, Mimesis, Milano-Udine); “Eros e tragedia, AlboVersorio,
Milano); “Il vino e il mondo intorno. Dialoghi all'ombra della vite” (Aliberti,
Reggio Emilia Figure d'Occidente.
Platone, Nietzsche e Heidegger” (AlboVersorio, Milano); “Le verità della
natura, AlboVersorio, Milano”; “Filosofia dell'errore” – errore vero, la verita
come errore relative – “Le forme dell'inciampo, Bompiani, Milano); “Parmenide.
Dell'essere e del nulla” (AlboVersorio, Milano); “Eroticamente: per una
filosofia della sessualità” (il prato, Saonara (Padova) Misterio grande. Filosofia di Giacomo
Leopardi, Bompiani, Milano); “Pensare la Trinità. Filosofia europea e orizzonte
trinitario” (Città Nuova, Roma Erranze
(Gatto), AlboVersorio, Milano); L'angelo musicante. Caravaggio e la musica” (Mimesis
Edizioni, Milano-Udine); “Parole sonanti. Filosofia e forme dell'immaginazione”
(Moretti et Vitali, Bergamo J. Wolfgang
Goethe, Urpflanze. La pianta originaria; Albo Versorio, Milano); La terra e il
sacro. Il tempo della verità, Luca Taddio, Mimesis, Milano); Teomorfica.
Sistema di estetica” (Bompiani, Milano); “Sovranità del bene. Dalla fiducia
alla fede, tra misura e dismisura, Orthotes, Salerno); “Senso e origine della
domanda filosofica, Mimesis, Milano-Udine); “La filosofia di Miles Davis. Inno
all'irrisolutezza” (Mimesis, Milano-Udine); “Dire l'anima. Sulla natura della
conoscenza” (Rosenberg e Sellier, Torino); “Tutto per nulla. La filosofia di
Shakespeare” (Bompiani, Milano); “Pensieri bacchici. Vino tra filosofia,
letteratura, arte e politica” (Edizioni Saletta dell'Uva, Caserta); “In
Principio. Philosophia sive Theologia. Meditazioni teologiche e trinitarie,
Mimesis, Milano-Udine); “Di un'ingannevole bellezza. Le "cose" dell'arte”
(Bompiani-Giunti, Milano); “La filosofia dei Beatles” (Mimesis, Milano-Udine);
“Un pensiero sublime: saggi su Gentile” (Inschibboleth, Roma); “Dell'acqua” (La
nave di Teseo, Milano); “Essere e divenire: riflessioni
sull'incontraddittorietà a partire da Fichte” (Mimesis, Milano-Udine); “Di qua,
di là. Ariosto e la filosofia dell'Orlando Furioso” (La nave di Teseo, Milano);
“Miracolo naturale. Leonardo e la Vergine delle rocce” (Mimesis, Milano); "Arte
e Accademia", in Agalma; New Rhapsody in blue, Caligola Records; For miles
and miles, Caligola Records; Spritz, Caligola Records; “Cose dell'altro mondo.
Bi Sol Mi Fa Re, Caligola Records); Ahmbè, Caligola Records; Big Bum, Caligola
Records; Il santo che vola. San Giuseppe da Copertino come un aerostato nelle
mani di Dio, Caligola Records
Iperboliche distanze. Le parole di Andrea Emo, Caligola Records. Il
mistero della bellezza svelato da Massimo Donà. Intervista Alberto Nutricati,
in L'Anima Fa Arte Blog e Rivista di Psicologia Video-intervista sul mistero
dell'esistenza, su asia. "Arte e Accademia", in Agalma, Wikipedia
Ricerca Mascolinità assieme di qualità, caratteristiche o ruoli associati a
ragazzi o uomini La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di
attributi, comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La
mascolinità è costruita socialmente e culturalmente, anche se alcuni
comportamenti considerati maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente
influenzati. Fino a che punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o
socialmente è oggetto di dibattito. Il genere maschile è distinto dalla
definizione del sesso biologico maschile, poiché sia i maschi che le femmine
possono esibire caratteristiche maschili.
Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di mascolinità.
Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse culture e periodi
storici. Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e socialmente
considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità, forza,
coraggio, indipendenza, leadership e assertività. Il machismo è una forma di
mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso associata a un disprezzo per le
conseguenze e la responsabilità. Il suo
opposto può esser espresso dal termine effeminatezza. Uno dei sinonimi
maggiormente usati per indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche
significa uomo. Contesti storici e
culturali L'interpretazione ed il riconoscimento della mascolinità variano
all'interno dei diversi contesti storici e culturali. Nell'antichità era
prevalente prendere a modello l'uomo d'arme; la figura del dandy, tanto per
fare solo un esempio, è stato considerato un ideale di mascolinità nel XIX
secolo, mentre è considerato al limite dell'effeminato per gli standard
moderni. Le norme tradizionali maschili,
così come vengono descritte nel saggio di Levant intitolato "Mascolinità
ricostruita" sono: evitare ogni accenno di femminilità, non mostrare le
proprie emozioni, tenere ben separato il sesso dall'amore, perseguire il
successo e raggiungere uno status sociale più elevato, l'autonomia (il non aver
mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la forza fisica e l'aggressività, infine
l'omofobia (disprezzo per il frocio, il finto maschio). Queste norme servono a
riprodurre simbolicamente il ruolo di genere associando gli attributi e le
caratteristiche specifiche creduti appartenere di diritto al genere maschile. Lo studio accademico della mascolinità ha
subito una massiccia espansione d'interesse, con corsi universitari che si
occupano della mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati
Uniti. Questo ha portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra
concetto di mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale,
ma anche per l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello
femminista di costruzione sociale del genere.
Natura ed educazioneModifica
Competizione sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche
della mascolinità che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del
mondo. La misura in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un
fatto di natura o il risultato di un'educazione (e quindi appartenente
all'ampio spettro del condizionamento sociale) è stato oggetto di molte
discussioni. La ricerca sul genoma umano
ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo delle caratteristiche maschili
ed il processo di differenziazione sessuale specifico per il sistema
riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma Y, che è fondamentale per
lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina chiamata "Fattore di
trascrizione SOX9" la quale aumenta l'ormone antimulleriano che reprime lo
sviluppo femminile nell'embrione. Vi è
ampio dibattito poi su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà
corporea una propria identità di genere; chi la considera un fatto di natura
sostiene che la mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano
maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile
biologico, cioè all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto
fondamentale della mascolinità. Altri
invece suggeriscono che, mentre la mascolinità può essere influenzata da
fattori biologici, è anche però ampiamente costruita culturalmente; la
mascolinità non avrebbe quindi una sola fonte d'origine o creazione, ma sarebbe
anche associata a certi condizionamenti sociali. Un esempio di mascolinità
socializzata è quella rappresentata dallo spuntare della barba, cioè dall'avere
peli sul viso: l'adolescente che viene considerato e trattato da uomo a partire
dal momento in cui comincia a radersi.
Mascolinità egemonicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Maschilismo.
Esempio di maschio poco più che adolescente con corpo muscoloso. Nelle
culture tradizionali la maniera principale per gli uomini di acquistare onore e
rispetto era quello di arrivare a mantenere economicamente la propria famiglia
assumendone al contempo anche il comando e la leadership[23]. Raewyn Connell ha
etichettato i tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di
mascolinità egemonica, cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini
dovrebbero aspirare e che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare:
"Configurazione del genere come prassi che incarna la risposta accettata
al problema della legittimità patriarcale... che garantisce la posizione
dominante degli uomini e la subordinazione delle donne. Pleck sostiene che una
gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella dicotomia
riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e non-maschio
omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la dicotomia
etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità,
distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo
per finta. Kimmel promuove questo concetto, aggiungendo però anche che il tropo
"sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di mascolinità, prima
ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio stesso sesso.
Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione dell'oppressione
maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche sopra se stessi,
debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed istituzioni
patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile.
CriticheModifica Si tratta di un argomento dibattuto la questione se i
concetti di mascolinità seguiti storicamente debbano ancora continuare ad
essere applicati. I ricercatori hanno rilevato un corrente di critica alla
mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori contemporanei, ai gruppi
femministi più attivi che hanno assunto per sé certi ruoli tradizionali appartenenti
alla mascolinità, all'ostilità culturale che la società d'oggi ha in certi casi
posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine anche alla promozione della
mascolinità nella donna abbinata ad un pressione rivolta agli uomini per
femminilizzarsi. Le immagini di ragazzi
e giovani uomini presentati nei mass media possono portare alla persistenza di
concetti nocivi alla mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini
sostengono che i media non prestano una seria attenzione alle questioni
relative ai diritti maschili e che gli uomini vengono spesso dipinti in una
luce negativa, soprattutto nella pubblicità. Jackson scrive che le forme
dominanti di mascolinità possono essere di sfruttamento economico e di
oppressione sociale. Egli afferma che "la forma di oppressione varia dai
controlli patriarcali sui corpi delle donne e dei diritti riproduttivi,
attraverso le ideologie di domesticità, femminilità ed eterosessualità
obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del lavoro, le presunte
maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione differenziale del
lavoro produttivo e riproduttivo. Il lavoro meccanico in fabbrica è associato
con la mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in crisiModifica Un
discorso sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi decenni,
sostenendo l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi nella civiltà
occidentale in uno stato di più o meno profonda crisi. La crisi è anche stata
spesso attribuita alle politiche conseguenti al femminismo in risposta sia al
presunto dominio degli uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti
socialmente sulla base del proprio sesso d'appartenenza. Altri vedono il mercato del lavoro in
costante evoluzione come fonte della crisi della mascolinità, la
deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie fabbriche con nuove
tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di donne di entrare in
questo mercato competendo alla pari con gli uomini, riducendo al contempo la
necessità e domanda di forza fisica. Tendenze contemporaneeModifica L'operaio edile, esempio moderno di
mascolinità. Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti relativamente
costanti, il valore collegato alla concetto di mascolinità maschile è in parte
cambiato nel corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto che la
mascolinità è pertanto un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo
definitivo. Secondo un documento
presentato all'American Psychological Association: "Invece di vedere una
diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è recentemente
verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi. Uomini e donne
possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che
considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi
disturbi alimentari. Sia gli uomini che
le donne più giovani che leggono riviste di fitness e di moda potrebbero essere
psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di fisico femminile e
maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si esercitano eccessivamente
nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano una forma corporea più
attraente, che in casi estremi può portare a disordine dismorfico del corpo
(dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia riversa). Terminologia I
concetti di mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono
soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di
mascolinità al plurale che di una singola tipologia di mascolinità. Constance L. Shehan, Gale
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Rutgers, New Brunswick, New Jersey, Voci correlate Modifica Androgino Bromance
Bushidō Castro clone Comunità ursina Femminilità Indice di mascolinità Leather
Patriarcato (antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay) The Men's
Bibliography, bibliografia completa sulla mascolinità. Boyhood Studies,
bibliografia sulla mascolinità giovanile. Practical Manliness, sugli ideali
storici della mascolinità applicati agli uomini moderni. The ManKind Project of
Chicago, supporting men in leading meaningful lives of integrity,
accountability, responsibility, and emotional intelligence NIMH web pages on
men and depression, sulla depressione maschile. Article entitled "Wounded Masculinity: Parsifal
and The Fisher King Wound" Il simbolismo storico che si riferisce alla
mascolinità, di Richard Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla narrativa maschile.
Art of Manliness, sull'arte mascolina. The Masculinity Conspiracy, critica
mascolina online. Future Masculinity, corso di critica sulla mascolinità.
Portale Antropologia Effeminatezza termine
Michael Messner (sociologo) sociologo statunitense Privilegio maschile privilegio sociale degli
individui maschi derivante solamente dal loro sesso. Massimo Donà. Dona. Keywords:
sessualità, eroticamente, per una filosofia della sessualità. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Donà” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice
e Donatelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’esperienza
– scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano.
Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Donatelli – his
titles can be too expansive, like the one about ‘philosophy and common
experience,’ as a subtitle, which incorporates the all too controversial notion
of experience simpliciter!” L’etica, la sua storia e le problematiche
contemporanee sono al centro dei suoi interessi. Studia a Roma, dove ha
conseguito la laurea e il dottorato. Insegna alla Luiss Guido Carli. Insegna a
Roma. La sua ricerca spazia dalla ricognizione dei classici dell’etica alla
filosofia morale contemporanea. Si occupa della riflessione sulla vita umana,
in bioetica e nel pensiero teoretico e politico, e del pensiero ambientale. Nel
dibattito bio-etico ha difeso una concezione laica delle istituzioni. La sua
proposta si situa nella filosofia di ispirazione wittgensteiniana (Cavell,
Diamond, Murdoch) che fa incontrare con i temi del pensiero democratico e
perfezionista nella scia della filosofia di Mill. Dirige la rivista Iride.
Filosofia e discussione pubblica (il Mulino). È membro di numerosi comitati,
tra cui del comitato scientifico di Bioetica. Rivista Interdiscliplinare ed
Etica e Politica. Altre opere: “Filosofia morale. Fondamenti, metodi, sfide
pratiche” (Milano, Le Monnier, Il lato
ordinario della vita. Filosofia ed esperienza comune” (Bologna, il Mulino,
Etica. I classici, le teorie e le linee evolutive, Torino, Einaudi); “Quando
giudichiamo morale un’azione?” (Roma-Bari, Laterza); Decidere della propria
vita, Roma-Bari, Laterza); “La vita umana in prima persona duale” (Roma-Bari,
Laterza); “Manuale di etica ambientale” (Firenze, Le Lettere); “James Conant e
Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, Roma, Carocci); “Mill, Roma-Bari,
Laterza); “Virtù” (Roma, Carocci); Immaginazione e la vita morale, Roma,
Carocci); La filosofia morale, Roma-Bari, Laterza); Wittgenstein e l’etica,
Roma-Bari, Laterza);Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni” Milano,
LED,I destini dell'etica Bioetica e
progresso morale dell'Italia, su
ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica. Bioetica Consulta
di bioetica The Italic branch
consists of Latin on the one hand and of the Urabrian-Samnitic dialects,
on the other. Latin, with which the little known dialect Sf Faleriv
is closely related. So long as the language is confined to Latium, there
exists no dialectical differences of any importance. The contrast between
the popular and the literary language, which arise from Livio Andronico –
up to Cicero -- becomes sharper in the classical period, and the further
development of the former is almost entirely lost to our observation
until the Middle Ages, when the popular Latin of the various provinces of
the Roman empire meets us in a form more or less changed and with a
rich development of what we know call Italian. We should also consider the
development of the Latin of antiquity. Cp. Corssen Uber Aussprache,
Vocalismus und Betonung der lateinischen Sprache, Leipzig Kuhner
Ausfiihrliche Grammatik der lateinischen Sprache, Hannover, Stolz and
Schmalz Lateinische Grammatik, in Muller’s Handbuch der klass.
Altertumsw. IThe Umbrian-Samnitic dialects are known to a certain extent
through inscriptions, and through words quoted by Roman writers. We are
best acquainted with Umbrian (Breal Les tables Eugubines, Paris Biichelor
Umbrica, Bonn) and Oscan (Zvotaieff Sylloge inscriptionum Oscarum,
Petersburg- Leipzig). Of the Volscian, Picentine Sabine, Cp. Budinszky Die
Ausbreitung der lat. Sprache uber Italicn und die Provinzen des rSmisohen
Reiches, Berlin, Cirober in the Archiv fur lat. Lexikographie g
KeUio; Aequiculau, Yestinian, Marsian, Pelignian and Marrucinian dialects
we have only very scanty remains (Zvetaieff Inscriptiones Italiæ Mediæ
dialecticæ, Leipzig). All these dialects are forced into the background
at an early period by the ifitrusion of Latin. The Sabines, who receive
citizenship, seem to have been the first to become romanised. The s^west
to give way was Oscan, which in the mountains does not perhaps become
fully extinct. Cp. further Bruppacher Osk. Lautlehre, Zurich, Endoris Yersuch
einer Formenlehro der osk. Sprache, Zurich. Piergiorgio
Donatelli. Donatelli. Keywords: esperienza, let’s cooperate (cooperiamo), let’s
make the strongest utterance; let’s trust each other; let’s be relevant (siamo
relevanti), let’s be perspicuous (siamo perspicui), prima persona, prima
persona duale – noi – nostro – numero nel verbo greco: singolare, duale,
plurale, Mill, virtu, Conant, ambi, both
– the dual – Both conversationalists must cooperate towards a mutual goal. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Donatelli” – The Swimming-Pool Library. Donatelli.
Luigi Speranza -- Grice
e Donati: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del fra – scuola
di Budrio – filosofia budriese – filosofia bolognese – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Budrio). Filosofo
budriese. Filosofo bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Budrio,
Bologna, Emilia-Romagna. Grice: “I like Donati; most of what he says is very basic, and
he says it from what he thinks is a scientific perspective – but then he writes
about morality and you start to wonder – anyhow, his central concept is that of
reflexitvity, which he multiplies into goal-centred, rule-centred,
means-centred, and value-centred – Since my oeuvre dwells on rellexivity I feel
a lot of affection for Donati and his approach!” Nella sua filosofia occupano una posizione centrale
la tematica epistemologica inerente alla ri-fondazione della ‘sociologia
filosofica’, re-interpretata alla luce della "svolta relazionale”. Su tali
basi, vengono svolte l'analisi del concetto di ‘cittadinanza’, del fenomeno
associativo della società civile e della politiche di welfare state nelle
società altamente differenziate; l'analisi del ruolo dell’istituzione sociale che
emergono dai processi di morfo-genesi sociale, in particolare nelle sfere di
terzo settore; l'apertura di una nuova prospettiva negli studi sul capitale
sociale e sui processi di “riflessività” in rapporto alla legittimazione di
nuove forme di democrazia deliberativa. L'elaborazione di una ‘sociologia filosofica
relazionale' è andata di pari passo con la fondazione filosofica di un nuovo e
più generale ‘paradigma relazionale' che si pone come superamento della
contrapposizione fra realismo e costruttivismo, fra l’individualismo o
intersoggetivismo metodologico e olismo o collettivismo metodologico. Questa
prospettiva porta alla elaborazione di nuovi concetti come quelli di “critica
della ragione relazionale” e bene relazionali, come soluzioni rispettivamente
dei problemi inerenti a idiosincrasie culturale e alla mercificazione del
welfare nelle società. L'etichetta "sociologia filosofia relazionale"
viene usata, oltre che da D., da vari filosofi. Emirbayer ha scritto un
‘Manifesto di sociologia relazionale' elaborato in maniera del tutto
indipendente rispetto a D. Crossley usa la medesima etichetta. Alcuni studiosi
assimilano la sociologia relazionale alla network analysis (Crossley, Mische ),
altri tracciano delle differenze fra questi due modi di intendere l'analisi
della società (D., Terenzi, Tronca). Indipendentemente dalla filosofia di
Donati, esistono gruppi e reti di sociologia relazionale in vari paesi, tra cui
il Canada (si veda il sito della Canadian Sociological Association,,
l'Australia (si veda il sito della Australian Sociological Association,). In
Italia, gli filosofi vicini a Donati si riconoscono nel network Relational
Studies in Sociology,). Donati ha prodotto numerosi saggi di carattere
teorico ed empirico. Propone una teoria generale per l'analisi della società:
la “sociologia filosofica relazionale”. Insegna a Bologna, direttore del Centro
Studi di Politica Sociale e Sociologia Sanitaria). Presidente dell'Associazione
Italiana di Sociologia. Direttore dell'Osservatorio Nazionale sulla Famiglia.
Ha fatto parte del comitato scientifico di Biennale Democrazia. Fondatore e
Direttore della Rivista “Sociologia e politiche sociali”, editore FrancoAngeli.
Membro del Comitato Scientifico della Rivista "Sociologia", Istituto Luigi
Sturzo, Roma. Ha ricevuto il riconoscimento dell'ONU come membro esperto
distinto nel corso dell'Anno Internazionale della Famiglia. Premio Capri San
Michele per "Pensiero sociale
cristiano e società post-moderna" (Ave, Roma). Premio San Benedetto per la
promozione della Vita e della Famiglia in Europa. Attraverso la sua filosofia,
Donati mostra con specifiche indagini empiriche in che modo la società possa
essere conosciuta e interpretata come una semplice “relazione sociale” diadica
-- e non come un prodotto culturale. La sociologia relazionale (o teoria
relazionale della società) viene per la prima volta esplicitata con “Introduzione
alla sociologia relazionale”. Questa “Introduzione” è nata come una sorta di
“Manifesto della sociologia relazionale”, anche se da allora pochi se ne sono
accorti. I punti essenziali di quel Manifesto sono varie. La sociologia
relazionale consiste nell'osservare che una società, ovvero qualsiasi fenomeno
o formazione sociale (la famiglia, una impresa o società commerciale, una
associazione, una società nazionale), la società globale, non è né una idea (o
una rappresentazione o una realtà mentale soggetiva) né una cosa materiale (o
biologica o fisica in senso lato), ma è una relazione sociale – una
intersoggetivita. L’intersoggetivo è né un “sistema”, più o meno pre-ordinato o
sovrastante i singoli fatti o fenomeni, né un prodotto di una azione soggetiva,
ma un altro ordine di realtà. L’intersoggetivo è relazione. L’interosggetivo è
fatto di una relazioni fra un soggetto S1 e un soggetto S2, che distinguono la
forma e i contenuti di ogni concreta e specifica “diada. L’intersoggetivo – la
relazione intersoggetiva -- deve essere concepito non come una realtà accidentale,
secondaria o derivata dall’altre entità: il soggetto S1 e il soggetto S2),
bensì come un levello ontologico differente sui generis, appunto,
‘l’intersoggetivo’. Affermare che “la società è relazione” può sembrare quasi
ovvio, ma non lo è affatto ove l'affermazione sia intesa come presupposizione
epistemologica generale e quindi si abbia coscienza delle enormi implicazioni
che da essa derivano. Ogni filosofo parlano dell’intersoggetivo della relazione
di una diada fra soggeto S1 e soggetto S2 (Aristotele: ogni uomo e politico,
Marx, Durkheim, Weber, Simmel, Parsons, Luhman, Grice), ma quasi nessuno ha
compiuto l'operazione che viene proposta dalla sociologia
relazionale: partire dal presupposto che “all'inizio c'è la relazione”,
ossia che ogni realtà sociale emerge da un contesto di relazioni e genera un
contesto di relazioni essendo essa stessa ‘relazione sociale'. Ciò non
significa in alcun modo aderire ad un punto di vista di relativismo. Si tratta
esattamente del contrario: la sociologia relazionale si fonda su una ontologia
dell’intersoggetivo relazionale, e dunque su una ontologia dell’intersoggetivo
della relazione che vede nella relazioni il costitutivo di ogni realtà sociale
seconda la loro propria natura. La sociologia relazionale e una forma del relazionismo
filosofico. Per l’intersoggetivo (la relazione) intende l’intersoggetivo nel
spazio-tempo, dell'inter-umano, ossia ciò che sta fra un soggetto agente S1 e
un soggetto agente S2 chi collaborano, o cooperano. e checome tale costituisce
il loro orientarsi e agire reciproco (o riflessivo, al modo di Grice), per
distinzione da ciò che sta nel singolo attore individualo o collettivo considerati
come poli o termini della relazione. Questa «realtà dell’intersoggetivo – che D.
chiama ‘il fra’ -- fatta insieme di due soggetti che collaboron, è la sfera in
cui vengono definite sia la distanza sia l'integrazione dei due soggetti che
stanno in società: dipende da questo ‘fra’ – fra tu e me -- (la relazione
sociale in cui le due soggetti si trovano) se, in che forma, misura e qualità
le due soggetti può distaccarsi o coinvolgersi rispetto agli altri soggetti più
o meno prossimi, alle istituzioni e in generale rispetto alle dinamiche della
vita sociale. La teoria relazionale della società ha elaborato nuovi
concetti che sono stati utilizzati non solo da filosofi, ma anche in altri
campi, come il diritto, la legislazione sociale, l'economia. I concetti originali
elaborati da D. sono varie. Il concetto di ‘privato sociale’ e applicato in molte
leggi dello Stato italiano. Il concetto di ‘cittadinanza societaria è stato
utilizzato dal Consiglio di Stato (Sezione consultiva per gli atti normativi,
Adunanza, N. della Sezione: in importanti deliberazioni. Il concetto di ‘beni
relazionali’ è stato ripreso in campo economico da filosofi come Zamagni e
Bruni. Il concetto di un ‘servizio relazionale’ è stato ripreso nella
legislazione regionale e nazionale in Italia, anche in relazione alla buona
pratica nelle politiche familiari analizzate con le ricerche svolte per
l'Osservatorio nazionale sulla famiglia. Il concetto di ‘lavoro relazionale’ e
il concetto di ‘contratto relazionale’ sono importanti. Il concetto di ‘welfare
relazionale’ e usanto in buona pratica nei servizi alle famiglie (utilizzato
dal Centro studi Erickson). Il concetto di differenziazione relazionale si
applica in particolare alla problematica della conciliazione fra lavoro e
famiglia. Il concetto di una critica della ‘ragione relazionale’ e dato come
una possibile soluzione ai problemi dei conflitto. Il concetto di capitale
sociale come relazione sociale con una ridefinizione degli studi sociologici si
applica nel capitale sociale. Il concetto di "riflessività
relazionale" si applica per superare il concetto puramente soggettivo di
riflessività come mera riflessione interiore. Il concetto di "genoma
sociale della famiglia" s’applica nella evoluzione. Ha affrontato una
serie di tematiche di ricerca il cui sviluppo è ancora in corso. La prima e più
estesa riguarda la tematica della sociologia della famiglia. Si vedano I saggi
di D., Lineamenti di sociologia della famiglia. Un approccio relazionale
all'indagine sociologica, Carocci, Roma, D., Manuale di sociologia della
famiglia, Laterza, Roma-Bari). Si vedano anche i Rapporti Cisf sulla famiglia
in Italia, per gli aspetti applicativi: Sociologia delle politiche familiari,
Carocci, Roma, è il più recente D, "La famiglia. Il genoma che fa vivere
la società", Soveria Mannelli, Rubbettino. Un'altra tematica è quella
della salute: si veda Donati Manuale di
sociologia sanitaria” (La Nuova Italia Scientifica, Roma); Sui giovani e le
generazioni nella società dell'indifferenza etica: “Giovani e generazioni.
Quando si cresce in una società eticamente neutral” (il Mulino, Bologna); Sul
cittadinanza e welfare: La cittadinanza societaria, Laterza, Roma- Bari); Sul
welfare state e le politiche sociali, “Risposte alla crisi dello Stato sociale”
(Franco Angeli, Milano); “Lo Stato sociale in Italia: bilanci e prospettive”
(Mondadori, Milano); “Sul privato sociale o terzo settore e la società civile:
Sociologia del terzo settore” (Carocci, Roma); sulla società civile: “La
società civile in Italia, Mondadori, Milano; Generare “il civile”: nuove
esperienze nella società italiana, il Mulino, Bologna); Il privato sociale che
emerge: realtà e dilemmi, il Mulino, Bologna, Sul lavoro: Il lavoro che emerge,
Bollati Boringhieri, Torino); I rapporti fra sociologia relazionale e pensiero
sociale cristiano: Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Editrice
Ave, Roma, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli. Sul
capitale sociale: Donati, Terzo settore e valorizzazione del capitale sociale
in Italia: luoghi e attori, Angeli, Milano, D., I. Colozzi, Capitale sociale
delle famiglie e processi di socializzazione. Un confronto fra scuole statali e
di privato sociale (FrancoAngeli, Milano). Attraverso queste saggi, la
sociologia relazionale ha sviluppato un nuovo quadro teorico e ne ha dimostrato
la validità sia sul piano della ricerca empirica, sia sul piano delle
applicazioni concrete (in termini di legislazione e di programmi di intervento
sociale). La conoscenza sociologica che la sociologia relazionale intende
perseguire non rifiuta a priori nessuna teoria, né vuole “unificare” tutte le
teorie sotto un'unica bandiera, ma tutte le prende in considerazione e le
valuta per mettere in evidenza quelle verità, anche parziali, che ciascuna di
esse contiene. Tuttavia, perché di solito una teoria offre una visione
limitata, se non riduttiva della realtà, la sociologia relazionale è in grado
di inserire ogni teoria in un quadro concettuale più ampio, nel quale ritrovare
le verità parziali ad un livello più elevato, coerente e consistente di
conoscenza della realtà sociale. Terenzi, Percorsi di sociologia
relazionale, FrancoAngeli, Milano,.
Luigi Tronca, Sociologia relazionale e social networks analysis. Analisi
delle strutture sociali, FrancoAngeli, Milano.Enzo Paci, Dall'esistenzialismo
al relazionismo, D'Anna, Messina-Firenze. Per un nuovo welfare locale “family
friendly”: la sfida delle politiche relazionali, in Osservatorio nazionale
sulla famiglia, Famiglie e politiche di welfare in Italia: interventi e
pratiche. I, il Mulino, Bologna,
Politiche sociali e servizi sociali di fronte al modello sociale europeo: lo
scenario del “welfare relazionale”, in C. Corposanto, L. Fazzi, Il servizio
sociale in un'epoca di cambiamento: scenari, nodi e prospettive, Edizioni Eiss,
Roma, Quale conciliazione tra famiglia e lavoro? La prospettiva relazionale, in
Donati, Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo, La valorizzazione del capitale sociale in Italia: luoghi e
attori Donati, I. Colozzi, FrancoAngeli, Milano, Altre opere: “L'enigma della
relazione” Mimesis, Milano); “La famiglia. Il genoma che fa vivere la società”
(Rubbettino, Soveria Mannelli); “Sociologia della riflessività. Come si entra
nel dopo-moderno, il Mulino, Bologna); “I beni relazionali. Che cosa sono e
quali effetti producono (Bollati Boringhieri, Torino); “La matrice teologica
della società, Rubbettino, Soveria Mannelli); “Teoria relazionale della
società: i concetti di base, FrancoAngeli, Milano); “La società dell'umano,
Marietti, Genova-Milano); “Il capitale sociale degli italiani. Le radici
familiari, comunitarie e associative del civismo” (FrancoAngeli, Milano); “Oltre
il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune, Laterza,
Roma-Bari); “Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari); “Sociologia
delle politiche familiari, Carocci, Roma); “Il lavoro che emerge. Prospettive
del lavoro come relazione sociale in una economia dopo-moderna, Bollati
Boringhieri, Torino); “La cittadinanza societaria” (Laterza, Roma-Bari); Teoria
relazionale della società, FrancoAngeli, Milano, La famiglia come
relazione sociale, FrancoAngeli, Milano, La famiglia nella società relazionale.
Nuove reti e nuove regole, FrancoAngeli, Milano); “Introduzione alla sociologia
relazionale, FrancoAngeli, Milano); “Risposte alla crisi dello Stato sociale.
Le nuove politiche sociali in prospettiva sociologica, FrancoAngeli, Milano); “Famiglia
e politiche sociali. La morfogenesi familiare in prospettiva sociologica,
Angeli, Milano); “Pubblico e privato: fine di una alternativa?” (Cappelli,
Bologna). Der Dual ist ein Numerus, der sich in indogermanischen wie
nicht-indogermanischen Sprachen findet. Die indogermanistisch zentralen
Sprachen Altgriechisch und Altindisch haben diesen Numerus in allen
flektierenden Wortarten; andere Sprachen haben ihn nur in einer Wortart. Die Minderheitensprachen
Ober- und Niedersorbisch pflegen den Dual bis heute. Auch im Bairischen gibt es
noch formale Dualrelikte. Das Buch bietet eine Darstellung der
einzelsprachlichen Dualsysteme in der Indogermania und Rekonstruktionen der
Dualsysteme der Zwischengrundsprachen und des Ur-Indogermanischen. Neben dem
genealogischen Vergleich wird auch der typologische Vergleich mit Dualsystemen
anderer Sprachgruppen wie etwa Finno-Ugrisch, Semitisch und Bantu angestellt.
Der Leser gewinnt so einen Überblick über die Entwicklung einer typologisch
markierten grammatischen Kategorie und einen Einblick in die kognitiven
Prozesse, die zum Werden und Schwinden des Duals im Wandel der Sprachen
führen. Rezensionen "" Salvatore
Scarlata in: Kratylos, Pinault in: Bulletin de la Société de Linguistique de
Paris, Pierce in: Journal of Historical Linguistics, Bohumil Vykypel in:
Linguistica Brunensia, http://hdl.handle.net""
Remo Bracchi in: Salesianum, Lühr in: Germanistik, Heft, Duale (linguistica)
numero grammaticale Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce
sull'argomento grammatica è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo
le convenzioni di Wikipedia. Il duale in linguistica è una delle possibili
realizzazioni della categoria morfologica del numero grammaticaleche può essere
espressa tanto nel nome (sostantivo e aggettivo) quanto nel pronome e nel
verbo. Benché sia meno diffuso di singolare e plurale, il duale è presente in
molte lingue del mondo. Esso è presente nelle più antiche lingue
indoeuropee, come il sanscrito o il greco antico, nel lituano, nello sloveno
moderno, nel friulano e anche nelle lingue semitiche, come l'arabo - che ne fa
tuttora uso nelle sue varietà moderne, sia pure limitatamente al nome -
l'ebraico e nell'egizio. Il duale è frequente per indicare parti doppie
del corpo, per esempio le mani, le narici, le gambe, ma nelle lingue che lo
possiedono non è raro il suo uso anche per indicare oggetti a coppie o
semplicemente coppie di oggetti o persone casuali: due persone, due anni, ecc.
("duale occasionale"). Mentre in francese, in tedesco, in
italiano o in spagnolo, tutte lingue che non presentano la forma duale se non
per tracce come per esempio in italiano ambo, si è soliti anteporre al
sostantivo plurale l'aggettivo numerale che ne indica la quantità esatta (due
uova, due amici, ecc.), nelle lingue che posseggono il duale questo può bastare
per indicare una quantità pari a due. Per esempio in arabo sanah "(un)
anno", sanatayn "(due) anni". La mu'allaqa di Imru l-Qays,
una delle più famose poesie arabe, esordisce con un imperativo duale: Qifâ,
nabki... "fermatevi (voi due) e piangiamo...", riferimento al fatto
che il poeta si rivolgeva a due suoi compagni. Bibliografia Modifica
Albert Cuny, Le nombre duel en grec, Paris, Klincksieck, Fontinoy, Le duel dans
les langues sémitiques, Paris, Les Belles Lettres, Molinelli, Il numero duale
nel greco antico, Roma, Fritz, Der Dual im Indogermanischen, Heidelberg,
Winter, Grammatica Morfologia (linguistica) Portale Linguistica:
accedi alle voci di Wikipedia che trattano di linguistica Salvatore Talia
Numero (linguistica) categoria grammaticale Grammatica lituana regole
della lingua lituana Articoli del greco antico Wikipedia Il contenuto. Grice: “In my seminars I
explained explicitly that we would be dealing only with conversational DYADS!”
Grice: “This was my nod to the Old Latin dual!” – Grice: “Austin used to say
that no distinction is too fine, or too nice. The origin of the Latin fifth
declension out of the dual number – We can provide an EXPLANATION of the
appearance of the Latin fifth declension (e stems) as a result of the LOSS of
an earlier dual inflection, whose main feature is the suffix jk (full grade ej)
. The dual character of the Latin -ies (series) forms can be demonstrated on
the basis of their ‘semantic’ development. The dual number in the Indo-European
languages. The most ancient Indo-European languages had three number
categories: the singular, the dual, and the plural. In the Indo-European
languages, the dual number was typically used for NATURAL PAIRS (‘oculi’, the
‘same’, two hands), sometimes also for an accidental or artificially arranged
pair (‘two men’ (andre), two horses pulling one carriage, two oxen in one
yoke), and possibly for two objects of the SAME kind (two fires, two lime
trees). Elliptical usage of the dual is also attested, ‘two fathers’, as when
Homer refers to ‘Ayax and his brother’ or Latin ‘octo, ‘eight’, originally, or
literally, two sets of four finger-tipes Wackernagel, Campanile, Malzahn,
Clackson). The degree of preservation and PRODUCTIVITY of the dual in the
Indo-European languages differ considerably. Traces of the dual in Latin. The
dual number as a separate CATEGORY was presumably lost by Latin and the other
Italic languages already in the pre-historic period (Buck). Lat. ‘duo,’ ‘two’
< IE duwo < PIE duwo-hj (Tagliavini). Lat. ‘okto’ ‘eight’ < IE okto,
‘8’ < PIE hkekto-h0. Lat. viginti, ‘twenty’ (< IE wiknti < PIE
dwi-dknt-ih), literally, ‘two tens.’ A few Latin forms – ambo, duo -- have a
specific inflexion which may be the result of the transformation of the dual
form within a declension. Thus we have masc. nom. ‘ambo’, duo; gen. ‘amborum’,
duorum; dative-ablative ‘ambobus’, duobus; and acc. ambos/ambo, duos/duo. Lat.
masc. ‘ambo’. The inflection of ‘ambo’ and ‘duo’ keeps the original dual ending
in the nominative. It does not show the dual ending in the other four cases –
where it adops the regular PLURAL ending. Here we have a case of an ADAPTATION
(SUBSTITUTION_of the dual inflection by the plural inflection. Traces of the
dual number in Latin are restricted to ‘ambo’, ‘both’, and the numerals (‘duo,
octo, viginti) – while some have traced other dual forms in declesions –
Danielsson). The question of a dual form, e. g. ‘Pomplio,’ (Lat. Pompilio, nom.
du. ‘two of the Pompilius family’), attested in epigraph CIL I 30: M. C.
POMPLIO NO. F. DEDRON HERCOLE = ‘Marcus and Gaius Pompilius, the sons of
Novious, gave (this) to Hercules.’ The interpretation of the form POMPLIO as
dual may be implicatural rather than semantic. The form POMPLIO need not be a
dual form -- it may be just the
nominative singular with the final s by custom omitted when there is a formal
agreement with the second prae-nomen, though belonging to both. Dual endings in
the Indo-European languages. In proto-Indo-European hl forms the basic dual
ending, which may have a strong form (ehl or hle) in animate nouns. It is
assumed that the numeral ‘two’ has the form ‘duwo-ehl’ (literally, ‘two
persons, or animals’), which later develops into the masculine form. IE ‘duwo,
m. Latin for some time kept the dual ending -e (PIE ejl). The loss of the dual
causes the proto-Latin forms ending in -e (once dual forms) to generate a
separate group: a fifth declension. From a variant dual ending -e, the -e-
would have to have formed in the oblique cases. The genitive dual ending in
Indo-European is -es (PIE ejls gen. du). Both a dual inflection with -e (gen.
du. -es) and -e (gen. du. -es) would have ensured the stabilization of the
feature -e- after the loss of the dual number in the Italic languages. The
cause of the loss of the dual number in Latin. Most probably, the loss of the
dual as a separate CATEGORY takes place within the a- stem and the -o- stem
declensions. In the nominal paradigm, a specifically Latin innovation causes a
change in the infection system. This innovation is the loss of the old plural
ending -os, which are well attested in the other Italic languages, along with
the adaptation of the enings of the PRO-nominal system -oi -- whence Latin
‘-i.’ – cf. nom. sg. m. -os > -us. Nom. du. M. -o (ambo, octo, duo). The
PLURALISATION of the dual in the -o- stem declension happens largely without a problem – providing
you keep a Griceian ‘eye’ – Cf. ‘pater,’ father. nom. sg. m. pater; nom. du. m. ‘patere’.
nom. pl. m. ‘pateres’. As Austin pointed
out to me, the loss of the dual in the Indo-European languages suchas Latin did
not happen solely via the good old pluralisattion of the dual form, but also by
way of a ‘singularisation’: i. e. the dual inflection is re-fomed into the
SINGULAR inflection. This way of the elimination of the dual number is very
much attested in Latin, in all the forms ending in -ies, for example. Then we
have the dual forms of the Lat. viginti type. The Latin cardinal number
‘viginti,’ ‘twenty,’ is a remnant of the dual number. ‘Viginti’ represents the
IE archetype wiknti nom. acc. du. ‘twenty’, from PIE dwihl-dknt-ihl, literally,
‘two tens’. Since, unlike ‘duo,’ it represents a numeral higher than 4 – and
all Latin numerals from ‘quattuor’ up to ‘mille’ did not decline --, ‘viginti’
simply keeps the shape of the nominative dual. Some dual forms with no singular
form underwent a singularization (or sometimes a collectivization). As a result
of such an adaptation, the dual is re-constructed morphologically, and
re-interpreted pragmatically via implicature. This singularization (but
sometimes collectivization) of a dual form creates the need to establish a
declension. The literally DUAL character of some Latin expressions ending in
-ies may be explained through a detailed pragmatic calculation. Pierpaolo Donati. Donati. Keywords: il fra, relazionalismo,
internal conversation, l’intersoggetivo, realta fra, il fra, fra tu e io,
intersoggetivismo metodologico, communicazione come realta fra, implicatura,
reflessivita, reciprocita. Ambidue. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donati” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Dondi: la ragione
conversazionale e ’implicatura conversazionale -- l’astrario – iter romanorum –
colonna giulia – la colonna del circo neroniano di Buschetto -- petrarca – scuola
di Chioggia – filosofia chioggese – fiolosofia veneziana -- filosofia veneta --
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Chioggia). Filosofo chioggese. Filosofo veneziano. Filosofo Veneto. Chioggia,
Venezia, Veneto. Grice: “I like Dondi
and I like a watch chain!”. Figlio di Jacopo, studia FILOSOFIA a Padova.
Insegna a Padova. Si trasfere a Pavia. Dopo un periodo a Firenze, vi ritorna
come filosofo di corte dei Visconti. Insegna a Pavia. Scrittore di rime, amico
e corrispondente di PETRARCA (si veda), è anche tra i pionieri
dell'archeologia. In occasione di un viaggio a ROMA, descrive e misura
monumenti classici, copia iscrizioni e trascriv i dati rilevati nel suo ‘Iter
Romanorum. La sua fama è legata
soprattutto all'astrario da lui progettato a Padova e costruito a Pavia, dove, è
conservato, nel castello di Pavia, presso la biblioteca Visconteo-Sforzesca. L'astrario è un orologio astronomico che
mostra l'ora, il calendario annuale, il movimento dei pianeti, del sole e della
luna. Per ogni giorno sono indicati l'ora dell'alba e del tramonto alla
latitudine di Padova, la lettera domenicale che determina la successione dei
giorni della settimana e il nome dei santi e la data delle feste fisse della
Chiesa. L'orologio astronomico (o astrario) di D. è andato distrutto, ma è ben
conosciuto perché il suo ideatore ne dette una particolareggiata descrizione
nel saggio Astrarium, trasmesso da due manoscritti. Si tratta di un congegno
mosso da pesi, di piccole dimensioni (alto circa 85 cm, largo circa 70),
racchiuso in un involucro a base eptagonale. Grazie ad una serie di ingranaggi
l'astrario riproduce i moti del sole, della luna e dei cinque pianeti. Esso indica
anche la durata delle ore di luce alla latitudine di Padova. Come misuratore
del tempo esso, oltre all'ora, indica (forse per la prima volta tra gl’orologi
meccanici) anche i minuti, a gruppi di dieci. La presenza di trattati di
astrologia nella biblioteca di D. fa sospettare che la progettazione sia stata
influenzata da astrologi antichi. L'orologio astronomico che si può tuttora
ammirare sulla torre dell'orologio, Padova, in piazza dei signori, è una copia
non dell'astrario di D., ma dell'orologio costruito dal padre Jacopo. Secondo
la tradizione è stato D. ad introdurre a Padova la gallina col ciuffo, oggi
nota come gallina padovana. In realtà, il giornalista padovano Holzer in una
sua ricerca ha potuto stabilire che non vi è documentazione alcuna che attesti
che D. ha mai avuto contatti con la Polonia o che l'abbia mai visitata. A lui è
dedicata una delle statue che adornano il prato della valle a Padova. Il circolo
numismatico patavino gli ha dedicato una medaglia commemorativa opera dello
scultore bellunese Facchin. Ai D. è dedicata la ballata iniziale di Mausoleum.
Siebenunddreißig Balladen aus der Geschichte des Fortschritts di Enzensberger.
Altre opere: Rime, Daniele, Neri Pozza, Vicenza; “Astrarium, E. Poulle, CISST; Opera omnia D., corpus pubblicato sotto la
direzione di Poulle. Padova. Andrea Albini, Op. La Biblioteca Visconteo
Sforzesca, su collezioni. Musei civici pavia. Albini, L'astrario di D., su
Museoscienza. Ricerche d'Archivio riguardanti la famiglia D. Di Holzer. Albini,
Machina Mundi. L'orologio astronomico di D., Create Space, Astrario, Gabriele D.
Università degli studi di Padova. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Replica in scala 1/2 dell'Astrario, su clock maker.
Replica in scala ¼, su pendoleria. com. (Di Cjiovauui Odo ndi òalf'Otcfcgto,
TTtedico eli Padova, e Dei uiouumeutv antichi da fui animati a
ctonia, e di afcuui ceitti inediti def medesimo. rt A FILIPPO
SCHIASSI CAHOMCO MILLA CHIESA MAGGIORE DI BOLOCRA, E PROFESSORE DI
archeologia bella criverbitì. JL u non ignori certamente, o amatissimo
Schiassi, cum io faccia di le gran cubitale per la somma erudi-zione
archeologica che possedi, e per la forbitezza dello scrivere latino,
nella quale con pochi vai distinto ; e come poi io non sia ad alcuno secondo
nell'osservanza ed amore verso di te per le doti singolari dell'animo
tuo. In verità io ho sempre desiderato mi fosse pòrta occasione di farti
noto pubicamente questo mio volere; ma quella mi fallì maisempre, o, a
meglio dire, non ebbi mai ardimento di abbracciarla, parendomi da non
doversi indirizzare a te cose che non fossero parlo d'in- gegni maturi,
fra' quali per fermo non è da riporsi il mio. Tuttavolta altre ragioni m'inducono
ora a prendere contrario divisamento. Il perchè, in arra di rispetto e
di benivoglienza, ho deliberalo di spedirti questa Lettera intorno a D.,
e publicarla intitolata al tuo nome ; indotto anche da ciò, che in essa
circa l’obelisco vaticano, della cui traslazione tu di fresco con
scienza e perizia ne hai scritto ho io allegate alcune cose, dalle
quali appare essere ora per la prima volta manifesto come il medesimo nel
medio-evo sia stato atterrato, e non guari appresso di bel nuovo ristabilito,
non altri- menti come sono di comune consentimento i più accreditati
scrittori delle cose passale: de’ quali in ispezialità qual sia il
giudizio da tenersi tu puoi decidere. Io intanto a te sottometto di tallo cuore
e senza cerimonie la mia opinione, qualunque ella siasi: ritieni poi,
che con animo a tc per intiero affezionatissimo mi dispongo a ciò
fare. V enezia v>die PETRARCA
(si veda) abbia scritto di D. suo amico non meno con verità die con
magnificenza, essere egli stalo d'ingegno sì sublime e potente, che ito sarebbe
alle stelle, se rattenulo non lo avesse lo studio della Medicina,Jo capiranno
coloro specialmente, i quali siano a giorno come il medesimo siasi reso
distintamente celebre nelle scienze mediche, FILOSOFICHE ed astronomiche; c, di
più, conoscano come in altre discipline, a dir vero non comuni, fosse
egli oltre l’ usato erudito. Peritissimo ancora in scienza morale, nella
cognizione dei monumenti antichi, e nel linguaggio delle Muse italiane :
le quali cose, come disse Celso in altra occasione, quantunque non
costituiscano il Medico, tuttavolta lo rendono più atto alla Medicina, e
fanno sì che abbia a primeggiare fra i dotti del suo tempo. Ed in
vero, che non si possa lare un pieno uso della Medicina nella maggior
parte delle malatie del corpo, se quelle dell’animo del pari non si
curino, è chiaro di già abbastanza per concorde dottrina degli
antichi e recenti filosofi, suffragata dalla sperienza. Intorno a ciò
sono manifesti i sentimenti del LIZIO, d’ Ippocrate, di Galeno, e di altri ;
come pur anco Lettera III. a Sancse data in luce a Venezia. ne fanno
chiara prova quelle cose che sopra lo slesso argomento ci hanno lasciato
in appresso uomini sa- pientissimi. Che poi da un’accurata
osservazione degl’antichi monumenti, e dalla lettura delle iscrizioni ne
vengano singolari ajuti onde conoscere più diffusamente l’ arte medica, ce
lo dimostrano le Opere dei valenti in quella, cioè di MERCURIALE (si
veda) intorno alla GINNASTICA, il quale tratta anche del sito più salubre
alla costruzione delle fabbriche e circa gli strumenti chirurgici; di
Sicco e di Baccio intorno ai bagni termali; di Bartolini sopra l’antico
puerperio: ai quali libri se ne potrebbero facilmente aggiungere altri di
tal fetta, cioè di Bellonio, Gioberti, Cagnato, Reinesio, Rodio, Patino,
Sponio, Trillerò, Ilundertmarki, Cocchi, e altri; cosicché niuno
deve maravigliarsi del progetto di Bartolini nel comporre l’opera
intitolata Antichità necessarie ad un medico, del cui apparecchio, in
appresso incenerito dalle fiamme, lo stesso autore ne diede breve
compendio in una Dissertazione stampata in Hafnia sopra l’incendio della
biblioteca. Le moltissime sue lodi, scritte in prosa ed in verso, ci fanno
ampia testimonianza che lo studio della poesia giova a meraviglia per
fecondare e ricreare l’ ingegno, per aggiungere fregio alla lingua ed
allo stile, e per fare acquisto di altre doti richieste ad un uomo
di lettere; nè vi sarà al certo chi ignori che i Medici versati nella
medesima n’ andrebbero stimati da più che gli altri, e si leggerebbero
con più di di- letto le Opere loro. Noi conosciamo ancora che gli
stessi scrittori dell’arte medica, distinti fra gli antichi, Ippocrate ed
Areteo, succhiarono da Omero il loro bello; il primo de’ quali fu detto d’Eroziano
uomo omerico quanto allo stile (Glossar . Hippocr. Praef., edit. Lips.); e
Trillerò fa vedere che al secondo giovò d’assai la lettura dello stesso
autore (Opuscula medico-philologica): il che chiaro apparisce
parimente di Galeno e di altri. Eccellente si è la cura posta da Bartolini
nel trattare che fece di questo argomento nella Dissertazione intorno ai
Medici-poeti, publicata in Hafnia; ed ora se ne potrebbe formare un soggetto
con assai più di splendore. Sono poi da tenersi in gran conto quelle cose
che furono scritte da Fracastoro, uomo grande nell’ una e nell’ altra
facoltà, ad Amalteo, medico non meno che poeta celebre del suo tempo;
cioè andare di gran lunga errati coloro i quali avessero per niente
la poesia, e la stimassero cosa incompatibile colla Medicina: che anzi
dichiara apertamente con Andrea Navagerio, essere inetti a toccare il
fondo di ogni scienza, o a gustare appieno le bellezze di qualsiasi
arte meccanica, coloro i quali andassero privi e mancanti di vena poetica
(Fracast. Opera edita Corniti). D. per coltivare l’ animo in questi studj,
indotto dall’ esempio ed intrinsichezza del Petrarca, il quale nei
medesimi avea tocco l’ apogèo della gloria, consegnò allo
scritto monumenti non dubj di questo studio, commettendoli ai posteri;
ma quelli inediti, ed appena conosciuti in un codice cartaceo di quella
età, posseduto un tempo dallo stesso autore, toccò per avventura a me
solo di vederli presso Papafava, figlio d’Albertino, fregiato della
primaria nobiltà fra i Padovani e Patrizio Veneto, il quale mi onorava di
singolare cortesia; nel qual codice io stesso ho letti gli scritti
inediti del Dondi senz’altro giudizio od altro ordine, da quello in
fuori con cui qui li riporto. Vi sono nel codice Lettere intorno a
diversi argomenti, scritte dal Dondi a varie persone ; cioè: A PETRARCA
(si veda). Si protesta tornargli a grande vantaggio 1’amicizia di lui,
per arricchirsi a perfezione della morale filosofia ; il che osserva essere
assai conforme all’ insegnamento di Seneca nella Lettera <08 a Lucilio
intorno al conversare co’filosofi. Nel dipartirmi da te (scrive egli) ne
riporto ogni giorno frutti novelli, e alla tua presenza mi si ricrea l’animo
d' insolita gioja. Ad Aquila fisico (Padova). Annunzia e mostra allo
cordoglio per la morte del Petrarca, d’ improviso avvenuta la notte
antecedente. E morto un personaggio unico, a dir vero, ed ammirabile
tra i pochi di ogni età; ma a’nostri giorni il solo, a mio giudizio, che
v’abbia su tutta » la terra, e da non potersi trovare in
qualsivoglia » parte di essa: uomo da essere ricordalo e tenuto a »
venerazione da tutti i secoli. Fatale disgrazia e lagrimevolc a tutto il genere
umano, ma assai più amara a buon diritto all’Italia, della quale non
» senza gran merito egli n’ era amante perduto, e in ogni circostanza
partigiano caldissimo ; sopra tulli per altro a me e a te, ai quali era
legato con nodo » strettissimo d’amore e di singolare benevolenza. Manca
un uomo senza dubio grande, ottimo, soavissimo, amantissimo di noi ; ma non per
altro cessò del tutto, poiché anzi diede principio a vita migliore,
richiamato dall’ esiglio alla patria: se vero è che gli offici di questa
vita mortale, la Religione di continuo venerata e studiosamente coltivata,
l’opera assidua agli sludj unicamente onesti e lodati, dieno fidanza di
alcun premio nella vita a venire. A Leniaco, uomo di singolare
ingegno. Ad Argentino (Arsendino) da Forlì, e a Paganino da Sala padovano,
Dottori in legge. A Ravenna, fisico. A Geminiano, fisico di Cesa. A
Broaspina di Verona c Hai pòrto materia, nella quale mi ricordo di essere
stato titubante aneli’ io, mentre scorreva la »> Lettera a Lucilio di
quell’ eccellente e tutto nerbo » Anneo, maestro mio e tuo, e di tutti i
buoni amici in generale. A Gasparo, che lo dimanda di quelle cose
che Seneca scrive nella settima Lettera a Lucilio sopra gli spettacoli dei
Romani, gli dà spiegazione abbastanza chiara, come portavano quei tempi
sì riguardo alla materia, come pur anco alle parole; vi adoperò eziandio
dell’arte critica a motivo delle scorrezioni del testo, per colpa in gran
parte della ignoranza degli amanuensi, e dell’audacia di coloro che
vi posero mano alla emendazione. A Mazio di Verona, fisico egregio. A
Petrarca (Padova) Una lunga Lettera circa il metodo di vita da seguirsi
dal Petrarca, la quale i precettori del Seminario di Padova avendo ricevuta da
me, che la trascrissi dal codice soprallegato, non dal Marciano,
come porta l’edizione, aggiuntane un’altra del Pe- trarca al Dondi, fu da
loro data alle stampe. A Lombardo Serico, cittadino padovano. Al
frate Guglielmo da Cremona, teologo. Fa vedere gl’ ingegni degli antichi
di gran lunga supe- riori ai moderni sì in fatto di lettere, come ne
fa chiara testimonianza PETRARCA (si veda), non meno che riguardo alle
opere famose delle arti più belle, coll’esempio alle mani di un insigne
scultore soprafatto di ammirazione alla vista di monumenti
antichi. A Leniaco, cittadino veronese. A Cremona, maestro nelle arti
liberali. Ad un suo intimo amico, uomo singolare ed egregio. A
Caselle, cittadino padovano. Aromatario. A Paganino da Sala, Dottore
in legge e uomo di milizia. Con queste si congratula della dignità di
Cavallicre conferita di fresco a Paganino; così per altro, che ne fa di
molto più stima dell’onore ottenuto dall’alloro in Diritto civile, dal
quale egli traeva di già vantaggio e lode. A Nicolò Alessi,
Protonotario e Vice-Cancelliere del Signore di Padova. Ad Andreolo Arisio
Cremonese. Biasima e si fa beffe della scarsezza che v’ è nelle
biblioteche di Francia dei libri specialmente di Filosofìa morale,
di cui era tenuto a giorno per lettere di Arisio cola dimorante. Al
frate Guglielmo, Vescovo di Pavia. Ad Albertino Salso, precettore di
Fisica. AdAngarano di Vicenza. Data in luce in uno all’ Opera del
Pondi intorno alle Fonti calde nel Territorio padovano, al Maestro
Giacomo Vicentino, fra i Trattati di vari autori circa i Bagni,
stampati a Venezia Panno Ai Professori direttori di Medicina e delle Arti
nello Studio di Padova. Fa loro avere un libro da lui composto, del quale
dà contezza con queste parole: » Ricevete un Trattatello che vi darà
per » ispiegato P ordine oscuro di Galeno nella distinzione » delle
disposizioni dei corpi umani, il quale ei ristrinse con brevità nel libro di
Microtegno, asse- n gnandovene le reali differenze fra quelle,
tranne » poche che vollero accennare sin qua di volo altri »
espositori, ma in molte colle relative differenze. Al maestro Guidoni (di Bagnolo)
in Venezia, nomo egregio, fornito di molto sapere e virtù. Padova, Cappelli,
cittadino cremonese. Intorno a Pasquino, Cancelliere di Galeazzo Visconti
Principe di Milano, ne fece parola Pietro Lazerio nelle Miscellanee
cavate dai libri manoscrilti nel Collegio Romano dei Gesuiti. Pasquino avea
fatto richiesta delle Lettere scritte dal Dondi a diversi; e D. si
argomenta a tutt’uomo per dissuaderlo che quelle Lettere non erano
tali che meritassero a pezza le sue dimande. Poscia scrive molle cose
circa i rotti costumi degli uomini del suo tempo, degne alla scorza di un
va- lente filosofo. Queste Lettere sono piene a ribocco di
sentenze morali, siccome quelle che furono composte da un au- tore
che metteva ogni cura nel leggere le Opere di Seneca, e ne avea anche
dilucidate le di lui Lettere a Lucilio, con annotazioni allegate circa
alle medesime da Gasparino Barzizio nel suo Commentario, da me
veduto scritto a mano. Di qual desiderio ardesse D, di vedere
monumenti antichi, ne fa aperta testimonianza il viaggio di lui a Roma, ad
unico oggetto di venire in pieno conoscimento dell’antico e nuovo stato
della città. Del qual viaggio non rimane alcuna traccia dalla
publica autorità confermata ; tuttavolta ho letto io stesso nel
codice manoscritto, di cui feci menzione di sopra, le annotazioni dello
stesso D. intorno ai principali monumenti dell’ antichità nel viaggio e
nella dimora che fece a Roma, esaminati, credo io, da lui
appassionatamente ; delle quali annotazioni ei fa fede così dal principio
: « Ilo riportato queste cose scritte in lettere quando fui reduce da
Roma. « Non è prezzo dell’opera il rescrivere qui le anno-
tazioni del D., nelle quali v’hanno anche difetti di scritturazione,
potendosi avere alla mano scrittori famosi per molto sapere, i quali ci
hanno chiarito dei medesimi monumenti con mollo più «li accuratezza
e dovizia. Ci piace di riportare qui sotto la prima sol- tanto, la
quale versa circa l’ obelisco valicano, poi- ché mollo è stimala per
singolare novità, facendoci vedere un distico da nessuno, per quanto io
sappia, riportato, c del quale importa se ne faccia ricerca. Quella
poi suona così. In Roma La colonna Giulia a quattro lati, che si eleva
di costa a S. Pietro, ha di grossezza presso l’ estremità di mezzo,
lunghesso ciascun lato, otto piedi all’ in- circa ; di altezza poi,
secondo un buon calcolo, ascen- de a 00 piedi, ossia a dieci pertiche. Ma
un prete ac- casalo lì vicino affermò che un tale l’aveva misurata
con uno strumento ad ombra, e la trovò di braccia. Martino nella Cronaca dice
che la sua lun- ghezza va a un dipresso a 120 piedi; ed Eutropio
afferma la stessa cosa. Svetonio poi dice eh’ è di pie- tra di Numidia. E
vi sono poi ne’ suoi due lati lettere incise di tal maniera:
Divo Cnesari Divi Julii F Augusto Ti Cacsari Divi Augusti F Augusto
Sacrimi. Intorno alle antichità romane sogliono premettere alcune
cose più memorabili di Martino Polacco, Cronicista dei Pontefici e
degl’imperatori, specialmente nei codici ma- noscritti. Quelle poi che trovansi
aggiunte come tratte da Eutropio e da Svetonio, falsamente vengono loro
attribuite. ir» Al di sopra della mela di questa colonna Giulia vi
sono scolpili questi due versi: Ingenio Buzeta tuo bis quinque
puellae Appositi s manibus itane erexere columnam. Plinio {Hi storia
Nat..), e Svetonio (nella Vita di Claudio) dimostrano apertamente che
l’in- signe obelisco sia stalo trasportato dall’Egitto a Roma per comando
di Cajo Caligola ; e in séguito, mes- sa a fondo da Claudio nella
costruzione del porto di Ostia la nave su cui era stato trasportato, la
più me- ravigliosa di quante mai si fossero vedute solcar ma- ri,
il medesimo sia stato collocalo nel circo di Ne- rone ; ned è da entrare
in forse che il medesimo, fregiato di quella cospicua iscrizione ne’ due lati,
non sia quello stesso che sempre fu tenuto per l’obelisco vaticano.
Di questo attestano tutti gli scrittori più accreditati, che non sia mai
stato mosso da dove per la prima volta fu inalzato, nè in alcun tempo
atter- rato, fino a tanto che, volendolo Sisto V. Pont. Massimo,
trasportato dal luogo, dove pri- ma era posto, mediante un congegno di
macchine maravigliose di Domenico Fontana del contado di Campo
Novocomese, nella piazza di S. Pietro, dove al giorno d’oggi si trova. Di
tanto unanimemente ne stanno mallevadori in particolar modo
Decembrio, Poggio Fiorentino, Vegio, Alberiino, Bargeo, Panvinio,
Marliano, Pigafelta, Palladio, Gamuccio, Mercato, Nardinio, Kirhero, Fontana,
Bellorio, Fontana, Bonanno, Bandinio,
Milizia, Cancellieri, Winckelmanno, Fea, Zoega; l’ultimo dei quali, che ci
da un’opera perfettissima sopra gli obelischi, impressa a Roma, come a
nome di tutti gli altri scrisse di quello con facondia. Questo dei romani
obelischi il solo superstite alle rovine della città, si tenne in piedi
nel Circo vaticano fino a tanto che l’architetto Fontana, per comando di Sisto
Pontefice Massimo, lo trasferì nella piazza di S. Pietro. Quindi non è
da prestarsi credenza a Ciampinio, a Molineto, a Vitlorellio, a
Ficoronio, a Marangonio, a Guattanio, e a pochi altri, i quali
affermarono che il medesimo era di già abbattuto e steso al suolo
allorché si fece la sua traslocazione sotto il Pontefice Sisto V.
Tuttavia, giudice e testimonio D., ora ci si para innanzi all’ impensata
il distico da tempo scolpito sopra l’ obelisco, dal quale non fuori di
propo- sito n’ è lecito far congettura eh’ esso avesse incontrata cogli
altri la stessa sorte, e poscia nel medesimo sito, dove dapprima era posto, sia
stato di bel nuovo inalzato ; ovvero, se non fu ritrovato intiera-
mente abbattuto e steso a terra, fosse almeno così piegato, che il suo
inalzamcnto si avesse a tenere in conto non altrimenti che di fatto assai
meraviglioso, e da tramandarsi con lode alla memoria dei posteri per
mezzo d’ un monumento cospicuo cesellalo a Roma; al quale in séguito, come sarà
a vedersi dalle cose che qui sotto si diranno, se ne aggiunse un
altro di simile a Pisa. Per verità, tostochè lesesi questo distico,
ci ricorre alla memoria quel tetrastico sopra quella grandissima mole di
marmo, tradotta per mare ed inalzata dalle mani di dieci
fanciulle, per il sommo ingegno del chiarissimo architetto Buscheto; il
quale tetrastico si vede scolpito nel medesimo tempo sopra il di lui sepolcro,
che fronteggia il tempio maggiore di Pisa, e parla così, Quod vix mille
boum possent juga junctn movere, Et fuod, vix poluil per mare ferve
ralis, Busketi iiisu, quod crat mirabile vini, Dena puellarum turba
levabai onus. Del qual tetrastico, siccome è noto, furono fatte
tante e così scipite interpretazioni, che il fatto delle dieci fanciulle
si spacciò per una favola ; quasi che quelle parole non si potessero
applicare all’ inalzamene della gran mole, portato a termine per opera di
Buscheto con tale perfezione, che dieci donzelle colle sole loro mani
sarebbero state da tanto a quell’impresa, e che a loro in certa guisa sembrasse
do- versi attribuire la grande erezione. Pare che P opinione popolare
abbia condotto in errore tutti coloro che di questo fatto hanno discorso
per iscritto ; cioè che il contenuto in quei quattro versi accennasse
alle macchine costrutte da Buscheto nella fabbrica del tempio
pisano ; perchè il medesimo, ma in altri versi, vi si leggeva in lode di
Buscheto sulla facciata di quel tempio. Per quanto poi si sa,
nessuno avrebbe sospettato se sia da intendersi lo stesso intorno al
lavoro eseguito in Roma. Se non che quelli che giudicano
imparzialmente de’fatti, e sono di parere che P obelisco nel medio-evo
sia stato atterralo, e poco dopo novamente inalzato da Buschelo, sembra ciò
possano fare senza taccia di errore, se specialmente considerino che
tutti quegli aggiunti, rappresentati ab antico colle stesse parole
intorno al trasporto dell’ obelisco sopra una nave d’una meravigliosa
grandezza, e la maniera stessa adoperata nel suo secondo inalzamento,
acqui- stano insieme chiarezza e fede ; altrimenti non veggo quello
che se ne possa dire di vero e di ragionevole su questo fatto. Che l’obelisco
sia stato fermo in piedi presso la Cappella della Basilica Vaticana, nel
qual luogo sino dal principio era stato posto, è chiaro dalla Bolla di
Leone, per Li quale viene confermato il fondo ai Canonici della Basilica
medesima, nel cui terzo lato (disse) corre un'altra via dall'aguglia che si
nomina sepolcro di GIULIO (si veda) Cesare; colla qual denominazione sol-
tanto apparisce sia stato in uso nel medio-evo d’ indi- carsi questo
monumento (Collezione delle Bolle della Basilica Vaticana di Roma. Tennero
dietro quei lagrimevoli tempi, ne’quali per la discordia di Enrico e
Gregorio, che tra loro si combattevano, toccò a Roma di patire
moltissime calamità, nonché assedj, incendj, smantel- lamenti e
distruzioni di fabbriche anche in quella parte che si chiamava Città
Leonina, in cui stava l’obelisco: le quali cose tulle noi leggiamo
testimo- niate publicanienle da scrittori di quell’età, c di
già scritte da storici accurati d’ Italia di tempo posterio-
re nei loro divulgati lavori, senza che mai ne accada per avventura di
vedere da essi fatta alcuna menzione dell’ obelisco ; onde sorge qualche
probabilità, che ad esso pure sia toccata in quel tempo la medesima
disgrazia d’essere rovesciato. Questo certamente cade ora in taglio di
osservare, che niuno di quelli de’quali abbiamo gli scritti circa le
antichità di Roma, o di quelli de’ quali abbiamo le collezioni da gran
tempo date in luce delle antiche iscrizioni, ha fatto mai cenno del
distico intorno a Buscheto; non pure eccet- tuato lo stesso Petrarca, che
sappiamo aver egli stu- diosamente esaminato gli antichi monumenti, e
dell’obelisco aver fatto parola soltanto secondo la voce del popolo (
Epislolæ familiares, edit. Genev.). Noi pertanto andiamo debitori al
Dondi, siccome a quello che forse primo di tutti ci diede una giusta
conoscenza del tetrastico pisano, e la notizia della mole insigne
ultimamente alzata in Roma, la quale è di moltissimo vantaggio per
far conoscere la storia delle arti meccaniche del medio- evo in Italia :
soggetto di un voluminoso ed utilissimo scritto. Un silenzio
così durevole ed universale non può essere di certo a molti senza
ammirazione ; ma ove essi considerino che l’ obelisco di bel nuovo
inalzato era stato a cielo scoperto bersaglio delle ingiurie dei
tempi per il giro di quasi tre secoli avanti D,, e che mostrava quel
distico a lettere sfuggevoli, sebbene ab antico scolpite, difficili alla
lettura per la sconvenienza del sito, talché siasi preso Buzeta per
Buscheto ; e che finalmente nel secolo XV. le medesime erano del tutto scomparse,
non avranno più luogo sì fatte meraviglie. Senza dubio
Decembrio Opera ripiena di scelta erudizione e poco conosciuta, scritta
circa la metà di quel tempo, intitolata hibri selle di polizia letteraria,
c data ai tipi in Augusta, ce lo rappresenta tanto ridotto a mal termine, che
non dee fare stupore sia esso sfuggito a’curiosi indagatori degli antichi
monumenti, ed abbia indottoVeronese a parlare in tal foggia. Quel lato
eh’ è posto a Mez- » zogiorno viene corroso ogni dì più dai continui vapori
dell’ Austro e dalle procelle ; e i geometri e gl’architetti tutti del nostro
tempo ne trovarono tanto di logoro, che ritengono sia scemato da imo a
sommo quasi duecento libre. E il Bembo nel Dialogo ad Ercole Strozio intorno la
zan- zara di Virgilio e le favole di Terenzio, impresso la prima
volta a Venezia con altre sue Operette, mette in bocca a Barbaro Ermolao questi
delti. Appena si può descrivere a parole la grave colpa » che hanno i
Romani per quell’ obelisco vaticano, i quali, quasi invidiando che
sopravivesse una qualche opera alla nostra età, cui lunghezza di anni o »
durata di tempo non valesse a distruggere, adoperarono sì che fosse quasi tolto
alla publica vista per » mezzo di ammonticchiati rottami e murate
easupole. »Ma che D. si abbia procurato colle osservazioni sulle romane
antichità cognizioni per dare a buon diritto lodi secondo le azioni, n’ è
prova la Letlera diciottesima a Paganino Sala, decoralo poco in- nanzi
della dignità di Cavalliere : nella quale difende che la scienza delle
leggi è da tenersi in maggiore estimazione che l’arte militare,
scrivendo: « Che il senato e il popolo romano avessero operato secondo questo
parere di CICERONE, lo attestano alcune facciate, le quali sino al giorno d’
oggi si conservano nella città scolpite in marmo, alcune delle
quali, ) nè m’ inganna la mia memoria, ho lette io stesso, » dove
vengono anteposti in ordine di scrittura gl’uomini famosi in pace per consiglio
a quelli che travagliarono nella guerra. A’ piedi della rupcTarpéa si conserva
uno splendido arco trionfale di » marmo, che tiene inscritti due grandi
uomini, vale » a dire Lucio Settimio e Marco Aurelio, sopra cui «
dopo una lunga serie si offrono a lettera alcune » cose in proposito, le
quali, tienle a mente, sono » queste: Ob rem publicam restitulam
itnperiuinque » populi romani propagatimi insignibus virlutibus
eorum domi forisque. Ecco preferirsi il publico interesse »
consolidato per senno alla conquista dell’imperio, » e i grandi in pace
a’ grandi in guerra, quantunque » senza dubio l’ una e l’ altra sia cosa
gloriosa. Così » il titolo di Dottore avuto per scienza in Diritto
civile, colla quale si amministrano bene in pace i » publici affari, si
giudica doversi anteporre al titolo » di Condoiliere d'eserciti, colle
armi de' quali si gover- ni nano le cose al di fuori. » Posciachè D.
ebbe osservate le rovine della romana antichità, nella Let- tera
duodecima al frate Guglielmo da Cremona ne scriveva in tal modo, Quantunque
poche ne sieno rimaste delle opere degli antichi ingegni, pure
se alcune qua e là se ne conservano, vengono ricerca- » te,
esaminate, e tenute in gran pregio dagli appassionati in tal genere; e se
vorrai mettere a para- » gone queste dei giorni nostri con quelle, ti
sarà » chiaro come gli autori di quelle sieno stati più avvantaggiati
dalla natura e dall’ ingegno, e più dotti » nel magistero dell’arte.
Parlo di edifizj antichi, di » statue, di sculture, e d’altre cose di
simil fatta, alcune delle quali, con diligenza osservate dagli artelici di
questa età, li fanno dare nelle meraviglie.» Nella qual Lettera stessa,
dopo di avere trattato dif- fusamente sulla eccellenza degli antichi,
aggiunse anche le seguenti cose, spettanti allo studio degli anti- clii
monumenti. Io avrei credulo che tu ti avessi occupato con piacere a
leggere di quando in quando scritti di tale specie, o almeno alcuni dei
principali tra essi, ed in quelli ne avessi considerato in > molte
parti, non senza stupore, i costumi e le azioni dei tempi andati: perchè se
vorrai con giustizia » raffrontare quelli con questi che di presente
conosciamo, sarai costretto a confessare che la giustizia, il valore, la
temperanza e la prudenza hanno avuto » certamente un seggio luminoso nei
loro animi, e » dall’ impulso di quelle virtù si hanno procacciato
» alcun che di magnifico a gran lunga superiore alle » più larghe
mercedi. Del resto, prova di ciò sono » quelle cose che, ordinate una
volta per onorare » gloriose intraprese, durano ancora nella città
di Roma. Conciossiachè sebbene molle e delle più preziose ne abbia mandalo
a male il tempo, e di alcune » sieno mostrate soltanto le rovine,
che ci presen- ti tano alcune tracce di ciò che per lo innanzi
erano; tuttavia quelle poche e a meraviglia stupende che ne restano,
sono più che bastanti onde fare testimonianza che coloro i quali le
decretarono, non poteano essere che dotati di somma virtù, e che coloro
a’quali venivano dedicate ad eterna ed onorevole ricordanza doveano avere
operato gesta magnanime e strepitose. Voglio dire statue che, fuse in
bronzo o scolpite in marmo, durarono fino al giorno d’ oggi ; e mollissimi
pezzi sflagellati a torli ra, ed archi trionfali di pietra di gran lavoro, e
co- li lonne storiate di memorabili imprese, ed altre cose moltissime
di tal genere, messe alla vista di tutti onde onorare personaggi illustri
o per avere stalibilita la pace, o scampata la patria da sovrastante »
pericolo, o disteso il dominio sulle vinte nazioni. E siccome mi sovviene
eli’ io vi leggeva con molto mio compiacimento, così voglio sperare che tu
pulì re, passandovi sopra qualche fiala, le avrai considerale, e fatto
sovr’esse alcun segno di meraviglia, ed avrai detto per avventura teco stesso:
Queste per fermo sono prova d’ uomini grandi. Resta che a fornire l’elogio di
D. io lo dimostri anche amante dello studio poetico, onde sia manifesto
com’ egli abbia occupato un luogo cospicuo fra i Medici del suo tempo.
Anche i meno esperti di tali cose sapranno che delle sue composizioni
italiane una sola ne fu data alle stampe, indirizzata a PETRARCA (si veda),
la quale con altre dello stesso autore suolsi vedere congiunta, e ne fu
fatta memoria nel Dizionario degli Academici Fiorentini della Crusca. Ma
nel codice manoscritto, di cui sul principio ho fatta menzione, se ne
leggono quaranta del genere di quelle che con vulgare vocabolo è invalso
chiamare Sonetti. Queste trattano di varj argomenti, e specialmente dell’ amore
alla virtù, della malvagità dei costumi del suo tempo, della lode e del
biasimo di alcuni Principi allora regnanti, di città vedute nel suo
viaggio per Roma, di risposte ad amici; e di amorose assai poche, ben
diversamente da quello che portail suo secolo. Le poesie volgari du
D. furono scritte a PETRARCA (si veda), e a quelli amatori delle Muse che a lui
erano legati in istrelta amicizia ; cioè a Broaspitia veronese, a
Vanozzi, a Melchiore e Benedetto parimente veronesi, a Pace padovano, al
frate Guglielmo da Cremona, a Giovanni di Venezia suo condiscepolo,
a Campo, e Castellione Aretino. D. visitando la tomba del Petrarca
in Arquà scrisse forse il primo di tutti su tale argomento una
composizione, imitato poscia da uomini dotti d’ogni nazione e d° ogni
tempo ; cosicché coll’ andare degli anni io ho raccolto versi in gran
copia sopra questo soggetto, i quali potrebbero uscire in luce con
generale approvazione. La poesia usata da D, non è sempre sciolta e
facile; tuttavia è fornita di gravità e di eleganza: gli piaque di
framischiare sovente versi latini ai volgari, come sappiamo su IP esempio
degli antichi poeti es- sersi usalo fare da alcuni moderai con vano
sforzo. Nella sua giovinezza atlendeva con piacere a verseggiare, come
scrive a Guglielmo da Cremona: Già nella vaga elade de’ prim’anni
Mi piaque udir e dir talvolta in rima, Benché con grosso stile e rude
lima: Poi che l’alma vestir di miglior panni Mi piaque più,
perch’io conobbi i danni Dei persi di, lasciai la via di
prima. Prendendo quel che piu prezzo si stima Con maggior cura e
studiosi affanni. I codici scritti a penna assai di rado ci
offrono versi di D., ed io ne ho veduti se non pochissimi in due
soltanto: uno de’ quali trovasi nella Biblioteca del Seminario di Padova,
un tempo posseduto dal Facciolati ; l’ altro squarcialo, e mal difeso
dalle in- giurie dei tempi, fu da me rinvenuto poco fa nell’ul-
tima stanza della Basilica di S. Marco in Venezia, e portato nella
Biblioteca regia : il perchè non dee parere fuori di ragione eli’ io ponga qui
appiedi di que- sta Lettera, come per saggio, sei componimenti
volgari di esso Dondi. Da tutto il fin qui detto risulta, che
presso i giusti estimatori degl’ingegni il Dondi andò fornito di tanta e
sì svariata dottrina, che v’ha onde tenerlo del tutto eccellente fra i pochi
periti in Medicina del suo secolo, e che perciò non ho gettato
inutilmente il tempo e la fatica nel farlo riconoscere per tale. Venezia,
Se’l veder torto del vostro Giovanni Mira la region terrestre ed
ima. La gente ricercando in ogni clima, Ebrei, LATINI, Greci ed
Alemanni, Regni comuni, e sudditi a’tiranni; Al mal son pronti, e per
quel si sublima, Spenta è virtù, e la fortuna opima Col vizio sta
su gloriosi scanni. Ito è il tempo che fu col buon Augusto, Rari son
quei che per virtù guadagna; Astuzia e frodo regna con bugia. A cui
dunque direm del calle angusto, Per qual si va con la virtù
compagna? Degno è del mal così lagnarsi pria. Oli puzza abbominabil
di costumi! Oli maledetti dì di nostra etade! Oli gente umana senza
umanitade! Più che senza splendor oscuri fumi! Convien che ’l
mondo in breve si consumi. Poiché giustizia ed innocenza cade; E sol
quell’arte e studio par che aggrade. Per qual l’un l’altro offenda,
inganni e schiumi. Qual’ cieli infortunati, qual’ figure. Qual’
mimiche stelle o gravi segni In ogni nostro ben or s’è disperso?
Quanto beate fur più le nature Nell’imperio d’ Augusto,
quando ingegni, Virtute e pace ebbe l’Universo! Cantra insolenliam
Fenetorum inferentium guarani Amino Paduae. Se la gran Babilonia fu
superba, Troja, Cartago, e la mirabil Roma, Che ancor si vede, e
quell’ altre si noma. Ma dove sletler pria stan selve ed erba; E se
altra possa fu mai tanto acerba A metter sopra altrui gravosa soma.
Tutte san già quant’ogni orgoglio doma Al fin colei clic a sè vendetta
serba. Però qualunque è maggior signoria Dovrebbe rifrenar
con più misura Fraterna di giustizia sua potenza; Di aver con suoi
minor consorte pia. Non arrogante, ingiuriosa e dura, E temer sopra
sè dal Ciel sentenza. Cum visitasset sejiulchrum Domini Fraudici
PelrarcUae in A rquada. Ilei sommo cielo con eterna vita Gode
P alma felice tua, PETRARCA; Quindi di sodo sasso in nobil’ arca La
terrena caduca parte uscita. La fama del tuo nome già gradita
Sonando va con gloriosa BARCA – la barca di PETRARCA --, Di vera lode e
d’ogni pregio carca, Per l’Universo in ogni canto udita. Nelle
scritte sentenze tue si vede La gentilezza dell’ingegno divo,
E qual sii stato in cattolica fede. Forò chi anco t’ama non è
privo Ancor di te; c chi morto li crede Erra, ch’or vivi e sempre
sarai vivo. Y. Joannes ile Domiti socio et eoiuliscipulo tuo Joanni
de Fenetiis studenti in Medicina, qui tcripseral eidem quondam
tmlgares rhythmos. Le tue parole mi par belle tanto, E
sì bene ordinate tutte quante. Qual se dette le avesse o Guido o DANTE
ALIGHIERI (si veda), Ovvero esaminate in ogni canto. Però quando fra me mi
penso alquanto, Parmi che tu non sei molto distante Da color che tu
imiti, buon rimante, E che han vestito di quell’arte il
manto. Ond’io ti prego che scrivi talvolta, Sì che
svegli il mio piccol ingegno, Per te sottratto dalla turba
stolta. Onor ti renderò, che sei ben degno. Più che’l fanciul al
maestro ch’ascolta. Guardando a te col balestriere <0 al
segno. Così il codice. Dica contra chi vuol: il saper
vale Più che il folle ardimento, cd ogni schiera Produrrà a
torto quantunque sua fiera: Per ragion giusta, dee terminar male.
E chi per van conforto d’altrui sale Oltra quel che convien a sua
maniera. Degno è che non governi ben bandiera, Nè ben cavalchi
alcun sotto sue ale. Adunque imprenda pria quei che non sanno, E non
ardisca saltar di leggieri; Contra s’alza a baldezza di vesciche.
Chè chi è corrente ha più volle le fiche, E scaccomato in mezzo il
tavolieri, Sì ch’ei riporta la vergogna e ’l danno..tK*rCP odiatene
di »oti 300 esemplati. BUSCHETO di Isa Belli Barsali - Dizionario
Biografico degli Italiani - Pubblicità BUSCHETO (Busketus, Buschetto,
Boschetto). - Si ignorano l'origine e gli estremi biografici di questo
architetto attivo a Pisa tra il terzo venticinquennio del sec. XI e i primi del
XII. Compare in due soli documenti certi (pubblicati dal Pecchiai), e come
operarius di S. Maria. È l'ideatore del progetto della cattedrale pisana e come
tale infatti è ricordato ed esaltato, nel paragone con Ulisse e con Dedalo,
nell'iscrizione che si legge sulla sua tomba collocata nella prima arcata a
sinistra della attuale facciata (trasferitavi da quella primitiva): "Non
habet exemplum niveo de marmore templum. Quod fit Busketi prorsus ab ingenio.
Una più tarda iscrizione elogiativa aggiunta sul sarcofago in occasione del
trasferimento della tomba dalla vecchia alla nuova facciata (al tempo cioè
dell'architetto di quest'ultima, Rainaldo) esalta del B. soprattutto le
capacità tecniche: "Quod vix mille boum possent iuga iuncta movere / Et
quod vix potuit per mare ferre ratis / Busketi nisu quod erat mirabile visu
Dena puellarum turba levabat onus. Accenti assai simili aveva un'epigrafe
romana, ora scomparsa, trascritta da G. Dondi, che celebrava un "Buzeta"
per aver nuovamente eretto l'obelisco nel circo neroniano: "Ingenio Buzeta
tuo bis quinque puellae / appositis manibus hanc erexere columnam". Questa
somiglianza di tono nelle due epigrafi, pisana e romana, indusse il Morelli a
proporre l'identificazione di "Buzeta" con Buscheto. Non
risulta certo che sia da identificare con il B. che compare in due atti della
canonica del duomo di Pistoia (L. Chiappelli, Storia di Pistoia..., Pistoia).
Per altre ipotesi (B. del fu Giovanni giudice dei signori di Ripafratta,
Monini), basate su documenti presunti o per documenti (Pecchiai) poinon
rintracciati, si veda Scalia. I lavori della cattedrale pisana, iniziati
nel 1063 al tempo del vescovo Guido da Pavia, proseguirono, sostenuti da
donazioni, tra cui quelle di Enrico IV e della contessa Matilde. Gelasio
consacra la cattedrale, forse non ancora del tutto compiuta. Dopo questa data,
l'edificio venne ampliato con il prolungamento a ovest del corpo longitudinale
della chiesa, di circa quindici metri, che portò di conseguenza alla
costruzione dell'attuale facciata (per il Sanpaoles. Per le fondazioni della
prima facciata si veda Bacci). L'individuazione, ovviamente fondamentale,
dell'attività di B. nella parte più antica del duomo, ha avuto un lungo iter
critico. Alla luce degli studi recenti è da credere che il B. progettasse e
iniziasse la costruzione in età ancor giovane, proseguendone poi la fabbrica
fino al primo decennio del sec. XII. Molte ipotesi sono state avanzate
sui tempi e i modi della fabbrica del duomo durante la direzione di Buscheto
(Dehio-von Bezold; Salmi, 1938;Sanpaolesi). Una documentazione indiretta aiuta
solo parzialmente. Accettando l'ipotesi del Burger, che l'epigrafe con data
1085 murata sulla porta della pieve nuova di S. Maria del Giudice (Lucca) vada
riferita al completamento dell'abside di questa chiesa - anteriore
stilisticamente alla sua facciata - il1085verrebbe ad essere anno ante quem per
il completamento di una parte dei lavori al duomo pisano attribuibili a B.,
dato il rapporto esistente tra il duomo di Pisa e l'abside della pieve nuova di
S. Maria del Giudice: la chiesa del contado lucchese sarebbe anche il più
antico edificio derivato dalla cattedrale pisana. I forti pilastri
interni all'incrocio del transetto delineano le dimensioni della cupola e
autorizzano a ritenere che B. progettasse anche questa parte (Sanpaolesi),
anche se poi è possibile che i lavori si protraessero. La cupola originaria -
poggiante su un tamburo con monofore ad archetto e su trombe coniche venute in
luce durante i restauri del secondo dopoguerra - indica rapporti con
l'architettura del Mediterraneo orientale e della Sicilia. Un problema
aperto è quello della forma della facciata di B., forse già compiuta nel 1118
quando fu consacrata la chiesa, certo già esistente quando nella chiesa fu
tenuto un concilio, e disfatta probabilmente dopo la costruzione della nuova.
Ipotesi ricostruttive possono trovare appoggio nell'esame analitico e
comparativo di alcune facciate di chiese pisane (S. Frediano di Pisa, la pieve
di Calci già aperta al culto, la pieve di Vicopisano) e lucchesi (le due pievi
di S. Maria del Giudice), tutte in contatto con la cattedrale pisana. Queste
facciate mostrano una ricorrente tipologia ad archi ciechi su due ordini, che
si presenta in logico e armonioso rapporto con quella soluzione ad archi ciechi
che compare nei fianchi del duomo di Pisa. Il linguaggio di B. non è
certo riconducibile ad una tradizione locale, ed è estremamente colto.
Accettando l'ipotesi di identificazione con il Buzeta dell'iscrizione romana,
il soggiorno a Roma illuminerebbe sul sottofondo classico della sua cultura:
l'impianto dell'edificio e i grandi colonnati basilicali, i capitelli foggiati
ad imitazione dell'antico, la quasi completa assenza di decorazioni figurate rivelano
infatti la conoscenza e lo studio delle opere romane; è significativo che anche
il neoclassico Milizia ne notasse "le proporzioni del tutto non...
spregevoli" e la sodezza. Nello stesso tempo B. è a conoscenza
dell'architettura lombarda e dell'architettura orientale, dalla bizantina
all'araba. Contatti e rapporti culturali sono d'altronde superati in una
unitaria visione di grande respiro, che fa di B. uno dei massimi
architetti. La cattedrale pisana è capostipite del romanico pisano.
All'opera di B. e del suo continuatore Rainaldo si rifece non solo la
generazione a loro più vicina, ma una folta scuola, estesasi nella Lucchesia,
nel territorio fiorentino, e nelle zone politicamente o commercialmente in
rapporto con Pisa (in Sardegna e in Puglia), scuola che ne mantenne alcuni
tratti essenziali, pur modificandosi nel tempo e nei diversi centri.
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Gentile; Sardo, Cronaca pisana, a cura di Banti, Roma, D., ITER ROMANVM, in CODICE TOPOGRAFICO DELLA
CITTA DI ROMA, cur. Valentini-G. Zucchetti, IV, Roma, Milizia, Mem. degli
architetti antichi e moderni, Parma; Morrona, Pisa illustrata, Pisa, Morelli,
Operette, Venezia; Grassi, Descriz. Stor.-artistica di Pisa, Pisa, Parte
storica; Parte artistica; Fleury, Les monuments de Pise au Moyen Age, Paris, Rossi,
Inscriptiones christianae Urbis Romae, I, Romae, Dehio-Bezold, Die kirchliche
Baukunst des Abendlandes, I, Stuttgart, Monini, B. pisano, Pisa; P. Schubring,
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facciata nel duomo di Pisa, in Il Marzocco, Tronci, Il duomo di Pisa, cur. Bacci,
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L'architettura romanica in Toscana, Milano-Roma, Toesca, Il Medioevo, I, Torino,
Guyer, Der Dom zu Pisa und das Rätsel seiner Entstehung, in Münchner Jahrbuch
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Riv. dell'Ist. d'archeol. e storia dell'arte, Il restauro delle strutture della
cupola della cattedrale di Pisa,in Boll. d'arte, Burger, Osservazioni sulla
storia della costruzione del duomo di Pisa, in Critica d'arte; Barsotti, B. e
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la Sardegna nell'architettura romanica, in I Convegnointernaz. di storia e
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Busketus. Circo di Nerone Circo scomparso della Roma antica Circo di
Nerone (o Vaticano) Sito archeologico Roma Nero Circus Ricostruzione del Circo
di Nerone in un disegno di Pietro Santi Bartoli Civiltà Civiltà romana Utilizzo
Circo Localizzazione Stato Città del Vaticano Mappa di localizzazione Il
circo di Nerone era un impianto per spettacoli dell'antica Roma lungo 540 metri
e largo circa 100, che sorgeva nel luogo dove oggi si trova la basilica di San
Pietro in Vaticano, in una valle che correva da dove si trova la parte sinistra
della basilica fino quasi ad arrivare al Tevere. L'area dei Carceres, da dove
partivano le bighe, era situata nel punto dal quale la Via del Sant'Uffizio
lascia piazza Pio XI, mentre quella del lato curvo va rintracciata qualche
decina di metri dopo l'abside della basilica di San Pietro.
StoriaModifica L'opera, iniziata da Caligola e completata da Nerone, era stata
costruita all'interno della villa di Agrippina Maggiore, villa che alla morte
della madre di Caligola passò in eredità a Nerone. Nel circo privato
dell'imperatore si tenevano corse di cavalli, bighe e quadrighe, molto popolari
a Roma, tanto che in alcune occasioni l'imperatore, che normalmente vi
assisteva solo con la sua corte, fece aprire le porte del circo al popolo
romano. È probabile che l'impianto non dovesse contenere più di 20.000
spettatori. Qui ebbero luogo, forse per la vicinanza all'adiacente
necropoli, alcune esecuzioni dei cristiani giudicati colpevoli di aver causato
il grande incendio di Roma. Nerone, secondo Tacito, aggiunse lo scherno al
supplizio. Come avvolgere gli uomini con pelli di animali perché fossero
dilaniate dai cani, o inchiodarli alle croci, o destinarli al rogo come
fiaccole, che illuminassero l'oscurità al termine del giorno. Nerone aveva
offerto i suoi giardini per lo spettacolo, e vi aveva organizzato giochi
circensi, mescolandosi alla folla in abito d'auriga o guidando un carro da
corsa. In tal modo si aveva pietà di quei condannati, benché colpevoli e
meritevoli del supplizio, perché venivano sacrificati non per l'utilità
pubblica ma per la crudeltà di uno solo.[1] Il circo fu abbandonato già
verso la metà del II secolo d.C. e l'area fu suddivisa e assegnata in
concessione ai privati per la costruzione di tombe appartenenti alla necropoli.
Tuttavia pare che fino al 1450 ne sopravvivessero ancora molti resti, distrutti
con la costruzione della nuova basilica vaticana. L'obelisco, che era
posto al centro della spina del circo, era stato per volere di Caligola
trasportato fin qui da Eliopoli, dove si trovava nel Forum Iulii. Qui rimase
fino a che papa Sisto V lo fece spostare
al centro di Piazza San Pietro. L'area dove sorgeva anticamente il
Circo di Nerone. Publio Cornelio Tacito, ''Annales, Basilica di San Pietro
in Vaticano Via Cornelia Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons
Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su circo di Nerone. Portale Antica Roma
Portale Architettura Portale Roma Necropoli vaticana Ager
Vaticanus Via Cornelia Strada romana antica Wikipedia Il contenutoGrice:
“I thought it was a good idea of the Anglo-Normans to retain the Anglo-Saxon
idea of ‘time’ (as stretch – a rather English root – cf. German ‘zeit,’ our
‘tide’ --, and borrow from Latin, ‘tempus’, which gives us ‘temporary’, as I
use in my ‘Personal Identity,’but also ‘tense’ – This tense is better than by
vice/vyse, since vice and vyse are both cognate with violence. But tense and
tense are not. One is cognate with Latin tension. The other is just a
mispronounciation of Fremch ‘temps,’ Latin/Roman ‘tempus’ – So as Cicero would
have it, it’s ‘tempus’ we should care about!” -- Giovanni Dondi dall’Orologio. Giovanni
De Dondi. Dondi. Keywords: l’astrarium, Leibniz’s Law, time-relative identity,
total temporary state (Grice: “I’m thinking of Hitler”); Wiggins, Myro, The
Grice-Myro Theory of Identity, sameness and substance, Mellor, filosofia del
tempo, Prior, Creswell, Mellor – logica cronologica, ‘tense logic’ ‘tense
implicature’ -- “iter romanorum”. Refs:
Luigi Speranza, “Grice e Dondi” – The Swimming-Pool Library. Dondi.
Luigi Speranza -- Grice e Dorfles: la ragione
convversazionale e l’implicatura conversazionale del kitsch – scuola di Trieste – filosofia
friuliese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Trieste). Filosofo trestino. Filosofo
friulese. Filosofo italiano. Trieste, Friuli – Venezia Giulia. Grice: “Must say my favourite Dorfles is his
‘artificio e natura,’ on the doryphoros!”. Nato a Trieste nell'allora Austria-Ungheria da padre
goriziano di origine ebraica e madre genovese, si laurea a Trieste. Si dedica
allo studio della pittura, dell'estetica e in generale delle arti. La conoscenza
dell'antroposofia di Steiner, acquisita grazie alla partecipazione a un ciclo
di conferenze a Dornach, orienta la sua arte pittorica verso il misticismo,
denotando una vicinanza più ai temi dominanti dell'area mitteleuropea che a
quelli propri della pittura italiana coeva. Isegna a Milano, Cagliari e
Trieste. Fonda il Movimento per l’Arte Concreta (vs. arte astratta). del quale
contribuì a precisare le posizioni attraverso una prolifica produzione di
articoli, saggi e manifesti artistici. Prende parte a numerose mostre in Italia
e all'estero: espone i suoi dipinti alla Libreria Salto di Milano e in numerose
collettive, tra le quali la mostra alla Galleria Bompiani di Milano,
l'esposizione itinerante, e la grande mostra "Esperimenti di sintesi delle
arti", svoltasi nella Galleria del Fiore di Milano. Risulta
componente di una sezione italiana del gruppo ESPACE. Diede il suo contributo
alla realizzazione dell'Associazione per il Disegno Industriale. Si dedica
quindi in maniera pressoché esclusiva all'attività critica. Con la personale
presso lo Studio Marconi di Milano, torna a rendere pubblica la propria produzione
pittorica. L'arte non prescinde dal tempo per esprimere semplicemente lo
spirito della Storia universale, bensì è connessa al ruolo delle mode e a tutti
gli ambiti del gusto. Considerevole è stato il suo contributo allo sviluppo
dell'estetica italiana, a partire dal Discorso tecnico delle arti, cui hanno
fatto seguito tra gli altri Il divenire delle arti e Nuovi riti, nuovi miti.
Nelle sue indagini critiche sull'arte contemporanea si è sovente soffermato ad
analizzare l'aspetto socio-antropologico del fenomeno estetico e culturale,
facendo ricorso anche agli strumenti della linguistica. È autore di numerose
monografie su artisti di varie epoche (Bosch, Dürer, Feininger, Wols,
Scialoja). Pubblicato due volumi dedicati all'architettura (Barocco
nell'architettura moderna, L'architettura moderna) e un famoso saggio sul
disegno industriale (Il disegno industriale e la sua estetica). è il primo
a vedere tendenze barocche nell'arte moderna (il concetto di neobarocco sarà
poi concettualizzato da Calabrese) riferendole all'architettura moderna in:
Barocco nell'architettura moderna. Contribuisce al Manifesto dell'antilibro,
presentato ad Acquasanta, in cui esprime la valenza artistica e comunicativa
dell'editoria di qualità e il ruolo del lettore come artista. A Genova si
occupa anche del lavoro di Costa. Partecipa alla presentazione del libro
Materia Immateriale, biografia di Costa, Miriam Cristaldi, di cui Dorfles ha
scritto la prefazione. L'editore Castelvecchi ha pubblicato Horror Pleni. La
(in)civiltà del rumore, in cui analizza come la scoria massmediatica ha
soppiantato le attività culturali; Conformisti e Fatti e Fattoidi. Pubblica un
inedito d'eccezione, “Arte e comunicazione”, in cui mette la teoria alla prova
con alcune applicazioni concrete particolarmente rilevanti e problematiche come
il cinema, la fotografia, l'architettura. è uscito Irritazioni: un'analisi
del costume contemporaneo, uscito nella collana Le navi dell'editore Castelvecchi.
Con la sua ironia ha raccolto le prove della sua inconciliabilità con i tempi
che corrono. Nel saggio c'è una critica sarcastica e corrosiva all'attuale iperconsumismo.
NComunicarte Edizioni, pubblica 99+1 risposte di Dorfles nella collana Carte
Comuni. Un'intervista "lunga un secolo" con la quale il critico
ripercorre la sua vita e alcuni incontri d'eccezione: da ISvevo a Warhol, da
Castelli a Fini. La Triennale di Milano ospita la mostra "Vitriol,
disegni" Colonetti e Sansone; V. I. T. R. I. O. L. è un simbolo alchemico, acronimo del motto
rosa-crociano “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum
Lapidem”. Assieme ad artisti e autori come Anceschi, Enrico Baj, Marchesi,
Mulas e Niccolai, partecipa al numero quattordici di BAU.. Muor e a
Milano, nella sua casa di piazzale Lavater. Zio di Piero Dorfles, critico
letterario della trasmissione televisiva Per un pugno di libri (il padre di
Piero, Giorgio, era fratello di Gillo). Tra i riconoscimenti ricevuti:
Compasso d'oro dell'Associazione per il Design Industriale, Medaglia d'oro
della Triennale, Premio della critica internazionale di Girona, Franklin J.
Matchette Prize for Aesthetics. È stato insignito dell'Ambrogino d'oro dalla
città di Milano, del Grifo d'Oro di Genova e del San Giusto d'Oro di
Trieste. È stato Accademico onorario di Brera e Albertina di Torino,
membro dell'Accademia del Disegno di Città del Messico, Fellow della World
Academy of Art and Science, dottore honoris causa del Politecnico di Milano e
dell'Università Autonoma di Città del Messico. Palermo gli conferì la
laurea honoris causa in Architettura. Ricevette dall'Cagliari la laurea honoris
causa in Lingue moderne. Onorificenze Cavaliere di gran croce dell'Ordine
al merito della Repubblica italiana nastrino per uniforme ordinariaCavaliere di
gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana, Di iniziativa del
Presidente della Repubblica» Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e
dell'arte nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della
cultura e dell'arte. Altre opere: “Barocco nell'architettura moderna” (Studi monografici
d'architettura, Libreria Editrice Politecnica Tamburini, illustrazioni); “Discorso
tecnico delle arti, Collana Saggi di varia umanità, Pisa, Nistri-Lischi,Il
pensiero dell'arte, Milano, Marinotti); “L'architettura moderna, Collana serie
sapere tutto, Milano, Garzanti); “Le oscillazioni del gusto e l'arte moderna” (Forma
e vita, Milano, Lerici); “Il divenire delle arti, Collana Saggi, Torino,
Einaudi, ed. accresciuta, Torino, Einaudi; Collana Reprints Einaudi, Bompiani);
“Ultime tendenze nell'arte”, Collana UEF, Milano, Feltrinelli); XXVII ed., UEF,
Milano, Feltrinelli); “Simbolo, comunicazione, consume” (Torino, Einaudi, Il
disegno industriale e la sua estetica, Bologna, Cappelli, Kitsch e cultura, in
Aut Aut, Nuovi riti, nuovi miti” (Torino, Einaudi, Milano, Skira, L'estetica
del mito (da Vico a Wittgenstein), Milano, Mursia, Kitsch: antologia del
cattivo gusto, Milano, Mazzotta); “Artificio e natura” (Torino, Einaudi); Milano,
Skira, Le oscillazioni del gusto. L'arte d'oggi tra tecnocrazia e consumismo, Torino,
Einaudi, Milano, Skira, “Senso e insensatezza nell'arte d'oggi, ellegi
edizioni, L'architettura moderna. Le origini dell'architettura contemporanea; I
quattro grandi: Wright, Corbusier, Gropius, Rohe); Dall'espressionismo
all'organicismo razionalizzato, dall'ornamented modern al brutalismo, ai più
avveniristici tentativi attuali, I Garzanti, Milano, Garzanti, Dal significato
alle scelte, Torino, Einaudi, Massimo Carboni, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi,
Il divenire della critica, Collana Saggi, Torino, Einaudi); “Le buone maniere,
Milano, Mondadori, Mode et Modi, Collana Antologie e saggi, Milano, Mazzotta, II
ed. riveduta, Mazzotta, Introduzione al disegno industriale. Linguaggio e
storia della produzione di serie” (Torino, Einaudi, L'intervallo perduto, Collana
Saggi, Torino, Einaudi, Milano, Skira, I fatti loro. Dal costume alle arti e
viceversa, Milano, Feltrinelli, Architettura ambigue. Dal Neobarocco al Postmoderno,
Bari, Dedalo, La moda della moda, Collana I turbamenti dell'arte, Genova, Costa
e Nolan, La (nuova) moda della moda), Costa et Nolan, Elogio della disarmonia:
arte e vita tra logico e mitico” (Milano, Garzanti, Milano, Skira, Itinerario estetico,
Milano, Studio Tesi, Itinerario estetico. Simbolo mito metafora, Luca Cesari,
Bologna, Editrice Compositori); “Il feticcio quotidiano” (Milano, Feltrinelli, Massimo
Carboni, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi, Intervista come auto-presentazione,
con tavole di Paolini, Collana Scritti dall'arte, Tema Celeste Edizioni, Preferenze
critiche. Uno sguardo sull'arte visiva contemporanea, Bari, Dedalo, Design:
percorsi e trascorsi” (Design e comunicazione, Bologna, Lupetti, Fulvio
Carmagnola, Lupetti, Conformisti, Roma, Donzelli, Fatti e fattoidi. Gli pseudo-eventi
nell'arte e nella società, Vicenza, Neri Pozza, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi,
Irritazioni. Un'analisi del costume contemporaneo, Collana Attraverso lo
specchio, Luni, Carboni, Roma, Castelvecchi, Scritti di Architettura, L.
Tedeschi, Milano, Mendrisio Academy, Puppo, D. e dintorni, Milano, Archinto, Lacerti
della memoria. Taccuini intermittenti, Bologna, Compositori, L'artista e il
fotografo, Verso l'Arte, Conformisti. La morte dell'autenticità, Massimo
Carboni, Roma, Castelvecchi, Horror Pleni. La inciviltà del rumore, Collana I
Timoni, Roma, Castelvecchi); “Arte e comunicazione: comunicazione e struttura
nell'analisi di alcuni linguaggi artistici” (Milano, Mondadori Education, Inviato
alla Biennale, A. De Simone, Milano, Scheiwiller, 99+1 risposte, Lorenzo
Michelli, Trieste, Comunicarte Edizioni, Movimento Arte Concreta, Sansone e N.
Ossanna Cavadini, Milano, Mazzotta, Poesie, Campanotto Editore, L'ascensore
senza specchio, Quaderni di prosa e di invenzione, Milano, Edizioni Henry
Beyle, Kitsch: oggi il kitsch, Colonetti et al., Bologna, Compositori, Arte con
sentimento. Conversazione,Meneguzzo, Collana Polaroid, Milano, Medusa, Essere
nel tempo, Achille Bonito Oliva, Milano, Skira, Gli artisti che ho incontrato,
Sansone, Milano, Skira, La logica dell'approssimazione, nell'arte e nella vita,
Aldo Colonnetti, Estetica senza dialettica. Scritti, al, Luca Cesari,Milano, Bompiani,
Paesaggi e personaggi, Rotelli, Milano, Bompiani, La mia America, Sansone, Milano,
Skira; "Interviene D.", in alterlinus "Calligaro: parole e
immagini", in Preferenze critiche, Dedalo, "Né moduli, né
rimedi", in Agalma, "Disarmonia, asimmetria, wabi,
sabi", in Agalma, "Feticcio", in Agalma, "Barozzi", in Da Duchamp agli Happening.
Il Mondo di Pannunzio e altri scritti, Campanotto Editore, Traduzioni Rudolf
Arnheim, “Arte e percezione visive” (Milano, Feltrinelli, Arnheim, Guernica.
Genesi di un dipinto, Milano, Feltrinelli); Addio a D. «La mia vita infinita da
Giuseppe agli smartphone», su corriere. Cazzullo: la mia vita infinita da
Giuseppe agli smartphone, Corriere della sera, il Redazione, Novità formali e
riesumazioni di precedenti esempi, il contemporaneo è un linguaggio nuovo di un
sapere condiviso, QM, su quid magazine, biografia sul sito delle Edizioni Il
Bulino, Galliano Mazzon, Mostra antologia: Civico Padiglione d'Arte Moderna, Milano,
Civico Padiglione d'Arte Moderna, Mostra antologia di Mazzon: Civico Padiglione
d'Arte Moderna, Milano,Caramel, Arte in Italia, su Dioguardi Gianfranco,
Processo edilizio e progetto: vecchi attori alla ricerca di nuovi ruoli, Milano:
Franco Angeli, Studi organizzativi. Fascicolo, Corriere della Sera, Cfr. la raccolta
degli scritti raccolti in Architetture Ambigue: Dal Neobarocco al Postmoderno,
Dedalo, Bari Di Giovanni, Il corpo, nuova forma: la “body art”; Cheiron:
materiali e strumenti di aggiornamento storiografico. Lecta web, arte e
comunicazione. Vitriol Triennale, Sussidiaria: GPS/GaPSle Forbici di Manitù
(BAU14). Celeste Prize BAU 14 Gnoli, D. il rivoluzionario critico d'arte, La
Repubblica, Bucci, Morto, critico
poliedrico. Corriere della Sera, Addio ad Alma D., signora di cultura, Il
Piccolo, Sito web del Quirinale: dettaglio decorato., su Quirinale, dettaglio
decorato., su Quirinale, Intervista su conoscenza.rai. Mandelli, Capire l'arte
contemporanea su youtube.com D., «Mi sveglio, lavoro. Amo il vino», in Corriere
della Sera, Cazzullo, la mia vita
infinita da Francesco Giuseppe agli smartphone, in Corriere della Sera. Natura insieme degli esseri viventi e
inanimati considerato nella sua forma complessiva Lingua Per natura si intende
l'universo considerato nella totalità dei fenomeni e delle forze che in esso si
manifestano, da quelli del mondo fisico a quelli della vita in generale.
Paesaggio naturale Storia del concetto Natura (filosofia). Il termine
deriva dal latino Natura e letteralmente significa "ciò che sta per
nascere": a sua volta deriva dalla traduzione latina della parola greca
physis Il concetto di natura come una totalità che va a comprendere anche
l'universo fisico è una delle molte estensioni del concetto originale; sin
dalle prime applicazioni di base della parola φύσις da parte dei filosofi
presocratici, esso è entrato sempre più nell'uso corrente. Questa
concezione è stata riaffermata con l'avvento del moderno metodo scientifico
negli ultimi secoli. Natura e ambiente Ambiente (biologia). I
boschi fanno parte del gruppo della Natura. La "natura" può riferirsi
alla sfera generale delle piantee degli animali, ai processi associati ad
oggetti inanimati, al modo in cui determinati tipi di forme esistono ed ai
cambiamenti spontanei come i fenomeni meteorologici o geologici della Terra, la
materia e l'energia di cui tutte queste realtà sono composte. Viene inteso come
ambiente naturale il deserto, la fauna selvatica, le rocce, i boschi, le
spiagge, i mari e gli oceani, e in generale quelle cose che non sono state
sostanzialmente modificate dall'intervento umano, o che persistono nonostante
l'intervento dello stesso. Ad esempio, i manufatti e le trasformazioni umane in
genere non sono considerati parte della natura, venendo preferibilmente
qualificati come una natura più complessa. Più in generale, la natura
comprende i seguenti contesti e dimensioni della realtà. La Terra è il luogo
primigenio degli esseri umani, che ospita la vita come da noi concepita e
conosciuta. Sulla sua superficie si trova acqua in tutti e tre gli stati
(solido, liquido e gassoso) e un'atmosfera composta in prevalenza da azoto e
ossigeno che, insieme al campo magnetico che avvolge il pianeta, protegge la
Terra dai raggi cosmici e dalle radiazioni solari. La sua formazione è
datata a circa 4,54 miliardi di annifa. Vita Le piante (Plantae Haeckel) sono
organismi unio pluricellulari, che comprendono tutti i vegetali, soggetti a
nascita, crescita, riproduzione e decesso. Gli animali comprendono in totale
più di 1.800.000 specie di organismi classificati, presenti sulla Terra dal
periodo ediacarano. Il numero di specie via via scoperte è in costante
crescita, e alcune stime portano fino a 40 volte di più la numerosità
accertata. Delle 1,5 milioni di specie animali attuali, 900 000 sono
appartenenti solo alla classe degli Insetti. Ecosistemi. Una tempesta. Gli
ecosistemi sono costituiti da una o più comunità di organismi viventi (animali
e vegetali), e da elementi non viventi (abiotici), che interagiscono tra loro;
una comunità è a sua volta l'insieme di più popolazioni, costituite ognuna da organismi
della stessa specie. L'insieme delle popolazioni, cioè la comunità, interagisce
dunque con la componente abiotica formando l'ecosistema, nel quale si vengono a
creare delle interazioni reciproche in un equilibrio dinamicocontrollato da uno
o più meccanismi fisico-chimici di retroazione (detti anche
"feedback"). Troll, dall'esame di alcune serie storiche di foro
aeree, notò che gli ecosistemi mostravano una tendenza ad aggregarsi in
configurazioni unitarie (denominate principalmente Macchie, Isole e Corridoi).
Ricordando la dizione di Humboldt, Troll chiamò tali formazioni "paesaggi". L'ipotesi
Gaia è la teoria, inizialmente avanzata da Lovelock, ma già anticipata da Keplero,
secondo la quale tutti gli esseri viventi sulla Terra contribuirebbero a
comporre un vasto ed unico organismo (chiamato Gaia, dal nome della dea greca),
capace di autoregolarsi nei suoi vari elementi per favorire a sua volta le
condizioni generali della vita. Naturale e artificiale. Natura e
artificio. Il concetto più tradizionale della natura, che può essere usato
ancora oggi, implica una distinzione tra naturale ed artificiale: con
"artificiale" si intende cioè che è stato creato dall'opera o da una
mente umana. A seconda del contesto, il termine "naturale" potrebbe
anche essere distinto dall'innaturale, dal soprannaturale e
dall'artefatto.Bottega dello scultore, miniatura che raffigura l'opera umana di
modifica degli elementi e degli arredi naturali Le difficoltà nella definizione
stessa della naturacomportano un'ambiguità nel rapporto tra uomo e natura. Alle
volte il concetto è usato in senso derivato per riferirsi a quelle zone create
dall'uomo, ma dove grande spazio è riservato alle popolazioni vegetali e
animali. Si può parlare ad esempio della natura di una foresta, anche se
coltivata e sfruttata da secoli. In tal caso ci si riferisce a una modalità di
gestire l'ambiente da parte degli umani, piuttosto che all'assenza di
intervento umano. L'idea di natura è stata rielaborata dalla cultura
urbanache ha formulato la mitica nozione di barbarie per definire tutto quanto
si pone al di fuori della civiltà. Il fatto che il termine selvaggio vienne
usato da un lato come sinonimo di naturale, dall'altro per denotare certi atti
come particolarmente violenti o efferati, mette in evidenzia una certa tendenza
ideologica, piuttosto inconsapevole, a considerare parte della natura come
estranea alla culturadominante, come qualcosa di primitivo se non di malevolo. Paradossalmente
accade anche che, in altri contesti, la parola «naturale» possa venire usata
nel linguaggio corrente come sinonimo di normale, legittimo o logico, come la
fonte cioè dei principi più retti dell'uomo civilizzato. Lo sviluppo della
scienza e della tecnologia negli ultimi due secoli è stato a sua volta in gran
parte accompagnato da una certa contrapposizione ideologica tra uomo e natura;
la conoscenza viene generalmente considerata uno strumento di dominio della natura
piuttosto che un mezzo per vivere in armonia con essa. L'epoca moderna ha visto
d'altra parte lo sviluppo della teoria della legge naturale, che pone in
risalto i diritti dell'uomo, il quale sarebbe stato dotato dalla natura di
prerogative inalienabili; in tale contesto si fa riferimento ad una natura
umana senza implicare necessariamente l'appartenenza ad una natura ancestrale. Tutela
della natura. Lo sfruttamento del suolo e il problema dello smaltimento dei
rifiuti procede di pari passo con la crescente urbanizzazione. La crescente
industrializzazione ed urbanizzazione del pianeta ha posto il problema della
conservazione della natura in forme nuove e sempre più urgenti. Agli ambienti
naturali si sono andati via via sostituendo paesaggi artificiali, che oltre a
distruggerne l'amenità, ne hanno alterato la loro peculiare storia ecologica.
Sin dalla preistoria l'uomo è intervenuto a modificare il paesaggio naturale,
attraverso disboscamenti e l'introduzione di colture e animali di importazione,
con grave danno per la flora e la fauna locali, oltre che di quelle non
addomesticabili. Ma è stato soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale
che l'umanità si è dotata di mezzi molto più invasivi, che deturpano gli
ambienti fino a provocarne spesso la desertificazione. Fra le principali cause
della distruzione della natura vi sono: inquinamento, ed emissioni di gas
serra; sfruttamento delle risorse naturali, deforestazione, agricoltura
intensiva con uso di pesticidi, pescamassiccia; estinzione di numerose specie viventi;
ignoranza dell'ambiente biofisico, mancanza di cultura ecologica. Alle
alterazioni della natura ha contribuito inoltre la crescita esponenziale della
popolazione umana, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo.[2] Con la
ricerca scientifica si riesce soltanto a rimediare per lo più parzialmente ai
danni, cercando di razionalizzare lo sfruttamento del suolo, arginare la
diffusione dei parassiti e limitare l'inquinamento. Per il resto, la lenta
crescita di consapevolezza dell'importanza di tutelare la natura nei paesi
industrializzati ha portato a provvedimenti come l'istituzione dei parchi
naturali. Dopo la seconda guerra mondiale sono sorte alcune organizzazioni
internazionali per la difesa della natura come l'IUCN, il WWF, l'UNESCO,
l'UNEP. Dagli anni ottanta le varie nazioni del pianeta hanno iniziato a
partecipare a delle conferenze su scala globale per trattare soprattutto dei
problemi del clima, con risultati di scarsa efficacia. Ducarme e Denis Couvet,
What does 'nature' mean?, in Palgrave Communications, Springer Nature, Natura,
su treccani.i Newman, Age of the Earth, in U.S. Geological Survey's Geologic
Time, Pianta, su treccani Baccetti B. et al, Trattato Italiano di Zoologia
nsect Species, su infoplease. Rawls, Lezioni di storia della filosofia morale,
Feltrinelli, Viale, Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti
della civiltà, Feltrinelli, Brevini, L'invenzione della natura selvaggia.
Storia di un'idea dal XVIII secolo a oggi, Bollati Boringhieri, Pollo, La
morale della natura, Belardinelli, La normalità e l'eccezione: il ritorno della
natura nella cultura contemporanea, Rubbettino. Voci correlate Ambiente
naturale Ecologia Filosofia della natura Ipotesi Gaia Natura (filosofia)
Naturalismo Scienze naturali natura, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. natura, in Dizionario di filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Natura, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Opere riguardanti Natura, su Open Library,
Internet Archive. Natura, in Catholic Encyclopedia, Appleton. Ducarme e Couvet,
What does 'nature' mean?, in Palgrave Communications, Springer Portale
Ecologia e ambiente Portale Scienza e tecnica Ecosistema porzione
di biosfera delimitata naturalmente Ecologia branca della biologia che
studia le interazioni tra gli organismi e il loro ambiente Ecosistema
terrestre Madre Natura personificazione della natura Lingua Segui. Madre Natura
è la personificazione della natura. Werner, Diana di Efeso come
allegoria della Natura, circa Caratteristiche Madre Natura, figura dal trattato
Atalanta Fugiens Essa (a volte conosciuta come Madre Terra) è la comune
personificazione della natura focalizzata intorno agli aspetti di donatrice di
vita e di nutrimento, incarnandoli nella figura materna. Immagini di
donnerappresentanti madre natura, o la madre terra, sono senza tempo.
In età preistorica le dee erano venerate per la loro associazione con la
fertilità, la fecondità e l'abbondanza agricola. Le sacerdotesse mantenevano il
dominio di vari aspetti religiosi delle civiltà Inca, Algonchina, Assira,
Babilonese, Slava, Germanica, Romana, Greca, Indiana e Irochese per millenni
prima dell'inizio delle religioni patriarcali. Talvolta viene indicata
come la sposa di Padre Tempo. Grande Madre Gea Tellus Mati Zemlya
PachamamaTeteoinnan dea azteca della guarigione, e dei bagni di vapore.
Madre Russia personificazione nazionale della Russia Padre Tempo personificazione
del tempo. Gillo Dorfles. Angelo Eugenio Dorfles. Dorfles. Keywords: filosofia
del kitsch, “Artificio e Natura, natura, artificio, communicazione, mito,
simbolo, segno, linguaggio, interpretazione, semiotica, disarmonia, Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Dorfles” – The Swimming-Pool Library. Dorfles.
Luigi Speranza -- Grice e Doria: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- scuola di Genova – filosofia genovese –
filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo geovese. Filosofo ligure. Filosofo
italiano. Genova, Liguria. Grice: “I love Doria: a nobleman who should be
sailing off Portofino, is writing a ‘progetto di metafisica’ after discussing
the ‘filosofia degl’antichi’ – you HAVE to love him! Plus, he philosophised
WHILE sailing!” Figlio di Giacomo e Maria Cecilia Spinola, appartenente alla
nobile casata dei Doria Lamba dalla quale provennero ben quattro dogi della
repubblica di Genova, ha un'infanzia travagliata segnata a cinque anni dalla
morte del padre. L'uscita dalla famiglia delle tre sorelle lo fa rimanere solo
con la madre che influenza negativamente il suo carattere melanconico ma
vivace, il suo desiderio di virtù e Gloria. La madre, che egli accusa esser
stata de' miei errori la prima e principal cagione, si era disinteressata del
figlio limitandosi ad affidarne l'educazione a filosofi bigotti che lo fano
crescere con la paura delle malattie e della morte, che gli viene indicata dai
suoi educatori gesuiti come un positivo castigo all’uomino re. Divenne
quindi vivace e grazioso nelle conversazioni affabile con tutti, facile e
condiscendente con gli amici e allo stesso tempo pieno di sé e fatuo divenendo un
Petit Maitre disinvolo e alla moda, e prende per idea di virtù vera ed esistenta
ogni vanità e molte volte prende con l’idea di virtù il vizio ancora! Pieno di
sé e fatuo. Compì con la madre il “grand tour” – Firenze, Capri, Girgentu --
dei ‘viri’ ben nato dal quale ne usce libero dall’inibizione religiosa, ma con
un nuovo abito di un anima viziosa, la quale lo fa mirare come idea di virtù la
rilassatezza nel senso, la prepotenza con i deboli e la vendetta. Tornato a
Genova, la trovò bombardata dal mare dalle navi di Luigi XIV. In
quell'occasione conosce il conte di Melgar che l’avvia nell’arte militare e lo
introduce nel giro del patriziato mondano. Innamoratosi fortemente di una
meritevole donna che muore poco tempo dopo, cadde in depressione e per
distrarsi dal dolore riprese i suoi dispendiosi viaggi. Ridotto in ristrettezze
economiche si reca a Napoli per recuperare certi suoi crediti ma dove lottare per
districarsi dalla palude di leggi e cavillose procedure al punto che si mise a
studiare filosofia con un certo profitto per ottenere dal tribunale quanto gli
spetta. La sua fama di spadaccino gli fa guadagnare la simpatia del
patriziato napoletano che ritiene massime di cavagliero che fusse atto di
disonore e di vergogna il non punire un uomo a sé inferiore quando si ha da
quello qualche offesa ricevuto, e che il perdonare generosamente fusse
vergogna. Ma poscia era massima d'estrema vergogna il non chiamare
a duello un nobile a sé uguale quando da quello si era qualche offesa ricevuta.
Si diede quindi a duellare per qualsiasi puntiglio cavalleresco tanto da essere
messo in prigione aumentando così la sua fama di duellista e vendicativo presso
la nobiltà locale. Comincia a disgustarsi di questa sua vita fatua e falsa
trasformandosi in filosofo metafisico ed entrando nella cerchia degli
intellettuali cartesiani e gassendisti che caddero sotto l'attacco della Chiesa
preoccupata che il loro sensismo approdasse a un conclamato materialismo. La
posizione della Chiesa fu esplicitata dal grande processo contro gl’ateisti,
quegli intellettuali che si erano illusi di poter modernizzare la dottrina
cattolica. Si schierò con questi frequentando il salotto filosofico Caravita
che si era già battuto contro l'Inquisizione e che era divenuto il centro di
diffusione della filosofia cartesiana. Qui D. ha modo di conoscere il protetto
di Caravita, quel VICO (si veda) che scriverà del genovese che «fu il primo con
cui poté cominciare a ragionar di metafisica nella quale si intravedevano «lumi
sfolgoranti di platonica divinità. Per organizzarsi contro le polemiche dei
tradizionalisti, sostenuti dalla Chiesa cattolica, il Caravita pensò di fondare
un'associazione di intellettuali modernisti che, dopo diverse difficoltà, finalmente
vide la luce col nome di Accademia Palatina e che annoverava fra i 18 soci
fondatori anche Doria che pronunzia in quella sede lezioni concernenti la
teoria politica (Sopra la vita di Claudio imperadore) dove sostene la
superiorità della nobiltà per virtù e non per nascita, e dove contestava la
base valoriale dell'aristocrazia fondata sull'uso delle armi (Dell'arte
militare, Del conduttor degl'eserciti, Del governatore di piazza, Della
scherma). La guerra, scriveva D., non e un privilegio della nobiltà di spada ma
un'attività che richiede l'applicazione di una tecnica e il comando affidato a
ufficiali competenti nel dirigere l'animo umano (Il capitano filosofo,
Napoli) Pubblica la Vita civile e l'educazione del principe, criticata da
alcuni per alcuni fraintendimenti sul pensiero di Cartesio. Non ha inteso il
Cartesio, o ad arte ne tronca o perverte
il senso. Critica la politica di Tacito e Machiavelli sostenendo che questa va
basata non sopra l'idea degli uomini quali sono ma sulla virtù, il giusto e l'onesto».
Lo Stato anda guidato, come dettava l'insegnamento platonico, dal filosofo facendosi
così sostenitore, secondo le nuove idee riformatrici che cominciavano a
circolare in Europa, di un assolutismo moderato nel Regno di Napoli. Doria
cominciò ad interessarsi a temi scientifici mandando alle stampe le sue
Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili e de' corpi
insensibili (Augusta) e una Giunta d iM. Doria al suo libro del Moto e della
Meccanica. Opere queste, dove si critica il metodo di GALILEI (si veda) e si
mette in discussione la distinzione cartesiana fra res extensa e res cogitans
in nome del principio neo-platonico dell'Uno immateriale, che non ebbero il
successo sperato e vennero anzi aspramente criticate da più parti. Divenne un
personaggio ambito da nobili e femmes savantes che lo invitavano nei loro
circoli culturali dove riceve numerosi attestati di stima. Per ricambiare le
nobili dame, sue discepole, pubblica i Ragionamenti ne' quali si dimostra la
donna, in quasi tutte le virtù più grandi, non essere all'uomo inferior. La
donna ha gli stessi diritti naturali dell’uomo e puo governare e fondare grandi
imperi ma non e adatte fisiologicamente a formulare leggi per le quali occorre
una sapienza storica e filosofica. Cartesio infatti aveva errato nel credere
che Dio avesse dato a tutti eguale abilità per intender le scienze, mentre iddio
non ha ugualmente a tutti gli uomini distribuito e perciò vediamo che molti non
son capaci nelle scienze. Quindi la donna che egli ammirava moltissimo e che lo
ricambiavano con tante lodi, deve tuttavia accontentarsi di poter dirigere lo
stato ma non puo essere legislatrice. Un rapporto questo con l'altro sesso che
rimase problematico per Doria che non volle mai sposarsi ritenendo il
matrimonio una legge dura che non trova precisa corrispondenza nella teologia.
Si considera ormai un filosofo metafisico e mattematico che adottando il
platonismo ha pressoché distrutto li saggi di filosofia di Locke ed in parte
ancora la filosofia di Cartesio. Compiva un capovolgimento delle sue
convinzioni moderniste passando nel campo degli antichi quando il suo Nuovo
metodo geometrico (Augusta) e i Dialoghi ne' quali s'insegna l'arte di
esaminare una dimostrazione geometrica, e di dedurre dalla geometria sintetica
la conoscenza del vero e del falso (Amsterdam), furono aspramente criticati da
parte della rivista Acta eruditorum. Ancora più aspre le contestazioni ricevute
a Napoli che gli costarono un sonetto denigratorio che così recitava. Di rispondere
a te nessun si sogna /de' nostri, e strano è assai che Lipsia mandi/ risposta a
un uom che 'l matto ognun lo noma. Illustrazione
alla recensione pubblicata sugli Acta Eruditorum al Capitano filosofo. Gl’Oziosi,
dove profuse tutte le sue energie nel criticare i moderni, seguaci del pensiero
filosofico di Locke, dell'Accademia delle scienze di Celestino Galiani che
aveva detto di lui «il Doria ha ristampato tutte in un corpo le sue
coglionerie. Con l'avvento del re riformista Carlo III di Borbone nel Regno di
Napoli, si trova completamente isolato col suo platonismo pratticabil che continua
a difendere scrivendo “Il Politico alla moda”. Si rendeva ormai conto di come
fosse irrealizzabile il suo ideale di un governo ad opera del concetto di
“sovrano virtuoso” e di “filosofe legislatore.” Il magistrato, il capitano, il
sacerdote e tutti gli ordini che governano hanno diviso la filosofia dalla
politica per unire alla politica la sola prattica; ormai i principi scriveva vogliono
governare lo stato colla politica del mercadante, e non con la politica del
filosofo. Constatava come vi fosse ormai una generale crisi dei valori perché
in questo nostro tempo si corre dietro solamente alla perniciosa filosofia di
Locke e di Newton e si pratica solamente la politica mercantile. Completamente
ignorato dall'ambiente intellettuale, D. malato e in difficoltà economiche
muore indicando nel suo testamento la volontà che fosse pubblicata a spese di
un suo cugino, a saldo di un debito da questi contratto, l'opera “Idea di una
perfetta repubblica”. Quando il saggio e infine edito fu condannato dai
revisori ad essere bruciato per il suo contenuto contro Dio, la religione e la
monarchia. In realtà contesta il celibato ecclesiastico, l'indissolubilità del
matrimonio, la castita, l'eternità delle pene inflitte ai dannati e l'ideologia
etico-politica dei gesuiti. Il governo perfetto doveva essere a imitazione
di quello della Roma repubblicana, perché posto il governo in mano agli uomini,
è forza che sia moderato da un magistrato ordinato alla difesa del popolo
contro la tirannia. Gli unici a esecrare il rogo del saggio furono proprio i giuristi
napoletani difendendo i libri di quel savio e cordato vecchio di D., di cui s'infama
la venerata memoria. E al centro del saggio “La distruzione della fiducia e le
sue conseguenze economiche a Napoli”. Si argumenta che il governo nell'azione
di depredazione del Regno di Napoli ha spogliato i loro sudditi della virtù e
della ricchezza, introducendo al posto loro ignoranza, infamia, divisione e
infelicità. Altra azione, che si rivelerà in seguito disastrosa per la società
napoletana e in genere per il Mezzogiorno, fu lo smantellamento dei rapporti
inter-personali di fiducia tra le diverse classi, necessari per lo sviluppo dei
commerci e dell'iniziativa privata e l'introduzione di una cultura dell'onore
attraverso l'infoltimento dei ranghi nobiliari, il rafforzamento
dell'Inquisizione, l'inasprimento della segretezza dell'attività di governo,
l'incremento delle cerimonie religiose e di devozione ritualizzata, l'aumento
della diseguaglianza davanti alla legge e infine l'indebolimento apertamente
perseguito del rapporto armonioso che si era creato in passato tra i diversi
ordini del Regno: tutto ciò al fine di scoraggiare, minando la fede pubblica,
l'ascesa di una classe imprenditoriale-commerciale che avanzasse i propri
diritti e rompesse l'equilibrio dei poteri tra la corte e il patriziato locale
che gli spagnoli intendevano mantenere. Tutti questi fattori, lesivi di quel
rapporto di fiducia tra le classi necessario per l'avvio e il consolidamento
dell'attività di co-operazione e di intrapresa economica, non tarderanno a
produrre effetti duraturi sulla società meridionale, non solo a livello
mentale-culturale, e di converso a livello economico, costituendo uno dei
fattori prodromici dell'arretratezza socio-economico-culturale del Mezzogiorno
d'Italia. Altre opere: “Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi
sensibili, e de' corpi insensibili, In Augusta [i.e. Napoli?, Hopper); “Considerazioni
sopra il moto e la meccanica de'corpi sensibili, e de' corpi insensibili.
Giunta, In Augusta [i.e. Napoli?, Daniello Hopper; Dialoghi, Amsterdam, Esercitazioni
geometriche, In Pariggi, Duplicationis cubi demonstration” (Venezia); “Discorso
apologetico” (Venezia); “Soluzione del problema della trisezione dell'angolo”
(Venezia); “Vita civile” (Napoli, Angelo Vocola. Pierluigi Rovito, Dizionario
Biografico degli Italiani. “L’arte di
conoscer se stesso, in De Fabrizio, Manoscritti napoletani. Autobiografia, in Cristofolini,
Opere filosofiche, R. Ajello, Diritto ed economia, Vita civile, ed. Augusta, S.
Rotta in Politici ed economisti del primo Settecento. Da Muratori a Cesarotti,
V, Milano-Napoli, L'arte di conoscere se stesso. Eugenio Di Rienzo, GALIANI,
Celestino in Dizionario Biografico degli Italiani, V. Ferrone, Scienza natura
religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli,
Manoscritti, La Politica mercantile, Manoscritti, Idea di una perfetta repubblica "accorato" Ajello. Segnatamente: Del commercio del Regno
di Napoli, in E. Vidal, Il pensiero civile di D. negli scritti inediti,
Istituto di Filosofia del diritto dell'Roma; Della vita civile, Torino; Massime
del governo spagnolo di Napoli, V. Conti, Guida, Napoli Contenuto nel volume
miscellaneo Gambetta, Le strategie della fiducia, Einaudi, Torino, D. Gambetta,
Rovito, «DORIA, Paolo Mattia», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scazzieri, Il contributo italiano alla
storia del Pensiero Economia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Belgioioso,
Il Contributo italiano alla storia del Pensiero Filosofia, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Vidal, Il pensiero civile di D. negli scritti
inediti, Istituto di Filosofia del diritto dell'Roma. Fondatore di Roma e primo
re de' romani. Romolo fu il primo re de’ romani e padre della romana republica.
Uomo primieramente d’ardentissimo animo e per le armi grande. E così
fatto certamente l'aveva disposto la fortuna a quello che dovea seguire.
Per la cui opera, in tratante minaccie di vicini, di spinose
montagnie surgesse il fondamento dello’mperio che dovea crescere infino al
cielo. Perchè non si potea porre sicuramente tanta grandezza in
debole fondamento. Sì gran cosa richiedea terra salda e duca d’alto
animo. E così e, che dove prima a pena e assai erba per lo armento d’Ercole,
e dove prima a pena solea essere assai fronde per le capre di
Faustulo, in quello luogo puose la fortezza di tutte le terre e la somma
signoria delli uomini. Dunque costui CON REMO SUO FRATELLO (e insieme con
Rea Silvia, la quale e chiamata Ilia, madre senza dubio) creduto o fitto FIGLIUOLO
DI MARTE, incontanente com’elio nacque prova la crudeltà di Amulio, re
dell’albani, e non solamente contro alla madre, ma eziandio contro a
sé e CONTRO AL SUO FRATELLO. Dal quale Amulio e comandato eh' ellino fossero
gittati NEL TEVERE. E a caso elli sono liberati, o che fosse per divina
provedenzia, la qual cosa è lecito di credere dello imperio che
dovea essere sì grande, quella provedenzia apparecchiante non
sperato cominciamenlo alle grandissime cose. Soperchiando il fiume a caso
le ripe e non potendosi andare a quello, furono gittati quelli
fanciulli presso alla ripa; e, partendosi li famigliari del re, i quali li
avevano gittati, rimasono salvi. A questo luogo, TRATTA DAL PIANTO DI
QUESTI FANCIULLI, venne una lupa (o eh' ella fosse vera o ch'ella
fosse cosa finta, dell'una e dell' altra è nominanza), e, com’ella avesse
compassione, venne a questo luogo, del cui latte elli sono nutricati, traendo
con li labri il latte delle tette della detta fiera, infino che
furono trovati da Faustulo pastore del re, il quale di sopra avemo nominato, e
la lupa similmente, essendo discresciuto il fiume; e in fino agli
anni della pubertà coli' amore del padre sono nutricati. Ma allora
più di dì in dì il suo vigore si mostrava e per effetto diventava Famoso. Già sono
cari da ogni parte e ampiamente sono terribili, ogni cosa ardivano; già il suo
notricatore, per le opere informato, comincia a fermarsi in quella
openione ch'egli aveva pensalo, cioè quelli essere figliuoli del
re. Questo celato per alcuno tempò, finalmente apparve: preso Remo da'
famigli del re e datogli pena, per consolare la ingiuria fu dato a NUMITORE
suo avolo per parte di madre, nel cui terreno tramendue i frategli
avevano fatte correrie. Il quale veduto, non mosso ad ira, com'è usanza, per l'
ingiuria ricevuta, ma mosso verso di quello con una nascosa dolciezza, e
udito ch'elli sono due, considerato da l'una parte l'etade di quelli, da
l'altra l'aspetto nobile e non di pastori, vennegli a memoria i suoi
nipoti; e, dimandando pianamente delle circostanzie, trova poco
meno che costui e l' uno de' suoi nipoti, e di questo non dubita. Però
elio il tene in più libertà, e non come preso ma come suo, come veramente
elio e. E questa e più diritta via a distruzione del re, perchè
manifestato a Romolo non solamente la condizione del presente stato del
fratello, ma la nazione di tramendue nascosta infino a quello tempo;
ammonendoli colui, ch'e tenuto padre, ch'elli non sono suoi figliuoli ma sono
di schiatta reale; e, spostali per ordine l’ingiuria di quegli e
con questa l’ingiuria di suo avolo e di sua madre, fatto Romolo più
animoso, conosciuto il fatto, dispuosesi non solamente a LIBERARE IL
FRATELLO, ma vendicare sé e '1 fratello e l'avolo e la madre, non
manifestamente perchè era dispari in possanza, ma pianamente mandati
alcuni giovani di qua e di là, i quali si trovassono a una ora nella
casa del re. Così disposti gl’agguati, e a tempo accorrendo Remo, corsono
contra Amulio, il quale non si guarda e non pensa sì fatto
pericolo. Morto Amulio, NUMITORE fratello di quello, e innanzi cacciato
da lui, fu ristituito nel regno, essendo allegro, non meno per la
condizione de'trovati nipoti, che per avere acquistato il nonne sperato
regnio. Da poi, perchè elli erano di grande animo, e '1 regno di suo
avolo gli paree picciolo, lassano Alba all'avolo. E, amando il luogo della sua
puerizia ovvero del suo pericolo, procurarono di fondare nuova terra in
quello luogo. E così, per buono agurio, edificarono aspera e, acciò
ch'io dica più propriamente, pastorale casa in SUL MONTE PALATINO. E fu posto
alla terra il nome di Romolo solamente, essendo vinto il fratello nello
agurio: il quale nome e temuto poi al mondo da li popoli e dai re.
Poi, o che tra quelli fosse nata discordia, o che fosse perchè egli avesse
dispregiato il comandamento del fratello, Remo, avendo passato il nuovo
muro, E MORTO. O che e per cupidità della signoria, o per rigore di
giustizia, la credenza è varia nelle cose antiche. Romolo, avendo
presa la signoria, ordina sacrifici della patria e forestieri, e prende
abito di re e ornamenti, e ordina XII littori, e compone la legge.
Solo a fermezza del popolo e fondamento di pace e di concordia tre cose
sommamente li pare di provedere : il consiglio, e io accrescere della
cominciata città, e la durabilità; perchè era in picciola terra pochi abitatori.
E per questo gli e speranza di brevissimo tempo, mancando la
cagione del generare de' figliuoli. Dunque primieramente furono eletti C
antichi al Senato, chiamando questo ordine dalla etade, perchè il
nome de' padri e detto dallo amore e da la cura della republica. Secondo,
intra due boschi fu posto uno tempio chiamano asilo -- i greci il
chiamano santo -- il quale stando aperto, grande turba incontanente venne
di vicini paesi; la terza cosa parea che si dove fare con matrimoni -- perchè
soli i maschi non poteano durare se non una etade -- ; la qual cosa,
perchè e negata da' vicini superbamente e vituperosamente, si fa per forza e
per ingegnio. Perchè in questo mezzo, non mostrando l'ira e il
dolore d'essere rifiutato, il re apparecchiò di fare solenni giuochi a Nettunno,
e comanda di fare dinunziare il dì per li popoli vicini. II quale poi che
sopravenne, molti maschi e femmine delle terre vicine a Roma vennero per
vedere i giuochi, e non meno per cupidità di vedere quella nuova terra
quasi nata di subito. Nel mezzo de’ giuochi, essendo ogni uomo attento
con gli occhi e con l'animo, diliberatamente SONO PRESE TUTTE LE FANCIULLE,
non a fine di sua vergognia, ma di tenerle per mogliere e per avere
figliuoli. Dunque confortate con buone parole, tra lo isdegno e le
lacrime, pelle lusinghe di quegli li quali l'aveano prese, prima Romolo,
e poi gli altri, una per uno ne tolseno per moglie: e questo e cagione e
cominciamento di molte battaglie. I padri e i parenti di queste
fanciulle, lamentatisi della forza e della malvagità de' suoi osti, dai
quali ellino, invitati a giuochi, sono stati offesi per gravissima
ingiuria, incontanente uscirono fuori della terra e tornarono a
casa; e, moltiplicando le lamentanze, aggravarono l'offesa, e pigliarono
l'arme e apparecchiaronsi di fare la vendetta. E di lutti i popoli
si fece una raunanza a Tazio re de' sabini, perchè questi avevano più possanza
e aveano ricevuto più ingiuria. Ma perchè la presuntuosa ira non può
indugiare né ricevere consiglio, e perchè l'apparecchiamento alla guerra
pare pigro per rispetto dello ardore dell'animo, ciascheduno, non aspettando
l'uno l'altro, andarono alla battaglia. E innanzi a tutti i ceninesi con
l' oste corsero nel terreno de' romani : contro ai quali venendo Romolo,
mise in rotta i nimici, e UCCIDE ACRONE, re di quelli, venuto alle
mani con lui in singolare battaglia; e, con lieve assalto, prende la
terra di quelli, la quale era impaurita per la morte del re e per
la fuga del popolo. E, tornando a Roma vincitore, porta in Campidoglio
l'armi del re ed edifica lo primo tempio in Roma e sacrificollo
sotto il nome di GIOVE Feretrio -- dove i capitani de' romani non
portano, quando sono vincitori, se non la preda de' capitani vinti
in singolare battaglia, la quale elli chiamano grassa robarìa. Dunque
in quello luogo egli appicca l'armi del morto re, per esempio del
tempo da venire, rado ma grande dono di quelli che venieno dietro.
I secondi che corsono nel terreno de'romani furono gli atennati; e questi sono
vinti e perderono la terra. Ma per prieghi di Ersilia, moglie di Romolo, la
quale e una di quelle sforzate che porta a gli orecchi del re i prieghi e
i desideri dell'altre, ricevuti a misericordia, venneno ad abitare a Roma.
Da poi i crustumini, movendo elli la guerra, sono vinti
leggiermente, crescendo ogni dì la virtù di Romolo; e, venuti a Roma
quelli chi sono vinti, crescendo Roma per li danni de'nimici. E più a
fare colli sabini, i quali quanto più tardi tanto più
maturamente si moveano: presa la rocca di Campidoglio, per
tradimento d'una donzella figliuola di Spurio Tarpeo, il quale era
castellano della delta rocca, dal quale ancora è nominato quel
monte in mezzo di Roma, e dubiosa battaglia, combattendo quelli dal
luogo di sopra. Nella quale battaglia mancando Osto Ostilio, il quale e
arditamente per la parte de' romani infino ch'elio puo, la gente de'
romani tutta si cessò in dietro, cacciando indietro eziandio Romolo il
quale li contrasta. E elli, non sperando già più della forza umana, dirizzando
al cielo le armate mani, chiamando Giove com' elio e presente, pregando o
che gli togliesse la vergogaia del fuggire vilmente, o eh' elli
fortificasse gli abbattuti animi de' suoi con celestiale aiutorio, fa
voto di fare in Roma uno secondo tempio a GIOVE STATORE, secondo
che piace agli scrittori; e, quasi ricevuta la promissione dal cielo,
fatto più ardito ristoroe con sollecita mano la battaglia già caduta,
dicendo a'suoi chiaramente che Giove comanda così. Per questo la
sua gente, seguendo lo esempio del suo re e il comandamento di Giove,
torna contro a'nimici, da' quali non speravasi ch'egli tornassino;
e combattendo innanzi a gli altri aspramente Romolo, essendo già mutata
la condizione della battaglia, quelli che incalzavano cominciarono
a fuggire. Intra i quali MEZIO CURZIO, secondo dopo il re de'
sabini, uomo famosissimo e in quello di 'nanzi a tutti gli altri in fatti
e in virtù molto ardito, non sostenne il furore. Una palude, ch'era
presso, e pericolo e salute a lui, nella quale spaurito il suo cavallo
furiosamente salta con grande paura de' suoi, ma confortandolo elli
e mostrandogli la via, usce fuori. E di questo nacque il nome di
quella palude, cioè, lago Curzio. Uscitone fuori costui, gli animi
crebbono a' suoi, e ancora, bene che con varia fortuna contro
a' sabini, corsono insieme. E, sendo in questo stato, la pietà trova via
di non sperata pace. Combattendo dall'una parte i mariti, da l'altra
parte i padri, vennero tra questi quelle eh' erano state sforzate;
e, non considerando sé essere femmine, non temendo il pericolo, con prieghi
pieni di lagrime e misero abito, pregarono che fosse posto fine
alla guerra. E se voleano pure andare dietro, volgessono le spade
più tosto contro a quelle, le quali erano cagione della guerra, che,
uccidendosi insieme, bruttassono se di presente e per lo tempo a
venire bruttassero li figliuoli di quelle -- dall'una parte essendo
i figliuoli, dall'altra essendo i nipoti --- e dessono eterna infamia
a quelli che ancora non poteano peccare. Dall' una parte e dall' altra si
piegano gli animi e l'ira s'abbattè e, che maraviglia è a dire,
subitamente nell'una oste e nell'altra fu arrestato il romore
dell'armi e il gridare de’ combattitori, sì umile ammirazione e intrata
per quelle rabbiose menti! E non potè lungamente stare nascosta: le
affezioni mutate incontanente uscirono fuori, e lo riposo segue a
la pietà, e la pace segue al silenzio; la concordia e fatta toccandosi i re le
mani, e Roma maravigliosamente crescette per lo venire de' sabini. E non
meno crebbe Y amore dell'una parte e dell'altra verso di quelle valenti
donne, e innanzi a gli altri di Romolo, il quale rendè loro grandi
e debiti onori. Ancora restano due guerre. L'una colli fìdenati li
quali, temendo la potenzia della signoria di Roma, la quale cresce, e
avendola sospetta, per sé fecero la pruova che gli altri aveano fatta.
Entrando elli nel terreno de'romani come nimici, Romolo li anda incontro,
e puose il campo non lungi dalla terra de' nimici; e, mostrando
maliziosamente temere, conduce i nimici nelli agguati, e di questo e una
non proveduta paura e uno subito fuggire, in tanto che, mischiati insieme
i vinti e i vincitori, le guardie delle porte appena discerneano i
suoi cittadini da’ nimici; e, entrati dentro, e presa la terra. L'altra
guerra e con quelli da Veio, li quali si mossono per amore de’ fìdenati
e per odio de’ romani, e questi, vinti in campo, e guasto il paese,
dimandando pace, fecero triegua per cento anni, perdendo parte del suo
terreno. Questi furono i cominciamenti di Romolo, questo e il corso di
sua vita e l’ordine de’ suoi fatti; per li quali, appresso quella salvarla
generazione d' uomini e non ancora assai ammaestrati animi del
vulgo, egli merita essere creduto avere alcuna divinità per lo padre e
per se. Uomo al quale non manca animo né ingegnio, in battaglia
glorioso, in casa savio: ordina centurie del popolo e di cavaglieri,
acciò che in ogni tempo di pace e di guerra elio e niuno nega
ch'elio non e inolio amato. Le opinioni di questa cosa sono varie.
Alcuni dicono ch'elio e portato in cielo e posto nel concilio delli dei.
Ma questo è gran salto a uno uomo armato e gravato di peccati,
bagniato di sangue e ignorante del vero Iddio e della via del cielo. Ma
lo ardente e non temperato amore sì fa credere ogni cosa. Dunque,
achetata la tempesta, essendo risposto da' senatori -- eh' erano stati
d'intorno -- al popolo -- disideroso di vedere il suo re e a pruova
cercandolo -- eh' elio e andato in cielo, affermando uno eh' e' lo ha
veduto, e creduto. E quello e
GIULIO PROCULO, uomo di grande nominanza appresso a' suoi, secondo
che si trova, e di grande santitade e, che manifesto è, di gran nobilitade,
come colui che, nato di re albani, venne a Roma con Romolo ed e cominciamento
della giente de’ Giuli -- il quale, ardito di venire in palese, da parola
d'allegrezza al popolo eh' e in tristizia, dicendo che in quello
medesimo dì Romolo, discéso da cielo in abito più che d'uomo, e stato con lui,
affermando eh' ha comandato a lui, con grande tremore non ardito di
guardare la sua facia, questo,
cioè eh' egli dicesse a' suoi cittadini che onorassino l'arti delle
battaglie, essendo certi che ogni potenzia umana è diseguale alla
sua in fatti d'arme; e che la sua città, così piace alli dei, sarà
capo e donna di tutte le terre. E, dette queste parole, levatosi da
gli occhi monta in cielo. E queste cose sono credute a GIULIO il quale le
conta e giura, e lo dolore della morte e mitigato con lo consolamento
della divinità, e l'ira, la quale il popolo ha concetta per la morte
di sì caro re, e umiliata: così ogni uomo crede leggiermente quello
ch'elli desidera. Ma altri pensano che e morto da' senatori, veduto il
buon destro per la tempesta del tempo, e ch'elli il nascosono
nel pantano della palude, acciò CHE NON APARE ALCUNO SEGNIO DELLA SUA
MORTE. Questa, chente dice Livio, è oscura fama, ma, come piace a
chiarissimi scrittori, certamente è vera; bene che, come dice quello nel
medesimo luogo, quell' altra fu nobile per l'ammirazione dell'uomo
e per la presente paura. Puossi forse credere ancora quello che alcuni
hanno pensato, eh' elio non e portato per divinità in cielo né in
terra morto come uomo, ma eh' elio fu morto per la lempestade e per
lo furore della saetta -- la cui forza è ineffabile, e l'
operazione è nascosa --. E questo essere avvenuto a tutti quegli sono con lui,
i quali, quanto elli sono più presso, tanto sono smarriti più e
impauriti. E la libertà è di molte mani nelle cose dubbiose, ma la verità
è una sola, e questa è profondamente nascosta della morte di Romolo
come in molte altre cose. Paolo Mattia Doria. Doria. Keywords:
co-operazione, duelo – duel, the duelists, cooperation – il sensismo, roma
repubblicana, la aristocrazia romana, Romo, Romolo, aristocrazia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Doria” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Dosseno: la ragione
conversazionale alll’orto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. A follower of the sect of the Garden.
Seneca mentions a monument to him with an inscription testifying to his wisdom.
Luigi Speranza -- Grice e Dottarelli: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale di Musonio – scuola di Bolsena
– filosofia bolsenese – filosofia viterbese – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Bolsena).
Filosofo bolsense. Filosofo viterbese. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Bolsena,
Viterbo, Lazio. Grice: “I like
Donatelli; he is an Etruscan, from Balsena, and it’s only natural that he is
obsessed with the one and only Etruscan philosopher, Musonio!” Si è formato alla Facoltà di Filosofia dell'Perugia,
dove ha studiato con Cornelio Fabro e si è laureato con una tesi sul dibattito
epistemologico del Novecento (Popper, Feyerabend, Lakatos, Kuhn) sotto la guida
di Baldini. Si è poi specializzato in Filosofia all'Urbino, dove ha avuto come
maestri Italo Mancini e Salvucci, con cui ha discusso una tesi sulle
implicazioni epistemologiche della filosofia di Kant. Ha insegnato nei Licei ed
è stato docente a contratto di Filosofia della scienza, Filosofia morale,
Bioetica nelle Università della Tuscia, di Macerata e Firenze. Ha sempre
coniugato il lavoro didattico e di ricerca con l'impegno civile. Per 13 anni
consecutivi è stato Sindaco della città di Bolsena (VT). Eletto la prima volta
con una lista civica di sinistra, è stato successivamente confermato. Direttore
generale della Provincia di Viterbo e in tale veste, oltre al coordinamento e
alla sovrintendenza della gestione complessiva dell’Ente, ha avuto la
responsabilità diretta della formazione e organizzazione delle risorse umane,
del percorso di certificazione EMAS, del processo Agenda 21 locale e del
progetto Arco Latino, strumento per la definizione di una strategia integrata
di sviluppo dell’area del Mediterraneo. Con Picone, filosofo e psicoanalista
junghiano, nel 2004 è stato cofondatore della Società Filosofica
Italianasezione di Viterbo, di cui è attualmente vicepresidente. Nel ha costituito il Club per l’UNESCO Viterbo
Tuscia, di cui è presidente. I suoi interessi teorici si sono rivolti
all'epistemologia, all'etica, alla filosofia politica e alla pratica
filosofica. In Popper e il gioco della scienza ha svolto un'analisi critica
dell'epistemologia falsificazionista, mostrando come l'ultimo Popper, pur
rendendosi conto della coerenza dello sviluppo evoluzionistico della propria
epistemologia, arretrasse e resistesse dal trarne le estreme conseguenze,
restando fedele al paradigma del razionalismo critico, difendendolo sino in
fondo, ma con ragioni sempre più deboli. Nei suoi lavori su Immanuel Kant (Kant
e la metafisica come scienza, Abitare un mondo comune. Follia e metafisica nel
pensiero di Kant) ha evidenziato sia il proposito kantiano di fondare come una
scienza rigorosa la metaphysica generalis, prima parte della metafisica come
era intesa nella tradizione razionalistica tedesca, sia il carattere che viene
ad assumere la metaphysica specialis, dopo la critica: un pensare congetturale
e analogico che è anche prassi, vita. In questa prospettiva la filosofia
kantiana viene valorizzata per la sua peculiare dimensione "cosmica",
come «scienza della relazione di ogni conoscenza e di ogni uso della ragione
umana con lo scopo essenziale di essa», e viene ricollegata alla filosofia come
era praticata soprattutto nell'antichità: arte di vivere, esercizio spirituale.
Il filosofo pratico, il maestro di saggezza tramite l’insegnamento e l’esempio,
è così «l’autentico filosofo», che, nel quadro della complessiva ed originale riorganizzazione
kantiana dell’orizzonte utopico di derivazione platonica e rousseauiana,
diventa esso stesso un ideale regolativo, al quale colui che più si è
avvicinato è stato Socrate, per via della sua esemplare coerenza di vita. In
Freud. Un filosofo dietro al divano, il lavoro del fondatore della psicoanalisi
viene letto come un episodio della lunga tradizione che ha interpretato la
filosofia come "medicina per l'anima". Il rapporto di Freud con la
filosofia si nutre di una profonda ambivalenza: da un lato un'irresistibile
attrazione; dall'altro quasi la necessità di rassicurare se stesso e gli altri
su una propria «incapacità costituzionale» (Autobiografia) alla pura
speculazione e sulla sua ferma volontà di sottrarsiproprio lui, formidabile
affabulatoreal fascino delle narrazioni filosofiche. La riflessione di Freud
non trascura nessuna delle dimensioni fondamentali della ricerca filosofica.
Neanche quella teoretica, volta a costruire visioni complessive dell’uomo e del
mondo; quella che gli appare la più rischiosa, perché la più astratta, la più
esposta alla frequentazione della metafisica e della religione, sempre in
procinto di cadere nella trappola della verità assoluta. Più a suo agio Freud
si sente invece nel lavorare lungo un'altra linea d’impegno tradizionale della
filosofia: la riflessione critica sui saperi e sulle pratiche umane. Nell'opera
di smascheramento dei meccanismi con cui le ideologie e le prassi individuali e
sociali ammantano la loro miseria “umana, troppo umana”, le potenzialità della
psicoanalisi si esprimono al meglio. Masecondo l'interpretazione di D. la
fatica intellettuale di Freud trova la propria collocazione più appropriata
nella dimensione della ricerca filosofica che interpreta se stessa come
un’attività in cui l’uomo si dedica alla cura e alla fioritura di sé, alla
coltivazione della propria umanità. Questa dimensione della filosofia come arte
di vivere è stata approfondita da D. attraverso la ricostruzione della vita e
del pensiero del filosofo stoico Musonio Rufo nella monografia su Musonio
l'Etrusco. La filosofia come scienza di vita. Testimonianza della vitalità
della tradizione culturale etrusca in epoca romana, la filosofia di Musonio è
espressione significativa di quel crogiolo di idee ed esperienze di ricerca
della felicità che è l'ellenismo della tarda antichità, in cui si rispecchierà
poi la civiltà medievale e soprattutto quella umanistico-rinascimentale.
Musonio ha dato il tono di fondo all'impegno prevalente nella tradizione
filosofica della Tuscia: ricerca di una scienza di vita, studio di perfezione,
imitazione di Dio, àskesis, esercizio per sviluppare la conoscenza e la
coltivazione di sé, finalizzata alla fioritura dell’autentica esistenza umana.
L’adesione del filosofo di Volsinii allo stoicismo è decisamente sotto il segno
di Socrate: la filosofia può proporsi come arte regia in quanto, in primo
luogo, è arte di governare se stessi. L’ideale dell’autosufficienza del saggio
si traduce nella predilezione per l’agricoltura, come attività più appropriata
per il filosofo. «La terra in effettiaffermava Musonioricambia con i frutti più
belli e più giusti coloro che si prendono cura di essa, dando molte volte tanto
quel che riceve ed offrendo grande abbondanza di tutto quanto è necessario per
vivere a chi ha la volontà di faticare: e tutto questo con decenza, nulla di
ciò con vergogna». Ad un analogo sentimento di appartenenza al cosmo e ad un
profondo rispetto per gli altri esseri umani e per tutti i viventi, sono
ispirate anche le sue riflessioni sui rapporti sociali, sulla schiavitù, sulle
donne, sulla nonviolenza, sull'alimentazione, sul vestire e sull'abitare.
Riflessioni che Musoniosecondo la concorde testimonianza dei contemporaneiseppe
tradurre con coerenza esemplare in una efficace pratica di elevazione spirituale,
diretta a coinvolgere, insieme, il corpo e l’anima. Sobrietà, rispetto,
universalità e condivisione sono le parole di riferimento di una visione etica
che anticipa in modo sorprendente istanze fondamentali della moderna
sensibilità ecologista. La visione della filosofia come arte di maneggiare gli
assoluti è approfondita nel libro Maneggiare assoluti. Kant, Levi e altri maestri. La filosofias ostiene
D. anche quella più incline a farsi coinvolgere nell'impresa di estinguere la
sete dell’assoluto, contiene in sé, nella propria vocazione alla ricerca di una
comune verità mediante il dialogo, un antidoto indispensabile al rischio
distruttivo che può annidarsi in ogni tentativo umano, tanto umano di cogliere
la totalità, l’infinito, Dio. Anche le grandi tradizioni religiose, quelle che
da secoli sono impegnate a tracciare sentieri, trovare parole, celebrare
liturgie per saziare la fame di assoluto che agita il cuore e la mente degli
uomini non possono fare a meno di intessere un intenso dialogo con questa tradizione
di ricerca, soprattutto nei momenti cruciali, quando diventa urgente
addomesticare i dèmoni che una frequentazione inadeguata del sacro può evocare.
Dèmoni che portano il nome di fanatismo, intolleranza, totalitarismo e di cui
la storia degli uomini alla ricerca della verità assoluta, della totalità
autentica ed incondizionata, dell’esperienza integrale è purtroppo costellata.
La consapevolezza che anche la filosofia non possa dichiararsi storicamente
innocente, non cancella ma spinge a ritrovare sempre di nuovo la vocazione più
profonda di quest’originale forma di esercizio spirituale: una ricerca
appassionata del bene e della verità, capace di resistere alla suggestione del
possesso compiuto e di mantenersi in quella apertura alla possibilità dell’errore
che è presidio di autentica libertà per sé e per gli altri». Altre opere:
“Il gioco della scienza” (Massari); “Metafisica non scienza” (Massari);
“Abitare un mondo comune: follia e metafisica nel pensiero di Kant
(Introduzione al Saggio sulle malattie dell’anima di I.Kant” (Massari); “Utopia
e ragione come luoghi del incontro dell’ego ed il tu”, in Le ragioni della speranza” (La Piccola
Editrice); “L’assoluto e il relative” (Il Prato); “Musonio” (Annulli Editori); Freud.
Un filosofo dietro al divano, Annulli Editori,
Riverberi Di Tuscia e d’altro, Annulli Editori); “La farfalla dell’anima
e la libertà, Armando Editore. ETRUSCO MUSEO CHIUSINO DAI
SUOI POSSESSORI PUBBLICATO CON AGGIUNTA DI ALCUNI RAGIONAMENTI DEL
DOMENICO VALERIANI E CON BREVI ESPOSIZIONI DEL CAV.
ai© smagata POLIGRAFIA FIESOLANA A SUA ECCELLENZA IL SIG.
MARCHESE ANGELO CHIGI LUOGOTENENTE GENERALE E
GOVERNATORE DELLA CITTA E STATO DI SIENA CAVALIERE DELLA LEGION D’
ONORE DI FRANCIA CONSIGLIERE INTIMO ATTUALE DI STATO, FINANZE E
GUERRA CIAMBELLANO DI S. A. IMP. E REALE IL GRANDUCA DI
TOSCANA PRESIDENTE DELL’ ACCADEMIA DEI FISIOCRITICI E DELLA
DEPUTAZIONE DEL PIO DEPOSITO DI MENDICITÀ’ CHE LO SPLENDORE DELLA
FAMIGLIA NOBILISSIMA DA CUI DISCENDE CON TANTE EGREGIE DOTI SOSTIENE
ED ACCRESCE E DELL’ARTI LIBERALI CULTORE E FAUTORE CALDISSIMO SI
MOSTRA QUESTA RACCOLTA D’ETRUSCHI MONUMENTI CHIUSINI
CANDIDAMENTE E CON GIOIA 0. D. C. GL’EDITORI P. B. C. C.
F. S. C. A. M. P. F. D. ri si trova itna mirabile
abbondanza di marmi finissimi consistenti in colonne antiche di granito nero e
dell’ Elba e d’Egitto, di granito rosso del più compatto, di cipollino
orientale, e d’altri marmi duri e fin anche di breccia d’ E- gitto, di
che va ricca ed ornata la cattedrale, ove son poste in uso con antichissimi
capitelli di gusto squisito. Anche sparsamente per la città s’incontrano
in copia marmi duri o eretti in usi decorativi o depositati a parte e non
ancora posti in opera. Non mancano monumenti di romana scultura di raro
pregio in basso e tondo rilievo, tra i quali splende un sarcofago colla caccia
di Meleagro, ed una assai bella testa di Augusto nel palazzo episcopale,
e nelle case Paolozzi. Le antiche iscrizioni lapidarie son pur frequenti
per la città sparsamente. E poi sorprendente il numero dei sotterranei
che s’incontrano sotto le fabbriche del paese, e sono per ordinario
eseguiti di ben connesse pietre quadrate assai grandi. Rieca è pure la città di
avanzi di fabbriche antiche romane, parte delle quali si giudicano bagni.
Ed in vero non sembra che di tali pubblici comodi mancar dovesse un
paese, ove si trovano s or genti ab b ondantis s im e di acqua potabile,
e delle quali non ha guari e stata fatta bella scoperta dal nobile sig. Flavio
Paolozzi, in alcuni spaziosissimi sotterranei, da luì aperti, ove non ancora si
è osato avanzarsi attesa la co nfu sione dei loro sentieri numerosi e
feraci di sorgenti, che per via di canali antichi di piombo
somministravano per quanto apparisce, acque abbondanti e perenni all' antica
città. Ma ciò che maggiormente sprona la curiosità degli eruditi è
il visitare nel territorio di Chiusi gli etruschi sepolcreti, dove fu trovato
quanto di più mirabile conserviamo nei nostri musei, mentre non senza una
qualche almen lo tana emulazione col famigerato sepolcro di Porsenna
eretto un tempo in questa nostra patria, presero i suoi citladini
etruschi l'esempio di rendere le lor tombe in vario modo as- J-Ja
dovìzia dì antichi monumenti d’arte nell'etrusco città di Chiusi nostra patria,
non ha guari trovati, e nei nostri musei custoditi, ci ha fatto
sospettare che saremmo giustamente ripresi, qualora tal dovizia si tenessè fra
noi medesimi inosservata ed inutile all’ incremento della scienza archeologica.
A ciò credemmo sufficiente riparo di offrir libero accesso a chi volesse que’
monumenti osservar con a- gio nelle nostre private collezioni. Ma
riflettendo poi che la più gran parte degli eruditi, cui non è dato il
potersi recare personalmente a Chiusi, restavan privi del bene di conoscere
questo ramo speciale di etruschi monumenti: cosi a sodisfare anche questa
numerosissima classe di eruditi, non crediamo che trovar si potesse
miglior divisamento di quello da noi già compito, di far disegnare con
fedeltà massima i monumenti più ini ere s santi, che possediamo, e quindi a
nostre spese farli incidere in rame in dugento sedici tavole distribuiti,
raccomandandone l'edizione al cavalier Francesco Inghirami. A tale nostro
invito egli non solo ha cortesemente aderito c oli’ ine arie ar s ene per
nostro conto, ma si è compiaciuto inoltre di venir più volte da Firenze
a Chiusi per confrontare i disegni coi monumenti originali, e ci ha
fatto inoltre il dono da noi gradito delle brevi interpetrazioni che abbiamo
apposte a ciascun monumento, al che abbiamo aggiunto anche alcuni
ragionamenti, donatici dall’egregio sig. prof. Valeriani nostro concittadino. Chi
ha per le mani l’ opera che ora pubblichiamo, non creda già di conoscere,
p e' suoi rami, tutti i monumenti antichi di Chiusi, mentre n’ è assai più
dovizioso il paese. Qui ì ti dì quei di Tarqui ni a, fo rse perchè
ne fu inventore un diverso architetto. Nell’annoverar che facciamo de monumenti
antichi più insigni di nostra patria, non è da pretermettersi che in vicinanza
della città rèsta sotto una collina di tufo breccioso verso l Oriente un
cimitero antico di cristiani, eh’è noto sotto la denominazione di
Catacombe di s. Mus tio la Vergine e Martire, inclita patrona della città e
della diocesi- Questi sotterranei non solo servivano alla sepoltura de’
cristiani, e in specialità dei martiri, ma nel giorno di festa e nel
natalizio dei Santi vi si raccoglievano per celebrarvi i divini misteri,
ivi oravano, ivi stavano refugiati nel maggior impeto della persecuzione, a
scansar la rabbia dei tiranni, come descrive un nostro concittadino che di tali
sotterranei h a ragiona to eruditissimamente, L'abbondanza delle
cristiane iscrizioni che spettano a questorispettabile sotterraneo, notante dal
prelodato relatore, lo rendono anche più degno dell'attenzione d'ogni
erudito. Il libretto che a memoria di ciò egli ha scritto con somma eleganza
e dottrina, dove si trova incisa inclusive la piant a dell 1 2 ampio
sotterraneo, oltre le iscrizioni ivi adunate e illustrate ',e l’altro
libretto di non inferior merito, scritto da vari eruditi, circa il già nominato
monumento sepolcrale del Poggio al-moro 1, forma insieme colla presente opera
l’ informazione di quanto crediamo ess er su ffidente ad erudire i cultori
dell' archeologia circa le antichità osservabili di Chiusi nostra
patria. 1 Pastumi, Relazione di un antico cimitero di cristiani, in vicinanza
della città di Chiusi con le iscri zioni ivi trovate. Montepulciano
Sepolcro Etrusco Chiusino illustrato nelle sue epigrafi dal Prof. Gio. Batt.
Vermigliolì, con l’aggiunta di una memoria del sig. Giuseppe del
Rosso sulla parte architettonica dello stesso monumento ed una lettera
del sig. Dolt. Francesco Orioli. Sta anche negli opuscoli del Vermigliolì ec.,
Perugia sai magnifiche e ricche d' oggetti d'arte. Si è reso celebre fra
gli altri l ipogeo situato in un possesso della g ra riducale fattoria di
Dolciano, il quale conserva in se stesso un antico modello rarissimo di
fabbrica etrusco, perchè a differenza degli altri scavati nel tufo, questo
vedesi edificato di travertini tagliati regolarmente, e situati senza
cemento m volta arcuata di tutto sesto, e da varie urne cinerarie
occupato, le quali hanno in fronte sculture vaghissime ed epigrafi etru s
che, dalle quali resulta essere stato questo sepolcro a più famiglie
comune. Altri non meno importanti ipogei scavati nel tufo si osservano in
varie pendici del monticello, sul quale era ed è tuttora la nostra città.
In alcuni di essi, con animo di sodisfare Valtrui erudita e commendevole
curiosità, i proprietari lasciarono in parte i monumenti meri facilmente
amovibili, acciò sia noto come e con quali riti vi fossero depositati fin da
quando ve li posero gli Etruschi. Fra questi ipogei, mediante le
nostre indagini fin ora scoperti, due soli noi trovammo scavati regolarmente
nel vivo tufo m guisa di camere e dipinti : l’uno aperto nel maggio
del 1827 in un podere chiamato P o gg io-al-moro, l altro in alt ro podere
detto il C olle, le cui pitture son riportate in quest’ opera. Pare che lo
stesso pittore li dipingesse ambedue, ma l’ ultimo aperto si conserva
assai meglio, forse perchè l’adiacente suolo è men’ umido . I soggetti
quivi dipinti son pure i me des imi in amb edue gl’ ip 0 gei ; nòdi
{feriscono granfatto, si nello stile, si. nel metodo del dipinto, e sì
nel s og g ett o iv i Ir att ato dalle pitture dellegrottecornetane, che
si altamente sono state encomiate . E probabile che in questi due
sotterranei dipinti vi fossero depositati oggetti di prezzo
ragguardevole, e perciò dagli stessi antichi derubati, perchè non vi è stato
trovato quasi nulla, specialmente in quél sepolcro che l’ultimo è stato
scoperto. È poi singolare, come i soffitti intagliati nel tufo sieno più
elegan- lei il loro cognome anche gli altri re etruschi, cosi esprimendosi
quel dotto ed ingegnoso poeta. Nomina videbis, modo namque
Petulcius idem, Et modo sacrifico Clusius ore vocor.
Questa già potentissima città, che fu detta Camars nella lingua dei
nostri padri, ( il qual vocabolo però significa lo stesso che il più
moderno Clusium, imperocché le dué voci ca, e mar, o mars, che lo
compongono, vengono interpetrate, chiuso dalle paludi ); Che la nominarono pure
Chiamarle, e Camarsoli, Livio, Eutropio, ed Antonio Sabellico, diede luogo
a molte dispute fra gli eruditi per determinare se annoverar si dovesse
fra le dodici antiche città etruschs, capi di origine-, ma le ragioni
addotte in contrario non montano a nulla di fronte all’ unanime consentimento
di tutti i più accreditati scrittori antichi, e moderni, che lo
affermano. Ed lo sorto persuaso che non manchino autorità bastanti a
provare, che non solo ella fu una delle dodici città capi d’ origine,
delle quali era composta la famosa, ed antichissima confederazione etnisca
residente a Fiesole, che risale per autorità di molti gravissimi scrittori, a
2o5o. anni circa prima dell era volgare, ma che avesse puranco l’onore di tener
lunga stagione lo scettro sii tutta l’Etruria, come lo afferma il
dottissimo Dempstero, che sostiene avervelo ella tenuto per 5qo anni di
seguito- Di fatti anche Virgilio, parlando di Chiusi -, nomina un
suo re chiamato Osi- nio, la cui età è molto antica, essendo quello
stesso che trovassi impegnalo nelle guerre eli ebbe a sostenere il Frigio Enea
in Italia, contro Turno, ed i Rullili, prima di stabilire i suoi penati in
questa bella, e da tutte le straniere nazioni ambita penisola. Ma anche molto
avanti che quel Troiano quà navigasse, aveva avuti Chiusi i suoi
regnanti, poiché si annovera Osinio trentesimo sesto dei regi Etruschi.
Ciò che basta a togliere l’onore della fondazione di tal città, a
Tirreno, a Telemaco, e a Clusio . Che poi continuasse Chiusi a fiorire in
potenza, ed in ricchezze, ed anzi Salisse ognora a maggior altezza nell'
una e nelle altre, dai tempi troiani fino a quelli in cui fu scacciato
dal trono Tarquinio Superbo, ne fanno chiara fede gli storici, ed. i
poèti. Imperocché Livio nel secondo libro della prima deca, narra che i
Tarquinii espulsi da Roma, eransi rifugiati presso Larte Porsena re di
Chiusi. Ed aggiunge lo stesso storico, al luogo citato, che giudicando quel
valoroso monarca nobilissima impresa per lui l’ includere quella metropoli nei
suoi domimi, mosse a quella volta con poderoso esercito grandemente
inanimito contro i Romani, ed avendo posto il campo sul Gianicolo, cinse la
città et assedio, e tanta costernazione vi sparse, che mai prima d’ allora sì
gran terrore aveva invaso il senato, ed il popolo romano. Cotanto
formidabili erano in quel tempo le genti chiusine, e sì grande e temuto
suonava per le terre italiche il nome di Porsena . DELL’ ANTICA CITTA
DI CHIUSI li impresa malagevole assai quella di rintracciare le origini
delle antichissime città italiche, i cui fondatori si perdono, per lo
più, nel buio delle età favolose. E quanto furono esse più cospicue, e
più potenti, per valor d'armi, e per senno dei loro abitanti, per
sapienza, e per arti belle, tanto cresce la difficoltà di poterne
rinvenire con sicurezza, e fissare i cominciamenti Avvegnaché i poeti
singolarmente, seguiti poi dagli storici ancora, assumendosi l' incarico di
celebrarne i pregi, e cantarne le lodi, pare che siansi fatto uno studio
esclusivo di nasconderci il vero. Questa sorte pertanto è comune con
molte altre anche alla nostra famosa Chiusi. Tuttavia, benché io
non dissimuli a me stesso, che ben aspro e certamente il cammino, in che
sono entrato, e tale forse ancora da non trarmene fuori senza pericolo di
smarrirmi tra vìa -, pure non so astenermi, spintovi da quel caldo amor
patrio, che mai non tace negli animi bennati, dallo scrivere alcuna cosa
intorno alla città di Chiusi . E tanto più volentieri lo faccio, m quanto
che pubblicandosi un'Opera ove non sono raccolti che antichi monumenti chiusini,
non giudico disdicevole che vi si legga, cosa fosse nei vetusti tempi quella
si splendida, e si rinomata città. Lasciando pertanto da
parte, come, e quando cominciasse ella ad esistere, se Tirreno, o
Telemaco ne ponesse le fondamenta, come pretesero alcuni scrittori, o
sivvero Classo re degli Etruschi, che si vuole da altri che fosse figlio di
un secondo Tirreno, e se ne riguarda come il fondatore esso pure, ( ed io
lo direi meglio arnpliatore, e ristauralore della medesima, benché s’
ignori in qual secolo ciò avvenisse ), egli è fuor d' ogni dubbio che
questa città risale ad una remotissima origine . Lochè peraltro
discoprire volendo, e stabilir con certezza, sarebbe lo stesso che mettersi a
navigare in un mar senza sponde. Per lo che, scenderò ad epoche
meno lontane, e più certe, quando già la città di Chiusi teneva ampio
dominio sull' antica Etruria. Mentre pare da un distico che si legge nel
primo libro dei Fasti d Ovidio, che prendessero da Elr. Mas. Chius. zo
coll' uccisione del Console Lucio Cevìlio, e di 3 ooo soldati, furono
dalla valida l'esistenza dei Chiusini obbligati ad abbandonarne
l'impresa, e spingersi a sciogliere il freno ai loro furori contro Roma.
Lo che narrasi da Lucio Floro nel primo libro della storia romana, e
possono consultarsi ancora su questo proposito, Diodoro Siculo, e Polibio. Ne
fa pure un cenno Plutarco nella vita di Numa Pompilio, e ne parla più a
lungo in quella di Camillo. Anche la risposta, che lo storico di Cheronea
fa pronunziare con barbara confidenza da Brenna condottiero dei Galli,
agli ambasciatori romani, che s'erano a lui recati per chiedergli ragione
a nome del Senato, del suo procedere verso i Chiusini, infestandone i
possessi, disertando i campi, e minacciando la città, ne fa viepiù chiara
testimonianza intorno alla celebrità, ed opulenza della medesima, essendosi
cosi espresso quél fiero conquistatore. Ci fanno manifesta ingiuria i Chiusini,
come coloro che ambiscono di possedere una estensione di compagne, molto
maggiore di quella che possono coltivare, e superbamente ricusano di concederne
una porzione a noi forestieri, che siamo in gran numero, e poveri.
Circa la fertilità poi dell’ agro chiusino, leggasi Plinio, ove ne
loda il frumento, cosi per la qualità sua, come per la quantità che ne
produceva. E Marziale erasi prima di lui nell ottavo epigramma del i 3 .° libro
espresso in tal guisa « Imbue plebejas clusinis pultibus ollas jj.
Moltissime altre autorità di antichi scrittori avrei potuto raccogliere,
onde mettere in più chiara luce, ed evidenza, la grandezza, e V opulenza
della città di Chiusi iti remotissimi tempi, la potenza dei suoi re, il
valoroso coraggio, e l'operosa industria dei Suoi abitanti, t libertà del
suo territorio, e lo splendore che la rese tanto famosa per lunga serie di
secoli, ma stimo che bastino le
già riferite, ed i pochi cenni che ne ho dati, per farne concepire, a,
chi vorrà leggere questo ragionamento, una giusta, e non umile idèa. Nè
poteva d’altronde dilungarmici gran fatto, attesa V indole di quest'
Opera, e la brevità della periferia, cui ho dovuto perciò ristringermi nel
comporlo. Mi contenterò dunque di aggiungere, che venendo puranco ad
epoche a noi più vicine, dopo lo smembramento dell impero romano per
opera dei Longobardi, ebbe Chiusi, benché decaduta immensamente dall’
antico suo lustro, il titolo di Ducalo; leggendosi presso Anastasio
bibliotecario in s. Zaccaria, che Liutprando mandò ad ossequiarlo il suo
nipote Agiprando, 0 come leggesi in altro codice Adelprando, duca di
Chiusi. Il qual fatto viene riferito egualmente dall’ autore dell’
Etruria Regale. Ed anche giunta la citta di Chiusi all estrema sua
umiliazione, rimase ognora città vescovile, come lo è tuttavia, e fregiata di
assai privilegi. E si legge in un manoscritto che tratta di cose
etnische, e conservasi nella libreria Rondoni JlcJlklh che circa di n'
era vescovo un tal Teodosio. Ricavasi pc-i dal decreto di Gregorio, cap. 9.°
delle costituzioni, che l' anno 3 II qual fatto confermano,
oltre Polibio, Dionisio d’ Allea mas so, ed altri Storici, anche
sant’Agostino nella sua Città di Dio, Sidonio Apollinare, Chilidiano, Orazio
Fiacco, Marziale, Tzétze, e molti altri. Nè parrà strana una si
gran potenza dei chiusini, ed una tanta opulenza, a chiunque facciasi a
riflettere ai magnifici e sontuosi edifizi, dei quali Chiusi adornavasi.
E basterà riferire a questo proposito la descrizione del labennto fattovi
costruire dallo stesso Porsena, perchè gli servisse di sepolcro, e che si
legge in Plinio al capo decimo terzo del libro trentesimo sesto, ove
riporta, co/n’ ei dice, le parole stesse di Marco V àrrone. Fu
sepolto, scrive egli, questo monarca, sotto la città di Chiosi ove erasi
fatta inalzare una tomba di larghe pietre quadrate, e compresa da quattro
lati, o muri, ciascuno dei quali estendevasi per trecento piedi in
lunghezza, avendone cinquanta di altezza. Nell’ area interna di nove mila
piedi, raggravasi un inestricabile laberinlo, nel quale chi si fosse
introdotto senza un gomitolo di filo, non avrebbe potuto ritrovare la
strada onde uscirne. Ergevansi poi sopra il vasto quadrato cinque
piramidi, quattro negli angoli, ed una nel mezzo, larghe alla base,
ciascuna setlantacinque piedi, ed alte centocinquanta. Slava nella cima
dì ognuna di esse un grosso globo di bronzo, sovrappostovi un petaso, dal
quale scendevano varie catene, cui vedevansi sospesi dei campanelli
mobili, e sonanti quand’ erano agitati dal vento, come raccontasi pure
del tempio di Do- dona. Sulla cima delle grandi piramidi ne sorgevano
altre quattro alte cento piedi', sopra le quali era praticato un piano,
ed in esso pure si alzavano altre cinque maggiori piramidi, che secondo
gli annali degli Etruschi veduti da f arro nc, erano tanto alte, quanto il
rimanente dell’ edifizio. Ora domando io : a qual potenza, ed a
quanta ricchezza doveva esser salita la città di Chiusi, onde concepir potesse
un suore, e condurre ad effetto la superba idea di fare erigere una
fabbrica di questa sorte, per servirsene di sepoltura, quando ancora si voglia
credere esagerato un tal racconto ! E veramente, o esagerazione, o
stranezza vi è certo, nella surriferita descrizione, giacché è più
agevole il disegnare quelle piramidi sulla carta, come saviamente riflette
anche il Pignotti, che il trovar la maniera di farle stare in
piedi. Tuttavia però, benché debbasi ridurre la cosa a più ristretti, e
più giusti limiti', conviene non pertanto ammettere, che la tomba di Porsena
fosse una fabbrica sorprendentissima, e tale da superare di gran lunga
quanto di più grandioso fece ammirare V umana vanità nei trascorsi tempi,
o si ammira pure nei nostri, presso le altre nazioni, se non per altro per la
singolarità della sua costruzione, e per la gigantesca sua mole-, poiché
tal cose possono ingrandirsi bensì dai narratori di esse, ma inventarsi non
mai. Nè meno splendida è da credere che fosse la nostra città, nè
inferiore la sua potenza 284 anni più tardi, quando scesero in Italia i
Galli Senonio Avvegna ché avendola quei barbari cinta d’ assedio, dopo aver
battuti i Romani ad Arez- 5 iig8, il pontefice Innocenzo III scrisse
al vescovo di Chiusi, benché se ne taccia il nome nel luogo donde ho
tratta questa notizia. E finalmente narrano, il Surio tomo l\, e 1
Usuando nel Martirologio, che il dì 3 di luglio, imperando Aureliano, vi
conseguirono la palma del martirio i santi Mustiola cugina dell'
imperator Claudio ed Ireneo diacono, i cui corpi sono esposti alla venerazione
dei fedeli nella stessa città. Non solamente gli antichi monarchi, ed i
grandi Chiusini avevano le loro tombe gentilizie ; ma le private famiglie
eziandio, e queste più c meno grandiose, a seconda della propria
condizione e ricchezza, come ne fan fede tutti quegl ’ ipogei, che
sortosi in buon numero dissepolti finora. E non dispiacerà, cred’io, agli
amatori delle cose etrusche, il sapere in qual modo discopronsi
cotali sepolcreti. Nei trascorsi tempi era stato il solo caso l'autore di
simili ritrovamenti, poiché ì contadini arando la terra si abbattevano di
tempo in tempo in alcuno di essi, senza cercarne. Ma da varii anni
a questa parte, la cosa ha cangiato d 3 aspetto e si è determinata
la maniera di rinvenirli a colpo sicuro, ed eccone il metodo.
Avendo osservato alcuni signori Chiusini, come, e dove erano situati gl ipogei
discoperti dal caso, pensarono di fare dei tentativi, saggiando il
terreno, per discoprirne degli altri espressamente cercandoli, ove se ne
riscontrasse del sovraimpostoj ed i primi saggi \ per essi
sperimentati, sortirono un felicissimo effetto. Questi diedero loro
animo a procedere ai secondi, e quelli ai terzi, e così ad altri di mano in
mano. Di modo che nel corso di pochi anni se ne scoprirono in tal
quantità, che alcuni dei sullodati signori, come fra gli altri,
Casuccini, e Sozzi, arricchirono, o formarono di pianta, ragguardevoli
collezzioni, di urne funebri, vasi, specchi mistici, idoli, sitale,
scarabei, ed altre interessantissime anticaglie. Le quali collezioni si
vanno pure di giorno in giorno aumentando, mediante i nuovi scavi che si
continuano sempre a fare con caldissimo amore di patria, e senza
risparmio di spese. La qual cosa, se e lodevole in un governo, lo è molto
più nella condizione privata. Che al nascimento del cristianesimo, ed al tempo
della propagazione di esso, fosse Chiusi tuttavia una rispettabile città, e fra
le prime ad abbracciare la fede evangelica, si deduca ancora da
quanto sono per dire. Nelle catacombe che si trovano situate alla
distanza di circa un mezzo miglio dalla città medesima, e delle quali fanno
menzione, V Ughelli, il Boldetti, ed altri, essendosi di recente
intraprese delle escavazioni, che si vanno proseguendo con ardore, sono
stale riaperte molte strade, ove si è rinvenuto un numero
considerevolissimo di sepolcri murati a più ordini, che saranno ben
presto formalmente aperti. Nei quali, se per mancanza di autentiche non si
potrà asserire con sicurezza che vi siano siati sepolti corpi di
Santi Martiri, non può dubitarsi però che abbiano servito di tomba ad
individui della primitiva cristianità. In alcuni di essi trovati
discoperti si è osservato essere state deposle in ciascuno le ossa d{ due
o tre individui : lo che mostra ad evidenza che fosse grande in quei
tempi il numero dei cristiani in Chiusi, venendo ciò infermato dall ’
essersi colà diretti dalla stessa Roma, diversi seguaci della nuova
religione, fra i quali la surriferita Vergine Mustiola, e dall 3 avervi
spedito l* imperatol e Aureliano un suo Prefetto per nome Pardo A
promano, affine di perseguitarvi i cristiani -, e non pochi di essi vi subirono
il martino, come t due santi nominati qui sopra le anime
goduto dopo ch’elleno son separate dal corpo. Furon varie presso gli
antichi le maniere di figurare un simile godimento, e noi vediamo
frequentemente nelle pitture dei vasi fittili, e ne’bassirilievi alcune
imbandite mense, i cui commensali starinosi lautamente bevendo a! suono
di piacevoli strumenti, poiché prevaleva presso di loro la massima che il
premio concesso alle anime beatificate era il godimento di una eterna
ubriachezza. Al pari dissoluta sembra l’altra massima degli Etruschi i
quali fanno consistere tal beatitudine nel libero consorzio di ogni
senso, per cui si vedono replicatissime pitture nei vasi etruschi d’un
satiro ed una menade, ai qual soggetto si dà nome di baccanale. Men
dissoluta è 1’ immagine del Chiusino scultore antico di quest’ara, ove al suono
di variati strumenti ci rappresenta una mimica danza, replicato soggetto nelle
sculture più antiche di Chiusi. Il rilievo di questa è bassissimo, al pari
dell’antecedente, e il disegno è parimente un terzo del suo
originale. JSum. j. Tra le molte immaginette in bronzo che trovaronsi
nelle terre degl’Etruschi rappresentative della SPERANZA se ne incontrano
alcune alate come la presente. Le ragioni che mossero questi popoli ad AMMETTERE
LE ALI ALLA SPERANZA, son da me dichiarate nello spiegare i monumenti
etruschi, non meno che il significato della veste che tiene scostata dal fianco.
Qui soltanto ripeterò brevemente, che gl’3truschi hanno spesso confuso LA
SPERANZA colla Nemesi, dando all’ una ed all’altra le ali MA LA SPERANZA,
A DIFFERENZA DI NEMESI, CONTRAE LA VESTE PER AVER PIU SPEDITO IL PASSO, ONDE
MOSTRARE CON QUANTA ANSIETA L’ATTENDE CHI SPERA. La mano elevata suole averè
altresì qualche simbolo o significato, ma di questa nulla diremo per
esser guasta; e solo avvertiremo esser questo disegno uguale in grandezza
al suo originale. JSum. 2 . Lo scarabeo rappresentato in questo
num. 2, ha una figura scolpita rozzamente al segno da mostrare una sola
gamba, sebben sia nuda in tutto il corpo. Il petto è delineato in guisa
che addita esser donna,- e qualora interpetrar si volesse quel che tiene
in mano, direbbesi non impropriamente un pomo granato, sicché il combinare con
tutto ciò l’atto di stare assisa ci potrebbe far creder che fosse Euridice o
Proserpina, entrambe dimoranti all’ inferno, dove figurasi assiso chi vi è
destinato, per mostrar cred’ io la stanchezza di quella dimora. Così
Teseo condannato all’ inferno fu non solo così rappresentato dagli Etruschi 6,
1 Ivi, ser. i, 4i2. 5 Ivi, Ragionamento ìv, p. 17 5, sq., e cap. u,
2 Micali, Monuments ant. pour l’ouvrage inlilulé p- 110. sq.
l'Italie av. la dommation des Romains, Lanzi, Saggio di lingua etrusca,
tav. Monum. Etruschi; ser. nij p. 202, sq. n. 2, p. lai» 4 Ivi, p. ao
5 ETRUSCO 2D2IL2.1 S&TftiL2 Non vi è soggetto che abbia tanto
occupato il genio degli artefici scultori nei monumenti ferali, quanto i
Dioscuri. Noi vediatno soventi volte nei cassoni mortuali i simulacri di
quei due giovani allegorici, posti simmetricamente alle due estremità
delle cotriposizioni, senza che abbiano colle composizioni medesime
nessuna connessione storica o favolosa ivi posti manifestamente non solo
per ornamento, ma per allusione speciale al passaggio dalla vita alla
morte, e nuovamente dalla morte alla vita, come dicevasi dai Gentili che i
Dioscuri ebbero da Giove il vicendevole dono della immortalità 3 . Or poiché il
presente bassorilievo è in un’ara di quattro facce, ove da ognuna di esse
ripetesi a guisa d’ornato il soggetto medesimo di due giovani equestri, e
poiché questo monumento è stato ritrovato in una tomba sepolcrale, così non
credo erronea 1’interpetrazione ch'io dò a tal soggetto dei due dioscuri,
ripetuti simmetricamente per ogni faccia dell’ara. Il rilievo della scultura
è bassissimo, eseguito in pietra tofacea, la quale si lavora con molta
facilità per esser fragile. Il disegno è un terzo dell’ originale. È
frequentissimo al pari dell’antecedente soggetto quello che l’osservatore
trova in queste 4 Tavole distribuito, non altro ivi raffigurandosi che il
gaudio mistico dal- i B. rii. del Mus. Borgia riportato dal Millin,
Galler. Mythologique Pian, lxxx, n. 53o. Cori, Inscript. Antiq. in Etruriae
urbi bus ex- iati., Pars ni, Tab. x. et xGxrti, 2 Inghirami, Monumenti
Etruschi, r nuovo negli oggetti ferali l’augurio di prosperità che
i vivi facevano ai morti, nella fiducia che godessero una vita migliore.
L’altezza di questo vaso è un terzo dell’ originale.
tavola. Ecco un saggio dei tanti vasi di bronzo che si trovano a
Chiusi. La grandezza del disegno è pari a quella del suo originale, ed ha
ornamenti siffatti, che non disdirebbero ad un’opera di fusoria dei
migliori tempi dell arte; specialmente se consideriamo quel manubrio a
cui si leggiadramente vien data la forma d un giovine in atto di
riposo. Un altro genere d’ utensili tutto diverso dai fin qui esposti,
occupa la Tav. X, ove pure è diverso in tutto lo stile del disegno che ne
traccia la rappresentanza; talché sarei per dire che altri fossero gli artefici
e la scuola di scultura, altra quella di plastica, altra quella di
fusoria, altra quella gliptica, altra quella di grafito in Chiusi, e che
tutte separatamente si vedono in queste dieci tavole. Nel presente disco manubriato
di bronzo rappresentansi fuoi d ogni ub io i Dioscuri: soggetto
ripetutissimo in simili oggetti, che perciò diconsi spec chi mistici; e
su questi e su quelli ho scritto abbastanza, ragionando dei Menu menti
etruschi *. Uno dei giovani colla mano portata in alto accenna il cielo,
l’altro l’inferno col braccio al basso: attitudine che a meraviglia esprime 1
al tei - ila loro posizione, come dicemmo spiegando la tavola prima. Onde
qui mi resta da notar brevemente, che questi mistici utensili si trovano
tra i cadaveri come un amuleto relativo al transito delle anime da questa
all’ altra vita. Una gran parte di figure in bronzo quasi esattamente
simili alla presente si trova in vari musei d’ Etruria ; e poiché io ne
vidi alcune che sostenevano un gran disco con una incassatura al lembo di
esso, così mi detti a credere che in antico siano stati specchi di toelette, il
cui disco lucido era probabilmente incastrato nella ghiera del disco di bronzo
ade r ente alla anzidetta figura, che gli serviva di manico 3, e della
grandezza di questo disegno, eh'è uguale al bronzo archetipo. Non è dunque
inverisimile che essendo questo un vero specchio da toelette, sia quel manico
dal quale è retto, la figura di Veneie.3 Ivi, tav. g ma descritto
in simile attitudine anche da Virgilio *. La stessa Euridice si vede
rappresentata all’inferno sedendo per terra, in atto d’esser liberata da Orfeo
* 11 pomo granato nelle mani delle persone infernali è superstizione che
usavasi anche tra gli Etruschi, rappresentati nei coperchi delle loro
urne cinerarie 3 . Ma in tanta goffaggine chi decide? Num. 3.
Lo scarabeo di questo num. sarà spiegato con altro d'ugual soggetto.
mrriensa varietà di forme che s’incontra nei vasi sepolcrali, ve ne son 1
• j C | 6 ^ 6r °® n ' r ‘o uar do meritano d'esser fatte conoscere coi rami per
la H’ r t0 s ‘ n S°^ ar ‘ ta ; e per quanto non potremo in quest’opera
dar 0 °. °o nuna di esse, pure non
sapremmo astenerci dal farne conoscere le più a™’- 3 ' H t0 r >r *. nc
T a ^ menl:e riguardo alla utilità che queste nuove forme poscaie a e aiti
meccaniche, ed al miglioramento degli utensili domestici. t . . Pj ente,n
questa VII tavola figurato è di terra cotta di color rosso, si-
rorrisn 3 m6nte sn P ra a ^ tr ' quattro vasetti insieme uniti al
disotto, ed ai quali • . . n on° quattio fori nel recipiente maggiore
praticati, onde potrebbero ntrodurvs. quattro diversi liquidi, come
si vede chiaramente nel disegno superate " 6 ^ ° recc liette c ^ e servono
di manichi nel vaso di mezzo sono trafoche ' C ° me Se V1 fo8Se P assa t a una
cordicella per appendere tutta la macchinetta, per ques o aggiunto sembra
essere stata di qualche uso. tavola Vili. annoverare
preSeiUe è da re P u tarsi antichissimo, qualora non vogliasi mento
eli occh' imi ^ tlV0 delIe antiche opere plastiche. I profili con gran
’ g a Ì a pert.ss,m. ne. volti che vi son modellati, e quei veli che
hanno nera anche^nfll* *' mm< \ tnche Sono caratteristiche di
grande antichità. La terra sa che tende al ern ° 6 tenuta P er mater ia
di antica manifattura. La forma stes- Quegli animali m ° St ™ Ua 8:11810
non raffil)at ° dal progresso dell’arte. Ses^r r^ neOrHanOllC0r P°’
C0Ì1 ’ 6SSer S6nZa °^ tt0 "1*^ indicano tav XII eiarrh' T ™ tUr ‘ A
j ma del significato loro dò cenno spiegando la mina in’ una « 6 ^
una leonessa o tigre che sia, con la coda che ter- sta sull’ fi A r
Pe ’ f ebbeS ‘ quest animale riguardar per un mostro. Il gallo che,, ° e vaso e
un au o ur ^° pel morto che fu cornane fra gli Etruschi e dei,»], ho trattato
anche altrove i. Solo,ui r.m.L.o " i Virgil. Aeneid., lib.
vi, y. 6iy. l Monum. etruschi cit, «er. vi, l,v. C5, n. i. Etr.
Mas. Chiùs. Tom. I. 3 Ivi, ser. vi, lav. Ha, unni 4
Ivi, ser. i, p. 3 I0 . P- I#?. SULLA LINGUA ETRUSCA O e egli è
vero, come nessuno può dubitarne, che le lingue sono molto più antiche di
tutti i monuménti delle nazioni, sarà vero del pari che lo studio delle
medesime, e particolarmente lo studio comparativo, possa contribuire più di
ogni altra cosa, a rintracciare con sicurezza le origini dei popoli, le
loro affiliazioni, ed i loro mescolamenti, non meno che le divisioni, e
successive riunioni di essi, e le varie peregrinazioni, cui sono i
medesimi andati soggetti nel corso dei tempi. Ed infatti, chi non vede a
primo colpo d'occhio, per esempio, osservando la gran somiglianza che
passa fra i primitivi vocaboli della lingua samscritica, con altrettanti dell
antica persiana, della greca, della teutonica, della illìrica, e della latina,
che tutte queste lingue, o debbono procedere in prima origine da un
medesimo, fonte od esservi stato in epoche da noi lontanissime un
mescolamento, o per emigrazioni o per cagion di commercio, di tutti quei popoli
che le parlarono ? Oltre di che, sarebbe veramente un voler andare a
ritroso, pretendendo che possa dipendere dalla semplice casualità un
lavoro così metafisico, e così profondamente pensato, quale è quello dei
significamenti dati ai vocaboli di antichissime lìngue, e che furono
parlate da popoli tanto lontani fra loro per geografica posizione e tanto
differenti per indole, per costumi, e per usi religiosi, e civili,
piuttosto che attribuirlo, o ad una sorgente comune, o ai mescolamenti
dei varii popoli in remotissime età, per qualunque cagione, ed in
qualsivoglia maniera siano questi avvenuti. Ciò premesso, e venendo a
parlare più di proposito dell’ etrusco, dirò liberamente che non giungono
a persuadérmi nè punto nè poco ì sistemi formati, e adottati finora dagli
archeologi, intorno a questo antichissimo, e presso che del tutto perduto
idioma, benché io professi una profondissima stima per ognuno di essi. E
vaglia il vero, benché il Cori, ilMajfei, il Guarnacci, il Dernpstero,
gli accademici di Cortona, ed il chiarissimo Abate Lanzi, abbiano fatto
ogni loro sforzo per diradare le tenebre nelle quali giaceva involta la
nazione etrusca, e piu ancora la sua lingua, e ci abbiano aperta colle
opere loro una strada onde poter fate nuovi passi, e nuove scoperte in
questa interessantissima parte della antiquaria, non possiamo tuttavia
dissimulare, che le oscurità non siano peranche grandissime, e
singolarmente intorno alla lingua, primo fondamento di tali studii, e
unica face atta ad illuminare le nostre archeologiche indagini, sulla
origine, sulla remotissima antichità, sui monumenti, e su qualunque
vogliasi oggetto, nguar ante questa nazione perduta. E benché ancora,
dopo quei celebri nomi- Nell' esporre questo pregevole vasetto di terra
nera a quattro anse con coperchio, mi fo pregio di riportare la notizia che
annettono al disegno gli zelantissimi editori di quest’ opera del Museo etrusco
chiusino. « Si crede, essi dicono, che i vasi di questa terra non siali
cotti, ma solamente disseccati al sole, poiché infondendovi dell’acqua li
compenetra, e si disfanno. Cotal genere di vasi non si son trovati fin
ora che a Chiusi e nei suoi contorni ». Questa è la loro avvertenza. L’
animale che vi si vede espresso è chimerico a rammentare i mostri caotici
che precedettero l’ordine della natura. In dimostrar ciò non mi estendo, perchè
abbastanza scrissi altrove onde far conoscere la frequenza di simili soggetti
cosmogonici >, espressi dagli antichi nei monumenti sepolcrali. Avverte chi
ha fatto eseguire’questa tavola, che sotto al vaso è copiato un ornato
d’oro dalla parte anteriore, il doppio dell’ originale, e sotto è
disegnata la parte posteriore di esso, della grandezza del monumento, ed
aggiunge che le due sfingi rappresentatevi sondi un lavoro mirabilmente
finito e minuto. ISCRIZIONI FUNEBRI ETRUSCHE Quanto saviamente
dichiarasi dal eh. pr. Valeriani nel secondo suo dotto ragionamento che segue,
mi dispensa dall’onere di spiegare le iscrizioni funebri che trovansi nei
cinerari etruschi di Chiusi, perche scritti in una lingua perduta.
Tuttavia quel barlume che le moderne indagini dei dotti sopra di essa ci
fan vedere, sarà posto a profitto dall' eruditissimo sig. prof. Vermigiioli il
più meritamente accreditato in simile materia, onde in fine di
quest’opera trovisi qualche notizia di queste iscrizioni funebri chiusine, che
ove lo concede lo spazio vi si distribuiscono, senz’ altro dirne per
ora. V* : IHd-M 3 Pi -O J I- :ian 0qm v : Pi +i fì® 11 •
A? 3 d-flq = i anq V >/ di. yfìMRY/\ IV. =3 Dliaq
=> --1 Mti™ V V -, Mooum. Eu.., set. m.
36» >4 dì^ìosamcnte remota, dice il Pejleuttier
nella sua storia dei Celti, gli antichi popoli di questo nome, o i
Cello-Sciti, la cui lingua se non è primitiva in un senso assoluto, 10 è
per lo meno relativamente a quasi tutte le lingue conosciute, sì furono sparsi
da una parte nell Asia occidentale, e dall altra nell Europa, si estesero in
quest ultima regione, gli uni al Settentrione, e gli altri lungo il Danubio. La
posterità di questi poi rimontando quel fiume, pervenne in seguito alle
sponde del Reno, le quali oltrepassò, e riempi delle sue numerose
popolazioni tutto l’ intervallo che si estende dalle Alpi ai
Pirenei, e ai due mari. Laonde ovunque la lingua dei Celti mescolandosi agl’
idiomi indigeni, formò delle combinazioni, ov’ ella dominò sensibilmente . Ed
anche in quei contorni che aveva trovati deserti, o dai quali aveva fatto
scomparire gli abitanti, il celtico si conservò nella sua purità originale.
Alcuni secoli dopo la popolazione sempre crescente di questi Celti, o Galli, li
costrinse a passare i Pirenei, e le Alpi. In Italia, dopo avere occupato
da prima tutto il paese posto al piede delle montagne, eglino si estesero
di mano in mano, nel- l'Insubria, nell’Umbria, nel paese dei Sabini, in
quello degli Etruschi, degli Osci, dei Sanniti, ed in tutto il resto della
penisola al dì qua del Garigliano. Nel medesimo tempo alcune colonie greche
approdarono all’ estremità orientale d’Italia, e vi formarono degli
stabilimenti. Lasciami poi ben presto le sponde del mare, e spingendosi
sempre avanti, incontrarono finalmente i Celti, che continuavano pure dal
canto loro ad avanzarsi ancor essi • Dopo alcune guerre, poiché questo è
sempre 11 primo caso dei due popoli che s incontrano j sì riunirono
nell’ antico Lazio, e non vi formarono più che una sola società, che prese
il nome di popolo latino. Allora le lingue delle due nazioni si mescolarono
insieme, e si combinarono con quelle dei primitivi abitanti. Nè bisogna
dimenticarsi di osservare che in quest' amalgama aveva il celtico un gran
vantaggio. Il greco, che non è allora, o a grandissima distanza, la lingua
di Omero, di Platone, doveva dal canto suo il nascimento ad un miscuglio
di mercatanti fenìci, d’ avventurieri di Frigia, di Macedonia e d’
llliria, e dì quegli antichi Celto-Sciti, che mentre i loro compatriotti
si precipitarono in Europa, eransigettati sull' Asia occidentale, donde
erano discesi in seguilo fino al paese che fu poi la Grecia. Eravi dunque
del celtico alterato nel greco, che si combinava di nuovo col celtico. Dalla
qual moltiplice combinazione nacque la lingua latina, che rozza nella
origin sua. ripulita poi, e perfezionata col tempo, divenne in fine la lìngua
di Terenzio, di Cicerone, di Orazio, e di Virgilio. Ed è questa medesima lingua
latina, che dopo un si bel regno terminato con un sì lungo e tristo
tramonto, veniva ad amalgamarsi ancora un’altra volta col celtico : sorgente
comune dei barbari dialetti dei Goti, dei Lombardi, dei Franchi, e dei
Germani, per divenire poco tempo dopo la lingua di Dante, di Petrarca, e di
Boccaccio. Per tali considerazioni, e per quelle già riferite in questo
ragionamento, io credo che si debba battere un cammino diverso da quello
che si è battuto finora dagli archeologi, nell’ investigazioni intorno gli
antichi Etruschi, ed al loro linguaggio. E non già perdi’ io abbia la nati
dì sopra, molta gratitudine dobbiamo avere ai Signori, Vermiglìolì, Zannoni,
Mleali. Orioli, Ciampi, e più particolarmente all’ infaticabile cav• In-
giurami, per i tentativi che tutti questi hanno fatto, onde aggiungere dal
canto loro nuovi lumi, affine di condurci vie più addentro nei penetrali
delle cose etrusche, non ci siamo non pertanto finquì partiti, quanto
alla lingua, dal punto dove eravamo cinquanta, o sessanta anni, per non dire
quasi un secolo addietro. Nè qui sarebbe per avventura fuor di proposito
lo stabilirese la nazione etrusco debbasi avere assolutamente nel numero delle
perdute, e nel caso affermativo determinare il come, e il quando sia
questo avvenuto, oppure considerare la dobbiamo come trasfusa nella romana, o
combinata con tutte quelle che invasero a piu riprese l’Italia. Ma
siccome cotali ricerche mi farebbero deviar troppo dallo scopo che mi
sono prefisso in questo discorso, e mi trarrebbero troppo in lungo, cosi
le serbo ad altro tempo, e ad altro lavoro. E per istringermipiù
dappresso al mio soggetto, dovremo noi riguardare la lingua etnisca, o
come primigenia, e indi genia dell antica Etruna,o come proveniente da
altro più vetusto idioma italico-, o sivvero come un composto di più
dialetti stranieri, combinati coll’indigeno, quali sarebbero, il pelasgo, il
lidio, il celtico, il greco antico, il traco-frigio, ed altri, qua portati a
diverse epoche dalle varie colonie che si venneroa stabilire nelle nostre
belle contrade. Riflettendo che tutti gli archeologi, i quali
procacciarono di rischiarare questa materia oscurissima, hanno ben poco,
o nulla concluso finora circa l’intelligenza dell antica favella dei nostri
padri, e quelli che pretesero di trarla dall’ Oriente senza alcun altro
soccorso, e quelli che la vollero derivare dai greci e i fautori dell
antico latino $ pare che ne inviti la sana critica, e ne sproni il buon
senso, a tentare un’ altra via, per vedere se si giungesse finalmente a
sciogliere questo famoso nodo gordiano. Ed io penso che giovandosi di quanto si
può raccogliere di antichissimo italico, donde procede in gran parte il
vècchio latino, non trascurando il greco, per le ragioni che svilupperò
altrove, e ricorrendo pure ai dialetti annoverati qui sopra, si possa con
sicurezza avanzare qualche passo, e forse ancora giungere a fissarne un
compiuto alfabeto, e quindi a bén leggere, ed intendere, tutto quello che
ci rimane di etrusco. Imperocché, sia che abbia veramente esistito una lingua
primitiva, della quale tutte le altre non siano che derivazioni, e prodotti, o
sia che le diverse popolazioni umane siensi fatta da principio, ciascuna
la sua lingua, e che per moltiplicate combinazioni, e dopo una lunga
serie di secoli, questi diversi idiomi particolari siano venuti, per cosi dire,
a fondersi in un idioma generale, che in seguito poi siasi diviso, e
suddiviso di nuovo, in lingue, e in dialetti diversi, vi sono pochi
argomenti più degni dell’ attenzione del filologo, e del filosofo ad un tempo,
di queste formazioni, di queste separazioni e di queste riunioni dì linguaggi,
che indicano le principali epoche della formazione, della separazione, e
della riunione dei popoli. L’idioma latino che disparve al nascere dell'italiano,
era stato in una molto recondita antichità il prodotto di una simile
rivoluzione. Quando ad un' epoca prò- Porgiamo alla considerazione dello
spettatore in questo disegno la più grande urna in marmo che siasi fin ora
trovata nei moderni scavi di Chiusi, misurando in lunghezza circa 4
braccia. Ha nel cornicione superiore una lunga iscrizione etnisca, ma
disgraziatamente dipinta, e non conservata come desiderar si potrebbe per
l'intelligenza compita, quantunque da quel che resta comprendesi essere
un aggregato di nomi famigliari e nient'altro. Vi corrisponde la
rappresentanza della scultura, ove si vede la moglie che dal marito
congedasi, o questo da quella per girsene all’altra vita. Una Furia come
addetta al ministero delle anime, abbracciando la donna par che indichi esser lei
la defonta, e non 1’ uomo che il soggetto ivi appella. Infatti contiene
il coperchio dell’urna una donna, come vedremo. Termina la composizione
con altre due Furie, una delle quali è pronta a ricever l’anima alla
porta infernale per dove passavasi quindi agli Elisi a ; e le altre
cinque figure intermedie non altro significano a mio credere che parenti, e
forse anche estinti antenati, de’quali siansi voluti rammentare i nomi nella
iscrizione. Forma questo bel monumento e rarissimo in Etruria uno dei
principali ornamenti del Mueo Casuccini di Chiusi. Ecco il coperchio in marmo
dell’ urna già osservata nella Tavola antecedente. Quivi e una donna
mutilata in parte, come esser sogliono le sculture sepolcrali visitate dai
primitivi cristiani, ed in quella occasione depredati quei loro sepolcri;
ma pure non sempre del tutto, e infatti si è trovato in Chiusi qualche
ornamento d’oro uguale alla collana che riccamente scende sul petto di
questa defonta, la quale è succinta, come esser sogliono le protome delle
donne. Ha in mano un pomo granato, conforme davansi a chi si portava all’
inferno. Quando si volesse dare una interpetrazione a quest’oscuro
soggetto in bassorilievo, si potrebbe dire essere il giovane Astianatte
genuflesso sul larario, in atto di venire immolato al furore di Pirro. Il
monumento è un’urna di terra cotta non molto conservata. Monum.
Etr., ser. i, p. 191, 229. a Ivi, p. 177, »46. 3 Ivi, ser.
11, p. 229, a 3 o. stolta presunzione di credermi più perspicace, e più
istrutto di quei dottissimi, che si affaticarono in clamo su questo
istesso argomento, ma solamente perchè il tentar nuove strade in materia
cotanto astrusa, è permesso a chi che sia, particolarmente quando tutte quelle
tentate finora, non sono opportune a condurci a buon porto . E perché è
pur vero che non di rado toccò in sorte ad uomini di mediocre ingegno e
sapere, il discoprimento di ciò che rimase lungamente occulto alle più
profonde, e costanti ricerche di sapientissimi osservatori.
Protesto peraltro ampiamente d’esser pronto ad abbandonare la mia
opinione su questo proposito, quando i dotti me ne oppongano un’ altra
più plausibile, e più idonea allo scopo cui è diretta. Essendo io scevro
affatto di ogni particolare affezione per essa, ed alienissimo da
qualunque spirito di sistema, nè altro cercando che la verità . Avvegna che,
una delle cause positive, anzi la principale, a mio credere, che abbia
così ritardalo, ed impedito la scoperta del vero in questa materia, è stato
senza dubbio lo spirito di sistema, portatovi da ciascuno di quegli
archeologi, che vi esercitarono con particolari indagini il proprio ingegno,
ostinandosi, e forzandosi per ogni maniera, a derivare da un solo fonte
la Unga etnisca. Idifatti, niente è più funesto ai veri progressi delle
scienze, nè più contrario al discoprimento della verità, di quello che lo
sia uno spirito sistematico. Imperocché tutto allora si sconvolge, si
contorce, si altera, anche senza avvedersene, per trarlo comunque al proprio
sistema, adattarcelo, e farlo a diritto o a torto, convenire con quello . Ma
chi adopra in tal guisa, non và altrimenti in cerca del vero, e si
affatica soltanto a rinvenire ciò che egli si è preventivamente
immaginato di dover trovare. Cosi, tutti coloro i quali pretesero di far
venire gli Etruschi da una colonia di Cananei, o di altri Orientali,
crederono di vedere perfino la forma delle lettere etnische, in quella delle
ebraiche, e più specialmente delle cosi dette sanimaritane, benché non ve
ne fosse la minima idea. E t.enevansi tanto più sicuri del fatto loro, in
quanto che usarono i nostri antichi padri condurre la loro scrittura da destra
a sinistra, come gl’ebrei, i Sammarilani,ed altri popoli dell’Oriente.I Sè
mancarono di viepiù confermarsi in tale opinione, osservando alcune voci
etrusche, simili, o provenienti dai dialetti semitici-, quasi che fossero
queste argomento bastante a costituire la identità di origine dell' etrusco con
quelli, e non sapessero tutti i filologi, che s’incontrano delle voci simili
di suono, e di significato ancora, in quasi tutte le lingue conosciute,
senza poter giungere a provare per questa via, che l una derivi con
sicurezza dall' altra, e tutte da un fonte comune. Mentre sono tali
somiglianze, ed analogìe, il prodotto di quei mescolamenti, dei quali ho
parlato in principio. E con tanta maggiore facilità debbono essersi
mischiate, e combinate non poche voci orientali all’ etrusche, per lo
commercio singolarmente dei Fenici coi nostri antenati, in epoche da noi
remotissime, come altrove si è detto-, insegnandoci concordemente gli antichi
scrittori quanto in ciò valessero gl’etruschi, o Tirreni, e come
signoreggiassero i due mavì che circondano Italia, cui diedero perfino il
nome. si vede nel manico è il sole, come io spiegherò meglio in seguito,
e l'atto delle mani e dei piedi che volgesi in alto, in basso e per ogni senso,
è simbolo della generale influenza dei suoi raggi, cbe si spargono in
giro Gli ornamenti a bassorilievo che circondano questo vaso NON HANNO UN
SIGNIFICATO DIVERSO da quei che vedemmo alle yavole, ed è perciò inutile
ripetere ulteriormente il già detto. M’ immagino che la figura qui espressa, e
ripetuta più volte in molti vasi trovati nei sepolcri, possa esser Marte,
il quale significar vi debba, che il tempo in cui domina quel pianeta è
l’autunno, come in altri monumenti se ne vede l'indizio i 2, e questo tempo vi
si rammentava per la ricorrenza del suffragio delle anime 3, al quale
oggetto erano istituite feste ed offerte ; o forse rammentasi la deità
degl’itali primitivi. Sono assai numerosi gl’ idoli femminili in bronzo di
piccola dimensione pari al presente, eh’ io credo essere stati nominati
comunemente dagli antichi gli Dei Lari, o Penati, o Geni tutelari, e
Giunoni 4, quando, come questa statuetta, erano femmine; e dice vasi che
ogni donna aveva la sua Giunóne per protettrice 5 . Il gusto dei Greci,
come ricaviamo dalle opere loro trovate in Ercolano e Pompei, era
d’inventare ornamenti per le suppellettili anche non attinenti al fasto ed al
lusso, dove introducevano con molto genio ed ingegno animali ed umane figure :
genio che si propagò per l’Italia, come vediamo nelle opere di Chiusi,• di che
abbiamo un bell’ esempio nei due manichi di bronzo incisi in questa XXHI
Tavola, un de'quali ha un mascherone bizzarramente travisato con fogliami,
fiori ed una barba assai schersosamente spartita. Bella è parimente l’immagine
dell’altro manubrio disegnato di faccia e di profilo, dove si vede un
anima- i Monumenti etr., ser. 11, Tay. xc, pag. 762. 4 Monumenti etr.,
ser. 1, p. 279. % Ivi, ser. vi, tay. F2, num. 3, p. 17 5 Virgil.
Aneid., Ovid., fastor. 5x2, 544 * y* 4 ^
5 .notabile che i coperchi delle urne in terra cotta sieno di miglior
modello eh esser non sogliono quelli scolpiti in pietra N’ è chiaro
esempio questa re- combente figura che servì di coperchio all’ urna
precedentemente esposta. Ognun vede quanto il panneggiamento sia più
ragionato nelle pieghe di quel che osservammo allaTav. XIV ove ne reputammo
l’urna spettante a ricca matrona. Chi sa che il lusso de marmi non
prevalesse in tempo della maggior decadenza delle arti ? La muliebre
figura qui esposta fu eseguita in fragile pietra tofacea e trovata
acefala in un sepolcro, colla particolarità che il collo è vuoto come anche il
torso, ed è servito per deposito d umane ceneri e d J ossa cremate, che
vi si trovarono al- 1 aprir della tomba, ove la statua era sepolta. Il
significato non è facile a penetrarsi, ma dal pomo che ha in mano, e dall
atto sedente, non sarebbe fuor di proposito il congetturarne che fosse
una Proserpina, la quale riceve unitamente col suo consorte Plutone le anime
che scendono al Tartaro. Difatti anche al Museo Pio dementino vedonsi que’ due
numi sedenti a . La singolarità dell’ esposto monumento esige che se ne
mostri anche la parte avversa alla già veduta. Ivi più chiaramente si
nota che a formarne il magnifico sedile concorrono i simulacri di due
sfingi, le quali assai frequentemente s’incontrano in monumenti ferali; poiché
la sfinge reputavasi animale chimerico infernale 3, e perciò attamente posti ad
ornar la sedia della divinità che attende alle anime trapassate da questa
all’ altra vita. La frequenza dei volti velati che vedonsi ne’yasi di terra
nera, come in questo, non lasciano luogo a porre in dubbio se siano o nò
rappresentanze di larve o Lemuri, cioè delle anime 5, ed il gallo che
sovrasta al vaso, pare, come ho detto altrove 6, indubitato simbolo del
buon augurio di felicità nella futura vita, che a quelle anime
predicevasi dai superstiti viventi. La figura con faccia larvata che
1 Monum, etr., ser. ni, p. 4 io, e ser. vi, Tav. i, pag. ai, 52. Visconti, Mus. P. Clem.
Voi. li. Tav. 3 Monum. etr. «er.
i, p. 582. Etr. Mas. Chius. SULL’ ALFABETO ETRUSCO Uopo che
gli uomini ebbero trovato coll’ uso naturale degli organi della parola,
un mezzo facile di comunicare i loro pensieri ai presenti, cercarono, e
trovarono in seguito, quello di parlare agli assenti, e di rammentare a se
stessi, ed altrui, ciò che era stato pensato, e detto da loro, e da altri, e
ciò ancora di che erano convenuti insieme. La prima cosa pertanto che si
presentasse loro allo spirito in questa ricerca, furono le figure
geroglifiche ; ma colai segni non erano abbastanza chiari, e precisi, nè
abbastanza univoci, per adempire lo scopo che avevasi in mira, di fissare
cioè la parola, e di farne un monumento più espressivo del marmo, e del
bronzo. Il desiderio dunque, ed il bisogno di compiere questo disegno,
fecero finalmente immaginare quei particolari segni, che noi chiamiamo lettere
ognuna delle quali fù destinata a notare uno dei suoni sémplici, che formano le
parole', la riunione dei quali segni, è ciò che dicesi alfabeto. Volendo
però risalire fino alla prima origine dì questo maraviglioso
ritrovamento, rischieremo sempre di smarrirsi senza riparo, in un mare di
oscurità, e d’incertezze, e circa V epoca in cui giunsero gli uomini ad
un si nobile discoprimento, e circa la nazione che prima di ogni altra vi
pervenne. Lasciando perciò da parte la ricerca di quello che io giudico
moralmente impossibile a rinvenirsi, volgerò le mie indagini a cosa più
certa, od almeno piu probabile, qual e la quistione, se gli Etruschi, od
i Greci fossero i primi a far uso di una cosi bella, ed utile invenzione.
E qui pure siamo costretti a navigare, presso che senza bussola, m un
ampio pelago, sparso di profondissimi vortici, d' orribili mostri, e di scogli
assai pericolosi. Imperocché, se molti dotti sostennero, e sostengono
tuttavia che i Greci sono anteriori agli Etruschi nell’uso dell’ alfabeto, e
vengono riguardati come i maestri di essi, in qualsivoglia arte o
scienza, non è per altra parte minore il numero, nè di minor momento V
autorità di quelli, che citar si possono per sostenere il contrario.
Perlochè io aderisco a questi ultimi, sembrandomi la loro opinione più
ragionevole, e più giusta, ed i sostenitori di essa persuadendomi colle
loro ragioni, ciò che non giungono a fare i propagatori del grecismo, ad
onta ancora di tutte le parole greche, o grecizzanti, che s’ incontrano ad ogni
passo in quasi tutti i monumenti etruschi, discoperti finqui, avvegnaché
intorno a le mostruoso, che per aver motivo d' essere attaccato al vaso
figura di morderlo. Sotto è un Ercoletto giovane, che tiene la mano
alzata, vibrando la clava in segno di recar danno e morte, ed ha cinti i
lombi colla pelle di leone, simboleggiando di non curarsi della
generazione, come è proprio d’Èrcole quando figura il sole iemale.
Difatti rispetto ai viventi è il sole che loro apporta la vita
coll’universale tepore della natura in primavera, e porta danni o morte
col raffreddamento del tempo iemale. Qual simbolo può dunque esser più
adattato a decorare un sepolcro, che quello dove rammentasi la
vicendevole transizione dalla vita alla morte? Lo scarabeo di cui si vede
f impronta ha inciso un centauro con un fanciullo sul dorso, forse
Chirone col giovane Achille che dicesi da taluno essere stato affidato a quel
mostro per riceverne la puerile educazione. La rappresentanza di questo
specchio mistico sarebbe forse difficile ad inter- petrarsi, qualora non
fossene venuto a luce un altro di quasi ugual soggetto. In quello vedesi
Giunone sedente in atto di porgere ad Ercole la mammella, perchè ne
succhiasse il latte, il chè succede alla presenza di Mercurio 3 . Sappiamo
infatti che Giove bramava che Ercole per ottenere l’immortalità, benché
nato da mortai femmina, sorbisse almeno latte divino, onde per uno dei
soliti inganni frequentissimi nella mitologia, Giunone gliel porse senza
avvedersene. Mercurio vi si crede introdotto, per attestare ad Ercole
d’aver egli pure profittato di tale arguzia, per entrar fra gli Dei, benché
nato da Maia donna mortale. Qui non è espresso l’atto di Giunone per
allattar Ercole, ma pur vi si vede Mercurio che si fa noto col suo
cappello, e par che accenni d’ aver profittato egli stesso
dell’espediente che suggerisce ad Ercole, il quale gli sta davanti. Ha la
clava, in mano ed un piede elevato, indicando che salir deve all’ immortalità
3 per opera di Giunone 6 eh’ è fra loro. fli8v«q :ian8 j v :ioj
vi. j a 11 y fi j 1 :i n tnq r = o 4 vii. 1 f\ il 8 4 Y d :
fi m 3 4 t :42 vili. •-ifi n t v t :o 4 .• in i n q n o n lx -
-4/nm-rfl4 itntnqfl .-4sa x. Monumenti etr. Galleria Omerica Tom. ii,
Tav. cxxi, pag. 2,4. 3 Schiassi, De pateris ariliquor.ex schedis Blandirli
Sermo ed epislolae tab. 4 Diodor., Sic. Bibliot. bist. Mon. etr. ser.n, Tavv. lxxu, lxxìii, lxxiv,
lxxv, 6 Zarinoni, Lettere di etrusca erudizione pubblicate
dall’ Inghirami, pure in ogni tempo di tracciare nello stesso modo le loro
scritture. E tutti, c/uesti ultimi specialmente, furono sempre uniformi
in questo, ad eccezione degli Etiopi soli, e degli Abissini, che sebbene
parlino, e scrivano un dialetto semitico, scrivono tuttavia da sinistra a
destra, come gl’ Indiani, ed i segni deliaco alfabeto hanno un valore
sillabico, come gli alfabeti indiani, ed anche il tibetano, ciascuno dei quali
segni porta seco, in certo modo incorporata una vocale, e forma una
sillaba. Ciò che non accade in nessuno degli alfabeti europei, e neppure
nel giorgiano, e nell 1 armeno, che vengono pure delineati da sinistra a
destra. Laonde non pare poi tanto strana l’opinione di quelli, i quali
pensarono, che gli Etruschi propriamente detti, fossero discesi in prima
orìgine da una colonia, o emigrazione asiatica. Ma di ciò altrove.
E se i Persiani, ed i Turchi scrivono da destra a sinistra, benché la
lingua dei primi venga dalle Indie, e quella dei secondi dalla Tartaria, ciò
procede dall’ aver tanto gli uni, che gli altri adottato i caratteri
arabici, ed al tempo stesso la religione del borano. Quindi tenendo in
conto di cosa sacra i suddetti caratteri, non è da maravigliarsi nè punto
nè poco, se essi non abbiano ardito dì alterarli, nè quanto alla
primitiva lor forma, nè quanto alle maniere di rappresentarli colla scrittura.
Ché del resto ben diversi riscontratisi gli antichi caratteri persiani chiamati
zendici, e pelvici, come assai differenti ritrovatisi, e pel modo di
scrìverli, e perla loro forma, ofigura, quelli dei Tartari. Ciò premesso o
siano stati gli Etruschi i ritrovatori dell’alfabeto che porta il loro
nome, o l’abbiano composto di più antichi alfabeti italici, o V abbiano
derivato da altrove, come pare dai nomi stessi che portano le lettere del
medesimo, benché sia diffìcilissimo, e forse impossibile a provarsi, per
mancanza di documenti sicuri, il come, ed il quando abbiano ciò fatto-, è
peraltro fuor d’ogni dubbio, che i Greci non lo comunicarono loro, e non furono
per conseguenza i loro maestrì.Che anzi è da credere che sia accaduto
tutto al contrario, e che gli Etruschi, nazione mitissima, e potentissima in
età molto remote, e quando la Grecia era tuttora barbara, e selvaggia, 1’
abbiano comunicato ai Fenici per via di commercio, e che da quelli
passasse ai Greci, se vogliamo ammettere ciò che sostengono quasi tutti
gli antichi scrittori, cioè, che Cadmo facesse loro il dono del primo
alfabeto. Del qual Cadmo scrive Plutarco nei Simposiaci iib. 9 quist. 5,
che quel sapiente pose Z'aleph, o alpha per prima lettera del suo
alfabeto, perchè cosi chiamasi il bue nella lingua dei Fenìci, il quale
animale non è da stimarsi nè secondo nè terzo fra le cose necessarie all’ uomo
come pensò Esiodo. Circa poi al grecismo, che s’incontra nell’ etrusco, e
nell’Etruria, e circa le arti greche, che vi si osservano, come ancora in
altre parti dItalia, ne parlerò a lungo in un discorso, che tutto si
aggirerà intorno a questa materia, esclusivamente da ogni altro oggetto.
E proverò allora, che l’idioma degli antichi Etruschi è nel suo fondo
tutt' altra cosa che greco; dimostrando ad un tempo, in qual modo, e
questo grecismo sian da dirsi alcune cose eli io riserbo ad un altro
ragionamento. Ma ritornando al titolo del mio discorso, cosa è V
alfabeto etrusco? É questo un prodotto indigeno dell’ antica Etruria, o sivvero
vi fa trasportato da altra parte del mondo? E se qua venne da estranei
lidi, chi fu mai quel benefico straniero, che fece all ’ Etruria un dono cosi
prezioso ? Ed in questa supposizione, passò egli ai nostri antenati dall’
Oriente, oppure dall’ antica Grecia ? O si compose egli forse degli elementi di
più antichi alfabeti italici, o di questi, e del pelasgo fra loro
mescolati, e confusi ? E se vi fossero ragioni bastanti a dichiararlo
prodotto indigeno, a quale epoca rimonterebbe l’ antichità sua, ed a
quale ammettendo che sia frutto straniero, e per qual mezzo pervenne ai padri
nostri? A tutte queste quistiom, che possono opportunamente esser
mosse intorno al tema che ho tra mano, io mi studierò di rispondere,
quanto meglio e più concisamente per me si potrà, e come sarà possibile
rispondere, in qusto breve ragionamento, m una materia cosi oscura, e difficile
• E circa alla prima quistione, l alfabeto etrusco, quale noi lo possediamo
presentemente, non è certo una cosa diversa dall antico alfabeto greco,
ma sono anzi talmente somiglianti fra loro, se tolgasi il rovesciamento
delle lettere nell’ uno di essi, da doverli giudicare al confronto, senza
timore d’ ingannarsi, la stessa cosa, sia diesi riguardi la forma delle
lettere, o si consideri l uso delle medesime, Nè giova opporre a questa
asserzione, la maniera di scrivere degli Etruschi da destra a sinistra,
avvegnaché usavano di fare lo stesso anche gli antichi Greci, prima dell’ età
di Pronapide, che si pretende essere stato il maestro di Omero. Che anzi
esser potrebbe credi io, una tale particolarità, un argomento favorevole
agli Etruschi, per crederli i ritrovatori del loro alfabeto• Al che si
aggiungerebbe forza non poca, considerando l antichità loro, più
recondita assai di quella dei Greci. E più ancora verrebbe
avvalorato, e confermato un tale argomento, che gli Etruschi, cioè, siano
stati eglino stessi gli autori del loro alfabeto, riflettendo che i
medesimi continuarono in ogni tempo a scrivere, ed anche sotto la dominazione
dei Romani, da destra a sinistra-, lo che non avvenne dei Greci, iquali
cangiarono metodo, e presero a condurre la loro scrittura da sinistra a
destra. Ora è più ragionevole il credere, che il rovesciamento degli
elementi alfabetici, e del modo di scrivere, siasi operato da chi l’apprese
da altri, che da chi ne fù l inventore. E questo rovesciamento di
scrittura presso i Greci, vuoisi fissare, come di sopra accennava, ai tempi
omerici, o di Pronapide. A questo argomento però se ne potrebbe,
per avventura, opporre un altro, dicendo, ché giusto appunto perchè gli
Etruschi scrissero sempre conducendo, e tracciando i caratteri da destra
a sinistra, non debbono riguardarsi come i ritrovatori del loro alfabeto, ma
convien credere che lo abbiano ricevuto da qualcuno dei popoli asiatici,
e particolarmente di quelli così detti semitici., ì quali usarono
T-;,- Per la qual cosa, mi pare che dopo tutto quello che ho detto
finqui', si possa rispondere alle questioni proposte in questo medesimo
discorso, che V alfabeto etrusco non è venuto dal greco, ma bensì questo
da quello j che desso non è primitivamente indigeno dell’ antica Etruria,
quanto ai suoi elementi, i quali furono quà portati da una emigrazione
antica, in tempi tanto reconditi da non poterne fissar V epoca precisa, e
che s’ ignora chi ne fosse il primo inventore, e chi lo portasse il primo
fra noi. Sulla qual primitiva derivazione asiatica dell' alfabeto etrusco, in
età da noi remotissime, dettero un ragionamento a parte, che verrà
pubblicato in seguito in quest’ opera stessa. Ciò peraltro non vuol già
dire, che anche la lingua etnisca sia una lingua del tutto asiatica, come
la giudicarono troppo leggermente alcuni filologi, sebbene asiatici si
riscontrino l’ antico culto, e la maggior parte dei riti religiosi, e
civili degli Etruschi. Or qui farebbe di mestieri combattere, e
confutare tutte le opinioni contrarie ; nè io sarei alieno dal prendermi
un tale assunto, se i limiti prescritti a questi ragionamenti, nei quali non
deve olt repassare, per l’indole dell' opera cui son destinati, la
periferia di poche pagine di stampa per ognuno di essi, me lo concedessero.
Non potendo ciò fare, nel modo che si converrebbe, mi ristringerò ad
aggiungere quanto segue, e mi terrò per ora contento di questo.
Il Cori, il Majfei, ed il Mazzocchi confrontando gli alfabeti punico, e
celtibero, o cantabro coll’etrusco, dicono che vi trovarono minore analogia,
quanto alla forma dèlie lettere, che coll’ ebraico. Il Donati poi che
fece la stessa cosa nei suoi Dittici seguitando le osservazioni, che
avevano già fatte prima di lui a questo proposito, l’ Aquila, Teodozione
e San Girolamo, scrive nell’ opera sua intorno alle iscrizioni, che
quelle così dette Cizzie, sono riguardo ai caratteri, mollo simili alle
etnische j e lo stesso dice ancora del marmo Sanvicense conservato in
Osford, che vuoisi più antico della guerra troiana, e dei caratteri incisi
sulla lamina bustrofeda di bronzo, riportata dal prelodato Majfei nella
sua Critica Lapidaria, non meno che di quelli sulla colonnetta del Museo
Nani di Venezia, giudicata pelasga-tirrena, benché fosse ritrovata a
Mitilene . Questi monumenti, che si credono tutti scrìtti in greco
antico, e per essere questo mollo simile all’ etrusco, specialmente circa
la forma delle lettere, sono stati quelli che hanno fatto mettere in campo,
o convalidare l' opinione di coloro, i quali pensarono che il greco
antico, é l'etrusco fossero la stessa cosa, e che per giunta alla
derrata, la lingua dei nostri antenati sia nata dal greco. Senza avere
peraltro mai pensato a provare, che i Greci, ed il loro alfabeto fossero
più antichi degli Etruschi. Il Gori,fra gli altri, stabili
come un assioma, che la lingua etrusco era greca in non differiva da
quella che nel dialetto, nella quale opinione fu seguito dal Lanzi, e da
altri. Ne si avvidero, nè lui stesso, nè i suoi seguaci, che i Pelasghi,
i lirrem, i Pladani, i Lidii, gli Arcadi, e gli Ausonìi, sono perchè s J
introdussero nell' etrusco, e nèll' Etruria propriamente detta, quel grecismo,
e quelle arti. Che in quanto alla somiglianza, ed anche identità dei caratteri
etruschi, e greci antichi, sii di che fondarono finora il loro più valido
argomento tutti gli archeologi fautori del grecismo, per asserire che l'
etrusco, ed il greco antico sono in ultima analisi la medesima lingua, è
il più frivolo, ed anche il più ridicolo ragionamento, che immaginar mai
si possa, Avvegnaché, vale lo stesso che se io ragionassi cosi: gl’italiani,
i francesi, i fiamminghi, gli spagnuoli, i Polacchi, i Portoghesi, ed
altri popoli d'Europa, come gl'inglesi, i dalmati, e gl’olandesi, si servono
dello stesso alfabeto per iscrivere le loro lingue, dunque tutte quelle
lingue sono la stessa cosa. Ma quante sono in antico le lettere dell’
alfabeto etrusco, poiché essendone stati pubblicati finora dagli
antiquari fino a tredici, o quattordici, chi ne conta un numero maggiore,
e chi minore; ed il laborioso, e dotto abbate Lanzi ne ammette venti nel
suo ? Si deve credere che fossero sempre in egual numero, oppure che
venisse questo accresciuto a più riprese, e ad epoche diverse, come si
narra essere avvenuto dal greco, il quale fù condotto fino al numero di
ventiquattro lettere, benché non ne avesse che sedici nel suo principio ? E non
sarebbe questa una ragione di più, onde confermare ciò che accennava poc
anzi, che l’ alfabeto, cioè, facesse passaggio dagli Etruschi ai Fenici,
e da questi ai Greci, osservandosi ancora che nessuno degli antichi
alfabeti italici oltrepassò mai il numero di sedici lettere? Difatti nei piu antichi
monumenti, fra i quali nessuno vorrà contradire che siano da riporsi gli
atti dei fratelli Ar- vali, non se ne contano che sedici sole.
Di più non trovandosi mai usato l o nelle epigrafi antiche veramente
etnische, riscontrandosi questa lettera fra quelle degli altri monumenti
italici parimente antichi, come pure fra le prime sedici dell alfabeto greco,
cosi detto cadrneo, sì può dubitare se gl’etruschi ne avessero neppur
tante in principio, e cresce sempre più la probabilità della mia
asserzione. Secondo t enciclopedico Plinio, le lettere dell
alfabeto cadrneo furono le seguenti . cioè: ab r a eikamnoiipstt. Alle quali
poi ne aggiunse quattro Palamede, che sono, e 3 $ x. E finalmente
Simonide lo accrebbe di altre quattro, cioè, zìi va. E pare anche ben
naturale, come fù pure osservato dall’ erudito filologo francese Sig.
Letronne, che quei primi sedici caratteri siano stati inventati avanti
agli altri, perchè rappresentano i sedici tuoni elementari, o semplici,
ché formar si possono colla bocca umana, sia per intuonazione, o per
articolazione. Mentre gli altri caratteri aggiunti a questi, ed usati
negli alfabeti dei differenti popoli, esprimono, o delle gradazioni di
quei suoni principali, o la riunione eli più articolazioni in una sola . Di
maniera che ognuno di essi può essere più, o meno esattamente decomposto
nei primitivi suoni eh’ egli contiene. Che s’è regola di sana critica di
non prestar fede agli antichi poeti, in tutto ciò che narrano di
sovrumano, e di misterioso, lo è del pari di rintracciare il vero anche
in mezzo alla favola, che viene giustamente definita dai sapienti, il
velo deila verità, e della storia. Ipoeti dell’ antichità, ché erano più
istruiti di tutti gli uomini dell’età loro non inventarono, come si crede
male a proposito, le favole, ma bensì adornarono con finzioni la storia .
Rimossele quali finzioni, è cosa ben facile di rinvenire la verità, nei più
notabili avvenimenti per essi narrati, e abbelliti. Cosi la pensa Agostino
nel lib. della Città di Dio. E ci avverte Vossio nell’ aureo suo trattato De
fatione studiorum, che non si dicono favolose le antiche età, perchè sia
falso ciò che di essici vien riferito dagli scrit-, tori, ma perchè la
storia di quella ci è pervenuta insieme colle favole mista, e confusa. /u
M : oj : ntriq r : oqflj v/r 3Hfl Jiiffl -1 = q/i j/r n# j a san/urn/Mq/i V/13 : q A : D l
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\IA8 JAMAJll V A'! vq 1 : U434 .- A» n 33 4fl mif A4 : Al 3 f
25 tutti popoli anteriori ai Greci, e che trovansi tutti
amalgamati cogli Etruschi nelle età più lontane. Perlochè convien dire
che siano gl’etruschi stessi, i quali portino diverse denominazioni,
dalle diverse provincie dà loro abitate, nelle quali era divisa l’antica
Etruria. E come oggi i fiorentini, i senesi, i pisani, i lucchesi, ì magellani,
i casentinesi, e simili, sono tutti toscani, cosi pure nei più reconditi
tempi gli Umbri, gli Enotrl, gli Aborigeni, e tutti gli altri annoverati di sopra,
erano Etruschi. Silio Italico lib. a. 0 chiama Ausonia la Lombardia. Ed
Eliano lib. 8.° della Varia istoria, crede che gli Ausoniifossero i primi
abitatori di Italia-, mentre Pirgilio nel io. 0 dell’ Eneide, li confonde con
quelli che popolavano questa bella penisola sotto il regno di Saturno.
Servio poi commentando un tal passo, dice che gli Ausonii furono sì dei
primi popolatori cì Italia, ma non già i primi di tutti, nei soli. Ed
ecco perchè alcuni scrittori hanno compreso sotto il nome di Ausonia
tutta l’Italia. Ora tutti i surriferiti popoli, non esclusi neppure
i Latini, che molti autori vogliono che fossero diversi, e dagl Italici
propriamente detti, e dagli Etruschi, ripetono la loro prima origine da una
colonia, o emigrazione qua venuta dall’Asia, in tempi forse al di là di quelli
che da noi son detti storici. Lo che fu negato acremente da altri per la sola
ragione di potere stabilire, che i Greci furono i primi coloni di
Etruria, e che vi s’introdussero insieme con essi, le arti e le scienze,
e perfino la cognizione dei segni alfabetici. Ma non potendosi negare, senza
offendere il senso comune, che queste regioni erano popolate molti secoli prima
che i Greci le conoscessero per via di commercio, e vi spedissero in
seguito delle colonie, conviene di necessità ammettere, che i Greci non furono
i primi abitatori d’Italia, e per conseguenza neppure di Etruria, e molto
meno insegnarono loro a parlare. Quando peraltro non voglia credersi, ché
i popoli italici, e gli Etruschi, fossero tutti muti prima dell’ arrivo dei
Greci fra loro. Laonde cade, e si annulla il sistema dei fautori del
grecismo. Macrobio infatti ammette un diluvio, non già ai tempi di
Deucalione, e di Ogi- ge, ma bensì a quello di Giano, ch’ei qualifica per
primo re di tutta l'Italia. E Dionisio d’Alicarnasso, che è sempre in
contradizione con se stesso, dopo avere scritto che i Pelasghi furono i
primi popolatori d! Italia, che 5oo anni prima di Giano ne scacciarono i
Siculi, e che gli Enotri eransi prima dei Siculi stabiliti nell’ Umbria,
pretende poi di darci ad intendere, e farci credere, che Giano precedesse la
venuta di Enea in Italia di un solo secolo, e mezzo. Ma se il cosi detto
secolo d’ oro, ossia il secolo della pace, e della giustizia, fu secondo
Virgilio, ed altri scrittori antichi, quello in cui regnarono Saturno, e Giano,
questo non può essere stato posteriore all’ età di Noè, e de'suoi figli, che
dietro gli insegnamenti paterni, calcarono essi pure la via della
giustizia, e coltivarono tutte le virtù sociali. Etr • Mas.
Chius. Tom. nemico se gli Dei, per suggerimento di Nettuno, non lo
avessero voluto salvo 2 . Or non vedi qui pure Achille che tenendo lo scudo
lungi da se, pone mano alla spada ? Non vedi il Tanato che quasi
obbrobriato volge il tergo alla pugna col suo martello sugli omeri, per
mostrare che morte non avea luogo in quel conflitto, perchè ad ogni costo
dovevasi Enea salvare alla gloria d’Italia? Questo disegno è una quarta parte
del suo originale in marmo d’ alto rilievo. Qui si mostrano i due
laterali scolpiti del cinerario che è nella Tavola. Nell'uno e nell’altro sono
rozzamente indicate due porte, che rappresentano, credo io, le infernali, alla
custodia delle quali stan vigilanti due ministri del Tartaro. La figura
femminile al num. 2 è visibilmente una Furia, come dichiaralo quella face
che regge con ambe le mani; di che detti altri cenni 3 ; la virile col martello
sugli omeri è il Tanato, altrimenti detto Cliarun tra gli Etruschi \ e confuso
coll’Orco, ministro anch’egli di morte e d’inferno, che spesso incontrasi nei
monumenti antichi d’Etruria 5, e non già tra quei de J Greci, nè
de’Romani cosi rappresentato. La testa eh e nel mezzo, serve per
coperchio ad un vaso di terra cotta, di che dovrò trattare altrove; ora
avverto che questa è la terza parte del suo originale : Affinchè I’ urna
cineraria già esposta si mostri compita, fa d’ uopo di non disgregarne il
suo coperchio, dove si vede un seminudo recornbente con una patera in mano,
nell’attitudine stessa che vedonsi rappresentati gli Etruschi a mensa. Nè la
patera disdice a chi cena, mentre vedesi usata a convito dai commensali 6 . La
veste che in parte copre il recornbente è detta sindone, pure usata ai
conviti 7. La nudità della persona indica 1’apoteosi, di che altrove dò conto 8
. Il frammento di scultura segnato in questa tavola, è un tufo tenero, e
del genere di quello notato nelle prime cinque tavole della presente
collezione Chiu- sina. Orchi mai crederebbe, che nella tomba dove fu ritrovato
non vi fossero gli altri frammenti, che ne componevano l’ara intiera? chi
crederebbe che questa sorte di monumenti in tenera pietra arenaria si trovino
quasi costante- 1 * spiegazione
della Tav. xm. 4 Monumenti elr. s -5 Mono. etr. ser. i, p. 44 » 73,
74, 264, 284. 6 Ivi, ser. vi, tav. F. num. 2 . 7 Ivi
ser. i, p, 395. 8 Ivi ser. n,j>. 628. Nelle urne di
Volterra parventi ripetuto questo soggetto medesimo, ed ivi spiegandolo,
avventurai l’interpetrazione di un fatto tebano, del quale io stesso poco
andai persuaso, nè ora saprei meglio dire. Vi suppongo Anfiarao nell’atto
d’aver tagliata la testa di Menalippo, che Tideo, sebben ferito, aveva
già ucciso; e gliela portò, per cui da Tideo medesimo fu commessa
l’atrocità di aprir quel cranio, e divorarne le cervella. In ogni
restante ancora son simili queste due sculture, sebbene men rozza l’urna
di Chiusi. Questo disegno è una quarta parte del monumento originale di marmo
in bassorilievo. Quanto la frequenza delle rappresentanze di avvenimenti
ferocie marziali, come quei della tavola antecedente, fan giudicare l’etrusca
nazione d’umor malinconico 3, altrettanto voluttuosa e molle giudicar si
dovrebbe dal presente gruppo che appartiene alla scultura antecedente, per
esser quella un’urna cineraria, questa la di lei copertura . Credo per
altro che l’uno e l’altro soggetto non dall’indole degli Etruschi abbia
origine, ma da loro massime di religione, dove dicevasi che la vita era
un irrequieto contrasto, e la morte conduceva ad un vero godimento, il
quale non sapevasi esprimere che mediante la soddisfazione dei sensi 3.
Mentre il fasto orientale sfoggiava in lusso degli abiti, l’EROISMO dei Greci
caratterizzavasi col MOSTRARSI A NUDO Tra i guerrieri di questo bassorilievo ne
vedi uno vestito, e in questo caso potrebb' esser troiano, e tra i
Troiani credilo ENEA, che soggiacque a mille peripezzie di grave cimento,
senza però mai soccombere, perche gli Dei, per quel che ne dicono Omero \ e VIRGILIO
5, avean destinato ch’egli regnar dovea sopra i superstiti Troiani, e sopra i
figli dei figli, e sopra quei che appresso erano per venire da loro.
Difatti racconta specialmente Omero che Achille, cosa strana ! si
sgomentò nel combattere con Enea, e tenendo discosto da se lo scudo,
cercava di sottrarsi ai colpi vibrati da quell’eroe 6 ; ma poiché questi
a vicenda contrattosi colla persona, e copertosi collo scudo evitava
l’assalto dell avversario ', come nel bassorilievo mirasi espressa la
figura che ne occupa la parte media, Achille allora pose mano alla spada, ed
avrebbe trucidato <il 1 Monum. etruschi, Ser. 1, Tav. lxxxiii,
p. 666. 5 Virgil, Aeneid. ].
ni, y . 97, 98. 2 Ivi, p- 667. 6 Homer. Iliad. 1 . xx, v, 261,
26a. 3 Ivi, ser. v, spieg. della Tav. Homer.
Iliad. fu detta di lui consorte. Se consideriamo i due nomi spettanti ai
due pianeti Venere e Marte, potremo giudicare la figura terza per un Saturno,
altro pianeta. Nè da ciò si allontanano i di lui attributi, poiché ad
esso rompetesi, non solo quella barba prolissa che gli orna il mento, ma
eziandio quelle fronde, e germogli, o gemme di vegetabili che gli cuoprono il
capo, attributi propri di sì antico nume, non meno che la spada falcata da lui
sostenuta '. Queste tre deita e pianeti possono appellare all j oroscopo
di un’ anima che nella stagione di primavera passa agli Elisi, di che altrove
do più esteso conto a . 11 vaso contiene altre tre figure che saranno
spiegate nella Tavola seguente. Ecco le altre tre figure che vedonsi nel
b. rii. del vaso esposto nella Tav. antecedente. L’interpetrazione
dottissima scrittami di esse dal eh. sig. dott. Maggi, merita d’esser
nota preferibilmente a qualunque mia congettura. Egli dichiara in quel
mostro una Gorgone, o un Tanato: in quell’ uomo con testa ferina un
Minotauro: nell’uomo alato che sta nel mezzo un Mercurio. La totalità della
composizione credesi dal dotto interpetre allusiva al tempo nel quale facevansi
le annuali commemorazioni delle anime. Quindi la figura larvata è da esso
giudicata il Male personificato in un mostro, come fecero gli Egiziani
del loro Tifone; mentre credevasi che prevalesse il male all’ entrare
dell’ autunno . E questi nel tempo stesso il Charun degli Etruschi che
fingevano orridamente larvato, e di testa grossa. Indicano quelle mal collocate
sue ali che la morte raggiunge l’uomo ancorché fuggitivo da essa, di che
l’interpetre dà ragioni che appagano. La seconda figura è da esso dichiarata
per quel Mercurio, che occupato nell’ uffizio di accompagnar le anime, ha
deposti gli emblemi che lo distinguono per ministro dei numi. Giudica poi
la terza mostruosa figura esser il Minotauro allusivo al centauro o
centauri celesti, piuttosto che al figlio di Pasifae; e qui pure dà ragione in
qual modo leghi la dottrina delle anime colle favole dei centauri autunnali.
Nota egli che il fiore sia un anemone significativo del sole passato ai segni
inferiori, per cui sopravviene l’inverno, vale a dire il male che da ciò
risente la natura, e quindi anche le anime come credevasi,- tantoché quel
mostro con testa gorgonica rappresenta parimente il sole iemale. Gli
uccelli sono, a tenore del di lui parere, siderei, anch’essi spettanti ai
segni inferiori, e indicanti la via lattea che percorrevano le anime nel
passaggio loro alle sfere celesti. Da ciò conclude che tutta la rappresentanza
sia una spece di geroglifico significativo dell’autunno, cioè del tempo
in cui le anime dovevan esser suffragate. Egli palesa d’ aver tratta
questa interpetrazione dallq mie opere 3 . i Bianchini, Stor.
universale,cap. li, §x,p. 84 * >, pag. i8t, lettera al dott. Maggi,
a Inghirami, Lettere di etnisca erudizione, Tom. 3 Lettere, lettera di Maggi. mente
mutilati? Eppure è così; nè ciò farà tanta sorpresa, se consideriamo che
anche i vasi fittili sepolcrali si trovano spesso rotti dagli antichi. Sarebbe
forse ella mai una ferale cerimonia liturgica ? Qui
osserviamo ancora un vasetto in pietra arenaria, tre quarti men grande
del suo originale; ed è simile a quei che prima dicevansi lacrimatorii, e che
ora si dicono unguentari 3, perchè si vedono in mano di chi versa
unguenti sul rogo 3, nè questo è dei comuni per la gran somiglianza coi
vasi egiziani dell’uso stesso.Notiamo questi recipienti con volgar nome di
bracieri, mentre per tali si tengono quei che sono atti a contener brace,
ed insieme i vasi escari, e culinari. Ma l’originale qui copiato a metà di
grandezza, non fu vero braciere, nè veri escari quei recipienti che vi si
contengono, mentre l’uno e gli altri sono di fragile terra cruda, non
atta a resistere l’effetto del fuoco . Io suppongo essere stati adoprali
nei riti funebri i veri bracieri di bronzo detti anche borni, usati a
bruciar vittime, e profumi. Quindi al termine della funebre cerimonia in luogo
di lasciar questi nel sepolcro, come lo esigeva il rigore del rito, altri
bracieri di semplice figura, e formalità, perchè di terra non cotta,
sostituivansi a quelli. Il pollo che vi si vede nel mezzo, è consueto
simbolo di buon augurio, che vedemmo altrove 4 . Le varie teste che
ornano l’utensile han pur esse il significato medesimo relativo alle anime,
come in altre occasioni ho notato*. Serve la tavola presente a
mostrare qual fosse la forma esteriore del braciere o escaria, o estia che dir
si voglia, la quale vedemmo nella parte anteriore disegnata nella tavola antecedente.
Le sfingi e larve che vi si vedono apposte, sono analoghe all'uso ferale di
questi monumenti 6 .Questo vaso ch’è una quarta parte dell’ariginale, è della
solita pasta nera con ornati, e figure a bassorilievo i, le quali sono in
questo disegno della loro naturai grandezza, e ne occupano tutto il
corpo. Ivi son ripetute tre volte. La prima di esse figure
indubitatamente è un Marte; e in conseguenza la donna che gli è dappresso,
quantunque priva di attributi, può credersi Venere, che nella mitologia
1 Museo Chiaramonii Tav. xxv. 5 Pollux. 1 . i, segm. 3 . 2
Paciaudi, Monuoi. peloponues. Voi. u, p. iSo 6 Motium. etr. ser. i, p.
aao. 3 V e d. p. ij, 7 V’cd. la spiegazione della Tal. ini. SUL
GRECISMO CHE S’INCONTRA NELL' ETRUSCO, SULLE ARTI GRECHE OSSERVATE IN
ETRURIA, E SULL’ ORIENTALISMO CHE RIDONDA PER TUTTA ITALIA. Era involta
l’origine degli Etruschi in ima impenetrabile oscurila fino dal tempo in
cui scrivevano i più antichi storici che noi conosciamo. Lo che fa
certamente gran maraviglia, quando si riflette all’ esteso dominio di quel
popolo, sì celebre, e sì potente, che aveva una Casta sacerdotale, e
possedeva tempo immemorabile un particolare alfabeto, ed era più avanzato
nella civiltà di tutte le altre nazioni di Europa. E ciò molto prima dei
Greci, pensino, e ne scrivano in contrario, i dotti compilatori della
Rivis a Lungo. Tutto quello poi, che noi sappiamo della sua susseguente
istoria, e c e e suìistituzioni, non ci è stato trasmesso che dalle nazioni
contemporanee, giacche gli scritti degli autori etruschi, sono periti da lunga
età. E le loro iscriA ni scolpite sul marmo, e sul bronzo, non sono
finora più intelligibdi per noi, i quello che lo siano i
geroglifici egiziani. Ma se dunque la lingua etrusco, non è in prima
origne la stessa che a greca antica, con piccola diversità di dialetto,
come pretendevano, il Gori, e i suoi fautori, e più modernamente l
industriosissimo Abbate Lanzi, e tutta la sua scuola. Se i Greci non
furono i maestri degl’etruschi, in qual modo, riprendono quelli di
contraria opinione, s J incontra cosi frequente il grecismo nell'
etrusco, e si osservano cosi comunemente le arti greche in Etruria . ben
rispondere a queste domande, sono da premettersi alcune considerazioni,
che verrò qui brevemente esponendo. Ridonda in primo luogo, nell’etrusco,
il grecismo, per una ragione opposta diametralmente a quella predicata, e
diffusa fin qui dagli archeologi, cioè, perchè furono gli Etruschi ad un’
epoca assai recondita, i maestri dei Greci, i quali riceverono da essi, e
dagl’egiziì, le prime nozioni della scrittura, per mezzo dei Fenici, come
altrove accennammo. Questi elementi però non erano in prima origine
prodotto indigeno della Etruria, ma v’ erano stati trasportati da
una più antica emigrazione asiatica. Osservansi poi, in secondo luogo, in
ogni parte di Etruria, ed anche nel resto dell’antica Italia, gli avanzi
delle arti greche, perchè quella vivace, ed ingegnosa nazione, che aveva
il talento e l’attitudine di perfezionare, non me- Quando si trova nei
monumenti Mercurio che ha sulle spalle un ariete, se gli dà il nome di
Crioforo, e cosi nominavasi la di lui statua venerata in Lesbo, che avea
scolpita Cakmide, a significare ch'era il dio dei pastori, come crede la plebe, mentre altri asserivano eh’ aveva
liberato quei di Tanagra dalla peste, girando tre volte in forma
espiatoria intorno alla città, con un montone sulle spalle. Ma il vero
senso, benché mistico di quell’atto, è la congiunzione del sole col segno
dell’Ariete, per cooperare allo sviluppo della generazione, mediante la quale
son rivestite le anime d’utnana spoglia, per cui cred’io che talvolta il
nume vien espresso con lubriche forme. Il religioso cerimoniale degl’idoli
portava in fatti che l’ariete o lo stesso nume si rappresentasse nelle patere
libatorie per onorare i morti. Questa pittura è nel mezzo d’ una tazza di terra
cotta, che ha di più il pregio d’essere scritta, ove peraltro non leggesi
che un saluto di buon augurio ad Erilo Eprìo; K«)oe. tavola
xxxvr. Di questa muliebre figura non mi occorre dir molto, per
esser già nota mediante l'estese notizie e congetture che ne detti
altrove ». Io la giudicai rappresentativa della divinità presso gli Etruschi,
giacché ne monumenti de'Greci non si trova mai, e la dissi una Nemesi Dea
ch’ebbe origine in Asia, e perciò munita di pileo frigio, e di doppie ali, onde
mostrare la velocità del suo corso, per cui le si vedono altresì le
scarpe. Ha in mano un simbolo eh' io giudicai allusivo alla natura
prolificante w*, »//>, mentre gli Etruschi tennero la narura e la
divinità per una cosa medesima. La corona che l’attornia è di frassine,
vegetabile sacro a Nemesi. Tutto il monumento, eh’è uguale in grandezza
al suo originale, è un disco di bronzo assai frequente tra i monumenti
etruschi, lucido nella parte avversa, e manubriato in sembianza di
specchio; e poiché se ne son trovati alquanti nelle ciste mistiche, ove
Clemente Alessandrino dice esservi stati riposti gli specchi unitamente ad
altri simboli mistici, così li chiamai ordinariamente specchi mistici 3
. i Monumenti etr. ser. ti, dispregiarsi l'etimologia, quanti 1 ella è
sobria, e ragionata,) comincerò da quelli delle lettere dell’ alfabeto .
1 quali non avendo alcun significamento in greco, e portandone uno
analogo alla loro posizione,ofigura, o suono, negl’ idiomi asiatici, è ben
facile a comprendersi da chicchesia, che non dalla Grecia, ma dal- l’
Asia derivar debbono la propria origine. E vaglia il vero: Alpha,
per esempio, significa principe, primo, principio, e sìmili, in più
dialetti asiatici, e precisamente in quelli cosi detti semitici, nei
quali si pronunzia aleph, o alepha, e per contrazione alpha, cui pare che
fosse dato un tal nome per essere la prima lettera dell’ alfabeto,
Beta, che viene da beth, betha, suono imitato dal belare delle pecore, e
però sempre inalterabile nella sua naturale Semplicità, checche ne ciancino in
contrario i grammatici, i quali pretendono di farcelo pronunciare bita, ed
anche più barbaramente vita, vale una sorta di casa, per la somiglianza
che ha questa lettera colla casa stessa, nell’ Alfabeto semitico.
Gamma viene da ghirnel, gamia, gamal, che vuol dire carnelo, ed imita
colla sua forma la gobba, o le gobbe di quell’ animale. Cosi delta deriva da
da- leth, o deleth, deletha, e per sincope delta, e significa porta, cui
somiglia pure nella figura. E cosi ancora epsilon fu presa dalla he semitica, e
trae la sua denominazione dal suono che si manda fuori nel
pronunziarla. La zeta, deriva dalla zain, quasi ziian, che vale un’ arme,
perchè somiglia nella sua forma ad un dardo. E cosi percorrendo l’
intiero alfabeto. La quale opinione acquista una forza tanto
maggiore, in quanto che si osserva, che gl' ingegnosissimi Greci, non hanno
neppure nella loro lingua, che è si ricca, un vocabolo indigeno per
nominare la più bella, e la più maravigliosa di tutte le cose create, qual è il
Sole. Imperocché la voce, elios, di cui si servono per nominarlo, non è
altro chela pura semitica, el, o eloab, inflessa alla greca . E SIGNIFICANDO
essa, fra le altre cose, anche Dio nel suo primitivo idioma, si vede il perchè
si propagasse ancora in Grecia, come altrove il culto del Sole. A maggior
conferma poi del mio assunto, ecco una serie di nomi, presi qua, è là
senza scelta, ed appartenenti a cose assai diverse fra loro, come a dire,
divinità, eroi, fiumi, monti, città, provincie, popoli, edifici!, e
simili, i quali tutti sono evidentemente orientali, avendo nelle lingue
asiatiche, un significato, mentre non ne contengono alcuno nei linguaggi
degli altri paesi. Lo che viene a provare ad un tempo, che i Greci non
sono i ritrovatori della loro mitologia, e che altro non hanno fatto che
foggiare un infinito numoro di ridicoli Dei, prendendo per cose reali ì simboli
degli Orientali, e le loro allegorie, e parabole . ti. facile
infatti avvedersi, che Pale, la quale presiedeva alle feste rurali in Italia, e
Pallade, che mentre era la Dea della guerra, e delle arti, insegnava la
convenevole cultura agli Ateniesi, non sono che un soggetto medesimo, sotto due
nomi diversi; ì quali però vengono entrambi dalle voci semitiche, palai, e
pillai, che significano, regolare i cittadini, e da pillali, che vuol dire
ordine pubblico. no che l'industria di farsi suoi gli altrui ritrovamenti,
mandò a più riprese, come tutti sanno, colonie in Italia, le quali vi
fecero pure lunga dimora. Queste colonie pertanto, riportarono nelle
nostre contrade, più belle, e più gentili quelle arti medesime, che ne avevano
prima trasportate, grossolane, e rozze alla terra natale, i loro
predecessori. Ora, siccome andrebbe grandemente errato il giudizio di
colui, che vedendo un italiano vestito alla parigina, o all’inglese,
volesse inferirne, che quella foggia di vestimento sia invenzione
italiana, cosi è di quelli, che tutto vogliono attribuire ai Greci, perchè i
monumenti che ci rimangono dei nostri antenati, sentono più, o meno del greco
stile, e della greca maniera. Nè vale opporre, che mancandoci le autorità
degli antichi scrittori, onde fiancheggiarla, e provarla, fa d’uopo rigettare
una tale opinione. Imperocché, ove siamo privi di monumenti scritti, che
bastino a provare un assunto di questa specie, è giuoco forza ricorrere
al senso comune, e farsi scudo del raziocinio ; i quali valgono m ultima
conclusione più di qualunqué autorità degli scrittori, trattandosi dei
non contemporanei. Ora questo senso comune, e questo raziocìnio,
rafforzati da un gran numero di nomi, ( oltre quelli dell alfabeto, e dei suoi
elementi ), di fiumi, di montagne, di città, di provincie, di divinità,
di eroi e simili, ci attestano altamente, e chiaramente ci dicono, che dessi
non possono esser venuti che dall’ Asia, perchè sono asiatici, e tutti
ritrovano il loro significamento negli idiomi di quella parte di mondo.
Ed essendo questi medesimi nomi per la maggior parte assai più antichi di tutti
i monumenti, e di tutte le storie che finqui si conoscano, non si può
negare di ammettere, che se asiatici non furono i primissimi abitatori di
Italia, e per conseguenza d’Etruria, tali però debbono essere stati
assolutamente, quelli che insegnarono agli Etruschi l’arte Ai scrivere, e
ne volsero gl’intelletti alla cultura delle arti necessarie alla vita, e
delle utili, e dilettevoli discipline. E perchè non paia ai nan dotti in
tali materie, ed agli imperiti delle lingue orientali, che io mi tragga
dalla propria Minerva siffatte opinioni, così contrarie alle già invalse,
ed approvate dal maggior numero degli archeologi, che scrissero sull’
Etruria, e sugli Etruschi, è necessario che io venga esponendo, le
opportune prove di quanto asserisco, ai miei lettori. Perlochè, senza
veruna pretensione all' infallibilità delle mie asserzioni, eccomi pronto
alla dimostrazione delle medesime. E tralasciando di riferire in questo
ragionamento tutte le tradizioni, non mai interrotte dai tempii più reconditi
fino all’ età nostra, le quali dicono essere stati gli antichi Etruschi
nazione cultissirna, e potentissima, mi ristringerò a quella che
c’istruisce aver eglino attinti i primi lumi della loro civiltà, da una
colonia, o emigrazione proveniente dalle parti orientali, che furono la
cuna del genere umano, e di ogni sapere, e non già dai Greci, che erano a
quei tempi, se pure esìstevano, del tutto incolti, e selvaggi. Venendo
pertanto all’ etimologia dei suddetti nomi, ( che non è sempre da Etr.
Mus. Chius. ^ libio, e Tolomeo, dalbascuenze pitsà, equivalente a
schiuma, perchè situata, secondo Rutilio, vicino al fiume Ausuro, e sull’
Arno, Quam cingunt geminis, Arnus, et Ausur aquis. Orvieto, chiamato
Herbanum da Plinio, prende il nome dalle celtiche voci herd, e baun che
vagliano terra alta. E di là scendendo verso Roma, incontrasi non lontano dal
Tevere il lago Vadimone, o all’etrusca Vadimune, oggi lago di Bassano,
alle cui acque attribuisce lo stesso Plinio, fra le altre qualità, vis qua
fracta solidan* tur; la qual salutifera proprietà è significata dalla
prima parte del suo nome, chea vateded equivale in celtico ad
utile,proficuo,e simili. Angiunge poi lo scrittore medesimo che era quel lago
riguardato come sacro, perchè sotto l immediata protezione di non so qual
deità ; lo che viene espresso dalla seconda parte del nome ch’ei porta,
cioè, mund, o più dolcemente mun che corrisponde difesa, protezione, e
tutela. Trovavasi poi al mezzodì di tal lago Fescennio, luogo celebre per
le sue oscenità, e le quali sono indicate dal nome, essendo gitisi’ appunto
licenza, sfrenatezza, il SIGNIFICAMENTO di quello; e però ne cantarono,
Orazio Fescennina per hunc inventa licentia morena, e CATULLO, Ne
diu taceat procax Fescennina licentia; Oltre di che, il
celtico wels-hein, latinamente Fescennium, s’ interpetra bosco di
Venere. Nomina Tito Livio, Fanum Voltumnae, oggi Viterbo, e credesi
comunemente che questa Voltumna fosse una divinità. Difatti il Dempstero
la reputa la prima fra tutte le etnische, e Banier V annovera frale
campestri. Ma è da credere che Voltumna, venga dalle due voci volt e tun,
e per questo il Fano prendesse il nome non già dalla divinità, ivi
adorata, ma dal luogo ov’ era posto, poiché significa colle percosso dal
fulmine,o colle fulminato. Cosi pure, Auno, famoso Ligure, ausiliare di
Enea, quando venne a stabilirsi in Italia, e che trovasi descritto
nell'undecimo libro dell’ENEIDE, come paurosissimo nello scontro colla
valorosa Camilla, significa precisamente pauroso, timido in lìngua armorìca,
uno dei dialetti indo-scitici. E Cupavone, che andò pure col suo naviglio in
soccorso di Enea, si traduce capitano di mare, come Taro,,f ’interpetra
gran fracasso, o che fà gran fracasso, rovinìo, o danno, ed ognuno di
leggeri comprende, quanto ciò si convenga ad un tal fiume romorosissimo,
e precipitoso. Iasio viene da iasesc, che vuol dire, longevo, antico, e
ben corrisponde all’idea, che ce ne danno ipoeti, come Capi deriva da
capasci, uomo libero, traendosi da ca- pasc, libertà. Laberinto procede
da labiranta, che vuol dire torre, palazzo; Trittolemo da triptolem, che vale
l’apertura dei solchi, Celeo da celi, vaso, ordigno, masserizia, e però dice VIRGILIO
(si veda), Virgea preterea Celei, vilisque supellex. Palilie, ossia la
festa degl’istituti, e delle leggi, derivada palilià, c he significa l’ordine
pubblico, o da peli], che vale moderatore/Iella cosa pubblica, il primo in
Isaia, Penati, è voce che deriva da penisi!, luogo interno, o intimo, e la
cui radice è penàh, che vale penetrare; tutte le quali significazioni
convengono benissimo a quelle familiari divinità degli antichi Romani. E Levana
deità latina essa pure, è la medesima che Lucina, la quale sostenta i
nati di fresco, e deriva da Jevanàh, che vuol dir Luna. La Parca,
non è cosi detta a non parcendo, come pretendono i Grammatici, e gli
Etimologisti latini, ma bensì da parech, che vale rottura, perchè tronca essa
il filo della vita; come Cerere, da gheres, spiga matura, e Cibele, da
chebel partorire. Difatti quella prima è la dea delle messi, e viene
riguardata la seconda come la madre di tutti gli Dei . Osservo il
Passeri, che Venere, detta Venus dai Latini, era parola sconosciuta ai
Greci, i quali esprimono questa pagana divinità, colle voci Sfpofarv,
topo, Afroditi, o Afaodite, Kipris, Kitereia. E fu per lungo tempo ignota
anche ai Romani, come attesta Macrobio nel primo libro dei Saturnali.
Afferma poi Earrone che il notile di questa Dea, non conoscevasi fra gli stessi
Romani, nè greco nè latino, neppure sotto ire. Ed aggiunge Pausatila nel
suo primo libro, che era ignoto agli antichi Greci, e che lo aveva trasportato
fra loro Egeo dalla Fenicia, e dall’isola di Cipro. Gli Etruschi però
conoscevano benissimo una tal Dea, eia chiamavano Vendra, come rilevasi
da un antico specchio mistico . E la sua origine sente dì ebraico, avvegnaché,
ben-thara vuol dire figlia del mare perchè tbara significa umidità, dal
qual vocabolo fecero i Grecite, tharas figlio di Nettuno. Quindi furono
dette Tbarso quasi tutte le città marittime, e tarsisc, il mare, il lido,
un porto. Dalla stessa voce ben, che si cangia spesso in ven, per le regioni a
tutti note, furono composti molti nomi di Dee, come quello della Bendit degli
Sciti, di Bentasicima figlia di Nettuno presso Filostrato, ed altri. Nè
vennero da una sola parte, e nomi, e riti, e costumanze asiatiche in
Etruria, ed in tutta Italia, ma per più e diverse vie: peri oche non da
un solo linguaggio asiatico trar si debbono le spiegazioni dì questi
nomi, ma da più, e diverse lingue, e dialetti di quella famosa contrada.
Quindi tutti i celtici, e tutta la gran famiglia degl’ idiomi così detti
indo-scitici, possono esser messi utilmente a contribuzione, come altra
volta accennammo per la retta intelligenza dell’ etrusco, e per interpelrare
gli antichi monumenti del nostro paese-.Dal che viene a dimostrarsi, che il
dotto, ed acuto padre Rardetti, non aveva poi tutti i torti, di che altri
volle troppo leggermente aggravarlo. Ma riprendiamo la nostra disamina. LIGVRIA,
nome di quel tratto di paese, detto la riviera di Genova, fu cosi detta
da Liguria voce bascuenze,che vuol dir soave. E si formarono probabilmente
da questa, il verbo latino, ligurire, che significa mangiare soavemente,
o mangiare cose soavi, e il nome greco liguros che vale anche soave. Pisa,
cosi chiamata, o per la figura dell’ antico suo porto, che si trarrebbe da
pi* se,che vale in dialetto lidio porto lunato, o se fu detta Pissa, come
la chiamano Po - II NUDO idoletto in bronzo che in questa Tav. si espone
davanti e da tergo, nella grandezza medesima dell’originale, con altri
similissimi a questo, sparsi pe'musei, forma soggetto di mature, ma non per
anche fruttifere riflessioni degli archeologi, che se per un lato vi ravvisano
una gran somiglianza coi monumenti egiziani da far sospettare che sian
idoli venuti d’Egitto in Etruria, atteso specialmente il costume e f
acconciatura anteriore e posteriore de’capelli; dall’altra non concepiscono
come gli Etruschi abbian potuto ridursi a mendicare manifatture
d’Egitto,menti'’ erano essi medesimi famigerati artefici; nè la storia ci addita
in conto veruno un traffico simile tra le due sì disgregate contrade. È
vero che Strabone veduti i lavori d’ambedue le indicate nazioni, li
giudicò di un medesimo stile, simile a quello dei Greci antichi ma par
ch’ei ciò riferisse allo stile dell’arte, e non al costume delle figure .
In qualunque modo peraltro si volesse risolvere l’obiezione, qui non
sarebbe luogo opportuno di estendervi. L’altro bronzo che
rappresenta una fiera testa di lupo, servì probabilmente per ornato nel
manubrio d’ un arme da taglio. Ebbero gli antichi una singoiar cerimonia
religiosa, alla quale davano il nome di Jettisternio, consistente in un
convito che si faceva nel tempio, o nel sacro recinto, dove si
apparecchiayano le mense ed i letti, perivi stendersi i devoti che lautamente
mangiavano in onor degli Dei, ma vi si preparavano ancora altre mense ed
altri letti, dove si deponevano le statue dei medesimi numi, a’quali porgevan
vivande, come se fossero stati realmente Ior commensali =. È dunque probabile
che il presente rudere antico facesse parte d’un di que’Ietti che preparavansi
per le statue, i quali si potevano usare a tal uopo di qualunque
grandezza. L’ornato stesso di un seguito di figure tutte ugualmente
recombenti, con tazze in mano, come stavasi a mensa, fan sospettare
delbanalogìa di rappresentanza coll’uso accennato del rudere, ch’èdi
pietra arenaria, una terza parte maggiore del presente disegno. Lo stile
a parer mio si mostra imitativo piuttosto che ingenuo d’un’ antichità non
poco lontana. É già noto all osservatore il nome e l’uso di questo
mobile, per le tavole, al cui proposito dissi che \non veri foculi, ma figure
di ì Monum. etr. ser. m, p. 4 oi. a LIVIO. Laurent, de
prond.et coena vet, c. zi, conviv. vet. c. 4 *, il secondo in Giobbe. E
Pamilie, festa che veniva dopo la raccolta, ed il cui significato e 1 uso
moderato della lingua, da dove s introdusse presso i Greci il costume di fare
esclamare e rivolgere al popolo le parole «pi« yWoias tamnete glossas.
cioè, troncate le lingue, astenetevi dal parlare, derivansi da pa-mul, la
bocca circoncidere, o da pamylah, circoncisione della bocca. E siccome
era questa una ottima lezione morale per rendere gli uomini sociabili, e
felici, così tutte le piccole società dei congiunti, o d’altre persone
che vivono insieme, furono dette fatniliae, e da noi famiglie.
Camilla è voce pretta etrusca, dicono Servio, e Festo, e significa
ministra degli Dei . Sia pur vero, ma in idioma orientale significa un
tal nome, ciò che dissero i Latini serva a manu; o filia a rnanu, giacché
cam vaia mano, ed bill figliolanza, come osservò Eccardo al titolo 23
della Legge Salica. E filia a manu, o serva a manu e una espressione
convenientissima alle giovinette, che metter dovevano le mani in cento
cose, essendo destinate a servire. Tarconte, autore secondo le favole di
Tarquinia, fratello di Tirreno, o disceso da lui, che sopraintese a
dodici città, il che non è bagattella,fà secondo la verità storica un
valoroso soldato, che avendo difesa la sua gente, venne denominato lo scudo 5
tale essendo ilsignificamenlo del gallico tarcon, o dell’armorico targad.
E finalmente, Tages, o Tagete, che narrano esser saltato fuori fanciullo,
dalla terra che sfavasi arando, che fu alla nazione etrusca il primo
maestro delVaruspicio, che il senatore Buonarroti lo ha creduto espresso
nella tavola 45 fra le aggiunte al Dempstero, non può venire che dalla
voce asfcia, tag, la quale significa giorno. E pare che gli Etruschi
volessero fare intendere con questa figura, o parabola, che i giorni, p
come noi diremmo il tempo, aveva loro insegnato l aruspicina, o l'arte di
antiveder l avvenire. Avvegnaché di simile parlare figurato, sono ripiene
le pagine degli scrittori sacri, e profani. Dei quali basterà nominar
qui, tralasciando gli altri, David, Pindaro, Tullio, e VIRGILIO. E
siccome dice lo stesso Pindaro che le ore avevano insegnato agli uomini
molte delle antiche arti, così poteva secondo gli Etruschi, aver loro il
giorno insegnato l aruspicina-, Imperocché scrive il prelodato Tullio,
che opinionutn commenta del etdies, naturae iudicia confirmat; E Virgilio
cantò, Turne, quod optanti, divum permittere nemo Auderet,
rolvenda dies en attullit ultro. Domanderò ora ai dotti, se dopo la
spiegazione da me data a tanti nomi dei quali potrebbe estendersene il
numero per centinaia, e migliaia, sia possibile che una fortuita
combinazione, possa rendere così ragionevolmente corrispondenti i loro
significati, agli usi, ai tempi, ai luoghi, ed alle circostanze degli oggetti
per essi indicati. 4 ° va spossato di forze; e incontro a lui,
come narra Omero i Troiani e gli Achei si tagliano a vicenda gli scudi e
le targhe. Il berretto asiatico, del quale il recombente è coperto in
questa tavola, mostra più manifestamente che altrove la sua qualità di
Troiano, e perciò mi confermo nel crederlo Enea. Gli altri corpi che
vedonsi rovesciati a terra, fan fede che il fatto accade in un campo di
battaglia; e nel tempo stesso più che bellezza, dà merito al monumento quella
ricchezza di lavoro, che ne’tempi dell' arte in decadenza preferivasi al bello,
che n’è il vero pregio. La ricchezza colla quale vedemmo decorata di
scultura l'urna cineraria in marmo, il cui disegno è stato presentato
nella tavola antecedente, tre volte più piccolo della di lei grandezza,
non potette appartenere che a persona qualificata e facoltosa. Ciò si
verifica nell'osservarne il coperchio in questa tavola disegnato, sul quale
riposa un giovine riccamente vestito, decorato di onorifiche insegne,
quali sono principalmente l’anello e la corona di alloro che ha in mano, il
torque che gli orna il còllo, ed un ricco balteo che dall' omero sinistro
gli scende al destro fianco. La corona che ha in capo non è di semplice
onore, ma gli spetta come recombente a convito: posizione che viene affermata
dalla tazza che ha in mano, come usa chi sta a mensa. É stato ragionato
dagli antichi di una guerra delle Amazzoni, la quale ha non poco del
favoloso 3, come lo prova inclusive la diversità colla quale è narrata,
ma nella varietà della favola v’è gran concordia tra i mitologi per
introdurvi i cavalli 4 . Or poiché veri combattimenti antichi a cavallo
non si conoscono descritti dagli autori de’tempi omerici, o poco dopo, così non
resta che quel delle Amazoni, o con gli Argonauti 5, o con gli Ateniesi 6,
che incontrisi nei monumenti, come approvato tra le rappresentanze
dell’antichità figurata. Dunque intendo di calcar le massime consuete
spiegando il presente bassorilievo per un Amazone equestre, la quale combatte
con un militare a piedi, sia pur costui un eroe degli Argonauti seguaci di
Ercole, o un Ateniese del seguito di Teseo. La Furia con face in mano è spesso
introdotta nei combattimenti anche dai tragici greci 7. L’urna cineraria
in marmo originale misura quattro volte questo disegno. La semplicità
dello stile caratterizza questo bas- i Iliad. a Inghirami
Galleria omerica, Iliade Tav., Monumenti etr. Diodor. Sic. Monum.
etr. 7 Ivi, Ser, 1. p. 269, 3 i 6,
477 » 534 » 5 ^ 9 » 568 . 3 9 essi erano quei che si
trovavano entro le tombe di Chiusi, perchè essendo di terra non cotta,
potevan soltanto servir per figura in qualche sacra cerimonia 1 2 . Ecco
pertanto in questo disegno uno de’ veri foculi, o thimiateri qualora
questo braciere sia stato in uso per cuocer vittime, percb’è di bronzo, e
per ciò capace a resistere all' azione del fuoco, siccome anche i vasi e gli
altri arnesi da cucina, che vi si trovarono dentro. Anche la sua grandezza
eh’è due terzi maggiore di questo disegno, attesta della capacità d’essere
stato ado- prato. L’indefessa gentilesca superstizione ci fa supporre,
che non a caso fosse un tale utensile ornato dal Capricorno, ripetuto nei
quattro suoi angoli, mentre ogniun sa che quel celeste segno fu oroscopo
di fortuna, che tennero per loro impresa Cesare Augusto, l’imperatore Carlo V,
e Cosimo I Granduca di Toscana. Quell'animale vi sta dunque in luogo del
gallo che vedemmo nell’altro foculo già rammentato. La forma di
questo foculo di terra nera e non cotta permette che se ne osservino
distintamente i vasi da cucina e da tavola ivi contenuti. Le replicate teste
d’ariete ivi affisse, nonlascian dubbio che il vaso non sia fatto
espressamente per uso sacro, ed allusivo a Mercurio; il quale presedeva
alle libazioni, come il mediatore delle preci che gli uomini porgevano ai
numi 4. Oltredichè ci è noto, che alle anime, come anche ai numi
infernali, facevasi olocauso d’un ariete di color nero; ed io vidi a
questo proposito vari bassi altari nel museo etrusco di Volterra, ornati
di teste d’agnelli, come il foculo qui esaminato. In un bassorilievo
trovato a Chiusi, ove sembrommi di vedere il medesimo soggetto che nel
presente, all'occasione d’averlo dovuto spiegare, scrissi quanto appresso. «
Quando Venere e Apollo ebber sottratto Enea dalle furibonde armi del
prode in guerra Diomede, allora Febo immaginò di lasciar combattere a
sazietà i Troiani coi Greci, sostituendo ad Enea l’idolo, 9 1’ ombra di
lui 6 . Questa poetica immagine del combattimento di due partiti per un
fantasma, fu cara oltremodo agli Etruschi, mentre ne vediamo la
rappresentanza in diversi dei lor cinerari, dove si osserva il simulacro
d’Enea caduto a terra per la percossa del sasso gettatogli da Diomede, in atto
di cercare una qualche difesa nella trista situazione in cui si tro-
1 Ved. Tav., VIRGILIO, Aeneid, 1 . vi. v- 2 4 L Varrò ap. Geli. 2
Inghirami, Im, e R. Palazzo Pitti, p. 88. !• iu, c. 11. 3 Ved. Tav.
6 Ilomer Iliad. Monuin. etr: ser. n, p. mostra in questa Tavola il
disegno rappresentatovi, non potea meglio esprimere in esso un tale
avvenimento, poiché dipinse Peleo qual destro giovine preparato alle
nozze, in atto di tenere stretta la ritrosa Teti, che quasi è per coprirsi ’J
volto col ve lo per l’onta di quell'atto. Peleo eseguì ciò per consiglio
di Chirone divenuto il di lui suocero con quelle nozze. A lui davanti
Peleo conduce la sposa, quasi che gli domandasse assenso della unione maritale,
mentre il centauro coll’atto di stender la mano dimostra l’annuenza
paterna dell’imeneo. È superfluo il sospettar ch’altra favola sia
rappresentata in questa pittura fuor che quella di Peleo e Teti davanti a
Chirone, mentre lo attestano le iscrizioni che vi si leggono setie teaes
kipos, e quindi un nome proprio di Nicostrato coll’aggiunto consueto
nikoztpatos kaaos. Le figure qui riportate son alte la metà di quelle che
vedonsi nella pittura del vaso originale, che ha fondo nero, con lettere
dipinte in bianco appena visibili. I vasi che han la forma come il
presente sogliono avere altresì tre manichi, ed una sola fronte ornata a
figure; questo a differenza degli altri è dipinto da due parti, una delle
quali è descritta nella Tavola antecedente, f abra, che dir si potrebbe
la parte opposta del vaso, a causa della inferiorità della esecuzione del
disegno, è la qui delineata, ed il vaso tracciato sotto di essa è poco
più della decima parte dell’originale, in fondo nero con figure rosse. 11
vecchio calvo che sta nel mezzo a due donne in atto di correre o di
ballare, è tema comunissimo anche ad altri vasi. Ma in uno di essi, per
quanto appresi da S. E. il principe di Canino esimio possessore e cogni-
tore di tali pitture, uno di essi, io diceva, manifesta con epigrafe il nome
del vecchio Tindaro, dal che si dedurrebbe essere una delle donne la figlia
Elena danzante con una delle sue compagne nel tempio di Diana, dove fu
rapita da Teseo, e portata in Atene: tema che ora m’avvedo essere più
chiaramente espresso nel vaso che io inserii nell’opera dei Monumenti
Etruschi, e che dissi allusivo al corso degli astri a, e che ora
maggiormente confermo per la relazione di quel ballo e di quel ratto con
la guerra dei Dioscuri onde riprender Elena, con altri simili tratti di
quella favola, i quali non significano in sostanza che un continuo levare
e tramontare degli astri 3, e delle combinazioni loro con la luna: nome
che in greco porta con poca varietà anche Elena Selene da sto» la risplendente,
e aiUn la luna. La figura di questa Tavola è dipinta nella grandezza medesima
in una tazza di terra cotta con giallastro colore su fondo nero, il cui
aspetto ha tutti i segni del sati 1 Ser. v. Tav. g 8 . 2 Ivi, ser v,
p. 87, li 4, 4 Ivi, p. 567. sorilievo non distante dai buoni tempi dell’
arte; e se la figura equestre comparisce alquanto piccola, fu condotto a sì
ingrata licenza lo scultore nel volervi introdurre delle figure a piedi e
a cavallo protratte ad un'altezza medesima, e che tutte empissero il
fondo sul quale son collocate. Prima di coricarsi a mensa usarono gl’italiani
dei primi tempi di Roma di spogliarsi de'propri abiti, e prendere un manto che
dissero veste cenatoria o sindone, colla quale in parte avvolgevansi e in
parte potean restare a nudo, per aver le braccia più libere all’azione di
prendere il cibo,- e così coperti dieevansi dai latini semi-amidi, ma quell’uso
fu abbandonato e non tardi, ond’è che d’Erodiano fu addotto come
affettata imitazione delle antiche statue Di tal costume par che serbi memoria
la figura della Tavola presente che giace sul coperchio,spettante all’urna in
marmo che antecedentemente abbiamo veduta. Dell'iscrizione sarà dato conto a
suo luogo. Il vaso che qui si mostra un terzo più piccolo dell' originale,
è di que’soliti di terra nera che si trovano a Chiusi, nè potrassi mai
supporre che siano d’altra fàbbrica fuori della chiusina, poiché oltre la
terra nera e non cotta che vi si adopra- va più che in altre officine,
hanno essi vasi certe forme, una delle quali è la presente, che mostrano un
carattere del tutto originale ed unico, sì nelle sagome, sì negli ornati. Accenna
Omero essere stata volontà degli Dei,che Peleo togliesse Teti per
moglie, quantunque Dea; mentre quell’eroe non avrebbe volontariamente
aspirato ad una unione sì eminente. Apollodoro ne spiega più minutamente
il successo, e dalla di lui narrazione par che abbia origine questa
pittura. Era fama che Giove unitosi con Teti, da cui restò incinta
d'Achille, ne procurasse 1’ imeneo posteriore con Peleo, quantunque
mortale 3 . Quindi soggiunge Apollodoro, che il centauro Chirone consigliò
Peleo ad impadronirsi della ninfa divina con sagace destrezza, nè lasciarla
andare, per qualunque forma ch’ella avesse presa. La insidiò difatti Peleo, e
quantunque la Dea si trasformasse in acqua, in fuoco, ed in bestia feroce, egli
ritennela finché non ebbe ripresa la di lei primiera forma di ninfa. Il
pittore del vaso di cui si i Monum. Etr. ser, i, p. 3^6. 3 Scol. ap. Heine lliad.H-imer.
lliad. Elr. Mas . Chius. Torti.
I. ragionamento y SUGL’ETRUSCHI
Disputarono lungamente frà loro gli scrittoli, come abbiamo accennalo, intorno all’
origine degl’etruschi, e fabbricarono su questo soggetto tre sistemi diversi.
Volevano, per esempio, alcuni che eglino fossero un popolo uscito dalla Grecia,
ed una colonia di Pelasghi, mentre sostenevano altri che erano Lidii, e veni
nano dall’ Asia, ed altri finalmente affermavano essere i medesimi
originarli di Italia. La quale ultima opinione è ragionevolissima, e noi
la crediamo la vera. I moderni poi hanno superato gli antichi nel
numero delle ipotesi, e dei sistemi-. Imperocché il Maffei,col Mazzocchi,
ed il Guarnacci, li fanno venire dalla Fenicia, il Buonarroti dall'
Egitto, il Pelloutier, il Bardetti, ed il Frerst, dai Celti. Li crede Humboldt
I anello di comunicazione frà i Latini, e gl’ Iben, laddove Niebuhr riguarda la
Rezia come la primitiva lor sede. Ed in fine il Mailer suo discepolo,
adottando un termine medio, ammette un popolo primitivo di Etruria, eh’
ei chiama Rase ni con Dionisio d Alicarnasso, e sulla cui origine lascia la
qm- stione indecisa, benché creda d’ altronde, che questi Raseni si
mescolassero coi Pelasghi, qua venuti colle loro colonie di Lidia.
Ora questa moltitudine d’ipotesi antiche-, e moderne, da altra causa non
possono cèrtamente procedere, che, oda troppa leggerezza, e
precipitazione nell’ esaminare i monumenti dei nostri padri, o da
impremeditato sistema in coloro, che ne presero a scrivere, o dal più
nocivo di tutti i sistemi, V amore di parte. Per poco infatti che vi
sifaccia attenzione, e si vogliano mettere alla prova, non è difficile a
chicchesia di accorgersi, che q.essuna di quelle ipòtesi, e nessuno di quei
sistemi, contiene elementi che bastino a diradare il buio che involge le
cose etnische, ed a spiegare, anche probabilmente i monumenti che ci rimangono
di quella illustre nazione. Scegliendo peraltro da ciascuna di
quelle ipotesi, e da ognuno di quei sistemi, ciò che vè di più
ragionevole, e di più giusto, e formandone un insieme, vi si troverà, se
il giudizio nostro non và errato, quanto fà di mestieri, per portar piena luce
e spiegare con ogni chiarezza, e senza replica, tutto quello checi rimane
di etrusco. Stabiliremo dunque frattanto, che furono gl’Etruschi un popolo
particolare d’Italia, indigeno di questa bella penisola, che ebbe, com è
naturale, una lingua sua propria; la quale non è la. Stessa che la greca
antica,, come dimostrammo nel precedente ragionamento, e che anzi ne
differisce mollissimo, anche per sentimento del prelodato Mailer. Col
quale aggiungeremo, a conferma di quanta asseriamo, che inori>', dei
loro ro: orecchie ircine, barba prolissa,naso simo e coda di
cavallo. L'otre vinaria ove stassi assiso è pure suo speciale attributo.
L’iscrizione letta come qui rappresentasi, poco giova ad intenderne il
significato panaitios iupos kacos. Non oso farvi emenda, mentre non
avendo io veduto il monumento, non posso nè asserire, nè porre in dubbio
se questa sia la vera lezione. Quando non vogliasi azzardare il supposto
che la terza lettera dell’ ultima voce sia nell’ originale un p, per cui
avremmo due volte ripetuta la voce bello, come in altri esempi si vede,
potremmo almeno pensare ad una omissione dell’asta che del c ne dovea
formare unir, e la voce significativa di pernicioso potrebbe alludere al
vino, quando n’è fatto abuso. Nè nieu dubbie si mostran le altre voci, a
meno che vogliansi leggere ««<05 che sarebbe un saluto al dio Pan
l’autore della universale natura. Ma tali dubbie iscrizioni debbonsi a
mio parere consegnar colle stampe alle indagini di quelli ellenisti che
in particolar modo si occupano dei vasi dipinti e scritti.
Epigrafi tratte dal museo Oasuccini, come le altre venti già stampate, scolpite
in urne di travertino, o segnate in urne di coccio. :fì\u il AH :
43 :4flHfYf = fln-iq/iDvnas : ma : qd >- tv
-7 bifidi) : dfiUfVf: V13M : lllfttqfi : 04
:4fi0qfl4 : dfidfVf : liHblqfi : 43 #filflfiOmfiq ; invddfi :
O4 > /in fio Doppia epigrafe 4fi
Sopra il coperchio filfin8dV3 Nell’ orlo del coperchio
Iffifliqa : ignqfiq : Jfi 1 -r fi sic om 131 : lantqfi : I O
q fi 4 fiinvi-nai : firmo filflfl031 6 *
46 il nome di quei nuovi coloni, e non quello dei primitivi
alitanti. Imperocché, trovandosi, prosegue lo stesso Mailer, nella Tavole
Euguhine, la parola Tursee, con quelle di Tuscom, e di Tuscer, è
impossibile di non conchiudere, che dalla radice Tur si sono fot mali
Tursicus, Turscus, e Tuscus, come dalla radice Qp, derivaronsi Opscus, ed
Oscus; Di maniera che Tuprìvoi o Tv eP moi e Tusci, non sono che le forme
asiatiche, ed italiche di un solo, e medesimo nome Che del resto,
un argomento per noi fortissimo, atto a dimostrare oltremodo remota la civiltà
degli Italioti, e singolarmente degli Etruschi, ricavasi pure da tutti quegli
antichi scrittori, i quali parlano della cosi detta Confederazione etnisca
residente a Fiesole, e da tutti quei Gronólogisti, che ne fissano lo
stabilimento a lobo anni prima dell’era volgare ; dei quali vedasi, fra
gli altri, il Sìg. de Long-Champs, nei suoi Fasti universali. Lo che ci fa
credere che gli abitanti dì questa regione, avessero già acquistale fino
diallora, non ordinarie nozioni di politica teoria. Ed infatti,
benché la voracità dèi secoli, e più ancora la feroce ambizione, e la
crudele prepotenza romana, ci abbiano invidiate le storie etnische, ed anche
la maggior parte dei monumenti di quel popolo celebratissimo. Benché la
vanità senza limiti dei Greci, sia venuta, per giunta alla derrata, ad
involgerne di puerili, e RIDICOLE FAVOLE, perfino il nome, non che le
azioni dei nostri antenati, per quella loro presunzione stoltissima, di
far credere che tutte le altre nazioni del mondo, non furono nulla, in paragone
di loro; esistono pure tuttavia in Etruria delle costruzioni, che gli
eruditi chiamano Ciclopèe, perchè non hanno il carattere, nè fenicio, nè
egizio, e che sono per conseguenza indìgene, le quali sfidano da quattro mila
anni a questa parte,gl’insulti degli uomini e gli urti del tempo, e
stanno a conferma di quanto asserimmo qui sopra, circa la suaccennata
civiltà, e straordinaria potenza, ed energia degli Etruschi . E tali
sono, fra le altre, le mura di Volterra, e di più altre città dell’
antica Etruria, le quali sono formate di enormi macigni, senza alcun
cemento, resi fermi soltanto dal proprio peso- Mal epoca della
colonizzazione, della quale parlammo di sopra, non si può fissare che per
approssimazione. La quale peraltro credè il Mùller, già citato più volte,
che coincida colla emigrazione dei popoli, e che fosse cagionala, e prodotta da
quella, e se la ragiona cosi- Gli Umbri, dice egli, e lo ripetono pure i
compilatori di Edimburgo, erano potenti nella contrada, di cui presero
possesso i nuovi coloni. I quali ebbero a sostenere lunghe, e sanguinose
guerre, prima di spossessarli delle trecento città, che eglino occuparono,
al dire di Plinio lib. terzo, cap. decimo nono, nel paese che fu più
tardi chiamato Etruria. E poi fuori di ogni dubbio che gli Etruschi si
estesero dalla parte del Mezzogiorno, fino alle sponde del Tevere, ed anche al
di là nel Lazio, come lo prova il nome di Tusculo, o Tusculano. E dietro
le tradizioni popolari, quello stesso Tarconte, al quale si attribuisce
la fondazione delle dodici città di Etruria, condusse anche dodici colonie al
di la degli Appennini, e vi gitlò le fondamenta di Dei, non sono quelli
che s' incontrano presso gli Elleni, e che trovatisi nelle dottrine dei
Sacerdoti Etruschi, molti punti, affatto diversi dalla greca teologia. E
ripeteremo ciò che altrove dicemmo, che la sorte, cioè, di questa
nazione, pare che è quella di essere debitrice dei suoi primi progressi
nella civiltà, non ad una tribù greca, o mezza greca, siccome crede lo
stesso Mailer, e con esso lui i dotti compilatori della Rivista di
Edimburgo ; ma bensì ad una emigrazione asiatica, più antica dei greci
medesimi come abbiamo assento, ed in parte ancora provato nel precedente
ragionamento. Nè punto esiteremo d affirmar qui, che la lingua etnisca, o
ella non fu mai scritta nella sua purità primitiva, e scevra di ogni
mescolamento di stranieri vocaboli, o se pure lo fu in lontanissima età,
non è fino a noi pervenuto alcun monumento scritto, il quale ce ne possa far
fede. E ciò sosteniamo con tutta franchezza, perchè quelli
conosciutifinqui, sono tutti composti, senza veruna eccezione, di un rnescuglio
di voci, prese ad imprestito, per la maggior parte, da ognuno di quegli
antichissimi linguaggi, e dialetti, che nominammo nei ragionamenti già
pubblicati in quest' opera stessa. Di che daremo una sicura prova in
altro discorso a questo solo scopo diretto. Sul proposito però dell'
essere, o non essere gli Etruschi una tribù greca, o mezza greca, è molto
curiosa la novelletta che vanno ripetendo, il prelodato Mùller, e con
esso ancora i surriferiti Compilatori della Rivista edimburghese, ove
dicono che i toscani attribuivano eglino stessi, nelle loro nazionali
leggende, la propria civiltà alla marittima città di Tarquinia, e
nominatamente a Tarconle. I quali due nomi altro non sono, secondo essi,
che due variazioni di Tirreni . Ma questa è una greca invenzione, ed
anche di moderna data, in confronto della remota cultura degli Etruschi,
ed è similissima a tante altre dello stesso calibro, dai medesimi Greci
accreditate, e spacciate per fatti, intorno all’origine di tutte le più celebri
nazioni dell’antichità . Ed aggiungono i medesimi autori, che sbarcarono
precisamente a Tarquinia, e colà stabilironsi da prima, quei terribili
Pelasglii di Lidia, i quali portano seco le arti, e le scienze, che avevano già
apprese o nella patria loro, o nei loro viaggi -, credendo di poter cosi
conciliare maggior fede al loro racconto circa la primitiva civiltà degli
Etruschi. Al venir dunque di si fatti coloni, secondo quell' eruditissimo
prussiano, e quei dotti inglesi, vide per la prima volta 'questo barbaro
paése, degli uomini coperti di bronzo, equipaggiarsi a suono di tromba
per la battaglia. Udì allora per la prima volta, l acuto squillo della
tibia lido-frigia, accompagnare i sagrifizii, e fu testimone della rapida corsa
delle galere a cinquanta remi, Siccome però la tradizione passando
poi di bocca in bocca, non conosceva più limiti, cosi tuttala gloria del
nome toscano, anche quella che non apparteneva prò- priameiife ai coloid,
si attaccò a Tarconte discepolo di Tagete, o d e ! tempo, come dicemmo
nel precedente discorso, riguardandolo quale autore di urlerà novella, e
migliore, nella storia di Etruria. Ed i popoli vicini, vale a dire, gli Umbri,
ed i Latini ; diederq a questa nazione, che incominciò allora ad
accrescersi, ed estèndersi Nè credo che allia torlo il MiMer, attribuendo
alla preminenza di questi ultimi sul mare inferiore, la mancanza delle
colonie greche, sulla costa settentrionale della Sicilia, ove al tempo di
Tucidide, non eravi che Lnera. Il timore degl’truschi, chiuse per lungo tempo
ai Greci, il passaggio dello stretto di Reggio- E non avvenne che dopo V
epoca in cui ebbero acquistata i Focesi una potenza navale, che fu dato
loro di esplorare entrambi i mari. Ma la rivalità non tardò molto a
manifestarsi frà i due popoli, i quali cércarono d'impadronirsi dell’
isola di Corsica . E gli Etruschi uniti ai Cartaginesi, disfecero i
Focesi. Furono pero meno fortunati nelle loro guerre marittime coi Borii di
Guido e di Rodi che avevano formalo uno stabilimento a
Lipari. Finalmente, il popolo di Ciana in Campania, avendo
dichiarata la guerra ai Tirreni, chiamò in suo soccorso Gerone tiranno di
Siracusa, che li disfece completamente, e liberò, dice Pindaro nella
prima Ode pizia, la Grecia dalia schiavitù. E difetti uno scudo di Bronzo
trovato nelle rovine di Olimpia, porta questa iscrizione = Gerone, figlio di
Dimmene, ed i Siracusani, hanno consacrato a Giove queste spoglie dei
Tirreni vinti a Clima. Ammesso pertanto che furono gli Etruschi un
antichissimo popolo d’ Italia originario dello stesso paese,
conchiuderemo questo breve ragionamento, colle riflessioni
seguenti. L° Che di necessità ebbero essi, linguaggio, usi, Leggi,
costumanze, arti, scienze, e religione loro particolari, e proprie,
benché dovessero i primi progressi nella civiltà ad una emigrazione asiatica,
in un epoca quasi impossibile a stabilirsi con precisione. Il.° Che
per conseguenza, fra le altre cose, che qui per brevità si tralasciano, i
vasi dipinti di terra cotta, come quelli neri, ed altri, di qualunqueforma, e
grandezza, siano essi aretini, o chiusini, o campani, sono genuinamenee
etruschi, e non altro che etruschi. Benché sia piaciuto agli Archeologi
di chiamarli vasi greci, e più modernamente ancora italo-greci. Le quali
denominazioni hanno dato loro quei dotti, perchè vi si scorgono, come
pure nelle urne cinerarie, e nei sarcof agi, disegnate e dipinte, o scolpite, a
basso, e a gran rilievo, rappresentanze, o storie e favole greche; ovvero
che tali divennero dopo essere state prima etnische, e perchè vi si leggono
parole greche, o che alle greche somigliano. Come se non potessero essere nel
mondo due diversi idiomi i quali abbiamo alcuni vocaboli comuni ad
entrambi. Conforme fu sagacemente osservato, dal dotto, e perspicace sig.
principe di Canino nel suo Museo Etrusco. Campani poi faron detti,
eziandio tali vasi, perchè se ne fabbricavano . e se ne trovano nella Campania,
che fu pure colonia etnisca, come si dicono chiusini, ed aretini, da
Chiusi, e d’Arezzo, ove esisterono speciali fabbriche dei medesimi. E sul
proposito del sig. principe di Canino, sono assai dispiacente di non aver
letto prima d’ora quel suo dotto e giudizioso lavoro, perchè avendovi
riscontrate al- altre dodici città. Lo che serve a trovare che l
Etruria della valle del Pò, fu colonnizzata dall' Etruria del
Mezzogiorno. La medesima tradizione di dodici colonie, viene ripetuta sul
proposito dello stabilimento degli Etruschi in Campania-, Ed il Miiller
suppone che quelle colonie fossero realmente etnische, contro, l’opinione di
Niebuhr suo maestro, il quale pensa che elleno fossero fondate dai Pelasghi
Tirreni, confusi cogli Etruschi, a cagione dell’identità del
nome. In ogni caso però, sembra allo stesso Miiller, che la popolazione
etrusco della Campania, non debba essere stata molto considerabile, perchè
vi prevalse il dialetto Osco, e perchè non si è mai trovata in tutto quel
tratto di paese, una sola iscrizione veramente etnisca. Laonde convien
credere, prosegue egli, che quel fertilissimo paese, immerso nel lusso, e
nella mollezza, esercitasse la sua fatale influenza sugli Etruschi, che vi si
erano stabiliti, mentre furono obbligali ad abbandonare il possesso delle
ricche pianure di Capua ai Sanniti, colà discesi dalle loro
montagne. Io non saprei qui sottoscrivermi all’opinione del dotto
archeologo prussiano, sembrandomi troppo debole la ragione che egli
adduce, per ìstabilire che fosse piccolo il numero dei coloni Etruschi
della Campania, quella cioè del dialetto Osco rimastovi dominante, poiché
potrebb’ essere ciò avvenuto anche dall' avervi quegli ospiti soggiornato
per breve tempo, oppure da un riguardo che poterono benissimo avere i
Vincitori verso i vinti. Di che abbiamo avuto un esempio noi stessi nelle
nostre contrade al tempo dell’ Impero francese. E certamente gli Etruschi, non
erano cosi feroci, come i Romani, i quali ebbero l’inumanissimo orgoglio
di togliere perfino la lingua ai popoli che avevano l’infortunio di
cadere sotto il loro giogo di ferro: ( checché ne cantino in contrario
ifanatici loro lodatori .) E se è permesso di paragonare le grandi cose
alle piccole, quando sono dello stesso genere, dirò in appoggio della mia
supposizione, che anche i Chinesi soggiogati già da piti secoli dai Tatari
Mant- sciu, hanno conservato, e conservano tuttavia dominante il proprio
idioma, benché soggetti ad una dominazione straniera. Oltre di che, viene
ad accrescersi la forza del mio ragionamento, riflettendo che era ben facile, e
naturale il conservare nella Campania il linguaggio del paese, altro non
essendo il medesimo, che un dialetto della lingua Etnisca. Sembra poi cosa
provata, e da non controvertersi, che i Tirreni dopo il loro stabilimento in
Italia, esercitassero per lungo tempo la pirateria, e che si rendessero così
famosi nelle pianure della Grecia, ma è peraltro assai difficile a decidersi,
se una tale accusa debba applicarsi a Tirreni del mare Egeo, oppure ai
Tirreni Etruschi', I quali possedendo dei buoni porti sui due mari,
conservaronsi la dominazione dell’uno, e dell' altro, e si resero formidabili,
non solamente alle navi mercantili, colle loro corsare, ma eziandio alle altre
potenze, coi loro navali armamenti. A molti sarà nuovo ed inatteso
questo singoiar monumento,- ma non a chi ha scorsa la mia Opera su i
Monumenti Etruschi ove alla ser. VI, e precisamente alla Tavola G5 ne ho
dati a luce due inediti, nè finallora da nessun altro mostrati, In
seguito si videro esibiti ripetutamente nelle Opere del eh. dot. Dorow. Io
dissi di quelli, come pur di questo ripeto, esser vasi di terra nera, al
cui orifizio è soprapposto per coperchio un capo umano, ed a suo luogo spiegai
come que’recipienti dovean simboleggiare il mondo, ed il capo sovrimpostovi la
divinità che Io governa dall’ alto de’cieli \ Ma poiché questa specie di
vasi trovasi nei sepolcri, cosi potremo credere che i soprimposti capi
rappresentino deità speciali, cosicché se avrà barba un di essi, come
quello che pubblicai altra volta 3, si potrà dire un Bacco infernale,
mentre nel presente monumento dov’ è un capo imberbe, ed alcune protuberanze
che dan segno di petto femminile ravviseremo una Proserpina. Se il vaso qui
esposto avea ceneri umane, di che non posso giudicare dal solo disegno
ch'io vedo di questi monumenti chiusini, in quel caso direbbesi che le
braccia, avvingendone il recipiente, indicano il patrocinio che la
divinità dovea prendere di quel morto ritornato nel caos della materia
mondiale. Dico tuttociò brevemente perchè in queste materie mi sono
esteso altrove abbastanza. Qui aggiungo l'osservazione che molti vasi uguali
a questi, ma in pietre di varia specie trovatisi nei sepolcri egiziani e
in gran parte anche dipinti nei papiri, nelle casse e nelle pareti delle tombe;
e dai capi che hannovi soprapposti di forme varie 4, si ravvisano per
figure delle principali deità egiziane, Questo vaso in terra nera è due
terzi più piccolo dell’ originale. È tuttavìa non risoluta questione se figure
simili alla presente, cioè che abbiano lunga barba, corona in testa,
abito lungo fino ai piedi un manto sugli omeri con vaso in mano, ed attorniate
da sermenti d’edera o di vite, è questionabile, io diceva, se dir si
debban figure di Bacco o d'un qualche di lui sacerdote.È altresì cosa degna
d’osservazione che l’occhio qui eseguito, non come dalla natura umana si
mostra, è poi disegnato precisamente come si vede nelle figure de’ vasi di
Grecia di Sicilia, e di tutta 1* Italia meridionale, ove trattisi di
pitture che affettino qualche arcaismo nel loro stile, e specialmente ove
le figure sono come qui di color nero sul fondo gialla- 1 Dorow, Voiage
archeologique dans V a °cienne xbtrurie avec xvi Planches. 1 Voi. io 4 -°
P- 46, Paris. 1829. Notizie intorno ad alcuni Vasi. Etruschi Pesaro
Monumenti Etruschi, 1 2 > ser. v
f p. 490» ser - Vi* Tav., p. 4 ^. 3 Ivi, ser. vi, Tav.
num. 1, 3 . ser. vi, tav. N4, num. 1, e P4. numm. 1,
2. cune opinioni, che mi paiono le più giuste, e ragionevoli in
questa materia, e le quali si accordano con quelle da me emesse nei
precedenti ragionamenti, mi sarei fatto un dovere di render nolo al
Pubblico molto prima, quanta sodisfazione io ni abbia di trovarmi
d'accordo con un uomo di tanto ingegno e di tanta dottrina . 0 Che si
avvicina al delirio l'ostinarsi ancora a voler credere opere greche i
suindicati vasi, perle sopra esposte ragioni, e perchè se ne rinvennero alcuni
persino nell' Attica, ed in altre parli della Grecia, i quali sono peraltro in
piccolissimo numero, in confronto a quelli discoperti in Etruria, e nelle
altre parti d'Italia. Ed una tal foggia di ragionare, è simile a quella
di chiunque osservando per T Italia, o in Francia dei lavori di
porcellana della China, e del Giappone, pretendesse di stabilire, che quei
lavori sono italici, o francesi, solo perchè si trovano in Francia, ed in
Italia. IV. ° Che non è meno strano, per non dire assurdo il
pretendere di togliere agli Etruschi l’ onore di tali manifatture, per
farne dono ai Greci, perchè s‘ incontrano molti dei suddétti vasi che
hanno elegantissima forma, e sono disegnati pure, e dipinti con un gusto
squisito. Quasiché gli Etruschi non avessero fatto che comparire sulla
faccia del globo terrestre, e ne fossero subito scomparsi. Oppure, avendovi
dimorato per lunga serie di secoli, lo che non hanno saputo negar loro neppure
i più furiosi partigiani dei Greci, fossero stati poi forniti di tale, e
tanta stupidità, da non saper migliorare, ed anche condurre a perfezione,
le loro invenzioni, come fanno tutti i popoli del mondo Che non si
vorrà sostenére finalménte, che le arti non pvesserò presso gli Etruschi,
come presso tutte le incivilite nazioni, che le coltivarono, diverse epoche,
cioè quella della primitiva rozzezza, qxiella del miglioramento, e quella
della perfezione, come quelle del decadimento, e della successiva
barbarie. Nè saprei addurre, per rivendicare questa usurpazione fatta dagli
archeologi ai nostri padri, più bella prova, e più convinciente ragione
dì quella prodotta dallo stesso signor Principe di Canino, apag. ig
dell’opera citata qui sopra. Cioè, che i vasi dipinti non sono sicuramente
greci perchè i Greci stessi non se ne sono vantati giammai. Ed è ben gloriosa
per gli Etruschi una tele invenzione, conforme riflette pure il prelodalo
scrittore, perchè furono essi i primi ad iscoprire colla meditazione, e colle
più profonde indagini, che per eternare le tradizioni dei popoli, più del
marmo, e del bronzo, è valevole Iùmile terra cotta, perchè ella sola
passa a traverso alla fuga dei secoli senza alterazione veruna . jflniiia
: 3 n iq 3© or 248v8 in gran
travertino che serviva di porta ad un sepolcro amq&o :
ofl janqoai Etr. Mus. Chiut.
ha sulle spalle, e come questo riferir si debbe all’autunno
l'accennai spiegando altri vasi chiusini analoghi a questo, LVI. Le
quattro tavv. sono impiegate a mostrare
un bel monumento di pietra tofaceadella figura d’ut) cubo, della grandezza due
volte maggiore del disegno qui ripetuto, e che mostra quattro lati
scolpiti con figure a rilievo assai basso, come sono gli altri monumenti di
simil natura trovati a Chiusi. Io non saprei dire se ara sia questa, oppure
altare, o foculo, o base, o altr'oggetto qualunque, perchè non vedendone
io che i disegni non posso da essi giudicarne con fondamento. Esaminiamone le
sculture che si vedono in quattro lati del cubo. È fuori di dubbio che
qui si tratta di riti funebri, e d'ultimi uffici di pietà resi ad un morto, che
vedasi steso sul feretro alla Tavola LUI. Il fanciulletto eh’ è in piedi
presso a quel letto di morte ha un tale atteggiamento di dolore, che non
saprebbesi meglio immaginare dal più sagace dei nostri artisti, brattanto
c’insegna che tenevasi per atto di duolo il porre le mani al capo. Infatti
nel quadro medesimo compariscono due altri astanti colle mani portate al
capo ugualmente, ma ben si ravvisa che l'atto è suggerito più da formalità che da
quel vivo dolore che esprime IL GIOVANETTO PROBABILMENTE FIGLIO DELL’ESTINTO,
di cui qui si rappresentano l’esequie. Un simile atto, e da uomini
similmente abbigliati, è pure nella pietra di memoria perugina da me
pubblicata *, ove rappresentasi ugualmente la funebre cerimonia che praticasi
all’ occasione di un morto. Espressiva è parimente la prefica a capo al
letto, in sembianza di strapparsi per dolore i capelli, mentre ì’uonio
che al cadavere è più vicino, alza le mani probabilmente per espressione
pure di dolore, mista però di sorpresa. Una figura eh’è ultima nella
composizione, suona le tibie con certa bocchetta che legavasi agli orecchi o al
capo in giro. Un tal suono in occasione di funebre cerimonia non credo che
andasse esente da superstizione tuscanica, passata ai Romani ancora, mentre
credevasi di poter porre in fuga gli spettri coll'armonia della musica 1 2 3,
e così allontanare quelle malie dalle quali avevano opinione che le anime
restassero consacrate alle deità infernali 4 : superstizione peraltro che manca
nel monumento perugino indicato. Dietro al tibicine alla Tavola LIV
vediamo quattro uomini armati di bastoni, che in mano di Etruschi non è
improbabile che siano augurali, ancorché non Lettere di etnisca
erudizione. e seguente Tav. xi. 2 Monumenti etruschi, ser.
vi, tav. Za, e Lanzi Della Scultura degli antichi e vari suoi
stili Tav. ìv. 3 Ved. Luciano pitato dal Ma ilei nella sua
memoria sulla religione dei Gentili nel morire ; Osservazioni letter.
Tom. 1, art. ìx. 4 Tacito, Annali 1 . 1. ap, il Mafie! cit. p.
5i stro 1 2 . Una tale osservazione unitamente con altre può essere
di non poco rilievo per indagare l’origine primitiva dell’uso di porre
siffatte stoviglie dentro i sepolcri. A chi ha buon gusto peri
lavori di metallo sarà gradevole il conoscere la forma singolare e del
tutto nuova non men che bella di questo vasetto di bronzo, disegnato nella
grandezza medesima dell’originale. Apparentemente dovea contenere de’
liquidi, e perciò l’intelligente artefice operò per modo che tutto
vicorrispondesse l’ornato. Ecco là un uccello aquatico sopra una pianta
quadrifoglia palustre, il che serve di pomo al coperchio: ecco là una
conchiglia lacustre che serve di borchia a! manico : ecco là infine i
lunghi manichi formati in guisa di colli d’uccelli aquatici come del
becco loro nel quale han termine si rav visa. Il vaso di terra cotta di
color rosso che vedesi rappresentato nella parte superiore di questa LII
Tavola, è già noto per la frequenza colla quale si trova nelle collezioni
di simili antichi oggetti. Par che i Gentili 1’usassero per lucerna; ed
alternativamente colle lucerne trovasi difatti nei sepolcri, ma in esso
valutavano anche la forma di barca e di recipiente, alludendolo a certa
favola d'Èrcole eli’ebbe in dono del sole un vaso, col quale varcò
l'Oceano. Come poi si applicasse al vaso qtìi esposto l’indicata favola è
cosa inutile ch’io lo ripeta, dopo averne sufficientemente parlato nell’
opera de’Monumenti Etruschi % dove ne ho riportati alcuni di varie forme.
L’iscrizione che è sul manico suole indicare il figulo, o la fabbrica
figulinaria. Il Vaso al disotto in questa medesima tavola è di que
consueti chiusini di color nero sì nella superficie che nell’interna sua
pasta. Questa qualità di vasi aver suole dei bassirilievi, che girano
attorno ripetendosi ogni quattro o sei figure, perchè fatti colle stampe.
Bisogna convenire della gran somiglianza tra quella manifattura, e le
cose egiziane. Vedo nella prima figura femminile l’atto d’alzare un’uccello,
così nelle figure egiziane dei calendari vediamo elevare per la testa, o
calare al basso tenuti per la coda animali, che indicano il sorgere o
calare abaco dei segni zodiacali. Dell’uomo che segue con bastone in mano
io non saprei dir cosa che avesse inoppugnabile sostegno. Ben potrò dire che a
lui segue la chimera colla doppia testa di leone e di capra, ch’io
mostrai altre volte 4 esser composto di segui celesti. E poi chiaro il
centauro qual cacciatore, che porta la preda appesa al suo frassine che
1 Moni;memi etr. Ser. v. Tav. 2 Ser. li, p. 359, 36 i,
3 Ivi ser. vi, Tav. E 4, F^. 4 Monurn. etr. ser. w, p. 38
a. Vogliamo credere che nella statuetta in bronzo qui rappresentata di
naturai grandezza sia da riconoscersi una Minerva per 1’ usbergo del
quale vedesi armata? Del piccol mostro pure uguale in grandezza all’originale
in bronzo, non fo parola, poiché probabilmente dagli editori di
quest’opera ne saran pubblicati dei simili, ch’io vidi vari anni indietro
a Chiusi. Il vaso è de’soliti che trovansi per tutta 1 Italia
meridionale, con figure giallastre in campo nero, la cui gola soltanto a una
pittura che vedremo nella tavola seguente, mentre è monocromo, ed ha tre
manichi, d una forma essatta- mente ripetuta molte volte coi medesimi accessori
nei ricchi scavi di Canino, e d’altre parti d’Italia. Io non mi
persuado come il mito delle Amazoni combattenti, sì ripetuto nei vasi
fittili di tutta l’Italia, come si vede in questo, non abbia una qualche
allusione religiosa, come ho supposto trattando altre volte questo medesimo
soggetto. Si vedono in fatti sempre come qui le Amazoni a cavallo, ed i
loro avversari sempre a piedi, ed in positure di soccombenti al conflitto,
colle ginocchia piegate. Eppure se alle favole che trattano delle Amazoni
dovessimo ricorrere per Spiegarne il mito, noi le troveremmo sempre vinte o da
Ercole, o da Teseo, o d’Achille Io non
vedo in quel mito che 1’allegorìa del contrasto e del dominio del tempo
in cui si trattiene il sole nei segni inferiori del zodiaco, ma siccome
troppo lungo sarebbe il mostrar qui di tale allegorìa lo sviluppo, così
rimando chi legge ad altri miei scritti, ove trattai lungamente di questa
materia. Questa è la pittura del vaso, la cui forma vedemmo nella Tavola
antecedente, e che vien riportata nella grandezza di due terzi del suo
originale. xxxi. /uif/mDajmjaa xxxii. jfliDnaD :
an/d-nit/ìi : Yfl xxxm. i/ìvjad anfl-uitfl'i ; or
xxxiv. j/qnqai ; vJDfi : ofl, V433 : J lf d Galleria Omerica Tom
ii,Tav.VJlDfl : 31 : Vfl Veil. Mommi, etr. agli articoli A magoni.
abbiano la forma di lituo, come osservansi nel monumonto perugino. Infatti
ad essi spettava il presagire che l’anima del defonto fosse passata in
luogo di riposo; di che se non troviamo prove di antichi scrittori, certamente
ne conosciamola pratica presso gli Etruschi, per mezzo del più volte
citato monumento perugino, dove inclusive il vestiario di quegli auguri
muniti di lituo è simile a quello di costoro che qui hanno in mano le
verghe, eh' io dissi augurali. Dopo gli auguri vengono immediatamente nella
Tavola LV le prefiche, donne prezzolate che a suono di tibia cantavano
lamenti, e piangevano la perdita del morto ed in modo sconcio e forzato
strappandosi le chiome e perquotendosi, mostravano cordoglio di quella disgrazia.
Quel che sia rappresentato nell’aggregato di figure della Tavola LVI non
mi è possibile il dichiararlo nè mi è concesso d’ azzardare quelle
congetture che può immaginare a suo grado ugualmente chi l'osserva. tavola
evie Questo bronzo in tutto uguale al suo originale fu anticamente
uno specchio dall’opposta parte, come lo attesta lo specular pulimento
che vi si trova. Qui nel suo quasi insensibile concavo, invece di grafito
ha soprapposta una lamina cesellata a bassorilievo, e in fondo una cerneria,
forse adattata all'adesione del manico. lo vi ravviso Bacco,
il quale ha sulle spalle una face, che tale vedrehhesi qualora fosse intiero il
monumento, poiché ve ne sono altri esempi 3 . Egli si appoggia ad un altro nume
significativo della forza creatrice dalla quale dipende Bacco il demiurgo
artefice del mondo, che il trae dal disordinato e tenebroso caos per
virtù concessagli dal creatore, e vi porta luce con la sua face, non men che
ordine armonico, indicato da quella ninfa che precede i suoi passi,
arpeggiando la lira: cosmogonica rappresentanza che in cento guise
ripetesi nei monumenti antichi, e della quale ebbi luogo di trattare altrove 3,
Sebben questa bella tazza sia di bronzo, pure se ne usavano dagli antichi
anche di terra cotta d ugual forma e lavoro, come si vedono in Volterra
nel museo del pubblico, ed in quello del Sig. Cinci. Il disegno qui
esposto è soltanto un terzo minore del suo originale. Il pezzo aggiunto
lateralmente fa vedere l’acconciatura di testa ch’è dalla parte opposta del
recipiente. i Fest. in sua voc. Lecil. Sat. xxn. »
Monum. etr. ser. vi, Tav. Y, n. i., ser. v, p. 3 a,, ser. vi, Tav. Y, n.
1 . W' Principe di Canino, ed altri già se ne
conoscevano, dissotterrati a diverse epoche, ed in luoghi diversi .,
Diodora Siculo poi descrive nel libro quinto, dietro Possidonio le mense
degli Etruschi imbandite due volte al giorno, le loro drapperie ricamate,
le loro coppe eli oro, e d’argento, e le loro falangi di schiavi. Al cui
quadro aggiunge Ateneo nuovi tratti, e. mostrano chiaramente le figure
giacenti nei sarcofagi, che gli aggiunti di pmgues, ed obesi, dati dai Romani
per isclierno agli Etruschi, non erano suggeriti dalla malizia nazionale
soltanto. E Roma prese ad imprestito dall'Etruria i combattimenti dei
gladiatori, benché sembri che l’uso orribile d’introdurli nei conviti, e
nei banchetti, appartenga sopratutto agli Etruschi della Campania, e
specialmente a quelli di Capua. Altrìbuisconsi però agli antichi
Etruschi anche alcune invenzioni nella musica, e singolarmente rapporto
agli strumenti di essa, poiché non havvi autore, ch'io mi sappia, il quale
pretenda che questa nazione abbia discoperto qualche modo particolare di
tale scienza, benché le venga accordata in essa qualche celebrità, egualmente
che nella plastica ; E non già come piace ai compilatori della rivista
edimburghese, perchè e Aino erano vicini ad un popolo, il quale essendo
estraneo ai Greci, era costretto ad imprestar loro tuttociò che
riguardava il miglioramento, o l'abbellimento della vita pubblica, e privata,
mentre avvenne appunto il contrario. Benché non si possa decidere dietro
alcun monumento storico, se dovessero gli Etruschi a se medesimi, oppure
al commercio che ebbero coi Greci, dopo che già le arti erano giunte ad
un certo grado di perfezione fra loro, i successivi progressi, fatti dai
medesimi nella scultura, e nella statuaria, pur tuttavia ciò che dicemmo in
altro ragionamento intórno all’anteriorità degli uni, o degli altri,
rende quest'ultima supposizione molto probabile. Ma egli è però certo, che se
questo rapporto esistè per qualche tempo fra gli Etruschi, ed i Greci,
non fu mai dì una grande intimità. Lo stile toscano nelle arti presenta
sempre qualche rassomiglianza con quello deoli Egiziani-, E le opere più
perfette di questa nazione, hanno tutta quella durezza, e quella mancanza di
vita, e di espressione, che qualificano la scultura greca, anche prima che
Fidia accendesse la sua immaginazione alle descrizioni omeriche di Giove,
e di Minerva, e che avesse Prassitei e espresso col marmo l'ideale ch’egli
si era fatto della bellezza. Lo che prova essere stati i Greci i
perfezionatori, e non gl'inventori di quelle arti che si dicono belle ; E
viepih si conferma che i medesimi furono in antichissimi tempi i
discepoli degli Etruschi. non già i maestri, come pretendono i nostri
grecomani. Al contrario, in tutta quella parte dell arie ove il meccanismo
senza vero gemo può mungere alla perfezione, gli Etruschi non la cedono
in verun modo ai Greci stessi, biella maggior loro raffinatezza. Ed un
poeta Ateniese riferito da Ateneo nel primo libro dei Dipr.osqfisti,
celebra le opere etnische in metallo, come le migliori m tal genere ;
Facendo egli probabilmente allusione alle coppe, alle lampade, ai
candela- QUALI FOSSERO LA VITA POLITICA, E DOMESTICA, LA RELIGIONE
ED IL GOVERNO DEGLI ETRUSCHI, E QUALI ARTI, EGLINO COLTIVASSERO
PRINCIPALMENTE Ma chi pensasse il pone sieroso tema, E 1 omero
mortai che se ne cerca, Noi hiasmerebbe, se sott’ esso trema.
Caute Par. - -=-x jgj>
1\ on è certamente agevole impresa quella di ritrarre i costumi
domèstici di un popolo, che non ha trasmesso alla posterità veruna immagine di
se stesso nelle produzioni letterarie. E tali appunto sono gli Etruschi, della
cui prosperità nazionale pare che sia stata la primaria base
l'agricoltura, che veniva si ben favorita dal loro suolo, e dal loro
clima, e che sembra avere in ogni tempo fiorito in questo paese, quando i
benefizii della natura non sono stati distrutti da un cattivo governo, o
da una assurda Legislazione, Tuttavìa però, non ha mai goduto V Etruria
centrale, come la Campania, di una spontanea fertilità. Fu d'uopo ognora
che spiegassero i suoi abitanti la loro industria, e la loro destrezza,
per adattare la cultura alle diverse qualità del terreno, che s
incontrano in questo paese, e per arrestare le mondazioni del Pò nelle
provinole che circondano l Adriatico, e che ne furono parte nei tempi
antichi. I primitivi costumi degli Etruschi erano semplicissimi, se vogliamo
credere alla storia, la quale ci dice che la conocchia di Tanaquilla fosse
conservala lungo tempo a Roma nel tempio di Sanco; E pare che un
passaggio di Giovenale nella satina sesia, ci mostri la stretta rassomiglianza
che passava fra le virtù domestiche delle donne romane degli antichi
tempi, e quelle delle donne etnische. Nè ciò desterà maraviglia a chi
sappia, che i primi abitatori dì Roma, non eccettuato il suo fondatore,
non furono altro che Etruschi, della cui energia, e del cui nazionale carattere,
formano al parer mio una sufficiente prova, le grandi loro conquiste, la loro
destrezza, ed il loro coraggio nella navigazione. Ma quando
il commercio, e la conquista nelle parti meridionali d’Italia, ebbero
condotto la ricchezza fra loro, gli Etruschi se ne impossessarono coll’avidità
di un popolo mezzo barbaro ed il lusso invece d‘ introdurre fra essi il
raffinamento, e l’eleganza delle maniere, non vi portò che un vano splendore,
ed un gusto disordinato per ì sensuali piaceri, come rilevasi anche dalle
pitture di alcuni vasi, delti male a proposto italo-greci, dei quali ne ha
discoperti un gran numero nei suoi scavi il signor La forma del governo
etrusco, ove riunivansi l’ aristocrazia, ed il sacerdozio, impedì efficacemente
al genio di quella nazione, di prendere lutto il suo naturale sviluppamelo.
Imperocché ai Lucomoni, ossia alla nobiltà ereditaria, aveva rivelato
Tagete, ed il tempo, gli usi religiosi, che si dovevano osservare dal popolo,
col potere di Applicarli nella maniera che paresse loro la piti propria
aperpetuare il loro monopolio esclusivo, e tirannico-, E per rapporto poi al
potere civile, formavano questi medesimi Lucomoni il corpo governante di
tutte le città di Elruria. Nei primi tempi si parla di re, non già dell’
intiero paese, ma bensì di stati separati, ed il cui potereera senza dubbio
limitatissimo da quello dell’ alta aristocrazia-, E questi re senza potere,
spariscono ben presto intieramente, come più tardi nella stona greca, e
romana, Mentre che in Etruria, non sorge alcun ordine corrispondente ai
plebei, per rappresentare V elemento popolare della Costituzione. E
molto difficile di poter fissare con esattezza i privilegi del gran corpo della
Casta potente-, E Miiller inclina per l'opinione, e mi pare eli abbia
dato nel segno,che i coltivatori fossero i servi dei proprietarii del suolo,
come furono in tempi a noi piu vicini i Penasti in Tessaglia, e gl Iloti
a Sparta. É cosa certa difatti, che esistesse una classe simile in
Etruria, ma non è però probabile eli ella comprendesse una gran parte
della popolazione, non essendovi altro argomento, al quale appoggiare
questa, ipotesi contrastabilissima, se non quello che i clienti di Roma fossero
servi dei Patrizn. Tuttavia però è fuori di ogni dubbio che l
aristocrazia etrusco teneva gli ordini inferiori in una dipendenza
politica, e che per questo non pervenne quella nazione, al grado di potenza, a
cui avrebbe potuto giungere-, Ma la sua prosperità prova ad un tempo che
non era governata neppure affatto tirannicamente. Non sembra nemmeno che
l’agitasse lo spirito della democrazia, fino al punto di risvegliar dei timori,
ed eccitare la severità della casta governante. Le insurrezioni di cui parlano
gli storici, sono attribuite espressamente agli schiavi. Era
l'antica Etruria fertile di grani, e particolarmente di quel farro che i
Latini chiamarono far, ed anche odor, la cui farina forniva il puls, che
noi diremmo polenta, o polenda e che era l’ordinario nutrimento degli
abitanti di questa parte d’Italia. Il ferro delle sue miniere, e
specialmente quello dell Isola d'Elba era celebre per la sua purità-, E
forniva pure la stessa isola anche del rame per le monete, e perle opere
di bronzo, tanto comuni fra gli Etruschi. È poi molto probabile, anche
secondo il Miiller, che eglino facessero un commercio di ambra, che loro
venisse dal Settentrione. Il precitato Miiller, che è come
abbiamo detto uno degli Scolari di Niebuhr, và discutendo con moli
acutezza nell’ opera sua, la natura dei rapporti che esisterono nei primi
tempi di Roma, e fra i Romani, e gli Etruschi. E si accorda col suo
maestro a preferire alla tradizione che fa di Servio Tullio unfiglio di
schiavo I origine etrusco di quel principe, menzionato dalli Imperatore
Claudio nel suo discorso sull’ammissione dei provinciali nel Senato, il cui
testo fu discoperto nel secolo decimo sesto in taòn, ed ai tripodi, e simili,
giacché discopronsigiornalménte alcune di tali opere egregiamente
eseguite. Si spiega però facilmente la differenza che incontrasi
fra le opere degli Etruschi, e quella dei Greci col carattere della
religione dei due popoli. Imperocché la religione dei Greci conti Univa
potentemente al perfezionamento delle arti plastiche, ove quella degli
Etruschi, in ciò che le appartiene in proprio, non ha niente che risvegli, e
che trasporti V immaginazione dell’ artista. Pare anzi che ella favorisse
efficacemente una opinione, che noi ritroviamo del pari nella teologia dei
popoli settentrionali, ed in quella degl’Indii, ed è questa: che gli Dei
erano eglino stessi, come pure il sistema, al quale presiedevano, gli
effetti di un potere che non iscorgevasi che a lunghi intervalli nella
produzione degli esseri, e che assorbiva tutto ciò che aveva crealo, per
crearlo di nuovo. I SIMBOLI di questo potere erano gli Dii involuti della
teologia etnisca, i cui nomi rimanevano ignoti e non erano oggetto di un
culto popolare, ma che Giove stesso consulta. Gli Du consenti poi, che erano
dodici, sei di ogni sesso, presiedevano alt ordine delle cose esistenti, e
ricevevano degli omaggi, e dei sagrifizii. Manifestatasi la loro
intervenzione negli affari umani, più che in altra maniera con presagi di
grandi disgrazie, che dovevano essere allontanate con espiazioni
sanguinose, e crudeli. Ma se da un Iato potè la moralità guadagnare
qualche cosa dalla religione etrusco, che non corrispondeva in verun modo
alla mitologia ridente, ma licenziosa dei greci, la poesia e le arti dell
altro, vi dovettero indubitatamente scapitare non poco. Lo stesso difetto
d immaginazione viva e disinvolta caratterizzava la dottrina etrusco dell
immortalità dell’anima. Il loro mondo sotterraneo, non era altroché un
Tartaro senza Eliso. La superstizione non formò in nessuna parte del mondo,
un sistema più completo che in Etrucia, senza eccettuarne neppure le
Indie, e t Egitto Le regioni del cielo erano divise, e suddivise in modo
che ogni prodigio poteva avere la sua spiegazione precìsa. Ifenomeni
dell’atmosfera, il tuono soprattutto, ed i lampi, erano osservati, e classati
comma minutezza, che avrebbe potuto fornire oli elementi, aduna vera
scienza, se gli osservatorifossero stati veri filosofi, e non Sacerdoti. Ma nel
fatto t osservazione di quei fenomeni, non servi ad altro che ad
accrescere la servitù della moltitudine, a quelli che reclamavano la co'nuzioné
esclusiva dei mezzi coi quali potevano placarsi gli Dei sdegnati contro
il genere umano. Non è necessario di avvertire, che la filosofia nel
senso greco di questaparola, vale a dire lo studio libero dell’uomo della
natura, e della provvidenza, era ignota agli Etruschi, benché non si
possano negar loro le cognizioni pratiche, col mezzo delle quali
eseguivano le belle opere d'Architettura, e di Idraulica, che vengono ad
essi attribuite dagli antichi scrittori, i quali parlano delle cose
etnische senza prevenzione veruna, e senza spirito di parìe. Elv. Mas.
Chius. Go tavola. Quanto sia malagevole scioglier l’enigma che nelle
strane loro figure chiudono le pietre incise in forma di scarabei, ben
potrebbero dirlo e il Caylus, e il D’Han- carville, ed altri chiarissimi
ed eruditissimi ingegni che in vano vi si applicarono; e quantunque in
gran parte non mostrino significato nessuno che ragionevolmente si presti alle
indagini dell’erudito, pur taluni, ancorché pochi, han contrassegni da non
permettere che siano annoverati tra i soggetti capricciosi insignificanti e per
conseguenza inesplicabili. Nello scarabeo di n. 1 ci guidano con
qualche indizio 1 epigrafi, che sebbene sconce come le figure alle quali
si vedono applicate, pure danno adito a ragionarvi sopra non senza
qualche fondamento. Quantunque le lettere siano di forma etrusca, pure
nèson disposte all’uso inverso come scrivevano gli Etruschi, nè presentano voci
che dirsi possano etnische, ma ritengono un misto di paleografia, e
glossologia, che partecipano dell'antico greco e dell’antico latino. Qualora
non vi fosser lettere direbbesi che vi si vede Vulcano assiso sulla sua
pesante incudine in atto di ascoltar le preghiere della consorte sua Venere a
prò d'Enea, come ne dà sospetto lo specchio femminile che tiene in mano, la
donna è la libera di lei nudità. Che le lettere esprimenti parole tronche vi si
conformino lo congetturo dal potervi leggere fex, quasi ephestus ch’era
nome grecamente dato a Vulcano anche dagli antichi Latini. Segue 1 altro
bisillabo vev, che se crediamo sformata l'ultima per una v, potremmo leggervi
la voce Venus con poca difficoltà. Ed in vero quella barba, che in un modo sì
sconcio si volle accennare all’uomo sedente, dà qualche idea del rozzo costume
praticato dal marito di Ciprigna, che qui si vede contro a lui con assai
studiata, sebben antica maniera d’acconciarsi la testa per viepiù sedurre il
manto a compiacerla nell’ inchiesta delle armi pel figlio Enea : soggetto
non raro nella glittografia, dove l’artefice Vulcano è sempre assiso, e
Venere che incontro a lui si trattiene a pregarlo, sempre in piedi.
Quando si voglia credere che la composizione incisa in questo scarabeo
num. 2 abbia un qualche significato allegorico, e non sia stato fatto a
solo oggetto di mostrare lo sgradevole assalto dato da un leone ad un
cinghiale, potremo credere che stiano i due animali a rammentare due precipue
situazioni del sole nel cielo, dalle quali ne avviene il calor benefico
dell'estate, e 1 importuno freddo nell’inverno. Infatti è il segno del
Leone che domina in estate, e che abbatte colla forza dei raggi solari
quei mali che alla natura cagiona 1 ingrato e sterile, inverno
significato dal porco, di che ho^scrittu molto nel trattare dei Monumenti
etruschi - vote eh bronzo a Lione ; Il quale pretende che il vero suo nome
fosse Mastarna, e che foss e compagno di un capo dicosi detti
Condottieri, o mercenarii toscani. Il fatto si è che la voce
etrusco Mastarna, vale imbrattato, ossia di sordida origine,^ corrisponde cosi
a quanta ne dice la tradizione. Ma mentre JMebuhr si allontana
intieramente dalla storia, supponendo che Tarquinio il vecchio fosse uno di
quei Latini pnschi da ha immaginati, pensa il Mailer eh’ei fosse veramente
etrusco, e che traesse il suo nome da Tarquinia, ( e lo pensiamo noi
pure,) il cui dominio estendevasi allora dalla parte del mezzogiorno,
fino alla città di Roma, che erane anche dipendente in quel tempo. I
compilatoli della Rivista edimburghese non credono che questa opinione sia
basata sù fondamenti abbastanza solidi, benché paia loro più probabile di
quelle di lebuhr, per sostituirla ai racconti della storia comune ; E non
sanno comprendere neppure, come dei fatti accompagnati da circostanze sì
ben precisate, quali sono quelle dell'esistenza di Servio Tullio, e
deiTarquinii, del loro paese, e dello stato loro possano cangiarsi tutto
ad un tratto in un simbolo di etnisca supremazia. Lo che peraltro non
desterà nessuna maraviglia a chiunque sia meglio di loro istrutto delle
antichità etnische, e conosca più a fondo che essi non conoscono,
l’universalità dello spinto simbolico di quei remotissimi tempi. E
comunque sia poi la cosa, checché si debba pensare eh tali supposizioni,
il fatto vero si è che Roma fu conquistata dagli Etruschi sotto la
condotta eli Porsetto re di Chiusi, come lo provò, sono già molti anni,
Beaufoit, disvelando gli artifizii, sotto i quali avevano procuralo i Romani
scrittori di nascondere questo colpo umiliante. Oltre di che, furono,
come abbiamo già detto, anche i fondatori, ed i primi abitatori di Roma,
una truppa dibanditi toscani. Ma circa ad un secolo dopo il regno di
Porsena, vennero gli Etruschi umiliati essi pure dai Celti, e da altre
barbare genti, che si resero padrone di tutto ciò che eglino possedevano
sulla riva meridionale del Pò fino a Bologna, e che occuparono anche.
Roma, benché temporanamente. I Romani però, vincitori dei Galli, e cosi
più fonnidabih che mai, non tardarono molto a conquistare, e colonizzare
quella parte i ’truna, che si estendeva al mezzogiorno della selva
Ciminia; Ed anche laCam- pania eia caduta allora sotto il potere dei
Sanniti, e tutte le provinole etnische al settentrione degl’Apenninì, erano
rimaste sotto la dominazione dei Galli. Tentarono indarno gli Etruschi,
dopo la gran disfatta, che ebbero presso il Lago Va di mone, oggi di
Bussano, di chiamare in loro soccorso i mercenarii Galli, poiché furono
battuti di nuovo, perchè le loro temporarie confederazioni, non poterono
opporre una efficace resistenza, contro la disciplina, che la vittoria aveva
già organizzata nelle armate romane; Eia potenza di quel popolo celebre,
e valoroso per sì lunga serie di secoli, rimase intieramente abbattuta,prima
delle guerre di Pirro, e di Annibale. del cielo, di che ho trattato in
altre mie opere. Le colonne ed i vasi che son sepolcrali rammentano le
ceneri degli avi, presso i quali fu ucciso l’infelice Laomedonte assalito da
Ercole nplia sua patria presso le lor ceneri. Questo disegno è una quinta
parte della grandezza che ha 1’urna di marmo. La rozzezza della scultura
di quest’umetta in pietra tufacea che nel suo originale è soltanto doppia di
questo disegno, non permette ad ognuno di ravvisarvi il soggetto che a me
sembra esservi espresso. Imperocché io vi scorgo nella figura equestre
un’Amazone, di che ho non lieve indizio nel berretto che le copre la fronte, e
quindi in ogni restante della composizione, che non differisce dalle già
esposte alle tavole. Qui v'èuna circostanza che ne scopre sempre più
l’allusione a soggetto ferale, ed è 1’ albero significativo d’ombra, e
privazione di luce : luogo insomma dove passano i mortali dopo il periodo
vitale assegnato loro dalla natura in questa terra. Un pregio singolare
di questi bassirilievi di pietra tofacea è in qualche modo Tesser tutti
chiusini, e d’uno stile che può dirsi unico in questo genere di
antichissimi oggetti d'arte. Quel di Perugia ch’io riportai con esattezza
alla Tav. Z 2 della ser. VI de’Monumenti etruschi, è inferiore
nell’esecuzione forse per difetto della cattiva scélta nella pietra eh'è
molto più tenace di quella chiusina, e più assai porosa, ed a luoghi
affatto spugnosa. L’originale di questo che abbiamo sott’occhio non è che per
metà maggiore del suo disegno. Si vede assai chiaramente esservi
rappresentata una processione religiosa. La prima figura che ha semplice
manto, e non veste lunga è dunque un uomo che ha in mano una gran foglia,
dalla quale argomento esser questa una pompa sacra, mentre in tali riti
portavansi le foglie, e se ne danno persuadenti ragioni, ch’io esposi altrove 3
. Segue la figura di una donna che per essere assai danneggiata non se ne
sa il destino, Dopo è una figura con bastone in mano,molte delle quali vedemmo
già nelle tavole scorse. Ma siccome tien dalla sinistra mano un uovo, così
potremo in qualche modo congetturare che la pompa della quale quel
seguace fa parte sia espiatoria, e perciò analoga al defonto, presso al
quale quest’ ara è stata trovata. Poco sappiamo di una tale
superstizione, ma ci è noto che all'uovo, dedicandolo ad Ecate
infernale, 1 Ingliirami, Monum. etr. g 5, e Galleria Omerica Tom. n, tav.
cxciv, p. j 54 * 2 Monumenti etr. ser. v, p. 44 l 2 * 3
Ved. le tavole 11, lii, iv,, xxxvni, lui,, Lvi. L’Amorino qui
espresso è copia d’un bronzo grande quanto il suo originale, eh’è d’una
bellissima patina verde. Non saprei giudicare dal solo disegno, che m’è
sottocchio, qual ne sia l’azione, e quale il significato di essa, onde mi
limito ad osservare che l’acconciatura di testa, non meno che lo stile
assai molle, e sì vistosamente lontano da quel rigido, che vedemmo nei
già esaminati bassirilievi chiusini, mi fanno giudicare quest’idoletto
per un opera eccellente degli Etruschi, allorché sottoposti ai Romani
praticaron le arti ne’tempi di Adriano. Leggendo lo storico Diodoro
ho incontrato un avvenimento d’Èrcole, che mi sembra molto analogo a
quanto si rappresenta in questo bassorilievo. Narra quello scrittore che
tornato Ercole insieme cogli Argonauti alle spiagge troiane, ove avea
lasciati in deposito a Laomedonte la vinta Esione ed i cavalli di
Diomede, invia suo fratello Ifito, e Telamone a riprendere il deposito
affidato a quel re; ma il perfido ne ricusa la restituzione, ed oltraggia
i messaggi. Allora gli Argonauti muovono contro Laomedonte e contro i Troiani
suoi sudditi, e dopo un vivo combattimento trionfano. Ercole sopra d’ogni
altro fa prodigi di valore, ed uccide di sua propria mano il re
Laomedonte Tanto basti a ravvisar qui E avvenimento or descritto. Ercole
ha in mano la spada per uccidere il perfido Laomedonte che h». già
ghermito pei capelli, nè può altrimenti evitare il colpo fatale di morte.
La pelle di leone che si annoda sul di lui torace lo manifestano per Ercole,
sebbene usi spada e non clava. Laomedonte altresì fassi noto al berretto
asiatico proprio dei Frigi e Troiani in modo speciale, come ripetuti
esempi ne dò nella Galleria omerica 3 . Il bastone pastorale gli è posto
in mano dall’ artista ad oggetto di aumentarne la distinzione, come
spettante alla famiglia di Dardano, eh io dissi altrove 3 essere stata
distinta per la sua occupazione di guardare gli armenti de suoi antenati,
non meno che per la singolare bellezza della quale furono adorni i di lei
componenti. Difatti qui Laomedonte si mostra bellissimo e delicatissimo, in
paragone del robusto Ercole, e dell’altro eroe eh’è degli argonauti combattenti
in quella occasione con Ercole. Le due Furie con face
rovesciata, ripetutissime nelle urne etnische, non hanno un positivo ed
intrinseco rapporto col fatto. L'altare serve soltanto di espressione per
mostrare che il paziente altro scampo non ha che reclamare la
protezione Diod. Sic. Bibl. hist. Galleria Omerica, Iliad-, Tav. le arche
racchiudevano oggetti sacri di mistica rappresentanza, non visibili ad
ogni profano. Il vaso dipinto con queste donne che staccano in giallastro
su fondo nero, fu, cred’io, venerando per gli oggetti contenuti nella cesta,
piuttostochè per le donne che la portano. Nell’interna e concava
parte duna tazza di terra cotta vedesi dipinto con fondo nero un sacrifizio,
che mostra, cred’io l’atto del camillo, o vittimario di cuocer le carni della
vittima sul fuoco acceso nell’ara o foculo, mentre il sacerdote che
sembra di Bacco è pronto a farvi una libazione, versandovi parte della
sacra bevanda. Dalla bassezza di quell’altare, pare che l’atto religioso
fosse diretto al culto di Bacco stigio, che pregavasi perchè fosse
favorevole ai morti; come difatti la tazza dov’è questa pittura fu posta
come le altre in un sepolcro. È invero assai singolare il bronzo num. 1
che qui presentiamo in disegno nella dimensione del suo originale, come
si può riscontrare nel privato e ricco museo del sig. capitano Sozzi di
di Chiusi dov’esiste. Non è del tutto nuovo per altro; ed io vidi un
idolo lungo due piedi e sottile nel museo di Volterra tutto nudo, e colle
braccia aderenti al corpo, senza nessun emblema. Il Gori che lo illustrò, gli
dette nome di Lare domestico ridotto più grande e piu maestoso della
specie umana, oppure un dei Lemuri che credevansi ministri del Genio
malo, ossivvero lo stesso Genio malo, che da Plutarco si dice esser
comparso a Bruto in aspetto più grande di quel ch’esser suole l’umana
specie 4 . lo crederei che più convenientemente confermar si potesse
esser quest’idolo chiusino un Lare domestico, forse anche Lemure, pei lumi che
ce ne dà Plutarco, giacché Tesser vestito e l’aver patera in mano tanto
converrebbe ad un Lare, quannto sconverrebbe ad un semplice Genio. Lo
stesso Gori ha posti nella sua collezione altr’idoletti che hanno la
qualità speciale d’esser più lunghi delle dimensioni spettanti all’umana
specie, ma che l’espositore per bizzaria dichiarò con nomi speciali =, senza
darne sodisfacente ragione. I bronzi notati di numm. 2 e 3 sono le
due estremità d’un manubrio di qualche vaso usato probabilmente per sacri riti,
come lo mostra la testa d’asino che ne compone la superior parte, mentre
si tien per ovvia la notizia che questo 1 Plutarc. de animi
tranquillitate, ap. Gori, Mus. Etrusc. Voi. i, Tab. cim, Voi. n,
i. 2 Gctì, Mus. etr. Tom, tab. v. si attribuiva una virtù
espiatoria 1 . La figura virile ultima non ha caratteristica veruna che
la distingua. Da un lato, cred'io, di questo cippo o ara che sia, v’è
un’auriga nell'atto di guidare il suo carro alla corsa : istituzione
antichissima rammentata inclusive da Omero % fra gli onori compartiti da
Achille all’ombra di Patroclo.Sorprenderà gli archeologi la novità di questa
lucerna fittile che porta effigiato un centauro colle ali non più veduto, ch’io
sappia. Ma cangerà la sorpresa in persuasione, tostochè richiamerà alla
memoria quanto dissi altrove rapporto alla composizione siderea di untai
mostro; di che ripeto qui soltanto qualche leggierissimo cenno. Dissi pertanto
che stando alle dottrine d’Ipparco, il Centauro si compone di un
cacciatore, o per meglio dire della costellazione che in antico aveva il
semplice nome di un dardo, e dell’alato cavallo sidereo che dicesi Pegaso
[citato da H. P. Grice]. E poiché questo rappresentasi per metà soltanto
nel davanti, così inventarono di aggregare il restante del cavallo, o sia
la posterior parte al cacciatore arciere. E siccome il Pegaso composto
dal Centauro è figurato con ali, così non è fuor di proposito il trovare
in questo arciere colla caccia in mano la posterior parte del cavallo
Pegaso colle ali che formano il distintivo del destriere abitatore del
Parnaso. Il vaso rappresentato in questa Tavola due terzi più
piccolo del suo originale è di terra cotta di naturai colore, a differenza
d’altro simile qui pure esposto alla Tav., eh' è di terra nera. E poi
singolare in questo il veder le braccia staccate dal vaso e fermate con
delle cuciture di fil di ferro agli orecchi o manichi di esso vaso, e
pare che abbiano tenuto qualche cosa nelle mani che soglion esser
traforate . Un indizio di barba rasata ce lo fanno credere un Bacco. Per
ogni restante si legga quanto dissi alla Tav. Fu costume
frequentissimo nei sacri riti del gentilesimo l’introdurvi le femmine canefore,
o cistofore ma specialmente in Etruria, e i monumenti ci mostrano come un tal
uso invalse qua nei tempi antichissimi, come Io mostra il famoso vaso
d’argento di Chiusi da me riportato altrove. Quelle ceste, o picco- i
Suid. in VOC. Excctjjv. a Galleria Omerica Toni, n, lav. ccxvu #
3 Monumenti etr. ser. v^av. lyii, p* 561. 4 Ivi, ser. ih,
Ragionamento vii. SULLA VERA SITUAZIONE TOPOGRAFICA DI V1TULON1A ANTICHISSIMA
SEDE DELL’IMPERO ETRUSCO. AffdS'v’tffzoufft yap y,<x.i nohU «c rirep av^pwirdi,
A. A. . li ori aveva torto lo spiritoso, e bizzarro filosofo di Samosata,
quando scriveva nel suo dialogo intitolato Caronte, che le città muoiono
come gli uomini. Imperocché nella stessa guisa che si perde la memoria di
moltissimi di questi, così perisce la ricordanza di non poche di quelle. Nel
cui numero è da riporsi con tante altre, la famosa Vitulonia, prima
capitale dell’ Impero Etrusco, della quale sì scarsamente lasciarono scritto
gli antichi, e sì vagamente, e con grande incertezza ne parlano i moderni.
Trovasi infatti accennata dagli uni e dagli altri, quella già potentissima, e
ricca città, con molta dubbiezza, e circa la vera sua topografica situazione,
e circa l’estensione del suo circuito, e perfino riguardo al modo di scriverne
il nome . Avvegnaché PLINIO chiama Yvi ulonii, e Vetuloniensi i suoi
abitanti, e Silio Italico nomina Vetulonia la città stessa, mentre avvi qualche
altro autore, che la dice promiscuamente Vetulonio e Vetulonia. Quanto poi
alla sua topografica situazione, pare anche dal passo del precitato
Plinio, ch’ella fosse come era difatti, vicina al mare -, poiché sebbene al
tempo di quello scrittore già più non esistesse da lunga data, nondimeno
la memoria della sua situazione, e della sua grandezza sussisteva
tuttavìa nella tradizione dei popoli etruschi . Ed il Cluveno,lib. ila colloca
egli pure non lontano dal mare, e nelle vicinanze delle paludi caldane,
confondendo però, per quanto mipare, le Caldane volterrane, o i Guadi
volterrani, colle Caldane della Fiora, che sono tutt’altra cosa. Che
sorgesse però nei contorni di quel pareggio, non è da mettersi in dubbio,
giacché leggiamo in Dionisio di Alicarnasso, lib. 3, che al tempo di Tarquinio
Prisco, quand’ egli guerreggiava contro i Latini, i Sabini, e gli Etruschi
propriamente delti, fecero legaper andare contro il medesimo, le cinque
popolazioni seguenti, cioè, i Chiusini, gli Aretini, i Volterrani, i
Rosellani, ed i Vètuloniensi, che Plinio al già citato libro terzo nomina
con ordine inverso. Nè senza ragione è da credere, che quei due
gravissimi scrittori nominassero i popoli, piuttosto che le città dei
medesimi, perchè Vitulonia era stata distrutta molli secoli prima della
fondazione di Roma, come congettura il dottissimo Dempstero, il quale
crede ancora giudiziosamente, che perciò si di rado ne abbiano gli autori
fatta menzione. quadrupede spettò a Bacco 1 o a Vulcano a . Nell'uno e
nell’altro supposto converrebbe 1’ unione loro aiCabiri, che furon detti e
figli di Vulcano,ed apportatori del culto di Bacco in Etruria. Una tale
osservazione mi farebbe credere i Cabiri o Dioscuri quei due giovanetti
sedenti e con berretto in testa, che trovansi nel1’estremità inferiore del
manubrio medesimo . E tanto piu me ne persuado, in quanto che molti
bronzi ritrovati in Etruria hanno Bacco unito ai Cabiri 5 . Nè si
allontana da questa congettura lo stesso lor gesto che addita il cielo, mentre
stanno coricati per terra, giacché tale additamento del cielo e della terra è
lor proprio in molti antichi monumenti dell’arte 6 .Il bronzo di questa Tavola
veduto da due parti mi vien descritto di un lavoro squisitamente condotto per
la sua esecuzione, al che si può aggiungere il pregio dell’arte che
splende anche nella giusta, non men che bella proporzione della figuretta
che qui si vede per metà maggiore del vero. Io la credo una di quelle
Giunoni, o genii delle donne che tenevansi nei larari dal gentilesimo. La
pittura di questo vaso consiste in tre figure femminili, che avendo in mano
delle aste armate di punte, corrono sfrontatamente luna presso l’altra.
Così narra Euripide che Penteo al di lui ritorno in patria udì che la
madre di lui con altre donne Tebane aveano abbandonato il proprio
albergo, e n’eran gite sul monte Citerone a celebrar le feste di Bacco, piene
di lascivo furore 7. ÌR<S>° 1 U : VI I q 3 : aìlflNS
J/ìttq A J : ÌV1V :tfntnqf\ jmn/qo . jfjvm/dn ••
©nq/i R13D J/ilflllV Monutn. etr., sei:, u, p. 56. 2 Milli», Peintures de Vases
ani., Tom. 2 3, not. (6). 3 Monum. etr., ser. n, p.
i52. 4 Ivi, p. 693, 713. Etr. Mus. Chius.
Tarn. 1. 5 Ivi. Ved. la spiegazione delle Tavole i, p. e
ixxvui. 6 Ivi, tav. xlÌx, e sua spiegazione. 7 Euripide
nelle Baccanti atto primo scena iv in principio. 9vono
discorso anche intorno alle sue terme, ed al suo anfiteatro, celebrandone
le ime, e 1‘ altro. Scrive La-Martiniere che le rovine dì questa
città ritengono tuttavìa t antico nome, e che si chiamano Vetulia,ree/ che
concorda coll'Alberti, e si legge in una nota del precitato Cluverio, che
Vitulonia era situata fra Populonia, e la torre dì San Vincenzo, presso alle
paludi caldane, ed il fiume Linceo, detto oggi la Cornia. La quale
opinione pare appoggiata da quel passo del sullo dato PLINIO; ove nomina
insieme ì Tarquiniesi, i Tuscanesì, i Vetuloniensi, i Veientani, i Visentini,
ed i Volterrani, cognominati etruschi, com’egli si esprime.
Molte altre citazioni, ed altre notizie avrei potute raccogliere ed
aggiunger qui, riguardanti la nostra Vitulonia, ma le ho tralasciate per
brevità, e penso che siano anche troppe le già addotte, per dimostrare
quanta confusione, e quanta incertezza si riscontri negli autori, ogni
volta che ne fanno parola. Ad onta però di tanta confusione, e di tanta
incertezza degli scrittori antichi, e moderni intorno a Vitulonia, per
cui è sembrato ad alcuni archeologi, non solamente difficile ma eziandio
impossibile di poterfissare, ove sorgesse un giorno quella primitiva sede dell
impero etrusco, quandi esso estendevasi a tutta l Italia; io voglio non
pertanto tentare in questo ragionamento di stabilirlo. E voglio in questo
tentativo mettere a profitto le belle, e ricche scoperte di vasi
etruschi, e di altre anticaglie, fatte dall'egregio signor prìncipe di Canino
nelle sue terre di questo nome, e giovandomi ad un tempo dei lumi sparsi
da quel chiarissimo scrittore, illustrando gli uni, e le altre, e per cui viene
ora meritamente lodato in questa materia, come il più benemerito
promotore della gloria dei nostri padri. Tralasciando pertanto di
rintracciare, lo che sarebbe ricerca inutile, e vana, se Vitulonia/bwe
edificata da Tarconte, come pretendono alcuni autori, o dal celeste
Ogige, il quale come vuole non so qual poeta, Itali® Tuscas pelago
descendit ad oras, dove torreggiò Vitulonia, o finalmente lo fosse dagli
Etruschi, regnando su di essi, come piace ad altri quello stesso Giano
Velo che istituì, per quanto si dice, il culto di Vestà, e le Vestali
nelle nostre contrade, diede il suo nome al Gianicolo, combattè per tre
anni coi Celtiberi, e finalmente li vinse, e li sottomise alla sua
dominazione: quello stesso infine, che consacrò, giusta le tradizioni, una
gran selva a Crono nelle vicinanze appunto di Vitulonia, il cui nome
potrebbesi interpetrare stagno, od acqua incostante, passerò in quella
vece a determinarne subito la topografica situazione. Circa la quale
io credo che non possa rivocarsi in dubbio, quanto il sullodato signor principe
di Canino ne ha detto nel primo volume del suo Museo etrusco, parlando in particolar
modo della sua Necropoli; E sono persuaso che ella sorgesse veramente nel luogo
da lui supposto, e descritto. Bifalti la prodigiosa quantità di
vasi etruschi di sommo pregio, e di somma bellezza, e nei quali sono
rappresentate favole, o storie anteriori alla fondazione di Ro- Crede
Ermolao Barbaro, che Orbetello occupi ora il sito dov era una volta Vilu-
lonia, lo che non può essere. E VAlberti scrive che ai suoi tempi chiamavasi
Veletta, o Vetulia, il luogo ove fu Vitulonia; laddove altri sostengono,
che altro in oggi ella non sia ché un luogo deserto, distante tre miglia
dal mare, fra Populonia, e Pisa. E nonmancano neppure di quelli che
confondono Populonia stessa con Vitulonia, benché fossero per località,
per età e per potenza paranco, l’una ben distinta dall' altra. Jf erudito
Guarnacci poi, dice di non poter determinare neppur egli, ove giacesse questa
famosa, ed antichissima città, perché sì conosce, secondo lui, solamente
il nome della medesima, ignorandosi però del tutto, a qual distanza precisa
fosse ella situata da Volterra, e dal mare Ma Annio da Viterbo nelle sue
note agli Equivoci, di Senofonte, afferma esservi un colle chiamato Vetuleto, e
lo afferma con qualche probabilità, per l’età sua, sul quale crede che fosse
situata altre volte Vitulonia. E pensa che dopo la rovina di questa, gli
restasse un tal nome. Il medesimo poi ne deriva l’etimologia del nome da
due parole araniee, che verrebbero a significare, capo di molte città; ciò che
non sarebbe disconvenevole a Vitulonia,- ed aggiungendo, quello che in
molti altri scrittori si legge paranco, che essa godeva il privilegio di
ammettere i forestieri alla cittadinanza volterrana, come ancora la privativa
in età più remota, di dare i fasci, e le insegne reali, la qual cosa
indica essere stata la medesima al disopra di Votterrà. Non di meno il
chiarissimo Passeri nel suo trattato della Numismatica etrusca ; la crede
colonia dei Voltérrani, benché ciò non possa essere accaduto, se pure vogliamo
ammettere che avvenisse in alcun tempo, se non dopo la sua decadenza, e totale
rovina, e dopo il successivo ingrandimento dell'altra. Mentre quando
eraVitulonia nel suo pieno splendore, e capo di potente impero, è ben
ragionevole il credere che succedesse tutto il contrario . Lo stesso
Silio Italico, citato disopra, chiamò la nostra Vitulonia splendore della
Meonia gente, alludendo probabilmente a quei Lidii che si dicevano venuti a
stabilirsi in Etruria, e principalmente in quella regione-, e la disse ad un
tempo inventrice dei Fasci, delle scuri, dei Littori, della Sedia Curale,
e della pretesta, come pure le attribuisce il merito di avere adattata
l'enea tromba agli usi guerrieri-, cantando nell’ ottavo libro delle
guerre puniche. Meoniosque decus Vetuionia gentis, Bissenos
hoec prima dedit precedere fasces, Et junxit totidem tacito terrore secures:
Et princeps Tyrio vestem prsetexuit Ostro; Hasc altas eboris
decoravit honore curuies, Heec eadem pugnas accendere protulit
sere. Esistono infatti antiche medaglie, riferite dal prelodato
Passeri, ed anche dal Guarnacci, coll epigrafe Vetiunia, e coll’ emblema
della scure, o bipenne, insegna dei Magistrati etruschi, e precisamente
di quella città. Ed alcuni gravi scrittori mo- Messina, e fuori ancora
dItalia per fiancheggiare le inaudite millanterie di quei medesimi Greci, e
loro forsennati seguaci, riprodurrò qui una opinione singolare, ma vera,
e che mi pare che siastata sostenuta anche dal Vico ; e dirò che le Muse ebbero
origine in Italia, nell’infanzia, per cosi dire, del mondo. Ed aggiungerò, che
da questa bella penisola emigrando, pèr quelle vicissitudini, che modificano,
e fanno cangiar di aspetto continuamente a tutte le cose umane, passarono
in Arcadia, colle prime colonie italiche di Pèlasghi Tirreni, che erano
indigeni di questo delizioso paese, favorito in ogni tempo sopra di ogni altro
dalla natura, per tutte le arti dilettevoli, e per tutti gli ameni studi.
Ed andarono ad invadere, é popolare la Grecia, e la Tracia, selvagge allora ed
incolte, dove ebbero poi nome, e culto per opera di Anfilone, di Lino,
d’Eumolpo, e d’ Orfeo, ma vi si erano condotte da prima coi sunnominati
Pelasglii-Tirreni, pastori ad un tempo, e poeti. Da dove ritornarono più
tardi in queste benedette contrade in compagnia d’Evandro, e non ne
partirono mai più-, ad onta di tutte le devastazioni e di tutti i
flagelli, che vi portarono gli stranieri, i quali ne fecero in tutte le età
il primo oggetto delle loro ambiziose conquiste . E persuaso
come io sono, che Vitulonia dettasse in remotissime età le sue leggi agli
Italioti, potentissimi allora sovra ogni altra nazione, da quei luoghi
medesimi, nelle cui vicinanze riscontrasi la grande necropoli, discoperta
\dal signor principe di Canino, come Roma le dettò loro, e all’ universo,
in altri tempi, dall alto del Campidoglio, terminerò questo mio
ragionamento, ripetendo con VIRGILIO, Purpureos spargain flores, animasque
parentum His saltelli accumulem donis. Mà non voglio però dar
fine al medesimo, senza rivolgere brevi parole al signor compilatore dal
Ballettino archeologico di Roma, per pregarlo col dovuto rispetto, a
volersi compiacere di farmi comprendere cosa mai ha preteso di dire, quando ha
scròto del medesimo, con franchezza più che cattedratica, «
Contribuiscono ad illustrare qualunque parte delle antichità dell'
Etruria le utilissime lettere d’ etnisca erudizione che si pubblicano dal
cavaliere Inghirami; siccome allo stesso tendono nel modo loro particolare,
le ingegnose conghietture del signor Principe di Canino, é quelle di
simil genere del professor Euleriani, premesse ai fascicoli del Museo
chiusino » perchè sebbene io confessi ingenuamente : che mi rifugge t animo alt
idea, che debba venire un Oltramontano ad insegnare a noialtri Italiani,
a conoscere le cose nostre, e quelle dei nostri padri, mi sarà tuttavia
gratissimo di potergli rendere pubblica testimonianza di avere imparato qualche
cosa da lui, come non poche me ne insegnarono altre volte, e di vario
genere, ì Dempsteri, gli Acker- blad, gli Zoega, che qui nomino a titolo
cìi onore, ed altri ancora che per brevità si tralasciano. e 9 ma,
e vi si osservano costumi anti-romani ancor essi, dal medesimo dissotterrati
nelle sue campagne della Cucumella, e Cannellocchio, mostra ad evidenza,
che tanta ricchezza di vasi dipinti, non poteva appartenere che alla Necropoli
di una città grandissima ed opulentissima, e capo di potentissimo impero. Nè i
tre ponti dallo stesso discoperti sulla Fiora cosi l uno all altro
vicino, servir potevano ad altro che a mettere in comunicazione fra loro le due
parti di questa medesima città ; E questa non poteva esser che V itulonia, se
ben si voglia riflettere alla sua località, dietro quello che si legge
negli scrittori antichi, e moderni, benché alquanto oscuramente, intorno
alla situazione di quella metropoli. Che se qualche
ultra-greco si ostinasse ancora a sostenere il contrario, è pregato a
considerare un poco meglio i monumenti dei nostri antichi, e singolarmente
quelli dissepolti nelle terre di Canino, ed anche a porre maggiore
attenzione quandi egli legge le opere degli antichi, e son di parere,
scorgerà facilmente timpossibilità di provare il suo assunto.
In quanto poi al predicare la civiltà italica molto anteriore a quella
della Grecia, noi non abbiamo fatto altro in ultima, analisi, che riprodurre
quanto era stato opinato nello scorso secolo dai dottissimi archeologi, e
filologi italiani, e stranieri, assai giudiziosi e non greco-mani,
Dempstero, Buonarroti, Maffei, Cori, Guarnacci, Bocliart, Mazzocchi, Lami
.Bourguet, ed altri ancora. E più modernamente dalli eruditissimo poliglotta
Acherblad, dall’illustre Marini, e dal celebre Visconti, prodigio
d’ingegno, e di dottrina, anche a giudizio dei più dotti francesi. La
quale opinione, propagata da tutti i surriferiti grandi uomini, che
trovasi confermata nelle memorie dell'accademia delle iscrizioni di
Parigi, e che è messa in piena luce da quella mente straordinaria di VICO
(si veda), è poi quella stessa riprodotta, e commentata dal sullodato
signor Principe di Canino, nei varii articoli del precitato primo volume
del suo Museo etrusco, dopo che la riscontrò comprovata dai Monumenti da
lui discoperti, negli scavi fatti eseguire nelle sue terre. Nè di poco
momento è per me, onde viepiù confermarmi in questa opinione che mi è
divenuta certezza, t autorii a del profondo archeologo romano AMATI (si veda),
uomo di somma perspicacia, e dottrina, e nelle italiche antichità versatissimo,
e che la sostiene egli pure. Che del resto la iattanza
impudentissima dei Greci, è dei grecomani, circa la civiltà, e le arti
italiche, non è nuova in queste contrade, sapendo ogni mediocre erudito,
che per rintuzzarne soltanto la vanagloriosa ciarlataneria, pose mano Catone a
scrivere i suoi libri dèlie origini, e si mostrò grandemente sdegnato, perche
nessuno si fosse alzatOkprima di lui a rigettar loro in faccia si
nauseanti, e boriose pretensioni, e si grandi sciocchezze. Ora
dunque, animato dal medesimo amor patrio, e stimolato da eguale sdegno,
per le tante inezie che sf vanno ripetendo ogni giorno a piena bocca, dalli
Alpi a Etr. Mus. Chius. Torri. Quando Venere e Apollo sottrassero Enea,
come inventa Omero alle furibonde armi del prode in guerra Diomede, allora Febo
immaginò di lasciar combattere a sazietà i Troiani coi Greci, sostituendo ad
Enea l’idolo, o popolarmente parlando, l'ombra di lui. Questa poetica
immagine del combattimento de’due partiti per un vano fantasma fu cara
oltremodo agli Etruschi, mentre ne vediamo la rappresentanza in molti
de’lor cinerari, un de’quali eh’è in marmo, fu da me inserito nella serie
che ho data de’monumenti omerici della Iliade, similissimo a questo ch'è
di terra cotta due terzi soltanto maggiore del presente disegno, mentre quel di
marmo è due terzi maggiore di questo modellato in creta. Vi si vede pertanto il
simulacro d’Enea caduto a terra per la percossa del sasso gettatogli da
Diomede, in atto di cercare una qualche difesa nella trista situazione in
cui si trova, spossato di forze. Intorno a lui si tagliano a vicenda gli scudi
e le targhe Troiani ed Achei. L’originale in terracotta era dipinto a
vari colori, ma ora svaniti. L’ iscrizione è soltanto dipinta in color di
porpora, e rammenta, come sapremo a suo luogo, il nome del morto, le cui
ceneri chiudeva l’urnetta. Un licenzioso stuolo di baccanti si offre allo
sguardo dell’.osservatore della tav. presente, e ci avverte esser questa
la pittura d’un vasetto ch’è rappresentato alla tavola e frattanto si
verifica la massima comunemente invalsa per esperienza, che tre quarti dei vasi
fittili dipinti hanno soggetti bacchici. Questo ha figure nere su
fondo rosso ed è il vasetto originale tre volte maggiore del disegno dato alla
tav. suddetta. La statuetta di Venere che orna quest' ago crinale grande al
pari del presente disegno è adattatissima a dar compimento ad un utensile di
muliebre decoro. È singolare il vedere nei Monumenti etruschi la Venere quasi
sempre coperta negligentemente in una sola gamba. Io vi ho spesso, ravvisato il
velo del quale son coperte agli occhi della nostra penetrazione
moltissime delle operazioni della natura: osservazione che dovette esser
propria specialmente degli Etruschi, i quali si magnificano come studiosi della
filosofia naturale. Proporrei ancora il sospetto che l’ago crinale fosse
un simbolo mistico, e per tal cagione posto nel i Iliade Tav. Non credasi però mai da alcuno, che io
ni" altlia la stolta pretensione di non essere criticato, ché anzi
mi reputerò sempre ad onore ogni critica fatta a dovere, Ma quando venga
questa in mal tempo, e con peggior garbo, metterò sotto gli occhi di chi vorrà
leggermi, il seguente epigramma. Censura sapiens, et doctus
acutnine gaudet : Stultus at insano carpere dente solet.
Ex tribus his titulis, quem vis, tibi delige lector: Sic
sapiens, doctus, stultus et esse potes. XLI. VIDflDMU 4/mvfl4i
•• flnoai ; qn-i XLEL -.43 : F\\F{- 1/1-1 : 4 /ÌOq/ : i4 :
4/RttYf : intblq/d :m3iifl4 ; ìi n/qi : 43H3vi :•.lamvfliflm: finn o ni
asiaq'D : 4flim#ì4 : intn.q/a : xLvm. 4/aifn/qi3i lantqfl = ioqfiN ninni m Y 131 :
4An#isa : ianq3i : no L. 1 nxnn\ M3f : laUfVf :
flitifl© Al disopra del copercìiio. a Siccome finisce il lembo del
coperchio pare che abbiano continuata la parola al di sopra
del coperchio della stessa urna. I 74 (lutto
nell'arte, mentre qui la Furia infernale esce di sotto terra; come nel teatro.
Se quest’uso non è molto antico, non potremo reputare antichissime
neppure queste sculture ove tal uso è imitato. L’urna è due terzi più
grande del presente disegno. Il soggetto di questo rozzo vasetto
non è che un baccanale. Il vecchio barbato e nudo rappresentar dovrebbe un
satiro, mentre a centinaia s'incontrano i satiri nei vasi che trovansi
nei sepolcri, e le lor mosse costantemente bizzarre, come acche la lor
nudità costante, non permettono di separar questa virile figura dal coro
satiresco di Bacco. Ma la rozzezza del lavoro accompagnato da negligenza; fece
dimenticare al pittore di aggiungere alla sua figura la coda equina che
a’ satiri non manca mai. La donna eh’ è dalla faccia opposta del vasetto, non
può essere per conseguenza che una baccante . I circoli che in buon
numero si vedono attorno alle due figure sono un enigma finora
inesplicato. La grandezza delle figure è uguale a quella dell’uomo
barbato. La pittura è giallastra in fondo nero. I tre recipienti che
occupano questa tavola son vasi con pitture in parte nere e in parte
giallastre, che si mostrano separatamente dai loro vasi, e che vedremo in
seguito coi respettivi loro richiami. Ma il vaso segnato di numero 2 ha
soltanto una pittura a parte, l’altra di minor conto si vede qui in piccolo.Io
vi ravviso due degli Efebi davanti al ginnasiarca, il quale ha verga in
mano insegno che istruisce e comanda. Tali erano gli esercizi del ginnasio,
dove la gioventù s’istruiva negli esercizi del corpo e dell’animo; e gran
parte delle pitture de’vasi han simil soggetto nella parte opposta ad altra,
che aver suole qualche rappresentanza mitologica o simbolica, come in questo
vaso, dove si vedrà Ercole accolto dal centauro Eolo. Queste favole
cred’io avevano un senso misterioso, e la gioventù s’istruiva nell’iutelligenza
di quel senso non a tutti palese, per cui ne’ vasi comparisce nel tempo
medesimo l’istruttore e 1 istruzione che rnostravansi con quelle pitture.
Questo, pare a me, eh’esser possa il momento in cui Ercole passando dal
monte Foloe per andare a cercar del cinghiale d’Eriinanto, trattenutosi dal
centauro Folo figlio di Sileno e della ninfa Mitra, fu ricevuto nel modo il più
ospitale che potevasi. Ercole ebbe desiderio di bere del vino. Folo ne avea
soltanto in un vaso eh’era stato dato da Bacco ai centauri in comune, e
perciò non ardiva d’aprirlo. Ma Ercole incoraggillo a deporre ogni timore, ed
apri egli stesso sepolcro dov' è stato trovato . Dissi altrove difatti,
che si venerava in Roma l'ago crinale della Madre Idea custoditovi fra le
cose fatali, da cui facevasi dipendere la stabile conservazione
dell'impero. Le oreficerie degli Etruschi, di che presentiamo qui un saggio,
esser sogliono di uno squisito lavoro. I due pezzi superiori pare che siano
stati usati a formare una collana, poiché di simili ornamenti vedonsi le
belle collane scolpite al collo delle matrone che si trovano giacenti sopra i
coperchi delle urne 3 . Ciò sia detto per disinganno di coloro che
trovando nella Grecia altri ornamenti muliehri lavorati in oro con una
perfezione e con un gusto simile a quei dei nostri Etruschi, ne dedussero
che di Grecia si facesse smercio in Italia di tali bigotterie; ma poiché la forma
dei due pezzi superiori trovasi ripetuta soltanto nelle sculture
d'Elruria,e non in quelle di Grecia, così non abbiamo pruove che usassero tali
ornamenti fuor dell’Etruria, nè che non si potessero quivi anche
eseguire. Tra le infinite bizzarrie che vennero in testa ai figuli per
variar le forme dei vasi, che servirono per ornar le ceneri dei sepolti,
questa che presentiamo qui non è certamente delle men singolari. Il suo
nome suol essere d' un ciato quando ha forma d’un corno potorio; ma in
figura di gamba non avendone io mai incontrati, per quanto abbia veduti
moltissimi vasi sepolcrali, non saprei certamente quei che possa dirsene.
La sua grandezza è due volte maggiore di questo disegno. È della solita terra
nera di Chiusi, ed ha vernice nera assai lucida che lo cuopre d'uu color
solo. In generale questi eran vasi da bere usati col rito, che dovevasi
affatto votarne il recipiente, per cui non era necessario di tener questi
vasi in piedi, ma suolevano star discenti sulla mensa. La tragica morte di
Eteocle e Polinice è soggetto che fu caro agli antichi Toscani che lo
elessero soventemente per ornarne i loro sepolcri. Qualche mossa, qualche
ornato,lo stile medesimo della scultura, fan vedere che vi fu
comunicazione tra la scuola di Volterra e quella di Chiusi. Il costume
della Furia eh' è fra i due moribondi più che altro manifesta la
probabilità di questa mia opinione; come si riscontra dai paragoni che posson
farsene 3. Altrove notai parimente 1’uso teatrale di far comparire, non
già dalle scene i soggetti infernali, ma dal palco medesimo, quasi che
sorgessero di sotto terra ^. Un tal uso vedesi esattamente intro- Monum.
etr., ser. li J 2 Ved. la Tavola. Monum. etr., Tavv. II
vasetto che primo si presenta in questa tavola è di terra nera, uguale in
tutto al disegno. Le teste velate son così ripetute nei vasi sepolcrali
chiusini, che io non dubito di confermare il già detto, nel supposto che
siano indicative di larve Ci vien fatta peraltro notare 1 ’esattezza del
lavoro, non meno che la perfetta conservazione del monumento. Si osserva
un anello d’ oro eh’ è in proprietà del sig. capitano Sozzi. Il lavoro, per
quanto mi si elicerà finissimo e di grandezza in tutto eguale
all’originale. È stato, per tanto riportato in doppia grandezza l'incavo che
tien luogo di pietra anulare, perchè meglio si osservi lo stile elevato
di quel lavoro. I due animali, il leone cioè e la sfinge potrebbero
essere interpetrate pel passaggio del sole dal solstizio estivo all’autunno,
mentre quel mostro con corpo di leone e testa e petto di donna non altro
pare che indichi, sennonché il sole che uscito dal segno del Leone
ardentissimo passa in quel della Vergine, ove comincia a perdere l’estiva sua
forza, per cui si assomiglia a una femmina. La galante forma del vaso n. 1 non
è comune fra quelle usate dai Greci. L’impasto della terra è tutto nero,
ed in luogo di figure dipinte ha dei bassiri- lievi minutissimi,
da’quali, come da una doppia fascia, è circondata la più larga parte di
esso . In una delle nominate fasce al n. 3 stanno assisi due uomini con
veste talare, in atto di voler dispensare delle corone, che ricevon coloro i
quali stanno in piedi. Sotto alla lorsedia è un uccello, che secondo le
moderne interpe- trazioni dei geroglifici egiziani, come dissi altrove ?,
significa la casa dello sparviere, eh’è pur simbolo della divinità; e in
conseguenza la casa o regione del cielo, sul quale stabilite si vedono le
figure sedenti del nostro bassorilievo. Porgono esse dunque delle corone ai
guerrieri, in premio di aver combattuto. Le sfingi nei sepolcri le
ho sempre credute indizio del tempo nel quale passa il sole dai segni
dell’emisfero superiore a quello inferiore 4, che dicevasi regno dei
morti 5, e per tal memoria credo esser poste le sfingi nella fascia num. 4 -
Nel bassorii. n. 2 v’è un uomo sedente che ha in mano Io scettro, e ad
esso presentasi un individuo munito di lancia che probabilmente significa
un’anima che passando ad altra vita domanda il premio delle eroiche sue
virtù' 6, accennando non altro che il tempo di tal passaggio, come ho
provato anche altrove? in quest’Opera. 1 Monum. etruschi, ser. i } i, Ved. la spiegai, della Tav. 3 Lettere di
etnisca erudizione; Monum etr.; Lettere; Vedasi tutta la mia lettera scritta al
dottor Maggi nel Tom. delle lettere, Ved. la pag. 5i, e 52 . ;5 quel vaso
dov’era, come appunto si vede in questa pittura. I centauri tratti colà
dall’odore del vino vennero in folla alla cantina del centauro Folo, armati
di grosse pietre, un de quali è qui rappresentato in dietro ad Ercole in
atto di scagliarliela ; e forse è Anchio, o Agrio che furono uccisi da
Ercole, perchè i primi ardirono d’entrare in quella caverna 1 . Questa
pittura con figure giallastre è inetà del suo originale. In questo
bassorilievo ravviso Paride, il quale mentre viveva oscuro ed ignoto sul
monte Ida tra i pastori, scendeva talvolta alla città di Troia, ove segnalavasi
in tutti i giuochi e combattimenti che vi si facevano, ed in essi
riportava la palma sopra ogni altro concorrente, inclusive sopra Ettore e
su gli altri suoi fratelli, che sdegnando d' esser vinti da un ignoto pastore
meditarono di assalirlo ed ucciderlo. Ma Paride allora si dette a conoscere per
loro fratello, e cosi fu salvo. Qui Paride è NUDO COME SI COMPETE AD UN ATLETA,
ed ha lunga palma sugli omeri, qual vincitore in competenza coi fratelli
che invidiosi lo guardano, e meditano la di lui perdita, istigati a tanto
misfattto dalle Furie infernali che loro si fanno dappresso. Il ginocchio
che Paride tiene sull’ara significala protezione divina eh’egl’ implora
da Venere, come ho detto altre volte a, e 1 ’ ottiene; mentre Priamo suo
padre, a cui si palesò, lo ristabilì nel suo rango 3 . Il disegno è una
terza parte dell’originale.Chi mai trovar potrebbe in questo vaso un gusto
greco? Anzi a rettamente parlare diremo esservi un fare eh'è tutt'altro
che greco.L’ornamento del piede partecipa delle scannellature che sì
frequenti ravvisiamo nelle opere dell'Egitto. In ogni restante v'è una
originalità singolare. I mostruosi animali a bassorilie* vo che ne ornano
il corpo son frequenti in questi vasi chiusini di terra nera, ed io li
tengo sempre per quelli animali caotici che ad oggetto di rammentare la
pili antica delle orientali cosmogonie ne ornarono i sepolcri, di che ragionai
anche altrove L La donna che serve d'apice a! coperchio del vaso, in
quanto al disegno non è molto dissimile da quelle dipinte in giro nel
vaso della Tav. LXXII, come ancora in riguardo al costume
dell’abbigliamento. Questo è dunque l’antico etrusco stile, o l imitazione
di esso, come resulta dal paragone della indicata pittura pur trovata in
Chiusi, ma di stile totalmente greco. Or s’io ripetessi qui pure, come ho
detto altrove 5, che i Greci lavorarono vasi in Etruria, e quindi anche i
nazionali ma in uno stile del tutto differente, non ne avrei forse in
simili esempi le prove? Diodor. Sicul. Nonn, Dionis. intit. l’Italia
avanti il dominio de’Romani Monum elruschi, ser.[i,p. /{Q 3 i 4 ^ 5, .Monum.
etruschi ser. v, Tav. lx. 3 Ved.le mie Osser.sopra i raonum.ant.uniti
all’op. droni perfino del tuono, e del fulmine, i quali peri loro sorprendenti,
e terribili effetti, somministrarono in ogni tempo e in ogni dove abbondante
materia alla superstiziosa credulità dei popoli. Giammai però, nè presso
alcun’altra nazione, ebbe la scienza tonilruale, efulguraria tanti
cultori, come presso gli antichi Etruschi, nè mai se ne fece altrove uno
studio così costante, come nell’ Etruria propriamente detta, e con successo
così, favorevole. Ma i sacerdoti etruschi, dopo avere immaginata
una scienza profonda, e difficile, sui tuoni e sui fulmini, trovarono
ancora il modo di renderla terribile e spaventevole al volgo della loro
nazione. Imperocché, stabilita la distinzione tra ifulmini di consiglio quelli
di autorità e di decreto, tra i postulatorii, i monitorii, i confermatorii',
gli ausiliarii, gli ospitalieri, ed i fallaci, i pestilenziali, i
micidiali i minacciami, ed i reali, e simili, ne fabbricarono ancora una spece
di Diario, ossia Rituale. Del quale, per darne una idea ai nostri
lettori, ne riporteremo qui uno squarcio, tradotto in italiano.
Questo Rituale adunque, o Diario tonitruale, e locale secondo la luna
coni essi lo chiamavano, fu tratto, per quanto ne dicono le tradizioni,
parola per parola, da Publio Nigidio Figlilo, dagli scritti sacri di
Pagete ; Ed è riportato da Lidio nel suo libro dei prodigi al cap. xxvu, pag.
101, dell edizione fattane a Parigi,per cura di Carlo Benedetto Tinse.
Ecco in qual maniera si esprime il sullodato autore, al luogo citato, su
tal proposito . Se egli è manifesto che gli antichi sapienti etruschi
prendessero in ogni disciplina augurale per guida la luna, poiché secondo il
corso di quella espongonsi qui appreso anche i segni tonitruali, e
fulgorarli, rettamente farà chiunque si sceglierà per duce in questa scienza le
stazioni lunari, Laonde quinci dal cancro, e quindi dal novilunio,
istituiremo la diurna cognizione dei tuoni, secondo i mesi lunari. Dalla
quale passavano i Tusci, o sacerdoti etruschi ad insegnare le osservazioni locali,
anche intorno ai luoghi percossi dal fulmine. E pare che il principale di tut
fi i collegi di questi Tusci risiedesse a Fiesole, leggendosi in Silio
Italico Adfuit et sacris interpres fulminis alis, Faesula
Incominciando poi il Diario, o Rituale fulgurano, e tonitruale
etrusco, dal primo giorno lunare del mese di giugno, dice cosi. Se tuonerà
nel'primo giorno della luna di giugno, vi sarei abbondanza di biade,
eccettuato l'orzo, ed i corpi umani saranno attaccati da perniciosi morbi ; E
se tuonerà nèl secondo, le donne partoriranno piu facilmente, ma peri ranno le
greggi, e vi sarà abbondanza di pesci. Tuon andò poi nel terzo sara il
caldo secchissimo per modo, che non solamente gli asciutti prodotti della
terra, resteranno inariditi, ma si abbruceranno ancora gli umidi e i
verdi. Laddove se tuonerà nel quarto, l’aria sarà talmente coperta, di
nubi, e sì piovosa, che le biade periranno per la putrida umidità. Se
tuonerà nel quinto giorno, sarà dinfausto presagio alla campagna, e si
turberanno tutti quelli, che presiedono ai villaggi, ed ai piccoli castelli, e
borghi ; Se nel RAGIONAMENTO Vili, E IX SULLA SCIENZA TONITRUJLE, E
FVLGURARIA DEGL’ETRUSCHI rpày.[x«Tcc re Fai $u<rto> oyìav
è?s7rovv;'7av ( oi Svpfavot ) sm' Aererò» 9 stai ra 7repe t»jv xepavvosxomav
sarà to*vt&>v àv.S'peomav e^et^yacavro. Diod. Sic.
B^ovrat xaS' v7rvous ayyèXwv èics Xòyot, Astrampsycb. de Sonili. interp.
F_Ja superstizione, il più funesto di tutti i flagelli che affliggessero mai,
in qualunque regione, ed in qualunque età, Ì umana specie, facendola gemere
sotto il giogo più duro, e più pesante di quanti ne seppero immaginare, e
fabbricare, la tirannide più scaltra, e il despotismo più sospettoso,
mescolando ognora profanamente, per meglio abbrutirla, ed opprimerla, il
venerando nome di Dio, alle loro malvagità le più enormi, fu sempre, e
presso tutti i popoli della terra, il maraviglioso ordigno, e l’efficace
strumento, onde si valsero gli astuti, ed i tristi, a danno dei semplici, e
dei buoni, ed i potenti, é gl’ippocriti, per dominare i deboli, e farsi
giuoco dei creduli- Questa Furia pertanto, esecranda, e crudele, la
peggiore di quante ne racchiude nel suo seno lInferno, che ha percorso
sotto varie vestimenta, e con diverso aspetto, tutta la superficie della
terra, è quella che fece risuonare di strani ululati, e di querule grida le
selve di Marsiglia, pei riti sanguinari di Teuta, le foreste di Norimberga, per
quelli d'Irmensul le montagne della Scandinavia, per placare l ira di
Thor o la vendetta di Odino, e le pianure della Perside, onde rendersi propizio
Arimane; ed è pure quella medesima, che tinse di umano sangue le rive di Aulide,
e della Tauride, fece scorrer vermigli itessalonìci torrenti, e quelli d
Irlanda, accese gli orrendi roghi di Lisbona, e di Spagna, desolò le Americane
contrade, e coperse in una sola notte la Francia intiera, di spavento e dì
lutto. Questa Furia spaventevole che prende tutte le forme, e che le varia
poi in mille guise secondo i climi diversi, ed atteggiandosi ancora nel
percorrere in ogni direzione la terra, secondo le differenti passioni, e la
varia indole dei popoli, ebbe anche presso gli antichi Etruschi,
influenza grandissima, e prepotente dominio. Nè avrebbe, potuto accadere
diversamente in una nazione, ove la casta sacerdotale, o i collegi dei
Tusci, facevansi, come in Egitto, e nelle Indie Orientali, una privativa dell
istruzione, e di tutte le cognizioni letterarie e scientifiche. Ora questa
medesima Erinni,invadendo l’antica Etruria, e facendone in cèrto modo suo
nido, signoreggiò in singoiar guisa gli spiriti dei nostri antenati,
prevalendosi anche presso di loro, di tutti gli strumenti opportuni al
suo scopo. Laonde s impa- Etr. Mus . Chius. 11 ri
0 8o o/o dal fulmine aneli essi, come facevano i loro
maestri. Quindi allorché esso partiva dall' Oriente, ed avendo toccato
leggermente alcuno, ritornava da quella parte, era questo il segno di una
perfetta felicità . Non traevasì peraltro nessun augurio del fulmine, quandi
esso altro non faceva che strepito. Quelli poi che sembravano promettere
lene, o male, erano presi per contrassegni della protezione, o della collera di
Dio. Laonde V erano fulmini di cattivo augurio, dei quali potevasi
peraltro allontanare il presagio, come dipendeva dalla volontà degli
uomini il procurarsi quello dei fulmini di augurio favorevole, per mezzo di
cerimonie religiose, e di offerte. Ve n erano poi altri, di cui non era dato ai
mortali di rimovere la minaccia, per via di alcuna espiazione.
Brasi introdotto pure fra i romani, come insegnavasi in Etruria, che
romoreg- giando il tuono dalla parte destra, annunziava sempre qualche
cosa di felice, e che era di funesto presagio allorchéfacevasi sentire
dalla parte sinistra. I luoghi colpiti dal fulmine divenivano sacri anche
pei Romani, come tali divenivano per gli Etnischi, e non era più permesso
d!impiegarli ad usi profani. J i s inalzavano allora degli altari al dio
Tonante, e gli Aruspici avevano cura di consacrarli col sagrifizio di una
pecora, dal cui nome venivano detti bidentali. Anche gli alberi fulminati
dovevano essere purificati, ed una certa classe di sacerdoti delti strufertarii
facevano in tale occorrenza un sacrifizio colla pasta cotta sotto la
cenere. Se dobbiamo prestar fede a P ausonia gli abitanti della
città di Seleucia adorano il fulmine, che eglino riguardavano come la loro
divinità suprema. Cantavano inni in suo onore, ed il culto di esso era
accompagnato da singolarissime cerimonie. Ma è da credersi che il fulmine
altro non fosse, se non se il simbolo di Giove, che adoravano quegli
idolatri come essendo il padrone degli Dei. Nella Mitologia sono i ciclopi
che fabbricano entro la fucina dell’Etna i fulmini al padre degli Dei, e
servivansi per comporli, e temprarli delle seguenti materie. Mescolavano
insieme i terribili lampi, lo strepito spaventevole, le striscianti
fiammé, lei collera di Giove s ed il terrore degli uomini. Il
fulmine però non era l’attributo esclusivo di Giove. Nell’opera di Ralle intitolata
Ricerche sul culto di Bacco, stampata a Parigi, domo primo, si legge che
Proserpina ingenerò Zagreo, cioè Bacco, colla testa ornata di corna, il quale
da se solo, e senza veruno esterno aiuto, s inalzò al trono di suo padre,
e trattò il fulmine colle mani ancora infantili. E nella descrizione delle
pietre incise del gabinetto Stoscliiano parla Winkelmann di una corniola,
rappresentante Bacco con diversi attributi, ed un Satiro, ai piedi del quale
vede si il fulmine. Anche Luciano, e Nonno panopolita, come pure molti
monumenti antichi anno il fulmine per attributo a Bacco. Tutte le grandi
divinità del paganesimo hanno due caratteri distinti: Luna generale, ed
era quello del primo principio, dotato della forza, e della potenza universale,
e l’altro particolare, che ciascuna di quelle divinità riceveva dalle funzio-,
7sesto s ingenererà un insetto nocino nelle mature biade, e se nel settimo
regneranno dei morbi, senza però che ne molano molti, e le secche
biade cresceranno, mentre s’inaridiranno le umide e verdi. Tuonarldo nel giorno
ottavo sarà annunzio di grandi piogge, e della morte del frumento, nel
nono significherà che dovranno perire le greggi per l'incursione dei
lupi, e nel decimo che vi saranno frequenti morti, ma che tuttavia l'annata
sarà fertile;Mentre se tuonerà nelVundecimo, annunzierà innocenti calori, e
letizia alla repubblica, e se nel duodecimo accadeva lo stesso Quando
tuona nel giorno decìmotèrzo, minaccia la rovina di un uomo prepotente,
nel decimoquarto, indica che l’aria sarà eccessivamente calda, e non dimeno
sarà lieto il provento delle biade, con gran comodità di pesci fluviali, ma i
corpi cadranno in languore; E se poi tuonerà nel decimoquinto i volatili
saranno affetti da incomodi nell estate, e periranno le bestie
natanti. Se nel decimo sesto giorno tuonerà, non solamente minaccia
diminuzione dell'annona, ma anche guerra, e verrà tolto dimezzo un uomo
floridissimo; Se tuonerà nel dectmo settimo, vi saranno calori
grandissimi, e mortalità di topi, di talpe e di locuste i E non pertanto l’anno
apporterà abbondanza e stragi al popolo romano. Tuonando nel decimottavo,
minaccia calamità ai frutti, nel decimonono moriranno gli animali nocivi agli
stessi frutti, e nel ventesimo minaccia dissezioni al popolo
romano. Quando tuona nel ventunesimo giorno, indica penuria di vino, buon
provento delie altre raccolte, e gran copia di pesci, nel ventesimosecondo
presagisce un calore dannoso, e nel ventesimoterzo dichiara letizia,
allontanamento di mali, e fine di morti. E così nel ventesimoquarto
annunzia abbondanza di tutte le cose, e nel ventesimo quinto significa che vi
saranno guerre, e mali innumerevoli. Finalmente se tuonerà nel
giorno vigesimo sesto, il freddo nuocerà alle biade, nel vigesimo
settimo, i primati della repubblica avranno da temere di andare incontro
a perigli per parte dei soldati, nel vigesimottavo, sarcivvi libertà di
biade, mentre tuonando nel vigesimonono, le cose della città si troveranno
in migliore stalo, e nel trentesimo, vi saranno per breve spazio di tempo
spesse morti. E così di tulli gli altri mesi. Allafine poi dell’ultimo
mese, 5 viene osservato, che Nigidio oiu- dico che questo Diario
tonitruale, non fosse generale, ma per la sola città di Roma. Nè ciò
parra fuori di proposito, a chiunque facciasi a riflettere che i sacerdoti
etruschi, erano solili vendere a caro prezzo la loro scienza, a tutti quelli
che ambivano di farne acquisto, e singolarmente ai Romani, che ebbero cominciamento
da u na ciurma di banditi d Etruria, e ne divennero poi gli emuli, quindi
i nemici, e finalmente i padroni, ed oppressori. Impararono però
ben presto anche i Romani a fare la distinzione fra i fulmini lanciati il
giorno, e quelli che lo erano nella notte-, E credevano che partissero i
primi dalla mano di Giove, ed i secondi da quella di Summanno, la qual
dottrina è tutta etnisca. Dopo questa distinzione, non tardarono molto a
trarre ogni sorta di presa- m p. e. gl' Iotorti, i quali sono
quelli che tracciano cadendo una linea tortuosa, nei quali sono prima di
tutto da ammirarsi,al dire di essi, la loro natura, e la difficoltà di
contemplarli ; Ed aggiungevasi dai medesimi libri, che non lutti producono
i medesimi effetti, neppure quelli che vengono formati, secondo loro,
dall' aria, e dal concorso delle nubi. E vi si trovano più altre
osservazioni di questa, e di altra specie, che sono pure riferite da Lidio a
pag. 171, cap. 44 • Afferma anche Arduino che i Tusci attribuivano
a noveDei la facoltà di scagliare i fulmini, e che ne distinguevano undici
specie diverse j E per viepiù persuadersi che eglino riguardavano come
cosa di grande importanza la scienza dei fulmini, leggasi anche Seneca, lib.
2.° cap. 32, 33, e seguenti, delle questioni naturali, ov’ egli descrive
prolissamente tutta la lor dottrina, e tutta la loro scienza sui fulmini, ed
anche intorno alla divinazione per mezzo dei medesimi-. Lo che tocca pure CICERONE
(si veda) nel libro primo della divinazione. Censormo poi al capitolo xi,
pag. 69, De die natali, loda esso pure i libri rituali degli
Etruschi. I medesimi Etruschi avevano eziandio alcune singolari opinioni
per impedire che i fulmini cadessero in certi luoghi, piuttosto che in
altri. E cosi, leggiamo nei Geoponìci, o scrittori delle cose rustiche, che
sotterrando in un campo la pelle di un ippopotamo, ivi non cadrà il
fulmine-, E nel lib. 8.°, cap. xi, è soggiunto, con una sentenza di Zoroastro «
affinchè nè i tuoni nè i fulmini facciano svanire i vini » dopo di che si
prosegue cosi, Il ferro sovrapposto ai coperchi dei dogli, e delle botti,
allontana qualunque danno possano cagionare ai vini i fulmini, e i tuoni.
Osservazione la quale fa un poco ai calci colla buona fìsica, ma ciò non monta.
Cosi la spacciavano i Tusci ! Certuni poi vi sovrapponevano alcuni rami di
alloro, i quali dicevano essere giovevoli in ciò, per contrarietà di
natura, e qui avevano ragione. Nei suddetti libri sacri, e rituali dei Tusci,
incontratisi ancora altri nomi da ti ai fulmini, oltre quelli già
riferiti in questo ragionamento. Imperocché altri ne chiamarono Fumidi, altri
Candidi, altri Irruenti, ed altri Presteri,' E ciò dicevano essi di aver
istituito, perchè producono diversi effetti. Quindi soggiungevano che gli
Ardenti sono quelli che si dicono Presteri, e quelli senza fuoco son chiamati
Tifoni, laddove i più languidi son detti Enifie. Diconsi poi Egide quelli
che noi diremmo Prefratti, o rotti prima, i quali sono portati da un
igneo globo • Donde avviene che V etnisca tradizione, mette le Egide
intorno a Giove, quasi insinuando che l’aria è la causa cosi della
procella, come del fulmine, e della concussione del tuono. Quando il
fulmine romoreggiava fra il giorno, e la notte, solevano chiamarlo I ROMANI fulmen
prevorsum, e dietro gl’insegnamenti degli Etruschi attribuivanlo a Giove,
ed a Summanno. Gli Scandinavi, ed i Celti, abitanti delle parli
settentrionali d’Europa, credevano che i rimbombi dei tuoni fossero
cagionati dai colpi di clava, coi È cosa degna di osservazione il vedere
che gli Scandinavi, ed altri popoli del Settentrione facessero essi pure
uno studio particolare sui fulmini, sui baleni, e sui tuoni, e che
avessero formato di ciò una scienza come gl’antichi Etruschi, giacche
rAnnuani, alle quali l'aveva ridotta il sistema del politeismo. Elleno ha per
attributo il fulmine, sotto il primo rapporto, ed è ciò che si ritrova
presso tutte le nazioni antiche. I libri degli Etruschi contenevano secondo PLINIO
(si veda), nove divinità che lanciavano i fulmini -,fEd attribuivano a Marte
quelli che producevano degl' incendii. Eravi a Milon in Egitto, un tempio
dedicato a Nettuno fulminante, per testimonianza di Ateneo, lib. 8.° E Sidonio
Apollinare chiama lo stesso Nettuno Giove Tridentifero, in questi
versi, Sacra Tridentiferi lovis hic armenta profundo Pharnacis
immergi! Genitor. Mentre Stazio nel primo libro dell'Achilleide, lo chiama ii
secondo Giove. Apollo vienne spesso rappresentato, secondo Golzio, colle
ale ed il fulmine j. E si vede su molte medaglie romane colla testa
coronata di lauro, ed il fulmine in mano. Sofocle nell’Edipo
Tiranno, J, e PLINIO (si veda), lib. x,
cap. 2. 0, parlano pure di Marte fulminante, come si vede su diversi
monumenti antichi. Vulcano lanciava aneli’esso il fulmine, secondo
Virgilio, e Nonno nelle Dionisiache, ed alcune medaglie dell isola di Samo, lo
rappresentano cosi. Vedesi poi il Dio Pane col fulmine, su due piccole
figure romane in bronzo, e ne parla Ateneo nell ’undecitno libro dei
Dipnosofisti. Cibele si vede spesso rappresentata col fulmine, e lo
portavano pure Minerva, e Giunone. E quest’ultima era collocata a
Cartagine sopra un lione, tenendo il fulmine sulla destra, e lo scettro sulla
sinistra-, Mentre della prima dice Virgilio: Ipsa lovis rapidum
jaculata e nubibiis ignem. Finalmente lanciava il fulmine lo stesso
Amore, E questo Amore Kspmvofofos, cioè laudante il fulmine, è scolpito
sullo scudo di Alcibiade, secondo l’Epigramma dell’Antologia
greca. Molti poi sono i generi degli stessi fulmini. Insegnavano i Tusci,
e lo riferisce anche Plinio, che quelli i quali vengono asciutti, non
ardono, ma disperdono, e che gli umili non bruciano mainfoscano.Quindi ne
annoveravano un terzo genere,chiamato chiaro', i quali sono di una natura
veramente mirabile, imperocché asciugano, p. e. le botti, piene di vino o
di altro liquido, lasciandole intatte, e non iscorgendovisi alcun
vestigio per ove le abbiano vuotate . Di più, l’oro, l'argento, ed il bronzo,
vengono da tali fulmini liquefatti entro gli scrigni o nei sacchetti, ove suino
riposti, senza arderli in verun modo, e neppure abbronzargli, ed anche
senza guastare il sigillo di cera col quale siano stati chiusi. Si racconta che
Marcia principessa romana fu colpita da uno di questi fulmini, essendo gravida,
il quale uccise il feto che ella portava, ed essa poi sopravvisse senza
verun altro incommodo; E narrasi ancora nel prodigi Catilinarii del Municipio
Pompeiano,che Marco Erennio Decurione fu percosso da un fulmine in giorno
perfettamente sereno. Oltre questi generi di fulmini, ì libri dei
Tusci ne contenevano ancora altri, come, Etr. Mai. Chius. trar nel cielo:
opinioni uscite tutte quante dalle dipinture allegoriche delle antiche
rivoluzioni del nostro globo. I Brasiliani, ad ogni scoppio di tuono,
riguardano tremando il cielo, e sospirando ; E credono che sia il loro Agnian,
o lo spirito maligno, che minacci di percuoterli. Almeno cosi ci assicura il
viaggìator Cereal. In Circassia, i piartele tuona, escono gli abitanti
dai villaggi, e dalla città, e tutta la gioventù si mette, al dire di Tavernier
nei suoi viaggi, a ballare, e cantare in presenza dei vecchi. Le
quali danze, e le quali cantilene, se non furono funebri, o guerriere nel
loro principio, bisogna dire che la gioia di quei popoli sia fondata
sull' idea che il tuono sia di un felice presagio. Idea conforme ancor
questa a quella dei Persi, e di un gran numero di popoli antichi, ì quali
credevano che il fulmine rendesse sacro tuttocio che toccava-, E ciò
perchè presso i Magi era il fuoco temblèma della Divinità, conforme si
può vedere eruditamente provato dal Signor La [fide, nell opera da lui
composta sulla religione dei Persiani, cap. primo. Presso i
sunnominati Circassi, un uomo ucciso dal fulmine è giudicato avere ricevuto da
Dio un gran favore : E se il fulmine stesso è semplicemente caduto sulla
sua casa, egli e tutta la sua famiglia sono nutriti per un anno a spese del
pubblico. È opinione degli antichi idolatri, che Giove punisse, non già
con volgari ga- stighi, ma bensì fulminandoli, tutti gli spergiuri. E
però si legge in Aristofane, nh. w Si i z* tw-wtmSt ~ h cioè « Imperocché
Giove scaglia questo fulmine veramente mirabile, contro gli spergiuri . Ad onta
però di queste popolari credenze, non mancavano tuttavìa di quelli, che
le schernivano, e se ne ridevano di tutti i volgari timori . Difatti Luciano,
nel Timone, riprendendo timprudenza di alcuni uomini, che spergiuravano
in dispregio dei Numi, subindicò il timore del fulmine dìcen o che que
sta specie di mortali, temono più una lucerna spenta, che la caduta di uri
fulmine, e di esserne colpiti. s™» w » «cuy»:. ™ ™ 5 T0=
«fawoo vale a dire: pertanto alcuni di quelli che spergiurano, temerebbe
piuttosto una lucerna spenta, che Infiamma di quel fulmine domatore di
tutte le cose. I Romani, che al dire di Cicerone, presero auspicia
et sacra ab Ltruscis, e secondo Valerio Massimo derivarono tutti i semi della
religione dall Etruria, e noi aggiungeremo francamente, anche ogni demento di
civiltà, fecero passare un gran numero di etruschi Numi a Roma . Quindi
provano con buone ragioni, ed autorità . il Dempstero, ed il Gori, che
erano presso che infinite le divinità adorate dai nostri maggiori, e che
la più gran parte presero domicilio in Roma. Laonde chiameremo temerarie,
e stolte le critiche mosse da alcuni Archeologi più moderni, contro
quei te alla prima percossa che hanno dal fulmime, non dispiacerà ai
nasini lettori il vedere mescle nessuno animale è arso, o acceso dal te qui a
confronto le supersituom tomtrual, r7P f u l vararle desìi
Scandinavi, ed altri setten- fulmine, se non e morto, e simili.
ejiu 0 uiun 5 t j ], . t j’ /-.p trionali con Quelle desìi cinlichi
Etruschi sui' Lasciando ora da parte quanto siano tali os• inori un / et servazioni consentanee alla buona fìsica,
1 ° stesso proposito» quali il loro Dio Thor percuoteva ì Giganti. Il
qual linguaggio è lo stesso che quello dei moderni Persiani, i quali credono
che le stelle cadenti siano colpi di fulmini, che gli Angioli scagliano
nelle altre regioni, contro i Demoni, che si forzano di rieririo tonitruale di
quelli, ha molta somiglian za col Diario fulgorale, e tonitruale di
questi. Si legge infatti in Olao Magno, lib. i, cap. 3i della sua
storia delle genti, e della natura delle cose settentriouali, cne i tuoni
di gennaio significano che i venti soffieranno con mag gior gagliardia
del solito, e che sorgeranno le biade più dritte, e grandi. Quelli di
febbraio annunziano una grande mortalità e singolarmente di quelli che
vivono nella delizia. E quelli di Marzo indicano gagliardi venti, e che
vi dev’essere gran fertilità in quell anno, e straordinario strepito
nei giudizii . Indicano i tuoni di aprile che cadrà una
pioggia conveniente elle biade 9 e che la campagna sara abbondante in tutto il
corso dell'anno, mentre quelli di maggio significano tutto il contrario,
cioè, penuria di biade, ed una formidabile carestia di tutte le cose.
Presagiscono poi quelli di giugno una piu abbondante fertilità, benché
predi cono al tempo stesso infermità spaventevoli. 1 tuoni di
luglio annunziano abbondanza di frumenti, ma distruzione di legumi 9 e
di frutti . Predicono quelli di agosto che gli uomini converseranno
pacificamente fra toro 9 ma vi saranno malattie pericolose 9 E quelli di
settembre denotano fertilità in quelIalino, nel quale però sovrastano
guerra, sedizioni, e morti . 1 tuoni di ottobre sono qualificati
coll’epiteto di portentosi, perche indicano grandi tem peste in
mare, ed in terra ; quelli di novembre, benché raramente tuona in tal
mese, promettono fertilità nell'anno seguente. E quelli finalmente
di dicembre significano abbondanza di tutte le cose, ed una gioconda
conversazione degli uomini fra loro. Altre osservazioni dei settentrionali
sui fulmini, sui lampi, e sui tuoni portano quanto segue. Quando
nell’estate per esempio, tuona più che non lampeggia, significa dover
soffiar venti da quella parte, e per lo contrario se balena più che non tuona,
deve cader molta pioggia. Quando lampeggia essendo il cielo
sereno, vuol dire che vi saranno pioggie, e tuoni 9 e farà un tempo
da inverno E tali cose poi saranno gravissime, ed atrocissime quando
questi lampi, e questi tuoni verranno da tutte le parti del cielo. Ma se
balenerà soltanto dalla parte ciV Aquilone indicherà pioggia nel
giorno seguente j E se i lampi verranno dal punto preciso del
Settentrione 9 soffieranno venti. Lampeggiando dalla, parte di Austro, di
Coro 9 o f avonio, essendo serena la notte, significherà che devono venir
pioggie, e venti da quelle medesime parti. Dicevano ancora i
settentrionali, che i tuoni che scoppiano la mattina di buonora
annunziano venti e quelli che si sentono nel mezzogiorno predicono
una grossa pioggia . Aggiungevano poi essere imjjortantissimo il sapere
da qua! parte vengono i fulmini, e dove si dirigono. Imperocché
sono crudelissimi quelli che partendosi dal settentrione vanno verso l Occaso,
e sono di ottima natura quando ritornano finalmente a quelle parti dalle
quali sono venuti, perche quando vengono da quella parte del cielo
d’ond’ebbero origine, e poi ritornano alla medesima, presagiscono allora una
somma felicità da quella parte di mondo 9 rimanendo però infelici tutte
le altre. E finalmente altre curiose osservazioni aggiungevano intorno a
quest’articolo, come, che la notte piu che il giorno lampeggia senza
tuoni, che la natura ha dato il privilegio al- l’ uomo di essere rare
volle ucciso dal fulmine, e che se questo accade talvolta, è assai più
conveniente, e pietoso ufficio il sotterrare quel morto, che il bruciarlo. Che
te ferite dei fulmini sono più fredde che tutte le altre, che le
bestie moiono istantaneamen- parla CICERONE (si veda) nel primo
della divinazione, nè fa diuopo osservare il diverso inalzarsi della fiamma, o
lo scrosciar della medesima, nè lo scoppiettar dell incenso, delle quali
cose scrisse, secondo Stazio, un tal Tiresia, famosissimo augure etrusco.
J\è occorre tampoco far menzione, per esaltare Tetnisca sapienza, di ciò
che osserva fra gli altri Seneca, Uh. n, delle quistioni naturali, circa
l avere i medesimi fatta anche la distinzione tra i fulmini prodotti
nelle nubi, é nell'aria, d onde scendevano in terra, e quelli che prodotti
nella terra slanciavansi in alto, e verso le nubi medesime, giacché
queste, e molte altre simili cose trovansi narrate, e raccolte da vari
autori. Ma non sono però da passarsi sotto silenzio alcune memorie
di PLINIO, ove narra distesamente in due capitoli, le opinioni degli Etruschi,
appoggiate ad una ragionevole fiolosofia, circa lessenza, o la natura, e circa
le diverse specie di fulmini da essi distinte. Conferma ivi quel
sapientissimo scrittore ciò che abbiamo qui sopra accennato, che vengono
cioè i fulmini, tanto dalle nubi, quanto dalla terra, ed assicura aneli
esso, che trovavansi negli scritti etruschi, nove, o più probabilmente
undici specie di fulmini, delle quali ì Romani loro figli, e discepoli,
non ne avevano osservate, e mantenute che due. Il che viene a confermare sempre
piu il detto di Cicerone, che quei superbi conquistatori, ed oppressori
del mondo, ebbero dagli Etruschi non solamente lorigine, ed i riti
religiosi, tutti quanti ne usarono mai, ma eziandio la civiltà. Egli
osserva pertanto particolarmente, la diversa natura, e diversi
singolarissimi effetti dei fulmini, che dal cielo provengono, e di quelli
che dalla terra sono prodotti-, ed avverte ad un tempo, che queste
osservazioni furono trasportate, e trascritte negli annali romani,
aggiungendo inoltre che vi erano pure le maniere ed i riti per chiamare i
fulmini, ed impetrarli dal cielo, come fece forse Porsernia, che con un
fulmine così ottenuto, ed accompagnato da un mostro chiamato Volta,
devastò, come dicono, le campagne dei Volsinii. Ei dice di più, che in
questa scienza era dottissimo Numa Pompilio, e che avendolo poco bene imitato
Tulio Ostilio, fu arso da un fulmine-, E che per questo fra i diversi nomi che
per l'etnisca disciplina furono dati a Giove, di Statore, di Tonante, Feretrio,
e simili, s'incontra pure quello di Elido, o Evocatore. E finalmente che
si prevedono in tal guisa le cose future, benché sia temerità il credere, che
si possa comandare alla natura, o sforzarla . Il medesimo autore osserva
poi, come il baleno sia piu veloce del fulmine, e del tuono, e come
perciò il fulmine stesso debbasi prima vedere, che udire. Circa le qiiali
osservazioni di Plinio intorno alla scienza tonitruale, e fuigurari a degl’Etruschi,
vi sarebbero da fare molte fisiche riflessioni, se l indole dell opera
per la quale sono scritti questi ragionamenti, lo comportasse. E
sul proposito di questa scienza etrusca, nella quale dice il sullodato
Plinio essere stato peritissimo il re ISuma, ascoltisi anche Ino Livio,
lib.t, il quale lo chiama non solamente dotto nelle arti peregrine, ma
eziandio nella tetrica, e trista due dottissimi scrittori; Colle quali
critiche pretendono di negare, che per esempio, un tal Nume, non abbia potuto
aver culto in Etruria, perchè si cede adorato net Lazio, ed m Roma,;
Avvegnaché dovrebbe piuttosto aver luogo la congettura contraria, come
saviamente rifletteva il sapientissimo Guarnacci. Imperocché, dovrebbe dedursi
che se una tale divinità si vede adorata in Roma e nel Lazio, è ben
ragionevole il credere, che abbia prima avuto culto in Etruria- quando si
voglia riflettere, che una colonia etrusca erano i Latini, e che lo stesso
fondatore dell Eterna Città, coi suoi primi abitanti, non furono altro come
anche altrove accennammo, che una banda di fuorusciti Etruschi. c
he se poi igrecomani, sottilizzando, ed ostinandosi ognora più a volere
irrefragabili prove, e quasi ancora la fede di battesimo, come diceva il
prelodato Guarnac- ci, che un tale idolo, od un tal monumento qualunque,
sia veramente etrusco, e non greco, nè romano ; Oltre che si può
risponder loro che queste prove intrinseche, non le hanno d’ordinario
neppure le cose veramente greche, e romane, e che l'antiquaria iti genere si
aggira sulle asserzioni degli antichi autori, i quali ci hanno lasciato
scritto, dove i vani Numi, e i diversi riti abbiano avuto l’originario loro
culto, Si può ad essi aggiungere ancora che ve una probabilità, la quale
confina colla certezza, che dove un si gran numero d’idoli, di vasi ed altri
monumenti di ogni maniera, sono stati trovati, siano stati pur lavorati. Ed
essendo imedesimi stati dissotterrati negli scavi etruschi, ed indicando una
grandissima antichità, e mollo superiore alla civiltà greca, e romana, è
irragionevole, ed assurdo il credere, che i soli Greci, e romani li abbiano
dappertutto disseminati. Ed anche a ciò che dice il chiarissimo signor
Vermigliali, il qlude pretende (. E roga ime di Admeto e di Alceste) che
i monumenti italici più sono antichi, e più grecizzino, ed al contrario
latineggino maggiormente, quanto più si avvicinano all epoca del dominio
romano in Etruria, come pure che gl’itali antichi spesso aspicassero, si può
rispondere cosa che sarà di scandalo agli Archeologi pedanti i quali non
sanno, o non vogliono trarsi fuori della traccia segnata dai loro predecessori
abbiano essi fatto bene o male. Ed è questa :,o,m, ere l e osservazioni
del sullodato filologo perugino, perchè la lingua greca è figlia della
vetustissima etnisca in quanto alle sue radicali, benché ne differisca
grandemente nelle inflesStoni, édi Greci sono scolari degli antichi Etruschi,
ossiano Pelasghi Tirreni, indigeni d Italia, i quali andarono in remotissima
età a colonizzare, e popolare la Tracia eia Grecia, come m altro ragionamento
accennammo . In quanto poi alle aspirazioni degl Itali antichi, procedono
queste dall’orientalismo, che ridonda in ogni dove in Italia, e che vi fu
introdotto in tempi da noi oltremodo lontani da una colonia orientale,
coi primi elementi della civiltà, come pure asserimmo nel quarto di ave
Sti ragionamenti medesimi. Ma torniamo ai fulmini ed ai tuoni. Non occorre
citar qui i libri fatali degl’etruschi, ricordati da Livio, hi. V, nè i
fulgorali, e gli aruspici, dei quali j3 Etr. Mus . Chius. Tom.
J, Chi mai oserebbe di qualificare l’avvenimento qui espresso, non
vedendovisi che due militari pronti alle difese e alle offese, senza
ravvisarvi ne 1 inimico, ne oggetto veruno che sia motivo di questa loro
disposizione al combattimento? Ma siccome questa pittura è nel mezzo
d’una tazza, intorno alla quale sono altre figure giallastre, come
questa, in fondo nero, così tenteremo di trarre da quellequalche
argomento a cognizione di questa. Un corpo esanime steso al suolo,
presso cui stanno alcuni combattenti che ne scacciano altri in costume
diverso, mi richiama alla mente l’avvenimento del corpo di Patroclo,
contrastato fra i Greci e i Troiani,e finalmente ottenuto da quelli
coll’espulsione di questi. Non vi sono caratteristiche assolutamente variate
tra combattenti e combattenti, a dichiarar Greci gli uni, e Troiani gli
altri,ma pure la totale nudità dei primi li fa credere eroi,che la Grecia
rappresentar suole in tal guisa 2 ;mentre gli altri tre hanno in testa un
berretto: uso asiatico e particolarmente dei Frigi 3 .Hanno essi pure
nella clamide che indossano un segno d'abbigliamento, che raramente onon mai
trascurasi nelle figure asiatiche, per quanto io abbia nei monumenti antichi
osservato. L'uomo steso al suolo qual corpo morto, è altresì nudo del
tutto, e inconseguenza spettante ai Greci, cqme difatti era Patroclo il
caro amico di Achille, che fu ucciso in guerra da Ettore, secondo Omero l
. Probabilmente anche i due guerrieri dipinti nel mezzo della patera, e
che vedemmo nella tavola antecedente,son due Greci alla custodia e difesa del
corpo di Patroclo, ch'è dipinto nel fregio della tazza medesima. Infatti essi
vedonsi ARMATI, MA NUDI, giusta il costume greco eroico, siccome dicemmo. Qui
le figure son ridotte un terzo più piccole di quelle che vedonsi nella
tazza originale, ove sono di color giallastro in fondo nero.
Qualora mi si conceda esser probabile la interpetrazione dell’antecedente
rappresentanza della morte di PATROCLO, e del contrasto tra i Greci e i
Troiani, per ottenerne il cadavere, non mi sarà negata fiducia nella
supposizione eh'io son per proporre, che in questa pittura, la qual fa
seguito all’antecedente, vi siano espressi gli o- nori funebri che furon
resi dall’amico Achille a quell’estinto eroe, e particolari Galleria oraer.
Iliade, Voi. 11, Tavole cxcix, 3 loghirami, MoDum. etr. ser. 11, p. 45°-
cc, cci, ccn. - a
Plot., Vii. Alexand. I? disciplina de vecchi Sabini ( che erano
Etruschi ), di che non vi è stata mai veruna cosa piu incorrotta, e
veneranda. E dicendo che lo stesso Numa era dotto anche nei liti
peregrini, si deve intender qui di quelli di Samotracia, che erano i idrici, e
tri- sti dei Pelasghi, Tirreni, Etruschi ancor essi, come altrove dicemmo,
e lo abbiamo ripetuto pocanzi; E che i Romani riguardavano come
peregrini, perchè tali erano divenuti per loro, essendo in tempi da essi
lontani, passati dagli Etruschi ai Samotraci . La scienza dei quali
riti possedè Porsenna, e molto prima di lui anche Dardano, il quale
portossi in Samotracia pel solo oggetto di conferire con quei sacerdoti, e
per introdurre poi in Troia una religione del tutto ponforme a quella dei
suoi antenati, che era l Etnisca. E si noti, che il medesimo Livio, e
tutti gli antichi scrittori ci fanno sapere che il più volte nominalo
Numa Pompilio fu religiosissimo, e propagatore in Roma di ogni pia istituzione
; Ove non altro ei propagò certamente, che riti etruschi. Ed ecco
una erudita chiacchierata sulla scienza tonitruale, e fulguraria degli
Etruschi. La quale potrebbesi ancora condurre più a lungo, ed arricchire di più
altre peregrine notizie su questa recondita disciplina, se non fosse il già
detto più che abbastanza pel nostro scopo. Ma come e quando mai, e per
quale sovrumana potenza, andarono a mancare queste, e tante altre
superstizioni, stabilite, ed inveterate nel mondo, radicatissime nei
cuori degli uomini, e venerate, e temute in tutte le regioni della terra aliar
conosciute? In qual modo cessarono i terrori e la paura, onde avevano
saputo gli antichi sacerdoti, di concerto sempre cui Despoti, invadere
gli spiriti dei mortali, tenuti ognora da essi, a bello studio nella
cecità, nel timore e nella più profonda ignoranza con mille misteriose ambagi,
e con mille disperate minacce? Scomparvero tutte queste tenebre, e caddero
tutti questi arcani e portentosi ordigni, al comparire della luce Evangelica.
Al comparire di quella legge, t unica fra quante ne vide l'universo, che
introducesse la vera libertà, e la vera eguaglianza fra gli uomini. Al
comparire di quella legge in somma, che mette, davanti a Dio, a livello
del più temuto tiranno, e del più potente monarca, anche il più infimo del
popolo. In urna di marmo LI. : flnoai ; qflj J3 : M : 43
un. fm \iflj : miai : janavi : armo LIV. : iaruv/Hflm
; f\nn o Nell’orlo d’un vaso cinerario di terra cotta
LV, mtvfl Jtiat v/rji 9° È questo idoletto in piccolo, quello
che dissi esser l'altro, rappresentato più in grande, e con alquanta
varietà nelle Tavole XLIX, e LXVII di questa raccolta, essendo il presente di
grandezza simile al suo originale. Ma la di lui piccolezza, e 1 non esser
vuoto, non permette che si riconosca per un cinerario, sicché fu tenuto
soltanto pel nume che riceve, abbraccia e protegge gli estinti, che nati
dalla materia terrestre tornano dopo la morte in seno alla terra, o per
meglio dire alla natura mondiale, della quale Bacco era il nume tutelare.
E poiché mi si dice che piu d uno di tali idoletti si trovarono in uno
stesso sepolcro, da ciò argomento che speciale fu nel sepolto la
venerazione pel nume da questa immagine rappresentato. Si vede un fregio
in bassorilievo che ricorre in giro in un vaso dei consueti chiusini di terra
nera, e non v’è differenza in misura tra l’originale e la copia. Il significato
mi sembra lo stesso dei precedenti lavori di simil genere. Vedo ancor qui come
altrove la Chimera, e credo che l’oggetto sostenuto in mano dagli uomini sia,
come nei calendari egiziani, lo Scorpione sidereo. Aoterò di passaggio a tal
proposito che il famoso torso egiziano in basalto, che un tempo fu del card.
Borgia, pubblicato dal eh. Lenoir alla Tavola VI del forno [, num. g si
vede come qui una figura con Io Scorpione tenuto per la coda, e dietro a se v’è
parimente il leone con la coda che termina in un serpe, e con la Capra
sul dorso, nè spiegasi differentemente che pei segni delle celesti
costellazioni. Si vuol peraltro che nella Capra sopra del Leone si
ravvisi il trionfo del Capricorno sopra il Leone, e probabilmente i due
serpenti che nel nostro bassorilievo si manifestano, saranno quei che dominano
il cielo nel tempo dell'indicato trionfo. A tal proposito, gli astronomi osservano,
che mentre il Capricorno comparisce al nostro Zenith, la Vergine si
mostra sotto il segno dello Scorpione, o del domicilio di Marte 3 : e
difatti sì nel monumento chiusino, che nell'egiziano comparisce una
figura che ha in mano uno scorpione, se non che nell'egiziano si mostra
femminile quella figura, che qui per la sua nudità, par eh esser debba
maschile, ma ciò non si manifesta con sufficiente chiarezza. Che i cavalli
abbian luogo in simile rappresentanza relativamente ai Cavalli siderei, già me
n espressi altrove abbastanza,, ove mostrai principalmente essere il cavallo
sidereo un paranatellone del levare eliaco dello Scorpione J .Lettere di
etnisca erudizione. 1 Lenoir, Nouvelle explic. des hieroglyphes a ivi.
Tom.i, p. io4- % mente il giuoco del pugilato col cesto, che
Omero 1 * pone il secondo tra gli spettacoli dati in onore di Patroclo
nel di lui funerale. Nei vasi, che negli annali dell’istituto di
corrispondenza archeologica si dicono panatenaici, vedonsi a lato dei combattenti,
col cesto come qui, degli uomini coperti d'un manto con braccio scoperto, e
dall'in- terpetre attamente chiamati rabdofori 3, i quali assistendo a
quel giuoco hanno in mano una verga biforcata, similissima a questa dei
presenti i . Le due ultime nude figure una soccombente all’altra
prevalente, ancorché senza cesti alle mani, mostrano che i pittori aggiungevan
talvolta delle figure e dei gruppi a capriccio, ad oggetto d'empir lo
spazio che doveasi dipingere. Se però consultiamo i più moderni sentimenti
degli archeologi, troveremo-ammessa pure l’ipotesi, che una figura umana stesa
per terra presso alcuni combattenti, ascrivere si debba, unicamente ad alcuno
dei contrasti gimnici, senza ricorrere al particolare avvenimento di Patroclo
per isvilupparne il significato. Un sacerdote di BACCO ed una Menade con dei
vasi libatori formano il soggetto di questa pittura, e son frequentissimi
quanto altri mai nei vasi fittili dipinti, onde potremo giustamente ripetere
col Lanzi che di cento vasi tornati a luce, novanta contengono soggetti
bacchici. È singolare il tirso eh’ entrambe le figure sostengono, mentre
ha un'armilla che nei tirsi non è comune, ma nemmeno del tutto insolita, senza
che per altro s’intenda qual n'era l'oggetto. Nell’oscurità di questo
soggetto non altro saprei ravvisarvi che il celebre greco Capaneo estinto sotto
le mura di Tebe. Altrove pure narrai come questi van- tavasi che avrebbe
presa Tebe, volesse Giove o non volesse, ma provocati gli Dei con tali
bestemmie, ne accadde che mentre il primo dava la scalata, Giove non
lasciò compier l’impresa, e con un fulmine Io precipitò dalla scala e lo uccise
6 . Or io noto che qui si vede una scala squarciata dal fulmine, un uomo
rovesciato che dall’alto cade a terra, e dietro a lui le mura forse di Tebe, dove
stanno alla guardia militari tebani. Le altre figure si possono intendere
pel restante dell’esercito, eh’è spaventato, e stramazzato a terra per lo
spavento del fulmine. L'urna in marmo è cinque volte maggiore di questo
disegno. i Iliad. a Galleria omerica Iliade. 3 Voi. n,
p. 218. 4 Ivi, lav. xxi, io, 6. xxu, 8. 6. 5 Gerhard,
Annali dell’istituto di corrispondenza ardi. Monumenti etr. ser. i, Tav.,
e altrove, mentre altri sono come il presente eseguiti in forma di vasi
con capricciosi ornamenti, rivestiti per lo piu da fogliami, e con iscrizioni
latine, come pur qui si legge, indicando il nome di Lucio Aulo Carino. Io
stesso nella mia dimora in Chiusi vidi molti monumenti e rottami di essi, di
stile greco e romano e bellissimi. Nell’interno d’ una tazza
di terra verniciata in nero, si vedono queste due figure di color
giallastro; e sono, per quanto mi sembra, d'uno .stile perfettamente simile a
gran parte di quelle pitture monocromate dei vasi italo-greci. Vi si
rappresenta un suonatore con cetra e plettro, in atto di attendere dalla
Vittoria il premio del suo valore, e credo che ciò alluda ai pregi morali
dell’ani- ma, che negli estinti son premiati nella vita futura; e perciò
soggetti simili ed analoghi a questo si trovano frequentemente dipinti
nei monumenti che pone- vansi nei sepolcri, ma ora corrono altre
opinioni. Se aver vogliamo un esatto conto d’ogni figura eh’è in
quest’ urna di marino, il cui disegno qui è un ottava parte del suo originale,
non saprei se potessimo riescirvi con plausibile disimpegno. Ma se consideriamo
che gli artisti obbligati a trattare nelle opere loro un qualche mitologico
soggetto, eran poi costretti ad ornarne tutto lo spazio del marmo che formava
il primario lato dell’urna sepolcrale, ancorché il soggetto da loro
scelto non richiedesse tante figure, quante ne occorrevano ad ornare lo
spazio determinato, noi troveremo irreprensibile lo artista che abbonda
in figure, ancorché non richieste dal soggetto che tratta, come ne somministra
un esempio assai chiaro il bassorilievo di questa Tavola. Io vi ravviso
Ulisse in atto di adoprare il suo arco, il qual potea dalle sole sue mani esser
teso, ed uccide i proci di sua moglie Penelope, i quali dilapidavano le
di lui sostanze. Egli ha un berretto appuntato, eh’ è la consueta causia
che lo distingue come famoso viaggiatore del mare ’. Sta con un ginocchio
sull’ara, mostrandosi protetto dai numi 3 nella difficile impresa d’esterminare
egli solo coll'aiuto del figlio Telemaco i tanti suoi nemici. La colonnetta
sulla quale solevansi tener degli idoli domestici, mostra ch’egli è già
penetrato nell'interno della sua casa, mentre le colonne doriche vedute
nella parte opposta danno indizio che lo avvenimento accade nella sua
reggia. La forza ch’egli mostra di fare col braccio destro per tendere un
arco, fa ben ravvisare ch’ei solo poteva piegarlo a forza. i Inghirami,
Monum. etr. % Ved. Monum. etr. Qui si mostra nuovamente un
ago, o spillo crinale in oro di un lavoro delicatissimo, considerando che nel
suo capo segnato num. 1, della misura stessa di questo disegno, vi è il
lavoro che portato in grande, si vede al min. 2, il cui ornato è di
semplice bizzarrìa. Il monumento di numero 3 si rende assai singolare,
per essere una di quelle solite fermezze che in luogo d esser di bronzo, come
se ne trovano a centinaia, è doro, e rarissima. Si è creduto da taluno che
queste fermezze servissero a chiudere il cadavere nel lenzuolo d amianto
dove bruciavasi, ed in tal guisa è stata trovata ragionevole
l'indifferenza che tali fermezze siano in maggiore o minor numero in un
sepolcro; e se questo è, noi reputeremo più che altri opulente il morto
presso al quale è stata trovata questa fermezza d’oro. Il numero 4 è similmente
d’oro, e credesi frammento d'una collana . II pregio di questo monumento
consistendo principalmente nella iscrizione dalla quale è circondato,
così attenderemo di conoscerne 1 interpetrazione per opera del cultissimo
Vermiglioli che unitamente alle altre del Museo chiusino, ce le piepara per
darcele tutte di seguito in quest’ opera stessa. I Centauri, che
nel calendario del gentilesimo, servirono a notare il tempo d’autunno, in
cui celebravasi coi misteri la commemorazione dei morti -, hanno servito
altresì d'ornamento adattato alle lor cassette cinerarie, come qui si vede,
figurandovi uno di tali mostri che avendo rapita una delle donne invitate
alle nozze d’Ippodamia la difende dai Lapiti, che vogliono
rivendicarla. II disegno del vaso che qui presentasi la metà più piccolo
del suo originale in marmo statuario, ci fa sicuri che in Chiusi, dove
stato trovato, fiorirono due scuole assai diverse di scultura; funa
etnisca, 1 altra romana, giacche si trovano recipienti eseguiti per l’uso
medesimo di riporre ceneri di umani cadaveri, gli uni in forma
quadrangolare a modo di cassetta, con bassirilievi di figure e con etiu-
sche iscrizioni, come ne abbiamo fatti vedere in quest opera alle Tavole, 1
Inghiraroi, Mommi, etr. - Sa mai v’ha luogo all’interpetrazione di
queste due statuette di bronzo num, i e 2, i cui disegni sono grandi
quanto i loro originali, potrei avventurare che 1 una di a. i fosse
d’Apollo laureato in fronte e con tazza in mano, comesi vede altrove nei
vasi dipinti 'ri’altra n. 2. diMercurio conpetasoin testa,sostenendo con la
sinistra mano una sacca o borsa,ch’è propria di questo nume, come tutelare del
commercio. La corniola che qui mostriamo al num. 3, ci fa istruiti quanto
dagli antichi fosse apprezzato il gruppo delle tre Grazie, che vediamo
ripetuto in un modo medesimo in tanti luoghi e in tanti tempi diversi. La
dimensione della pietra è misurata dall'ellisse num. Fu posto in ridicolo
il Gori celebre antiquario di cose etrusche, perchè fatti disegnare una
quantità d’idoletti in bronzo che si conservano nella R- Galleria di Firenze i
* 3, pretese dare a tutti loro un nome speciale, formandone una serie di
etrusche divinità senza rammentarsi che soggiogati gli Etruschi, signo reggiarono
i Romani in questo nostro paese, ove introdussero colle lor colonie
artisti e culti sacri tutti lor propri. Perch' io vada esente da simil taccia
non mi costringa l'osservatore a dare un nome all’idoletto di bronzo che
i sig." editori del Museo chiusino han posto al num. ì, 2 della Tavola C,
che nel disegno trasmessomi per la incisione trovo notato esser della grandezza
medesima dell'originale come pure l’altro di num. 3 .È grave danno per la
scienza antiquaria che dai collettori di antichi monumenti non facciasi caso
nessuno della maniera come questi si trovano sotterrati, dal che non
pochi lumi trar si potrebbero per la storia dell’arte, non men che dei
riti sacri presso gli antichi. N’è prova la figura che trovo disegnata al num.
3 di questa Tav., mentre si scorge di un arcaico stile ben diverso da
quello che spetta alla figura superiore . Or se questi idoletti furon sepolti
promiscuamente fra loro in un sepolcro medesimo, potremo frale
supposizioni lecite ammettere che la figura di num. 3 sia eseguita ad
imitazione dell’ antico stile, e contemporaneamente all'altra modellata
certamente quando nell'arte era noto uno stile assai più perfetto . Dopo
varie mie riflessioni sul significato di queste donne che in piccol
bronzo trovansi frequenti negli scavi d’Etruria, restai perplesso nelle
due i Tishbein, Pittare de’ Vasi antichi posseduti dal cav.
Hamilton. Tom. i, Tav. 8, 9 .Visconti, Museo Pio dementino, Tav. r. 3
Museum etr. exhiben» insigne veterum Etruscorum monumenta aereis tabulis cc,
edita et illustrata .4 Maffei, Osservazioni letter L uomo già rovesciato
per terra, che vedasi nel sinistro Iato dell’urna rispetto al
riguardante, fa conoscere già incorniciata la carnificina dei proci. 11
giovine che vibra la bipenne sopra un armato può significar Telemaco, il
quale si presta in aiuto del padre alla strage di quei malvagi. La Furia
infernale tra le colonne della reggia attamente manifesta il terrore di
sì lugubre azione che scompiglia la casa reale d’Ulisse.I due combattenti
al sinistro fianco di quell’eroe son figure, a mio credere, arbitrariamente
dall'artista introdotte ad empire un vuoto che restava senz’esse nel suo
bassorilievo, come ho detto poc’anzi, ed anche in occasione di spiegar la
Tavola. Mi sia permesso di rimettere ad altro miglior Edipo, ch’io
non sono, d’in- terpetrare qual fosse l’intenzione degli antichi Gentili
nel rappresentare questo, come pure mill’ altri idoletti di bronzo, che
trovansi nello scoprire antichi sepolcri. Io posso dire soltanto essermi noto
che innumerabili erano gl’idoli dagli antichi tenuti nei larari come
dissi poc’anzi . Ma non so poi quel che significhino gran parte di essi, come
il presente, nè per quali superstizioni passassero nei sepolcri, qualora non
sieno stati considerati che per semplici bronzi atti a dissipare i maleficii 2
. L’Arpocrate fanciullo inetto e silente, perchè non compiutamente ben
formato, significativo del sole ibernale, è il soggetto che in questa piccola
statuetta uguale al suo originale in bronzo si rappresenta. Fu
antichissimo in Egitto, e ne conserva nel fior di loto, che ha in capo,
il segnale, ma introdotto a’tempi de’To- lomei fra i Greci e fra i Romani
formossene una divinità pantea 3 con forme non altrimenti egiziane,
fingendolo un Amore, perchè da questi nasce lo sviluppo della natura
produttrice, per cui gli posero in mano il corno dell’abbondanza che
attender dobbiamo dallo sviluppo del calor solare, passato il tempo
d’inverno. Il vasetto di terra cotta è parimente rappresentato di misura
uguale al suo originale, ed è dipinto a figure nericcie con fondo
giallastro pendente al bianco, o piuttosto d’un bianco abbagliato, ed è d’un
genere che gli archeologi convengono di nominare maniera egiziana 4, sì perchè
vi si vedono strane figure sul gusto di quella nazione, e sì ancora
perchè in Egitto si trovan similissimi a questi. Ved. la Tavola uxi.
a Monum. etr. 3 Iablonski Pantheon Aegyptior. lib. u, cap.
vi, Etr. Mus. Chius. Gerhard, Annali dell istituto di
corrispondenza archeologica voi. in, anno i 83 i, p. i4>
*4 orecchi, piedi e coda di cavallo, con busto virile: aggregato non
comune in Sìmili fantastiche figure, delle quali ebbi luogo di trattare
estesamente altrove, dandole per simboli autunnali II vaso che ha in mano
quel mostro non è che un emblema di più per indicare la stagione
d’autunno, allorquando s’empiono tali olle di vino. La donna che gli è
dappresso è una Tiade seguace di Bacco. II perchè poi la unione di queste
due figure significasse il passaggio della razza umana dalla vita rozza e
disordinata, alla virtuosa e civile per opera di Bacco e dei suoi misteri,
è argomento sul quale scrissi altrove abbastanza per darne il conveniente
sviluppo a . Delle due figure, che qui sotto al num. 2 si vedono
riportate nella misura di un quarto più piccole dell'originale, dipinte
nella parte opposta di questo vaso, non saprei indovinarne il
significato, tranne il supposto d'un’armatura da un giovane ottenuta nel
passaggio all’ età virile i . Il disegno del vaso è ridotto alla
grandezza di un quarto del suo originale, Questo mistico specchio non può
spiegarsi che mediante l'osservazione di molti altri, nequali per
ordinario si trovano insieme dei numi o eroi di opposta natura o potenza. Spesso
vi sono espressi Dioscuri, la cui consueta combinazione fu da me assai
esaminata in altre mie carte, ov’io li mostrava in sostanza 4 espressivi di due
contrarie potenze, le quali concorrevano, secondo i Gentili alla formazione e
conservazione del mondo 5 . Qui pure è Teti e Giunone perpetuamente nemiche fra
loro, di che ho pure altrove ragionato 6 . Che la donna seduta sulla
pistrice sia Teti lo mostra chiaro un frammento d una tazza etrusca, dove la
figura medesima ivi dipinta ne porta il nome scritto. Che la donna opposta
sia Giunone lo prova Io scettro che impugna. tavola cv. Il
manico doppio di bronzo qui espresso nella grandezza del suo originale
num. 1 mostrasi attaccato da un lato ad una testa femminile di nessuna
significazione, e dall altra ad una maschera scenica virile, nel che
manifestasi quanto fossero vaghi gli Antichi di variare ornamenti,
giacché non altro che il capriccio può a\erli dettati, come qui li
mostriamo, per ornarne un vaso di bronzo. Possiamo frattanto tener per
sicuro che gli artisti di Chiusi non furono di meno elevato genio degli
ercolauesi nell’eseguir le opere loro metalliche. Del bronzo in figura di
maschera di cui vedu qui il disegno n. 2, nulla so dire ad istruzione di chi
l’osserva. 4 Monumenti etr., ser. 11. 5 Plutatc. de Iside et Osir. in
prineip. 6 Galleria omer.
voi. 1, tav. xxxix. opinioni o di assegnar loro il nome di Speranza o
quel di Giunone, invocata dal femminil sesso in loro tutela. Ma chi non
sa che la Speranza, e la Fortuna, ossia la fiducia di migliorar sorte nel
mondo, era l’oggetto primario del culto gentilesco d’Italia? 5 Il bassorilievo
della Tavola presente è un’urna di marmo due terzi maggio- giore di
questo disegno. Qui, a parer mio, si rappresentano i due strettissimi
amici Oreste e Pilade nel pericoloso momento d’essere a Diana immolati,
per l'uso barbaro ordinato da Toante in Tauri, che li stranieri a quel
lido approdati dovevano essere immolati a Diana tutelare del luogo <.
Varie tragedie si scrisse- sero dagli antichi su questo soggetto, taluna
forse delle quali dichiarava Oreste d’età più avanzata che Pilade, o
l’età di questo più avanzata di quella dell’altro, e perciò Pilade più
prudente, per cui cred’io, qui è l’uno imberbe, l'altro, barbato. Le
donne che vi si vedono sono le sacerdotesse di Diana, che vicine al di
lei altare stanno con i coltelli pronte ad immolare li sconosciuti
stranieri. Le teste umane posate sull’ara medesima vi son per indizio
della consuetudine di quel barbaro sacrifizio. Per simil modo vedonsi
tali teste pendenti ad un albero presso l’altare di Diana, ove pure
Oreste e Pilade son condotti al crudo supplizio in un sarcofago del
palazzo Accoramboni di Roma, e recato in luce dal Winkelmann . Questa
Pallade in bronzo della gradezza dell’originale è come ognun vede, d’un
gusto squisito. Nè vorremo negare, che sia di toscanica officina, giacché è
trovata a Chiusi, quantunque lo stile dell’arte ivi usato direbbesi comunemente
greco, o del buon tempo romano. Oltre di che possiamo additar quest’idolo col
generico nome di Lare, vale a dire un di quei che i Gentili tenevan chiusi per
loro devozione in alcuni armadi delle lor case col nome di larari. E
dicevansi anche patellari, come Plauto li appella 6, perchè avevano, come
il presente, e come altri riportati in quest’Opera i, piccole patere in mano,
in segno di domandare ai devoti le prescritte libazioni agli
Dei. Riconosco per un satiro il mostro dipinto nel vaso num. i, perchè vi
si vedono Antichi momim. inedit. 6 PJautoap. Inghirami Monum etr. ser. il.
Plinio. Nat. Hist. Ved. Tavv. un, lxx. 4 Euripide, Ifigenia in
Tauri nell’argoin. greco. L opposto lato del vaso che porta
l'antecedente pittura ha similmente dipinte quattro figure ammantate, insegno,
secondo alcuni 1, di precettato silenzio, come sembra che non ricusi di
ammettere modernamente uno de’ più attenti ed eruditi interpetri di tali
stoviglie, 3 o secondo altri della palestra e del bagno, e gli ultimi che
ne scrissero, notarono in tal circostanza, che riguardo ai bagni è assai
più comune il vedere i loro utensili posti per dare indizio della palestra,
che il trovar particolari espressioni della loro struttura. Quindi
argomenta che i giovani avviluppati nel manto e forniti degli arnesi atti al
bagno si mostrino di là partirne onde recarsi alla palestra. Io peraltro
che soglio dare al significato di tali pitture maggiore importanza,
mentre le vedo sì ripetute da tutto il paganesimo, dove fu in uso il seppellir
vasi coi morti-senza neppure distruggere l'opinione modernamente invalsa, che
significhino esse unicamente il passaggio dei giovani dai bagno alla
palestra, proporrei altresì l’opinione, a parer mio non re- pugnante, che
il vedersi in mano degli efebi gli strigili che usavansi a purgar la cute
da ogni sozzura dopo il bagno, denotasse l’uso delle virtù catartiche, mediante
le quali veniva un’ anima virtuosa a purgarsi d’ogni viziosa impurità, e farsi
degna della celeste beatitudine. Erano infatti virtù somiglianti insinuate
nei ginnasi dai precettori, che in segno di loro autorità non meno che
della disciplina dottrinale che da lor comunicavasi agl’iniziati, e del
silenzio che loro impo- nevasi circa i precetti religiosi dati colla
massima segretezza, tennero, come qui, un bastone in mano. Io dunque vedo
nel vaso in complesso, l’immagine della beatitudine in quel convito eh'è
daH’anterior parte di esso già esposta antecedentemente, e la occulta e
misteriosa via di conseguirla nel significato degli strigili che hanno in
mano i giovani qui espressi davanti ai loro precettori, e inistagoghi. Leggo
nel disegno di questa incisione mandatami da Chiusi esser le figure,
rosse in fondo nero la metà dell’originale. Ho il piacere di dar termine
alla prima parte di quest’opera sul Museo chiusino, con un monumento de'più
interessanti che vi siano stati esibiti, sì per la perfezione del suo
disegno, come anche per l’epigrafi, dalle quali vanno indicate le figure
di deità che vi si contengono. Quest’ultima qualità che rende il monumento
assai pregevole alla considerazione degli eruditi, voglio dire 1’essere 3
Ivi, e Gerhard Rapporto intorno ai Vasi Voi- centi. Sta negli Annali
dell’ istituto di corri» spondenza archeologica, voi. m, anno i83i
r primo fascicolo, Monumenti, Gerhard, Monum. etr. ser. Fin ora sanasi detto esser qui rappresentata
un agape o cena funebre, colla quale si terminavano gli estremi onori che
rendevansi agli estinti qualificati, ed a così giudicare ne moveva per
ordinario il trovar vasi con tali pitture vicini sempre ai cadaveri ‘.Per
simile analogia solevasi dire ancora esser quel convito, accompagnato da
piacevole melodia, una immagine del godimento riserbato alle anime virtuose
negli Elisi dopo la morte, come promettevasi agli iniziati nei misteri
del paganesimo a . Ma nel momento attuale corre opinione che non altro in
pitture tali debbasi ravvisare, se non che domestiche mense ed allegrezza
sociale, senza frammischiarne l'allusione a varun culto religioso. Rifletto
peraltro che sfio spiego nel metodo primitivo, cioè l'allegorico, la mensa
priva di commestibili, posso ripeter, come dissi altrove, non esser
l’anima suscettibile di pascolo materiale, essendo la sola mensa un
sufficiente segnale del godimento. Se il pittore ebbe in animo di
rappresentarci con questa pittura non altro che una domestica cena, dirò
che la composizione resta incompleta per mancanza dei cibi,
indispensabili ad effettuare l’azione del mangiare. Spiegai altrove
simbolicamente anche Patto, come è qui, ripetutissimo in altre pitture, di una
tazza sostenuta da un commensale cori un sol dito 5, ove dissi che a
tenore d’ una dottrina platonica le anime che debbono scendere in questa
terra si trovano in uno stato il più leggero possibile, e quindi situate nella
più elevata parte del mondo; e conchiusi esserla tazza del recombente
significativa del recipiente del nettare per uso de'numi alzata da lui per
simbolo del- Panima sì per la sua elevatezza, e sì ancora per la
leggerezza che mostra uel- l’esser sostenuta con un dito 6 . E qui mi
giova il notare altresì che nessuno dei tre recombenti mostra di bere
alle tazze da loro sostenute, nè v’ è alcun vaso da cui rilevisi essere state
empite onde bere . Non ostante anche le moderne opinioni hanno tal peso che
meritano considerazione, ed io mi son fatto un pregio di esporle qui non
volendomi caricare del giudizio sulla preferenza delle une sulle altre.
Leggo nel disegno di questa incisione mandatomi da Chiusi essere la metà de!
suo originale, e le figure di colordi rosa. Vermiglio!!, Lezioni
elementari di archeologia, Monum. etruschi Monum etruschi, ser. v, 3
Annali dell istituto di corrispondenza archeol. Voi. ili, anno i 83
i, Gerhard, Monumenti Rapporto intorno i vasi volcenti, p. 5y.
Politi, descrizione di due vasi fittili greco siculi agrigentini i 83 r. Ved,
bullettaio dell’istituto di corrispondenza archeol. Monumenti etruschi.
ò Milli», Peintur. de \ases ant. tot». 11. PI. Monumenti etr. W"
.;.;;Y ; ' Iv i;. 1 1-i. 1. i -li • ir -':i [!T V C R flS i K
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a . Egè ri) ' Z > • ' i:- ai scritto, mi costringe a
tenermi in assai ristretti limiti nel ragionarne, poiché i nientissimi sigg. TÌ
editori di quest'opera destinarono con savissima sceltala illustrazione
della parte epigrafica di tali monumenti al prof. Vermiglioli espertissimo
quanto altri mai di sì difficile scienza. A sodisfar dunque
soltanto la sollecita curiosità di chi osserva il monumento qui esposto
mi permetto di accennar di volo, esser questo uno specchio mistico di que’tanti
che trovatisi storiati nei sepolcri d’Etruria, e solamente lisci in quei
della Magna-Greeia, ed in esso esservi quattro figure di deità cioè la
Parca, Apollo, Venereletea o libitina, e Giunone; e presso le indicate
persone i nomi loro scritti in etrusco. /3DIVM moiran nome della Parca ripetuto
in altri di questi manubriati dischi 1 . V4-1/3 Aplun nome chiarissimo
d’Apollo, ed altresì ripetuto io vari specchi etruschi 3 . HVT34 Letun Venere
letea o libitinia, o Proserpina, che il Gerhard ha così bene illustrata
per una Dea infernale, non distinta però dalla luna 3, per cui cred’io qui si
vede connessa in amplesso con Apollo considerato come il sole. Ecco dunque per
la prima volta incontrato negli specchi mistici il nome di quella donna
che sì ripetutamente vi si vede rappresentata, e che per Venere libitina azzardai
nominarla tal volta anche prima della presente ed importante scoperta 4. In
fine AH 4/3 0 Talna eh’è nome altresì ripetuto nei mistici dischi, e che
io sostenni con lungo ragionamento esser significativo di Giunone 5 quantunque
disgiunta dai consueti simboli di questa Dea, mentre qui ha lo scettro che la
•fanno indubitatamente conoscere per la regina degli Dei unitamente con
Giove che n’era il supremo loro imperante. Ma una più sodisfacente
interpetrazione dell'etrusche parole qui riferite debbesi attendere
dall’erudito Vermiglio]/', al quale, come io dissi disopra, è
destinata. In urna figulina i flit a a = flnflo )
f\XF\Y\M LVH. AlAtlqAD : 1SUfflM : lOqfld In urna
figulina lviii. CO -A l#q vn : im :
fìURO M : VfflDt : r Ì :
VA LX V-ÌV# : VD flitmao i Monumenti
etruschi s a -Gerhard, Venere Proserpina
illustrata, Nuora collezione d’opuscoli e notizie di scenze,
lettere ed arti, pubb. dal cav. Fr. Inghirami, 4 Monum. etr. <a, , e Sol. làaBaHBBsasaasa
XXXZ'/Z/. - A'/AZY.Y (IX XUI m ;_i lira
vz. 7 ’ LII fC) i Ouj/ IsUcAenni.
eli/ T £,J\ T. L/A' 3TT J ^ JCZ/Z z,Jirv: T»
z^rjrji-'. IXX3TT 'X tea T^reiir.
ir**:-Jàz-j:. amiBft'igwpcj &r. CJI. v ~ Grice e
Musonio (Bolsena) G. MUSONIO RUFO C. Musonio Rufo esercita un forte
influsso sui contemporanei. Di famiglia equestre dell’etrusca Volsini
(Bolsena) suscita per la sua fama di filosofo l’invidia di Nerone. C.
MUSONIO RUFO segue Rubellio Plauto nell'Asia Minore e lo incoraggia a
togliersi la vita quando Nerone lo condanna a morte. Ritorna a Roma, dove
e bandito insieme con Cornuto in occasione della congiura
di Pisone e confinato nell’isola di Gyaros nelle Cicladi, ove per la
sua rinomanza attira uditori da ogni parte.Verosimilmente richiamato a Roma
da GALBA, negli ultimi giorni di Vitellio si une ad una ambasceria del
Senato presso Antonio Primo per perorare la causa della pace fra i suoi
soldati, ma senza successo.Quando VESPASIANO assunse il potere, C. Musonio Rufo
accusa davanti al Senato P. Egnazio Celere, quale delatore e falso testimonio
nel processo di Borea Sorano. Vespasiano lo escluse dalla prima espulsione dei
filosofi da Roma, ma poi lo esiliò per la seconda volta ; però Tito, che
già lo aveva conosciuto, lo richiamò dopo la sua assunzione al trono. In
seguito mancano notizie su di lui, ma da una lettera di PLINIO (si veda) il
Giovane sembra che non fosse più in vita. Non risulta che abbia composto e
pubblicato seritti, anzi sembra che si sia servito soltanto dell’insegnamento
orale, del quale, però, rimangono frammenti abbastanza numerosi. Essi
comprendono : 19 brevi apoftegmi conservati da Plutarco, da Aulo Gellio e dallo
Stobeo ; 2° altri apoftegmi e trattazioni filosofiche relaivamente ampie
raccolti da Epitteto nelsuo insegnamen-È e trasmessi i primi da Arriano, le
seconde dallo Stobeo ; 3° esposizioni o lezioni che si trovano nello Stobeo o
costituiscono la parte più estesa dei frammenti. È verosimile che provengano da
uno scritto di quel Lucio che si è già ricordato e che si deve ritenere la
fonte più importante dello Stobeo ; un’altra è Epitteto, cioè Arriano. Sembra
che un Pollione (probabilmente Valerio Pollione da Alessandria, vissuto sotto
Adriano) abbia composto Memorabili di Musonio, ma non ne restano tracce. È
giudicata falsa una lettera di Musonio a un certo Paneratide. Le concordanze
che si sono osservate tra i frammenti di Musonio e il Pedagogo di Clemente di
Alessandria hanno fatto pensare o alla dipendenza di questo da uno seritto di Lucio
o alla derivazione di ambedue da una fonte più antica. Della forte azione di
Musonio sui contemporanei sono prova i suoi numerosi scolari, tra i quali si
ricordano (oltre al genero Artemidoro, amico e maestro di Plinio il Giovane), i
filosofi Epitteto, Dione di Prusa, Eufrate di Tiro e il suo scolaro Timocerate
di Eraclea, e insigni romani, come Rubellio Plauto, forse Borea Sorano e
Minicio Fundano, Musonio si avvicina ai cinici nell’assegnare alla filosofia
finalità radicalmente etico-pratiche, accetta spunti dell’ascetismo
neo-pitagorico, ma nel complesso dipende dallo Stoicismo con influssi
posidoniani. Nel sno insegnamento non trascurò le esercitazioni logiche e i
frammenti toccano argomenti di fisica, ma ciò che vi è detto degli Dei,
designati con le denominazioni della religione tradizionale, non supera la
sfera del pensiero comune e non ha carattere filosofico determinato : invece
riporta allo Stoicismo l'affermazione della necessità universale, che equivale
alla teoria del fato. Però l'interesse di Musonio si concentra sulla funzione
pratica della filosofia, che è assolutamente necessaria in quanto (secondo la
tesi introdotta dai cinici nel I secolo a. C. e poi generalmente accettata) gli
uomini sono malati che richiedono una cura continua la quale dev'essere
prestata dalla filosofia, che perciò è necessaria a tutti, alle donne non meno
che agli uomini : essa però è identificata alla ricerca e alla realizzazione
della virtù, per conseguire la quale non vi è necessità di molti discorsi, nè
di molte teorie ; inoltre, in essa l'esercizio ha maggiore importanza
dell’insegnamento o del discorso. Siccome la natura ha posto in ogni uomo i
germi della virtù, se il discepolo non è stato corrotto, una breve
dimostrazione è sufficiente per fargli riconoscere i principi etici
giusti. Ciò che soprattutto importa è che maestro e discepolo uniformino
la loro condotta ai propri principi. Si comprende che Musonio si interessasse
in primo luogo della formazione etica degli scolari. Nell’insieme, la
morale di Musonio si conforma alle dottrine tradizionali della sua scuola.
Occorre distinguere ciò che è e ciò che non è in nostro potere: ora da noi
dipende soltanto l’uso delle rappresentazioni, cioè l'assenso dato alle
opinioni sul bene e sul male, dalle quali è determinata la giusta valutazione
delle cose e quindi l'intenzione quale atteggiamento interiore della volontà;
in essa, se è retta, consiste la libertà, la virtù, la felicità. Tutto il resto
non dipende da noi e perciò rispetto ad esso, ossia alle cose esterne, dobbiamo
rimetterci all’ordine necessario dell'universo e aecettare volentieri ciò che
arreca. Soltanto la virtù è bene, soltanto la malvagità è male e ogni altra
cosa è indifferente. Però, per rafforzare la volontà, Musonio ‘ riteneva
necessario, oltre l'insegnamento e l’esercizio morale, anche l’indurimento
fisico, perchè, essendo il corpo uno strumento indispensabile dell’anima,
occorre rafforzare ambedue. In generale raccomanda, avvicinandosi al Cinismo,
la vita semplice e conforme alla natura e accoglie dal Neo-Pitagorismo il
divieto dei cibi carnei. Oltrepassando le opinioni di molti stoici antichi,
esige una vita morale severissima, raccomanda il matrimonio, condanna la
limitazione delle nascite e l’esposizione dei figli. Nell'insieme, i frammenti
di Musonio rivelano un’anima nobile e retta, appassionata per il bene e guidata
dal desiderio di educare gli spiriti, ma a queste doti non corrisponde il
valore scientifico degli insegnamenti, perchè i suoi pensieri sono molto
mediocri e privi di originalità ; inoltre non si può trovare nelle sue parole
l’espressione di una visione della vita vi- brante di dolore e di amore simile
a quella di Seneca. aio Musonio Rufo. Gaio Musonio Rufo (Volsinii) è
un filosofo romano. Frammento di papiro (P. Harr. I 1, Col.), con parte di
una diatribe. Sulla vita di Gaio Musonio Rufo, stoico, si posseggono poche
notizie certe. È noto che nacque a Volsinii, corrispondente all'odierna
Bolsena, in Etruria, che fu cavaliere. Il ‘præ-nomen’ Gaio lo conosciamo solo
attraverso Plinio il minore che ci fornisce anche un’altra notizia su una sua
figlia (presumibilmente chiamata Musonia, secondo l’uso romano), sposata ad
Artemidoro, al quale Plinio presta aiuto anche per stima e affetto nei
confronti del suocero. Sappiamo dalla voce “Mousonios” della Suda che Musonio e
figlio di Capitone ma non abbiamo altre notizie sulla sua famiglia, che era
comunque di origine etrusca. In effetti, il nomen “Musonius” denotare la gens,
e viene indicato da alcuni studiosi della lingua etrusca come forma latina di
un gentilizio etrusco “Musu,” “Muśu-nia.”. E capo a Roma di un circolo o
gregge filosofico e si dedica anche alla politica, con idee abbastanza
tradizionali e moderate. Fa parte del gruppo creatosi intorno a Rubellio
Plauto, un discendente della famiglia Giulia. Quando Rubellio Plauto e
allontanato da Roma in via precauzionale da Nerone, Musonio lo segue in Asia.
Due anni dopo giunge l'ordine del principe di eliminare Rubellio Plauto.
Musonio ritorna a Roma, ma, in
concomitanza della congiura di Pisone, e mandato in esilio, in quanto allievo
di Seneca, nell'isola di Gyaros, inospitale e rocciosa nel Mar Egeo.
Indicativi della sua integrità morale e della sua coerenza sono altri due
momenti della sua vita, entrambi riportati da Tacito nelle Storie. Dopo
essere ritornato dall’esilio, forse grazie a GALBA, con il quale sembra fosse
in amicizia, nella fase finale della guerra civile seguita alla morte di
Nerone, Musonio si rese protagonista di un primo episodio significativo,
rivelatore della sua generosa attitudine a mettere in pratica i principi morali
e gli ideali di pace che insegna. In una Roma che era teatro di violenti
scontri tra le fazioni avverse, il filosofo di Volsinii si impegna a svolgere
un’improbabile opera di pacificazione. “S’era mescolato agli ambasciatori
Musonio Rufo, di ordine equestre, zelante filosofo e seguace dei precetti dello
stoicismo, ed in mezzo ai manipoli prendeva ad ammonire gli uomini armati con
le sue disquisizioni sui beni della pace e sui mali casi della guerra. Ciò fu
per molti motivo di scherno; per la maggioranza, di fastidio. E non mancava chi
l’avrebbe spinto via o l’avrebbe calpestato, se, dietro consiglio dei più
equilibrati e fra le minacce di altri, non avesse deposto la sua inopportuna
esposizione di saggezza.” Il secondo episodio, ci presenta Musonio Rufo
impegnato nella riabilitazione della memoria dell’amico Barea Sorano, che era
stato sottoposto a processo e condannato a morte insieme alla figlia Servilia e
a Trasea Peto. Contro di lui era stata resa una falsa testimonianza da parte
del suo stesso maestro, Publio Egnazio Celere, anche lui appartenente alla
corrente stoica. Musonio, che pure nei suoi insegnamenti si dichiarava
contrario ad intentare cause per difendere se stesso dalle offese ricevute, in
questo caso non esita ad accusare in Senato il traditore per difendere la
memoria dell’amico condannato ingiustamente. Come scrive Tacito: “Allora
Musonio Rufo attacca Publio Celere, accusandolo di aver attaccato Barea Sorano
con una falsa testimonianza. Evidentemente con quell’accusa si rinnovavano gli
odii delle delazioni. Ma l’accusato, vile e colpevole, non poteva essere
difeso. Di Sorano e santa la memoria. Celere, che fa professione di sapienza,
testimoniando contro Barea, ha tradito e violato l’amicizia.” Musonio porta
avanti con tenacia il suo impegno, che e coronato da successo. “Fu deciso
allora di ri-aprire il processo tra Musonio Rufo e Publio Celere: Publio venne
condannato ed ai mani di Sorano e resa soddisfazione. Quel giorno, che si
distinse per la severità dei magistrati, non manca nemmeno di elogi ad un
cittadino privato. Si era, infatti, del parere che Musonio avesse agito con
giustizia in tribunale. Opinione ben diversa si ha di Demetrio, seguace della
scuola cinica, in quanto aveva difeso, più per ambizione che con onore, un reo
manifesto. Quanto a Publio, non ebbe né animo, né eloquenza sufficienti in quel
frangente.» Più tardi Musonio riusce a guadagnarsi la stima di VESPASIANO
evitando la cacciata dei filosofi. Ci e però un secondo esilio e, dopo il suo
rientro a Roma, voluto da TITO, le fonti tacciono. Potrebbe essere stato
espulso da Roma, assieme agli altri filosofi, a causa di un senatoconsulto
sollecitato da DOMIZIANO, che fa uccidere Aruleno Rustico e cacciare Epitteto e
altri. Da un'epistola di Plinio minore si apprende che egli non era più in
vita. Si proclama suo discendente il poeta Postumio Rufio Festo Avienio.
Probabilmente in modo volontario, sull'esempio di Socrate o Grice e come fa
anche il discepolo Epitteto, non lascia nulla di scritto. I principi della sua
predicazione filosofica si ricavano da una raccolta di diatribe dovuta a un
discepolo di nome Lucio, di cui 21 ampi estratti sono conservati nell'Antologia
di Stobeo. Essi sono intitolati: “Che non è necessario fornire molte prove per
un problema” “Su chi nasce con un'inclinazione verso la virtù” “Che anche le
donne dovrebbero studiare filosofia” “Se le figlie debbano ricevere la stessa
educazione dei figli maschi” “Se è più efficace la teoria o la pratica” “Sul
praticare la filosofia” “Che si dovrebbero disprezzare le difficoltà” “Che
anche un principe deve studiare filosofia” “Che l'esilio non è un male” “Il
filosofo perseguirà qualcuno per lesioni personali?” “Quali mezzi di
sostentamento sono appropriati per un filosofo?” “Sull'indulgenza sessuale”
“Qual è il fine principale del matrimonio. Il matrimonio è un ostacolo per la
ricerca della filosofia. Ogni bambino che nasce dovrebbe essere allevato. Bisogna
obbedire ai propri genitori in tutte le circostanze. Qual è il miglior viatico
per la vecchiaia?” “Sul cibo” “Su vestiti e riparo” “Sugli arredi” “Sul taglio
dei capelli”. Lo stile delle diatribe è semplice. In genere viene posta una
questione iniziale, poi sviluppata con chiarezza durante il testo, spesso
costruito in modo figurato, usando metafore e similitudini (spesso sfrutta il
paragone con il medico, alcune volte intervengono immagini di animali). Questa
caratteristica si adatta bene alla sua personalità e al suo tipo di
insegnamento, tutto rivolto alla schiettezza della vita. Ci restano,
inoltre, frammenti minori, spesso in forma di apoftegma. A parte quelli sempre
di Stobeo (in numero di 14), due frammenti conservati da Plutarco sono brevi
aneddoti che potrebbero essere definiti come "detti celebri", mentre
tre brani di Aulo Gellio conservano detti memorabili ed un quarto è lungo
abbastanza da rappresentare la sintesi di un intero discorso. C'è, poi, un
aneddoto in Elio Aristide ed Epitteto ne racconta una mezza dozzina (11, per la
precisione). Restano, inoltre, due epistole, concordemente ritenute
spurie. Musonio rappresenta, con Epitteto, il principe Marc’Aurelio
Antonino e Seneca, uno dei quattro esponenti più significativi del portico
romano del principato. Egli, se per certi versi corrisponde appieno alle istanze
propugnate dalla temperie spirituale del suo tempo, per altri si distingue e
mette in luce, soprattutto per il recupero radicale e profondo di una filosofia
intesa come arte del vivere bene e onestamente, cioè mezzo per conseguire uno
scopo riscontrabile nei fatti. Il ruolo della filosofia Egli crede che la
filosofia (stoica) fosse la cosa più utile, in quanto ci persuade che né la
vita, né la ricchezza, né il piacere sono un bene, e che né la morte, né la
povertà, né il dolore sono un male; quindi questi ultimi non sono da temere. La
virtù è l'unico bene, perché da sola ci impedisce di commettere errori nella
vita. Del resto, sembra che solo il filosofo si occupi di studio della virtù.
La persona che afferma di studiare filosofia deve praticarla più diligentemente
di chi studia medicina o qualche altra attività, perché la filosofia è più
importante e più difficile da comprendere di qualsiasi altra occupazione.
Questo perché, a differenza di altre abilità, le persone che studiano filosofia
sono state corrotte nella loro anima da vizi e abitudini sconsiderate,
imparando cose contrarie a ciò che impareranno in filosofia. Ma il filosofo non
studia la virtù soltanto come conoscenza teorica. Piuttosto, Musonio insiste
sul fatto che la pratica è più importante della teoria, poiché la pratica ci
porta all’azione in modo più efficace della teoria. Sostene che sebbene tutti
siano naturalmente disposti a vivere senza errori e abbiano la capacità di
essere virtuosi, non ci si può aspettare che qualcuno che non abbia effettivamente
imparato l'abilità di vivere virtuosamente viva senza errori più di qualcuno
che non è un medico esperto, un musicista, studioso, timoniere o atleta ci si
poteva aspettare che praticassero quelle abilità senza errori. In una
delle sue diatribe, si racconta il consiglio che offrì a un re in visita,
dicendogli che deve proteggere e aiutare i suoi sudditi, quindi sapere cosa è
buono o cattivo, utile o dannoso, utile o inutile per le persone. Ma
diagnosticare queste cose è proprio il compito del filosofo. Poiché un re deve
anche sapere cos'è la giustizia e prendere decisioni giuste, il principe studia
filosofia, anche per possedere autocontrollo, frugalità, modestia, coraggio,
saggezza, magnanimità, capacità di prevalere nel parlare sugli altri, capacità di
sopportare il dolore e deve essere privo di errori. La filosofia, sosteneva
Musonio, è l'unica disciplina che fornisce tutte queste virtù. Per dimostrare
la sua gratitudine il re gli offrì tutto ciò che desiderava, al che il filosofo
chiese solo che il re aderisse ai principi stabiliti. Musonio sosteneva
che, poiché l'essere umano è fatto di corpo e anima, dovremmo allenarli
entrambi, ma quest'ultima richiede maggiore attenzione. Questo duplice metodo
richiede l’abituarsi al freddo, al caldo, alla sete, alla fame, alla scarsità
di cibo, a un letto duro, all’astensione dai piaceri e alla sopportazione dei
dolori. Questo metodo rafforza il corpo, lo abitua alla sofferenza e lo rende
idoneo ad ogni compito. Crede che l'anima fosse rafforzata in modo simile
sviluppando il coraggio attraverso la sopportazione delle difficoltà e
rendendola autocontrollata astenendosi dai piaceri. Musonio insisteva sul fatto
che l'esilio, la povertà, le lesioni fisiche e la morte non sono mali e un
filosofo deve disprezzare tutte queste cose. Un filosofo considera l'essere
picchiato, deriso o sputato come né dannoso né vergognoso e quindi non avrebbe
mai litigato contro nessuno per tali atti, secondo Musonio. L'opposizione di
Musonio alla vita lussuosa si estendeva alle sue opinioni sul sesso. Pensa che
gli uomini che vivono nel lusso desiderano un'ampia varietà di esperienze
sessuali, sia legittime che illegittime, sia con donne che con uomini. Osserva
che a volte gl’uomini licenziosi perseguono una serie di partner sessuali maschili.
A volte diventano insoddisfatte dei partner sessuali maschili disponibili e
scelgono di perseguire coloro che sono difficili da ottenere. Musonio condanna
tutti questi atti sessuali ricreativi. Insiste sul fatto che solo gli atti
sessuali finalizzati alla procreazione all’interno del matrimonio sono giusti.
Denuncia l'adulterio come illegale e illegittimo. Giudica i rapporti
omosessuali un oltraggio contro natura. Sosteneva che chiunque sia sopraffatto
dal piacere vergognoso è vile nella sua mancanza di autocontrollo.
Musonio difende l'agricoltura come un'occupazione adatta per un filosofo e
nessun ostacolo all'apprendimento o all'insegnamento di lezioni essenziali. Gli
insegnamenti esistenti di Musonio sottolineano l'importanza delle pratiche quotidiane.
Ad esempio, ha sottolineato che ciò che si mangia ha conseguenze significative.
Crede che padroneggiare il proprio appetito per il cibo e le bevande fosse la
base dell'autocontrollo, una virtù vitale. Sostene che lo scopo del cibo è
nutrire e rafforzare il corpo e sostenere la vita, non fornire piacere.
Digerire il cibo non ci dà alcun piacere, ragiona, e il tempo impiegato a
digerire il cibo supera di gran lunga il tempo impiegato a consumarlo. È la
digestione che nutre il corpo, non il consumo. Pertanto, concluse, il cibo che
mangiamo serve al suo scopo quando lo digeriamo, non quando lo
gustiamo. Musonio sostenne la sua convinzione che le donne dovessero
ricevere la stessa educazione filosofica degli uomini con i seguenti argomenti.
In primo luogo, gli dei hanno dato alle donne lo stesso potere di ragione degli
uomini. La ragione valuta se un'azione è buona o cattiva, onorevole o
vergognosa. In secondo luogo, le donne hanno gli stessi sensi degli uomini:
vista, udito, olfatto e il resto. In terzo luogo, i sessi condividono le stesse
parti del corpo: testa, busto, braccia e gambe. Quarto, le donne hanno un
uguale desiderio per la virtù e una naturale affinità con essa. Le donne, non
meno degli uomini, sono per natura compiaciute delle azioni nobili e giuste e
censurano il loro contrario. Pertanto, concluse Musonio, è altrettanto
appropriato che le donne studino filosofia, e quindi considerino come vivere
onorevolmente, quanto lo è per gli uomini. Suda μ 1305: «Figlio di
Capitone, etrusco, della città di Volsinii; filosofo dialettico e stoico,
vissuto ai tempi di Nerone, conoscente di Apollonio di Tiana e di molti altri.
Ci sono anche lettere che sembrano provenire da Apollonio a lui e da lui ad
Apollonio. Naturalmente per la sua schiettezza, le sue critiche e il suo
eccesso di libertà fu ucciso da Nerone. Numerosi sono i discorsi filosofici che
portano il suo nome e anche le lettere» (tr. Andria). Epistole. Di origine
etrusca: cfr. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, Cfr. M. Pittau,
Dizionario della Lingua Etrusca (DETR), Dublino, Ipazia Books. Tacito, Annales,
XIV, Epitteto, Diatribe. Storie. Storie, Cassio Dione. Girolamo, Chronicon, Titus
Musonium Rufum philosophum de exilio revocat»; Temistio (Orationi), inoltre,
attesta l'amicizia tra Tito e Musonio. A. Cameron, Avienus or Avienius?, in
"Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik". L'attribuzione è data nell'estratto XV Hense:
sicuramente questo Lucio era un allievo di Musonio, e uno specifico riferimento
in cui Musonio parla da esule a un esule rivela che anche Lucio partecipò al
bando del suo maestro. Per la datazione, nella diatriba VIII (60, 5) Lucio
riporta una conversazione di Musonio con un re siriano e dice, tra parentesi,
che c'erano ancora re in Siria a quel tempo, vassalli dei romani. Dato che
l'ultima dinastia di sovrani siriani fu detronizzata nel 106 d.C., Lucio deve
aver scritto qualche tempo dopo questa data. nell'edizione Hense del 1905. Una
delle due è una lunga lettera scritta da Musonio a Pancratide sul tema
dell'educazione dei suoi figli (dell'edizione Hense). Diatriba VIII Hense. Cfr.
anche il detto «Un re dovrebbe voler ispirare soggezione piuttosto che paura
nei suoi sudditi. La maestà è caratteristica del re che incute timore
reverenziale, la crudeltà di quello che ispira paura» (in Stobeo). A differenza
del suo allievo Epitteto, che mostrava disprezzo per il corpo, Musonio
sottolinea l'interdipendenza tra anima e corpo. Questa visione, del tutto
coerente con il panteismo stoico, non è estranea al pensiero neoplatonico. Diatribe III e IV Hense; cfr.
Nussbaum, The Incomplete Feminism of Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and
Roman, in The Sleep of Reason. Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient
Greece and Rome, ed. Nussbaum and Sihvola, Chicago, The University of Chicago Press.
Bibliografia C. Musonii Rufi reliquiae, edidit O. Hense, Lipsia, Teubner, Cora
Lutz, Musonius Rufus, the Roman Socrates, in Yale classical studies.
Dillon, Musonius Rufus and Education in
the Good Life: A Model of Teaching and Living Virtue. University Press of
America. Renato Laurenti, Musonio, maestro di Epitteto, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt. Berlino, Walter de Gruyter, Cynthia King,
(Musonius Rufus: Lectures and Sayings. Ed,
Irvine. Create Space. D., Musonio l'etrusco. La filosofia come scienza di vita,
Roma, Annulli. Musònio Rufo, Gaio, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Calogero, MUSONIO Rufo, Caio, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Musonio Rufo, Gaio,
in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Gaio Musonio
Rufo, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Opere di Gaio Musonio Rufo, su
Open Library, Internet Archive. Stoicismo Portale Antica Roma Portale
Biografie Categorie: Filosofi romani Filosofi Romani Stoic i[altre]. Luciano
Dottarelli. Dottarelli. Keywords: l’implicatura di Musonio, Musonio, Etruscan
influence on Roman philosophy, Why Roman philosophy is not Greco-Roman – The
Etrurian connection. Etrurian as
‘antique’ – Etrurian as exotic for Indo-European Aryan Latins (Romans). Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Dottarelli” – The Swimming-Pool Library. Dottarelli. Dottarelli.
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