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Monday, December 16, 2024

GRICE E SEVERINO

  EMANUELE   SEVERINO   LA POTENZA  DELL'ERRARE     Sulla storia  dell'Occidente    Alle radici della storia dell’Occidente, in concetti come azione, volontà, potenza, si trova l’alienazione  più profonda della verità, ossia l’estremo disfarsi della verità: nel senso in cui ci si libera di una ricchezza  rimanendo impoveriti. A questo principio cruciale della filosofia di Emanuele Severino è dedicato questo  libro che, parlando di arte, cristianesimo, politica, diritto, economia, mostra in azione l’essenza del  nichilismo, il più potente dei meccanismi dell’errare. «Quando si parla di “nichilismo”» scrive l’autore «si  intende per lo più il crollo dei valori tradizionali. Inoltre, solitamente, il nichilismo è una crisi soltanto  descritta, ossia è presentato come un fatto che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe non accadere.»  Queste pagine ci esortano invece a prestare ascolto alla spinta che ha provocato l’inevitabile accadere della  resa al nulla. Da Dante e Leopardi fino allo stato-azienda e ai governi tecnici, la riflessione di Severino svela  il meccanismo oscuro che culmina nel rovesciamento del mezzo in scopo. Il risultato è un’analisi che porta  allo scoperto come lo “scambio delle parti” derivi dall’origine di ogni alienazione del destino della verità e  che dimostra — con nuovi scorci e riferimenti — come «la malattia nascosta (il culmine dell’errare) sia la  persuasione che le cose siano nulla, e il viverle come un nulla».    2     EMANUELE SEVERINO, accademico dei Lincei, è autore di opere fondamentali tradotte in varie  lingue. Scrive regolarmente sul “Corriere della Sera”. Tra i suoi libri più recenti ricordiamo l’autobiografìa   1/ mio ricordo degli eterni (Rizzoli 2011, ora in BUR), Capitalismo senza futuro (Rizzoli 2012) e Intorno al  senso del nulla (Adelphi 2013).    3     Emanuele Severino  La potenza dell’errare  Sulla storia dell’Occidente     4    Proprietà letteraria riservata  © 2013 RCS Libri S.p.A., Milano  ISBN 978-88-58-66255-7   Prima edizione digitale 2013 da edizione novembre 2013  In copertina:   Art Director: Francesca Leoneschi  Graphic Designer: Andrea Cavallini / f/zeWorldo/DOT  www.rizzoli.eu   Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.    5     La potenza dell’errare    6     Per richiamare e introdurre   Anche la storia dell’Occidente presenta un insieme di  processi in cui il mezzo di cui ci si serve, agendo in modo più  o meno complesso, diventa lo scopo (il nuovo scopo) di tale  agire e lo scopo iniziale diventa il mezzo per realizzare il  nuovo scopo. Si può dire che tale rovesciamento è uno  scambio delle parti.   Altri miei scritti si rivolgono a questo tema. La sezione  prima di questo libro intende tuttavia mettere in luce la  relazione tra alcuni «luoghi» apparentemente distanti in cui  quel rovesciamento si manifesta: arte, cristianesimo, politica,  diritto, economia. Ma intende anche richiamare che alla  radice non solo di tale rovesciamento, ma dello stesso  rapporto tra mezzo e scopo, cioè dello stesso concetto di  azione-volontà-potenza si trova Yalienazione più profonda  della verità, ossia il disfarsi della verità, in modo estremo, da  parte della storia dell’Occidente. «Disfarsi», nel senso in cui ci  si disfa di una ricchezza rimanendo impoveriti, disfatti.   Appunto per questa alienazione il rovesciamento in cui  consiste lo scambio delle parti di cui si è detto appartiene  all’ essenza del nichilismo (a sua volta richiamata nella sezione  prima). Tale essenza è il più potente dei meccanismi  delVerrare. Quanto più l’errore è profondo, tanto più è  cresciuta la potenza. L’errore è potenza. E viceversa. Non può  quindi esistere un potenza «buona» e una «cattiva»: la  potenza è, in quanto tale, errare e ferrare è la forma originaria  di ogni violenza e malvagità. L’impotenza, tuttavia, non è  altro che la volontà di potenza fallita, frustrata. E la potenza  «ottenuta» e «vincente» è soltanto l’ illusione di aver ottenuto e  di aver vinto. L’essenza del nichilismo esprime nel modo più  radicale un evento che è essenzialmente più profondo di ogni  «peccato originale». L’illusione estrema è la fede (posseduta    7     da uomini e dèi) di avere la potenza di condurre le cose dal  nulla all’essere e dall’essere al nulla.   È però possibile parlare di errare e di errore, di alienazione  della verità, solo se la verità appare, solo se si manifesta ciò  che è opportuno chiamare destino della verità per indicare  qualcosa il cui contenuto è abissalmente diverso da tutto ciò  che, lungo Vintera storia dell’Occidente, è stato chiamato  «verità». Il capitolo VI della sezione prima richiama appunto  la configurazione di fondo di tale diversità. Con questo si sta  insieme dicendo che l’alienazione della verità non è  «soltanto» un evento che appartenga alla storia del pensiero  filosofico, ma è il terreno in cui vanno via via crescendo le  opere, le istituzioni, le res gestae - e quindi anche, e certo  innanzitutto, le molteplici forme culturali - dell’Occidente e  quindi anche ogni historia rerum gestarum.   E forse è il caso di avvertire già qui che, anche queste  pagine, per lo più, intendono parlare delle «cose segrete»,  delle più segrete, a lettori che non hanno la filosofìa in cima ai  loro pensieri giacché le cose più segrete sono peraltro  manifeste, e in piena luce, nel più profondo di ogni uomo (e  forse non solo), ed è inevitabile che trapelino nel deserto in  cui l’uomo è gettato dall’alienazione della verità.   La forma in cui oggi culmina lo scambio delle parti rimane  quella che altre volte ho indicato, cioè il rapporto con la  tecnica, dove tutte le forze oggi dominanti (i «luoghi» indicati  all’inizio) sono destinate ad assumere come scopo l’aumento  indefinito della potenza, lo scopo cioè nel perseguimento del  quale la tecnica consiste (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro,  Rizzoli 2012). Tuttavia quest’ultima forma è preceduta e  accompagnata da altre forme dove tale scambio si costituisce  tra quelle forze stesse (ognuna peraltro destinata alla fine,  come si sta dicendo, a rinunciare alla volontà di essere lo    8     scopo che subordina a sé gli altri e ad assumere come scopo  l’aumento indefinito della potenza). Ad esempio: lo scambio  esistente tra felicità e verità - per cui dapprima la verità viene  ricercata per essere veramente felici e poi si vuole esser felici  per poter contemplare la verità con una felicità diversa da  quella che serve a produrre tale contemplazione (cfr. E.S., La  buona fede, Rizzoli 1999, 5-6; Dall’islam a Prometeo, Rizzoli  2003, 7). Altri esempi: lo scambio che si produce tra  cristianesimo e arte cristiana (cfr. sezione prima, cap. I), tra  individuo e Stato, tra individuo e capitale, tra merce e denaro  - lo scambio marxiano, questo, che ripropone lo scambio  aristotelico tra economia e crematistica (dove l’uso del denaro  non ha come scopo l’acquisto e il consumo della merce, ma  l’aumento indefinito del denaro stesso). In generale: nella  storia dell’Occidente la verità sta alla felicità come l’arte  cristiana sta al cristianesimo, come Dio o lo Stato stanno  all’individuo, come il denaro sta alla merce, come la tecnica  sta al diritto (naturale e positivo) e, infine, sta a tutte le forze  che ancora oggi intendono servirsi della tecnica come mezzo  per realizzare i loro scopi. Il primo termine di queste coppie è  ciò che, assunto inizialmente come mezzo per realizzare il  secondo termine, diventa lo scopo di quest’ultimo, che  diventa il mezzo.   Come volontà di aumentare aU’infinito la propria potenza,  e riuscendo a essere la potenza suprema, cioè vincente su ogni  altra, l’Apparato scientifico-tecnologico non può non essere  planetario, destinato quindi a subordinare a sé ogni forma  politica dello Stato e ogni trust sovranazionale che sul  fondamento della potenza economica sia riuscito a  subordinare a sé tale forma. L’Apparato è cioè destinato a  costituirsi come Superstato planetario, essenzialmente diverso  dalle logiche politiche che hanno condotto a organizzazioni  internazionali come la Società delle Nazioni e l’Onu. La forma    9     politica dello Stato nasce come scopo che gli individui o i  gruppi sociali si danno per sopravvivere, rinunciando ai  propri impulsi (il cui soddisfacimento costituiva il loro scopo  iniziale) e riconoscendo nello Stato il «monopolio legittimo  della violenza-potenza». In modo analogo, la conflittualità  oggi esistente tra gli Stati (che ripropone il bellum omnium  contro, omnes) spinge verso la forma estrema di Superstato, il  Leviatano supremo in cui consiste l’Apparato della tecnica (e  di cui il Duumvirato Usa-Urss è stato una prima, ancora  acerba ma significativa anticipazione).   Esso riesce a essere il supremo monopolio legittimo della  potenza quando riesce a comprendere il senso autentico della  propria potenza perché sente la voce del pensiero filosofico  che mostra fimpossibilità di ogni Limite assoluto all’agire  dell’uomo e quindi all’agire tecnico, che più di ogni altra forza  è capace di oltrepassare i limiti dell’uomo. Ascoltando quella  voce, l’Apparato ha la capacità di mostrare l’«illegittimità» di  ogni Limite assoluto e di ogni altra forma di potenza. Anche  ma non solo in questo senso la filosofia è la madre della  potenza estrema. Ancora una volta la filosofia degli ultimi due  secoli - e propriamente il suo sottosuolo essenziale e per lo più  inesplorato (cfr. sezione prima, cap. II) - è il fondamento  della più grande trasformazione storica del pianeta: quella  appunto dove la tecnica, ricevendo dalla filosofia la coscienza  della propria forza, riesce a subordinare a sé ogni altra forza.   Questa, sommariamente indicata, è la configurazione  complessiva di ciò che abbiamo chiamato «scambio delle  parti» e dell’alienazione nichilistica della verità che sta alla  radice di esso. Ad alcune delle forme di tale scambio si  rivolgono queste pagine.   Quando si parla di «nichilismo» si intende per lo più il  crollo dei valori tradizionali. Inoltre, solitamente, il    10     nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato  come un fatto che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe  non accadere. Questo libro mette appunto in risalto  (richiamandosi ad altri miei scritti) l’incapacità di prestare  ascolto alla spinta che lo ha fatto inevitabilmente accadere, e  al significato di questa inevitabilità. Ma mette in risalto anche  qualcosa di ben più decisivo, giacché la definizione usuale di  «nichilismo», nonostante la sua visibilità, è soltanto una  conseguenza del senso autentico, ossia di ciò che abbiamo  chiamato Yessenza - peraltro nascosta del nichilismo. Inutile  ogni rimedio se si ignora la natura della malattia. La malattia  nascosta (il culmine dell’errare) è la persuasione che le cose  siano nulla, e il viverle come un nulla. Tanto più profonda, la  malattia, quanto meno si riconosce di esserne affetti. Ma una  volta accertata la vera malattia anche il senso del rimedio  mostra un volto essenzialmente diverso.   Questo tema sta al centro di tutto il mio lavoro filosofico,  ma è prevalentemente accessibile a chi ha già una certa  confidenza con il pensiero filosofico. Come già ho accennato,  questo libro intenderebbe invece coinvolgere nella riflessione  su questo tema - che è la radice più profonda di ogni  «attualità» - i lettori che tale confidenza non hanno.  Intenderebbe, appunto, avvicinarli all’essenza del nichilismo e  della potenza - quindi al destino della verità, cioè allo stare   autenticamente oltre tale essenza. 1   *   Il linguaggio di queste pagine proviene da un gruppo di scritti (alcuni inediti e altri rielaborati),  pubblicati prevalentemente sul «Corriere della Sera» e sul settimanale «Liberal» nell’ultimo decennio.    11    Sezione prima   Scambio delle parti  e alienazione della verità    12     I   Il «fiore»: cristianesimo, arte, tecnica   1. Poesia e festa   Il titolo di questo capitolo che si rivolge alla poesia di Dante  e di Leopardi può lasciare perplessi: «Il fiore»! Che serietà può  avere rivolgersi alla poesia - e per di più con un’immagine  così scontata come «il fiore» - in un tempo tragico ed  enigmatico come il nostro, dove i popoli poveri intendono  non essere esclusi dalle ricchezze dei ricchi e dove la tecnica  sta avviandosi al dominio su tutte le altre forze della civiltà?  La lotta contro il dolore e la morte si è fatta troppo dura  perché sia ancora lecito rivolgersi alla poesia e ai fiori.   Ma dobbiamo subito chiederci qui: la poesia non ha  proprio nulla a che vedere con la lotta contro il dolore e la  morte? È così scontato che la poesia appartenga al regno del  superfluo? Queste domande non intendono alludere al luogo  comune che, dopo aver chiuso la poesia nella dimensione  dell’«estetica», crede che la poesia sia qualcosa di  indispensabile per le anime belle.   Oggi, indebolendosi, la poesia è diventata anche questo. Ma  alVorigine la poesia appartiene invece al gesto essenziale che  l’uomo compie contro il dolore e la morte. Appartiene al  rimedio essenziale.   In principio, il gesto e il rimedio essenziale sono la festa  arcaica. All’origine la festa unisce e fonde in sé ciò che in  seguito si separa e diventa canto, mito, rito, danza, poesia,  arte, sapienza, saggezza, filosofia, tecnica, scienza (cfr. E.S.,  Dall’islam a Prometeo, cit., 8). Quanto più la poesia si  allontana dall’originaria casa festiva, tanto più si indebolisce e  diventa oggetto di godimento estetico - cioè qualcosa che può  certamente sembrare superfluo rispetto ai bisogni primari  dell’uomo. E invece, nell’antica lingua greca «poesia» - poìesis    13     - significa «produzione». La poesia appartiene cioè all’ambito  della potenza. Come gli altri fattori della festa.    14     2. Gli «odori»    Anche in seguito la grande poesia conserva le tracce di  quell’antica potenza. Nel canto XIX del Paradiso (w. 22-24)  Dante si rivolge così ai beati:    [...] O perpetui fiori  de l’eterna letizia, che pur uno  parer mi fate tutti i vostri odori.   Sono, i beati, i perpetui fiori della letizia divina. Fioriscono  dall’albero della letizia eterna, che li unisce in modo che i loro  «odori», per i quali essi si distinguono l’uno dall’altro, paiono  e sono tuttavia un unico profumo: «pur uno».   Mezzo millennio dopo, Leopardi compone La ginestra o il  fiore del deserto. Rivolgendosi alla ginestra il canto dice (w.  32-37);    [...] Or tutto intorno   una ruina involve,   dove tu siedi, o fior gentile, e quasi   i danni altrui commiserando, al cielo   di dolcissimo odor mandi un profumo   che il deserto consola.   Il riferimento a Leopardi e a questo suo canto può  sembrare estrinseco. Eppure il pensiero di Leopardi porta al  tramonto l’universo in cui si muove il pensiero di Dante.  Leopardi, prima ancora di Nietzsche, e nel modo più radicale,  mostra l’impossibilità di ogni eterno, di ogni Dio, di ogni  eterna letizia. Non si tratta dell’opinione, della fantasia, del  sentimento di un «poeta» infelice e deluso. Leopardi, come  altrove ho mostrato, apre la strada della filosofia del nostro  tempo: un percorso inevitabile che tuttora è in attoed è la  radice del distacco del nostro tempo dalla grande tradizione  occidentale, che a sua volta ha la propria radice nel pensiero  filosofico dei Greci.    15     Di questa radice Dante è pienamente e potentemente  consapevole. Quando all’uomo non basta più la letizia della  festa arcaica, nasce la letizia della filosofia, che per i Greci è la  massima di cui l’uomo possa godere sulla terra.   Ma, in precedenza, la festa è il primo rimedio c ontro la  paura del dolore e della morte perché è l ’immagine della lotta  umana contro di essi. Nella festa l’uomo si identifica a questa  immagine. L’immagine si solleva e si libra al di sopra della  lotta: già per questo librarsi si sente libera dal pericolo e dalla  paura, ossia è vittoria, lotta vincente, godimento della  salvezza.   La paura che è vinta dalla festa è più originaria e  angosciante della paura di chi, ormai all’interno del regno  della ragione e della fede cristiana ha «paura» perché si è  allontanato dalle leggi divine, dalla «diritta via» della salvezza.  Lo dice anche Dante all’inizio deìYInferno. La «selva oscura» è  la lontananza da Dio, dalla quale proviene «la paura»; ma  questa selva paurosa    Tant’è amara che poco è più morte.    ( Inferno , I, v. 7)   È tanto amara che la morte è poco più amara. Il che vuoi  dire che la paura della morte è ancora più amara della paura  suscitata dalla lontananza di Dio. È questa ancor più amara  paura a essere inizialmente vinta dalla festa arcaica. Il deserto  della morte è dunque ancora più originario del «gran diserto»  (Ibid., v. 64) della selva dove Dante incontra Virgilio. La  paura che non è ancora raggiunta e vinta dall’evocazione  dell’immagine festiva è essenzialmente più radicale di quella  di chi, dopo aver abitato quell’immagine, se ne è allontanato  credendo di trovare altrove il rimedio, e teme le conseguenze  di questo suo gesto - e tuttavia, anche e proprio per questo    16     suo timore è pur sempre in rapporto con la dimensione  festiva e salvifica.   Di quel più originario e pauroso deserto, da cui l’uomo ha  sempre tentato di salvarsi, parla il canto della Ginestra. Il  «fiore del deserto» «il deserto consola». Nel mondo di Dante i  perpetui fiori dell’eterna letizia sono lo stato più alto  dell’uomo. Ma Leopardi vede l’impossibilità di questa letizia:  dal deserto che è il regno della morte non si può uscire. La  ginestra è il poeta stesso; il «poeta» è insieme il «filosofo»; il  «genio» è l’unità di poesia e filosofia, e questa unità è lo stato  più alto che l’uomo può raggiungere prima di essere afferrato  dal nulla della morte (e dopo che la tecnica ha invano tentato  di salvarlo). Leopardi vive e sa di vivere questo stato supremo,  effimero paradiso terrestre; sa di essere il «genio». Il genio  della ginestra «consola» il deserto perché sa che non ci si può  salvare dal deserto della morte. La consolazione consiste nella  poesia pensante, nel pensiero poetante. (Cfr. E. S., Il nulla e la  poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli 1990 e  Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli 1997).   Nell’incontro di Dante col «cielo», all’inizio del viaggio  nell’oltretomba, la parola «consolazione» è invece assente in  quanto riferita alla paura del poeta. Dal «cielo» giunge per lui  la salvezza. Quando Virgilio glielo dice, Dante si sente come i  fiori che escono dal gelo notturno - e questo suo stato è la  prima prefigurazione della rosa dei beati:    Quali i fioretti, dal notturno gelo  chinati e chiusi, poi che ’l sol li imbianca  si drizzan tutti aperti in loro stelo  tal mi fec’io [...].   ( Inferno , II, w. 127-130)   Dalla paura del gelo notturno al calore eterno - «un sol  calar di molte brace» -, da cui si leva l’unico «odore» dei fiori  dell’eterna letizia.    17     3. Volontà di sapienza   Volendo essere il rimedio contro la paura originaria del  dolore e della morte, la festa arcaica vuol essere sempre più  potente. Questa volontà attraversa l’intera storia dei mortali e  oggi si presenta come civiltà della tecnica. Potenziamento  crescente della festa, che è potenziamento delfimmagine  festiva della lotta in cui la vita consiste.   Il potenziamento delfimmagine festiva procede lungo due  vie: quella del contenuto delfimmagine e quella della forma,  cioè del modo in cui l’immagine esprime il contenuto. Ma  appunto perché la potenza originaria della festa sdoppia la via  della propria crescita, appunto per questo l’originaria potenza  festiva si indebolisce. Il potenziamento del contenuto è il  sorgere e l’articolarsi del mito; il potenziamento della forma è  il sorgere e l’articolarsi di ciò che sarà chiamato «arte»,  «poesia», «tecnica». Gli abitatori originari della casa festiva  tendono a separarsi e la separazione diviene violenta e  irreparabile quando il contenuto sapienziale del mito non sa  resistere alla propria volontà di sapienza e diventa lògos,  ragione, filosofìa. Il mito, infatti, vuole sapere per salvare. Ma  la volontà di salvezza è massimamente esigente: richiede che il  sapere sia capace di resistere a qualsiasi dubbio; e ciò che  possiede in modo assoluto questa capacità è la «verità», intesa  come i Greci per la prima volta l’intendono, cioè come sapere  che non può essere in alcun modo smentito. Questo il senso  della verità che, lungo l’intera tradizione dell’Occidente,  giunge fino al XIX secolo - fino a Leopardi. In questo senso  della verità il pensiero di Dante è essenzialmente immerso, e  in modo pienamente consapevole.   È questo senso radicale della verità a separarsi dal mito e a  scorgere e insieme a produrre il differenziarsi; il separarsi e  dunque l’indebolimento degli abitatori dell’antica casa festiva.    18     Li separa da sé e gli uni dagli altri. Separati, è inevitabile che si  trovino estranei gli uni agli altri, dunque sostanzialmente in  conflitto e pertanto privati della forza a essi conferita dalla  loro unità originaria. Arte, poesia, tecnica, sapienza  incominciano a vivere di vita propria. La loro capacità di  salvare dal dolore e dalla morte si prolunga, ma indebolita.  Pochi oggi credono che la poesia o la filosofia possano salvare  dal dolore e dalla morte. E il discorso può essere esteso in  consistente misura alla religione.   Eppure, per quasi due millenni e mezzo la verità evocata  dalla tradizione filosofica è la via lungo la quale procede non  solo Finterà cultura, ma l’intera civiltà dell’Occidente. È la  «diritta via», la «verace via» di cui parla Dante. Nascendo, la  filosofia porta alla luce la forma estrema di ciò che per il  mortale è il pericolo: intende il dolore come l’andare nel  «nulla» da parte dei piaceri, e la morte come l’andare nel  «nulla», da cui non c’è ritorno, da parte della vita intera. E per  poter così intendere il dolore e la morte la filosofia deve  pensare il significato radicale del «nulla» e dell’«essere». La  filosofia salva il mortale perché essa crede che la verità esiga  che quanto più conta, nella vita dell’uomo, sia già da sempre  salvo dal nulla, cioè sia in quell’Essere, o addirittura sia  quell’Essere, già da sempre salvo dal nulla, che è il divino. In  questa concezione del divino si inserivano l’esperienza  cristiana e la riflessione teologica su di essa. Dante è uno dei  massimi testimoni di questa inscrizione.    19     4. Potenza della «bella menzogna»   Ma i testimoni non aggiungono alcunché al testimoniato.  Questo significa che Dante non è soltanto un testimone. Si sa  che il concetto che Dante possiede della poesia va in direzione  opposta al suo fare poetico. Egli non fa quel che pensa. Pensa  che la poesia sia soltanto «bella menzogna» qualora non si  faccia «banditrice del vero», testimone della verità che sta  nascosta sotto «il velame della favola» e il «favoloso e ornato  parlare». Dante pensa della poesia quello che pensa Platone. E  anche di tutto il gran volume della sapienza greco-latina-  cristiana - comprendente anche la configurazione  dell’oltretomba e i viaggi che in esso si possono compiere -,  anche di tutto questo egli pensa, nella sostanza, quel che è già  stato pensato, per quanto rilevanti siano alcune sue prese di  posizione.   Scrive allora la Commedia solo per esprimere in un  «favoloso e ornato parlare» la verità già pensata da altri? Per  questo impegna e consuma tutta la sua vita?   Impegna e consuma tutta la sua vita per qualcosa di  essenzialmente più decisivo. Anche senza rendersene conto,  con la Commedia egli intende produrre la nuova immagine  salvifica della festa: intende rinnovare la festa che salva,  consentendo ai mortali di sopportare il dolore e la morte.  Questo suo gesto scuote fino alle radici il grande albero della  tradizione.   Che Dante scriva la Commedia significa cioè che per lui la  grande sapienza della tradizione greco-cristiana e la stessa vita  a essa conforme hanno una potenza salvifica inferiore a quella  della dimensione dove la verità e la vita adeguata alla verità  sono il contenuto del canto e della poesia.   «Bella menzogna» e «velame della favola», la poesia,  quando il suo contenuto non è la verità; ma più potente della    20     nuda verità quando, avendo come contenuto la verità, le  conferisce una potenza salvifica ben superiore a quella che la  verità possiede di per sé sola.   La poesia della verità parla inoltre a tutti, anche agli indotti.  La difesa di Dante della lingua volgare, su cui egli fa crescere il  proprio linguaggio poetico, non è un fatto semplicemente  letterario o astrattamente culturale, ma esprime la coscienza  che ad attendere e a tendere alla salvezza della verità sono  tutti i mortali, e coloro, tra essi, che sono gli indotti, possono  identificarsi a quella rinnovata immagine festiva, che è la  verità della filosofia, solo se tale immagine si presenta non  nella sua cruda e astrale concettualità, ma, attraverso un  ulteriore rinnovamento, con le parole terrene della poesia.   Unendo poesia e filosofia (e, sul tronco della filosofia, il  cristianesimo), Dante fa cenno all’antica festa di ritornare  presso i mortali. Ciò significa che troppo flebile rimembranza  è per lui la liturgia cristiana - in cui peraltro si sente ancora  forte l’eco della festa arcaica. Dante pensa che dalla poesia  non possa separarsi la festa della verità e della cristianità -  cioè il luogo dove sulla terra il mortale sperimenta la propria  salvezza e la propria destinazione all’«eterna letizia». La  liturgia cristiana deve diventare liturgia poetica.   Questo pensiero di Dante non si mantiene dunque sotto la  protezione della cattedrale del passato: scava a fondo nel  terreno del suo tempo e sbuca in un altro emisfero. In tale  pensiero si dice che lo scopo dell’esistenza è l’immagine festiva  come unità di poesia e di filosofia. Dante non si limita a essere  un grande testimone della situazione dove lo scopo  dell’esistenza, sulla terra, è la verità cristianamente  concretantesi e la vita a essa adeguata: al di là delle sue  convinzioni sulla poesia, Dante, nel suo agire poetico, evoca la  poesia come fattore indispensabile all’immagine festiva che    21     consente all’uomo di sopportare il dolore e la morte.   Certo, la poesia è terrena; a differenza della nuda verità  parla, oltre che ai sapienti, anche agli indotti; mentre nella  letizia eterna del paradiso nessuno è indotto. Nell’eterna  letizia la poesia, in quanto indispensabile alla verità, è cioè  destinata a scomparire come scompare la fede - giacché la  fede è l’assenso alle «cose che non si vedono» (non  apparentia, dice l’apostolo Paolo), mentre nel paradiso le cose  si mostrano e non hanno bisogno della fede.   Ma perché qui, sulla terra, si libri l’immagine festiva e  salvifica è necessario che alla fede, che cresce sul tronco della  verità filosofica, si unisca anche la poesia. E Dante è pur  sempre un essere terreno quando giunge al cospetto dei fiori  dell’Eterno e della «candida rosa». Rispetto alla verità che si  mostra nel paradiso, le forme visibili della «rosa sempiterna»  dei beati - «Il fiume e li topazii / ch’entrano ed escono e il  rider de l’erbe» ( Paradiso , XXX, v.v. 76-77) - sono forme  esterne, preamboli, prefazioni - «prefazi» - della loro verità,  che in qualche modo esse coprono d’ombre («son di lor vero  umbriferi prefazi», ibid., v. 78), mentre i beati la contemplano  in sé stessa. Ma nella condizione terrena - all’interno della  quale Dante pur sempre rimane compiendo il suo viaggio  nell’oltretomba - è l’ombra terrena della poesia a illuminare  la sapienza del contenuto, a rendere potente l’immagine che  salva: a rendere potente la sua forza salvifica e a rendersi  quindi indispensabile alla potenza dell’immagine:    E vidi lume in forma di rivera  fulvido di fulgore, intra due rive  dipinte di mirabil primavera.   Di tal fiumana uscian faville vive,  e d’ogni parte si mettean ne’ fiori,  quasi rubin che oro circunscrive.  Poi, come inebriate da li odori,  riprofondavan sé nel miro gurge;  e s’una intrava, un’altra n’uscia fòri.    22     ( Ibid w. 61-69)   Come semplice verità della ragione e della fede, l’immagine  terrena della beatitudine del paradiso impallisce e dunque  non dispiega la propria potenza salvifica se i beati non  appaiono insieme nelle forme della poesia: come i perpetui  fiori dell’eterna letizia che ora, in questa più alta regione del  cielo, formano le due rive, «dipinte di mirabil primavera», del  fiume, «fulvido di fulgore», da cui escono di continuo le  scintille degli angeli della vita eterna, api che sui fiori  depongono rubini nell’oro e che restano a loro volta  «inebriate da li odori».    23     5. Poesia e sapienza filosofico-cristiana   Imponendo la propria presenza alla liturgia sacra, la  liturgia poetica, si è detto, scava nel terreno del tempo in cui  Dante vive - e sbuca in un altro emisfero. Di che cosa si tratta?   La Commedia apre uno spazio nel quale lo scopo del  mortale è l’immagine festiva dove la poesia si unisce alla  filosofia - e dove la sophla si dispiega nel kérygma cristiano.  Anche se Dante deve chiamare «commedia» e non «tragedia»  il proprio poetare cristiano, tuttavia la commedia, sulla scia  della tragedia attica intende riproporre il clima della festa  arcaica - sebbene ormai la festa non possa più prescindere  dalla filosofìa, che è peraltro il principio della separazione  degli abitatori della casa festiva. Dante pensa come scopo dei  mortali la festa, nella forma poetica della «commedia»  filosofico-cristiana. (La tragedia infatti si arrende al dolore e  alla morte, dice Platone nel libro X della Repubblica e quindi è  la «commedia» la forma poetica adeguata all’eterna letizia  cristiana). San Pietro gli dice:    E tu, figliuol, che per lo mortai pondo  ancor giù tornerai, apri la bocca,  e non asconder quel ch’io non ascondo.   (Paradiso, XXVII, w. 64-66)   Il riferimento immediato è alla corruzione della Chiesa, ma  il contesto imprescindibile di tale riferimento è tutto il  contenuto della Commedia : su tutto questo contenuto Dante  è convinto di dover aprire la bocca e non nascondere quel che  in cielo non è nascosto. Non nasconderlo è proclamarlo  appunto scopo dell’uomo. E se lo scopo è il dispiegarsi  dell’immagine festiva, nella quale il contenuto filosofico-  cristiano deve stare unito alla poesia, allora, questo contenuto,  in quanto separato dalla poesia, non è più lo scopo a cui  l’uomo deve mirare.    24     Ma quando la filosofia, che già si è fatta innanzi, si unisce al  messaggio cristiano, è soprattutto questo messaggio a parlare  alle genti, e a dir loro che la salvezza si ottiene seguendo Gesù  e nient’altro. Ogni altro che si voglia seguire è un secondo  padrone; e non si possono servire due padroni. Quaerite  primum regnum Dei. Il messaggio cristiano non dice di  tendere all’unità del regno di Dio e della poesia. La primarietà  che compete al regno di Dio in quanto scopo non include la  poesia. La «bella menzogna» della poesia, «il velame della  favola» poetica, «il favoloso e ornato parlare» non sono  necessari per andare in cielo.   La Commedia di Dante, già con la sua semplice esistenza,  intende invece mostrare che il viaggio dalla terra al cielo è  autentico solo se è avvolto, espresso, sorretto dalla poesia.  Unita alla filosofia cristiana, la poesia salva. In quanto  separato dalla poesia, il contenuto filosofico-cristiano cessa  quindi di essere lo scopo: diventa, nella Commedia, il mezzo  per poter cantare la verità, cioè per raggiungere quello scopo  che è «l’unità della verità e del canto. Cercate per prima  l’unità del regno di Dio e della poesia. Separato dalla poesia, il  regno di Dio non salva.   Questo è lo straordinario pensiero di Dante - anche se in  lui tale pensiero può aver evitato di guardare in faccia sé  stesso. Tale pensiero è infatti la perentoria negazione del  mondo sapienziale e morale - cioè della filosofia e del  cristianesimo - che pure è cantato nella Commedia. Nel  pensiero di Dante la salvezza può presentarsi all’uomo in  un’immagine salvifica che dev’essere guidata da due padroni,  cioè dal mondo cristiano e dalla poesia; e pertanto il mondo  cristiano, come id quod primum quaeritur, dunque come  indipendente e separato dalla poesia, non appartiene allo  scopo dell’esistenza. Tale mondo può essere cioè presente  solo come mezzo per raggiungere lo scopo, ossia l’unità di    25     mondo cristiano e di poesia, e dunque resta negato,  essenzialmente negato, nella sua pretesa di essere l’unico  padrone a cui l’uomo debba affidarsi - che è la pretesa  evangelica.   La Commedia si rivolge al divino - al salvifico - per  cantarlo; non canta per rivolgersi al divino. Non canta per  rivolgersi al divino, inteso come l’unico padrone che si serve  della poesia per mostrare la propria gloria al di sopra di tutto,  anche della poesia. Così inteso, il divino non salva. Certo, il  canto della Commedia canta il divino, ma, appunto, è il divino  che appare nella sua inscindibile unità alla poesia - e che è  salvifico solo in quanto è cantato.   Questo che si è indicato è il tratto comune di tutta la  grande arte cristiana, da Giotto a Bach e oltre ancora, lungo  un processo dove il divino diventerà sempre di più il pretesto  perché il canto si levi come unico padrone di ciò che rimarrà  dell’immagine festiva sapienzialmente e religiosamente  salvifica. Diventa sempre più intenso e perentorio il processo  in cui, per il grande artista «cristiano», al di sopra di tutto -  anche al di sopra del messaggio di Gesù - finisce con Tesserci  l’arte; nell’arte egli vede, sempre di più, la salvezza. Quando  non si sentirà più cristiano, l’artista crederà di essere lui il  vero creatore del mondo. La negazione oggettiva - ossia non  intenzionale - del mondo sapienziale della tradizione greco-  cristiana è quella esercitata dall’arte nel tempo della  dominazione di tale mondo. Sussiste, questa dominazione,  anche quando le forze della terra, specie quelle pratico-  economico-politiche agiscono in direzione contraria alla  sapienza e alla morale filosofico-cristiana. Anche questo agire  è una negazione di tale sapienza, ma è una negazione che  avviene alTinterno del riconoscimento esplicito, da parte dei  potenti, che tale sapienza è l’inviolabile guida del mondo. È  quindi una negazione in malafede. Video meliora proboque,    26     deteriora sequor. Invece la grande arte cristiana, dunque  anche la poesia di Dante, non nega in malafede la sapienza filosofico-cristiana, perché ancora non sa o ancora non rende  esplicito che il suo sentirsi indispensabile a tale sapienza, e  alla evocazione delfimmagine salvifica, è in effetti la  negazione perentoria del modo in cui il cristianesimo,  cresciuto sul tronco della filosofia greca, intende sé stesso. È  una negazione che dal sottosuolo preme sul pavimento della  coscienza, ma che ancora non lo frantuma e non si rende  visibile.    27     6. «L’anima riceve vita»   Negazione perentoria ma implicita, dunque; e non solo  implicita ma an che soltanto «sentita», voluta, vissuta, cioè  senza sostegno e fondamento che non sia appunto la  prepotenza con cui il nuovo modo di sentire del poeta si  contrappone al vecchio, sapienziale - il vecchio modo che  però ha alle proprie spalle il fondamento costituito dalla  grande tradizione filosofica. Per quanto innovatrice, la  negazione della verità della tradizione, da parte della poesia e  dell’arte, attende ancora che venga alla luce la necessità di  lasciarsi alle spalle la verità che la filosofìa ha portato alla luce  e in cui si manifesta il «vero» senso del divino. Nel tempo del  dominio della verità filosofico-cristiana, l’arte cristiana apre la  porta alla «morte di Dio», ma senza ancora sapere quel che sta  facendo e senza riuscire a scorgerne la legittimità e la  necessità.   È Nietzsche a parlare della «morte di Dio» - e a fondarla  (cfr. sezione prima, cap. V). Ma è innanzitutto il pensiero di  Leopardi a scorgere questo fondamento a mostrare la  necessità di questa morte, cioè Yimpossibilità di ogni eterno,  di ogni divino, di ogni vita perpetua che fiorisca dall’eterna  letizia. Nonostante tutto, la gigantesca potenza filosofica di  Leopardi rimane oggi ancora celata, sebbene fosse stata  intravista da Nietzsche e Wagner. Di questa gigantesca  potenza, qui, non si può dir nulla di determinato e pertanto  rinvio ancora una volta ai miei due scritti sopra ricordati, Il  nulla e la poesia: Leopardi; e Cosa arcana e stupenda.   Si deve però richiamare che il carattere indissolubile  dell’unità di poesia e filosofìa, al quale Dante guarda per  primo nel mondo cristiano, forma uno dei temi più  esplicitamente, potentemente e diffusamente presenti nel  pensiero di Leopardi. Ma è presente nella sua innegabile    28     necessità - cioè appoggiandosi al fondamento, di cui qui  sopra si parlava, che invece è assente nella negazione del  mondo sapienziale cristiano da parte dell’arte cristiana e  dunque della poesia di Dante -, cioè nella negazione che è  soltanto volontà di negazione, soltanto volontà di  autoaffermazione. E va aggiunto che l’unità di poesia e  filosofia è presente nel pensiero di Leopardi con il senso  radicalmente nuovo che la filosofia assume quando essa si  rende conto delfimpossibilità della «verità» e del «divino»  evocati dalla tradizione dell’Occidente.   Leopardi mostra per primo, aprendo la strada della filosofia  del nostro tempo, che l’uomo non può salvarsi dal nulla. La  «verità», ora, è questa, terribile. Ci si è anche rallegrati, nella  cultura degli ultimi due secoli, della morte di un Dio divenuto  più angosciante della paura da cui egli avrebbe dovuto  liberare. Ciononostante l’angoscia diventa massima quando ci  si rende conto che nessuna opera umana potrà mai salvare  l’uomo dal nulla. Il contenuto del mito consente al mortale di  sopportare il dolore e la morte: è il tratto sapienziale che,  sebbene unito agli altri tratti dell’immagine festiva, più le  conferisce la potenza salvifica e dunque la letizia per la quale  la festa si configura come lo scopo supremo del mortale. La  filosofia porta il mito al tramonto, ma nella tradizione  dell’Occidente ne diventa anche l’erede. La filosofìa della  tradizione è la suprema theoria - e in origine questa parola  significa appunto «festa». Ma quando la filosofia scorge, e  innanzitutto nel pensiero di Leopardi, che la verità innegabile  è l’impossibilità, per l’uomo, di salvarsi dal nulla, allora la  verità della filosofia non può più dare alcuna letizia. Leopardi  vede dapprima che la conoscenza della verità rende estrema e  insopportabile l’angoscia dell’uomo e che se per il mortale  può esserci, sia pur breve, un tempo di letizia, cioè di festa,  questo deve nascondere la verità e non essere altro che «bella    29     menzogna» - che dunque può essere solo «umbrifera»,  apportatrice di ombre che oscurano e che non possono essere,  come in Dante, «prefazii» della verità.   Ma dopo questo primo modo di intendere la poesia  Leopardi si avvede anche, ben presto, che ormai non solo  r«intelletto», ma nemmeno la «fantasia» può lasciarsi  ingannare dalla poesia e che dunque è inevitabile che anche e  soprattutto nella poesia la verità terribile si mostri. Il risultato  di questa consapevolezza è che l’unico tratto festivo e  caducemente salvifico concesso al mortale è la potenza con  cui la poesia esprime la nullità dell’uomo.   Il «genio» è il produttore: gignens. Genera quanto ormai,  eco lontana, è possibile ripristinare dell’immagine salvifica  della festa. Volgendosi all’opera del genio, - dice Leopardi nel  «pensiero» 259-61 dello Zibaldone - «l’anima riceve vita, se  non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte  perpetua delle cose e sua propria». Questa «vita» è appunto  quanto rimane dell’antica letizia della festa - le opere del  genio, scrive Leopardi in quel «pensiero» dello Zibaldone,  «riaccendono l’entusiasmo», sono «consolazione» che «apre il  cuore e ravviva» ma tale «vita» e «forza» festive posseggono  la potenza dell’immagine in cui il genio presenta la terribile  verità innegabile della filosofia, cioè la morte e la nullità  dell’uomo e di tutte le cose. L’immagine prodotta dal genio  unisce la poesia alla filosofia, ma è la potenza della poesia a  consentire al mortale di sollevarsi ancora per un poco al di  sopra del nulla che si mostra nella verità terribile della  filosofia.   Nel genio, l’unione di filosofia e poesia è l’ultimo modo in  cui, col disincanto rispetto alla tradizione cristiana, è concessa  al mortale l’aura festiva di una passeggera letizia. Il pensiero  di Leopardi mostra cioè che quando sarà manifesta    30     l’incapacità della tecnica di salvare l’uomo dal nulla, resterà  quell’ultima forma di tecnica che è la poesia pensante del  genio, l’ultima festa - «l’ultimo quasi rifugio», dice Leopardi -  a cui tendere prima del «silenzio nudo» e della «quiete  altissima» della morte.    31     7. Il «profumo» e il «deserto»   Il genio è la ginestra, il «fiore del deserto». La ginestra  «siede» tra le rovine del deserto che il vulcano ha steso  attorno a sé:    una ruina involve  dove tu siedi, o fior gentile.   come il genio, cioè Leopardi, «siede» a notte sulle «rive» del  «flutto indurato» della lava:    Sovente in queste rive;   che, desolate, a bruno   veste il flutto indurato, e par che ondeggi,   seggo la notte.   Il «lume» divino, le «scintille» del fiume di fuoco  dell’amore divino    fulvido di fulgore, intradue rive  dipinte di mirabil primavera.   è ormai divenuto «il flutto indurato» della lava, sepolcro  che sigilla, copre e a «bruno veste» la vita annientata dal fuoco  del vulcano. La mirabile primavera delle rive del paradiso è  vestita a lutto. La ginestra, cioè il genio, siede tra le rovine  delfeterno. Esse sono il «deserto».   Ma Inodorata ginestra», che è la «nobile natura» del genio,  è «contenta dei deserti»: guarda in faccia il deserto del nulla e,  sapendo di non potervisi sottrarre, ne è «contenta», cioè non  si illude di poter aver altro, non si sente il perpetuo fiore  dell’eterna letizia che «d’eternità s’arroga il vanto». La «nobile  natura» del genio della ginestra tien ferma dinanzi agli occhi  la verità terribile, non le sottrae nulla, non distoglie lo  sguardo dal fato comune del nulla:    32     Nobil natura è quella   che a sollevar s’ardisce   gli occhi mortali incontra   al cumun fato, e che con franca lingua,   nulla al ver detraendo,   confessa il mal che ci fu dato in sorte,   e il basso stato e frale.   Non detrae nulla dal «vero» in cui appare l’essenziale  nullità deH’uomo; ardisce sollevare lo sguardo mortale sulla  verità: questa forma intransigente di volontà di verità è  l’essenza della filosofia del nostro tempo. Leopardi la  inaugura. Ma la «franca lingua» che nulla detrae alla verità è  la libera lingua della poesia, la potenza dell’immagine che  mostra l’impotenza dell’essere e dell’uomo. Senza la potenza  poetica l’uomo è subito risucchiato nella pietrificata  contemplazione nel nulla. Riesce a persistere ancora per un  poco nell’ultima eco dell’aura festiva, unendo dunque filosofia  e poesia. La ginestra non detrae alcunché alla verità  angosciante della nullità del tutto; e tuttavia il can i. C’è uno  «scambio delle parti» già a partire dal «fiore» della poesia, che  da mezzo per mostrare la verità diventa fine; per arrivare alla  tecnica, che, da mezzo per realizzare gli scopi delle grandi  forze dell’Occidente è destinata a diventare il loro scopo.  Anche le pagine che seguono possono essere lette come un  contributo a una fenomenologia, finora solo abbozzata nei  miei scritti, di questo «scambio delle parti».    35     Poesia, tecnica e meccanismo dello scambio delle parti   Il problema del fiore della poesia conduce dunque al  problema della tecnica. Oggi se ne continua a discutere. Ma se  ne discute rimanendo all’interno della dimensione che ha reso  possibile qualcosa come la festa, la tecnica, la poesia, il mito,  la filosofia, il cristianesimo, la scienza. Si rimane all’interno  della dimensione dove l’uomo percepisce sé stesso come un  mortale, che in preda alla morte e al nulla ha bisogno di  salvarsi.   Siamo proprio sicuri che questa dimensione, in cui l’intero  pianeta è ormai completamente immerso, non debba  finalmente esser messa essa stessa in questione?   Siamo proprio sicuri che l’eterna letizia non possa avere  altro significato che quello che la tradizione le ha conferito?  Al di là di questo significato, noi siamo perpetui fiori  dell’eterna letizia, ma non nel senso che è stato  inevitabilmente distrutto dal pensiero e dalla cultura del  nostro tempo. Il senso autentico dell’eternità del Tutto è  abissalmente lontano dal senso che l’eterno possiede nella  tradizione filosofico-cristiana; e non è nemmeno qualcosa che  possa essere rintracciato in qualche altra forma di civiltà,  diversa da quella dell’Occidente - anche se esso risplende nel  fondo di ogni uomo.   Nel paradiso della tecnica, la tecnica può essere guidata e  animata o dalla scienza moderna o dalla poesia che si unisce  alla filosofia del tempo della tecnica. Ma in entrambi i casi,  per quanto alta possa essere la luce del tramonto, è inevitabile  che ci si renda conto dell’essenziale incapacità del mortale di  vincere il nulla - ossia di vincere il divenire, il contenuto della  fede, cioè della volontà che le cose siano un uscire dal nulla e  un ritornarvi. Comunque si configuri, il paradiso della tecnica  è cioè destinato all’angoscia estrema.    36     Può essere quello, allora, il tempo in cui l’uomo incomincia  a volgersi verso il senso inaudito dei fiori dell’eterna letizia.   Esso non è un futuro da produrre e da creare.   Già da sempre attende di essere condotto fuori dall’ombra:  già da sempre attende che tramontino le ombre che attirano  su di sé la cura dei mortali, lasciando fuori del linguaggio (e,  in questo senso, nell’ombra) la luce piena di quel senso  inaudito.    37     II   Preghiera e «macchina» politico-economica   1. Credere e pregare   Nella sua essenza il cristianesimo è una grande religione  della salvezza. Ma - Gesù è esplicito - solo chi crede in lui  sarà salvo. La fede, peraltro, può ottenere la salvezza solo se la  vuole, e solo se, d’altra parte, questo volerla non è un atto di  imperio ma è un chiederla a Dio. Chiedere a Dio la salvezza è  pregare. Nella sua essenza il cristianesimo è quindi la  preghiera, così intesa. Appunto per questo Tertulliano dice  che la preghiera insegnata da Gesù «è veramente la sintesi di  tutto il Vangelo».   Alla fine del Vangelo di Marco (16, 16-17) Gesù dice: «Chi  crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato». Ma  prima di questa sentenza il testo (Me., 11) racconta come  Gesù abbia unito strettamente e sorprendentemente il tema  del credere a quello della preghiera. In quanto inseparabile  dalla fede, la preghiera sta dunque al centro di ciò che più  conta: la salvezza eterna.   In quel testo Gesù dice. «Abbiate fede in Dio. In verità vi  dico che se qualcuno dirà a questa montagna: “Togliti di lì e  gettati nel mare”, e non avrà alcun dubbio nel suo cuore [et  non haesita = verit in corde suo], ma crederà che quel che dice  s’abbia a compiere [fiat], questo gli accadrà [fiet ei]. Perciò vi  dico: tutte le cose che chiederete nella preghiera abbiate fede  [credite] di ottenerle e le otterrete [et evenient vobis]. E  quando vi accingete a pregare, perdonate, se avete qualcosa  contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli vi  perdoni i vostri peccati». Marco accenna subito dopo a quello  che a suo avviso è il centro della preghiera insegnata da Gesù,  ma non lo sviluppa. Essa è invece compiutamente riportata  nel Vangelo di Matteo (6, 9).    38     In questa concezione della preghiera è presente un grande  sottinteso. Supponiamo che un uomo chieda a Dio qualcosa,  per esempio di essere aiutato in una certa circostanza, ma che  in un primo tempo Dio ritenga di non dargli ascolto; e che  tuttavia quell’uomo insista, sino a che, alla fine, riesca a  ottenere quel che voleva. Se ci si chiede che Dio sia mai  questo, la risposta è scontata: non è il Dio delle religioni  monoteistiche; non è il Dio di Gesù. E non può esserlo,  perché se alla fine egli cambiasse parere ciò accadrebbe o  perché quell’uomo è più potente di lui, oppure perché alla  fine Dio si renderebbe conto di aver avuto torto a non dargli  ascolto subito. Ma un Dio che è meno potente di un uomo o  che può aver torto non è, appunto, il Dio del monoteismo,  non è il Dio di Gesù.   Chiedere a Dio qualcosa è pregare. Se si prega Dio di avere  da lui qualcosa che egli non vuol dare, non si potrà mai essere  esauditi. Egli è l’Onnipotente. A Dio si può chiedere dunque  solo quel che egli vuol dare. Si può volere solo quel che egli  vuole. Appunto per questo, Gesù insegna a dire, nella  preghiera: «Sia fatta la tua volontà». È sul fondamento di  questo decisivo sottinteso che va interpretato il senso  deH’affermazione paradossale che la fede muove le montagne  e che, se uno riesce ad avere la forza (si potes) di credere,  «tutte le cose sono possibili per lui» (omnia possibilia sunt  credenti, Me., 9, 23).   Se avendo fede si ottiene il massimo, cioè la salvezza eterna,  si può anche ottenere tutto il resto. Purché sia voluto da Dio,  l’Onnipotente. Già Platone, dando forma filosofica al mito  biblico, afferma che Dio è «tecnica» divina, cioè la più  potente.   Inoltre, se Gesù dice che chi crede sarà salvo, egli vuole la  salvezza dell’uomo. Quel suo dire è cioè un comandare    39     all’uomo di credere. Non lo lascia solo, dunque, a trovare la  forza che lo porti a credere. Vuole che creda. E quindi,  pregando, l’uomo deve innanzitutto chiedere, senza aver  dubbi, di credere, e otterrà di essere un credente, cioè salvo.  (Chiedendo di credere, chiede insieme di non aver dubbi  intorno a questa sua richiesta. Si può mostrare che chiedere  con fede di aver fede non è una contraddizione?) Dal punto di  vista cristiano, se l’uomo vuole ciò che Dio vuole, non può  non ottenerlo, perché Dio è l’Onnipotente. Da quel punto di  vista, la fede che muove le montagne non è un paradosso.  Pregando nel modo voluto da Gesù, l’uomo non solo ottiene  ciò che vuole, ma sa di ottenerlo, perché non può non sapere  di voler quello stesso che è voluto da Dio, che è  l’Onnipotente.   E non spezza nemmeno in due quella preghiera, come se  nella prima parte di essa egli voglia che sia fatta la volontà di  Dio, ma nella seconda gli dica quel che vuole lui - il pane  quotidiano, la remissione dei debiti; la liberazione dal male  ecc. Infatti, se Gesù gli comanda di chiedere il pane, è perché  sa che il Padre vuole che l’uomo abbia il pane. Lo stesso si  dica per gli altri doni richiesti. Anche per quello che è  espresso dalle parole «e perdona a noi i nostri debiti, come  anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Infatti nella  preghiera autentica l’uomo può chiedere di essere perdonato  solo se sa che Dio vuole perdonarlo. E lo sa per lo meno  perché crede che sia il Figlio di Dio a comandargli di chiedere  al Padre di essere perdonato, e il Figlio non potrebbe  comandarglielo se sapesse che Dio non vuole perdonare  l’uomo.   La preghiera di Gesù contiene dunque anche  l’implicazione, vincolante e compromettente, tra il perdono  per i propri debiti, che un uomo chiede a Dio, e il perdono, da  parte di quest’uomo, dei debiti che gli altri hanno nei suoi    40     confronti. Perdonami come io perdono, dice quell’uomo. Egli  chiede perdono perché sa che Dio vuole perdonarlo. Ma il suo  perdonare i debiti che gli altri hanno contratto nei suoi  confronti? Questo suo perdonare gli altri può essere un gesto  che riguardi lui solo, cioè dove Dio lo lasci solo a compierlo?  No. Lasciarlo solo vorrebbe dire, per Dio, non volere che  l’uomo perdoni e non volere nemmeno che non perdoni:  starsene in disparte lasciando che sia l’uomo a trovar la forza  che lo può salvare eternamente - visto che se non perdona  non è perdonato. Ma in questo modo l’uomo dovrebbe volere  qualcosa che Dio o non vuole o rispetto a cui è indifferente.  Verrebbe meno, allora, il principio per il quale l’uomo può  ottenere soltanto ciò che Dio vuole. È dunque impossibile che  Dio, dopo aver detto all’uomo che se non perdonerà non sarà  perdonato lo lasci solo a raccogliere le forze che gli occorrono  per riuscire a perdonare le offese ricevute dal prossimo.   Tutto questo significa che - quando, nella preghiera di  Gesù, l’uomo chiede a Dio di perdonare i propri debiti come  egli perdona quelli dei propri debitori - è necessario che  l’uomo creda che Dio vuole che egli abbia la forza di  perdonarli. Anche il perdono delle offese è dunque qualcosa  che l’uomo chiede a Dio, sapendo che anche questa sua  capacità di perdonare è voluta da Dio, e che quindi egli  otterrà anche questa capacità (più diffìcile da avere che non la  capacità di muovere le montagne).   L’uomo è salvo solo se ha fede nel Liglio di Dio. Ma la fede  è inseparabile dalla volontà che vuole quello che è voluto da  Dio, e la preghiera è quel mettersi in rapporto con Dio, dove  non solo si dice di volere quel che Dio vuole, ma lo si vuole  effettivamente, cioè si perdona il prossimo, lo si ama, e si fa  tutto ciò che Dio prescrive. E volendo tutto questo si è  convinti di ottenerlo, giacché chi crede di volere quel che è  voluto da Dio non può pensare che Dio non sia capace di    41     ottenere quel che vuole.   Chi vuole che sia fatta la volontà di Dio è il giusto, il buono,  il santo, ossia è quel che Dio vuole che egli sia. Ma è anche  necessario che egli sia convinto di essere il giusto, il buono, il  santo, perché se fosse incerto di esserlo sarebbe in dubbio  anche sul proprio star volendo quel che Dio vuole. Chi si  trova in questo dubbio ammette la possibilità di star volendo  qualcosa di non voluto da Dio; dunque non vuole quel che  Dio vuole e quindi non può nemmeno credere di ottenerlo.  Volere qualcosa, infatti, è credere di volerlo. Se non si crede di  volerlo non lo si sta volendo ma si resta incerti se lo si voglia o  meno, non ci si trova cioè nella condizione di chi, pregando,  riesce a muovere le montagne.   Convinto di essere il giusto che perdona le offese e ama il  suo prossimo, chi prega nel modo dovuto agisce nel mondo e  si imbatte in situazioni via via diverse, portando sempre con  sé quella convinzione. (Altrimenti abbandonerebbe  l’insegnamento di Gesù.) Agisce nel mondo, cioè nella polis.  La «politica» è appunto questo suo agire tra gli individui, le  istituzioni, i gruppi sociali. Per Gesù la «politica» è  innanzitutto perdonare le offese e amare. Ma che una certa  azione sia un’offesa, una cert’altra sia un perdono e una  cert’altra ancora sia una forma di amore è chi agisce nel  mondo a doverlo decidere.   A questo punto chi presta ascolto alla parola di Gesù si  trova davanti a due strade. O rinuncia a credere che il modo  in cui egli decide di considerare offesa, perdono, amore certe  azioni sia esso stesso un volere ciò che Dio vuole; oppure non  compie questa rinuncia e crede che tutto quello che egli vuole  e fa sia voluto da Dio. Nel primo caso, non può più credere -  in relazione alle valutazioni e decisioni che egli, da solo, deve  adottare nel mondo - nell’identità tra la volontà propria e    42     quella di Dio: rinuncia a credere e quindi a pregare nel modo  autentico; rinuncia pertanto alla propria salvezza (perché  «solo chi crede sarà salvo»). Sul piano politico è la rinuncia a  ogni progettazione cristiana della politica. Nel secondo caso  crede che ogni sua azione privata o pubblica sia la volontà di  Dio e che quindi egli sia il giusto, il buono, il santo che sa  capire quando un’azione è offesa, perdono, amore e dunque  sa realizzare il regno di Dio in terra.   Non ammette che sia per un equivoco che egli giudica  come offesa un’azione; né può ammettere che nel proprio  agire non sia presente il vero perdono e il vero amore,  conciliabili con la punizione del colpevole che non può essere  che giusta. Sul piano politico è, questo, il passo decisivo verso  la teocrazia, che è il regno di Dio in questo mondo, mentre  Gesù assicura che il suo regno non è di questo mondo.   Certo, chi ha l’intenzione di essere cristiano tenta di ritrarsi  da ciò a cui conducono entrambe queste strade (anche se  entrambe sono una tentazione costante). Tenterà di  camminare un po’ sull’una e un po’ sull’altra. Ma anche in  questo modo tradirà la propria fede, non ne salverà la  coerenza. Non sono infatti, quelle indicate, le conseguenze del  rapporto che nei Vangeli viene istituito tra il credere e il  pregare?   Lo scambio delle parti che si presenta nella preghiera di  Gesù è una delle più potenti anticipazioni dello scambio in  cui la tecnica, da mezzo, sta diventando scopo. Prima di Gesù  l’uomo prega Dio, la Potenza suprema, per salvarsi: la  salvezza è lo scopo, la Potenza divina il mezzo. Ma anche  Gesù fa capire che lo scopo determina, condiziona, configura  il mezzo, e che quindi uno scopo umano, cioè assunto da un  essere bisognoso di salvezza, quindi debole, finito, mortale  quale è l’uomo, indebolisce e vanifica il mezzo (la Potenza) e    43     pertanto pregiudica la propria realizzazione. Anche Gesù fa  capire che l’uomo deve porre come scopo non il  soddisfacimento dei propri bisogni ma la volontà di Dio («Sia  fatta la tua volontà»). In questo modo gli sarà dato tutto il  resto. È, questo, uno dei modelli più rilevanti della situazione  in cui l’uomo, dopo aver tentato di servirsi della tecnica,  capisce che, per salvarsi, deve dire anche alla Tecnica: «Sia  fatta la tua volontà, non la mia», che, posta come scopo  (volontà capitalistica, comunista, cristiana, democratica ecc.),  non ha la potenza della Tecnica e quindi, condizionandolo,  indebolisce il proprio mezzo, ostacolando in tal modo sé  stessa.   Sennonché, ponendo come scopo la Tecnica, la volontà  cessa di essere ciò che intendeva essere, giacché per essere ciò  che intendeva essere doveva essere scopo. Nello stesso modo,  si è visto, pregando autenticamente, il cristiano è costretto a  imboccare quelle due strade che lo portano a non esser più  cristiano. Proprio per aver fede in Gesù e quindi per pregare  autenticamente, per salvarsi, il cristiano non può più essere  cristiano. Non lo è, sia facendo la propria sia facendo la  volontà di Dio. È indubbio che «chi vorrà salvare la propria  vita la perderà», ma non è nemmeno vero che «chi perderà la  propria vita per amor mio [héneken emou, cioè avendo me  come scopo, dice Gesù, Me., 8, 35] e del Vangelo, la salverà».  Lo scambio delle parti dove la Potenza, da mezzo, diventa  scopo e quindi salvifica, non salva, giacché la vita, intesa come  vita autentica, cioè cristiana, è perduta anche quando, dopo  che la si è perduta, Gesù assicura che la si sia salvata. È  perduta lungo entrambe le strade, qui sopra indicate, che chi  vorrebbe esser cristiano è costretto a imboccare.   Proprio perché, per raggiungere la salvezza, ci si serve di  ciò che si considera come la Potenza suprema (teologica o  tecnologica), proprio per questo non ci si può salvare; ma non    44     ci si salva nemmeno assumendo come scopo la Potenza  suprema, perché, rispetto alla Potenza teologica, la volontà  che intenderebbe esser cristiana non può esserlo e, rispetto  alla potenza tecnologica, la volontà che vorrebbe essere scopo,  cioè volontà capitalistica, comunista, democratica, totalitaria,  cristiana ecc., cessando di essere scopo, non può più essere ciò  che essa intende essere.    45     2. Nota su cristianesimo, islam, modernità   Continua ad aumentare la pressione dei popoli poveri su  quelli ricchi. Non si tratta solo di spostamenti di masse  umane, determinati dal bisogno elementare di sopravvivere.  Da sempre, infatti, l’uomo interpreta la propria sofferenza. Il  modo in cui soffre nel corpo e nell’anima e tenta di uscirne  dipende da ciò che egli crede di essere, dal modo in cui  interpreta la propria vita. «Cultura» è innanzitutto questo  credere. Per quanto ne sappiamo, in questo credere sono sin  dall’inizio presenti gli dèi. L’uomo crede di essere un vivente  che è in pericolo e che sta in rapporto con misteriose potenze  che lo possono aiutare o schiacciare. Il senso della «cultura» è  legato a quello della «coltivazione» e del «culto». La pressione  dei poveri sui ricchi è cioè un fenomeno eminentemente  culturale.   Gran parte dell’immigrazione è islamica. Il culto dei poveri  è diverso da quello cristiano in cui, almeno formalmente, i  Paesi ricchi si riconoscono. Dopo l’Unione Sovietica, è l’islam  a essersi posto alla guida dell’interpretazione della sofferenza  e della fame dei poveri. In quest’ultimo decennio si è reso  altrettanto visibile - sebbene non nelle forme drammatiche  della protesta islamica contro l’Occidente - il rinnovato  vigore della Chiesa cattolica. Si tratta di un fenomeno  ambivalente, perché da un lato la Chiesa non può non vedere  nell’islam un alleato contro l’ateismo della modernità,  dall’altro non può non avvertire che l’islam è anche  l’avversario dove la religiosità dei fedeli è molto più convinta  di quella cristiana (non dice forse la Chiesa che «l’Europa è  terra di missione»?), tanto da alimentare quel  fondamentalismo che convince individui a immolare la  propria vita per il trionfo della causa. D’altra parte non è  nemmeno possibile affermare che l’ambivalente tensione tra    46     islam e cristianesimo è il fenomeno culturale che più  determina la fisionomia degli ultimi decenni. Se non altro  perché la modernità, contro cui cristianesimo e islam si  trovano alleati, esiste.   La tecnica, che è impensabile senza la cultura moderna,  stupisce il mondo. Tuttavia la tecnica sta procedendo senza  guardarsi le spalle, cioè senza sapersi difendere dalle critiche  della tradizione occidentale, che la accusano di violare limiti  inviolabili. Un gigante, la tecnica, che tocca il cielo, ma che  rimane incapace di interloquire con chi gli dice che il cielo  non va toccato.   Intendo dire che chi potrebbe rendere il gigante capace di  replicare è la punta estrema della modernità, ossia quella  essenza, prevalentemente nascosta, della filosofìa del nostro  tempo che è in grado di mostrare l’inesistenza di ogni  inviolabile e che quindi il gigante è legittimato a toccare il  cielo. E tuttavia quell’essenza è come l’arco di Ulisse, che  nessuno dei Proci è in grado di tendere. Da un lato, pertanto,  la potenza cieca della tecnica; dall’altro lato quegli sguardi  impotenti del laicismo contemporaneo, che andando avanti  così non riuscirà mai a possedere Penelope, cioè a dominare il  mondo, lasciando ancora a lungo la scena alla coscienza  religiosa.    47     3. La Barriera e Prometeo   Nel nobile modo in cui Benedetto XVI ha espresso la sua  rinuncia è indicato esplicitamente il problema centrale del  cristianesimo: il cristianesimo si trova oggi in un mondo  «soggetto a rapide mutazioni e turbato da questioni di gran  peso per la vita della fede» (in mundo nostri temporis rapidis  mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis prò  vita fidei perturbato ). Rispetto a questo problema, che un  pontefice dichiari di non avere più le forze per affrontarlo è  un tema che, nonostante la sua rilevanza e pertinenza, passa  in secondo piano. Nel testo, la parola pondus («peso»)  compare tre volte: come peso delle questioni riguardanti la  vita della fede, come «peso» del gesto di rinuncia e come peso  del ministerium che viene lasciato per il venir meno delle  forze. Ma solo il primo peso vien detto «grande»: la vita della  fede è oggi gravata da «questioni di gran peso» ed è essa stessa  turbata dal turbamento del mondo. Il mondo cristiano (tanto  meno un pontefice) non può riconoscere che il turbamento  della fede è ben più profondo di quello visibile, dovuto alla  corruzione alfinterno della Chiesa.   Il turbamento del mondo, tuttavia, riguarda non solo la  fede religiosa, ma anche quelle altre forme di fede ancora  dominanti (e che non amano sentirsi dire che sono a loro  volta «fedi»). Mi riferisco soprattutto al capitalismo, alla  democrazia, al capitalismo-comunismo cinese, o, in Iran, alla  mescolanza di teocrazia e capitalismo; e il comuniSmo  sovietico, come il nazismo, era tra le più rilevanti di queste  forze. Ognuna delle quali avverte la necessità di eliminare le  proprie degenerazioni, ma si rifiuta di ammettere  l’inevitabilità del proprio tramonto. Non è una metafora né  un’iperbole fuori luogo affermare che ognuna di esse si sente  un dio che deve distruggere gli infedeli. Ma, come la fede    48     religiosa, anche la vita di queste altre forze è gravata da  «questioni di gran peso» - da questioni che fanno  intravedere l’inevitabilità di tale tramonto.   Certo, un pontefice deve credere che il cristianesimo durerà  fino alla fine del mondo. Ma la gran questione è se quelle  forze - dunque anche il cristianesimo - si rendano conto del  loro vero avversario, che le scuote e le travolge. Il  «relativismo» è stato l’avversario di Benedetto XVI. Lo sforzo  di combatterlo ha avuto un carattere soprattutto pastorale. Il  semplicismo concettuale e l’ingenuità del relativismo ne  favoriscono infattila diffusione presso le masse, e tale  diffusione è tutt’altro che irrilevante per la vita della fede.  Giovanni Paolo II si avvicinava maggiormente all’avversario  autentico quando individuava negli inizi della filosofia  moderna (Cartesio) la matrice di tutti i grandi «mali» del XX  secolo, quali le dittature del comuniSmo e del  nazionalsocialismo, o l’egoismo dell’economia capitalistica. In  questa prospettiva, lo stesso relativismo può essere inteso  come un parto di quella matrice.   Ma tutte queste interpretazioni non riescono ancora a  guardare in faccia l’avversario autentico. Riusciranno le varie  forme di fede ad alzare lo sguardo affinché, se vogliono vivere  un po’ più a lungo, non accada loro di combattere i nani,  quando invece il gigante pesa già su di esse e toghe loro il  respiro? Il gigante che possiamo chiamare «Prometeo».  Anche qui, è ovvio, mi limiterò ad alcuni cenni; doppiamente  insufficienti perché a chi sta per morire, e non vuole, è  estremamente difficile fargli alzare lo sguardo sulla propria  morte.   All’inizio dei tempi è invece un altro gigante a togliere  all’uomo il respiro, impedendogli di vivere. L’uomo può  incominciare a vivere solo se vuole trasformare sé stesso e il    49     mondo da cui è circondato. Se non fa questo non può  nemmeno compiere quella trasformazione di sé che è il  respirare in senso letterale. E muore. Vive solo se si fa largo  nella Barriera che gli impedisce di trasformare sé e il mondo.  La Barriera è l’Ordine immutabile della natura. Solo se la  penetra, la sfonda, la squarta, e comunque la fa arretrare, può  liberarsi un poco alla volta dal suo peso e ottenere ciò che egli  vuole. La Barriera è l’altro gigante: il Tremendum (per  servirci, ma per altri scopi, dell’espressione di Rudolf Otto).  Ma è anche il Fascinans (ancora Otto), perché l’uomo può  incominciare a vivere solo se domina le parti della Barriera  frantumata, e se ne ciba - così come Adamo, cibandosi del  frutto proibito, frantumando cioè l’icona stessa del divino,  può diventare Dio ( eritis sicut dii, «sarete come dèi», dice il  serpente). E infatti il tremendum-fascinans è il tratto  essenziale del sacro, del divino, del Dio.   La Barriera divina vive inviolata solo se uccide l’uomo;  l’uomo vive soltanto se uccide Dio. Il fuoco è il simbolo  essenziale della potenza divina; e Prometeo ruba il fuoco -  uccide l’inviolabilità degli dèi - per darlo all’uomo. Prometeo  è l’uomo. Soprattutto da due secoli egli è l’avversario della  tradizione. Mostra infatti che il divino merita di tramontare e  che su questo meritarlo si fonda tutto ciò che più salta agli  occhi, ossia l’allontanamento della modernità e soprattutto  del nostro tempo dai valori della tradizione e dunque dalla  «vita della fede». (In questo contesto, la corruzione della  Chiesa è più grave di tutte le forme passate del suo degrado.)  Se Dio esistesse, non potrebbe esistere l’uomo, ossia ciò la cui  esistenza è considerata innegabile anche da chi si è alleato con  Dio. Giacché, dopo l’inizio dell’uomo, la Barriera si è ritirata,  ha lasciato spazio al mondo, Dio è diventato trascendente, e  l’uomo della tradizione lo ha trovato meno tremendum e più  fascinans, e gli si è alleato, diventando uomo di fede, non solo    50     cristiana ma anche quella degli dèi - delle barriere - in cui  consistono le forze (sopra menzionate) via via dominanti nel  mondo. Prometeo, ora, ruba il fuoco dell’alleanza dell’uomo  con Dio. È la potenza di questo furto a nascondersi, per lo più  inesplorata, sotto le «rapide mutazioni» del nostro tempo,  «turbato da questioni di gran peso per la vita della fede».    51     4. Macchine razionali e grande politica   Una delle radici dello Stato moderno è il desiderio  dell’uomo di sottrarsi all’imprevedibilità della vita facendo  funzionare lo Stato come una «macchina tecnicamente  razionale» a cui viene riconosciuto il monopolio della forza e  che quindi consente a ognuno di «calcolare» in anticipo le  conseguenze delle azioni proprie e altrui. Così si esprime Max  Weber; ma questa constatazione risale a Hobbes. Allo Stato si  chiede di eliminare il più possibile il rischio del vivere.   Anche il capitalismo è un calcolo razionale (a differenza  delle forme violente di acquisizione della ricchezza). Tuttavia  è anche rischio, scommessa, imprevedibilità delle  conseguenze dell’agire. Due componenti inseparabili, fino a  che il capitalismo esiste nella sua forma tradizionale. Il talento  dell’imprenditore sta nell’indovinare ciò che dal punto di  vista scientifico è imprevedibile: la forma relativamente più  remunerativa di investimento.   A sua volta, il talento è inseparabile dalla fortuna. Il più  «capace» degli imprenditori, se è sfortunato, non è veramente  capace. È vero: oggi si sa che una teoria scientifica non è  valida se non è confermata e che tale conferma è una forma di  fortuna, una «circostanza felice». Ma l’imprenditore capace  deve avere una fortuna incomparabilmente più grande di  quella sinora richiesta per le teorie scientifiche: egli ha tanto  più successo quanto più rischia, cioè si lascia alle spalle - in  base alle proprie intuizioni - le precauzioni della razionalità  scientifica - che essendo di dominio pubblico, sono tra l’altro  adottabili anche dalla concorrenza.   Sebbene siano entrambi macchine tecnicamente razionali,  Stato e intrapresa capitalistica vanno dunque in direzioni  opposte: azzeramento e moltiplicazione del rischio.   La tendenza verso lo Stato-azienda - o l’azienda-Stato -    52     non è soltanto un fenomeno italiano. Alla sua base sta il  crescente potenziamento dell’economia e il crescente  indebolimento dello Stato moderno. Ciononostante, a quel  potenziamento corrisponde non solo l’indebolimento dello  Stato, ma anche quello della produzione economica legata  principalmente al rischio, al talento e alla fortuna del singolo  imprenditore. La «macchina» economica tende cioè a  diventare l’erede della «macchina» statale e del compito,  proprio di quest’ultima, di garantire gli individui dal rischio  del vivere.   Contro l’oppressione di uno Stato sempre più obsoleto  rispetto ai bisogni della società civile, le destre mirano invece,  ancora, a un’azienda-Stato diretta da ultimo (sebbene non  esclusivamente) da uno o più superimprenditori capaci di  rischiare, e soprattutto fortunati. Ma in questo modo si mira a  qualcosa che corre a sua volta il rischio di diventare obsoleto  prima di nascere. Lo Stato-azienda, così inteso, è uno Stato a  rischio. Certo, in democrazia l’elettorato ha il diritto di  rischiare e di imporre il rischio alle minoranze, credendo che  la fortuna continuerà ad accompagnare i superimprenditori  statali. Però è opportuno sapere quel che si sta facendo.   La difesa dello Stato tradizionale contro le prevaricazioni  dell’economia è invece propria delle sinistre. Che a loro volta  stentano a comprendere la tendenza, di cui si è detto, che  conduce dalla «macchina tecnicamente razionale» dello Stato  a quella di una economia sempre più simile alle procedure  scientifiche e sempre meno bisognosa del carisma e della  fortuna di certe persone - la presenza delle quali può peraltro  costituire un passaggio obbligato. Ormai, anche le sinistre  credono nella necessità di rafforzare l’iniziativa privata; e la  concezione minimalista dello Stato non equivale, per le  destre, alla soppressione di esso. Tuttavia le sinistre  continuano a credere nella capacità dell’apparato giuridico    53     statale di guidare i popoli. Per esse la crisi dello Stato può  essere superata restando all’interno della politica.   Ma si vuol riflettere sul fatto che la macchina dello Stato e  quella economica sono «tecnicamente» razionali? Non è già  significativo che tanto lo Stato moderno quanto il capitalismo  siano considerati delle «macchine»? Si tratta di comprendere  che è la tecnica a conferire potenza agli Stati e alle economie.  E si è richiamato che nel suo significato più autentico la  tecnica è la potenza che presta ascolto alla voce del pensiero  filosofico degli ultimi due secoli - alla voce cioè che mostra  l’inesistenza di ogni limite assoluto all’agire dell’uomo e  innanzitutto all’agire tecnico. Tale ascolto non va confuso con  un ozio astratto: è la condizione che consente all’operatività  tecnica di accrescere indefinitamente la propria potenza.   Andiamo verso un tempo in cui, a eliminare il rischio del  vivere, non sarà più né la forma tradizionale dello Stato, né lo  Stato-azienda, ma la tecnica, di cui entrambi hanno così  bisogno da doverla togliere dalla sua funzione di mezzo per  assegnarle quella di scopo. Non più lo Stato o lo Stato-azienda  che si servono della razionalità tecnologica, ma quest’ultima  che si serve di ciò che rimane di essi una volta che da scopi  siano diventati mezzi: mezzi di cui la tecnica può servirsi per  accrescere il proprio dominio sul mondo.   Se a questo punto si vuol usare ancora la parola «politica»,  si può dire che la «grande politica» è destinata a restare  estranea alle destre e alle sinistre mondiali sino a quando non  comprendono l’inevitabilità della rotazione che dalla  dominazione dello Stato e dell’economia conduce alla  dominazione della tecnica.    54     5. Efficienza e solidarietà   In uno dei suoi significati economici più importanti la  «collaborazione» riguarda oggi, nel sistema capitalistico, il  rapporto tra datori di lavoro e lavoratori (nel senso più ampio  di questo termine). Con la fine del socialismo reale è finita  anche, nelle società avanzate del pianeta, la volontà di  soffocare questa forma di collaborazione e di sostituirla col  suo opposto, cioè con la lotta di classe.   La collaborazione riguarda il rapporto tra gli interessi di chi  lavora e quelli del capitale. Quest’ultimo collabora con gli  interessi dei lavoratori quando non si propone soltanto il  proprio interesse, cioè l’aumento del profitto, ma anche la  salvaguardia di un dignitoso tenore di vita del lavoratore. A  sua volta, il lavoratore collabora con gli interessi del capitale  quando non si propone soltanto di aumentare il proprio  tenore di vita, ma anche il rafforzamento dell’intrapresa in cui  egli si trova ad agire. Il primo  tipo di collaborazione conduce  alla «solidarietà»; il secondo all’«effìcienza».   Fino a questo punto, si può credere che, sia nell’ambito del  capitale sia in quello del lavoro, quando esiste la  collaborazione di cui stiamo parlando, ci si proponga, in egual  modo, la sintesi di efficienza e solidarietà - la sintesi in cui,  appunto, consiste tale collaborazione e si può credere che il  centro del problema stia nel saper realizzare le condizioni che  conducono alla collaborazione. Ma in questo modo si va fuori  strada: non si scorge la configurazione autentica del problema  e ci si priva degli strumenti per poterlo affrontare.   Visibilissima in tutte le società avanzate, la lotta tra capitale  e lavoro ha quasi completamente perduto i connotati della  «lotta di classe» marxista; ma non si estingue con la  realizzazione di quella sintesi di efficienza e solidarietà che  sarebbe perseguita in egual modo dalle forze lungimiranti del    55     capitale e del lavoro: non vi si estingue, perché essa si  ripropone a causa del diverso modo in cui tale sintesi è  perseguita da queste due forze.   Oggi si tende a mascherare questa diversità. Per esempio  dicendo che efficienza e solidarietà «devono alimentarsi in  una circolarità virtuosa» - una espressione che si è fatta strada  tanto nel mondo imprenditoriale, quanto nel mondo cattolico  (o, in generale, cristiano) e in quello delle sinistre. Nella  alimentazione circolare i due elementi in circolo sono posti  sullo stesso piano. Ma è un’apparenza, come è un’apparenza  la «virtù» del circolo.   Infatti, dal punto di vista del capitale i «livelli di solidarietà»  (quelli cioè fino e non oltre i quali può essere spinta la  solidarietà) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei quali il  capitale ritiene che l’efficienza (cioè l’incremento del profitto)  non possa scendere. Ma dal punto di vista del lavoro i livelli  di efficienza (cioè fino a che punto debba essere promosso lo  sviluppo economico) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei  quali chi lavora ritiene di non poter far scendere il proprio  tenore di vita e la qualità della propria vita. Nel primo caso la  collaborazione di efficienza e solidarietà ha come scopo  primario e dominante l’efficienza; nel secondo caso la  collaborazione ha come scopo primario e dominante la  solidarietà. Nel primo caso la solidarietà è un mezzo per  realizzare l’efficienza; nel secondo l’efficienza è un mezzo per  realizzare la solidarietà. In entrambi i casi le due  semicirconferenze della «circolarità virtuosa» sono diseguali,  si alimentano in modo diseguale, la circolarità è claudicante,  cioè viziosa.   I due avversari possono gettarsi a vicenda polvere negli  occhi, invocando ed elogiando la collaborazione. Ma quando  la Chiesa cattolica dichiara che il profitto deve avere come    56     scopo il bene comune della società pensa a una sintesi di  efficienza e solidarietà, cioè a una forma di collaborazione,  dove lo scopo dell’agire economico è la solidarietà e  l’efficienza è il mezzo per realizzarla. E quando il capitalista  afferma che «non si può dire a un capitalista “limita il tuo  guadagno”», perché «un imprenditore deve produrre  ricchezza e quanto più lo fa, più opera per il bene della  società», il capitalista che parla così pensa a una sintesi di  efficienza e di solidarietà, cioè a una forma di collaborazione  dove invece lo scopo dell’agire economico è l’efficienza e la  solidarietà è il mezzo per realizzarla. In entrambi i casi, come  si è detto, la collaborazione è una circolarità viziosa, dove  ognuno dei due fattori circolanti tende a fare dell’altro il  proprio «alimento» evitando di diventare a sua volta  l’«alimento» dell’altro.   Ciò significa che la «collaborazione» è un paravento, una  maschera che più o meno consapevolmente nasconde il  proprio opposto, ossia la lotta, l’opposizione, il conflitto  irrisolto. Si evita di riconoscere che se la collaborazione tra  interessi del capitale e interessi del lavoro esistesse per  davvero, allora ognuno dei due limiterebbe sé stesso per far  posto all’altro, e pertanto non esisterebbe più né il senso  autentico dell’intrapresa capitalistica, né il senso autentico del  lavoro; e che se invece questi due fattori esistono per davvero  - come in effetti esistono storicamente per davvero -, allora  ognuno dei due vuole diventare lo scopo dell’altro e ridurre  l’altro alla funzione di mezzo, e in questo caso il loro  «alimentarsi in una circolarità virtuosa» svanisce, cioè  svanisce la loro collaborazione.   Si tratta infatti di comprendere che se lo scopo dell’agire  economico è la sintesi di quei due fattori - ossia è la sintesi  costituita dalla loro collaborazione -, allora, in questa loro  sintesi, ognuno dei due limita l’altro, gli impedisce di    57     espandersi sino a diventare l’unico scopo, e quindi ne  distrugge la configurazione originaria. Se un uomo (fuor di  metafora: l’agire economico) ama due donne (fuor di  metafora: la crescita del profitto e la solidarietà), e crede che il  suo amore per l’una e il suo amore per l’altra abbiano a  «collaborare», cioè ad «alimentarsi in una circolarità  virtuosa», quest’uomo si inganna, perché l’amore che darebbe  a una se non ci fosse l’altra non può esserci più quando oltre a  quell’una ama anche l’altra. Se i due amori si alimentano  virtuosamente e collaborano, ognuna delle due donne è meno  amata, l’amore «vero», «esclusivo» che ci sarebbe potuto  essere per lei è andato perduto; se invece questo amore «vero»  ed «esclusivo» rimane, allora esso non potrà più dividersi tra  le due donne e cioè l’amore «vero» ed «esclusivo» per l’una  finirà inevitabilmente col detronizzare e vanificare l’amore  «vero» ed «esclusivo» per l’altra.   Fuor di metafora: o efficienza e solidarietà collaborano, ma  allora non ci sarà più né capitalismo - cioè volontà di «non  limitare il proprio guadagno» - né dottrina sociale della  Chiesa o delle sinistre, che, sia pure in modo diverso, non  intendono limitare la realizzazione del bene comune,  sacrificandone parti o aspetti al profitto; oppure efficienza e  solidarietà mantengono i caratteri che storicamente sono loro  propri e per i quali ognuna di queste due forze intende essere  lo scopo primario dell’agire economico, ma allora non ci  potrà essere collaborazione tra i due, ma urto, lotta, conflitto  più o meno mascherati.   Per ora, si può dire che ognuno dei due antagonisti tende a  predicar male e a razzolar bene. Cioè predica la  collaborazione con l’altro (e dunque predica, più o meno  consapevolmente, la propria rovina - e questo è appunto il  predicar «male»), ma in effetti persegue il proprio scopo  tentando di ridurre a mezzo lo scopo dell’antagonista (e    58     questo è appunto il razzolar «bene»). Ci sono avvisaglie, nel  mondo, che oltre a predicar male i due avversari incomincino  anche a razzolar male, e cioè incomincino a «collaborare». Ma  questo fatto vorrebbe dire che i due avversari - efficienza  capitalistica e solidarietà cristiana o progressista - stanno  avviandosi al tramonto: così come va al tramonto quel «vero»  amore per una donna quando esso viene a trovarsi in  compagnia dell’amore per un’altra. Stanno avviandosi al  tramonto perché rinunciano al proprio scopo, cioè rinunciano  a sé stessi.    59     6. Governi tecnici   Che cos’è oggi un «governo tecnico» in Europa - e, con  qualche riserva, nel mondo? È un insieme di decisioni,  vincolanti per un popolo, che, guidate dalla competenza  scientifica, si propongono il benessere di quel popolo. Ma tale  «benessere» non è lo stesso per le destre, le sinistre, la Chiesa  cattolica, il comuniSmo cinese, l’islam ecc.: in generale, per le  diverse concezioni culturali dell’«uomo» e del «bene».  Appunto per questo, quando si produce un forte  condizionamento politico dei partiti che sostengono un  governo tecnico (come ad esempio è accaduto in Italia), le  decisioni vincolanti sono guidate da una mescolanza di  competenza scientifica e di volontà politica, e la competenza  scientifica è soprattutto il mezzo per realizzare il concetto che  forze politiche quasi sempre contrapposte hanno del  benessere del popolo che esse intendono guidare.   Tale concetto non ha un carattere scientifico. L’azione  politica non è la scienza politica. Si dice, appunto, che la  «politica» (Yazione politica) è un’«arte», avvolta quindi da  quell’alone di arbitrarietà che compete a ogni arte. Accade  quindi, al governo tecnico così inteso, che la scienza serva per  realizzare una forma di non-scienza, tanto più lontana dalla  coerenza scientifica quanto più accentuato è il contrasto delle  forze politiche che sostengono tale governo. È vero che per  Max Weber la scienza ha un carattere puramente strumentale,  il cui scopo non ha un valore scientificamente appurabile; ma  è anche vero che in questo modo la ragione vien posta al  servizio della non-ragione, alla quale viene affidata la sorte del  mondo. (Certo, si dovrà poicapire che cosa sta dietro la  ragione scientifica.)   Ma nei governi tecnici che agiscono nelle economie di  mercato il benessere del popolo, perseguito attraverso il    60     condizionamento politico, è il benessere quale è inteso,  appunto, all’interno delle categorie della produzione  capitalistica della ricchezza. In questa situazione, il  capitalismo è la condizione ultima della politica e del governo  tecnico: la politica è un mezzo di cui il c apitalismo si serve.  Chi si propone ancora, nel mondo democratico, una  economia non capitalistica? Tolta qualche eccezione, anche le  sinistre vogliono essere ormai lontanissime da ogni forma di  marxismo o di economia pianificata. La contrapposizione tra  destra, sinistra, centro ha un consistente denominatore  comune, è una lotta all 'interno del sistema capitalistico.  Parlare dunque di un condizionamento capitalistico dei  governi tecnici e della politica sembra soltanto un’owietà. E  lasciarsi alle spalle la distinzione tradizionale di centro, destra,  sinistra significa, innanzitutto, adottare correttamente e  seriamente le regole dell’economia di mercato. Nulla di strano  che il «riformismo» del governo di Monti si sia rivolto a  (quasi) tutte le formazioni politiche, rendendo più visibile che  (quasi) tutte, ormai, si muovono all’interno della logica  capitalistica. Tecnica e politica sono un mezzo di cui il  capitalismo si serve per realizzare i propri scopi.   Sennonché nemmeno il capitalismo è scienza. La scienza  economica può sostenere che esso è la forma più efficace di  produzione della ricchezza, ma all’essenza del capitalismo  appartiene il rischio, Yazzardo, mentre la scienza è  essenzialmente la volontà di evitare che le proprie leggi siano  leggi a rischio, azzardate, e dunque arbitrarie. Joseph  Schumpeter, amico del capitalismo, ha sostenuto che la sua  crisi è dovuta alla progressiva sostituzione del rischio con la  routine delle procedure tecno-scientifiche. D’altra parte,  anche per il carattere rischioso del proprio agire, il capitalismo  si sente autorizzato a porre come scopo primario non già il  benessere del popolo ma il continuo aumento del capitale    61     privato. Anche per il capitalismo si deve dunque affermare  che esso, assumendo come mezzo la tecno-scienza, fa sì che la  scienza serva a realizzare la non-scienza: che la ragione (ossia  ciò che oggi è considerato come «la ragione» per eccellenza)  serva a realizzare la non-ragione.   Tuttavia, la situazione si complica ulteriormente quando  accade che la dimensione tecnica del potere sia condizionata  non soltanto dall’economia capitalistica, ma anche, e magari  fortemente, dalla dimensione religiosa, per esempio dalla  Chiesa cattolica. In questo caso, l’intento, lo scopo, è di tenere  insieme capitalismo, politica e cattolicesimo (evitando le  degenerazioni dell’agire economico e politico e anche  religioso), servendosi della tecno-scienza. La situazione si  complica ulteriormente perché, mentre per il capitalismo lo  scopo primario dell’agire economico e quindi del governo è  l’incremento del profitto privato, per la Chiesa lo scopo  primario di tale agire e di un governo giusto non deve essere  il profitto, ma il «bene comune» quale è appunto concepito  dalla dottrina sociale della Chiesa. Il capitalismo deve essere  cioè un mezzo per realizzare questa forma del «bene  comune». Mezzo, e non scopo.   La pretesa della Chiesa (vado ripetendo da tempo) che il  capitalismo abbia come scopo il «bene comune» e non il  profitto è volerne (inconsapevolmente?) la distruzione. A sua  volta il capitalismo, assumendo come scopo primario il  profitto, vuole, a volte non rendendosene conto, la  distruzione della società cristiana. È un problema, questo, che  non riguarda soltanto l’esperienza governativa Monti, ma  tutte le presumibili coalizioni che governeranno l’Italia.  (Quasi vent’anni fa, in un articolo sul «Corriere» poi incluso  in Declino del capitalismo, Rizzoli 1993, avevo preso in  considerazione la proposta di Monti al convegno di  Cernobbio di quell’anno, di tenere insieme efficienza -    62     capitalistica - e solidarietà - cristiana - e avevo mostrato le  difficoltà a cui va incontro non solo tale proposta, ma ogni  progetto politico che intenda conciliare democrazia,  capitalismo, cristianesimo.)   Dico questo per rilevare come anche, ma non solo, in Italia  si renda percepibile quella gigantesca trasformazione del  mondo che è costituita dalla crisi del capitalismo (e del  cristianesimo - e della politica). Un governo che assuma  come scopo primario sia l’efficienza sia la solidarietà, assume  infatti uno scopo che non può essere né quello del capitalismo  né quello della Chiesa, i quali non intendono avere al loro  fianco, in posizione paritaria, alcun altro scopo (ma dove  l’efficienza subordina a sé la solidarietà, servendosene, e la  solidarietà, a sua volta, subordina a sé l’efficienza,  servendosene). Se tale governo crede di poter mantenere in  posizione paritaria sia l’efficienza capitalistica sia la solidarietà  cristiana si illude, cioè si propone di realizzare una  contraddizione. Ciò non significa che tale proposito non  abbia a realizzarsi, e magari con risultati soddisfacenti:  significa che tali risultati saranno inevitabilmente provvisori,  instabili, ossia che quel proposito non potrà mai ottenere ciò  che crede di poter ottenere. Come di regola accade lungo il  corso storico.   Comunque, sia illudendosi di unire efficienza capitalistica e  solidarietà cristiana (e politica) sia evitando questa  contraddizione, dando quindi vita a un nuovo senso  dell’efficienza e della solidarietà e dunque della loro unione,  proporsi come scopo tale unione servendosi delle competenze  tecno-scientifiche è pur sempre un agire in cui la forma oggi  ritenuta la più rigorosa della razionalità umana (la tecno-  scienza, appunto) è posta al servizio di forme meno rigorose  di tale razionalità. Cioè la potenza di quell’agire è posta al  servizio della non potenza. E la potenza, la capacità di    63     realizzare scopi, è insieme la ricchezza di un popolo.   Proporsi, come accade nei governi tecnici d’oggigiorno, di  eliminare le degenerazioni della politica e dell’economia è  però un passo avanti nella direzione lungo la quale si finisce  col capire che le società diventano potenti e ricche non  eliminando la «cattiva» politica e la «cattiva» economia, ma  mettendo la buona politica e la buona economia (che anche  risanate sono pur sempre forme meno rigorose dell’agire  razionale) al servizio della tecnica guidata dalla scienza - della  tecnica, il cui scopo è precisamente l’aumento indefinito della  potenza.    64     Ili   Democrazia e tecnica   1. Europa e America   Difficile smentire, nel loro insieme e nel loro senso più  corrente e generale, le osservazioni proposte nel 2003 dalla  rivista «Liberal» (n. 19) per la discussione intorno agli Stati  Uniti d’America. Esempio. «Dall’Europa, dalla sua cultura  politica prevalente, si guarda sempre più all’America in modo  semplificato. C’è la tendenza a sottovalutare i valori della sua  democrazia e a sottolinearne, al contrario, i limiti.»   Se le espressioni «Europa» e «sua cultura politica  prevalente» indicano soprattutto gli umori dell’opinione  pubblica europea, allora è un «fatto» che mentre alla fine della  seconda guerra mondiale gli Americani erano per gli Europei  i «liberatori», oggi vengono piuttosto sentiti come i cittadini  di uno Stato che ritiene di non dover dar conto a nessuno del  proprio operato. Questo è un problema di «psicologia delle  masse», facili a dimenticare i benefìci ricevuti (anche perché il  ricambio generazionale fa sì che i dimentichi di oggi non  siano più i beneficiati di ieri).   Se invece «Liberal» intendesse affermare che oggi in  Europa è in atto una critica dei valori espressi dalla  Costituzione americana, questa affermazione vorrebbe dire  che in Europa cresce la preferenza (o la nostalgia) per lo Stato  autoritario. Ma questo non è vero (in Europa i partiti di  estrema destra e di estrema sinistra sono piccole minoranze);  e non sembra nemmeno che «Liberal» voglia sostenere questa  tesi. Fuori discussione, invece, che quella americana è la  prima costituzione liberal-democratica apparsa nel mondo  moderno - la prima, cioè, dove il principio della libertà dal  potere politico si unisce al principio dell’eguaglianza dei  cittadini di fronte alla legge.    65     E fuori discussione, inoltre, che «gli Stati Uniti sono nati da  una grande decisione collettiva di proteggere gli interessi e il  bene comune», definiti soprattutto in relazione a ciò che essi  significano nella cultura illuministica. Qui va aggiunto che  tale decisione è tanto più rilevante quanto più essa ha inteso  arginare (con maggiore o minore successo) gli interessi e il  bene dell’economia di mercato, dove l’agire capitalistico non  ha e non può avere di mira l’interesse e il bene comune, ma  l’interesse e il bene privato, cioè l’incremento del profitto (sì  che l’interesse e il bene comune, nell’intrapresa capitalistica,  non sono lo scopo dell’agire economico, ma una  conseguenza, un sottoprodotto di quell’incremento).  Relativamente allo sfondo (o al contenimento) liberal-  democratico del capitalismo si può dire, con «Liberal», che «è  la natura della democrazia americana a presentarsi come un  fenomeno unico anche nel contesto più generale  dell’Occidente».   La domanda centrale (e, se non mi inganno, retorica) di  «Liberal» suona comunque: «Non è forse questo» -  americano - «l’unico modo di vivere una democrazia, che  altrimenti si limiterebbe ad essere un insieme di  procedure...?»; e tale domanda è preceduta dalla  affermazione della capacità della democrazia americana di  credere in sé stessa e di assumersi le proprie «responsabilità».   Queste affermazioni riguardano un insieme di questioni  eterogenee: da un lato, la tesi che la condotta storico fattuale  degli Stati Uniti è sostanzialmente fedele al proprio  ordinamento costituzionale; dall’altro lato, la tesi che l’Europa  avrebbe il miglior ordinamento costituzionale se adottasse  quello statunitense; e, anche che gli Europei condurrebbero la  miglior vita politica se sul piano storico-fattuale si  adeguassero alla propria rinnovata costituzione così come gli  Americani vi si adeguano.    66     Tesi, queste ultime, che possono essere veramente discusse,  ma che lasciano fuori campo la questione preliminare e  decisiva (alla quale abbiamo già accennato), che peraltro è  venuta sempre più in luce dopo la risposta americana, in  Afghanistan e in Iraq, all’attacco terroristico dell’11  settembre: che cosa significa, che cosa implica, quali reazioni  produce uno Stato che agisce in base alla convinzione di  essere di fatto rimasto l’unica Superpotenza alla guida del  mondo e a proposito del quale si teorizza anche il diritto a  esserlo?   La risposta americana all’attacco subito era inevitabile  (come in altre sedi ho motivato), ed era inevitabile che la  risposta avvenisse nella forma della «guerra preventiva»  concepita come legittima difesa. Ma, nonostante tutto quel  che si è detto in proposito, non sta qui il problema - il  problema preliminare e decisivo. Esso riguarda il contesto  delle convinzioni con le quali gli Usa stanno vivendo questa  fase della loro storia. Altro è infatti credere che i supremi  interessi dello Stato americano richiedano che esso si difenda  adottando misure come la «guerra preventiva», ma lo si creda  sapendo che tali misure, prese in modo così fortemente  autonomo, sollevano il problema, non meno grave di quello  del terrorismo islamico, del rapporto tra l’autonomia  americana e il resto del mondo, e cioè sapendo che tale  problema è, appunto, problema e non soluzione; altro è che  gli Usa trattino come soluzione questo problema e siano  convinti che, poiché sono di fatto venuti a trovarsi alla guida  del mondo, o hanno il compito di porvisi, allora l’autonomia  esercitata nella loro risposta al terrorismo è la conseguenza  naturale della loro primazia planetaria. Due atteggiamenti  profondamente diversi, questi due, e, soprattutto negli ultimi  tempi, tra loro in contrasto negli stessi Stati Uniti. Il contrasto  è alimentato dalla coscienza crescente che gli Stati Uniti non    67     possono reggere da soli il peso immane di cui il secondo, e  trionfalistico, di quei due atteggiamenti vorrebbe caricarli.   Affermare che «l’unico modo di vivere una democrazia» è  quello americano significa certamente che l’Europa non può  mettersi in rotta di collisione con gli Usa. Ma significa anche  che l’Europa deve stare a loro soggetta? Il bon ton della  riflessione politica auspica che l’Europa non allenti i legami  con gli Usa e che d’altra parte non ne sia succube. Ma può  l’Europa non essere succube senza essere forte - cioè  militarmente forte, o addirittura competitiva rispetto agli Usa  - e continuando ad affidare aU’America la propria difesa?    68     2. Europa, Russia, America   Sembra che vi sia stata la tendenza a sottovalutare l’asse  Parigi-Berlino-Mosca (e Madrid), costituitosi in  contrapposizione alla guerra Usa contro l’Iraq. Ma si parla  anche dell’opportunità dell’ingresso della Russia nell’Unione  eu-ropea - sia perché la Russia muove i primi passi verso  l’economia di mercato sia per la rinnovata visibilità della  Chiesa ortodossa. Una ventina d’anni fa avevo scritto (il testo  è stato poi incluso ne II declino del capitalismo, cit., col titolo  L’Europa tra America e Russia ): «Ciò a cui si presta troppo  poca attenzione è che la Russia, una volta aiutata  dall’Occidente a uscire dalla crisi economica in cui si trova  attualmente, è anch’essa in grado di offrire all’Europa quella  protezione militare, contro le minacce del Sud, di cui gli Stati  Uniti hanno oggi il monopolio - e in nome della quale  possono pretendere che l’Europa stia in posizione  subordinata, perché non può restituir loro un vantaggio di  egual peso. Scambio che invece è possibile nel rapporto tra  Europa e Russia, perché l’Europa ha sì bisogno di aumentare  sostanzialmente il livello della propria potenza militare, ma  anche la Russia, che può consentire questo aumento, ha a sua  volta bisogno del sostegno economico che l’Europa  occidentale può darle. Un processo che d’altra parte già allora  si presentava tutt’altro che agevole, soprattutto per quanto  riguarda il controllo dell’arsenale moderno russo, giacché  l’Europa potrebbe sostenerne economicamente l’efficienza  solo se la gestione e il controllo di esso fossero effettuati, oltre  che dalla Russia, anche dagli altri Stati europei.   Certo, a distanza di vent’anni, la situazione è cambiata: la  crisi economica dell’Unione europea rende quest’ultima  molto meno forte nella contrattazione con una Russia che ha  superato il trauma dovuta al tramonto del marxismo e    69     dell’economia pianificata. Da ciò si spiega l’aumento della  diffidenza dell’Ue (perfino della Germania) nei riguardi della  Russia. Sino a che la crisi economica dell’Europa non verrà  superata, il processo che conduce a una più stretta  collaborazione politica tra Europa e Russia subirà un  inevitabile rallentamento. Da satellite degli Stati Uniti - per i  quali diventa peraltro sempre più pesante il compito di  contenere anche in Europa la pressione del mondo arabo -,  l’Europa non intende diventare satellite della Russia. D’altra  parte è nella natura della storia dei rapporti secolari tra  Europa e Russia, della situazione geopolitica e degli attuali  rapporti economici tra le due aree, che esse vengano a  formare un unico sistema euroasiatico di controllo della  conflittualità internazionale, insieme a Stati Uniti, Cina,  India. E se da un lato è nell’interesse della Russia che la  decadenza dell’Europa venga arginata per non essere  coinvolta, dall’altro lato la Russia non può non capire che gli  Stati Uniti non accetterebbero mai che per tale decadenza la  Russia divenga arbitra delle sorti dell’Europa. Pertanto, se  oggi l’Europa è più debole che in passato nella contrattazione  con la Russia, esistono tuttavia le condizioni perché il  rapporto tra queste due aree tenda a riequilibrarsi.   Non si tratta qui di «auspicare» (o «temere») la simbiosi  Europa-Russia, ma di constatare una tendenza che è  nell’ordine delle cose, anche se contrastata da molte forze,  innanzitutto da quanti, ancora, concepiscono gli Usa come  l’unica Superpotenza che non può rinunciare a questo suo  status e che in ultima istanza deve rispondere soltanto a sé  stessa. (Tra quelle forze va annoverata anche la Chiesa  cattolica, che vedrebbe ridimensionata la sua presenza in  Europa ad opera della Chiesa ortodossa russa, e che tempo fa,  per bocca dell’allora ministro degli Esteri vaticano Tauran ha  manifestato perplessità circa l’entrata della Russia nell’Unione    70     europea, aggiungendo che prima si dovrebbe pensare  all’entrata di Stati come l’Ucraina e la Moldavia.)   Per mezzo secolo il bipolarismo Usa-Urss ha assicurato la  pace nel mondo, nonostante l’insanabile contrasto ideologico  delle due superpotenze. Alla guida dei popoli poveri, l’Urss ha  anche contenuto e controllato la loro aggressività.  Impensabile, in quel tempo, un terrorismo islamico. Per  quanto paradossale possa sembrare, l’Urss ha contribuito in  modo decisivo ad assicurare la pace delle società  democratico-capitalitiche. Da quando si è creduto che il  bipolarismo fosse ormai tramontato, gli Usa si sono trovati  sulle spalle un fardello troppo pesante, reso ancor più pesante  dal fatto che la Russia, avviandosi verso la democrazia e  l’economia di mercato, si è sempre meno presentata come  guida delle rivendicazioni dei popoli poveri e si è sempre più  schierata in favore delle popolazioni slave contro quelle  mussulmane. Il bipolarismo Usa-Urss è stato (come da  vent’anni sostengo) la prima incarnazione dello Stato  mondiale - ossia del «monopolio legittimo della violenza»  esercitato su scala mondiale (cfr. E.S., La tendenza  fondamentale del nostro tempo, Adelphi 1988); e sin dalla  caduta del muro di Berlino sostengo che la scomparsa del  bipolarismo è un’apparenza che ha illuso e illude molti.  Infatti, il bipolarismo ha un carattere primariamente militare,  che non è certo venuto meno per il fatto che l’arsenale  nucleare russo, tuttora concorrenziale rispetto a quello Usa,  non è più gestito da una ideologia totalitaria (Cfr. E.S., Il  declino del capitalismo, cit.).   Se il bipolarismo gestito da irriducibili avversari ideologici  ha salvaguardato per mezzo secolo la pace (ho spesso rilevato  l’ingenuità della convinzione che le due maggiori potenze  della terra considerassero seriamente la possibilità di  distruggersi a vicenda), si presenta ora la tendenza reale verso    71     un bipolarismo costituito da due dimensioni economico-  politiche (Usa e Europa-Russia), che, in parte già omogenee,  per quanto riguarda l’Europa, vanno sempre più  avvicinandosi e che, insieme, possono costituire quel centro  dello sviluppo storico sulla terra, che non può essere gestito  da una sola delle due. È nello stesso interesse di quest’ultimi  che tale nuova forma di bipolarismo prenda piede. Ed è  prevedibile che alla fine gli Usa prendano coscienza dei loro  autentici interessi. Degno di nota, in proposito - ripetiamo -  che in Italia il presidente del Consiglio del governo di  centrodestra abbia più volte proposto l’entrata della Russia  nell’Unione europea. Le considerazioni qui sopra sviluppate  indicano il contesto in cui tale proposta può avere  fondamento. E forse è interessante anche (e non paradossale,  come a prima vista potrebbe sembrare) che quella proposta  sia accompagnata dalla volontà di mantenere un asse  preferenziale con gli Usa. Se non è una contraddizione, quella  proposta può essere infatti condotta a significare che l’Europa  può essere la vera alleata e dunque non subordinata  ah’America, solo se essa possiede, oltre alla potenza  economica, anche quella militare, che oggi continua ad avere  il suo fulcro in un arsenale atomico invincibile, cioè in un  apparato che sarebbe velleitario per l’Europa costruire  (nonostante la chance nucleari di Francia e Inghilterra), ma  che la Russia realmente possiede, e la cui perpetuazione  diventa tuttavia sempre più onerosa per la Russia - premuta,  quest’ultima, da un lato dalla consapevolezza che in un  mondo sempre più pericoloso l’invincibihtà atomica è un  bene irrinunciabile, e dall’altro dalla tentazione di intaccare il  capitale atomico cedendone porzioni in cambio dei vantaggi  economici che i compratori, più o meno affidabili, potrebbero  assicurarle.   L’entrata della Russia in Europa pone indubbiamente    72     enormi problemi - soprattutto, si è già detto, per quanto  riguarda la gestione dell’apparato nucleare russo -, che però  sono pur sempre inferiori a quelli dell’alternativa costituita da  un mondo sempre più complesso (anche per l’affacciarsi di  nuove grandi potenze come la Cina) ed esplosivo, dove gli  Usa fossero convinti di poterne da soli determinare le sorti e  dove le difficoltà economiche della Russia potrebbero farle  perdere il controllo del proprio apparato nucleare a vantaggio  del terrorismo islamico. Il problema del rapporto tra popoli  ricchi e poveri si risolve riducendo il loro dislivello  economico; ma la tendenza verso l’entrata della Russia  nell’Unione europea e il conseguente rinnovato bipolarismo  stabilizza l’organizzazione globale dei Paesi ricchi e rende  quindi efficace e sicura la loro indifferibile decisione di  ridurre la loro distanza economica dai Paesi sottosviluppati.    73     3. Le democrazie e la tecnica   La costituzione americana è un grande modello di società  liberal-democratica, ma è un’astrazione proporlo all’Europa  senza tener conto del processo storico reale che spinge  l’Europa a confrontarsi col problema-Russia. È un’astrazione  anche perché il sottinteso dei sostenitori della democrazia e  dell’economia di mercato è che quest’ultime, dopo la fine del  socialismo reale, non abbiano alternative. Ma, anche qui,  debbo rinviare a quanto vado sostenendo da molto tempo.  Infatti il Meccanismo inaggirabile - richiamato anche nelle  pagine precedenti - per il quale le grandi forze che oggi  guidano il pianeta (capitalismo, democrazia, cristianesimo,  islamismo, nazionalismo ecc. - e, ieri, socialismo reale), e che  lo guidano servendosi, come mezzo, della tecnica moderna,  sono destinate a diventare mezzi del potenziamento del  proprio mezzo, cioè della tecnica, la quale dunque è destinata  a diventare il loro scopo.   Ma la tecnica destinata a diventare scopo non è la tecnica  scientisticamente intesa, ma è l’apparato scientifico-  tecnologico in quanto esso va unendosi all’essenza della  filosofia contemporanea, ossia alla struttura concettuale che  negli ultimi due secoli ha mostrato l’impossibilità di ogni  limite assoluto all’agire dell’uomo. La tecnica, così intesa, è  guidata dal risultato essenziale del pensiero filosofico  dell’Occidente. In quanto tale pensiero la guida e le fa  scorgere l’impossibilità di ogni limite assoluto dell’agire, la  tecnica acquista una potenza essenzialmente superiore a  quella di ogni tecnica che invece sia assunta come mezzo e  pertanto sia limitata e frenata dagli scopi delle forze della  tradizione occidentale. E la superiorità della sua potenza la  destina - in un mondo che crede sempre di meno nei valori  assoluti della tradizione - a prevalere su ogni forma di tecnica    74     che funzioni come mezzo per la realizzazione di tali valori.  Già da questo ordine di considerazioni si può capire che lo  strumento vincente conduce a una situazione dove la sua  tutela e Fincremento della sua potenza sono destinati a  diventare lo scopo delle forze che invece vorrebbero  trattenerlo nella sua funzione di mezzo.   Oggi anche la democrazia si serve della tecnica, ma il  mondo procede verso un tempo in cui sarà la tecnica (intesa  in quel suo significato complesso) a servirsi della democrazia  (e delle altre forze prima menzionate), ossia a utilizzare  l’organizzazione democratica della società per realizzare  Fincremento della propria potenza - a utilizzare la  democrazia, dico, e non quell’assolutismo politico che  appartiene all’insieme dei limiti assoluti di cui il pensiero  filosofico del nostro tempo mostra l’impossibilità. Ma la  democrazia come scopo della tecnica è qualcosa di  essenzialmente diverso dalla democrazia che diventa mezzo  della tecnica. Così come la ricchezza al servizio della vita  buona, cioè dell’etica, è qualcosa di essenzialmente diverso  della ricchezza che ha l’etica al proprio servizio; e l’etica che si  serve della ricchezza è qualcosa di essenzialmente diverso  dall’etica di cui la ricchezza si serve. Ho in più modi indicato  perché il Meccanismo che conduce a questo rovesciamento di  scopo e mezzo sia qualcosa di inaggirabile - un  rovesciamento, peraltro, che pur non dicendo affatto l’ultima  parola, è destinato a dominare per lungo tempo la storia del  pianeta (cfr., oltre ai miei due scritti prima citati: E.S., Il  destino della tecnica, Rizzoli 1998; Crisi della tradizione  occidentale, Marinotti 1999; e N. Irti - E. Severino, Dialogo su  diritto e tecnica, Laterza 2001; E.S., Capitalismo senza futuro,  cit.).   La democrazia europea e americana continuano a  concepire la tecnica come mezzo per realizzare un mondo    75     democratico. Stando all’interno di questa convinzione, si può  vedere nella costituzione americana il modello stesso della  vita democratica. Ma se, in forza di quel Meccanismo, la  democrazia è destinata a perpetuarsi solo nella misura in cui  diventa mezzo della tecnica, e se la democrazia come mezzo è  qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia come  scopo, allora il problema dell’adeguazione della democrazia  europea al modello americano diventa obsoleto, perché a  questo punto viene in primo piano il problema di quale  nuova configurazione venga ad assumere - negli Stati Uniti,  in Europa, in Russia - la democrazia, una volta che essa sia  ridotta, appunto, alla funzione di mezzo. Il Meccanismo di  cui stiamo parlando avvolge cioè e coinvolge lo stesso  problema, prima considerato, relativo al rapporto tra Usa,  Europa, Russia.   Il processo che conduce verso il nuovo bipolarismo  democratico è inscritto cioè nel più ampio e più profondo  processo che conduce al rovesciamento dove l’indefinito  potenziamento della tecnica - in quanto unita alla  consapevolezza filosofica che non esistono limiti assoluti  all’agire umano («Dio è morto») - diventa lo scopo delle forze  che tuttora si illudono di servirsi della tecnica e dunque  diventa lo scopo della stessa democrazia. La rivista «Liberal»  rileva che la democrazia americana «crede anche nelle  responsabilità che si assume e nella sua capacità di difendere i  suoi principi di riferimento». A fondamento di questa fede si  trova la volontà di non cedere agli avversari; e tale volontà è  concreta solo in quanto potenzia il più possibile l’apparato  scientifico-tecnologico che le consente di non cedere. Ma sino  a che tale apparato è mezzo, strumento, esso è soggetto al  logoramento a cui ogni mezzo è soggetto; sì che la democrazia  stessa non può permettere che abbia a logorarsi lo strumento  che le assicura la sopravvivenza e la primizia. Ma quando e in    76     quanto evita che la tecnica, ossia il proprio strumento,  attualmente insostituibile, abbia a logorarsi, la democrazia è  già sulla strada del Meccanismo a cui abbiamo accennato, la  strada dove la democrazia stessa rinuncia a porsi come lo  scopo dell’agire sociale e assume come scopo del proprio agire  la tutela e rincremento indefinito della potenza del proprio  strumento. Lo stesso discorso va fatto a proposito di tutte le  altre forze che, come la democrazia, intendono servirsi della  tecnica come mezzo per la realizzazione dei loro scopi  (reciprocamente escludentisi).   D’altra parte la liberal-democrazia americana è unita  all’economia di mercato e già da tempo quest’ultima non è  più lo scopo dell’azione storica degli Stati Uniti. Essi cioè, in  quanto superpotenza planetaria, non intendono sviluppare la  propria potenza, e guidare il mondo, allo scopo di  incrementare il profitto dei grandi trust del capitalismo  americano, ma, all’opposto, intendono servirsi del profitto  che l’economia capitalistica va accumulando, allo scopo di  sviluppare la propria potenza e dominare il mondo. Infatti,  anche questi due scopi sono tra loro conflittuali; ed essere  potenti per essere ricchi indebolisce da ultimo la potenza e  quindi la stessa ricchezza che dalla potenza è resa possibile e  sostenuta.   L’inevitabile percezione di questa conseguenza spinge  l’America verso un atteggiamento dove essa vuole essere ricca  per essere potente, cioè per incrementare la potenza del  proprio apparato tecnologico, di cui ci si illude ancora, negli  stessi Usa, di servirsi. Peraltro, l’illusione è tanto più  giustificata quanto meno viene percepita l’inevitabilità del  tramonto dei valori della tradizione occidentale - tra i quali,  va sottolineato, vanno annoverati gli stessi valori  dell’islamismo. In questa situazione, lo scopo dell’agire non è  più l’incremento capitalismo del profitto, e quindi non è più    77     la liberal-democrazia in quanto a esso unita: lo scopo diventa  la tecnica; e la democrazia, cambiando volto, assume tratti che  sono ancora tutti da decifrare.    78     4. Sulla coerenza della follia estrema   Ma già qui è opportuno rilevare (e l’osservazione vale per  tutto quanto ho scritto sulla tecnica) che il «rovesciamento»  in cui la tecnica, da mezzo, diventa scopo - il meccanismo  cioè del rovesciamento - è un «movimento» che si costituisce  alVinterno della fede che esistano mezzi e scopi - e questa fede  appartiene alla follia estrema del mortale (cfr. cap. VI). Come  tale follia diventa coerente quando essa nega ogni immutabile  e ogni verità che pretendano porsi al di sopra del divenire, per  dominarlo, così la follia estrema diventa coerente quando la  volontà di far diventar altro le cose esce dalla situazione in cui  essa si serve della tecnica come mezzo ed entra nella  situazione in cui il potenziamento infinito della tecnica  diventa lo scopo dell’uomo. Proprio perché appartiene al  contenuto della fede nel divenir altro delle cose, e pertanto  della volontà di farle diventare altro, il «rovesciamento» di cui  stiamo parlando appartiene alla volontà interpretante, ossia  alla non-verità. Nello sguardo del destino, invece, appare che,  commisurato alla verità autentica ossia al destino della verità,  il contenuto della follia - cioè della fede, della volontà e della  volontà interpretante - è il nulla - non essendo invece un  nulla la fede, la certezza che tale contenuto non solo non sia  un nulla, ma sia l’evidenza suprema. Nello sguardo del  destino della verità appare cioè che l’apparire di quelVeterno,  che è la fede di assumere la tecnica come mezzo, è seguito da  quell’altro eterno che è la fede che la tecnica da mezzo diventa  scopo - dove questo rovesciamento, cioè questo scambio delle  parti, ha un carattere vincolante, ossia è qualcosa di  inevitabile, aU’interno della logica e delle regole secondo cui si  costituisce il contenuto della volontà interpretante, ossia della  fede. In altri termini, è lasciando parlare la fede nel divenir  altro, che essa, diventando coerente alla propria logica,  afferma la «necessità» che quella volontà di far diventar altro    79     le cose, in cui la tecnica consiste, divenga, da mezzo, scopo.   Il discorso va esteso all’intero contenuto della volontà  interpretante: l’intero contenuto di tale volontà è il nulla, ma  tutte le determinazioni che restano evocate dalla volontà  intepretante sono degli eterni che appaiono con necessità così  come appaiono - dove questa necessità è essenzialmente  diversa da quella che compete alla logica che guida la fede e la  volontà interpretante.    80     5. SuU’inevitabilità dello scambio delle parti   Si richiami qui uno dei motivi fondamentali per i quali in  queste pagine si afferma che lo «scambio delle parti» - ossia il  rovesciamento del rapporto mezzo-fine - è, all’interno di tale  logica, inevitabile (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro, cit.).   Nell’agire, lo scopo, come «idea» - ossia come primum in  intentione, come «presenza ideale nella mente di chi agisce» -  determina il mezzo da cui è realizzato: lo configura, lo orienta  e gli assegna i limiti oltre i quali esso non sarebbe più idoneo a  realizzare tale scopo. Lo scopo, come «fatto reale» - ossia in  quanto è Yultimum in executione -, è prodotto dal mezzo; ma,  prima e durante questa produzione, la «presenza ideale» dello  scopo guida, controlla, regola la produzione del mezzo. (Ad  esempio, la decisione di far guerra guida, controlla, regola la  produzione delle armi che sono il mezzo con cui tale  decisione è realizzata, cioè sono il mezzo di cui quella  decisione si serve per realizzarsi?)   Se uno scopo è in conflitto con altri scopi e non intende  farsi sopprimere da essi, e anzi intende prevalere e  sopprimerli, l’agire che mira a farlo prevalere non può evitare  di potenziare il più possibile il mezzo di cui tale agire si serve  per far prevalere tale scopo. Ma non può potenziarlo oltre i  limiti al di là dei quali il mezzo non è più guidato, controllato,  regolato dallo scopo. Ad esempio l’agire che ha uno scopo  non può concentrare tutte le proprie energie nella produzione  e nel perfezionamento e potenziamento del mezzo, altrimenti  non resterebbero più energie e tempo per la realizzazione  dello scopo dell’agire. Proprio la volontà di perfezionare e  potenziare il più possibile il mezzo con cui ci si propone di  realizzare uno scopo sottrae il mezzo alla guida, al controllo,  alla regola che lo scopo stabilisce per la produzione del  mezzo.    81     Se, nel conflitto tra scopi (e nella storia dell’uomo nessuno  scopo si è trovato al di fuori dell’elemento conflittuale), uno  di essi, per prevalere sugli altri, rinuncia alla propria o a una  parte della propria determinazione del mezzo e potenzia il  mezzo oltre il limite che rende coerente il mezzo allo scopo,  gli scopi antagonisti saranno certamente vinti, ma il vincitore  non sarà nemmeno lo scopo che, per vincere, ha rinunciato a  determinare il proprio mezzo, ossia ha rinunciato a sé stesso.  Sfuggendo alla guida di ciò che dovrebbe essere il suo scopo,  il mezzo che ha vinto non ha realizzato il proprio scopo  perché andato oltre i limiti che determinano il mezzo e che,  insieme, definiscono lo scopo, ha realizzato uno scopo diverso  da quello che inizialmente intendeva servirsi di tale mezzo per  realizzarsi. Propriamente, lo scopo che è stato realizzato è  diventato il potenziamento del mezzo che doveva realizzare  un certo scopo, e al nuovo scopo, costituito da tale  potenziamento, il vecchio tenta di restare aggrappato per  poter mantenere ancora la propria funzione di scopo. Ma  invano, perché la fine di un conflitto è solo una parentesi  nella conflittualità che è ineliminabile perché è dovuta  all’esistenza stessa dell’agire e della volontà; sì che viene alla  luce che lo scopo autentico dell’agire è un potenziamento del  mezzo, che non consente ai vecchi scopi di restargli  aggrappati per sopravvivere come scopi. Anche lo Stato  parassitario che dà loro l’apparenza di scopi è destinato a  tramontare.   Una situazione, poi, in cui nessun agire oltrepassi i limiti  che determinano i propri mezzi e definiscono i propri scopi  sarebbe una situazione non conflittuale, cioè una situazione  impossibile, perché le cose che la volontà di una certa forma  di agire vuol trasformare per ottenere un certo scopo sono le  stesse che la volontà di una cert’altra forma di agire vuol  trasformare per ottenere uno scopo diverso, e quindi il    82     conflitto tra le due volontà è inevitabile.   Quando si afferma che il fine non giustifica i mezzi, si  intende che i mezzi devono essere coerenti al fine voluto. Il  fine giustifica i mezzi che sono coerenti a esso. Ma la  giustificazione dei mezzi è anche la loro limitazione. La  giustificazione dei mezzi da parte del fine è la loro  mortificazione, il loro freno.   Poiché ogni scopo si trova in una situazione conflittuale,  l’agire, cioè l’assunzione di mezzi per realizzare scopi, è una  contraddizione, dove, da un lato, lo scopo guida il mezzo da  cui è realizzato e, dall’altro, per prevalere sugli scopi che  impediscono tale realizzazione, lo scopo non guida il mezzo.  Da un lato il mezzo è potenziato fino a un certo punto,  dall’altro è potenziato oltre quel punto.   La «libertà» dell’individuo moderno è la facoltà di  realizzare una serie di scopi, e nella democrazia la libertà di  un individuo si estende sin dove arriva la libertà degli altri  individui. Lo Stato moderno dovrebbe garantire l’equilibrio,  cioè i limiti che definiscono le diverse serie di scopi, cioè la  libertà di ogni individuo. Ma anche all’interno dello Stato  moderno queste diverse serie sono tra loro conflittuali, e  pertanto l’agire individuale è esso stesso una contraddizione.  La libertà del cittadino è contraddizione. All’interno della  contraddizione si trova tuttavia anche la schiavitù e la servitù,  che è totale o parziale a seconda che chi si impone abbia una  signoria totale o parziale sul vinto. Nel conflitto, chi ha vinto  un avversario autentico - cioè che non si limita a subire lo  scopo del potente, ma intende a sua volta prevalere  sull’avversario - ha dovuto potenziare i propri mezzi oltre i  limiti che determinano i mezzi e definiscono lo scopo del  vincitore. Ma lo stesso ha dovuto fare chi ha perso, perché per  non perdere ha dovuto a sua volta oltrepassare il più possibile    83     i limiti che determinano i mezzi di cui disponeva e che  definiscono gli scopi a cui mirava. L’avversario autentico non  perde (diventando in tal modo «servo» o «schiavo») perché  non ha oltrepassato quei limiti, ma perché, oltrepassandoli  non ha ottenuto dai propri mezzi la potenza che dai propri è  riuscito a ottenere il vincitore. L’agire del vincitore è  contraddizione proprio perché è contraddizione anche l’agire  del vinto. Poiché l’agire dell’uomo è coordinazione di mezzi  in vista della realizzazione di scopi, e si trova essenzialmente  all’interno di una situazione conflittuale, l’agire umano in  quanto tale è contraddizione. È contraddizione dallo stesso  punto di vista di chi non vede l’alienazione dell’agire in  quanto volontà che qualcosa divenga e sia altro da ciò che  essa è. Tutte queste considerazioni sono ora da riferire alla  situazione conflittuale di particolare rilievo storico, dove le  grandi forze dell’Occidente intendono realizzare i loro scopi  conflittuali servendosi ognuna di una certa frazione  dell’apparato scientifico-tecnologico, divenuto ormai il Mezzo  supremo per la realizzazione di ogni scopo dell’uomo. La  filosofia del nostro tempo mostra infatti, nella propria  essenza, che non può esistere alcuna dimensione divina e  immutabile che possa essere raggiunta con un mezzo diverso  da quello tecnologico, cioè da ciò che nella tradizione  filosofica era l’adeguazione dell’uomo e dello Stato alla verità  svelata dal sapere filosofico.   All’inizio, ognuna di quelle grandi forze dell’Occidente  intende guidare, controllare, regolare e quindi limitare il  mezzo tecnologico di cui essa dispone. Ma nella situazione  conflittuale è inevitabile che il limite che determina il mezzo e  definisce lo scopo di ognuna di tali forze sia oltrepassato e che  il potenziamento della tecnica divenga lo scopo supremo di  tutto l’agire umano. Qui si produce la forma più imponente  dello «scambio delle parti» e, insieme, la forma più imponente    84     della contraddizione dell’agire. Capitalismo, comuniSmo,  democrazia, cristianesimo, islamismo, nazionalismo sono (o  sono stati) costretti da un lato, a potenziare sempre di più il  Mezzo tecnologico a loro disposizione, e, dall’altro, sono (o  sono stati) costretti a indebolirlo, cioè a limitarne il  potenziamento, per evitare di farlo uscire dal loro controllo,  dalla loro guida, dalla loro regola. Oggi la tecnica è il  fondamento della salvezza di ogni scopo e quindi ogni scopo,  per salvare sé stesso, è costretto ad assumere come scopo il  potenziamento del proprio Mezzo: per salvare sé stesso ogni  scopo è costretto a rinunciare a sé stesso.    85     6. Note su identità dell’Europa, frammento, potenza   Nel mio libro La tendenza fondamentale del nostro tempo  (Adelphi 1988), ma anche prima in Téchne (Rusconi 1979), e  in seguito in altri scritti ancora, si mostra in che senso e per  quali motivi è «necessario» affermare, da un lato, che  l’«essenza» - Inanima» - della civiltà occidentale è il pensiero  filosofico, e, dall’altro, che il pensiero filosofico del nostro  tempo, quando si riesca a scendere nel suo sottosuolo  essenziale, mette in luce l’«inevitabilità» del tramonto della  grande tradizione dell’Occidente e l’altrettanto «inevitabile»  destinazione della tecnica al dominio del pianeta. Ma, fino a  che non si scorge il significato autentico di queste  affermazioni, esse scadono al livello della semplice notizia. (Se  non intende essere la semplice opinione di qualcuno, ogni  affermazione dev’essere infatti «argomentata». La parola  «argomento» proviene dal latino arguo e dal greco argòs, che  indicano il porre in chiara luce. Poiché la luminosità può  essere maggiore o minore, per affermare qualcosa in modo  adeguato bisognerebbe dire che cosa propriamente significa  «luce» e qual è il grado di luminosità di cui la risposta si  avvale. Da millenni l’uomo tenta di dirlo.)   In che consiste l’«identità» dell’Europa? È stato indicato in  molti modi. Come prendere posizione? Innanzitutto va messa  in luce l’indicazione che è in grado di includere tutte le altre e  che non è inclusa da nessun altra. È quindi inevitabile che  essa sia la più «astratta». In quanto è comune alla maggiore o  minore «concretezza» di tutte le altre, tale indicazione sta  infatti al di sopra della concretezza - senza tuttavia ignorarla.  L’«astratto» non è qualcosa di negativo; è anzi il segreto in cui  è riposta l’adeguatezza della diagnosi.   Si tratta di portare alla luce ciò che è comune all’immensa  varietà di eventi da cui è costituita la storia europea. Oggi il    86     sapere diffida di ciò che è comune. Si ritiene, oggi, che la  forma più rigorosa del sapere sia la specializzazione scientifica  - che, appunto, è l’opposto della cura per ciò che è comune.  Ma dal comune non ci si può liberare. Ogni sapere autentico -  si dice - dev’essere specialistico e quindi il senso dell’Europa  si spezza nella molteplicità di sensi che appaiono all’interno  delle varie forme della specializzazione e del frammento. Ma  se solo il frammento ha senso - se cioè il senso è  frammentario -, allora tutti i frammenti hanno questo di  inevitabilmente comune : di essere, appunto, dei frammenti.   Inoltre l’Europa è, originariamente ed essenzialmente,  tendenza e vocazione al frammento e all’isolamento delle cose.  A un certo momento, in Grecia si incomincia a pensare che  una «cosa» è «ciò che è» - l’«ente» - ed è come ciò che non  era e non sarà, ossia è come ciò che era nulla e tornerà a  esserlo. Ma ciò che è stato nulla non può avere alcuna  relazione con ciò che già esiste, instaura relazioni provvisorie  e accidentali che verranno meno quando ciò che è non sarà  più.   Questo significa che, nonostante ogni intenzione in senso  contrario, ogni cosa è un frammento, è isolata da ogni altra.  La specializzazione scientifica ha il proprio fondamento nella  filosofia greca, che stabilisce una volta per tutte il significato  delVesser-cosa, con un gesto che si rende sempre più presente  e operante in ogni azione e in ogni conoscenza: in ognuno  degli infiniti eventi, grandi e piccoli, che formano la storia  dell’Europa, dapprima, e, ormai, dell’intero pianeta.   In questo significato consiste Yidentità dell’Occidente. A  esso sono essenzialmente legate la volontà di potenza e la  violenza estrema. Si può voler annientare qualcosa solo se si  crede che le cose (uomini e enti non umani) siano di per sé  stesse figlie del niente e a esso destinate. E la violenza    87     dell’annientamento inseparabile dalla violenza della creatività.   Dapprima l’Occidente non si accorge del proprio essere  volontà separante e costruisce le grandiose cattedrali della  volontà unificante: il senso filosofico del Tutto, che raccoglie  in sé le differenze e le opposizioni più marcate, il «Dio» di  tutte le cose, l’eguaglianza cristiana tra gli uomini in quanto  figli di Dio, la volontà di essere comprensibile da tutti, lo  Stato che è il Dio in terra e dunque principio di unità,  l’economia di mercato che mette in comunicazione i popoli,  la scienza che, prima di diventare specializzazione, vuol essere  a lungo unificazione delle leggi della natura, il comuniSmo  che si rivolge ai lavoratori di tutto il mondo perché si  uniscano, la «globalizzazione» del nostro tempo: sono alcuni  degli esempi più rilevanti della volontà di unire ciò che,  essendo stato concepito e vissuto come separato, non può  essere unito.   È innanzitutto il sottosuolo del pensiero filosofico del  nostro tempo a portare al tramonto la volontà unificante della  tradizione. Dio muore e rimane la «terra infranta». Su questa  base, non solo ogni «integrazione» e «interazione» tra i  popoli, ma anche tra gli individui dello stesso popolo, della  stessa città, della stessa famiglia è velleitaria. Rimedi  provvisori.   Auctoritas, non veritasfacit legem (si dice da Hobbes a Cari  Schmitt). Anche su base linguistica, lex è l’ordinamento  imposto alle cose, che quindi le costringe a stare insieme. La  «verità» è il mondo in cui nella tradizione occidentale si vuole  legare ciò che è vissuto e inteso come originariamente  separato. La verità è quindi destinata al tramonto. E auctoritas  significa «potenza» (anche qui la linguistica lo conferma). La  legge è il risultato dell’ auctoritas, ossia della costrizione che  lega insieme le cose.    88     La potenza della legge può essere maggiore o minore. Oggi  la potenza maggiore è la tecnica guidata dalla scienza  moderna. Il sottosuolo della filosofia del nostro tempo ha  distrutto la «verità» e quindi autorizza la tecnica a facere  legem. La specializzazione scientifica, Lisciamento e il  frammento sono legati alla costrizione che con la propria  potenza unisce i frammenti del mondo. Qui è il fondamento  di ciò che vien chiamato «globalizzazione». Ma se ogni  volontà di unire ciò che non può essere unito è una  costrizione destinata, prima o poi, a fallire, si apre il problema  della configurazione dell’evento che è destinato a lasciarsi alle  spalle la stessa civiltà della tecnica.    89     IV   Diritto, filosofia, tecnica   1. La filo sofia 1   Stiamo parlando a un pubblico composto soprattutto da  giuristi. Che però sono anche filosofi del diritto e quindi  comprendono bene l’opportunità che nel mio intervento  tenga conto anche delle sollecitazioni che prima mi sono state  rivolte.   Innanzitutto è il caso che ci si chieda che cosa significhi  «filosofia». Se già qui non ci intendiamo, faremo poca strada  insieme. Ne facciamo ben poca se concepiamo la filosofia  come un sapere che dipende dalla scienza, se riteniamo cioè  che la filosofia, per costituirsi, debba incominciare col tener  conto di quanto si afferma nell’ambito del sapere scientifico.  Alla filosofia è nota l’esistenza del mondo, e nel mondo c’è  anche la scienza; ma ciò non significa che la filosofia debba  fondarsi sulle sapienze del mondo (oltre alla scienza ce ne  sono anche altre).   Se ha bisogno di fondarsi sulla scienza, meglio lasciarla  perdere, la filosofia; che non potrebbe andare molto oltre una  specie di ricapitolazione del sapere scientifico. Meglio lasciar  parlare questo sapere. Prima è venuto fuori il nome di Searle.  Che, anche lui insieme a moltissimi altri (in ogni campo), dà  appunto per scontato che esista quella forma di storia del  mondo dove, in un primo tempo, l’uomo ancora non esiste,  seguita da un tempo nel quale l’uomo esiste, e infine da un  tempo in cui, con ogni probabilità, l’uomo non ci sarà più e il  mondo continuerà a esistere più o meno a lungo. Certo, la  scienza procede adottando la convinzione che la realtà esista  indipendentemente dalla conoscenza umana di essa, breve  parentesi nel corso degli eventi. Spesso (ma con eccezioni) gli  scienziati (per esempio Max Planck) lo affermano    90    esplicitamente. (Però Bertrand Russell, senza essere idealista,  ammette la possibilità che il mondo intero sia incominciato a  esistere da pochi istanti, corredato di tutte le esperienze che  ne abbiamo, di tutti i nostri ricordi del suo più lontano  passato e con tutte le aspettative e i progetti riguardanti il  futuro.) Per Searle, poi, uno che non lo creda è un minus  habens. Non credo tuttavia di esserlo, se affermo che la  filosofia non può presupporre alcune delle pur mirabili  costruzioni del sapere scientifico, anche perché si tratta di un  sapere che, come l’amico Giorello sa benissimo, oggi  riconosce il proprio carattere ipotetico.   Ora, sarebbe sorprendentemente improprio che si desse  credito (come mi sembra che Ferraris finisca col fare) al  «senso comune», e lo si sollevasse al rango di verità  incontrovertibile, là dove il sapere scientifico, perfino il sapere  logico-matematico, mette in questione la propria  incontrovertibilità, la propria verità assoluta. La filosofia è  critica radicale, radicale problematizzazione del sapere, e  quindi non può procedere dando per scontati i risultati della  scienza (o di qualsiasi altra sapienza, quella filosofica  compresa). Per questo non è il caso di farsi riguardo ad  affermare che la filosofia, autenticamente intesa, richiede una  concettualità estremamente più radicale di quella scientifica.  Altrimenti la filosofìa si limiterebbe a essere (ripeto) un  panorama del sapere scientifico, o una specie di pattuglia in  avanscoperta dove alcuni audaci, o incoscienti, si inoltrano  nel deserto per tentar di vedere di sfuggita e  approssimativamente come stanno le cose, in attesa che poi  arrivino le truppe regolari, quelle della scienza, che  stabiliscono come le cose effettivamente stanno e rimandano  nelle retrovie le avanguardie filosofiche. No: sin dall’inizio la  filosofia ha inteso essere 1’evocazione dell’innegabile, della  verità in quanto innegabilità assoluta. Anche quando si    91     contrappongono i «fatti» alle «interpretazioni» si tende a  considerare il «fatto» come l’innegabile, come ciò che non  può essere negato, mentre l’«interpretazione» - lo richiamava  il professor Zaccaria - rende sì particolarmente significativo il  «fatto», ma immergendolo in un alone di controvertibilità, di  non-verità, per cui da ultimo, nel confronto, è il «fatto» che  prevale - e prevale in quanto, appunto, lo si ritiene  innegabile.   La filosofia evoca il senso radicale dell’innegabile unendolo  al suo carattere di visibilità. Non c’è bisogno di leggere  Heidegger: basta un vocabolario per sapere che i Greci  chiamano alétheia la verità. A-létheia significa, alla lettera,  «non nascondimento». Ciò che è vero è il non nascosto.  Heidegger però non rileva che, per il pensiero greco la verità,  nel suo senso radicale, non è solo alétheia, ma epistéme tes  alethéias («scienza della verità» è una delle traduzioni correnti  di questa espressione). Ciò che si disvela neW alétheia è il  contenuto assolutamente stabile (epistémonikón ). Il tema -ste  di epi-stéme, dalla radice indoeuropea -sta, nomina appunto  lo stare di ciò che, disvelato, si impone «su» (epi) tutto ciò che  vorrebbe spingerlo a essere diversamente da come è e sta. Si  può dire che epistéme tes alethéias esprime sia un genitivo  oggettivo (il sapere assolutamente stabile che ha come  contenuto la verità), sia un genitivo soggettivo (la stabilità  assoluta che è il contenuto del disvelamento). Questo senso  radicale della verità - il contenuto manifesto che sta e che,  proprio perché sta, è innegabile - è evocato una volta per  tutte dal pensiero greco. «Una volta per tutte», anche perché  quando oggi, per esempio nel sapere scientifico o filosofico, si  dichiara di non voler proporre verità assolute,  incontrovertibili, definitive, ci si riferisce appunto al senso  radicale della verità che i Greci hanno per la prima volta  evocato, e da esso ci si allontana.    92     A questo punto, che l’innegabile sia Yalétheia-epistéme, ciò  che si mostra nella sua stabilità, significa che ciò che oggi è  chiamato «coscienza» è il luogo dell’innegabile. È nella  coscienza che le cose escono dal loro nascondimento e si  rendono visibili. I Greci chiamano phàinesthai la visibilità,  l’ apparire (phàinesthai deriva da phos, «luce», e il visibile,  essendo ciò che sta in luce, garantisce la propria esistenza).   Ma come la semplice affermazione che X è X, o che a X non  possono convenire Y e non-Y, non è sufficiente per poter  affermare che il principio di identità e di non contraddizione  sono innegabili, così la semplice affermazione che qualcosa  appare non è sufficiente per rendere innegabile il principio  della fenomenologia - che in effetti non riesce a essere che un  presupposto, un dogma. Perché ciò che appare non può  essere negato? Con questa osservazione alludo alla necessità  di procedere oltre l’immediata elevazione del visibile al rango  dell’innegabilità. Il senso greco deìYalétheia (da cui discende il  «principio di tutti i principi» della fenomenologia) è  ineliminabile, ma non può riuscire a essere l’assoluta stabilità  e innegabilità richieste dal pensiero filosofico.   Quando, sul «Corriere della Sera», intervenni nella  polemica sul cosiddetto «nuovo realismo» (cfr., nel presente  saggio, sezione seconda, cap. 8) intendevo mostrare quali  siano le possibilità del realismo e dell’idealismo, ossia di  forme filosofiche che si presentano all’interno della storia  dell’Occidente. I miei scritti indicano tuttavia la dimensione  che mostra perché tale storia è il culmine de\Y alienazione  della verità. I Greci evocano cioè una volta per tutte il senso  della verità, ma aprono anche la strada al pensiero in cui si  intende come verità ciò il cui contenuto è, in modo radicale,  l’alienazione della verità. In quel mio intervento sottolineavo  la potenza concettuale di Giovanni Gentile; ma non,  ovviamente, perché il pensiero di Gentile sia libero da    93     quell’alienazione. Ciò a cui quegli scritti si rivolgono è  abissalmente lontano dal pensiero di Gentile. La potenza  concettuale del pensiero di Gentile è massima perché tale  pensiero è massimamente rigoroso nell’errare. Non tenendo  conto di questa potenza dell’errare, il cosiddetto «nuovo  realismo» (all’estero e in Italia) non fa cheriproporre (sembra  senza rendersene conto) quel realismo della tradizione greco-  medioevale che è stato messo in questione, e fuori gioco, dallo  sviluppo fondamentale della filosofia moderna da Cartesio a  Kant, all’idealismo fino, appunto, aH’idealismo gentiliano.  Giacché - qui entriamo nel vivo della questione - più decisivo  del problema del rapporto tra realismo e idealismo o tra  realismo e ermeneutica, ben più decisivo è il problema della  sorte della verità lungo la storia dell’Occidente. Infatti, altro è  il contenuto che la verità (l’incontrovertibile, l’innegabile) ha  assunto nella tradizione dell’Occidente, altro è il contenuto  che la verità è venuta in seguito ad assumere - e  inevitabilmente.    94     2. La giustizia   Queste considerazioni coinvolgono anche la dimensione  del pensiero giuridico. Quando si confronta il fatto con  l’interpretazione, il fatto si presenta come ciò a cui per lo più  compete il carattere dell’innegabilità, della verità. Tuttavia in  campo giuridico il problema del rapporto fatto-  interpretazione riguarda l’esigenza di porre tale rapporto in  relazione con la norma : l’accertamento del fatto intende  stabilire la compatibilità del fatto con la norma. E  l’accertamento della convergenza o divergenza del fatto  rispetto alla norma non è fine a sé stesso, ma è operato perché  sia fatta giustizia. Il problema del rapporto fatto-norma rinvia  al problema della giustizia; e tale problema riceve oggi (penso  ad esempio a Rawls e a Kelsen) una soluzione essenzialmente  diversa da quella che gli viene data lungo la tradizione  filosofico-giuridica.   Qual è la definizione tradizionale di «giustizia»? Nella  Summa Theologica Tommaso d’Aquino scrive: «Iustitia est  constans et perpetua voluntas ius suum unicuique tribuendi»,  «la perpetua e costante volontà di assegnare a ciascuno il suo  ius». Una definizione in seguito continuamente ripetuta  (qualche volte con l’infinito del verbo invece del gerundio).  Sono note le critiche che sono state rivolte a questa  definizione - non solo tomistica, ma classica - di «giustizia».  Essa sarebbe un circolo vizioso perché nel definiens si  ripresenterebbe il definiendum (iustitia è il definiendum, ma  ius, che compare nel definiens sarebbe daccapo identico al  definiendum).   Eppure questa definizione non è un circolo vizioso. Si rifa a  Platone, al secondo e quarto libro della Repubblica : «giustizia»  è, sì, che «ciascuno non abbia ciò che è di altri e non sia  privato di ciò che è suo (IV, 433 e), ma quel che è decisivo è    95     che ciò che è «suo» è ciò che gli spetta in relazione  all’Ordinamento assoluto della realtà che è compito  dell’ epistéme della verità mostrare, indicando pertanto in che  luogo di tale Ordinamento si trova ogni uomo e ogni cosa. La  verità mostra incontrovertibilmente in che cosa consistono gli  uomini e i diversi tipi dell’umano, e la giustizia è il  riconoscimento, nel conoscere e nell’agire, di ciò che, in  verità, ogni uomo è e di ciò che non può essere perché, in  verità, è di altri. Lo ius che compare nel definiens della  definizione qui sopra menzionata non è dunque la semplice  ripetizione della iustitia in quanto definiendum. Poiché  Yepistéme tes alethéias crede di poter mostrare in modo  incontrovertibile l’esistenza di un Ordinamento assoluto e  immutabile in cui ogni cosa prende posto (sì che ogni cosa è  quello che essa è solo in quanto ha il posto che le spetta  all’interno di tale Ordinamento), la giustizia è appunto il  riconoscimento di ciò che incontrovertibilmente spetta a ogni  cosa, e pertanto quella definizione della iustitia non è un  circolo vizioso. (Né ciò significa che lungo la storia del  pensiero filosofico quell’Ordinamento abbia avuto sempre la  stessa configurazione.)   Questa grandiosa concezione della giustizia illumina e  domina anche la dimensione giuridica della tra dizione  occidentale. Uno dei temi centrali in sede giuridica è oggi il  rapporto tra «diritto naturale» e «diritto positivo». Il diritto  naturale è il modo in cui l’Ordinamento della realtà, mostrato  dall’epistéme della verità, si riflette nei rapporti tra ciò che  nella società accade, i «fatti», e le norme che la regolano. Tali  norme si inscrivono in quell’ordinamento e stabiliscono ciò  che spetta a ciascuno aH’interno di esso, ossia ciò che a  ciascuno spetta «per natura» - la «natura» non essendo altro  che tale Ordinamento. Si aggiunga che se il diritto naturale  afferma che l’uomo ha un posto che gli spetta    96     necessariamente, per natura, nell’Ordinamento complessivo e  incontrovertibilmente immutabile della realtà, allora non le  «interpretazioni», ma le constatazioni (ossia ciò che è ritenuto  «constatazione»), qui, hanno il compito di accertare se i  «fatti» (ciò che accade) siano o no compatibili con le norme.   Al diritto naturale si contrappone oggi il «diritto positivo».  Questa contrapposizione è la conseguenza, in campo  giuridico, di un evento grandioso e spaesante: il tramonto  delle forme sapienziali e pratiche della tradizione  dell’Occidente, il tramonto cioè al cui fondamento agisce il  tramonto dell ’epistéme della verità e dell’Ordinamento  immutabile che essa ha inteso mostrare.   Essenzialmente più decisiva del rapporto tra idealismo (o  pensiero ermeneutico) e realismo - ognuno dei quali intende  valere come il contenuto della verità - è, dicevo prima, la  domanda: «Che ne è della verità?»; e quindi: «Qual è la storia  della verità?». Infatti il problema della contrapposizione tra  realismo e idealismo può essere risolto solo accertando perché  si debba tener ferma la verità dell’uno piuttosto che la verità  dell’altro. Tutto ciò significa che il problema relativo a quella  contrapposizione, e pertanto alla questione del rapporto tra  fatti e interpretazioni, rinvia da ultimo alla questione di quale  sia il contenuto che è necessario porre come verità, ossia come  incontrovertibilità.   Vado richiamando da tempo che l’autentico e profondo  avversario della tradizione occidentale non è il relativismo  (come ad esempio la Chiesa cattolica invece ritiene). Al di  sotto del rifiuto appariscente ma impotente della tradizione  occidentale, proprio del relativismo, al di sotto di tale rifiuto,  ossia nel luogo che vado chiamando «sottosuolo filosofico del  nostro tempo», agisce un pensiero tendenzialmente nascosto,  ma capace di mostrare Vimpossibilità che l’Ordinamento    97     immutabile e divino della tradizione sia il contenuto  dell’ epistéme della verità. Fra i pochi abitatori del  «sottosuolo», Giovanni Gentile, Nietzsche, e ancor prima di  loro Leopardi. Nell’ epistéme della verità quell’ordinamento  immutabile domina il mutamento degli enti del mondo,  domina cioè il loro uscire dal nulla e il loro ritornarvi.  L 'epistéme è il riconoscimento originario dell’esistenza del  mutamento così inteso. Ma è appunto sul fondamento di tale  riconoscimento che nel «sottosuolo» essenziale del nostro  tempo si mostra (ne accenneremo tra poco) Vimpossibilità  dell’esistenza di ogni dimensione immutabile. Ogni realtà e  ogni sapienza sono pertanto storiche, temporali, contingenti,  finite. Da ciò segue, e inevitabilmente, il prevalere del diritto  positivo sul diritto naturale, cioè segue la necessità che ciò che  spetta a ciascuno e ciò che non deve essergli sottratto è tale  non assolutamente, ma in relazione a una certa epoca storica  dove le forze sociali che sono riuscite a imporsi sulle altre  stabiliscono (con una voluntas che quindi non è constans et  perpetua ) che cosa sia ciò che in tale epoca spetta a ciascuno  (ius suum unicuique tribuendi) e ciò che non gli può essere  tolto. Hanno carattere storico, pertanto, non solo i fatti, ma  anche i criteri in base ai quali i fatti sono individuati,  interpretati e giudicati. E, questo, sia che i fatti vengano sia  che non vengano considerati come indipendenti dal loro  essere interpretati. Il tramonto di ogni realtà e sapienza  immutabile è quindi l’orizzonte comune al realismo e  all’idealismo - la cui contesa si risolve peraltro in favore  dell’idealismo solo qualora quest’ultimo si sollevi alla  dimensione che l’attualismo gentiliano (come altrove ho  mostrato) ha saputo indicare.    98     3. Il «sottosuolo» filosofico del nostro tempo e il positivismo  giuridico   Se si vuole richiamare in breve il senso essenziale della  potenza concettuale del «sottosuolo» filosofico del nostro  tempo (degli ultimi due secoli, si potrebbe dire) - se lo si  vuole richiamare in breve e in una forma che possa valere  come tratto comune agli abitatori del «sottosuolo» (che  d’altra parte hanno elaborato in modi specifici e differenziati  tale tratto) -, si deve innanzitutto richiamare la convinzione  di fondo che incomincia con la vita stessa dell’uomo sulla  terra, e che lungi dall’esser qualcosa di nascosto in un  sottosuolo sta invece alla luce del sole, mostrando ciò che non  viene in alcun modo messo in questione lungo l’intera storia  dell’uomo: si tratta della convinzione che la terra si trasforma,  e l’uomo con essa. La trasformazione è il diventar altro da  parte delle cose, il loro diventare altro da ciò che dapprima  esse sono. Le «teogonie» e le «metamorfosi» confermano il  carattere archetipico di questa convinzione.   Con l’avvento del pensiero filosofico il diventar altro da  parte delle cose è interpretato in senso ontologico : il loro  diventar altro si spinge fino al loro diventare  quell’assolutamente altro che è il loro non essere, ossia il loro  esser nulla, e le cose, provenendo dal nulla, diventano  quell’assolutamente altro dal nulla che è il loro essere, ossia il  loro esser enti. La filosofia evoca pertanto, una volta per tutte  nella storia dell’Occidente e ormai del pianeta, non solo il  senso della verità come assoluta incontrovertibilità, come  epistéme tes alethéias, ma anche il senso ontologico del  diventar altro delle cose; e una volta per tutte, lungo quella  storia, l ’epistéme della verità pone tale senso come il proprio  contenuto originario.   È a partire da questo contenuto che, nella tradizione,    99     Yepistéme della verità si porta oltre di esso («oltre», cioè metà,  nella lingua greca) e si costituisce come metafisica, ossia come  sapere che mostra la necessità di affermare, «al di là» delle  trasformazioni del mondo, 1’esistenza dell’Ordinamento  immutabile e divino dal quale il mondo è regolato e per il  quale il diritto naturale si fonda su di un’etica assoluta. Il  senso ontologico del diventar altro diventa in tal modo  l’evidenza suprema delVintero Occidente: sia della tradizione  dell’Occidente, sia del sottosuolo filosofico del nostro tempo,  sia degli amici sia dei nemici di Dio. Ma è questo sottosuolo e  il carattere della sua inimicizia verso il divino a costituire la  forma più radicale e rigorosa della fedeltà a ciò che lungo  l’intera storia dell’Occidente e ormai del pianeta - dunque  anche all’interno del sapere scientifico, religioso, artistico e  ormai dello stesso senso comune - è ritenuta la suprema  evidenza del senso ontologico del diventar altro. (È per questa  fedeltà che il diritto positivo si fonda su una forma storica di  etica, su di una Grundnorm, che è tale solo in relazione a una  certa epoca storica e che quindi - la tesi è resa esplicita da  Kelsen - può avere qualsiasi contenuto.)   Ebbene, da un lato, l’Occidente è convinto, sin dai suoi  primi pensatori, che l’evidenza suprema sia il provenire degli  enti dal nulla e il loro ritornarvi (e si può dire che anche  Parmenide lo creda: nel senso che egli afferma l’esistenza di  una regione dove si crede evidente il provenire e il ritornare  nel nulla da parte degli enti, una regione che tuttavia egli  qualifica come illusione, dóxa). All’interno di questa  convinzione il futuro è «l’ancor nulla», il passato è «formai  nulla». D’altra parte, in ogni sua configurazione, Yepistéme  della verità, che lungo la tradizione dell’Occidente intende  affermare l’esistenza di un Ordinamento (o Legge)  immutabile, non può ritenere che tale Ordinamento domini  soltanto il presente, ma deve ritenere che il suo dominio si    100     estenda anche alla totalità del futuro e del passato, cioè che  futuro e passato non possano sottrarsi al suo dominio e alla  sua legislazione. Non può cioè ritenere che dall’ancor nulla  del futuro possano provenire o che dall’ormai nulla del  passato possano ritornare cose che si sottraggono a tale  Ordinamento e siano per esso qualcosa di imprevisto.  Nemmeno la libertà dell’uomo e la contingenza delle cose  riescono a distruggere realmente la Legge. La Legge  deirimmutabile è universale (e chi ha creduto di poterla  violare si è ingannato, perché alla fine è raggiunto dalla  Giustizia e dalla Punizione).   Ciò significa che l’Ordinamento immutabile invade l’ancor  nulla del futuro e l’ormai nulla del passato e gli prescrive tutto  ciò che da essi può veramente (e non apparentemente e  provvisoriamente) generarsi e tutto ciò che a essi è destinato  ad appartenere. Ma questa invasione del nulla da parte  deH’Immutabile rende essente il nulla, lo entifica e quindi  cancella o rende apparente il senso ontologico del diventar  altro, il senso che sussiste solo in quanto è un diventare dal  nulla e un diventare nulla. E tale entificazione del nulla non  soltanto nega l’evidenza del diventar altro l’evidenza che  Yepistéme stessa dell’Immutabile è essa per prima a  riconoscere -, ma nega e sopprime anche quella differenza tra  il cominciamento e il risultato del divenire, senza la quale  nessun divenire, e tanto meno il divenire ontologicamente  inteso, può esistere. Così parla il «sottosuolo» essenziale (cioè  filosofico) del nostro tempo.   Se una qualsiasi Realtà o una qualsiasi Verità immutabile  esistono, è impossibile che esistano quel divenire e quella  volontà di far divenire le cose che per l’intera storia  dell’Occidente (dunque anche per la tradizione epistemica)  sono l’originaria, suprema e innegabile evidenza. È appunto  nel «sottosuolo» essenziale del nostro tempo che l’Occidente    101     giunge a scorgere, sul fondamento di tale evidenza, che  l’autentica realtà e l’autentica verità immutabile sono il  divenire di ogni realtà e di ogni verità immutabile e pertanto  sono la volontà sempre più potente di trasformare il mondo.  Non rendendosi conto del proprio carattere essenzialmente  antinomico, la tradizione epistemico-metafisico-teologico-  ontologica dell’Occidente elabora la pur potente struttura  concettuale in cui si intende mostrare che gli enti divenienti  esistono solo se esiste un Ente immutabile; gli abitatori del  «sottosuolo» essenziale del nostro tempo, scorgendo il  carattere antinomico della tradizione, si rendono conto che  gli enti divenienti possono esistere solo se non esiste alcun  Ente immutabile. E questa è conseguenza necessaria della fede  che il divenire sia l’evidenza originaria e innegabile. Anche se  il «sottosuolo» non ama questa espressione, esso è dunque la  forma più coerente dell’ epistéme tes alethéias, perché esso  mostra che il contenuto d éìl y epistéme incontrovertibile non è  il rapporto tra il divenire e l’Immutabile, ma l’esclusione  necessaria di ogni Immutabile. Appunto in forza di questa  necessità tale «sottosuolo» non ha nulla a che vedere con le  ingenuità del relativismo e dello scetticismo.   Dalla potenza concettuale del «sottosuolo» deriva  l’impossibilità di ogni «diritto naturale»; il prevalere del  «diritto positivo» è inevitabile. Il tramonto della forma  tradizionale dell’ epistéme (che si dispiega dai Greci a Hegel) è  cioè anche il tramonto della configurazione giuridica di tale  forma, ossia è il tramonto del «diritto naturale». Il senso  autentico del conflitto tra diritto naturale e diritto positivo  può essere quindi compreso solo se lo si vede inscritto nella  grandiosa vicenda che conduce al tramonto ormai planetario  degli Immutabili.   Tuttavia, anche per il positivismo giuridico la giustizia è  volontà di ius suum unicuique tribuere: nel senso che ciò che    102     spetta a ciascuno non è quanto viene mostrato dalYepistéme  della verità, ma ciò che, all’interno di un certo gruppo sociale  e in un determinato periodo storico, per le norme vigenti  spetta a ciascuno. Ma poi, sul fondamento della distruzione  dell ’epistéme della verità, a ciascuno e a ogni cosa di ogni  luogo e di ogni epoca viene riconosciuto il loro essenziale  divenire, il loro essenziale esser qualcosa che esce dal proprio  nulla e vi ritorna; sì che la giustizia consiste nel salvaguardare  e assecondare il divenire delle cose e del mondo umano e il  loro diritto di oltrepassare ogni limite assoluto (e di non  costituire un limite siffatto). In questa situazione, ogni forza si  propone di prevalere sulle altre, ogni individuo sugli altri. Ma  le grandi forze che guidano il mondo e gli individui si servono  tutte, per prevalere, della tecnica moderna; e poiché la tecnica  è destinata a diventare, da mezzo, scopo di tali forze, essa  impedisce che l’anarchia totale prenda piede e, subordinando  a sé ogni forza, stabilisce una gerarchia, riconosce a ogni forza  e a ogni volontà di potenza ciò che loro spetta alFinterno di  tale gerarchia e pertanto realizza la forma suprema di giustizia  a cui l’Occidente è destinato a pervenire, la suprema volontà  di ius suum unicuique tribuere.    103      4. Realismo e idealismo   Quanto alla contrapposizione tra realismo e idealismo  (nella quale è coinvolto il rapporto tra fatti e interpretazioni),  ho già rilevato che essa si inscrive nella vicenda, qui sopra  tratteggiata, del tramonto degli Immutabili. Aggiungo che tale  contrapposizione presenta, lungo la storia del pensiero  occidentale, una complessità ben più profonda del modo in  cui il realismo viene oggi sostenuto in ambito «analitico» e  «continentale» e del modo in cui in tali ambiti Fidea-lismo  viene conosciuto. Ad esempio si tende a ignorare la  «necessità» che conduce dal realismo premoderno alla  riflessione cartesiana sull’ impossibilità che - se la «vera» realtà  è esterna al pensiero e indipendente da esso (come vogliono il  realismo premoderno e lo stesso Cartesio) - la realtà pensata  (il cogitatum), in quanto pensata (la realtà che peraltro è il  mondo in cui l’uomo vive), sia indipendente dal pensiero. E si  tende a ignorare l’ulteriore «necessità» (mostrata  dall’ideahsmo) che la cosiddetta realtà esterna e indipendente  dal pensiero sia pur sempre un pensato e sia dunque un  concetto autocontraddittorio. (Nella tradizione l’«idea» è «ciò  attraverso cui è conosciuto l’oggetto reale», essa è id quo  objectum cognoscitur; Cartesio mostra la necessità di  intendere l’idea come «ciò che è conosciuto, id quod  cognoscitur, ma che, ancora, lascia al di là di sé la vera realtà  l’«essere formale»: Kant vede l’impossibilità di conoscere la  vera realtà, la «cosa in sé»; l’idealismo, rilevando  l’autocontraddittorietà di ogni concetto di cosa in sé e di  realtà al di là del pensiero, mostra la necessità che Vobjectum  del pensiero sia «idea», ma mostra insieme che l’idea è la  stessa realtà in sé stessa, la stessa cosa in sé. Lo stesso sviluppo  si ripropone nella riflessione sul linguaggio, che conduce alla  cosiddetta «svolta linguistica»; lo sviluppo dove, dapprima,  nella tradizione, la parola è intesa come id quo objectum    104     dicitur - e Yobjectum sta al di là della parola poi ci rende  conto che, in quanto detto, è Yid quod dicitur a dover essere  Yobjectum della parola, sì che il linguaggio parla del  linguaggio, ma, ancora, lasciando al di fuori di sé la «cosa»;  infine si intrawede che anche la «cosa» è in qualche modo  detta e pertanto, non la cosa esterna al linguaggio, ma il  linguaggio stesso è la «cosa», che peraltro continua a esser  concepita come ciò che esce dal nulla e vi ritorna).   Ma anche il realismo premoderno è ben più complesso  delle sue attuali configurazioni. Per il realismo greco, ad  esempio, è propriamente solo quando Yepistéme della verità  ha dimostrato l’esistenza della Realtà immutabile, è solo allora  che può essere affermata l’indipendenza della realtà dalla  conoscenza umana. Ne\YEtica Nicomachea (se ricordo bene,  in 1139 b), si dice che «quello che sappiamo epistemicamente  non può essere diversamente da com’è; ciò che può essere  diversamente da come è, quando esca dall’osservazione [ci]  rimane nascosto se esso sia o non sia». La potenza di questa  affermazione è tale da prefigurare e contenere l’essenza stessa  del pensiero fenomenologico dei nostri tempi. Il testo greco  dice: ho epistàmetha, che ho tradotto con «quello che  sappiamo epistemicamente», ossia ne\Yepistéme della «verità».  Ciò che sappiamo in modo epistemico met’endéchesthai àllos  échein, «non può essere diversamente [da come è]». Questo  non poter essere diversamente è l’innegabilità,  l’incontrovertibilità, la definitività deìYepistéme della verità. È  in modo assoluto, non relativamente, che ciò che sappiamo in  modo epistemico non possa essere diversamente; esso non  può assolutamente essere diverso da ciò che l’epistéme è. Il  testo continua riferendosi a tà d’endechòmena àllos, ossia alle  «cose che è possibile che stiano diversamente» (e che quindi  non sono contenuti àe\Yepistéme), e dice che, «quando escono  dall’osservazione» ( hótan éxo tou theoreìn génetai), allora    105     lanthànei, cioè «rimane nascosto», ei estin e mé, «se esse siano  o non siano». L’«osservazione», theorein, è la nostra visione  delle cose del mondo, è il loro apparire, mostrarsi, il  phàinesthai (Cartesio lo chiamerà cogitare). Ho tradotto  theorein con «osservazione» perché theorein è costruito su  theorós, ossia lo «spettatore», «colui che osserva e vede con i  propri occhi». Quando le cose non epistemicamente note  escono dall’apparire rimangono, appunto, nascoste, e quindi  rimane nascosto se continuino a esistere o no. Ciò che invece  continua a esistere anche quando non appare nella  conoscenza umana è l’Ente immutabile la cui esistenza è  dimostrata, all’interno deWepistéme, sul fondamento del  principium firmissimum che nega la contraddittorietà degli  enti.   D’altra parte, l’apparire degli enti che possono essere  diversamente è l’apparire del loro diventar altro; e tale  apparire è ciò che innanzitutto il pensiero greco considera  come l’evidenza originaria e supremamente innegabile e  quindi come appartenente eàYepistéme della verità. Ciò si  spiega, perché se quelli divenienti sono gli enti che possono  diventar altro, tuttavia che essi possano diventar altro ed  essere diversamente da come sono è qualcosa che, appunto  perché appare, ossia è originariamente evidente e innegabile,  non può diventar altro e non può essere diversamente da  come è. Appunto per questo Leibniz potrà considerare come  «verità» (ossia come epistéme della verità) non solo le «verità  di ragione» (riguardanti ciò che non può essere diversamente  perché è contraddittorio che lo sia), ma anche le «verità di  fatto» (che appunto riguardano ciò che può essere  diversamente perché non è contraddittorio che lo sia).   Se la scienza afferma che il mondo esiste prima dell’uomo e  continuerà a esistere anche quando l’uomo non ci sarà più,  tuttavia la scienza è una fede; certo, oggi, la più potente. Ma la    106     potenza non è la verità. Il mondo che esisterebbe  indipendentemente daH’«osservazione» e dallo  «sperimentare» non è comunque qualcosa di osservabile e di  sperimentabile. Questo anche se all’interno delle regole della  fede scientifica si devono trarre (in base a certe altre regole  non incontrovertibili) certe conseguenze, che conducono alla  tesi dell’indipendenza del mondo dall’osservazione umana.  Ma, appunto, si tratta di inferenze compiute all’interno di una  fede.    107     5. Uno sguardo al di là della fede delVOccidente   Sul fondamento della convinzione che le cose del mondo  diventano altro è inevitabile che prevalga la sapienza del  «sottosuolo», in cui si mostra l’impossibilità di ogni  Immutabile e quindi di ogni verità incontrovertibile che, da  un lato, si ponga come Legge assoluta del divenire, e dall’altro  differisca dalla verità assoluta che si mostra nel «sottosuolo».  Ma il destino della verità (così viene chiamato nei miei scritti)  sta al di là della fede nel diventar altro delle cose e degli enti,  ossia al di là deWintera storia del mortale e dell’Occidente,  dunque al di là dello stesso processo che conduce  dall ’epistéme metafisica della verità al sottosuolo essenziale  del nostro tempo. Sta pertanto al di là dell’inevitabile  prevalere, nella storia dell’Occidente, della negazione di ogni  verità immutabile. Il destino sta «al di là», nel senso che  contiene, mostrandola, la storia del mortale e dell’Occidente.  Il destino è l’apparire del senso autentico della necessità e  della necessità che ogni essente sia eterno. E la testimonianza  del destino non è né realismo né idealismo, perché sia il  realismo sia l’idealismo affermano che alcune dimensioni  dell’ente possono esistere anche se altre non esistono ancora o  non esistono più; laddove, poiché tutto è eterno, né l’uomo  può esistere senza il mondo, né il mondo può esistere senza  l’uomo e senza la più «irrilevante»delle sue parti.   Poiché si obbietta - come anche in questo nostro incontro  è accaduto - che l’affermazione dell’eternità di ogni essente  nega ciò che incontrovertibilmente appare, ossia nega il  diventar altro delle cose, concludo accennando al motivo di  fondo per il quale l’affermazione dell’eternità di ogni essente  non è in contrasto con il contenuto che appare  incontrovertibilmente, e che, in quanto tale, appartiene alla  struttura del destino - il contenuto la cui eco si fa peraltro    108     sentire nei concetti di «esperienza», «osservazione», «dato»,  «fenomeno» ecc.   Quando si crede che gli enti che si manifestano non siano  stati (totalmente o in parte) e tornino a non essere  (totalmente o in parte), quando cioè si crede che escano dal  nulla e vi ritornino, è impossibile (contraddittorio) che si  creda che gli enti, quando ancora sono nulla, appaiano e si  manifestino già così come appaiono e si manifestano quando  incominciano a essere; ed è impossibile che si creda che essi,  annientandosi, continuino ad apparire e a manifestarsi così  come appaiono e si manifestano prima del loro  annientamento. È impossibile, perché altrimenti, nel diventar  altro, il «prima» non differirebbe dal «poi» e quindi non ci  sarebbe qualcosa come un diventar altro. È quindi necessario  che, quando si crede nell’uscire dal nulla e nel ritornarvi, si  creda che, quando gli enti non sono, non appaiano nel modo  in cui appaiono quando incominciano a essere, pur  apparendo ed essendo in qualche altro modo nel loro esser  attesi, sperati, temuti, supposti, previsti; ed è necessario che,  quando vanno nel nulla, non appaiano più nel modo in cui  appaiono quando ancora esistono, pur apparendo ed essendo  in qualche altro modo nel ricordo, nel rimpianto, nelle varie  forme in cui ci si riferisce al passato.   Ciò significa che nella misura in cui si crede nel tempo in  cui un ente è nulla (prima o dopo il suo essere), in questa  misura si crede che tale ente non appare, ossia non appartiene  alla totalità degli enti che appaiono - la quale include anche  gli enti che, in quanto attesi e ricordati, non sono un nulla.  Ma, allora, Yapparire, la totalità degli enti che appaiono in  quanto tale non può nemmeno mostrare alcunché di ciò che  non le appartiene ancora (quando esso è ancora nulla) e non  le appartiene più (quando esso è ormai nulla); e pertanto  l’apparire, in quanto tale, non può nemmeno mostrare che gli    109     enti escono dal nulla  e vi ritornano, appunto perché il loro  esser nulla non appartiene a ciò che è mostrato (come non gli  appartiene nemmeno che gli enti sono già e continuano a  essere anche quando non appaiono). Nella misura in cui  qualcosa non è (ossia è nulla), in questa misura esso non  appare e pertanto l’apparire non può mostrare il suo non  essere. (Facendo corrispondere il cielo alla totalità degli enti  che appaiono e il sole a uno di questi enti, allora, quando il  sole non è ancora sorto e quando è ormai tramontato, non si  può chiedere al cielo che ne sia del sole quando non si mostra  nel cielo: in questo caso il cielo non può che tacere sulla sorte  del sole.) Aristotele - si è rilevato - afferma che, quando un  ente che «può essere diversamente» (ossia che diviene) non  appare, «rimane nascosto», cioè non appare se esso sia o non  sia. Ma anche Aristotele crede, come l’intero Occidente, che  certi enti che appaiono possano non essere. Eppure non può  essere l’apparire a mostrare il non essere degli enti che, non  essendo, non possono nemmeno apparire.   Il non essere di ciò che ancora non è e di ciò che non è più  è dunque una interpretazione, non una constatazione; una  interpretazione che non solo richiede un fondamento, ma che  è negata dal destino della verità, che scorge in tale  interpretazione il culmine dell’estrema follia in cui l’uomo si  trova. (Tale interpretazione non ha un fondamento  incontrovertibile - anche se è sollecitata sia dal modo, spesso  terribile, in cui ciò che all’uomo sta a cuore esce dall’apparire,  sia dalla constatazione che ciò che esce in quel modo  dall’apparire «non ritorna più».)   Ma qui ci si deve arrestare. Il linguaggio, ora, è di fronte al  tema decisivo: l’impossibilità che Tessente in quanto essente  non sia. (Sta al centro di tutti i miei scritti.) Il linguaggio è  cioè, insieme, di fronte all’essenza dell’uomo, ossia alla  dimensione, già da sempre salva, che circonda la follia del    110     mortale e dell’Occidente.    Dalla relazione tenuta al convegno «fatti e interpretazioni» rivolto a un pubblico di filosofi del  diritto, tenutosi all’università di Padova, il 30 novembre 2012, e presieduto dal magnifico rettore prof.  Giuseppe Zaccaria, con la partecipazione dei proff. Maurizio Ferraris e Giulio Giorello, e con interventi, fra  gli altri, dei proff. Luca Illetterati, Vincenzo Milanesi, Carlo Scilironi, Ines Testoni.    ili    V   Sull’essenza del nichilismo   1. Alle origini del deicidio   Da centinaia e migliaia di anni prima della nascita di  Cristo, vi sono dodici giorni, in ogni ciclo delle stagioni, che i  popoli arcaici considerano sacri. I giorni dedicati alla  rifondazione del mondo. Nelle società cristiane sono quelli  che vanno dal Natale all’Epifania. Nel loro mezzo, il  Capodanno, festeggiato dovunque. Soprattutto in quei dodici  giorni, già quei popoli agiscono per ricostituire l’integrità e la  vita del mondo, consumate e perdute durante il tempo che  veniva chiamato l’«anno». Ripetono la creazione originaria  compiuta dagli Dèi o dal Dio supremo.   Oggi i popoli credono sempre meno nel divino; ma la loro  cultura dominante ne ripropone, sia pure in modo  profondamente diverso, i tratti essenziali. Tale cultura è la  tecnica scientificamente orientata e controllata dalla  produzione capitalistica della ricchezza. La produzione di  beni e di merci richiede «energia». Il consumo di «energia» ne  richiede il rinnovo, la reintegrazione. Richiede la  ricostituzione del suo «fondo». La «rifondazione» del ciclo  energetico ripropone la ripetizione umana della creazione  divina. Il Capodanno può essere anche la festa del ciclo  energetico.   Noi capiamo subito che l’«energia» si consuma e dev’esser  rinnovata. Ma perché quegli antichi sentono il bisogno di  rifondare periodicamente il mondo? Se non si risponde,  anche l’analogia tra tecnica e rifondazione mitica del mondo  rimane sospesa nel vuoto.   Eppure quel bisogno è molto meno stravagante di quanto  possa sembrare. Per rispondere alla domanda che ci siamo  posti incomincia a venire in aiuto il concetto di «volontà» (un    112     aiuto di cui non si approfitta adeguatamente non solo da  parte delle scienze dell’uomo). Poi indicherò come le  implicazioni di questo concetto siano in grado di spiegare il  bisogno di cui stiamo parlando - che non è per noi irrilevante,  ma è anche il nostro, e il più importante di tutti: il bisogno di  vivere.   Volere è voler fare diventar altro il mondo (le cose e sé  stessi). Se non si vuole e si resta immobili, si muore. La  volontà è la vita. Ma quando la volontà apre gli occhi non  ottiene subito ciò che vuole. Si trova di fronte a qualcosa che  non si lascia smuovere e trasformare: l’Inflessibile. Per il  singolo è l’ambiente familiare e sociale; per i popoli arcaici è  ciò che noi chiamiamo «natura», ma che a essi si presenta,  appunto, come la Barriera di fronte alla quale l’uomo si sente  impotente e muore; e in cui la sua volontà deve tuttavia  aprirsi un varco per riuscire a ottenere il voluto e dunque per  vivere. Un varco nella Barriera dell’Inflessibile, che si presenta  alla volontà come la dimensione della Potenza suprema,  demonica, divina.   Nell’atto stesso in cui l’Inflessibile acquista per l’uomo il  volto del divino, in quello stesso atto l’uomo, per vivere, deve  quindi flettere l’Inflessibile, forzarne e penetrarne la Barriera,  spezzarlo, squartarlo. Deve ucciderlo. Volendo essere «come  Dio» Adamo vuole uccidere Dio. Mangiando il frutto che lo  rende «come Dio» Adamo mangia Dio. Accade così che,  avvertendo il proprio essere deicida, l’uomo si senta  colpevole, in debito. Il bisogno di vivere diventa bisogno di  espiazione.   Ogni giorno, ogni ora, ogni istante facciamo esperienza di  ciò che, per vivere, la volontà richiede. Se il mondo ci stesse  davanti come un unico blocco che non si lascia spezzare, ci  spegneremmo subito. La volontà, per ottenere, ha bisogno di    113     spezzarlo, di agire sui frammenti, sulle parti del blocco.  L’agire richiede l’isolamento delle parti dal blocco e tra di  loro. Oggi si crede che anche la conoscenza sia «seria» solo se  fa conoscere parti del mondo, non il «Tutto», vanamente  inseguito dalla vecchia sapienza filosofica. La scienza chiama  «specializzazione» la propria conoscenza delle parti. E la  tecnica, da essa guidata, agisce sempre su parti. (Anche l’arte  si chiude nel «frammento».) Adamo che vuol uccidere Dio ha  già un’anima tecnica. La tecnica ha un’anima teologica. E il  senso di colpa affiora anche nell’uomo della civiltà della  tecnica, ben al di là della preoccupazione per la propria  incapacità di realizzare uno «sviluppo sostenibile».   Per quanto ci dicono le scienze storiche si può dire che  ogni forma della religiosità arcaica (e monoteistica) abbia al  proprio centro il mito in cui lo smembramento del Dio è la  condizione dell’esistenza del mondo. Dall’Oceania alla  Mesopotamia, dall’India alle popolazioni germaniche e alle  società greco-cristiane i miti raccontano la creazione del  mondo come effetto del sacrifìcio originario di un Dio, di una  Dea, di un Eroe, di uno sposo o di una sposa del Dio:  Hainuwele (Nuova Guinea), Tammuz, Dumuzi, Tiamat  (Mesopotamia), Ymir (presso i Germani), Purusha e Prajapati  (India), Osiride (Egitto), Dioniso (Grecia), Cristo.   La creazione del mondo è lo squartamento del Dio, che  diventa cibo dell’uomo. L’uomo vive solo in quanto usa,  consuma, gode le membra, le parti del Dio. Anche la morte di  Cristo sulla croce rende possibile la rifondazione, la rinnovata  creazione del mondo che era andato consumandosi e  morendo in conseguenza del peccato. E nel Genesi si dice che  Dio «si riposò nel settimo giorno da tutto il lavoro che aveva  fatto» e da cui era stato dunque consumato e indebolito.   Ma il divino rimane pur sempre la fonte della vita.    114     L’esaurirsi della fonte è la morte dell’uomo, così come lo era  l’inflessibilità originaria del divino. E la morte è il pericolo  estremo da cui ci si deve difendere. Diventa quindi necessario  che si restituisca al divino quel che gli si è tolto e che tuttavia è  stato consumato e non c’è più. È a questo punto che il genio  religioso deve inventare il sacrificio compiuto dall’uomo (che  assume anche la forma del sacrificio dell uomo) come  ripetizione del sacrificio divino e dunque come rifondazione  del mondo. Acquisterà le forme più diverse, nei tempi e nei  popoli, ma l’essenza della ripetizione del sacrificio divino e  della fondazione divina del mondo è la consapevolezza della  necessità che, per continuare a vivere, non venga spenta la  fonte della vita.   Quando ci si convince che qualsiasi vittima offerta  dall’uomo al Dio è radicalmente incapace di assolvere il  compito gigantesco che le si assegna, allora diventa necessario  credere che sia Dio stesso a farsi uomo e vittima con la quale  Dio restituisce a sé stesso quello che la violenza e il peccato  dell’uomo gli ha tolto. E quando la filosofia, volendo «dire e  fare cose vere», si porterà oltre il mito da cui è preceduta (e da  cui sarà seguita), le sue prime parole (quelle di  Anassimandro) diranno che il mondo, separandosi dal  divino, dovrà necessariamente dissolversi in esso, scontando  la pena dell’«ingiustizia» commessa con tale separazione -  dove la separazione dal Dio è l’eco dello smembramento-  sacrificio mitico del divino, e la pena da scontare è l’eco della  ripetizione umana di tale sacrificio. Quando, infine, nel  nostro tempo, non si crederà più né negli dèi del mito né in  quelli della «verità», e la lotta contro la morte sarà affidata  soprattutto alla Potenza suprema della tecnica, allora al  consumo di questa Potenza, cioè al suo Sacrificio, dovrà  corrispondere una civiltà in cui le saggezze e sapienze del  passato, per quanto grandi e nobili, dovranno sacrificare ogni    115     loro aspirazione al dominio del mondo, e cioè non  contrastare il potenziamento indefinito della Tecnica.   Sin dagli inizi della storia deH’uomo il giorno del  Capodanno, rifondando il mondo e aprendo un nuovo ciclo  alla vita, si sbarazza dell’anno vecchio, della «vecchia terra»,  ricolmi delle colpe degli uomini; e li lascia cadere nell’oblio.  (Accade anche nel grande Capodanno de\YApocalisse di  Giovanni, dove l’«anno» della vecchia terra viene diviso da  quello della nuova.) Oggi il Capodanno «rievoca» soltanto le  vicissitudini della volontà: non le rivive.   Ma a questo punto la questione decisiva rimane ancora  tutta da esplorare. Riguarda appunto il senso autentico della  volontà - alla quale invece ci si affida come alla cosa più  sicura del mondo. Non si scorge che la storia della volontà si  svolge interamente al di fuori di quel senso.   Ora si aggiunga che quando, all’inizio, si trova di fronte  all’inflessibilità della Barriera, la volontà è insieme avvolta da  essa. Infatti non può tornare indietro. Tornando indietro,  riuscirebbe non solo a far diventare altro il mondo, ma a  ottenere immediatamente tutto ciò che essa vuole, giacché  tornare indietro è lasciarsi alle spalle la Barriera che le  impedisce di trasformare il mondo. Ma la volontà riesce a  vivere solo se fa breccia nella Barriera; e il far breccia implica  un tempo in cui la volontà è bloccata e muore (è  originariamente morta). E non può nemmeno, e per lo stesso  motivo, muoversi di lato, a destra o a sinistra, o verso l’alto o  il basso. Appunto per questo diciamo che all’inizio la volontà  si trova di fronte all’inflessibilità della Barriera, la volontà è  insieme avvolta da essa.   Le metafore spaziali qui sopra sottolineate aiutano a  comprendere perché, essendo di fronte e insieme avvolta dalla  Barriera, il far breccia in essa sia insieme un uscire da essa.    116     Appunto per questo, all’inizio del pensiero filosofico,  Anassimandro ripropone il rapporto tra la volontà e la  Barriera, dicendo che le cose del mondo, «separandosi»  dall’«Uno», «divino», ne escono - escono dal luogo da cui  proviene la loro «nascita» ( génesis ). Far breccia dall’esterno è  lo stesso far breccia dall’interno, uscendo da ciò da cui si è  avvolti e commettendo «ingiustizia» (adikia). La volontà può  riparare l’ingiustizia (e qui la volontà è il mondo stesso che si  è separato dell’«Uno») solo ritornando nel luogo, separandosi  dal quale essa ha commesso ingiustizia: solo morendo le cose  che hanno voluto separarsi dal divino possono «rendergli  giustizia per l’ingiustizia commessa ( didónai dìken tes  adikìas). E così si comprende perché le cose debbano tornare  là da dove son venute. Dove il sottinteso è che la morte subita  dalla volontà fino a che non riesce a far breccia sulla Barriera  del «divino» è diversa dalla morte a cui la volontà (ossia la  totalità delle cose del mondo) va incontro ritornando nel  divino. Tanto diversa da far dire, in seguito, che morire è  incominciare a vivere la vera vita.   Ma nel pensiero filosofico, e innanzitutto in Anassimandro,  è un sottinteso anche la ferita del divino prodotta dalla  breccia con cui la volontà riesce a uscire e a staccarsi da esso.  L’intenzione esplicita della filosofia, sin dall’inizio, è di  affermare, come dice Anassimandro, che il divino è «eterno e  non invecchia», è «immortale e incorruttibile»; eppure la  Barriera che la volontà umana trova dinanzi e attorno a sé, a  sbarrarle la strada, è sentita da essa come la Potenza  dominante, sacra e divina come il Tremendum-Fascinans,  l’Inflessible che dev’essere flesso, cioè corrotto, reso vecchio,  ucciso in quanto Inflessibile, perché la volontà possa vivere.  (D’altra parte la Barriera, smembrata, è anche la condizione  perché la volontà possa cibarsi delle sue membra - e per  questo, oltre che a essere il Tremendum, essa è anche il    117     Fascinans .) E che l’uscire delle cose dall’Uno divino sia inteso  da Anassimandro come ingiustizia è il trapelare, nell’esplicito,  del sottinteso che il divino è ferito e ucciso dall’avvento della  volontà. Il pensiero della tradizione filosofica deve trattenere  nell’inespresso il sottinteso, cioè la contraddizione per la  quale il divino, in quanto trascendente il mondo, Altro dal  mondo, è, insieme l’eterno e il perituro; il mito può  permettersi di evitarla sia con la fede nell’unità del divino e  del mondano (ripresa peraltro, in campo filosofico, dalle varie  forme di immanentismo), sia con la fede nell’esistenza di una  molteplicità di dèi (per la quale la morte riguarda uno o  alcuni di essi ma non gli altri), sia con la fede che il divino  non muore definitivamente, ma muore e risorge.   Ma, detto questo, la questione decisiva rimane ancora tutta  da esplorare. Riguarda il senso autentico della volontà alla  quale invece ci si affida come alla cosa più sicura del mondo.  Non si scorge che la storia della volontà si svolge interamente  al di fuori di quel senso.    118     2. Essenza del nostro tempo ed essenza del nichilismo   Dai Greci a Hegel la tradizione filosofica è la volontà di  indicare come si configura il contenuto del sapere che ha il  carattere dell’assoluta incontrovertibilità e stabilità: Yepistéme  (alla lettera: il «sovra-stare») della verità. Tale epistéme è per  Platone tò anamàrteton (Civitas, 477, 35 - una parola che è  negazione della negazione di màrtys, «testimone», colui che  essendo in presenza delle cose non può errare nei loro  confronti). Dai Greci a Hegel, Yepistéme a cui compete il  carattere delfincontrovertibilità ha un contenuto che non  solo è «ciò che è», l’«ente» (tò ón ), ma è l’ente che  assolutamente (pantelós) e primariamente è, l’Ente  immutabile ed eterno, il divino che è fondamento  (trascendente o immanente) degli enti che sono ma non sono  assolutamente, cioè divengono, vanno dal loro non essere al  loro essere e viceversa.   Per la tradizione filosofica Yepistéme è prevalentemente  sapere metafisico. Con alcune rilevanti eccezioni (ad esempio  lo scetticismo), la più profonda delle quali è  l’antimetafisicismo kantiano. Che però intende mantenere il  carattere primario àe\Y epistéme della verità, cioè  l’incontrovertibilità, e che come immutabile pone la struttura  a priori della soggettività finita (immutabile, quindi, sino a  che il soggetto esiste). Si può dire allora che la tradizione  filosofica è la storia delfincontrovertibilità dell’epistéme e del  modo in cui l’ente diveniente ha il proprio fondamento  nell’Ente immutabile - che nell’ epistéme metafisica è Dio.  Vessenza della filosofia degli ultimi due secoli è invece la  distruzione di questa grandiosa concezione della realtà.  Distruzione, dunque, che - nella sua essenza, appunto - è a  sua volta grandiosa. Purché la si sappia cogliere.   Oggi come ieri, sia l’esistenza sia l’inesistenza di Dio sono    119     per lo più affermate e vissute all’interno di una fede, cioè di  una scelta che da ultimo è arbitraria (anche quando si  presenta come «ragionevole», rationabile obsequium). Sul  piano filosofico, il modo in cui oggi si contrappongono amici  e nemici di Dio non è per lo più consapevole della grandezza  e profondità della lotta tra il presente e il passato della  filosofia. Tanto più grande e profonda, questa lotta, quanto  meno entrambi gli avversari si rendono conto che  l’abbandono del passato non è una semplice scelta o una  semplice constatazione storica, ma è la fondazione  incontrovertibile delVimpossibilità del Dio metafisico. Nello  stesso mondo filosofico la grandezza di quella lotta rimane  cioè sullo sfondo, o addirittura sepolta.   Non mancano certo forza e competenza, a quel mondo, che  si usa ancora dividere tra «analitici» e «continentali». Ma le  due prospettive sono molto meno divise di quanto possa  sembrare. Giacché per entrambe la fine deH’affermazione  filosofico-metafisica di Dio è per lo più fuori discussione.  Tanto che in entrambe è ormai quasi del tutto assente la  discussione sull’autentico fondamento filosofico che ha  condotto alla negazione di Dio. Una negazione che tende  quindi a regredire, e nell’ambito stesso della filosofia, al livello  che è proprio della fede. Accade quindi non di rado che oggi  sia la filosofia stessa a dichiarare di non voler essere una  fondazione dell’impossibilità di Dio, ma, ad esempio, di essere  la semplice constatazione che la fede in Dio, almeno in certi  luoghi del pianeta, va scomparendo; oppure di essere una  scelta, una prassi - dunque una fede, che preferisce un  universo in cui Dio non esista.   Rinunciando a quella fondazione, e a ogni fondazione  assoluta, la filosofia contemporanea si presenta come quel  «relativismo» o «nichilismo» concettualmente inconsistente a  cui gli epigoni della tradizione filosofica - tra cui la Chiesa    120     cattolica - trovano comodo o tendono a ridurre tutto ciò che  la filosofia ha pensato negli ultimi due secoli. Ma in questo  modo quegli epigoni non riescono ad avere di fronte il loro  autentico avversario, e gli avversari della tradizione filosofica  ignorano la forza speculativa della tesi che essi sostengono.  Da tempo i miei scritti mostrano la distanza tra Yessenza  profonda e tendenzialmente nascosta del pensiero filosofico  del nostro tempo e il fenomeno in cui tale essenza si presenta  alterata e svigorita, e che è costituito appunto da quel  «relativismo» e «nichilismo» di cui ci si può sbarazzare molto  facilmente.   L’avversario autentico della tradizione filosofico-metafisica  è appunto quell’essenza. Tale essenza - si diceva - è la  fondazione radicale delfimpossibilità di Dio. «Radicale»  significa «che procede dalla radice stessa della storia  dell’Occidente», la radice che fa vivere sia gli amici sia i  nemici di Dio, sia l’essenza del pensiero filosofico del nostro  tempo sia il fenomeno di tale essenza - non filosofi e filosofi,  uomini di azione e di pensiero. Questa radice è la persuasione  che le cose del mondo siano un divenire in cui esse escono dal  nulla e dopo un provvisorio soggiorno nell’essere ritornano  nel nulla. Per la filosofia che è amica di Dio questa  oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla non è un assurdo  solo se esiste un Dio immutabile ed eterno; per Yessenza della  filosofia del nostro tempo tale oscillazione non è un assurdo  solo se il Dio immutabile ed eterno non esiste. È appunto sul  fondamento della persuasione che le cose del mondo vengono  dal nulla e vi ritornino che Yessenza del pensiero filosofico del  nostro tempo mostra che Dio è qualcosa di impossibile - e  che quindi è illusorio ritenere che il divenire del mondo  sarebbe un assurdo se Dio non esistesse. Tale essenza è la  fondazione «radicale» delfimpossibilità di Dio perché si  fonda sulla radice che essa ha comune con la tradizione    121     filosofica da essa distrutta. In questa radice consiste Yessenza  autentica del nichilismo la cui forma più coerente si presenta  nell’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo.   Non è questa la sede per approfondire il senso concreto di  questi cenni. Qui si può solo indicare il senso generale del  discorso, rinviando, per quel suo senso concreto, agli scritti  sopra menzionati - che mostrano la Follia estrema  dell’essenza autentica del nichilismo e quindi mostrano che la  persuasione che le cose oscillino fra l’essere e il nulla è  soltanto una fede.   Innanzitutto, ciò che è stato chiamato «essenza della  filosofia del nostro tempo» ha un contenuto storico  determinato: è un nucleo, circondato da un alone che più si  distanzia dal nucleo più ne perde di vista la potenza. Per  quanto è possibile guardare nel sottosuolo essenziale della  filosofia del nostro tempo, il nucleo ha un perimetro breve. È  costituito dalla dimensione centrale del pensiero di Nietzsche  e daH’attualismo di Giovanni Gentile. E, prima di entrambi -  e conosciuta da entrambi -, la filosofia di Giacomo Leopardi.  All’alone appartengono invece pensatori che oggi sono  ritenuti tra i più decisivi, come Heidegger e Wittgenstein.  Non si tratta di mettere in questione la loro importanza, bensì  di rendersi conto che, nonostante essa, in modi differenti  lasciano aperta la porta a un Dio che ritorni dall’esilio in cui è  fuggito. Una porta che invece non è lasciata aperta dai  pensatori di quel sottosuolo essenziale (e dunque da Leopardi,  la cui potenza filosofica, soprattutto nella filosofia  anglosassone, è completamente sconosciuta).   L’essenza della filosofia del nostro tempo consiste nel  mostrare che se esistesse il Dio immutabile ed eterno della  tradizione, esso sarebbe la Legge a cui dovrebbe adeguarsi  anche il nulla da cui le cose provengono e il nulla in cui esse     ritornano. Pertanto il nulla diverrebbe un ascoltatore e un  suddito di tale Legge, cioè non sarebbe più un nulla, ma un  ente. Ma la persuasione che gli enti provengono dal nulla e vi  ritornano implica necessariamente che l’ente e il nulla  differiscano - un’implicazione, questa, che sussiste anche se,  nell’ambito dell’essenza della filosofia del nostro tempo, il  principio di non contraddizione è visto come negazione del  divenire e quindi è rifiutato. All’interno di quella persuasione,  la negazione dell’esistenza del Dio immutabile ed eterno della  tradizione è incontrovertibile perché tale esistenza implica  necessariamente che il nulla sia ente - il nulla senza di cui è  impossibile quel divenire degli enti che sta al fondamento non  solo del pensiero metafisico (che procedendo dal divenire  intende condurre al Dio eterno) e del pensiero che invece  distrugge la tradizione metafisica, ma anche delle stesse opere  e istituzioni che costituiscono la civiltà dell’Occidente.   Se si ignora tutto questo - se si ignora cioè la grandezza  della lotta tra tradizione e distruzione radicale di essa - anche  il dialogo tra credenti e non credenti rimane alla superficie,  ossia è un equivoco dove non si riesce a scorgere il dramma  autentico del mondo attuale. L’essenza della filosofia del  nostro tempo mostra l’impossibilità di porre limiti assoluti  all’agire dell’uomo - e dunque a quella forma suprema  dell’agire che è la tecnica guidata dalla scienza moderna e il  supremo Limite assoluto è la Legge in cui consiste il Dio  immutabile ed eterno. Oggi la tecno-scienza non è ancora in  grado di ascoltare la voce dell’essenza della filosofia del nostro  tempo. Nessuna meraviglia, visto che nemmeno la filosofia  contemporanea e il cosiddetto «laicismo» sono in grado di  ascoltarla e si riducono a essere una semplice fede  nell’inesistenza di Dio. Ma quella voce e la tecnica esistono,  ed è inevitabile che si finisca col comprendere che la loro  unione consente la maggiore potenza di cui l’uomo abbia mai    123     potuto disporre. È questa unione l’autentico avversario del  Dio della tradizione: non l’incredulità dei popoli europei o il  consumismo dell’«Occidente».   Ma il passo decisivo verso il dialogo autentico, quello tra le  due grandi forze in lotta tra loro - l’essenza del passato e  l’essenza del presente della civiltà occidentale, ormai  planetaria - è il loro prender coscienza della propria anima  comune: io. fede che le cose del mondo escono dal nulla e vi  ritornano. Che non ci sia bisogno di un Dio perché ciò accada  è la fede vincente rispetto alla fede che invece ritiene che di un  Dio ci sia bisogno. Ma se ciò per cui le due fedi si oppongono  è certo grandioso, esso è ciononostante qualcosa di  subordinato rispetto all’esistenza di quell’anima comune, cioè  rispetto alla fede che le cose hanno nel nulla la loro culla e il  loro sepolcro.   Abbiamo più volte chiamato fede quell’«anima comune»  che invece, sia per gli amici sia per i nemici di Dio, è  l’evidenza suprema. Infatti a questo punto si tratterebbe di  volgersi verso il culmine del pensiero e di lasciarsi alle spalle  anche quel passo decisivo, cioè anche il dialogo autentico tra il  passato e il presente dell’Occidente. Volgendosi verso quel  culmine si vedrebbe che in entrambi - cioè sia  nell’affermazione sia nella negazione di Dio - è presente il  senso più radicale del nichilismo, ossia la convinzione che le  cose (ossia gli essenti, che non sono un nulla) sono nulla:  proprio perché, intesi come divenienti, sono originariamente  e conclusivamente nulla. E, come sopra si accennava, la  convinzione che ha come contenuto l’Errore estremo,  l’estrema Follia, non può essere che una fede.   L’anima comune degli amici e dei nemici di Dio è l’essenza  del nichilismo, cioè dell’eccidio dell’essere. E, insieme, è la  forma fondamentale dell’omicidio. La convinzione che    124     l’uomo, di per sé, sia nulla, e come le altre cose sia il prodotto  di Dio o del Caso, è infatti il requisito essenziale perché si  decida di rendere l’uomo un nulla. (Ma ogni decisione non è  forse, ormai, la volontà di far passare le cose dall’essere al  nulla e dal nulla all’essere? Non è forse, ogni decisione, un  eccidio? Il linguaggio stesso non avvicina forse il de-cidere e  l’uc-cidere?)    125     3. Il deserto e il profumo   Nonostante il riconoscimento altissimo e crescente della  sua grandezza poetica e filosofica, il genio di Leopardi,  insieme al genio di Eschilo, è forse quello di cui meno si è  visto il carattere decisivo nello sviluppo storico della civiltà -  dunque non «soltanto» della cultura - occidentale.   L’accostamento dei due nomi non è casuale. Eschilo  appartiene al ristretto convegno di sovrani con il quale  incomincia la filosofia. Appunto per questo la sua poesia è  tragica. La filosofia, infatti, porta alla luce il pericolo estremo:  che il divenire delle cose del mondo è il loro venire dal nulla e  il loro ritornare nel nulla, da cui non si ritorna più, sì che  anche la morte dell’uomo assume il volto e l’anima tragici  dell’annientamento. Se non ci si rivolge a questo, che è il  passato essenziale dell’Occidente, si perde di vista il senso  autentico di ciò che Leopardi ha inteso dire nelle sue «prose»  e nelle sue «poesie».   Anche quel portare alla luce è qualcosa di assolutamente  inaudito. La filosofia è la radice del tragico perché intende lo  sta -re nella luce (nella quale essa stessa consiste) come la sta¬  bilità del sapere che non può essere in alcun modo scosso o  smentito. La filosofia evoca il senso stesso della sta-bilità  assoluta del sapere innegabile. La chiama, appunto, «epi-sté-  me» (in cui risuona lo sta -re e che inadeguatamente  traduciamo con la parola «scienza»). La stabilità dell ’epistéme  è l’essenza della verità. Porta oltre i millenni dell’esistenza  guidata dal mito. Ma proprio perché attribuisce questa  stabilità al sapere che afferma il divenire dove le cose escono e  ritornano nel nulla (proprio perché afferma che Tesser preda  del nulla è verità), la filosofia getta l’uomo nelYangoscia più  profonda, più profonda di quella di cui il mito è il rimedio e  che ancora non si è imbattuta nel nulla. Il mito conferisce al    mondo un senso che non si mostra nella luce, ma è voluto, e  quindi, da ultimo, è una fede, un arbitrio, anche se chi vive  nel mito non se ne avvede e crede che esso mostri la realtà.   Tuttavia la filosofia è, insieme, la radice del senso che la  tradizione dell’Occidente conferisce alla salvezza, perché fa  sorgere nell’uomo anche la ricerca del «saldo rimedio»  (secondo l’espressione di Eschilo) contro il dolore e  l’angoscia. Sin dall’inizio il pensiero filosofico porta alla luce  l’esistenza di un «Principio» {arche) divino, eterno e  incorruttibile, sì che la nascita delle cose è dovuta al loro  «separarsi» da esso e la loro morte è il loro  farvi ritorno,   lasciando nel nulla l’«ingiustizia», ossia tutto ciò che nelle  cose è l’effetto di quella separazione (Anassimandro). Il  Principio custodisce da sempre e per sempre tutto ciò che  preme all’uomo. Anche nel mito il rimedio che dà senso al  mondo e al dolore è avvolto dal divino, e tuttavia non si  mostra nella luce, non è «saldo».   Eschilo, per primo in modo esplicito, porta alla luce che  Yepistéme della «Verità», come coscienza del proprio  contenuto divino, è il fondamento della salvezza e della  felicità. Questo pensiero è il fondamento di ogni forma  culturale e pratica della tradizione dell’Occidente. Ed è  espresso da Eschilo con un linguaggio che non può essere  quello comune e che solo impropriamente è riconducibile al  «teatro» nel senso corrente della parola. Théatron, per  Eschilo, è la ricerca che culmina nella contemplazione della  «Verità». Il «dialogo» di Platone, in cui la tragedia (e l’arte in  genere) viene radicalmente condannata, non capisce di avere  nel «teatro» di Eschilo il proprio più potente predecessore.   Leopardi, per primo, rovescia tutto questo; dice «tutto  l’opposto». Porta alla luce l’impossibilità e l’illusorietà del  quadro grandioso della tradizione occidentale. Un altrettanto    127     grandioso, terribile e inevitabile gesto, quello di Leopardi, la  cui potenza è rimasta incompresa anche da quanti (come lo  stesso Nietzsche) hanno visto in lui uno dei culmini della  cultura europea. Ma come è possibile capire questo gesto -  presente in ogni verso, anzi in ogni parola di Leopardi - se  non si ha dinanzi che cosa in questo gesto resta distrutto,  ossia ciò che qui sopra abbiamo sommariamente tentato di  indicare?   A proposito di un passo di Diogene Laerzio, in cui si  richiama il fondamentale principio di Socrate, Leopardi  afferma: «Oggidì possiamo dire tutto l’opposto». «Possiamo»:  nel senso che «dobbiamo», che «è necessario», che è tutto  l’opposto a dover esser portato alla luce dalla filosofia.   Che cosa si dice in quel passo? Che per Socrate «vi è un  solo bene [ agathón ], Yepistéme, e vi è un solo male [kakón], il  non sapere [ amathìan ]», cioè la privazione di quel «sapere»  (màthos ) in cui Yepistéme consiste. Ogni bene, infatti, è tale  solo se è vero, se appare non nell’opinione, nella fede, nel  mito, ma nella luce della epistéme della verità. Ed esiste un  rimedio contro l’angoscia, il dolore, la morte, solo se esso è un  vero, saldo rimedio; il Dio salva l’uomo solo se il Dio e la  salvezza da lui data sono portati alla luce dall’ epistéme della  verità. Quest’ultima è dunque la radice di ogni bene, e, in  questo senso, è l’unico bene. Il male è il dolore, la morte e  l’angoscia che ne deriva; il bene è la felicità e la salvezza del  male, prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto  è, da ultimo, l’Ordinamento divino del mondo.   Ma, dicevamo, Leopardi mostra che è «tutto l’opposto»,  cioè che Yepistéme è l’unico male e che il non sapere  (amathia ) è l’unico bene.   Alla base di quest’ultima, che è una conclusione decisiva,  sta la scoperta angosciante che non può esistere alcun    128     Principio eterno, incorruttibile, divino, e che quindi tutte le  cose sono nulla, perché sono circondate dal nulla infinito che  le precede, le segue e le attraversa.   Se esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile  custode di tutte le cose che nascono e muoiono - si è qui al  cuore deir«ultrafilosofia» di Leopardi -, il loro provvisorio  sporgere dal nulla sarebbe una semplice e illusoria apparenza;  laddove l’uscire dal nulla e il ritornarvi sta al centro della  verità che per l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile.  Proprio perché l’esistenza del divenire è innegabile, la verità è  che l’Eterno, l’Infinito è impossibile. Questa, la potente  anticipazione, da parte di Leopardi, della nietzscheana «morte  di Dio».   Ma, diversamente da Nietzsche, per Leopardi il nulla è il  Principio di tutte le cose. Meglio allora per l’uomo non  saperla, la verità, che saperla; meglio Yamanthìa che  Yepistéme. (Soprattutto a questo punto vanno tenuti presenti  Il nulla e la poesia, cit., e Cosa arcana e stupenda, cit., che ho  pubblicato per Rizzoli rispettivamente nel 1990 e nel 1997, e,  per quanto riguarda Eschilo, Il giogo. Alle origini della  ragione: Eschilo, Adelphi 1989).   Leopardi può in tal modo portare alla luce il legame  profondo che unisce Yamanthìa, l’ignoranza della verità, alla  poesia e all’arte in generale. Anche qui, molti decenni prima  di Nietzsche, Leopardi mostra che la poesia è illusione,  inganno, menzogna, senza di cui la vita sarebbe però  impossibile. Non si tratta della poesia ridotta a fenomeno  letterario, ma della poesia potente, dove ad esempio il poeta  incita l’esercito dalla battaglia o di quella dove il canto fa  sopportare il dolore e la morte. Nell’illusione poetica - che  peraltro da gran tempo inganna la fantasia, non l’intelletto -  l’uomo crede di essere in rapporto all’Infinito e aH’Eterno.    129     In un primo tempo Leopardi crede che, per illudere, la  poesia non debba mostrare la verità, cioè la nullità di tutto - e  il canto L’Infinito è una delle espressioni più alte di questo  primo atteggiamento, dove il naufragio nel «mare»  delFInfinito è «dolce». Ma poco dopo egli sviluppa la grande  teoria del «genio» che unisce nella propria opera la verità  terribile dell’esistenza e la potenza poetica: unione di filosofia  e poesia. Qui l’Infinito e l’Eterno non costituiscono più il  contenuto del canto, ma, sia pure provvisoriamente,  convergono nella potenza del canto, in modo che «l’anima  riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui  sente la morte perpetua delle cose e sua propria». Infinita ed  eterna è questa forza: non nel senso che il genio si sostituisca  a Dio, ma nel senso che la forza, pur sempre finita e caduca,  con cui egli riesce a esprimere la morte, cioè la finitezza e  caducità di tutte le cose (e quindi di sé stesso) è l’unica forma  di vita della cui infinità e eternità ci si può ancora illudere. E  sono la suprema salvezza e «consolazione» concesse a chi non  può salvarsi né essere consolato.   La «ginestra» è il «fiore del deserto». Il deserto è la morte e  nullità di tutte le cose; il «fiore» è il genio. Egli è mortale,  nasce per morire, e questa nascita è «natura». Ma «nobile».  «Nobil natura». La sua nobiltà è la capacità di tenere uniti il  suo «profumo» (la potenza del canto) e Yepistéme della verità  che vede il «deserto». «[...] di dolcissimo odor mandi un  profumo, / che il deserto consola.» Ora la dolcezza non si  addice al naufragio nel mare dell’Infinito illusoriamente  cantato come reale: l’Infinito è morto («è distrutto Iddio»,  scrive Leopardi, anticipando il «Dio è morto» di Nietzsche) e  il deserto ne ha preso il posto.    Nobil natura è quella  che a sollevar s’ardisce    130     gli occhi mortali incontra   al comun fato, e che con franca lingua,   nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte.   Il pensiero poetante del genio ha l’ardire di guardare con  occhi mortali la morte («il comun fato»), non nasconde la  verità, non le detrae nulla. Egli non è l’uomo comune, per il  quale Yepistéme è l’unico male e Yamanthia l’unico bene, ma è  la nobile natura che unisce Yepistéme dXYamanthìa del canto  poetico e che intende come «vero amore» il porgere agli  uomini questa unione. Come vero amore e come unico  rimedio di cui gli uomini, dopo quello di Dio e della Tecnica,  potranno, sia pur fugacemente godere, prima che il fuoco del  «vulcano ardente» abbia a distruggere la ginestra, il fiore del  genio, che cresce vicinissimo al fuoco annientante, perché ne  vede il vero senso, e insieme lontanissimo, perché il suo  «profumo» «consola» il deserto.   Il «genio» che consola il deserto non è la volontà  dell’«oltreuomo» che, in Nietzsche, accetta il deserto e ne  vuole l’eterno ritorno. Ma se si prescinde da questa tematica  di Nietzsche, da questa «vetta della contemplazione», come  egli la chiama, che si porta ancora più in alto della vetta  raggiunta dal pensiero di Leopardi (un pensiero il cui  linguaggio sta tuttavia più in alto del linguaggio di Nietzsche),  allora si può dire che sia come filosofia sia come poesia il  pensiero di Leopardi è, di diritto, il pensiero che più si addice  all’Occidente e, ormai all’intero pianeta. Se ciò che viene  portato alla luce dall’ epistéme della verità è il vortice che getta  le cose nel nulla dopo averle per un poco sottratte all’abisso  del nulla, allora il pensiero di Leopardi indica la conclusione  inevitabile della storia dell’Occidente e del mortale.   Ma proprio a questo punto si fa innanzi la questione  decisiva. Possiamo formularla così: è così indiscutibile che  quel vortice - in cui crede sia la tradizione dell’Occidente, sia  la distruzione di essa, avviata dal pensiero di Leopardi -    131     appartenga all’evidenza assoluta, cioè all’assolutamente  indiscutibile?    132     4. «Morte di Dio» e «anello del ritorno»   a) La sequenza essenziale   Ogni linguaggio è problematico: non solo quel che esso  dice lo dice all’interno di un’interpretazione, che non può mai  essere una verità assoluta, ma lo stesso esser linguaggio del  linguaggio è il contenuto di una interpretazione. Noi  dialoghiamo perché, nonostante la problematicità  dell’interpretazione - che non si riferisce soltanto al  linguaggio delle parole, ma anche a quello del  comportamento, ma poi a tutte le cose dalla terra e del cielo -,  abbiamo fede (per lo più inconsapevolmente) che il nostro  interlocutore (se esiste) sia a sua volta un interpretare e ponga  a fondamento del suo interpretare le stesse regole che noi, e,  daccapo, per lo più inconsapevolmente, poniamo a  fondamento del nostro. Ma anche «noi» - e anch’«io» - siamo  contenuti di una interpretazione. Di solito quelle regole non  vengono messe in discussione. Ad esempio che esista un  prossimo, una società, che certi eventi sensibili siano  linguaggio, che un certo oggetto sia un libro e che sia scritto  in una certa lingua. È all’interno di queste regole e del tipo di  interpretazione che ne scaturisce in virtù di certe altre regole  - analoghe alle «regole di trasformazione» di cui parla la  logica - che appare qualcosa come Storia dell’uomo. Storia  dell’Occidente, o come Aristotele o Nietzsche (o un certo  Nietzsche).   Con queste considerazioni non si intende affermare che  ogni sapere sia interpretazione. Anzi, solo sul fondamento  dell’apparire della verità autentica si può affermare che un  certo ambito delle convinzioni umane è interpretazione, ossia  non-verità.   Nietzsche appartiene all’esito inevitabile della storia del  pensiero occidentale - e della stessa civiltà dell’Occidente (cfr.    133     E.S., L’Anello del ritorno, Adelphi 1999). L’attenzione  maggiore deve essere dunque rivolta all ’inevitabilità della  distruzione del passato, a cui Nietzsche ha potentemente  contribuito. Che Dio sia morto non è dovuto alla semplice  circostanza che - come lo stesso Nietzsche qualche volta  ritiene - la gente non crede più in Dio. La tendenza dei popoli  è indubbiamente questa - nonostante il peso che le religioni  hanno riacquistato negli ultimi tempi. Ma le tendenze, anche,  si possono invertire. Se domani i popoli si rivolgessero di  nuovo a Dio dovremmo forse dire che Dio è risorto?  L’«obbiezione storica decisiva», che per Nietzsche  consisterebbe appunto nell’attuale incredulità della gente, non  ha nulla di decisivo. La potenza del pensiero di Nietzsche sta  altrove.   Non la si trova nemmeno quando si riduce il pensiero di  Nietzsche al «prospettivismo» - che sostanzialmente non  differisce dallo scetticismo. (Che peraltro può presentarsi in  forma non ingenua quando - di fronte ad avversari che si  limitano a rilevare la contraddizione della sua tesi che  sostiene la verità dell’inesistenza di verità - esso può replicare  chiedendo per quale motivo non ci si debba contraddire; e a  questa sua domanda ben pochi sono in grado di rispondere in  modo adeguato.)   Nella sua essenza autentica - tanto più autentica quanto  più nascosta e quanto più rara - il pensiero del nostro tempo  non è scetticismo. Non lo è, certamente, il pensiero di  Leopardi e di Giovanni Gentile. Costoro, insieme a Nietzsche,  seminano l’essenza del nostro tempo. L’essenza del nostro  tempo conduce alla sua forma più rigorosa l’essenza  dell’Occidente, cioè la fede nell’esistenza del divenire, inteso  nella configurazione ontologica che i Greci una volta per  sempre gli hanno assegnato: la fede nell’evidenza originaria e  irrinunciabile di tale configurazione.    134     Appunto sul fondamento della fede nell’evidenza del  divenire - inteso secondo tale configurazione - Nietzsche  (come Leopardi e Gentile) mostra l’impossibilità di Dio.   Si tratta di capire l’incontrovertibilità - Yinevitabilità,  appunto - di questa fondazione. Che Dio sia morto - cioè che  non sia mai stato vivo se non nella volontà dei popoli - è una  necessità. Si tratta di capire il senso di questa necessità. E,  insieme, di capire che Nietzsche porta al culmine la storia  dell’Occidente anche perché mostra che la forma di potenza  che la tecnica è destinata ad assumere per essere la potenza  suprema è la potenza della volontà che vuole l’eterno ritorno  di tutte le cose.   Capire cioè che, proprio perché è necessario che Dio sia un  morto, proprio per questo è necessario l’eterno ritorno di  tutte le cose ed è necessario che tale ritorno divenga il  contenuto essenziale della volontà che costituisce la tecnica.   Nel Così parlò Zarathustra di Nietzsche il Dio che non può  esistere è chiamato da Zarathustra l’«Uno», il «Pieno», il  «Satollo», l’«Immoto», l’«Imperituro». La fede nel divenire,  che accomuna tutti i pensieri e tutte le opere dell’Occidente,  implica con necessità l’impossibilità dell’esistenza di questo  Dio. Zarathustra dice: «Affinché vi apra tutto il mio cuore,  amici, se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non  essere Dio! Dunque non vi sono dèi» ( Sulle isole beate). Ma  nell’ Anello del ritorno si mostra che la premessa autentica di  quel «Dunque» è quanto Zarathustra dice verso la fine del  capitolo: «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi  esistessero?». Ma nemmeno questa è un’affermazione che non  abbia bisogno di essere compresa. Nietzsche aveva ragione ad  affermare l’indispensabilità di una cattedra universitaria per  la comprensione di Così parlo Zarathustra, da lui considerato  il più importante dei suoi scritti.    135     Se si vuole richiamare in astratto la sequenza essenziale che  costituisce la grandezza del suo pensiero, ci si può esprimere  così: la creazione e l’annientamento delle cose sono l’evidenza  originaria. Tale evidenza implica con necessità l’impossibilità  di ogni Dio. La stessa necessità che implica tale impossibilità  comporta l’eterno ritorno di tutte le cose, il ritorno che in  quanto voluto dalla volontà di potenza conferisce alla tecnica  la potenza estrema (dove l’essenziale è la configurazione  concreta di tale «necessità»).   Questa è una indicazione astratta. Senza la concretezza  corrispondente (a cui L’anello del ritorno si rivolge) si fa poca  strada. Ma è l’indicazione della sequenza essenziale. Ciò  significa che tale sequenza non esprime le molteplici  tematiche che nel discorso di Nietzsche le sono più o meno  strettamente connesse. Credo che l’interpretazione della  sequenza essenziale presente neWAnello del ritorno esprima  qualcosa che appartiene a Nietzsche: l’essenziale, appunto. Se  ciò non fosse (ma non mi è nota alcuna alternativa che abbia  la capacità di modificare questa mia convinzione), ebbene  non avrei troppe difficoltà ad affermare - modestia invita -  che quella sequenza non cesserebbe di essere essenziale, per la  storia dell’Occidente (non cesserebbe di esserne il culmine),  per il fatto di non appartenere a Nietzsche.   b) «Affinché vi apra tutto il mio cuore»   «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero?»  Nulla! Questa è la risposta richiesta dall’interrogativo  retorico. Creare e annientare: sono gli aspetti fondamentali  del divenire, secondo il senso che i Greci hanno assegnato al  divenire: andare dal non essere all’essere e dall’essere al non  essere. Creare: condurre nell’essere ciò che non era, che era  nulla. Annientare: riportare nel nulla ciò che era riuscito a  essere. Negare l’esistenza del creare e dell’annientare è negare    136     1’esistenza del divenire, ossia di ciò che per l’Occidente è  l’evidenza suprema.   Che cosa mai resterebbe da creare, all’uomo, se gli dèi  esistessero? Nulla! L’esistenza degli dèi rende impensabile la  potenza creativa e annientante dell’uomo cioè la vita  dell’uomo - giacché è questa potenza a formare il centro di  ogni divenire, e dunque il centro dell’evidenza originaria.   Ma perché l’esistenza degli dèi rende impensabile e  impossibile il creare e l’annientare dell’uomo?   Incominciamo a rispondere dicendo il motivo per il quale  Zarathustra attribuisce al dio i caratteri dell’esser «l’Uno e il  Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro». È ben più  profondo di quanto non sembri a prima vista. Il dio è pieno e  sazio. Pieno di tutta la realtà, che sta raccolta nell’immutabile  e imperitura unità che lo costituisce e lo sazia. Il dio è questa  unità anche se lo si pensa separato dal mondo. Il mondo non  aggiunge nulla alla pienezza del dio, che dunque è sazio anche  se ha lasciato al di fuori di sé il mondo.   Pertanto il dio prescrive sé stesso a tutte le cose. Ne è la  Legge. Egli non può non prescrivere sé stesso; non solo a tutto  ciò che è già, ma anche a tutto ciò che sarà e a tutto ciò che è  già stato. Se qualcosa, al di fuori del dio, avesse una propria  legge, un proprio ordine e senso, una propria vita, diversi da  quelli in cui il dio consiste, il dio non sarebbe ancora sazio,  avrebbe ancora qualcosa di cui potersi saziare.   Egli prescrive sé stesso al presente, al passato, al futuro, al  tutto, prescrive la propria costituzione, cioè la legislazione in  cui egli consiste e che egli proietta intorno a sé, nei secoli dei  secoli, catturando e mantenendo tutto dentro di sé, sazio da  sempre e per sempre. È già sazio di tutto. All’uomo e al  divenire dell’uomo e della terra non resta dunque nulla. Nulla  da creare e da annientare. Il divenire sarebbe impossibile, «se    137     vi fossero degli dèi».   Se vi fossero, «come potrei sopportare di non essere dio!?»,  dice Zarathustra. Non si tratta di una esclamazione vana e  infine patetica. L’insopportabile non è tale per un individuo  dalle molte pretese, ma per il pensiero che intende vedere la  verità e che non può sopportare che l’esistenza del dio renda  impossibile e impensabile la verità, cioè l’evidenza originaria e  irrefutabile del divenire. Il dio è infatti la Legge suprema a cui  tutto deve adeguarsi, che non può tollerare che dal nulla  emerga una novità da lui non prevista, la quale sconvolga la  sua legislazione e mostri che solo apparentemente egli era  sazio e immoto. Con la propria pienezza e sazietà egli ha già  raggiunto tutto e non può essere raggiunto e sorpreso da  alcunché. È «pieno» perché ha riempito tutto di sé. Che cosa  resterebbe da creare, che divenire resterebbe, se egli avesse  tutto riempito con la Legge; in cui egli consiste e avesse  raggiunto e occupato futuro, passato, presente, imponendo al  futuro di non essere un futuro, un ancor nulla, ma di esser già  una regione totalmente adeguata alla Legge; e, trattenendo a  sé il passato, impedendogli di essere un ormai nulla e  prescrivendogli quindi di non sottrarsi alla Legge,  andandosene in una regione dove si possa essere liberi da  essa? Che vita resterebbe all’uomo da vivere se tutto questo  dovesse esistere? Nessuna. Eppure è evidente che l’uomo vive.  Dunque dio non può esistere.   Il divenire implica che esista un non essere da cui gli enti  divengono e in cui ritornano. Ma un dio immutabilmente  pieno e sazio ha già da sempre riempito tutti gli spazi vuoti  del non essere: da essi non può provenire alcunché di cui egli  non sia già sazio, e nemmeno nel vuoto in cui le cose si  portano possono trovarsi mondi ed eventi di cui egli non si  sia ancora impadronito o che si sia lasciato sfuggire di mano.  Ciò significa - ecco il tratto decisivo e fondamentale - che    138     1’esistenza del dio, la cui legislazione si estende al tutto e alla  totalità del tempo, trasforma il non essere, che è  necessariamente richiesto dal divenire, in un ascoltatore e in  un suddito dell’essere. Il dio identifica il nulla con l’essere, e  quindi cancella il divenire, cioè l’evidenza originaria e  suprema del pensiero e delle opere dell’Occidente.   Molti a questo punto possono domandarsi se sia così  scandaloso per Nietzsche che il nulla sia essere e l’essere sia  nulla. Non è forse ben nota la spregiudicatezza di Nietzsche  nei confronti dei principi «logici»? Eppure, chi crede  nell’esistenza del divenire, quella spregiudicatezza non può  averla - o ha un senso del tutto diverso da quello che  comunemente le si assegna.   Credere nel divenire significa infatti credere nella  differenza tra il prima e il poi, tra ciò che ancora non è, ed è  un nulla, è ciò che ormai è, tra ciò che è ciò che ormai non è  più e daccapo è nulla. Tutte le forme di negazione del  principio di non contraddizione proposte dal pensiero del  nostro tempo negano tale principio in quanto esso si presenta  ai loro occhi come negazione del divenire, ossia come  negazione del senso autentico della non contraddittorietà, del  senso consistente appunto nella ineliminabile differenza, nella  struttura del divenire, tra il prima e il poi, tra l’essere e il  nulla.   Oggi si crede che i problemi dell’uomo possano essere  risolti da un ritorno ai valori, alla tradizione dell’Occidente e  soprattutto alla radice di tutti quei valori, che è Dio. Ma è un  passato che agli occhi di Nietzsche si presenta come una foglia  secca, ancora attaccata al ramo - una grande foresta  disseccata che all’uomo della tradizione appare ancora come  una vegetazione animata dalle linfe della terra e quindi ancora  capace di guidare l’umanità. Ma se Dio è veramente morto    139     come è ancora possibile questa illusione?   c) Eterno ritorno e tecnica   La seconda parte di quella che sopra abbiamo chiamato la  «sequenza essenziale» del pensiero di Nietzsche afferma che la  stessa necessità che implica l’inesistenza di Dio implica anche  l’eterno ritorno di tutte le cose. Si può esprimere questa tesi  anche dicendo che in Così parlò Zarathustra non si deve  perdere di vista la concatenazione essenziale di tre capitoli  che nel testo compaiono invece separati l’uno dall’altro: Sulle  isole beate, Della redenzione. La visione e l’enigma.   La visione e l’enigma racconta l’eterno ritorno di tutte le  cose. Zarathustra racconta che ci sono due strade, una che  procede in avanti, l’altra all’indietro. Da come si presentano,  non si dovrebbero mai incontrare; eppure, assicura  Zarathustra, si incontreranno e tutte le cose che camminano  su di esse si ripresenteranno, e infinite volte, così come una  volta si sono presentate - ad esempio questo ragno e questo  chiaro di luna e il colloquio tra Zarathustra e il nano.  Zarathustra, qui, «racconta».   Eppure a Nietzsche è del tutto estranea la volontà di  «raccontar miti». La sua è una «gaia scienza». Gaia; ma  scienza. Non la scienza come epistéme che afferma resistenza  di Dio, ma come conoscenza che tuttavia intende essere  incontrovertibile e innanzitutto affermazione  incontrovertibile dell’esistenza e dell’evidenza del divenire di  tutte le cose e, su questo fondamento, conoscenza  incontrovertibile della morte di Dio, ossia di ciò che rende  impensabile e impossibile resistenza del divenire.   Il pensiero di Nietzsche appartiene al culmine dell’essenza  autentica del nichilismo - all’essenza cioè cui si rivolgono i  miei scritti mostrando la Follia estrema -; ma, proprio perché  è la forma più radicale del nichilismo, esso è anche la forma    140     più radicale di fedeltà alla fede nel divenire. Gli amici di Dio,  che pure fondano questa loro amicizia su tale fede, non  posseggono tale fedeltà. Appunto per questo sono destinati al  tramonto e a essiccare anche se sono attaccati ai rami. Il genio  di Nietzsche sta nel rendersi conto che il rapporto fra la  creatività dell’uomo e Dio è del tutto analogo al rapporto fra  tale creatività e il passato.   Come il Dio immoto, imperituro e sazio è immodificabile  dalla volontà umana, così il passato si presenta all’uomo come  immodificabile dalla sua volontà. Sul passato non si può più  intervenire, non lo si può cambiare. «Così fu.» Ma questa -  agli occhi della fede nel divenire - è la voce della non-verità;  come è la voce della non-verità quella che afferma che Dio è  vivo. Il passato possiede la stessa anima, la stessa essenza  dell’anima e dell’essenza di Dio. Come l’immutabilità di Dio  rende impossibile il divenire, così il divenire è reso  impossibile daH’immutabilità del passato.   Sebbene Zarathustra non usi queste espressioni, si può dire  che anche il passato - quando sia visto da chi riesce a portarsi  oltre l’uomo - è «l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e  l’Imperituro». La sua esistenza è infatti la legislazione che  condiziona tutto il futuro. Non in senso deterministico, ma  nel senso che anche quando ci si vuole liberare dal passato e  dai suoi condizionamenti non si può evitare che esso sia stato  così come è stato, sicché la liberazione da ciò che non può  essere diverso da come è stato non può renderlo diverso da sé  e non può non esserne condizionata. Una liberazione  apparente. Ci si potrà proporre di evitarne le conseguenze,  ma non si potrà evitare che la totalità del futuro si mantenga  in relazione a ciò che non potrà mai diventare diverso da sé e  a cui ogni futuro si dovrà quindi adeguare in questo senso più  profondo. In nessun luogo del divenire si potrà evitare di  rimanere in relazione con ciò che non potrà mai non essere    141     più ciò che è stato.   La coscienza umana può «ricercare» il passato - pensa la  fede nel divenire -, ma è prigioniera della convinzione di non  poter far sì che ciò che è stato non sia stato. La legislazione in  cui anche il passato consiste potrà essere dimenticata ma non  distrutta, e quindi anch’essa riempie di sé ogni spazio vuoto  del nulla in cui il futuro consiste. Anche questo nulla diventa  quindi un ascoltatore del passato, un passato esso stesso; così  come il nulla implicato dal divenire diventa, con resistenza di  Dio, un ascoltatore e un suddito di essa, diventa cioè un  essere. Proprio perché non può essere modificato o  annientato, il passato è il «macigno» che anticipa il futuro, e  quindi lo annienta. Se esistesse un Immutabile, nessun  evento, per quanto lontano nel futuro, potrebbe non tenerne  conto, ossia potrebbe configurarsi indipendentemente da  esso. Inoltre, da un lato il passato è ciò che è diventato nulla;  dall’altro lato, tuttavia, ha un contenuto positivo che non  rinuncia a sé stesso e al suo imporsi al futuro, così come non  vi rinuncia Dio; sì che anche in questo senso il «così fu» è  l’identificazione del nulla e dell’essere.   Anche il futuro, quindi, sino a che l’uomo crede che il  passato sia immodificabile, si presenta come qualcosa che non  proviene più dal nulla - secondo quanto è richiesto  dall’essenza del divenire -, ma proviene dal «macigno» del  passato, da cui dipende come si dipende dal «macigno» di  Dio. Come Dio, anche l’immodificabilità del passato implica  la negazione del divenire, cioè di quella novità autentica che è  la nullità di ciò che è ancora un futuro. Come Dio, anche il  passato anticipa tutto, trasformando il nulla, senza di cui non  ci può essere divenire, in un essere, in un ascoltatore del  passato.   Pertanto, come è necessario affermare che Dio è morto,    142     così è necessario affermare che è morto anche il passato, in  quanto esso è pensato e vissuto come l’assoluta  immodificabilità del «così fu». La creatività della volontà  implica cioè necessariamente la sua capacità di trasformare il  passato, di volere il passato come si vuole il futuro. Si tratta  ora di indicare come ciò sia possibile.   d) Volere Veterno ritorno e volere il passato   Ancora sulla base di Così parlò Zarathustra - che  nonostante i suoi tentativi di sviare il lettore contiene tutti gli  elementi che rendono la dottrina dell’eterno ritorno una  conseguenza inevitabile della fede nel divenire - richiamiamo  dunque il modo in cui Zarathustra mostra come la volontà  possa volere il passato (il che essendo già stato fondato da  quanto è stato qui sopra rilevato), senza essere una semplice  velleità.   La volontà è il tratto essenziale del divenire. La sua libertà è  innanzitutto il suo liberare da Dio e dal passato, e in generale  da ogni forma che gli immutabili possono assumere. Proprio  per questo, è libera nel senso che non è sottoposta ad alcun  disegno prestabilito. Non solo essa è casuale: è il caso stesso.  Se essa si presenta dapprima come volontà che vuole il futuro,  ormai Zarathustra ha mostrato l’unilateralità di questo  aspetto della volontà, cioè ha mostrato che essa è padrona del  passato come del futuro. Essa vuole anche il passato. Ma essa  non può volerlo separatamente dal proprio volere il futuro,  perché altrimenti il futuro, una volta voluto e ottenuto,  diventerebbe un passato su cui la volontà non ha potenza. È  cioè necessario che il volere «in avanti» - il volere che vuole il  futuro - sia lo stesso volere che vuole «a ritroso», ossia che  vuole il passato. Questa identità è possibile solo se volendo  «in avanti» si percorre un circolo: un percorso in cui si finisce  col ritornare al punto di partenza. Il percorso circolare -    143     l’«anello del ritorno» - rende possibile che, volendo il futuro,  si voglia per ciò stesso il passato. Solo se il divenire del mondo  è un circolo, e un circolo che ritorna su di sé alfinfinito - «un  anello del ritorno» -, la volontà che vuole il futuro vuole per  ciò stesso il passato, e lo ottiene come ottiene il futuro.   Ogni punto del circolo è un punto di partenza. Altrimenti,  se esistesse un punto privilegiato, esso sarebbe il punto  immutabile, Yarchè del processo: sarebbe, daccapo, un Dio  immutabile che anticiperebbe in sé la totalità del divenire,  vanificandola. Il circolo non ha né inizio né fine, nemmeno se  inizio e fine sono il nulla (come invece pensa Leopardi con un  rigore che è massimo all’interno di una prospettiva in cui,  tuttavia, non si vede ancora la necessità dell’eterno ritorno di  tutte le cose), perché anche in questo caso il divenire avrebbe  una direzione, cioè sarebbe sottoposto a una legge che  attribuirebbe al nulla i tratti che sono propri  dell’anticipazione divina del tutto. Se il nulla stesso fosse  l’origine unica e inamovibile da cui tutto proviene e il termine  a cui tutto ritorna (anche la scienza e in particolare la  cosmologia si muovono per lo più nei paraggi di questa tesi),  il nulla preordinerebbe il futuro e riceverebbe il passato in  modo analogo a quello in cui il futuro e il passato sono  rispettivamente preordinati e conservati da Dio.   Ciò non significa che il futuro non sia un uscire dal nulla e  il passato non sia un ritornarvi: significa escludere che i nulla  del futuro e del passato si distacchino dai punti del circolo  dell’eterno ritorno e si configurino come dimensioni  teologiche, immutabili, dominanti ed esterne rispetto alla  casualità del divenire. Nemmeno il nulla può essere lo scopo e  il riposo eterno dell’uomo. L’esistenza non ha senso.   Che il divenire abbia un «senso» è un modo di affermare  che il divenire è guidato da un Dio. Appunto perché è    144     impossibile che un qualsiasi immutabile esista, è necessario  che il divenire - e cioè il tutto, la totalità di ciò che esiste - sia  assolutamente senza senso. Come è impossibile un inizio  assoluto, così è impossibile uno scopo assoluto.   Il pensiero di Nietzsche mostra dunque non solo che ogni  Dio, cioè ogni Immutabile, rende impotente la volontà, ma  che la forma più potente della volontà è quella in cui la  volontà vuole l’eterno ritorno di tutte le cose. Sino a che la  scienza guiderà la tecnica assumendo la potenza come una  volontà che vuole soltanto «in avanti» e che non sa di avere  potenza anche sul passato, ossia non sa di essere, essa, l’eterno  ritorno di tutte le cose, la tecnica non potrà raggiungere la  potenza massima cui è destinata. Il destino della tecnica è di  ascoltare la voce dell’eterno ritorno di tutte le cose e di  realizzare l’epoca della potenza massima raggiungibile  dall’esistenza (e a sua volta destinata a declinare, a ridursi, per  poi ricomparire infinite volte).   La tecnica è destinata a volere l’eterno ritorno di tutte le  cose. Questa è la dottrina di Nietzsche che ancora è la più  lontana dalla coscienza che scienza e tecnica hanno di sé  stesse (anche se la possibilità di un recupero del passato è  sempre più presa in considerazione aH’interno del sapere  scientifico). Più vicina a quella coscienza è la dottrina che la  morte di Dio toglie ogni limite alla volontà di potenza, anche  se la morte di Dio non deve essere trattata come un dogma  simmetrico a quello degli amici di Dio, ma deve essere vista  nella sua necessità.   Tutto ciò che qui è stato sommariamente tracciato trova il  proprio significato concreto nelYAnello del ritorno. Qui si  deve lasciar da parte, di quel mio scritto, la considerazione  dell’aspetto speculativamente più rilevante del pensiero di  Nietzsche, cioè il senso autentico della tragedia da cui esso è    145     avvolto e che può essere indicato dicendo che se la fede  nell’evidenza del divenire implica necessariamente l’eterno  ritorno di tutte le cose, tale fede implica necessariamente la  negazione di sé stessa.   Infatti, se l’eterno ritorno non è la riesumazione di  un’antica dottrina metafisica, esso è tuttavia pur sempre  un’eternità. Il tragico che il pensiero di Nietzsche non ha mai  guardato in faccia (e che quindi non ha nulla a che vedere con  le considerazioni di Nietzsche sulla tragedia attica) e che  tuttavia grava sulle sue spalle è che la negazione del divenire  appartiene necessariamente all’essenza del divenire: che il  divenire non è divenire.   Il genio di Nietzsche è infinitamente maggiore di quello  che egli è disposto ad attribuire a sé stesso. Infinitamente  maggiore, perché, senza volerlo - e anzi volendo l’opposto -  mostra l’abisso senza fondo su cui si libra la fede che regge  l’intera storia del mortale e, al culmine di quest’ultima, la  storia dell’Occidente. Non si dovrà dire allora che il librarsi  della fede nel divenire sull’abisso senza fondo della negazione  di questa fede - il legame indissolubile che lega questa fede  alla propria negazione - è il librarsi stesso della Follia - non  quella che lacera la mente di un individuo che è stato un  grande filosofo, ma quella che sta alla radice del modo in cui  l’uomo ha abitato e tuttora abita la terra?    146     5. Divenire, tecnica, «differenza ontologica »-   Ricordo che due anni fa - Hans-Georg Gadamer era  venuto a Venezia, e stavamo entrando a Ca’ Foscari parlando  di Heidegger-, mentre ponevo termine alla nostra  conversazione, perché la conferenza del professor Gadamer  era imminente, volli avanzare quello che mi sembrava il  punto decisivo, e gli dissi che tra Heidegger e l’essenza della  tecnica c’era una sostanziale solidarietà. Al che Gadamer  rispose con un «no» tanto perentorio quanto gentile. Ma è  proprio su questo punto che vorrei un po’ soffermarmi;  quindi mi è cara l’occasione per riprendere quel discorso  interrompu con Gadamer: l’essenziale solidarietà del pensiero  di Heidegger con l’essenza della tecnica, con quell’essenza che  secondo Heidegger si colloca agli antipodi della sua posizione.   Ieri si è parlato di «differenza ontologica»: vorrei prendere  le mosse da questo concetto. «Differenza ontologica» significa  che esiste una essenziale accidentalità nel rapporto tra l’essere  e l’ente. Significa che l’ente non è essenzialmente legato  all’essere e in questo senso è un evento che sopraggiunge  improvvisamente e imprevedibilmente. Il concetto che è  opposto a quello di «differenza ontologica» è la «non-  differenza ontologica». Questa lega l’essere all’ente; questo  legame, per Heidegger, o la storia di questo legame, è la storia  della metafìsica. Legare l’essere all’ente vuol dire assicurare le  cose al loro essere. Assicurandole, le cose diventano stabili e  arginano, bloccano, il sopraggiungere delle novità storiche.   Allora, parlare della «non-differenza ontologica» è parlare  delfimmutabilità, o dell’eternità delle cose. Recentemente, è  uscita la traduzione di Was heisst Denken, dove viene  sviluppato il concetto che al culmine di questa assicurazione  degli enti all’essere, al culmine della «non-differenza  ontologica» sta il pensiero di Nietzsche. Heidegger cita il    147    frammento 617 della Volontà di potenza, dove si parla della  «vetta della contemplazione»: la vetta della contemplazione è  il ritorno di tutte le cose. Questa, per Nietzsche, è l’«estrema  approssimazione del mondo del divenire al mondo  dell’essere». Heidegger vede in Nietzsche, in quanto teorico  dell’eterno ritorno, l’anticipatore della civiltà della tecnica,  perché la civiltà della tecnica consiste nella programmazione  che esclude la differenza ontologica; la programmazione che,  stabilendo la routine, la ripetizione dell’inedito, esclude la  possibilità del sopraggiungere del nuovo, del diverso.   Heidegger si muove certamente verso l’espressione  dell’essenza del pensiero occidentale, in quanto,  allontanandosi dalla maggior parte delle forme del pensiero  contemporaneo, capisce che l’essenza di tale pensiero va vista  in termini ontologici. Ma è appunto in questa raffigurazione  heideggeriana dell’aspetto ontologico della civiltà occidentale  che si cela quella sostanziale solidarietà fra Heidegger e la  tecnica, di cui avevo parlato prima. Perché?   Il tema dell’«eterno ritorno» dice dunque che il nuovo è  impossibile, ed «eterno ritorno» vuol dire «estrema  approssimazione del mondo del divenire al mondo  dell’essere». Ecco, penso che tutti colgano il significato della  parola «approssimazione», che è «estrema», ma è pur sempre  approssimazione. Ciò vuol dire che la distinzione tra il mondo  del divenire e il mondo dell’essere rimane; c’è sì l’estremo  tentativo di identificarli, ma è tentativo che lascia  inevitabilmente un margine dove il divenire non è l’essere. È  il massimo che si può compiere per identificare i due mondi;  ma il tentativo è uno sforzo, non riesce.   Ora, il concetto dell’eterno ritorno finisce col bloccare il  divenire, ma il divenire è bloccato solo in quanto se ne  riconosce l’esistenza. Se teniamo ferma la vicinanza che    148     Heidegger stabilisce tra tema dell’eterno ritorno e civiltà della  tecnica, allora l’immutabile, cioè la non-differenza ontologica  in cui consiste quell’immutabile che è l’eterno ritorno, è  possibile soltanto sul fondamento del riconoscimento  dell’esistenza del divenire. L’immutabile protegge dal pericolo  della novità, precattura il nuovo, ma proprio perché è la difesa  rispetto alla novità che il divenire porta con sé, appunto per  questo l’affermazione dell’immutabile è il riconoscimento del  divenire.   Ma questo riconoscimento del divenire - che dunque è  evidente in Nietzsche: proprio in quanto egli si vuole  assolutamente cautelare dal divenire - questo riconoscimento  del divenire non è nulla di diverso, nell’essenza, da ciò che  Heidegger chiama «differenza ontologica». Perché, se  «differenza ontologica» significa accidentalità dell’ente  rispetto all’essere, il non essere legato necessariamente  all’essere da parte dell’ente, allora «differenza ontologica»  vuol dire appunto il movimento di oscillazione delle cose, e la  loro eventualità è il loro andare e venire - un processo in cui  le cose sono lasciate nel loro andare e venire. Voglio dire che  quel divenire, che è necessariamente riconosciuto da  Nietzsche quando egli intende rendere radicale (e insieme  difendersene) con 1’evocazione dell’eterno ritorno, quel  divenire è altrettanto radicalmente riconosciuto da Heidegger  quando egli lo esprime in termini puramente ontologici,  come, appunto, «differenza ontologica».   D’altra parte è chiaro che quando Heidegger parla della  programmazione operata dalla civiltà della tecnica, che  impedisce la storia, dissente da questo acme che la metafisica  occidentale raggiunge nel pensiero di Nietzsche e nella civiltà  della tecnica. Voglio dire che quel modo di interpretare  Heidegger per il quale egli verrebbe a equivalere simpliciter a  Weber, non è quello che intendo sostenere. Dal punto di vista    149     filologico è ovvio che Heidegger intende prendere le distanze  dall’epoca in cui domina la civiltà della tecnica. Egli rivendica  la possibilità del nuovo in contrapposizione all’eliminazione  del nuovo.   Allora, una prima domanda: qual è il fondamento  dell’esigenza del nuovo? Perché ci deve essere il nuovo?  Perché non ci può essere un sistema che predetermini la  totalità dell’evento, precatturando appunto ogni novità e  rendendo impossibile ogni novità? Che cos’è ciò che fonda  questa esigenza del nuovo, che è l’esigenza dell’esistenza della  storia? Lo so, è l’esigenza di tutti abitatori dell’Occidente: noi  vogliamo che la storia esista. Ma perché deve esistere il non¬  sistema? Ecco, sostengo che Heidegger esprime  semplicemente l’esigenza, ma non più che l’esigenza, della  esistenza del nuovo: si limita a un’atteggiamento, che è  proprio dell’intera cultura contemporanea, che non può  escludere il sopraggiungere di un sistema il quale riesca a fare  ciò che Hegel non è riuscito a fare. Per escludere il sistema,  per riuscire a escludere la negazione della storia e della novità  è necessario un approfondimento del senso ontologico del  divenire, che rimane invece nel sottosuolo del pensiero di  Heidegger (cfr., del mio saggio Gli abitatori del tempo,  Armando 1978, il capitolo intitolato Gòtterdàmmerung).   Seconda domanda: quando Heidegger polemizza contro la  civiltà della tecnica, contro il piano, la programmazione, non  si dimentica forse della caratteristica essenziale della scienza  moderna, cioè del carattere ipotetico della scienza?  L’anticipazione del futuro da parte d elYepistéme tradizionale è  indubbiamente una cattura che elimina radicalmente la  novità. Se è già aperto il senso del mondo, se il senso del  mondo è già aperto all’interno di una epistéme, allora il nuovo  è certamente impossibile. Ma la scienza moderna si è  costituita proprio attraverso la distruzione d elYepistéme;    150     quindi la programmazione, il piano, in cui consiste la civiltà  della tecnica, è una anticipazione ipotetica del futuro: se  teniamo presente il concetto di scienza come «metodo  sperimentale», allora, all’interno di questa prospettiva, la  scienza, come sperimentazione, è una programmazione che  però resta aperta alla smentita possibile operata dalla novità  sopraggiungente. Vepistéme, sì, elimina la novità; dice alla  novità: Io so già che cosa tu sei, io sono la tua regola; ma la  scienza non fa questo, cioè la scienza realizza appunto a fondo  quell’atteggiamento di apertura verso la novità storica, che  Heidegger si limita a invocare. Questo sarebbe un primo  senso secondo il quale la civiltà della tecnica è l’autentica  erede dell’atteggiamento che Heidegger intende proporre. Ma  vi è un senso più sostanziale.   Il senso più originario e più nascosto della volontà di  potenza è la volontà che la storia (il divenire, la «differenza  ontologica») esista. Solo se si stacca l’ente dall’essere e lo si fa  oscillare tra l’essere e il niente è possibile il dominio dell’ente.  Alla base della volontà di dominio sta la volontà che esista il  campo del dominabile. Questa volontà originaria è l’essenza  dell’Occidente. E in questa essenza convengono quindi anche  la tecnica e il pensiero di Heidegger. Ma il pensiero di  Heidegger, a differenza della tecnica, contraddice la propria  essenza, perché mentre la tecnica, volendo il dominio  dell’ente, porta a compimento l’originaria volontà di potenza  (cioè la volontà che il dominabile esista), e cioè resta fedele  alla propria essenza, Heidegger contrappone alla volontà di  dominio il «lasciar essere» gli enti: quel «lasciar essere» che è  stato originariamente violato (anche) dal pensiero di  Heidegger, proprio perché la volontà che separa l’ente  dall’essere - e che quindi vuole la nientità dell’ente - non  lascia essere l’ente nel suo essere presso il suo essere, nel suo  essere unito al suo essere. In questo senso, la volontà di    151     potenza, nel pensiero di Heidegger, è incoerente (tradisce la  propria essenza), mentre la tecnica si libera da questa  incoerenza ed è quindi la coerenza del pensiero di Heidegger  (e non solo di esso). In questo senso bisogna dire che il  pensiero di Heidegger è unterwegs zur Technik, in cammino  verso la tecnica. O anche: il pensiero di Heidegger esce  dall’incoerenza solo se si pone come il lasciar essere le forze  che si contendono il dominio dell’ente, e quindi come il  lasciar essere l’organizzazione tecnologica del mondo, che   ormai ha avuto il predominio su ogni altra forza.   *   Intervento al convegno su «L’eredità di Heidegger», tenutosi all’università di Padova nell’inverno  1978 (con la partecipazione, tra gli altri, di H.G. Gadamer, A. De Waelhens, M. Riedel, G. Vattimo) e poi  pubblicato in «Verifiche», anno Vili, IV, 1.    152    VI   Stare autenticamente oltre l’essenza del nichilismo: il   destino   1. Il destino   Le religioni soddisfano i desideri più profondi deiruomo. I  miti gli dicono che può accostarsi e unirsi alle potenze  supreme: possono salvarlo dal dolore e dalla morte e renderlo  felice in un’altra vita. Dando ascolto a queste voci, per  millenni e millenni l’uomo riesce ad anticipare qui sulla terra  quella felicità, e a sopravvivere. Crede, ha fede in esse, ne è  certo. Ma queste voci asseriscono, raccontano: non possono  impedire che il dubbio si insinui e si faccia largo nella gran  massa delle loro certezze. Il mito soddisfa il desiderio, ma è  inaffidabile. La salvezza è il contenuto di un sogno. Nemmeno  le religioni più evolute riescono a uscirne.   Si fa avanti allora la religione. Intende mostrare come il  dubbio possa esser vinto. La storia breve della religione: due  millenni e mezzo. In essa, però, i criteri per accorgersi di ciò  che è sogno sono andati sempre più perfezionandosi. E  tuttavia il contenuto del sogno non è stato sostituito da una  veglia altrettanto salvifica e beatificante. L’uomo ha voluto  vedere - e, di assolutamente affidabile, ha visto soltanto  l’assoluta precarietà della propria condizione.   Scienza e tecnica fanno sì prevedere, qui sulla terra,  l’avvento del loro paradiso. Ma fanno anche capire che  nemmeno questo paradiso può uscire dal sogno. Sanno che,  per quanto raffinate, le loro procedure razionali sono  ipotetiche, fallibili. La condizione umana è precaria, perché  precaria è ogni rassicurazione razionale dalla non precarietà  dell’umano. Sia pure in modo diverso, la salvezza dal dolore e  dalla morte continuano a essere qualcosa di sognato.    153     In questa situazione, i miei scritti indicano qualcosa che  non può non sembrare esorbitante e velleitario. Può essere  espresso con l’affermazione di Eraclito: «Sono attesi gli  uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né  suppongono». Intendo: da cose che sono infinitamente «di  più» di ciò che essi desiderano, suppongono, sperando di  ottenere; infinitamente di «di più» di ciò verso chi vuole  condurre la stessa speranza cristiana, e dunque «di più» di  ogni «immortalità» e di ogni «resurrezione della carne» che a  speranze di questo genere sono connesse - e infinitamente «di  più» di ciò a cui lo stesso Eraclito poteva riferirsi. Siamo  destinati a qualcosa che è infinitamente «di più» di tutto  quanto il più insaziabile dei desideri può volere.   Ma il carattere esorbitante di queste affermazioni è ancora  maggiore, perché quel che esse indicano non si presenta, nei  miei scritti, come il contenuto di un mito, ma come lo stare,  in modo assoluto, al di fuori del sogno in cui rimane ogni mito  e ogni forma della stessa ragione. In questo stare al di fuori  del sogno non si tratta di «attendere» l’avvento dell’insperato:  già ora, da vivi, gli uomini sono avvolti da una «veglia»  assoluta che è infinitamente «più» radicale di ogni  incontrovertibilità e di ogni procedura critica della ragione -  dunque anche di quella delle scienze logico-matematico-  naturali. È all’interno di questa «veglia assoluta» che si mostra  la destinazione dell’uomo a cose che egli non spera né  suppone. L’uomo non è ciò che il mito e la ragione gli fanno  credere di essere, ma è lui stesso, nel profondo, a esser questa  veglia assoluta. In essa appare l’infinito allargarsi di sé stessa,  cioè la sua Gloria; il suo accogliere tratti sempre più ampi del  Tutto, ossia della Gioia che l’uomo, da ultimo, è.   Nei miei scritti tale «veglia assoluta» è indicata dalla parola  «destino», intesa come costruita in modo analogo a termini  quali de-amare, de-vincere, dove il de esprime    154     l’intensifìcazione dell’amare e del vincere, sì che il destino è  l’intensificazione estrema dello «stare», cioè dell’inamovibilità  in cui consiste la «veglia assoluta».   Il destino è l’apparire di ciò che è, ossia degli essenti. Nel  destino appare che ogni essente è sé stesso e non diventa altro  da sé , e dunque è eterno; e appare che il variare del mondo è il  sopraggiungere degli eterni nell’apparire, ossia è la Gloria  dell’inesauribile sopraggiungere della Gioia; e, insieme, nel  destino appare che la negazione del destino è negazione di sé  stessa, una freccia che, volendolo colpire, colpisce sé stessa. Il  destino è il senso autentico della verità.   E, ancora, nel destino appare che l’uscire dal nulla e il  ritornarvi non appaiono, ma appare il sopraggiungere di  quegli eterni che sono il dolore e il piacere, la nascita, l’agonia.  Il cadavere - gli eterni che sono «oltrepassati» quando  tramonta l’isolamento della terra dal destino. Nell’isolamento  della terra, la fede nel divenir altro porta alla luce la volontà di  salvezza e di potenza. Nel suo significato essenziale la morte è  il divenir altro (ossia è l’impossibile); e da sempre i mortali  hanno tentato di vincere la morte diventando altro da ciò che  essi sono: uccidendo il Dio, come Adamo, o diventandone gli  alleati, come Gesù. Hanno tentato di vincere la morte con la  morte.   Certo, tutto questo, detto in questi termini, può sembrare  un ennesimo mito che ripropone quanto la tradizione  filosofico-metafisica dell’Occidente ha inteso essere: l’unità di  quanto interessa l’uomo e di quanto la ragione può dire  (l’unità tuttavia che non può essere realizzata né dalla  coscienza religiosa né dalla configurazione che la religione è  venuta ad assumere nel nostro tempo). Ma, lungo la storia  stessa dell’Occidente, quella tradizione è tramontata.  Sennonché è proprio nei miei scritti che si mostra    155     l ’inevitabilità di tale tramonto, la quale va rintracciata in  quella dimensione più profonda del pensiero filosofico del  nostro tempo, che questo stesso pensiero per lo più non riesce  a raggiungere.   D’altra parte sin dal suo inizio la filosofia porta alla luce  non solo l’istanza dell’incontrovertibilità, ma anche un senso  radicalmente nuovo della salvezza: si tratta di salvarsi dal  nulla da cui le cose del mondo sporgono improvvisamente. Il  mito prefilosofico non pensa il nulla e dunque non vede  nemmeno che la morte è annientamento. Non vede il pericolo  estremo e quindi non salva da esso. Pensando l’eternità del  divino, la tradizione filosofica crede che la salvezza dal nulla  sia possibile. Ma se si sa scendere nella dimensione profonda  della filosofia degli ultimi due secoli si scorge che qualsiasi  Essere eterno è impossibile. Impossibile, quindi, anche ogni  «verità eterna», incontrovertibile, definitiva. Ciò significa che  sia la tradizione filosofica sia la filosofia del nostro tempo, sia  l’intero passato sia l’intero presente della civiltà occidentale, e  dunque, ormai, planetaria, hanno in comune il grande mito -  la grande Follia - in cui il variare del mondo è inteso come  l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte degli essenti. (Il mito  che dunque accomuna non solo gli amici e i nemici di Dio,  ma anche, per quanto riguarda la filosofia del nostro tempo,  la cosiddetta «filosofia analitica» e la cosiddetta «filosofia  continentale»). La volontà di salvezza - che è la stessa volontà  di potenza - è la figlia di questo mito.   Ma è inevitabile che si obbietti: «Come può essere  sostenibile un discorso che ritiene di essere l’unico a non  appartenere al mito e alla follia? Il genio dell’uomo ha sempre  fatto perno sul divenir altro delle cose; e proprio quel  discorso, che pretende di smentire quel che l’uomo ha sempre  pensato, e su cui si fonda tutto ciò che egli ha creato,  dovrebbe esser l’unico detentore della verità?».    156     Possiamo richiamare così la risposta a questa obbiezione -  che peraltro è sempre stata rivolta ai filosofi e al «campo di  lotte senza fine» (dice Kant) a cui essi hanno dato vita. Che  esistano altre coscienze, oltre a quella che appare nel destino  è, originariamente, un problema, non una verità assoluta.  Originariamente, è un problema che l’uomo sia una società di  individui umani. Ed è un problema anche ciò che i linguaggi  dell’uomo intendono dire. Li si interpreta; ma  l’interpretazione non è una verità assoluta. È dunque  un’interpretazione anche Yesistenza del dissenso rispetto al  linguaggio che indica il destino - del dissenso che si esprime  dunque anche nell’obbiezione che stiamo discutendo. È una  interpretazione anche l’esistenza della storia, di cui prima si è  detto, che conduce dal mito alla ragione. Che il genio degli  uomini sia sempre rimasto al di fuori del destino, e abbia  sempre agito secondo questa sua alienazione, è  interpretazione, cioè qualcosa di problematico. Il linguaggio  che indica il destino dovrebbe propriamente dire: se c’è stato  qualcosa come «mito», e se c’è stato qualcosa come «ragione»,  allora l’avvento della ragione esprime l’inaffìdabilità del mito,  e la esprime nel modo sopra rilevato.   Certo, al destino appartiene anche la necessità del suo  essere presente in infiniti altri cerchi dell’apparire - e in  questo senso gli appartiene l’affermazione che Tesser uomo è  Tessere una molteplicità di modi di esser uomo, ossia è una  «società». Ma poiché è sul fondamento del destino che  l’esistenza di questa molteplicità può essere affermata  incontrovertibilmente, allora, se si scopre che tale molteplicità  è tutta o in parte un dissenso rispetto al contenuto del  destino, tale dissenso morde la mano che lo sorregge, nega ciò  sul cui fondamento è affermata incontrovertibilmente la sua  esistenza. Che esista il dissenso che si scandalizza o irride le  esorbitanti pretese del linguaggio che indica il destino non è    157     un «fatto»: è anch’esso un mito. Quando il destino mostra di  essere presente in un’infinità di «coscienze» e mostra il loro  dissentire dal destino, tale dissenso perde ogni verità. Che tale  dissenso esista viene affermato infatti proprio in base a ciò da  cui si dissente.    158     2. La fantasia e la terra   La fantasia è l’insieme delle «immagini originarie», delle  «forme di rappresentazione più antiche e più generali  dell’umanità»: gli «archetipi» (ad esempio il divino). «Diffusa  dappertutto», la fantasia «appartiene ai misteri della storia  dello spirito umano». Così scrive Cari Gustav Jung. Platone  vede nelle «idee» le immagini originarie di tutte le cose, gli  archetipi; così originarie da essere le stesse cose originarie. Ma  per lui la conoscenza delle idee non appartiene ai «misteri»  dello spirito umano, bensì alla «scienza» ( epistéme ) della  «verità» a cui solo il filosofo è capace di sollevarsi e che  dunque è l’opposto della «fantasia» intesa come evocazione  misteriosa, e quindi da ultimo oscura e arbitraria, di mondi.   Eppure è necessario risalire molto più indietro di ogni  archetipo a cui l’uomo si sia rivolto lungo la propria storia. Ci  si imbatte nella forma originaria della fantasia, di cui tutti  quegli archetipi sono derivazioni. Da tempo chiamo «terra» la  storia dell’uomo e delle cose che gli si fanno incontro. Infatti  si può pensare che la più antica origine di questa parola  indichi il venire e l’andare, l’insieme di ciò che va e viene: il  seno e la voce materna, la luce e la casa, uomini e dèi, il dolore  e il piacere: cose terrestri e celesti, giacché anche il divino  raggiunge i mortali a un certo punto della loro vita e poi da  molti di essi si allontana. La terra: gli stormi delle cose che  vengono e vanno.   Da che cosa è accolta la terra? Da che luogo si allontana? I  mortali appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma  l’uomo non è un mortale. Egli è il luogo eterno in cui appare  ciò che da sempre la verità è destinata a essere: il «destino  della verità del Tutto»; essenzialmente diversa da ciò che i  mortali hanno inteso con le parole «destino» e «verità».  Nell’uomo sopraggiunge la terra. Ma insieme a essa    159     sopraggiunge e si fa dominante la convinzione che l’uomo sia  un mortale, e con lui tutte le cose; ed egli vive come se in  verità lui e le cose lo fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna.  Non solo le «anime», come invece pensa Platone, ma anche i  «corpi», e tutti gli stati delle une e degli altri. Anche la terra è  eterna; e anche quella ingannevole convinzione che separa la  terra dal destino della verità.   Com’è lontano questo discorso da tutto ciò di cui sono  convinti i mortali. Anche e soprattutto in questo caso la sua  inevitabilità non può essere, qui, neppure lontanamente  indicata. Qui si tratta solo di mostrare, e da lontano, in che  senso è necessario risalire molto più indietro di ogni  archetipo evocato dai mortali. Tanto indietro da poter  scorgere che sia la «verità» dei mortali sia la loro «fantasia»  hanno la stessa anima e che quest’anima è la forma originaria  della fantasia.   In una delle sue accezioni più comuni, la fantasia è la  capacità di portare alla luce mondi diversi da quello  quotidiano o da quello che è ragionevole ritenere esistente.  Ma questi due tipi di mondi, cioè di andirivieni, entrambi  evocati dai mortali, appartengono alla terra. Essa è il  fondamento non solo della sapienza di questo mondo e della  sapienza di Dio, ma anche della fantasia. E la terra si inoltra  nel luogo eterno del destino della verità.   Ma non basta. La maggior parte di coloro che leggono  queste righe sta pensando che esse non abbiano nulla a che  fare con la «realtà» e la «serietà della vita». Fantasie, appunto.  Ma anch’essi sanno infinitamente di più di quanto credono di  sapere. Sono l’apparire del destino. L’autentica fantasia  originaria è cioè la convinzione che la «realtà» con cui noi  abbiamo sicuramente a che fare sia, appunto, le cose che  vengono e vanno, terrestri o celesti, le cose della terra ; e ormai    160     si pensa che tutte le cose vengano dal nulla e vi vadano. Tutto  è avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa persuasione i  mortali vivono nella terra separata dal destino della verità,  nella terra che appare sfigurata, irretita, trascinata in basso. La  terra dei morti. La fantasia originaria è la separazione della  terra dal proprio destino. Una metafora può forse aiutare a  comprendere queste affermazioni - purché non si dimentichi  che la filosofia autentica non è metafora, ma il pensiero più  radicale, essenzialmente più radicale e inevitabile di ogni altra  forma di sapere, scienza compresa.   Quando i cacciatori vedono gli stormi di uccelli  attraversare il cielo, non è che il cielo non lo vedano più. Non  si produce in essi qualcosa come un «oblio» del cielo e del più  alto dei cieli - quale invece secondo Platone si spalanca nelle  anime che hanno perduto le ali e non riescono più a vedere gli  archetipi che appaiono nella «pianura della verità». Quei  cacciatori, il cielo, lo vedono ancora, ma son tutti presi dal  volo degli uccelli e se qualcuno parlasse loro del cielo  direbbero che le sue son fantasie e che sono gli uccelli le cose  con cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal  volo degli uccelli perché non mirano ad altro che a prenderli,  gli uccelli; ed effettivamente li prendono, e gettano loro  addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo, li  trascinano giù in basso e li uccidono.   La fantasia originaria è il volo irretito degli uccelli. L’arte  tenta di rievocare il libero volo, ma, per quanto splendente,  rimane anch’essa aU’interno della rete, mostrando il volto  sfigurato della terra. Giacché ora si può capire che, nella  metafora, il volo degli uccelli corrisponde alla pura terra, il  cielo al destino della verità. La rete dei cacciatori corrisponde  dunque alla volontà di potenza che isola la terra dal destino  della verità. Tale isolamento è la forma originaria della  fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e    161     miti, filosofia, arte, scienza, tutti i morti pensieri e le opere  morte dei mortali.    162     3. Discutere il destino della verità, concretezza delVerrare,  isolamento della terra, linguaggio   Anche oggi il tema di fondo del pensiero filosofico -  nonostante i tentativi di eliminarlo, ma anche in seguito alla  loro presenza - riguarda la «verità» di ciò che è conosciuto e  voluto dall’uomo. Con diversi gradi di potenza e rigore la  filosofia del nostro tempo rifiuta la possibilità di una «verità»  assoluta e definitiva, capace di affermare qualcosa di  Immutabile. Un rifiuto, questo, che è cosa ben diversa dal  considerare superfluo il tema della «verità»; e che là dove è  adeguato al proprio compito è un rifiuto inevitabile. Esso è  tuttavia la coerenza estrema del nichilismo.   Da quando abita la terra l’uomo intende le cose del mondo  come un «diventare altro»; da quando la terra è abitata dalla  filosofia la filosofia concepisce la «cosa» come «ciò che è»  («ente») e definisce il suo diventar altro come «passaggio dal  suo non essere al suo essere» e viceversa. La cosa che  incomincia a essere è stata nulla nella misura in cui essa non  era e incomincia, e la cosa che finisce di essere torna nel nulla  nella misura in cui essa finisce e non è più. Procedendo da  questo senso dell’esser cosa è inevitabile che la filosofia  pervenga al rifiuto di ogni verità assoluta e definitiva e di ogni  Ente immutabile e «divino»; e viceversa, tale rifiuto è  inevitabile solo se procede da quel senso - che domina  progressivamente non solo i pensieri ma anche le opere della  civiltà occidentale e, ormai, dell’intero pianeta. (Ciò non  significa che questa dominante inevitabilità stia davanti agli  occhi di tutti i protagonisti della filosofia contemporanea:  all’opposto, va invece rintracciata nel sottosuolo del nostro  tempo.)   Il senso greco dell’esser cosa domina la terra perché è  ritenuto indiscutibile. Ma perché non può essere discusso? In    163     questa domanda traspare la dimensione ignota alla storia  della terra. Tanto più ignota quanto più tale dimensione si  mostra non come un semplice domandare, ma come  negazione di quel senso e quindi come negazione di ciò sulla  cui base è inevitabile che si pervenga alla negazione di ogni  verità incontrovertibile. Tale dimensione è il destino (inteso  secondo il senso richiamato nelle pagine precedenti).   Il destino è la manifestazione del differire degli essenti tra  loro e del loro non essere. Essi sono le differenze. Proprio per  questo il destino è la manifestazione dell’impossibilità che  «ciò che è», in quanto tale, non sia: è l’apparire della necessità  che Tessente in quanto essente (e pertanto ogni essente) sia  «eterno». Le implicazioni di questa affermazione conducono  molto lontano.   Ma il destino è tale solo in quanto è la dimensione in cui  appare incontrovertibilmente il senso dell’incontrovertibile e  Tincontrovertibilità di tale dimensione: non è la fede nella  propria incontrovertibilità. Con una espressione che, qui, non  può che rimanere astratta, formale, si può indicare il senso  delTincontrovertibilità e della necessità del destino dicendo  che esso è la dimensione la cui negazione nega sé stessa. Il  destino è la negazione della fede, cioè dell’errare.   L’«uomo» di cui si parla all’interno della terra isolata dal  destino è anch’esso il contenuto di una fede. Con ciò si  intende qualcosa di essenzialmente più radicale  dell’affermazione che l’uomo erra: si intende che la fede  nell’esistenza dell’uomo della terra isolata è un errare, un  sogno. La terra intera, in quanto appare separata dal destino,  è il contenuto del grande sogno in cui consiste la «vita» e che  è il grembo di ogni fede. (Ma in quanto è un essente, anche il  sogno è un eterno.) La vera essenza dell’uomo è il destino.  Essa non «appartiene» ad alcuno degli abitatori, umani o    164     divini, della terra isolata. È all’opposto la terra isolata ad  appartenere al contenuto che appare nel destino - giacché  solo nel destino può apparire incontrovertibilmente  l’esistenza dell’errare, della fede, del sogno, ossia della  negazione del destino della verità.   Discutere il destino è un modo di negarlo, sì che tale  discussione nega sé stessa. Infatti «discutere» significa  affermare una differenza: tra ciò che è discusso e ciò che in  vari modi gli si oppone. E il destino - si è detto - è  innanzitutto l’apparire del senso che compete alla differenza  (ossia alla differenza dei differenti). Discutere e opporsi al  destino è quindi un differirne. E proprio per questo è  condividerne, più o meno inconsapevolmente, il tratto  originario: l’affermazione della differenza. In questo differire -  condividendo-ciò-da-cui-si-differisce si ripresenta  l’indicazione, prima sommariamente richiamata, del senso  dell’incontrovertibile, ossia Tesser la dimensione la cui  negazione nega sé stessa. Discutere il destino è condividerlo;  ma è anche negarlo, e pertanto è negare tale condivisione, sì  che discutere il destino è negazione di sé stesso.   È necessario affermare l’esistenza delle differenze non  perché esse appaiono all’interno della fede e del sogno in cui  consiste la terra isolata dal destino - e dunque, da ultimo, non  perché si vuole che esse siano. È nel destino che appare la  necessità della differenza dei differenti e la necessità della loro  eternità e di tutto ciò che essa implica: nel destino - che già da  sempre si apre al di là del percorso dove gli abitatori della  terra pervengono inevitabilmente, sul fondamento della fede  nel diventar altro, alla negazione di ogni verità e di ogni Ente  immutabile.   Discutere e opporsi al destino, quindi condividendolo, è  pertanto solo il tentativo inconsapevole di condividerlo.    165     Giacché altro è la negazione del destino, che gli appartiene  essenzialmente in quanto esso è la negazione della propria  negazione (e questa negazione del destino non è un semplice  tentativo di esser negazione); altro è la negazione che appare  nella terra isolata dal destino e che se (a differenza dell’altra  negazione) si rende visibile agli abitatori di questa terra,  tuttavia, in quanto è una fede, è solo un tentativo di essere  negazione del destino.   Già il vivere è trovarsi nelle differenze - è, appunto,  credere, aver fede di trovarvisi. Forse la differenza più antica è  quella che la volontà è convinta di esperire tra i propri  desideri e le resistenze da essi incontrate. Oggi la tecnica  guidata dalla scienza moderna è il modo più potente con cui  la volontà domina le differenze. Ma nemmeno la scienza e la  tecnica, nonostante il loro rigore concettuale, riescono a porsi  al di là della fede e pertanto della fede nell’esistenza delle  differenze.   La filosofia, sin dall’inizio, è la volontà di liberarsi dalla fede  - quindi dal mito, che è uno dei contenuti più antichi della  fede e che a lungo ha raccolto in sé e dominato ogni altra  forma di fede (e ancora permane in molte parti del mondo).  Eppure la filosofìa conserva il tratto centraledella fede  prefilosofica nelle differenze: conserva, appunto, la fede nel  loro diventar altro. Il pensiero filosofico conserva in sé la fede  che le differenze siano anche un differenziarsi, e nel modo più  radicale. I miti raccontano cosmogonie, teogonie,  metamorfosi: le grandi forme del diventar altro.   La filosofìa, però, intende essere il «vero» racconto. La sua  grandezza sta nell’aver evocato una volta per tutte il senso  radicale della «verità». La «verità» è il mostrarsi  dell’assolutamente incontrovertibile. Si è poi trattato di  stabilire il senso dell’«assolutamente incontrovertibile» e il    166     contenuto di cui è necessario affermare tale  incontrovertibilità. Ma lungo la storia dell’Occidente la fede è  prevalsa sulla stessa filosofia: oltre a essersi sviluppata come  fede nel differenziarsi delle differenze, la filosofia si è sempre  più consolidata come fede nell’incontrovertibilità della  manifestazione («esperibilità», «osservabilità») di tale  differenziarsi.   «Verità» si dice in molti sensi anche perché molti ambiti  della vita si presentano come «verità» - e per questo si parla  di «verità» religiosa e morale, di «verità» degli istinti, degli  affetti, dell’arte, di «verità» della filosofia e della scienza; e,  complessivamente, di «verità» dell’esistenza della vita e della  terra (quale appare nel suo essere isolata dal destino). Ma  poiché queste «verità» non sono il destino della verità, esse  sono tutte «verità» controvertibili - per quanto diversa possa  essere la loro «plausibilità» («probabilità», «ragionevolezza»,  «potenza» e «coerenza» concettuale) e potenza - e raffermarle  è sempre una fede, anche quando esse hanno fede nella  propria incontrovertibilità. La «più plausibile» è lontana dal  destino tanto qua nto la «meno plausibile»: infinitamente.  (Questo, anche se è appunto all’interno di questa infinita  lontananza che tuttavia si presenta come «inevitabile», nel  pensiero del nostro tempo, la distruzione di ogni «verità»  assoluta e di ogni Ente immutabile.)   Si può chiamare «filosofia futura» il linguaggio che, invece,  testimonia il destino della verità. Essa è futura perché se nel  presente la sua voce è soverchiata dalle voci della terra isolata  dal destino, tuttavia essa è destinata a mostrarsi come il  linguaggio dei popoli. D’altra parte, testimoniando il destino,  la filosofia futura si rivolge alla dimensione che, eterna, non è  inclusa, ma - più antica del più lontano passato - include la  totalità del tempo che viene affermato all’interno della terra  isolata.    167     Tuttavia, le stesse voci che si levano nella terra isolata, e  sono quindi negazioni del destino, vanno rendendo anch’esse  «sempre più concreto» il contenuto del destino. Infatti vanno  rendendo sempre più concreta quella negazione del destino  che essenzialmente gli è unita, e in questo senso gli  appartiene, e quindi senza la quale il destino non potrebbe  essere. Ciò significa che la discussione del destino non è  soltanto l’opporglisi che, si è detto, proprio perché intende  differirne condivide (ossia è il tentativo inconsapevole di  condividere) l’affermazione della differenza che in esso  appare: tale discussione è insieme l’arricchirsi della negazione  del destino, quindi è insieme l’arricchirsi, il concretarsi di  esso. In questo senso tutto l’infinito contenuto della terra  isolata dal destino - il contenuto che è, tutto, negazione del  destino - va rendendo sempre più concreta la negazione del  destino e quindi il destino stesso, in quanto negazione di tale  negazione.   D’altra parte, la terra isolata, in quanto fede originaria, è  interpretazione, ossia un conferir senso a qualcosa. Ma,  proprio in quanto esso è un «conferire», non gli può  competere l’incontrovertibile necessità del destino, ed è  quindi volontà di dar senso. È per tale conferimento di senso  che, nella terra isolata che appare nel destino, certi eventi  appaiono come linguaggi e come linguaggi che negano il  destino. Tutte le negazioni del destino che appaiono nella  terra isolata sono cioè contenuti dell’interpretare (cioè del  sogno) che appare alfinterno del destino (e la cui esistenza è  pertanto un tratto del destino). Gli eventi della terra isolata  sono interpretati come linguaggi che, proprio perché  testimoniano altro dal destino, ne sono la negazione. Che  dunque esista la discussione del destino offerta dalla terra  isolata, è qualcosa di voluto dall’interpretare (che appare nel  destino).    168     Né può essere diversamente, perché se nella negazione del  destino il destino apparisse, essa apparirebbe come negazione  di sé stessa, e l’apparire di tale autonegazione sarebbe  l’apparire stesso del destino. Se il destino appare è impossibile  «esser convinti» della sua negabilità e controvertibilità. Lo si  può discutere e negare, se ne può affermare la  controvertibilità e negabilità solo in quanto il discuterlo e  negarlo è un linguaggio che nella terra isolata testimonia  soltanto essa - cioè un linguaggio che nel destino appare  come qualcosa di evocato dall’interpretazione. Sono così  evocati anche i linguaggi che, all’interno dell’interpretazione,  mostrano di essere affermazione del destino, o di  «condividere» il linguaggio che lo testimonia - e questo stesso  linguaggio è evocato dall’interpretazione in quanto esso  appartiene al passato, mostrandosi con la proprietà dell’«esser  mio». Appunto a questo tipo di linguaggio (e non al mostrarsi  del destino) si rivolge la discussione del destino nella misura  in cui essa riesce a costituirsi - visto che essa riesce a  costituirsi solo in quanto non si rivolge al destino, non ne  contiene l’apparire, non lo «capisce»: solo in quanto non ha  come contenuto il destino, nel quale la negazione-discussione  di esso può apparire soltanto come negata. Diciamo dunque:  nella misura in cui riesce a costituirsi la discussione del  destino si rivolge al linguaggio che lo testimonia, perché non è  non è un tratto del destino che tale linguaggio possegga tutte  le condizioni richieste per essere «capito» dai linguaggi  «altrui».    169     4. Ripresa   L’uomo vive soltanto se crede - nel senso più ampio di  questa parola, rispetto al quale la fede religiosa è soltanto una  specificazione, per quanto eminente. Vivere è innanzitutto  credere di esistere e di agire nel mondo. E ogni credere, ogni  fede, è volontà. La volontà non vuole soltanto cambiare il  mondo e realizzare il futuro, ma innanzitutto vuole che le  cose presenti e passate siano ciò che essa crede che siano e  siano state. La fede-volontà è interpretazione.   Tuttavia credere-volere-interpretare è stare al di fuori della  verità non smentibile. Credere è errare.   Ma se l’uomo fosse soltanto un vivere, cioè un credere,  allora sarebbe soltanto un credere anche l’affermazione che  vivere è credere e volere - affermazione condivisa peraltro da  gran parte della cultura non solo filosofica del nostro tempo.   E invece - ma al di fuori del modo in cui è così condivisa -  questa affermazione non è un credere, ma è una verità non  smentibile.   Ciò significa che l’uomo non è soltanto vita, cioè fede, ma  è, originariamente, l’apparire della verità non smentibile. È  all’interno della verità che - in modo non smentibile,  incontrovertibile - appare la vita, cioè la fede, la volontà.   La «verità» a cui si è rivolta l’intera storia dell’Occidente  non è riuscita a essere la verità non smentibile - la verità che  d’altra parte s’illumina nel fondo più nascosto di ogni uomo  (e ovunque qualcosa appaia). A volte il linguaggio la indica; la  chiama «destino della verità» - come appunto nei miei scritti  viene chiamata. Ma, anche qui, che questo linguaggio sia  l’agire di «qualcuno» - che qualcuno ne sia l’«autore», che tale  linguaggio abbia il carattere dell’«esser mio» -, questo è  daccapo uno dei contenuti in cui la vita può giungere a  credere (come crede che l’uomo esista e agisca nel mondo e    170     che sia l’«autore» dei linguaggi che parlano del mondo).   Il nichilismo - inteso nel senso indicato nei cosiddetti  «miei» scritti - è la forma più potente della vita, cioè della  fede, cioè dell’errare. Lascia le sue tracce anche in questi  scritti, che sono andati via via liberandosene. D’altra parte  sono il contenuto di una fede sia Vesistenza del linguaggio che  conduce oltre il nichilismo, sia quella forma di vita che è il  voler dire e quindi anche il voler dire in cui consiste quel  linguaggio. Ciò che sta oltre il nichilismo è il de-stino della  verità. Esso mostra anche in che senso non è contraddittorio  che quella duplice forma di fede (cioè di non-verità) possa  «condurre» al destino della verità, ossia a ciò che, in quanto  tale, non è un «punto di arrivo», ma è il punto di partenza di  ogni percorso.   In un senso che è fondamentale i miei scritti hanno quasi  subito guardato nella stessa direzione. Però il loro è stato un  percorso, non un salto oltre il nichilismo. Il percorso è  incominciato molto presto (nei primi anni Cinquanta), ma  l’oltrepassamento del nichilismo è stato progressivo^   Anche ai miei scritti (sebbene, sembra, in misura  consistentemente inferiore rispetto a molte altre scritture  filosofiche) si può quindi muovere l’obbiezione, considerata  nel paragrafo precedente, di essere uno sviluppo dove il  linguaggio giunge a dire qualcosa che in qualche modo esso  dapprima negava. E perché, allora, quel che ora esso dice non  dovrebbe essere a sua volta negato da un suo ulteriore  sviluppo?   Tale obbiezione e la relativa risposta hanno in questo caso  un peso particolare perché riguardano il rapporto tra il senso  radicale della verità e il linguaggio che lo indica. I molti  significati della parola «verità», comunque, non tolgono di  mezzo la differenza tra la verità, intesa come sapere il cui    171    contenuto è l’assolutamente non smentibile e  incontrovertibile - il destino della verità, appunto - e tutti gli  altri sensi, nei quali, alla luce della verità così intesa, le diverse  forme di «verità» appaiono invece come sapere il cui  contenuto non è qualcosa che non possa essere in qualche  modo negato. «Saperi», si è detto (si pensi ad esempio alle  espressioni «verità morale», «verità dell’arte», «verità della  fede», «verità del cuore», ecc.), ma anche intuizioni,  emozioni, certezze, fedi, impulsi profondi, desideri, costumi,  tradizioni ecc. La gran questione è la determinazione del  contenuto dell’«incontrovertibile», ossia del «non poter essere  altrimenti» (secondo la definizione aristotelica): il contenuto  che lungo la storia dell’Occidente è stato qualificato come  «verità» (« epistéme della verità») non è riuscito a essere  l’assolutamente incontrovertibile. Rispetto   all’incontrovertibile autentico, ogni modo di esperire le cose  che differisca da esso è un modo del «controvertibile», cioè  tien stretto un mondo che d’altra parte può sottrarsi alla  stretta ed essere diversamente da come è - per quanto alto e  nobile o per quanto profondo e preteso dalle viscere e dal  cuore. L’incontrovertibile autentico è il destino-, e la struttura  originaria del destino è il centro da cui si irradia la multiforme  pianura infinita del destino. Nella sua essenza autentica  l’uomo - ogni uomo - ne è l’eterno apparire (e tale  affermazione è una forma a sua volta appartenente a quella  multiforme infinità).   La risposta all’obbiezione che si sta considerando in questo  e nel precedente paragrafo, si fonda sul rapporto tra destino e  «terra». Nel destino appare la «terra» - ossia tutto ciò che  sopraggiunge nell’eterno apparire del destino ma appare nel  suo esser isolata dal destino, appare cioè come il luogo  originario del controvertibile - ossia del credere-volere -  interpretare. AH’interno della terra isolata si crede inoltre che    172     il linguaggio non parli d’altro che delle cose della terra (lo si  crede, senza poter sapere che sono le cose - umane e divine  della terra isolata dal destino).   E tuttavia nello sguardo del destino appare che nella terra  isolata anche il linguaggio che testimonia il destino riesce ad  affacciarsi; e appare che non è impossibile che tale linguaggio  sia presente anche in linguaggi che sembrano essere - nelle  interpretazioni del mondo che crescono e dominano  alfinterno dell’isolamento della terra - le negazioni più  perentorie dei tratti del destino. Quella forma di  testimonianza del destino che sono i «miei scritti» sono eventi  della terra isolata, che nello sguardo del destino appaiono  alfinterno dell’interpretare, ossia della fede che costituisce  l’isolamento della terra - appaiono all’interno dello  sconfinato contenuto dell’isolamento.   L’obbiezione che si sta prendendo in considerazione è una  voce dell’isolamento, cioè del controvertibile. Che la  testimonianza del destino sia uno sviluppo dove il linguaggio  giunge a dire qualcosa che prima negava è un presupposto  controvertibile. Ma nessun controvertibile è qualcosa che - in  quanto configurantesi così come attualmente si configura -  potrebbe venire a mostrarsi come incontrovertibile: quella  configurazione è una negazione dell’incontrovertibile. Tutte  le più incrollabili certezze della «vita» (che appaiono tutte  nella terra isolata) - tutte le forme del controvertibile - sono  alienazioni della verità del destino. La risposta all’obbiezione  consiste appunto nel rilevare che tale obbiezione non solo è  un presupposto controvertibile, ma si costituisce all’interno di  quella forma estrema dell’alienazione della verità che è  l’isolamento della terra.   In relazione allo sviluppo del mio discorso filosofico -  quale appare all’interno della terra isolata - dell’intera storia    173     isolata - sono peraltro complesse le articolazioni che  conducono da La struttura originaria (1958) a La morte e la  terra (Adelphi 2011), e nelle quali, tuttavia, il centro di quello  scritto del 1958 permane lungo tutto il tragitto (e si era fatto  innanzi già qualche anno prima). Nel tragitto, la «svolta» (così  è stata chiamata) consiste nella sopraggiunta consapevolezza,  per un verso, che quel centro richiede la messa in questione  dell’intera storia dell’uomo e, per altro verso, che Yalienazione  dell’uomo e, per altro verso, che Valienazione (del senso  autentico della verità ) che domina tale storia lascia per un  certo tempo le sue tracce anche neìYalone che nei miei scritti  avvolge quel centro.   L’alienazione del senso autentico della verità investe quindi  anche il cristianesimo. Ma anche il «cristianesimo», come  ogni altro evento «storico», appare all’interno  dell’interpretare secondo cui si costituisce la terra isolata dal  destino della verità. Che il cristianesimo esista e che degli  uomini abbiano una «fede cristiana» è cioè il contenuto di  una fede, della fede in cui consiste l’isolamento della terra.  Nello sguardo del destino non è invece il contenuto di una  fede l’esistenza di quella fede e dell’interpretare che compete  all’isolamento della terra. L’esistenza di tutto ciò che  chiamiamo «la nostra vita» è contenuto della fede  interpretante. (Appare aH’interno di quella fede anche l’intera  vicenda che è stata riassunta dal titolo redazionale di un mio  libro: Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli 2001. Questo  «scontro», che appare all’interno della fede della terra isolata,  sussiste, sì, tra la testimonianza del destino della verità e  quella grandiosa forma dell’alienazione della verità che è il  cristianesimo e la sua configurazione storico-istituzionale, ma  tale «scontro» è, innanzitutto e propriamente, la negazione,  da parte del destino della verità, della «verità» di ogni  contenuto della terra isolata - e quindi anche del    174 cristianesimo, in quanto appartenente a tale contenuto.)    175     5. Il destino e l’errare   Il mondo è interpretato. Non nel senso che l’uomo, quando  voglia, abbia la facoltà di interpretarlo. Anche gli uomini e i  loro rapporti appartengono infatti al contenuto  dell’interpretazione. La quale, dunque, pur essendo volontà  interpretante, non è a disposizione dell’uomo, ma dispone  l’uomo e le cose del mondo secondo gli ordinamenti da essa  stabiliti e modificati. È l’interpretazione originaria. Ma  l’interpretazione non è verità: è fede, volontà, ossia errare. Il  mondo in cui l’uomo crede di vivere è errare.   Tuttavia l’interpretazione appare aH’interno della verità.  Non delle verità del mondo - che sono a loro volta form  e  particolari di interpretazione -, ma di ciò che nei miei scritti è  chiamato «destino della verità», o semplicemente «destino».  L’interpretazione è errare perché separa il mondo dal destino.  La «terra isolata» è ciò che appare in questa separazione.  Anche le teorie dell’interpretazione, avanzate dalla cultura del  nostro tempo, appartengono alla terra isolata.   L’interpretazione, che evoca i propri contenuti sul  fondamento di regole e di criteri (di cui essa è più o meno  consapevole), può adottare (cioè volere) quell’insieme di  regole e di criteri in base ai quali essa può affermare che  l’uomo esiste come molteplicità di individui umani e che gli  uomini interpretano il mondo in modi diversi e con un  diverso grado di coerenza rispetto alle regole e ai criteri  adottati. Ma anche e innanzitutto il destino della verità vede  la differente coerenza delle interpretazioni evocate  dall’interpretazione originaria. Che la «storia» dell’«uomo» sia  storia del mortale, cioè della fede che, in modi estremamente  diversi e complessi, le cose e l’uomo stesso diventano altro da  ciò che essi sono e quindi muoiono via via ciò che sono stati,  fino alla morte di tutto ciò che essi possono essere, questa è    176     una interpretazione; che però si presenta come la più  «coerente», sino ad ora, rispetto a ogni altra interpretazione di  quella «storia» (la cui stessa esistenza è un contenuto  interpretato). Non è escluso cioè che - ad esempio in seguito  a una svolta radicale delle discipline storiche, linguistiche,  antropologiche, psicologiche ecc., si imponga una nuova  forma di interpretazione, per la quale l’uomo non ha mai  creduto che le cose siano un diventar altro.   Sino a che quella svolta non si manifesta, l’interpretazione  «più coerente» è tuttavia in grado di mostrare quell 'ulteriore  coerenza, per la quale i diversi modi di pensare e di vivere il  diventar altro delle cose è esso stesso un mostrarsi sempre più  coerente a sé stesso, lungo il percorso che conduce  dall’esistenza guidata dal mito all’esistenza guidata dalla  «verità» e, in seguito, dalla distruzione della «verità» (ossia  della «verità» che appartiene alla terra isolata) alla civiltà della  tecnica.   Il destino della verità mostra che questo è il percorso dove  YErrare estremo perviene alla propria estrema coerenza; ma è  anche questo stesso percorso, in quanto isolato dal destino e  dunque con le proprie forze, a mostrare il proprio diventar  sempre più coerente alla fede nel diventar altro, dalla quale  tale percorso si sprigiona. Non potendo sapere di essere  l’Errare, l’Errare stesso provvede cioè a rendere sempre più  coerente (e, dal suo punto di vista, sempre più «vera») la  propria fede nel diventar altro, che all’inizio della storia  dell’Occidente si presenta in forma ontologica, ossia come  convinzione che le cose del mondo, corruttibili, escono dal  loro non essere (dal loro esser nulla) e vi ritornano. E poiché  questa convinzione - se il linguaggio si libera  daH’incantesimo della terra isolata - è convinzione che  l’essente in quanto essente sia niente, la storia dell’Occidente è  storia del nichilismo - in un senso essenzialmente diverso da    177     quello affermato da Nietzsche e Heidegger. Innanzitutto,  l’intera storia della filosofia si costituisce il proprio costituirsi  come sistema : non in senso hegeliano, come sistema della  «Verità», ma come sistema dell’Errare.   Il compito gigantesco da cui è atteso il linguaggio che sul  fondamento del destino mostra il nichilismo dell’Occidente è  di allargare a tutte le dimensioni attraverso le quali si dispiega  l’Occidente l’analisi in cui appare il suo carattere di sistema :  allargarla alla dimensione religiosa, artistica, economica,  politico-giuridica, a quella della historia rerum gestarum e  delle res gestae, oltre che, appunto, a quella delle diverse  forme della scienza in quanto sapere della natura e dell’uomo  e in quanto sapere logico-matematico. Anche in queste  dimensioni è possibile scorgere il percorso che rende sempre  più coerente e visibile il nichilismo che in modo specifico le  avvolge e sorregge, e la sua tendenza all’autodistruzione. La  dimensione filosofica del nichilismo anima tutti gli altri  luoghi dell’Occidente e ormai del pianeta - e tanto più quanto  più essa è ignorata sì che innanzitutto all’esplorazione  analitica del suo articolarsi dev’esser data la precedenza.   Per indicare l’Errare è necessario esserne al di fuori: solo in  quanto il destino della verità è già da sempre aperto qualcosa  può apparire come l’Errare - che d’altra parte non è qualcosa  di accidentale rispetto al Non Errare. Lo smascheramento del  nichilismo non è una semplice «confutazione» di un errore  che, esercitando una maggior attenzione e perspicacia, si  sarebbe potuto evitare. La grandezza della verità richiede la  grandezza dell’Errare e dell’errore. E la cura per la potenza  delle configurazioni storiche del pensiero filosofico, per la  loro inevitabilità - cioè per la loro capacità di andar oltre le  forme storiche di volta in volta raggiunte, proprio perché  sono queste stesse forme a richiedere di essere oltrepassate  senza peraltro riuscire a soddisfare questo loro intento più    178     profondo, è un modo di pensare la filosofia che troppo presto  è stato messo in disparte col pretesto che Hegel ne aveva  abusato. Recuperandone la forma (e non il contenuto, si è già  detto), si dovrà comunque distinguere il senso che  l’inevitabilità del processo storico presenta in quanto  considerato alfinterno della logica dell’Errare e il senso di tale  inevitabilità in quanto appare nello sguardo del destino.   Al culmine della propria coerenza - e dunque  nell’incombere della propria distruzione - il nichilismo si  presenta come civiltà della tecnica.   Come ho richiamato più volte, l’essenza della tecnica non è  infatti il suo carattere scientifico-matematico (che peraltro,  oggi, non si scorge come potrebbe venir sostituito da una  concettualità più potente - anche se questa insostituibilità è  una situazione di fatto, un fatto grandioso che ha alle proprie  spalle tutti i successi della scienza). L’essenza della tecnica è la  messa in opera del rapporto mezzo-fine: l’organizzazione di  mezzi in vista della produzione di scopi, e propriamente di  quello scopo che è l’incremento indefinito della capacità di  produrre scopi. Se qualcosa riuscisse a servirsi della tecnica -  se cioè riuscisse ad assumere la tecnica come mezzo,  costituendosi pertanto come il supremo dominio e come la  potenza suprema, tale qualcosa sarebbe la tecnica autentica,  cioè la tecnica più potente. Infatti già ora la tecnica assume e  usa come mezzo non soltanto le forze che si illudono di  servirsi di essa come mezzo, ma si serve anche di sé stessa o di  una dimensione parziale di sé stessa. Ormai (cioè dopo la fine  di quell’illusione), che qualcosa si serva della tecnica significa  che la tecnica, ossia ciò che oggi si presenta come la forma più  potente del divenire, si serve e usa sé stessa o una sua  dimensione parziale. Poiché la volontà di accrescere  all’infinito la propria potenza è lo scopo della tecnica, questa  volontà è la forma «trascendentale» del divenire, che    179     servendosi di mezzi si serve anche di sé e delle forme  particolari, «empiriche» del divenire. Detto in modo  sommario: si serve di sé, in quanto potenza massima  attualmente realizzata, per produrre sé in quanto potenza  ancora maggiore - e servendosi di sé e usando sé stessa si  serve e usa anche le forme di volontà di potenza che credono  ancora di poter guidare la tecnica (e lo credono nella misura  in cui la tecnica non riesce ancora a sentire la voce  dell’essenza, peraltro tendenzialmente nascosta, del pensiero  filosofico del nostro tempo, che mostra l’impossibilità di ogni  limite assoluto alla volontà di accrescere la propria capacità di  realizzare scopi). La tecnica - che può essere mezzo solo in  quanto si propone innanzitutto come lo scopo supremo del  divenire - è ormai la forma fondamentale del divenire,  rispetto alla quale il divenire «naturale» si presenta come  routine, staticità che tale volontà va sempre più sciogliendo.  La civiltà della tecnica è, così, il culmine della coerenza del  nichilismo (anche se ancora resta da esplorare, da un lato, il  rapporto tra i contrapposti modi in cui Leopardi e Nietzsche  intendono la forma trascendentale della volontà che si fa  avanti alla fine dell’età della tecnica, e, dall’altro, il rapporto  tra questi modi e l’attualismo gentiliano).    180     6. Il destino e la Gloria   L’anima dell’Occidente: la persuasione che le cose e gli  eventi - gli essenti - escano dal niente e si annientino.   Ciò significa che annientati sono niente, e che prima di  uscire dal niente sono niente. Ma questa persuasione è la  Follia essenziale, la più profonda che possa manifestarsi nel  mondo dell’uomo e nel Tutto. È infatti la persuasione che un  essente, un no n-niente, divenendo, sia, in quanto essente,  niente (come passato e come futuro). In forme diverse, la  Follia domina la storia della terra, ma al di fuori della Follia  appare eternamente l’eternità di ogni essente: di ogni evento,  di ogni stato del mondo, di ogni essente che non sia uno stato  del mondo. Il «mantenersi al di fuori della Follia essenziale»  non è una semplice fede, un mito, un desiderio vano, un dono  divino, una «filosofia», e non è nemmeno un atteggiamento  scientifico: non perché non riesca a raggiungere il rigore delle  scienze della natura e delle scienze logico-matematiche, ma  perché, nel suo significato autentico, il «mantenersi al di fuori  della Follia» ha un «rigore», un’«incontrovertibilità», una  «stabilità», e dunque una «verità» e «necessità»  essenzialmente più radicali di quelli che competono al sapere  scientifico, e a ogni altra forma di «sapere» e di «coscienza».   La negazione di ogni verità assoluta a cui è pervenuta la  coscienza critica del nostro tempo è conseguenza inevitabile  della persuasione che le cose e gli eventi siano divenienti, cioè  possano uscire dal nulla e annientarsi. Ma in quanto appare,  nella Non-Follia, la Follia di tale persuasione, quella  conseguenza non è più inevitabile; cioè non si può impedire,  al pensiero che si mantiene nella Non-Follia, di essere la  verità e necessità essenzialmente più radicale di ogni «verità»  e «necessità» della conoscenza scientifica, e di ogni altra  forma di conoscenza. «Destino della necessità» si può    181     chiamare questo senso estremo della verità e della necessità,  che si mantiene eternamente presso di sé.   Il destino della necessità è l’essenza autentica dell’uomo:  come apparire eterno degli eterni, l’uomo è infinitamente  altro dall’essere un che di effimero, preda del tempo e del  nulla, più o meno raggiunto dalla grazia di un Dio o di un  Salvatore. Nella sua essenza autentica l’uomo è il luogo eterno  che accoglie la terra, ossia tutto ciò che sopraggiunge - e tutto  ciò che sopraggiunge è il corteo degli eterni al quale  appartengono non solo gli «individui umani», ma la stessa  Follia essenziale, cioè la stessa fede che gli essenti possano  uscire dal niente e ritornarvi.   Stando aH’interno della Follia, gli uomini chiamano «storia  del mondo e dell’universo» il sopraggiungere degli eterni,  ossia la terra. Al di fuori della Follia, la storia del mondo e  dell’universo non è la produzione e la distruzione degli  essenti, ma è il comparire e lo scomparire degli essenti, cioè  degli eterni. La morte appartiene alla manifestazione degli  eterni, è un evento interno al cerchio eterno dell’apparire  degli eterni in cui l’uomo consiste. La morte non travolge e  non disperde l’uomo, ma è l’uomo a comprenderla in sé  stesso come parte della totalità in cui egli consiste.   Da sempre e per sempre, quel cerchio è l’apparire della  verità del destino. La terra sopraggiunge nel cerchio del  destino - che dunque è una dimensione finita.   L’uomo è sì l’apparire infinito del destino della verità, ossia  l’apparire di tutto ciò che è, nella sua verità assoluta - e  dunque è l’apparire in cui non può sopraggiungere alcunché  (appunto perché esso è l’eterno apparire di tutto) ma  l’infinito rimane l’inconscio del finito: nell’uomo, in quanto  luce finita del cerchio del destino, l’eterna luce infinita è  destinata a rimanere nascosta, pur affacciandosi, con la terra,    182     in quel cerchio.   Come eterno oltrepassamento di tutte le contraddizioni del  finito, l’apparire infinito del destino è la Gioia, l’inconscio  dell’uomo, in cui egli è destinato a inoltrarsi, all’infinito.   Ma che ne sanno, intanto, gli «individui umani» - o i  «popoli» - di tutto questo? Nulla. Vedono in eterno la verità,  ma i loro linguaggi tacciono di ciò che si mostra nella piena  luce e parlano soltanto di ciò che sopraggiunge; e la terra  appare come la dimensione in cui la volontà dell’uomo ha la  potenza di trasformare e dominare cose ed eventi. «Due  anime abitano nel nostro petto»: l’apparire del destino della  verità e la separazione della terra da tale apparire. Il mondo in  cui crediamo di vivere - il mondo del dolore e della morte - è  il volto che la terra viene a mostrare nel suo essere così  separata e isolata.   Ma intanto, prima del tramonto della Follia l’uomo è  rattrappito. Nelle sue certezze, innanzitutto. È infinitamente  di più di quel che crede di essere. Rattrappito, perfino quando  crede di essere Dio o il figlio di Dio, o che la sua anima sia  immortale o che anche il suo corpo possa risorgere.   È rattrappito anche nei suoi desideri: non perché debba  desiderare di più, ma perché l’uomo desidera quando non è  consapevole della propria infinita ricchezza e della necessità  che tale ricchezza gli si faccia innanzi lungo un percorso a sua  volta infinito al quale, dunque, si addice la parola «Gloria». E,  tutto questo, non certo perché sia io o tu o un popolo o un  Dio a dirlo, ma perché appare, non smentibile, nel più  profondo di ognuno di noi. Già da sempre, eterni, siamo oltre  qualsiasi Dio e qualsiasi forma dell’esser uomo.   L’isolamento della terra dal destino della verità è il  fondamento, la radice più profonda della Follia essenziale.  L’isolamento della terra non è una «colpa», una «decisione»    183     dell’individuo, ma è esso stesso destinato all’uomo in quanto  cerchio finito del destino. Solo all’interno della terra isolata  può apparire qualcosa come «individuo umano», «popolo»,  «società». Sul fondamento della terra isolata si fa innanzi,  nell’apparire, la Follia essenziale e la storia dell’Occidente, che  è ormai storia del pianeta, destinata a culminare nella civiltà  della tecnica.   Quali sentieri la terra è destinata a percorrere nel cerchio  finito dell’apparire? Il suo isolamento dalla verità è  insuperabile? È destinata ad abbandonare quel cerchio? Quali  spettacoli sono dunque destinati a mostrarsi in quel cerchio  durante la «vita» e dopo la «morte» - che, comunque, non  può essere l’annientamento di ciò che dell’uomo è andato via  via apparendo?   Nella sua essenza autentica l’uomo non solo è l’eterno  apparire degli eterni e degli eterni della terra, ma è la luce che  si allarga senza fine sulla distesa degli eterni: nel senso che  ogni eterno che sopraggiunge (ossia ogni configurazione della  terra) è destinato a essere oltrepassato dal sopraggiungere,  nell’apparire, di altri eterni; sì che anche l’isolamento della  terra - che tuttora domina i pensieri e le azioni dei mortali - è  destinato al tramonto; e la Gioia, pur rimanendo inesauribile,  è destinata a mostrarsi libera dal contrasto con la terra isolata.  L’essenza autentica dell’uomo, come luce dell’apparire degli  eterni, che si allarga senza fine, è la Gloria dell’uomo.   L’uomo è destinato a questo rapporto tra la Gioia e la  Gloria - che dunque non è un premio concesso a chi abbia  usato «bene» la propria «volontà libera» -. È necessità che,  dopo il tramonto dell’isolamento della terra - e dunque dopo  il tramonto della «vita» e della «morte», della «volontà» e  dell’«abulia» - l’uomo sia l’inesauribile apparire della libertà  della Gloria dalla terra isolata.    184     Tale libertà non è oblio della terra isolata: tutto ciò che nel  cerchio dell’apparire è oltrepassato è insieme totalmente  conservato in quel cerchio. Se il dolore, che come ogni essente  è anch’esso eterno, non fosse eternamente e totalmente  conservato nel cerchio delfapparire, il suo oltrepassamento  sarebbe una semplice immagine, un’astratta rappresentazione  (cfr. E.S., La Gloria, Adelphi 2001).   Poiché la «Gloria» - il dispiegamento infinito degli eterni  nel cerchio finito delfapparire - è la Gloria dell’uomo, per un  verso essa si dispiega nel cerchio in cui appare questa «mia»  fede di essere una forza, «individuo» capace di trasformare  consapevolmente le cose; per altro verso la Gloria è il  dispiegarsi, in quel cerchio, e in ogni altro cerchio, degli  infiniti altri cerchi finiti. In ogni uomo è destinata cioè a  sopraggiungere, in carne e ossa, la totalità infinita dell’umano  e dunque la totalità infinita dei modi in cui la terra è stata e  sarà isolata. Questo è il «venerdì» santo che precede la  «pasqua» della terra libera dall’isolamento. Si dice, di Cristo:  Nonne oportuit haec pati Christum et ita intrare in gloriam  suam? (Le., 24, 26-27). Ma volendo trasformare la terra per  prendere su di sé il dolore del mondo, egli «vuole» qualcosa  che invece è necessità che accada in ogni cerchio delfapparire,  e il cui accadimento è richiesto con necessità dalla  destinazione di ogni cerchio alla Gloria, oportet haec pati in   Gloria - e nella Gioia.   *   Cfr. su questo punto, per restare agli studi più recenti, i saggi di Leonardo Messinese L’apparire del  mondo. Dialogo con Emanuele Severino , Mimesis 2008; Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di  Emanuele Severino , ETS 2010; Né laico, né cattolico, Dedalo 2013; e i saggi di Nicoletta Cusano, Emanuele  Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana 2011; Capire Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla,   Mimesis 2011. A Messinese interessa valorizzare soprattutto il mio scritto del 1958 La struttura originaria  (La Scuola) - e in generale la prima fase del mio discorso filosofico - e gli interessa valorizzarla anche  perché, a suo avviso, essa sarebbe compatibile con la fede cristiana; alla Cusano interessa invece  sottolineare quanto del nichilismo permanga in quella prima fase di oltrepassamento del nichilismo, e,  questo, per valorizzare il modo in cui gli scritti successivi si liberano da quella permanenza: ma le interessa    185    anche sottolineare la differenza essenziale tra il modo in cui il nichilismo permane in quella prima fase e  tutte le forme di nichilismo che invece non compiono il primo passo, compiuto appunto in tale fase, che è  quello decisivo, perché spinge inevitabilmente verso tutti gli altri.    186     Sezione seconda   Storia dell’Occidente e filosofia    187     I   Alle origini dell’Occidente. Due colloqui   1. Eschilo-   Eschilo (E): Conosco quel che tu scrivi di me... che oltre a  essere uno dei più grandi poeti sono anche uno dei più grandi  filosofi che i mortali abbiano mai avuto... e che proprio  perché la filosofia è in me così grande può esser divenuta in  me così grande la poesia...   Ma... c’è anche dell’altro...   Interlocutore (I): Se tutto questo - ed è molto! - non ti può  bastare... e non certo perché tu sia insaziabile...   E. Certo! Tu mi metti in testa al grande Corteo della  tradizione dell’Occidente. Ma poi, questo Corteo lo vede  fermarsi (o muoversi per inerzia)... e credi che sia sorpassato  da un più potente Corteo : quello della civiltà del vostro  tempo: la civiltà della «morte di Dio», come Nietzsche si  esprime, la civiltà della tecnica... Non è così?...   I. In qualche modo sì... ma, tu sai bene, ciò che più conta  non è quel che si dice, ma la verità di quel che si dice... e la  più gran questione, a partire dai Greci, è il senso della  «verità»... Quanto al semplice dire, anche i bambini sono  capaci oggi di dire che Dio è morto...   E. ... e tu credi invece che si possa sapere il vero perché di  questa morte!   I. Ma se ti fermi qui non ci facciamo capire...   E. Lo so... Perché poi, a tuo avviso, tutti e due quei Cortei  di cui ho parlato, e che pure sono in lotta tra loro, sono uniti  da una stessa cadenza... o, se preferite, dalla stessa Anima...  Come se la loro marcia fosse scandita dallo stesso Canto...  (che però richiede orecchie fini, tu dici, per essere udito)... e  per te quest’Anima e questo Canto li accomuna più di quanto    188    la loro inimicizia li divida...: come se celebrassero un rito  comune... che però è inviso al Cielo... (chiamiamolo così).   I. Sì... purché ci si intenda sulla parola «Cielo»... Non la  uso mai... ma forse, in questo nostro veloce colloquio  potrebbe servirci...   E. ... Ma vedi allora che non mi può bastare il  riconoscimento che tu dai della mia grandezza poetica e  filosofica! Ti sembra che mi ci trovi bene alla testa di un  Corteo che, per quanto potente, non solo è superato da un  altro ancora più potente, ma che insieme a quest’altro non  ottiene il favore del Cielo?   L Dipende da questo «Cielo» che le cose vadano così. Cioè  né da me né da te... Ma, intanto, su questo possiamo esser  d’accordo: che il Cielo di cui stiamo parlando non può essere  il cielo di Dio (non si dice che Dio sta «nell’alto dei cieli»?)...  ma nemmeno essere quello degli atei, che riabbassano il Cielo  al soffitto delle loro case...   Non credo che avremo tempo di parlare del significato del  «Cielo» inaudito al quale ci si deve riferire. Ma ora lasciamo  dire questo...   E. Certo!   E ... che se non ottenere il favore del «Cielo» significa  essere nell’Errore, l’Errore è però prezioso come la verità...  Soprattutto quando è grande come quello dei due Cortei di  cui si parlava... Lo dico, un po’ nel senso in cui quell’altro  grande che è Emanuele Kant osservava che senza la resistenza  dell’aria le colombe non potrebbero volare...   E. ... Intanto siamo al mio «Cielo»: il «Cielo» di Dio... che  d’altronde non è nemmeno il cielo di Cristo... e non solo  perché, quando io scrivevo, Cristo non era ancora nato...   L Sì, tu ti rivolgi a Dio - ecco le tue parole - «con un sapere  che sta e non si lascia smentire»; e questo sapere non può    189      essere la fede cristiana né alcun’altra fede. Avvolto nello  splendore della tua poesia, è tuttavia il «Dio dei filosofi» e tu  sei stato uno dei primi re del pensiero ad affermarlo. La  grandezza di ciò che tu hai visto non poteva essere espressa  che da un linguaggio potentemente nuovo, che ha attratto gli  amanti della poesia ma ha fatto perdere di vista che lì stava  nascendo la filosofìa, la più grande delle avventure del  mortale...   E. Di solito, quando si dice «Dio dei filosofi» si pronuncia  questa espressione con un accento di più o meno larvato  rimprovero, mentre il volto e la voce si rischiarano, quando a  codesto Dio si contrappone il «Dio di Abramo, di Isacco e di  Giacobbe» e, soprattutto, il Dio di Gesù...   I. Ma il rischiararsi di quei volti e di quelle voci è poca cosa  rispetto al chiarore di cui parli tu quando ti riferisci al «sapere  che sta e non si lascia smentire»!   E. È il chiarore della filosofia. Quando pronuncio  l’espressione phrenòn tò pàn intendo parlare del «culmine  della sapienza»... (come tu traduci) ossia di ciò che noi Greci  eravamo in procinto di chiamare «filosofia». E il «culmine  della sapienza» è il «sapere che non si lascia smentire»...  Stando su quel culmine e in quel sapere, si abita en phàei,  «nella luce», nel vero chiarore...   I. Sì, nella tua lingua «luce» si dice phàos e la parola  «filosofia» contiene le parola sophia... che è costruita sulla  parola phàos, e dunque suona come se dicesse: grande luce...   E. ... Certo: quel «so» di so-phia è un prefisso che rafforza,  intensifica e, appunto rende grande il significato della parola  da cui è seguito, cioè, in questo caso, il significato della parola  phàos.   I. ... e quindi si deve dire che philo-sophia significa «aver  cura per ciò che sta nella grande luce, al culmine della luce»...    190     La cura per qualcosa che è essenzialmente più radicale del  rigore del sapere scientifico e della dedizione di ogni fede.   E. ... e che per questo, ma solo per questo, può essere detto  «sapienza»...   Forse ora si potrebbe incominciare a capire ciò che tu  affermi del modo in cui io intendo la «sapienza»: quel che sta  al culmine della luce è «il sapere che sta e non si lascia  smentire»...   L Ho dovuto usare quest’ultima lunga espressione per  tradurre quel che tu esprimi rapidamente quando affermi di  rivolgerti a Dio...   E. Sì, io dico: rivolgersi a Dio pant’epistathmómenos ... che  tradotto alla lettera nella vostra lingua significa «ponderando  bene tutte le cose»... Ma tradotto così alla lettera dice ben  poco... Se si è capaci di scendere nel senso profondo di queste  mie parole greche, bisogna intenderle nella direzione in cui tu  ti sei messo... In esse risuona una grande parola: la parola  epistéme che alla lettera vien tradotta con la parola «scienza»,  ma che nel suo significato originario significa «lo stare» (-  stéme), dove lo stante non si lascia scuotere dalle forze che  vorrebbero scuoterlo, abbatterlo e smentirlo.   I. Ti ringrazio per quanto hai detto di me... A questo punto  sarebbe forse il caso che tu richiamassi e facessi sentire quel  tuo «Inno a Zeus» - l’«Inno a Dio» - che, parlando del  culmine della sapienza, sta esso al culmine della sapienza che  guida la tradizione dell’Occidente... QuellTnno è il contesto  in cui compare la rapida e potente espressione che ho tradotto  con «il sapere che sta e non si lascia smentire»...   E. Ne ricorderò solo una parte... e non nella mia lingua,  ma nella traduzione che tu nei hai dato, e con qualche  ritocco...   «Se il dolore, che getta nella follia, dev’essere cacciato    191     dall’animo con verità, allora, soppesando tutte le cose con un  sapere che sta e non si lascia smentire, non posso pensare che  a Zeus [...] che ha vinto tre volte».   Chi ha la mente protesa verso Zeus e annuncia la sua  vittoria perviene al culmine della sapienza.   Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito che il  sapere acquisti potenza sul dolore. Quando, invece del sonno,  goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda il dolore, allora,  anche senza che lo vogliano, sopraggiunge nei mortali un  sapere che salva. Questo è un dono dei dèmoni che siedono  potenti sul sacro seggio di Zeus.   I. Quanto tempo occorrerebbe per portare alla luce la  grandezza di queste parole!... Bisognerebbe mostrare,  innanzitutto, che Zeus è per te ciò che la filosofia, nascendo,  chiama «Dio»... e che tu sei tra i pochi che la fanno nascere...   E. Zeus «ha vinto tre volte»: ha vinto per sempre la propria  mente... quindi è il «totalmente essente», come tu hai  tradotto l’espressione pantelés, che compare nella mia  tragedia Le supplici ...   I. ... e, ancora, bisognerebbe mostrare che tu incominci a  intendere la morte come l’andare nel nulla e dunque a  pensare quel significato radicale del nulla che prima di  Parmenide, di te e di pochi altri era rimasto nell’ombra... e  portandolo alla luce avete fatto sì che gli uomini  incominciassero a nascere e a morire in modo diverso da  prima: nel modo estremo e più terribile...   E. Morire sapendo di andare nel nulla dal quale «non c’è  ritorno» è infatti qualcosa di essenzialmente diverso dalla  morte di chi, la morte, non la può vedere legata al nulla  perché ancora non sa nulla del nulla...   I. All’estremo opposto di Zeus che «ha vinto per sempre» la  propria morte e per questo è «totalmente essente», c’è il    192     panóles, la parola con la quale tu indichi Tesser totalmente  distrutto» di chi è spinto nel nulla dalla morte...   E. Eppure... eppure nel mio «Inno a Zeus» dico che «il  dolore che getta nella follia deve essere cacciato dalVanimo con  verità»...! e il dolore getta nella follia quando lo si patisce  come messaggero della morte!... Nel mio Inno io indico  anche il «Rimedio»!... il Rimedio contro la follia in cui getta  l’angoscia della morte!... il «Sommo Rimedio»!   I. Sì, tu hai indicato il «Rimedio»... Di più: alTinterno della  storia dell’ epistéme tu sei stato il primo a indicarlo a chiare   lettere... Di più ancora! Il tuo «Rimedio» è il Riparo sotto il  quale si sono rifugiati quasi due millenni e mezzo di storia  dell’Occidente... e si semplificano troppo le cose dicendo che  il tuo Rimedio è Dio!...   E. Certo, si semplificano troppo, perché anche nel mio  Inno dico che... «con verità» è necessario cacciare la follia del  dolore... «con verità»!... cioè con un «sapere che sta e non si  lascia smentire»... e questo sapere non può essere nessuna  sapienza che il mito ha prodotto, e nessuna fede, nemmeno  quella che per chi è venuto dopo di me è stata la fede cristiana  o la fede nella tecnica del vostro tempo! Inchiodato dalle arti,  cioè dalla tecnica del falso Zeus del mito e della fede, non è  forse il mio Prometeo, a urlare: «La tecnica è troppo più  debole della Necessità»? Sono io a pronunciarle, queste  parole, perché la Necessità è proprio ciò che si manifesta  alTinterno del «sapere che sta e non si lascia smentire», e che  nel mio Inno chiamo sophronéin, cioè «sapere che salva»,  come tu hai tradotto...   L Siamo al centro del tuo pensiero e del pensiero della  tradizione occidentale: la verità salva - voi dite. Nel tuo Inno  lo metti in piena luce.   E. «Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito che il    193     sapere acquisti potenza sul dolore» e questo è il sapere che sta  e non si lascia smentire.   I. Ha in mente te e gli altri grandi filosofi greci, Gesù,  quando dice: «La verità vi farà liberi»! Liberi da che cosa se  non dalla incapacità di sopportare il dolore e la morte...?   E. ... solo che in lui la verità è ormai diventata la verità  della fede, la volontà che un sapere sia verità perché è lui a  rivelarlo...   I. ... mentre la filosofia ha cura per il sapere che mostri da  sé stesso di non poter essere smentito...   E. Su questo pensiero la filosofia si è curvata per millenni...   L ... si tratta di aver cura per la luce che non inganni e della  potenza che può essere suprema, divina, supremamente  liberatrice solo in quanto essa appaia in questa luce...   E. «Saldi rimedi»; saldi, cioè veri, invocano le Erinni alla  fine della mia Orestea... Su questo pensiero la filosofia si è  curvata per millenni...   L ... e si è spezzata... e questo è insieme lo spezzarsi  dell’intera civiltà occidentale, e ormai è la spezzatura del  mondo...   E. Tu vuoi dire che si è spezzata nei due Cortei di cui  parlavamo all’inizio?... il Corteo della tradizione, della verità  liberatrice, del divino...   L Sì, e il Corteo del tempo presente, dove invece si scorge  l’inesistenza di ogni «Rimedio», di ogni «Riparo» dalla nullità  dell’uomo.   E. Sì, il mio Corteo ha pensato (e per primo) che le cose e i  mortali sporgono provvisoriamente dal nulla, ma ha anche  pensato che dall’angoscia in cui spinge il pensiero della nostra  nullità, ci si può liberare solo con la verità che sta, non  smentibile, e mostra il divino che ha vinto per sempre la    194     morte e in cui in qualche modo restano salvate dal nulla tutte  le cose mortali...   I. ... ma una volta che il tuo Corteo ha evocato il canto  terribile della nullità delle cose era inevitabile che il  controcanto del Rimedio e della Salvezza dal dolore e dal  nulla si rivelasse senza forza e si spegnesse, e si facesse innanzi  l’altro Corteo, che in mille modi e anche contrastanti canta lo  stesso Inno, diverso al tuo, ma figlio legittimo del tuo: l’Inno  del nulla, della incapacità dell’uomo di salvarsi dal nulla... è  inevitabile che il tuo Corteo sia seguito da quest’altro...   E. ... ma tu dici anche questa inevitabilità non è a portata  di mano e che molti cantori del mio Corteo credono che il  mondo debba essere guidato da loro...   I. Sì, lo «credono»... si illudono... perché sotto la cenere di  Dio c’è il fuoco del nulla. Leopardi canta così:    ... a noi presso la culla  immoto siede, e su la tomba, il nulla   e questo canto finisci col sentirlo anche al di sotto delle voci  delle «magnifiche sorti e progressive» della tecnica...   E. ... che tenta di allontanare il più possibile il dolore e la  morte.   L La tua sentenza che «la tecnica è troppo più debole della  Necessità» deve essere rovesciata: oggi appare che la Necessità  è troppo più debole della tecnica : considera allora quanto essa  (cioè il canto del tuo Corteo) sia debole, se la tecnica stessa  che è molto più forte è poi del tutto impotente rispetto al  nulla che attende ogni cosa!   E. Ma, poi, tu sostieni che l’anima più profonda di quei due  Cortei è la stessa (l’abbiamo accennato all’inizio!). Mi sembra  che tu voglia dire che essi intonano entrambi l’Inno del nulla,  e che il mio Corteo si illuda, dopo averlo cantato di poter    195     cantare anche quello a Zeus...   I. Sì, ma ora è tempo che il nostro colloquio si concluda...   E. ... e sostieni anche che tutti e due i Cortei e tutti e due  gli Inni non riescano a ottenere il favore di quel Cielo di cui  parli tu e che sarebbe abissalmente diverso sia da quello degli  amici sia da quello dei nemici di Dio...   L ... sì, ma ora dobbiamo salutarci...   E. ... e in quel Cielo appare la Necessità autentica, non  quella che si fa vincere dalla tecnica, ma la Necessità che tutto  sia eterno - tutto: ogni gesto, ogni stato, ogni cosa, ogni  vicenda, anche i due Cortei, e anche i due Inni...   I. ... questo Cielo non è una dottrina che passi dalla testa di  uno a quella degli altri.   E. ... risplende in ognuno di noi anche quando non ce ne  accorgiamo...   I. Ti ringrazio di aver accennato a queste cose..   E. ... arrivederci, allora!   I. Arrivederci!    196     2. Parmenide 1   Interlocutore (I): Anche tu, gli uomini, li chiami «mortali».  Della loro mente dici che è plaktón. Dovrebbero riflettere a  lungo su questa parola. Di solito la si traduce con «errante».  Non è sbagliato - purché si sappia che cosa spinge la loro  mente a errare.   Parmenide (P): Infatti. Sono spinti a errare perché credono  che 1’esistenza della nascita e della morte, cioè l’uscire dal  nulla e il ritornarvi, sia verità. Lo dico continuamente nel mio  Poema. Ad esempio nei versi 39-40 di quello che voi chiamate  «frammento 8».   I. Ma quando dici che la mente dei mortali è plaktón rendi  ancora più profondo il senso dell’errare che viene espresso da  questa parola. Infatti plaktón, che tu riferisci alla mente dei  mortali (fr. 6), prima ancora che «errante», significa «colpita».  E chi è colpito patisce. Il colpo fa soffrire. Spinge nel dolore e  nell’impotenza. Si è impotenti quando non si riesce a ottenere  ciò che si vuole. Quando ciò accade si è preda del dolore, e  allora si vacilla, si va di qua e di là, si va errando, appunto. La  mente dei mortali è «errante» perché è «colpita». È colpita  dalla convinzione non vera che nascita e morte esistano. E,  preda di questa convinzione, patisce.   P. Sì, con la parola amechame ho indicato appunto questa  impotenza, angustia, mancanza, questo essere avvolti dal  dolore quando non si segue - così lo chiamo - il «sentiero  della Verità». Amechame indica l’assenza di mechané , ossia  della «macchina» (nel senso originario di questa parola), ossia  del «mezzo» che consente di liberarsi dall’impotenza  angosciata. La frase completa dove parlo della mente errante  dei mortali dice infatti: «Nei loro petti un’impotenza  angosciata governa la mente colpita ed errante».   I. Dunque tu dici che credendo nell’esistenza della nascita e    197    della morte, nell’essere e non essere di ciò che è, la mente dei  mortali è colpita e va errando nell’oscurità dell’angoscia... !   P. ... e che da questa «Notte» si esce andando «verso la  luce» della Verità.   I. Nietzsche ha scritto che tutto il pensiero filosofico, prima  di lui, è stato al tuo seguito. Non sono d’accordo, anche se tu  stai indubbiamente al centro della storia dell’Occidente. Un  celebre filosofo della scienza ha sostenuto non molto tempo fa  che tu sei il padre di quella roccaforte della scienza moderna  che è la fisica e che tutti i grandi fisici del nostro tempo sono  stati parmenidei. Di nessun altro Platone ha detto quel che ha  detto di te: «Venerando e terribile», l’espressione che Omero  riferiva agli dèi. Sono d’accordo con Platone. Ma tu sei un  grande dio bifronte... ne parleremo più avanti, se lo vorrai...   P. Sentirò che cosa intendi dire.   I. Ritorniamo, se ti va bene, a quanto stavamo dicendo  prima della mia digressione. Quando parli dei mortali dalla  mente errante, mostri le configurazioni della loro angosciata e  dolorosa impotenza ( amechame ): essi, tu dici, sono «ottusi»,  «accecati», «storditi». E sostieni che è necessario cacciare via  dalla mente, con verità, tale impotenza, che li rende folli.   P. Anch’io ho compiuto il gran viaggio verso la Verità,  accompagnato dalle «Figlie del Sole», e mi sono lasciato alle  spalle le «case della Notte», le case di quell’impotenza.   I. Non è un caso che Eschilo dica lo stesso. Nell’Inno a  Zeus, dell’ Agamennone, il coro canta: «È necessario cacciar via  dalla mente, con verità, il dolore che rende folli».   P. Sì, son proprio le sue parole...   I. ... e anche le tue; anche se tu, la mente, la chiami nóos e  lui phrontìs; e il dolore che rende folli tu lo chiami amechame,  mentre lui lo chiama àchthos. Ma quell’affermazione di  Eschilo, e la tua, indicano la nascita stessa della filosofia -    198     anzi, sono questa nascita.   P. Sì, la filosofia è il «sentiero della Verità». Se lo si percorre  si è capaci di cacciar via dalla mente l’angosciata e dolorosa  impotenza che la rende folle.   I. Anche prima della filosofia ciò che i mortali vogliono  sopra ogni altra cosa è riuscire a vincere il dolore e la morte.  Ed è, quello, il tempo del mito, cioè il tempo in cui essi  credono nell’esistenza delle potenze demoniche e divine della  terra e del cielo; e credono di salvarsi facendosele alleate. Ma,  appunto, credono, hanno opinioni, si illudono e nutrono  «cieche speranze» (anche queste sono parole di Eschilo), la  loro è una salvezza sognata.   P. Sì, per uscire dalla salvezza sognata è necessaria la vera  salvezza, è necessario che la Verità venga incontro e si mostri  all’uomo, e mostri in che consista la vera Potenza. Ma l’uomo  può scorgerla solo se riesce a capire in che consista la Verità.  Questo è il culmine della sapienza.   I. Non deviamo dal nostro discorso se a questo punto  ricordiamo che per Aristotele la filosofia nasce dalla  «meraviglia». Con questa parola si traduce solitamente il  termine greco thàuma. Ma è una traduzione che porta fuori  strada. Basta tener presente, per giustificare questa mia  affermazione, che per Aristotele anche l’uomo del mito  (l’«amante del mito», philómythos) «è in certo qual modo  filosofo», perché anch’egli è preso dalle reti di thàuma. Ora, è  ingenuo pensare che, nell’esistenza dominata dal mito, sia  l’esangue sentimento della «meraviglia» a esser capace di far  rivolgere l’uomo e di farlo alleare, per salvarsi, alle potenze  che egli crede supreme. L’uomo del mito è il primo a lottare  contro l’immane sorpresa del dolore e della morte. Thàuma è  l’angosciato stupore, l’angosciata e dolorosa impotenza.   P. Sì, thàuma è Yamechame. Infatti Aristotele afferma che    199     la filosofia conduce «nello stato contrario» a quello da cui essa  procede. Il viaggio che descrivo all’inizio del mio Poema  conduce anch’esso allo stato contrario: dalla «Notte»  delYamechame al «Giorno» della Verità, «dove il mio animo  vuol pervenire» (fr. 1, v. 19). Lo stato contrario a thàuma, a  cui la filosofia conduce, è per Aristotele la felicità, per quel  tanto che essa è concessa agli uomini, è la loro salvezza.   I. Ma, come tu avevi incominciato a dire, il pensiero che  stabilisce il senso di ogni sapienza e di ogni agire - e dunque  della salvezza e della felicità - è il senso della Verità. Che  importa una salvezza se non è vera? E una virtù, una sapienza,  una potenza che non siano vere? È un amore per il divino se  l’amore e il divino non hanno verità? A te e a coloro che per  primi con te filosofarono spetta questa gloria ineguagliabile:  aver capito che l’avventura più alta dell’uomo consiste nel  portare alla luce il senso della Verità.   P. I più pensano ad altro. Lo dice anche Eraclito: «I molti  vivono come avendo una loro propria saggezza» (fr. 2), che è  del tutto estranea alla Verità di tutte le cose.   I. «Tutte le cose»! Il Tutto! Tu e quel coro di dèi che voi  siete - voi, i primi pensatori greci per la prima volta sulla  terra avete incominciato a parlare del Tutto. È un evento  infinitamente più decisivo di quello in cui, come si racconta,  l’uomo si è rizzato sulle gambe e ha incominciato a guardare  il cielo e le sue luci. Infinitamente più ampio e profondo è il  Tutto rispetto al cielo stellato.   P. Sì; e lo sguardo verso il Tutto è necessariamente richiesto  dal senso della Verità. Infatti il «cuore» della Verità «non  trema» (è atremés). Trema il cuore delYamechame; trema il  cuore di tutto ciò che può essere negato da uomini o da dèi. Il  cuore non tremante della Verità non può esser negato né da  uomini né da dèi.    200     I. Proprio per questo la Verità non può essere la verità di  una parte del Tutto: se lo fosse, rimarrebbe esposta al pericolo  che dalle altre parti si faccia innanzi qualcosa capace di  smentire la «verità» di quella parte - la verità, cioè di  dimensione particolare dell’essere -, e il cuore della verità non  cesserebbe mai di tremare.   P. Questo è uno dei motivi per i quali affermo che il Tutto  non è «divisibile», ossia non ha parti.   I. Certo, ma su questa tua tesi, vorrei, ritornare tra poco.  Ora vorrei aggiungere che la Verità non può essere negata né  da uomini né da dèi, non perché per ora essi non siano capaci  di negarla, ma domani o in un futuro più o meno lontano  potrebbero diventarne capaci...   P. ... ma perché è impossibile che lo diventino.   I. Solo che è questo «impossibile» a dover render conto,  ora, del proprio significato. Da questa «impossibilità» dipende  infatti 1’esistenza di un cuore non tremante della Verità.   P. Infatti, il Tutto è «ciò che è», «l’essente» (tò eón). E al  centro del mio Poema sta questa affermazione: «È impossibile  dire o pensare che Tessente non sia». L’impossibile è appunto  questo: che Tessente (ciò che è) non sia.   I. E qui tu ti sollevi sopra tutti gli altri. D’altra parte, mi  sembra che tu voglia anche affermare che l’«impossibile» non  ha un significato per proprio conto, indipendentemente dal  significato dell’espressione «Tessente non è»; ma che  «impossibile» significa proprio questo: «il non essere  dell’essente». O almeno mi sembra che nel tuo Poema le cose  vadano così. La tua voce si leva su tutte le altre per quel suo  dire che è impossibile che Tessente (il Tutto) non sia. Tu hai  l’audacia di affermare che ciò che è, è «ingenerato»,  «imperituro», eterno dunque. E non è un’audacia avventata,  ma dà da pensare ai millenni e a tutte le sapienze che son    201     venute dopo di te - a tutte, dico, anche quando esse non se ne  sono rese conto e ancora per molto continueranno a non  rendersene conto.   P. Ma non ci sono quelle due affermazioni che tu hai  lasciato in sospeso e che ora dovresti chiarire? La prima, che  io sarei un grande dio bifronte; e, la seconda, la tua riserva -  almeno così mi è sembrata - a proposito della mia tesi che il  Tutto - Tessente - non è «divisibile», cioè non ha parti.   I. Andando avanti per questa strada - tu lo sai bene - ci  avviamo verso una regione impervia e insieme grandiosa, che  in questo nostro dialogo dovremo accontentarci di guardare  da lontano. Si tratta, ancora una volta, di capire che cosa  significa «essente».   P. Sì. Platone, nel Sofista, mostra con potenza mirabile  perché io escluda che Tessente abbia parti. E affermo questa  sua potenza pur sapendo che egli ha inteso compiere un  «parricidio», come lui dice, nei confronti del mio pensiero,  cioè ha mostrato che Tessente è necessariamente molteplice,  ossia ha parti.   I. Diciamolo, intanto, che cosa significa che Tessente non  ha parti.   P. Significa che il mondo, in apparenza ricchissimo di parti  nello spazio, nel tempo, nelle nostre anime e nei nostri affetti,  non può essere Verità. Nel mondo, «Tocchio non vede»,  «l’orecchio è stordito», «la lingua straparla». Le cose del  mondo sono soltanto «opinioni dei mortali, a cui non  compete alcuna vera convinzione». Sono illusioni. Sono  soltanto «nomi». Dicevo all’inizio che i mortali sono spinti a  errare anche perché credono che nascita e morte siano verità.  Ma come è illusione la falsa ricchezza delle molte cose, così è  illusione la nascita e la morte.   I. E Platone mostra perché tu neghi che Tessente abbia parti    202     (terra, cielo, piante, animali): perché, se le avesse, ognuna  dovrebbe differire dall’essente. Infatti «cielo» (o «casa» o  altro) non significa «essente», cioè non è essente, e il non  essente non può essere. Quindi le molte cose del mondo non  sono, e l’opinione che esse siano è illusoria. Se le cose del  mondo fossero, il nulla sarebbe; ma, tu dici, come è necessario  che Tessente sia, così è necessario che il nulla non sia.   P. «Questo non potrà mai venir imposto, che le cose che  non sono siano.» So che, secondo alcuni, io non avrei negato  la molteplicità delle cose. Ma se fosse così dovremmo dire che  pensatori come Platone, Aristotele, Hegel non abbiano  letteralmente capito quello che ho detto.   I. Sono d’accordo con te. Io sostengo da tempo che non è  stata capita la potenza del tuo pensiero. Ma altro è affermare  che tale potenza non è stata capita, altro è affermare che non  si è capito quel che il tuo Poema ha esplicitamente affermato.   P. Tu hai scritto anche più volte che il mio pensiero può  sembrare il punto in cui l’astro dell’Occidente viene a trovarsi  più vicino all’astro dell’Oriente. Come l’induismo e il  buddhismo, dico anch’io che il mondo è illusione - maya,  dice l’Oriente. Ma quale differenza!   I. Infatti: sono simili le tesi. L’Oriente possiede tesi  analoghe a quelle che si leggono nel tuo Poema, ma, separate  dalla cura per la Verità, separate dal perché le si afferma, esse  non sono filosofia, ma miti.   P. Prima di noi l’Oriente è philómythos, non philosóphos.  Poi rileggerà i propri pensieri - il cui splendore è indiscutibile  - alla luce dei nostri.   I. D’altra parte, proprio perché il tuo discorso  sulTimpossibilità che Tessente abbia parti è ben  comprensibile, non può evitare di confrontarsi con Platone,  che mostra, all’opposto, la necessità che Tessente sia    203     molteplice; e lo mostra portando alla luce un principio che  resterà alla base dell’intero sviluppo dell’Occidente -  dell’Occidente, dico, non della sola cultura occidentale.   P. Lo so: Platone mostra che l’affermazione che Tessente è  una molteplicità di essenti...   I. ... l’affermazione che il mondo esiste...   P. ... non implica, come invece io sostengo, che le cose che  non sono siano...   I. ... cioè non implica che il nulla sia.   P. Di questo gran passo di Platone parleremo un’altra  volta...   I. D’accordo, qui vorrei allora restare alTinterno del tuo  discorso, ed esprimerti quella che tu prima hai chiamato la  mia «riserva», invitandomi a non dimenticarla. I mortali, tu  dici, vivono nell’«opinione» ( dóxa ), che è illusoria: credono  che esista la molteplicità delle cose e la loro generazione e  corruzione.   P. Nascita, dolore e morte, infatti, non possono esistere se  non esistono le molte cose del mondo. Questa illusione, che li  fa errare lontani dalla Verità, li «colpisce» e li fa sprofondare  nell’ amechanie.   I. Ma tutto questo significa che, per te, l’opinione illusoria e  Vamechanie e, infine, i mortali stessi sono , esistono, non sono  un nulla. E allora, non è soltanto Tessente a essere, ma anche  il mondo illusorio dei mortali - giacché, ripeto, quando dici  che questo mondo non ha verità, nemmeno tu intendi dire  che, dunque, è nulla...   P. ... e allora tu mi stai obbiettando che dunque, ciò che è,  Tessente, è costituito da almeno due parti: lui, Tessente, (che  vorrebbe esser solo lui a essere) e il mondo dell’illusione, che  poi è a sua volta costituito dalle molte cose illusorie che sono    204     soltanto «nomi» - e, anche qui, tu diresti che per me i molti  nomi non sono un nulla, ma a loro volta sono. Cosicché io  stesso verrei ad affermare quella molteplicità delle cose che  invece dichiaro impossibile. E potresti aggiungere che, oltre ai  «nomi» che per i mortali sono cose, ci sono le parole che nel  mio Poema indicano la Verità e si distinguono le une dalle  altre e che io non sarei certo disposto a considerare inesistenti  per il fatto che sono molte...   ... Ma a questo punto puoi andare avanti e dirmi perché,  prima, mi hai chiamato un grande dio bifronte - e, mi pare di  aver capito, bifronte in un senso diverso da quello per cui  sarei bifronte già per il fatto di affermare implicitamente  quella molteplicità delle cose che invece esplicitamente nego.   I. Ma innanzitutto un dio. In questo nostro dialogo non  abbiamo il tempo per mostrarlo. Ciò che più conta dovremo  quindi lasciarlo da parte - e ciò che più conta non è soltanto il  senso del tuo essere un dio. Ebbene, ti dico bifronte rispetto  all’essenza autentica del nichilismo, ossia dell’anima e del  fondamento dell’intera storia dell’Occidente e, ormai,  dell’intero pianeta.   P. Se questo è il tema, allora so quel che sostieni. Tu dici  che io sono colui che indica il «Sentiero del Giorno» e,  contemporaneamente, spinge verso il «Sentiero della Notte»:  colui che indica che cosa sia veramente il nichilismo e quale  sia il senso autentico della sua negazione, ma che, insieme,  apre la strada che conduce nel baratro del nichilismo.   I. L’essenza del nichilismo è infatti affermare che ciò che è  non sia. Non si pensa mai che ogni annientamento degli  uomini e ogni devastazione della terra sono possibili perché,  innanzitutto, si crede che ciò che è possa non essere. L’errore  estremo è insieme l’estremo orrore. Ma poi anche tu - anche  tu! -, anche la tua mente è colpita come quella dei mortali    205     «dalla doppia testa», dikranoi, come tu dici: anche tu affermi  che ciò che è non è, ossia che le molte cose del mondo sono  nulla - esse che invece non sono un nulla nemmeno per te,  nella misura in cui sono il contenuto dell’opinione illusoria.   P. E questo lo dici perché Platone ha mostrato che se una  qualsiasi cosa del mondo, ad esempio «la luna», non ha lo  stesso significato di «ciò che è», o di «essente» - se dunque la  luna non è Tessente -, d’altra parte «la luna» non ha  nemmeno lo stesso significato di «nulla», «luna» non significa  «nulla», e pertanto non è un nulla...   I. ... con la conseguenza che, affermando che la luna è, non  si è costretti ad affermare; come invece tu sostieni, «che le  cose che non sono siano», ossia che il nulla è; ed è dunque  necessario affermare che le molte cose sono.   P. Ma so anche che, per te, Platone, salvando il mondo da  me, si porta dietro, credendo di avermi ucciso, il veleno col  quale io uccido (o almeno penso di uccidere) il mondo. Tu  dici appunto che, col parricidio compiuto nei miei riguardi,  Platone è il salvatore apparente del mondo, perché in realtà  ne è il cattivo pastore, e che è alTinterno di questa cattiva cura  del gregge che poi si farà innanzi, lungo la storia  dell’Occidente, ogni «buon pastore».   I. Ma quando parlo del nichilismo che anima quella storia,  non intendo dire che gli uomini avrebbero potuto pensare  meglio di come hanno pensato - e qui mi riferisco  innanzitutto a te: gli uomini hanno pensato e agito come era  necessità che pensassero e agissero; e anche il cielo e la terra  procedono nel modo in cui è necessario che procedano. In  proposito non dico altro. Vorrei invece ritornare un  momento su quel discorso che facevo a proposito della luna,  cioè del suo non esser né Tessente né un nulla. Questo non  significa che tra ciò che è e il nulla vi sia qualcosa di    206     intermedio (la molteplicità delle cose, appunto). Significa  invece che quel «ciò che è», separato dalla molteplicità delle  cose che sono, è esso un nulla. Certo, «luna» non significa  «essente», «ciò che è»; ma Tessente non è il non composto, il  «semplice», ma è ciò che ognuna delle molte cose è, ossia è ciò  che è presente in ogni cosa.   P. Vedo dove il tuo discorso sta andando. Tu dici che,  essente, è ogni cosa. Quindi Tessente è, propriamente, gli  essenti. Ma, insieme, tieni fermo che è impossibile che  Tessente non sia - e appunto per l’accecante splendore di  questo pensiero mi chiami un dio; ma, tu aggiungi, Tessente è  ogni cosa e quindi di ogni cosa è necessario affermare che è  impossibile che non sia, è cioè necessario affermare che è  eterna.   I. Hai detto bene anche questo: che quello splendore è  accecante. Ha accecato tutti, tutte le menti più alte  dell’umanità. Era necessario che ciò avvenisse. Se Terrore non  si dispiegasse totalmente e in tutta la sua forza e in tutte le sue  luci, la Verità non potrebbe esistere; così come il Giorno non  potrebbe esistere senza la Notte. Occorre quindi che il  linguaggio parli e del Giorno e della Notte, ma che dica «sì» al  Giorno, non alla Notte.   P. Della Notte parlano i mortali, la cui mente, colpita dal  dolore e dalla morte, è avvolta àd\Yamechame. Parlano della  Notte credendo che sia il Giorno.   I. Eppure, ai mortali dalla doppia testa, per i quali «Tessente  non è ed è necessario che non sia» (fr. 2), il linguaggio della  Notte gliel’hai messo in bocca proprio tu!   P. Cioè?   I. Voglio dire che, per quanto ne sappiamo, quei mortali sei  stato tu a evocarli per la prima volta.   P. Perché?    207     I. Perché, per quanto ne sappiamo, tu sei stato il primo a  pensare e a parlare dell’essente come di ciò che è  assolutamente opposto al nulla. L’Oriente ignora la radicalità  di questa opposizione. E se così stanno le cose, prima di te  non potevano esserci quei supermortali per i quali Tessente  non è ed è necessario che non sia. Esistevano i comuni  mortali del mito, che ancora non potevano sapere che la  morte è annientamento e la nascita è uscire dal niente.   P. E quindi tu affermi che io non solo ho evocato per primo  la Verità dell’essente, ma per primo ho anche evocato i suoi  nemici, quelli che tu hai chiamato i supermortali.   I. Che sono per davvero tali, perché, a partire  dall’atmosfera aperta dalle tue parole, essi hanno  incominciato a credere di morire dinanzi al nulla che li  attende, sì che la loro morte ha incominciato a essere  infinitamente più angosciante di quella del mito. Proprio per  questo tu hai guardato alla Verità come sommo rimedio  contro l’angoscia estrema.   P. ... Abbiamo parlato di cose grandi, anche se abbiamo  dovuto soltanto sfiorarle. Di molte altre, e grandi, che a gran  voce chiedevano di essere dette, abbiamo dovuto tacere. Ora   dobbiamo salutarci. A presto!   *   - Dal testo richiestomi da Giorgio Pressburger per le «Interviste impossibili», tenutesi nel 2007 al  Teatro Stabile di Trieste.   *   - Dialogo richiestomi dal «Corriere della Sera», pubblicato nel novembre 2010.    208    II   Relativismo, evoluzionismo, realismo e altre discussioni  sulla storia filosofica dell’Occidente e sul senso  dell’eternità   1. Ancora sul senso del discutere   Di tutti i miei possibili critici, (dunque, oltre che di quelli  passati e presenti anche, di quelli futuri) va detto che tutti,  con maggiore o minore potenza sviluppano il Contenuto a  cui si rivolgono i miei scritti. Questa affermazione non suona  paradossale se si tiene presente quanto si è detto nel capitolo  6, della sezione prima. Non suona paradossale nemmeno se si  aggiunge, e lo si deve, che tutte le possibili critiche al  Contenuto dei miei scritti sono, tutte, sviluppi, più o meno  rilevanti, di quel Contenuto (una parola, questa, che va con la  maiuscola, «miei scritti» andando invece con le minuscole).  Quel Contenuto è infatti la verità, il destino della verità.  Immodesto non sono «io»: immodesta è la verità che ne ha il  diritto perché non è cosa modesta e attira a sé il linguaggio  imponendogli di testimoniarla. Ritorniamo brevemente su  questi temi.   La verità è sola in quanto nega l’errore. Senza errore non  c’è verità. L’errore con-ferma, la verità la rende ferma, nel  senso che essa ha il «cuore che non trema» - per usare  un’espressione di Parmenide - solo in quanto mostra che essa  è e significa «errore» e la necessità di negarlo. Essa vive,  eterna (e l’uomo ne è l’eterno apparire), solo in quanto  l’errore vive; ed è tanto più concreta quanto più l’errore è  concreto e fiorisce ed è robusto, coerente, razionale,  suggestivo, cioè quanto più sviluppa la ricchezza che gli  compete.   La verità ha cioè bisogno degli scavatori che portino alla  luce questa ricchezza con la convinzione di portare alla luce la    209     verità (una convinzione che è presente anche quando  scrivono libri e libri per mostrare che la verità non esiste). È,  il loro, un lavoro che invece chi scava per portare alla luce la  verità non riesce a fare così bene, o non gli dedica il tempo e  la convinzione dovuti. In questo senso va detto che tutti i  critici e tutte le possibili critiche al Contenuto a cui si  rivolgono i miei scritti, sono, di questi scritti, sviluppi, e  spesso originali. Anche tutte le critiche che possono essere  mosse a proposito del discorso che qui si è appena fatto  intorno al rapporto tra verità e errore, agli scavatori  dell’errore e della verità, e alla loro indispensabilità. La  magnificenza dell’Occidente, che ormai conquista la terra, è il  tempo dell’errore, della sua fioritura e del suo trionfo. Ma la  verità non abbandona a sé stesso l’errore: esso cresce secondo  le leggi della verità.   L’errore cresce secondo le leggi della verità anche perché  ogni obbiezione che si possa fare a quel Contenuto (e  l’ignorarlo è la forma preminente della negazione di esso) è  convinta di affermare qualcosa che differisce da tale  Contenuto. Non solo, ma crede anche che il fatto di differire  non sia cosa di poco conto. E infatti è di tantissimo conto. Il  Contenuto di cui si sta parlando è infatti la manifestazione del  senso autentico e della necessità del differire dei differenti. È il  punto infinitamente più stabile di quello che ad Archimede  sarebbe bastato per sollevare la terra. Ben vengano dunque,  daccapo, le obbiezioni, purché intendano essere per davvero  obbiezioni; ossia intendano differire da ciò contro cui  obbiettano e tengano quindi in gran conto la differenza dei  differenti e l’impossibilità di negarla. E, una volta che avranno  fatto tutto questo, capiranno di tenere in gran conto proprio  quel Contenuto contro il quale esse vorrebbero andare.   Gli scavatori dell’errore sono gli erranti - e come individui  tutti sono erranti, anche quelli che scavano la verità. Nel    210     tempo dell’errore - un tempo che coincide con il tempo  deH’«uomo», cioè con l’uomo quale è inteso all’interno della  terra isolata dal destino della verità -, l’errore crede di  conoscere ciò che ai propri occhi appare come errore; e si  crede capace di distinguere questo, che gli appare come  l’errore, dall’errante. Ma là dove domina l’errore che è tale  agli occhi della verità, ed esso dice di voler combattere e  distruggere ciò che ai suoi occhi è errore, ma non l’errante, là  è inevitabile che ci si convinca che il fiorire degli erranti  finisce con l’essere il fiorire dell’errore ai danni di ciò che è  ritenuto verità, e si finisca col condannare, e punire e  distruggere anche gli erranti. Questa confusione tra l’errore e  l’errante attraversa tutta la storia del mortale. Eppure  anch’essa contribuisce alla costituzione della concretezza  dell’errore. Tutta la storia della sofferenza umana è richiesta  da tale concretezza. Il destino della verità è destinato a  oltrepassarla (cfr. E.S., La Gloria, 2001, cit., Oltrepassare,  Adelphi 2007, La morte e la terra, 2011, cit.).    211     2. Verità e relativismo   Il relativismo, si dice, nega che l’uomo riesca a conoscere  una verità assoluta e irrefutabile. Se ci si ferma a questa  definizione, tutta la cultura del nostro tempo, innanzitutto  quella filosofica, è relativista. Ma allora va anche detto che  quella negazione della verità era già sostenuta 2500 anni fa, e  in grande stile, dalla sofistica. Dopo tutto questo tempo  saremmo ritornati al punto di partenza per quanto grande  fosse il suo stile? No; perché a quella definizione non ci si può  fermare. Anche perché già il pensiero greco sapeva che chi  afferma che non esiste alcuna verità assoluta afferma egli  stesso che nemmeno questa sua affermazione è una verità  assoluta. (Le cose non sono però così pacifiche, perché un  negatore della verità potrebbe replicare che egli intende  proprio negare e insieme affermare la verità, perché no?, visto  che se gli si obbiettasse che in questo modo egli nega il  «principio di non contraddizione» egli potrebbe daccapo  rispondere che quel principio, così semplicemente affermato,  è un dogma; e bisognerebbe allora darsi da fare per mostrargli  che non lo è).   Il relativismo degli ultimi due secoli è tutt’altra cosa. Nega  tutto l’antirelativismo che c’è stato nel frattempo. Qualcuno  crede che il relativismo possa appoggiarsi anche a Pascal, per  il quale la verità assoluta non potrà mai esser trovata perché  «tutto muta col tempo». Ma Pascal non giunge a dire che,  proprio perché tutto muta col tempo, non può esistere  nemmeno un Dio eterno e assoluto. Lo dirà Nietzsche (per il  quale Pascal era un genio rovinato dal cristianesimo). Pascal  non giunge a tanto, perché per lui quel «tutto che muta» è,  propriamente, il mondo. Nietzsche arriva a tanto perché,  fondandosi sulla persuasione che nel mondo tutto muta,  mostra Vimpossibilità dell’esistenza di un qualsiasi Essere    212     eterno e assoluto, al di là (o all’interno) del mondo.   Ma tale persuasione non è solo di Pascal e di Nietzsche: è di  tutta la cultura e la civiltà dell’Occidente - e, ormai, del  pianeta. Sin dall’inizio l’avanguardia dell’Occidente - la  filosofia greca - è persuasa che il mutamento del mondo sia  una verità incontrovertibile (e che il mutamento sia un passare  delle cose dal non essere all’essere e viceversa, cioè abbia un  carattere essenzialmente più radicale del modo in cui esso era  stato precedentemente inteso dall’uomo). O gli odierni  relativisti ritengono forse, contro i Pascal sui quali essi si  appoggiano, che il mutamento del mondo sia il contenuto di  una «conoscenza fallibile, congetturale» (per usare una nota  espressione di Popper)? E la «ricerca della verità», che i  relativisti preferiscono al suo «possesso», tale ricerca, dico,  non è forse una forma rilevante di mutamento del mondo? E  l’esistenza di tale ricerca è forse, per i relativisti, il contenuto  di una conoscenza fallibile e congetturale? No di certo. (O  vedano loro che cosa intendono sostenere.)   Solo che è Nietzsche, insieme a pochi altri, a saper mostrare  perché, dal fatto che nel mondo tutto muta, è necessario  concludere che non esiste alcuna verità assoluta e irrefutabile  oltre a quella che consiste nell’affermazione di quel fatto, e  che non esiste alcun Essere eterno e assoluto oltre agli esseri  che mutano nel tempo (cfr. sezione prima, cap. V). Nietzsche  e pochi altri - abitando quello che chiamo il sottosuolo  essenziale del pensiero del nostro tempo - sanno fare cioè  quel che i relativisti d’oggigiorno non sanno fare; e non lo  sanno anche perché, per lo più e più o meno  consapevolmente, evitano di riconoscere che anche per loro è  una verità irrefutabile e assoluta che nel mondo tutte le cose  mutano col tempo.   Antirelativisti sono invece coloro che lungo la tradizione    213     dell’Occidente condividono sì la persuasione che il  mutamento delle cose del mondo è una verità irrefutabile; ma,  a differenza dei relativisti, ritengono che verità irrefutabile sia  anche l’esistenza di un Essere eterno e assoluto al di là o  aH’interno del mondo. Sono gli amici della «metafisica». Nel  sottosuolo essenziale del nostro tempo appare appunto  l’impossibilità della metafisica. D’altra parte, ai relativisti che  stanno fuori del sottosuolo, alla superficie, gli antirelativisti e i  metafisici obbiettano quel che già abbiamo sentito, cioè che se  tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale, allora lo è  anche Taffermazione che tutta la nostra conoscenza è fallibile  e congetturale. Ed è quindi inevitabile che i relativisti di  superficie non abbiano argomenti incontrovertibili contro la  metafisica e la verità assoluta e incontrovertibile.   Per trarsi d’impaccio, i relativisti più spregiudicati di  superficie hanno finito col riconoscere che anche il loro  relativismo è fallibile e congetturale. (Sembrerebbe il culmine  dell’atteggiamento critico - ma allora non si vede perché si  dovrebbe dar loro ascolto.) Il filosofo liberale americano  Richard Rorty lo ha riconosciuto. In Italia lo aveva  riconosciuto, e anche molto meglio, il filosofo Ugo Spirito,  che però aveva il difetto di non essere americano e di essere  fascista, come il suo maestro Giovanni Gentile - che invece,  insieme a Nietzsche, è uno dei pochi abitatori di quel  sottosuolo e ha quindi molto da insegnare a tutti i Popper.  Comunque, se il relativista riconosce che tutto quel ch’egli  sostiene è esso stesso una conoscenza fallibile e congetturale,  pronta ad «abbandonare i propri valori» teorici e morali «se  altri si rivelano più credibili», lo ascolto con interesse  (condividendo anche i suoi buoni sentimenti).   Ma aggiungo che anche questa autocritica del relativista è  apparente. Domando: chi si dichiara pronto ad abbandonare i  propri valori se altri si rivelano più credibili è uno che dubita    214     di esser così pronto? È uno che dice: «Forse son pronto ad  abbandonarli se ne vedo di più credibili?». È uno che dice:  «Forse son pronto, perché non escludo che anche se ne  vedessi di più credibili non abbandonerei mai i miei?». Se si  son capite le domande, la risposta non può che essere  negativa. Anche questo relativista, cioè, non mette in dubbio,  è sicuro del fatto suo: più o meno consapevolmente, considera  come irrefutabile, indiscutibile e dunque assolutamente vero il  proprio trovarsi nello stato in cui egli è disposto ad  abbandonare le proprie convinzioni se ne vede di migliori.  Infatti l’uomo non apre bocca se dubita di quel che dice. E se  dice: «Dubito di quel che dico», egli non dubita di dubitare.  (Che è cosa del tutto diversa dal cogito cartesiano, perché se  l’uomo apre bocca solo se non dubita, la maggior parte delle  volte che l’apre dice però cose false; mentre le considerazioni  di Cartesio sul cogito intendono pervenire alla suprema verità  incontrovertibile.)   A Popper che afferma il carattere fallibile e congetturale di  tutta la nostra conoscenza va dunque replicato che, d’altra  parte, l’uomo - dunque anche Popper e tutti i relativisti di  questo mondo - è sempre convinto, più o meno  consapevolmente, di conoscere verità assolute e  incontrovertibili (anche se sbaglia quasi sempre). Come ne  sono convinti anche quei logici che secondo certi relativisti  avrebbero mostrato (e anzi dimostrato !) «che non ci è  possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna  teoria». Come ne sono convinti anche i relativisti alla Popper  e alla Hans Kelsen, che sostengono un’implicazione  necessaria, cioè assolutamente vera, tra relativismo, libertà,  democrazia. E allora?   Allora, nella folla sterminata di coloro che - senza saperlo e  anzi spesso negandolo - sono convinti di conoscere verità  assolute, si trovano anche gli uomini dell’Occidente, per i    215     quali la verità assoluta e incontrovertibile dominante è che le  cose del mondo mutano col tempo; e son giunti a mostrare  (nel sottosuolo del nostro tempo) la necessità che tutte le cose  mutino, nascano e muoiano, quindi a mostrare che non esiste  alcuna verità immutabile se non quella che afferma il divenire  e il travolgimento di ogni cosa e di ogni verità.   Restano travolte anche la politica e la morale che, lungo la  tradizione antirelativistica dell’Occidente, consistevano  nell’adeguare la vita dello Stato e dei singoli individui alla  verità immutabile ed eterna. Quelle erano la politica e la  morale convinte di parlare «con verità». Se oggi qualcuno  auspica una politica capace di parlare «con verità», deve tener  presente che quella della verità è, si è intravisto, una faccenda  parecchio complessa. Per questo in un mio articolo sul  «Corriere» avevo domandato a Ernesto Galli della Loggia, che  cosa intendesse con la parola «verità», avendo egli appunto  auspicato una politica capace di parlare «con verità». Glielo  avevo chiesto anche perché, quando oggi i cattolici e la Chiesa  ad esempio usano questa espressione, intendono un politica e  una morale che, contro il relativismo, siano legate alla verità  incontrovertibile e assoluta della metafisica tradizionale  (aperta alla rivelazione di Gesù). E dunque intendono una  democrazia che non sia, come invece lo è la democrazia  procedurale, una «libertà senza verità». La risposta di Galli  della Loggia è stata fuori luogo, perché mi ha detto - c’era  ancora il governo di centrodestra - che una politica che parla  con verità è quella che non nasconde ma dice in che stato  miserando si trova il nostro Paese. Un problema che certo ci  tocca da vicino, ma che (a parte il fatto che non riguarda la  verità, ma la «sincerità», giacché se non c’è verità senza  sincerità, si possono invece dire con sincerità cose false) è pur  sempre subordinato alla gran questione del rapporto tra  relativismo e antirelativismo - visto che l’accentuata    216     corruzione della politica e della morale è una conseguenza  dello stato di transizione in cui il mondo si trova: tra la  tradizione, dove anche i corrotti si riconoscevano pur sempre  sottoposti al giudizio della verità, e il tempo futuro: il tempo  in cui - con l’inevitabile tramonto di ogni verità metafisica e  di ogni eterno Signore del mondo - quella forma suprema  dell’agire umano che è la tecnica viene autorizzata, a prendere  in mano, essa, le sorti del mondo. La tecnica che sa ascoltare il  sottosuolo, dico, non la «vera» «buona» politica. (Un processo,  questo, in cui consiste il senso autentico dell’«antipohtica».)    217     3. Equivoci   Con la lettera del pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra  «credenti» e «non credenti» è giunto a una svolta di grande  importanza e interesse. Che va accuratamente tutelata. Anche  da parte di chi è soltanto uno spettatore - che però, come me,  sia interessato al problema. Il pontefice ha un modo  ammirevole di mettersi in relazione al prossimo. Ammirevole,  anche, il desiderio dei due interlocutori, di confrontarsi con  ciò in cui non credono. Proprio per fimportanza di questa  inedita forma di dialogo è però altrettanto importante che  non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi.   Il pontefice scrive a Scalfari: «Mi chiede se il pensiero  secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure  una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e  soggettive, sia un errore o un peccato». Il pontefice risponde:  «Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”,  nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di  ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è  l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo». Ma aggiunge: «Ciò  non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro».  Si riferisce anche alla verità della fede. Ora, Scalfari aveva sì  parlato di «verità assoluta», ma intendendo non «ciò che è  slegato, ciò che è privo di relazioni», ma proprio la verità che  non è «variabile e soggettiva». E il papa gli risponde che no,  non è variabile e soggettiva: «tutt’altro». In questo modo, la  domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della  Chiesa (Cfr. la recente enciclica Lumen fidei, Editrica La  Scuola 2013).   A sua volta Scalfari, nella recente intervista a Otto e mezzo ,  ha lodato l’innovazione di papa Francesco rispetto alla  costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa  addirittura passare per relativista papa Francesco (appunto    218     per il suo rifiuto del concetto di verità «assoluta»). Ma lo loda  per qualcosa che papa Francesco si è ben guardato dal  sostenere. Chiedeva Scalfari: la verità è variabile e soggettiva?  No, risponde il pontefice: «Tutf altro»!   Una seconda possibilità di equivoco, tra i due interlocutori,  vorrei segnalare, e ben più importante. Dopo aver scritto che  la specificità di Gesù «è per la comunicazione, non per  l’esclusione», il pontefice aggiunge che «da ciò consegue  anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la  sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio  quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata  con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la  storia dell’Occidente». Non mi consta che finora Scalfari  abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi permetto di dirgli  che invece, proprio lui, dovrebbe chiederli. In questo caso  sarebbe il silenzio a favorire l’equivoco.   Da quasi cinquantanni (che rispetto alla storia  dell’Occidente sono certamente nulla) vado mostrando che  quel detto evangelico, lungi dal sancire la «distinzione tra la  sfera religiosa e la sfera politica», nega tale distinzione. Non  ho mai ricevuto una risposta adeguata - e mi sembra grave  mi sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che  forse è stato il nostro unico dibattito pubblico, a Roma. Ne ho  parlato anche sulle colonne del “Corriere della Sera”. Se qui  debbo pur giustificare in qualche modo la mia tesi, che  indubbiamente suona troppo perentoria, come d’altra parte  non vergognarmi di doverlo fare ancora una volta?   Domandiamo a Gesù se a Cesare - cioè allo Stato - si possa  dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di noi  Assolutamente no! Ciò significa che le leggi dello Stato non  potranno essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della  cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria.    219     Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi  neutrali, che cioè consentano ai cittadini sia di agire contro  Dio, sia di non essergli contrari. Ancora una volta Gesù  risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si  renderebbe lo Stato libero da Dio; si lascerebbe ai cittadini la  libertà di vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato  sarebbe costretto a essere uno Stato cristiano (anzi cattolico);  con la seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche  questa libertà è un modo di essere contro Dio. Quindi per  Gesù le leggi dello Stato debbono essere cristiane (e  cattoliche).   Ma esistono leggi dello Stato la violazione delle quali non  implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no.  Quindi - come spesso si dice, ma senza accorgersi della  connessione tra questo dire e il detto di Gesù - è necessario  che il peccato (l’agire contro Dio) sia anche delitto (l’agire  contro lo Stato), una colpa che è punita in terra prima che  nell’al di là. Ma in questo modo la «distinzione tra la sfera  religiosa e la sfera politica», che, anche secondo questo  pontefice, dovrebbe essere conseguenza di quel detto, è invece  radicalmente negata da questo detto. Certo, Yintenzione di  Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il  contenuto oggettivo di quello che egli afferma è  inevitabilmente la riduzione della sfera politica a quella  religiosa. O anche: Gesù vuole conciliare l’inconciliabile, vuol  conciliare la distinzione tra politica e religione con la loro  reciproca opposizione (giacché anche la politica che non  crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel che è contro  Cesare).   Con quanto ho osservato non ho affatto inteso sostenere  che, quindi, abbia senz’altro ragione il pensiero laico, che vuol  tener separate quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il  comando di Gesù non conduce là dove comunemente si    220     crede.   Nel dialogo tra Scalfari e il pontefice i problemi che ho  indicato non sono gli unici, i più importanti stanno più in  fondo. Qui si voleva dare soltanto un contributo alla tutela  della chiarezza del dialogo.    221     4. L’origine   Davanti alla filosofia molti scienziati alzano le spalle. Dato  il modo in cui essa, per lo più, è loro presente, hanno ragione.  Soprattutto se non sa essere altro che una riflessione sui  risultati della scienza, o ha la pretesa di insegnarle che cosa  debba fare. Ma i concetti fondamentali della scienza sono  inevitabilmente filosofici: in un senso ben più radicale di  quello a cui si allude quando ad esempio, per la profondità  delle categorie filosofiche coinvolte, si paragona il dibattito tra  Einstein e Niels Bohr a quello tra Leibniz e Newton (M.  Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics, Wiley 1974).  E se il fisico Léonard Susskind, nel suo libro La guerra dei  buchi neri (2008, Adelphi 2009), scrive di non essere «molto  interessato a quel che dicono i filosofi su come funziona la  scienza», tuttavia la sua «guerra», combattuta contro il collega  Stephen Hawking, riguarda il tema a cui la filosofìa si è rivolta  sin dagli inizi e che sta al fondamento di tutti gli altri. Per  Hawking i «buchi neri» presenti nell’universo sono voragini  in cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi  precipitano. Susskind vede in questa tesi la violazione del  primo principio della termodinamica, per il quale la quantità  totale di energia dell’universo rimane costante nella  trasformazione delle sue forme. Ora la «costanza» dell’energia  è il suo continuare a «essere»; e l’«incostanza» delle sue forme  è il loro venire a «essere» e il loro ridiventare «non essere»,  «nulla». Certo, il fisico si disinteressa del senso dell’«essere» e  del «nulla», ma il primo principio della termodinamica non  può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato, ed è  aH’interno di quest’anima che cresce la scienza anche quando  i suoi cultori alzano le spalle davanti alla filosofia, che a  quest’anima si rivolge sin dall’inizio.   Si ritiene tuttora che la teoria generale della relatività di    222     Einstein e la fisica quantistica di Heisenberg siano  incompatibili. Ma Einstein e Heisenberg si contrappongono  mantenendosi entrambi all’interno del senso greco¬  occidentale dell’«essere» e del «nulla»: per il «determinismo»  di Einstein le forme di energia escono dal proprio esser nulla  e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile  («determinato») e quindi prevedibile; per Heisenberg tale  percorso non è né inevitabile né prevedibile; ma anche per lui  le forme di energia escono e rientrano nel proprio nulla. Non  è un caso che egli abbia ricondotto il concetto di «onde di  probabilità» al concetto aristotelico di dynamis, «potenza»,  cioè alla possibilità reale (non alla necessità) che uno stato del  mondo sia seguito da un cert’altro stato). Freud ebbe a  scrivere, di Einstein, col quale ebbe peraltro rapporti cordiali:  «Capisce di psicologia quanto io capisco di fisica». Eppure si  capiscono benissimo sul fondamento ultimo, cioè sulla  caducità delle cose del mondo, che oggi è data comunque per  scontata.   La filosofìa sostiene spesso la tesi del carattere  controvertibile della scienza. La discussione è tuttora aperta.  Anche al tema deH’incontrovertibihtà la filosofia si rivolge da  sempre. Per il grande matematico David Hilbert «il rigore  nelle dimostrazioni, condizione oggigiorno d’una importanza  proverbiale in matematica, corrisponde a un bisogno  filosofico generale della nostra ragione». E II più grande  spettacolo della terra di Richard Dawkins (Mondadori 2010),  eminente biologo evolutivo inglese, incomincia così: «Le  prove a favore dell’evoluzione aumentano di giorno in giorno  e non sono mai state più solide». Esse «dimostrano come la  “teoria” dell’evoluzione sia un fatto scientifico e in quanto tale  incontrovertibile». Ma quel che rimane oscillante e alla fine  oscuro in queste pagine è proprio il concetto di «prova», di  «fatto scientifico», di «incontrovertibilità», cioè la loro    223     filosofia. Sono un buon paradigma di quanto tende ad  accadere in molti scritti scientifici del nostro tempo. D’altra  parte, l’evoluzione è un processo in cui le specie escono dal  proprio non essere e vi ritornano così come accade per le  forme incostanti della costante quantità totale dell’energia.   «L’evoluzione è un fatto», «oltre ogni ragionevole dubbio»,  «è la pura verità» «confermata da una valanga di prove», con  la «certezza assoluta che non ci sarà smentita». Come la  certezza, intende Dawkins, che il sole è molto più grande della  terra e che l’antica Roma è esistita; come la teoria eliocentrica  e quella della deriva dei continenti. Si può certo convenire.  Ma il punto sul quale va richiamata l’attenzione è il senso  dell’«inoppugnabilità» e «incontrovertibilità» di tutte le teorie  di questo tipo. Che in loro favore esista una valanga di prove  nessuno lo nega. La questione è se tali prove e la loro  abbondanza consentano di dire che le teorie così provate  godano della «certezza assoluta» che di esse «non ci sarà  smentita». A meno che Dawkins - e allora il discorso  potrebbe finire qui - non si proponga altro che allineare la  teoria dell’evoluzione alle altre teorie dello stesso tipo, e per  dare risalto al suo discorso si serva di un linguaggio enfatico e  improprio, che però, tirate le somme, risulta inoffensivo.  (D’altra parte egli sottoscrive il vecchio principio che «a rigor  di logica solo i matematici sono in grado di dimostrare  davvero qualcosa». Parole che però debbono fare i conti con  quest’altra sua dichiarazione: «Nel resto del libro dimostrerò  che l’evoluzione è un fatto inconfutabile». Infatti se «solo i  matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa»,  allora il suo libro non matematico non dimostra «davvero»  che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile. Capisco che queste  possano sembrare all’illustre collega considerazioni da  «pedanti» e da «sofisti», però è diffìcile sostenere che non  siano «a rigor di logica».)    224     Ma che cosa intende Dawkins affermando che il suo libro  «dimostra» che l’evoluzione darwiniana è un fatto? Egli sa  bene che essa, come la deriva dei continenti, non può essere  oggetto di osservazione diretta, la quale, come egli sottolinea,  è inaffidabile. La sua «dimostrazione» vuol essere quindi  un’«inferenza» che dalle «tracce» lasciate dal processo  evolutivo risale all’esistenza di tale processo, al suo essere,  appunto, un «fatto». Egli sa bene che anche «l’inferenza si  deve basare, in ultima analisi, sull’osservazione». Sostiene  però che l’osservazione diretta di un evento come un  omicidio è meno affidabile dell’osservazione indiretta delle  «conseguenze» di esso: «È più facile che incorra in un errore  di identificazione un testimone oculare piuttosto che un  sistema di inferenza indiretta come il test del Dna» . Sì, posto  che sia «più facile», non è però impossibile che in certi casi  l’osservazione diretta sia più affidabile. Anche per Dawkins.  Esser «più facile» non significa essere incontrovertibile, ossia  è un’ipotesi (plausibile, se si vuole). Sennonché da questa  ipotesi dipende, nel suo libro, la validità dell’«inferenza» con  cui egli intende dimostrare che l’evoluzione è un «fatto»  incontrovertibile. Ciò significa che anche questa «inferenza»,  e pertanto l’esistenza dell’evoluzione, sono soltanto «ipotesi».  (Egli rileva inoltre che i cambiamenti evolutivi sono «troppo  lenti» per poter essere osservati da un individuo nell’arco  della sua vita. Ma chi si propone di dimostrare che  l’evoluzione è un fatto non può presupporre l’esistenza di tale  fatto e delle sue caratteristiche. E invece Dawkins fa proprio  questo: invece di dimostrare che l’evoluzione è un processo  lentissimo, afferma arbitrariamente che essa non può essere  direttamente osservabile perché è un processo lentissimo.)   Deludente anche il modo in cui egli si sbarazza di una nota  ipotesi di Bertrand Russell, la quale, sino a quando non si  mostri che nemmeno come ipotesi è accettabile, lascia aperta    225     la possibilità che l’evoluzione, almeno come viene intesa dai  biologi, sia qualcosa di inesistente. Dice dunque Russell: «Può  anche darsi che abbiamo cominciato tutti a esistere cinque  minuti fa, completi di ricordi preconfezionati, calzini bucati e  capelli incolti». A parte lo stile di molti filosofi anglosassoni,  che preferiscono parlare di calzini bucati piuttosto che della  Passione secondo san Matteo di Bach, e, questo, per far sapere  che l’esistenza non è da prendere troppo sul serio - a parte  cioè il senso che all’esistenza viene conferito dall’intero  pensiero occidentale, che la ritiene caduca, effimera, storica,  temporale, provvisoria abitatrice dell’essere e preda del nulla  (dunque degna di esser cominciata cinque minuti fa) anche  quando e appunto perché la si pensa nelle mani di Dio o della  poesia o di altra nobile e austera dimensione - a parte tutto  questo, come risponde Dawkins a Russell?   Risponde scrivendo che sì, «è possibile, a voler esser  pedanti, che gli strumenti di misurazione e gli organi di senso  che li interpretano siano rimasti vittime di un colossale  inganno», cosicché, «se l’evoluzione non fosse un fatto,  sarebbe un colossale inganno del creatore, ipotesi a cui  pochissimi teisti sarebbero disposti a dare credito». Risposta  deludente. Innanzitutto perché la verità incontrovertibile  dell’evoluzione sussisterebbe solo se non si fosse pedanti, ma  nemmeno per Dawkins la pedanteria è qualcosa di  scientificamente inaccettabile. In secondo luogo perché dal  fatto che i teisti non darebbero alcun credito al «colossale  inganno» non segue che tale inganno non possa esser  perpetrato e che quindi l’ipotesi di Russell sia da respingere.   Queste osservazioni non hanno il benché minimo intento  di affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione «abbiano  ragione». Entrambi gli avversari si muovono nel campo delle  ipotesi. Oggi, ciò che decide dove stia la «verità» non è il  costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro    226     incontrovertibilità, ma la loro maggiore o minore capacità di  trasformare il mondo conformemente ai progetti che  l’apparato scientifico-tecnologico planetario si propone. Una  scienza che si affanni a dimostrare la «verità  incontrovertibile» dei propri contenuti combatte una  battaglia di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze  della natura vale anche per quelle logico-matematiche.  L’esistenza delle geometrie non euclidee, ad esempio, implica  che nel migliore dei casi la geometria euclidea sia una verità  incontrovertibile solo in relazione ai postulati e agli assiomi  su cui essa si fonda, e dunque non sia assolutamente ma  relativamente incontrovertibile. Da quando nasce la filosofia  pensa la verità come in-contro-vertibilità, ossia come ciò  contro cui non ci si può rivoltare (vertere), ma che non  intende essere una costrizione transeunte e quindi violabile.  La connessione tra la verità e l’inviolabile «principio di non  contraddizione» attraversa tutta la storia della cultura. Per  Hilbert la questione «più importante» è dimostrare che  basandosi sugli assiomi della matematica «non si potrà mai  arrivare a dei risultati contraddittori». Ma Kurt Godei  dimostrerà che questa dimostrazione è impossibile. Cioè la  matematica si sviluppa ammettendo la possibilità di essere un  sistema concettuale contraddittorio e quindi controvertibile.  Se lo dimentica Dawkins quando afferma che «solo i  matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa».  Infatti, «dimostrare davvero», cioè incontrovertibilmente,  significa essere in grado di escludere quella possibilità.   Il primo grande libro di Darwin è intitolato L’origine della  specie (The Origin of Species). Già dal punto di vista  linguistico «origine», che rinvia al latino orior («provengo  da...», «sorgo») corrisponde all’antico greco arché, la parola  con cui, all’inizio della filosofia, Anassimandro indica il  «principio» da cui tutte le cose provengono e in cui tutte    227     ritornano. La filosofia ha voluto giungere in modo  incontrovertibile all’affermazione dell’esistenza del  «principio», ma insieme ha reso estrema la fede che è radicata  nell’uomo più antico: la fede che le cose, per stare dinanzi a  lui - e quindi l’uomo stesso -, abbiano bisogno di qualcosa  d 'Altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda disponibili.  Qualcosa d ’Altro che è il mondo degli antenati e dei fondatori  della stirpe, il demonico, il divino, e poi, quando la filosofia  appare, Yarché, appunto. L’immenso e tremendo sottinteso di  questa fede è la convinzione (a cui prima si è accennato) che  le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra - e poi,  quando la filosofia incomincia a parlare, sono di per sé  incapaci di «essere», e sono preda del «nulla». Cose morte. La  morte e il nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal  sepolcro occorre dar loro un’origine. Anche la scienza si  muove all’interno della fede nell’origine (ormai divenuta fede  filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la concezione  filosofica e scientifica sono trascrizioni mondane che di  quell’origine conservano l’essenziale. Così accade per Yarché e  l’«origine della specie», per il big bang come origine  dell’universo, per l’inconscio freudiano come origine della  coscienza. E ancora: per il lavoro, la società, la storia, il  linguaggio, il cervello, il corpo, la materia come origini della  mente e della cultura. In generale, per le «cause» prossime e  remote degli eventi. E perfino il nulla è un succedaneo dei  vecchi e nuovi dèi - il nulla da cui i più oggi pensano, più, o  meno inconsapevolmente, che l’esistenza abbia l’origine  ultima.   Sì, in queste forme dell’origine è presente l’intera sapienza  dell’uomo. Ma proprio perché la fede nell’origine porta sulle  spalle un fardello così gravoso, si è proprio sicuri che non le si  debba chiedere se sia in grado di reggerlo?    228     5. «La fine del tempo»   In Italia alcuni fisici e qualche filosofo hanno notato  l’affinità tra la «tesi» centrale del mio discorso filosofico -  l’eternità di ogni ente e pertanto di ogni stato del mondo - e  la «tesi» di Einstein che «per noi fisici, la distinzione tra  passato, presente e futuro non è che una testarda illusione».  Ho messo tra virgolette la parola «tesi», per sottolineare che  quando le «logiche» che conducono «alla stessa» tesi son  diverse, son diverse anche le tesi che suonano  apparentemente identiche. E la logica della fìsica einsteniana è  essenzialmente diversa da quella secondo cui si manifesta la  necessità dell’eternità di ogni essente a cui si rivolgono i miei  scritti.   Ciò non vuol dire che ci si debba disinteressare del  rapporto tra le due «tesi», soprattutto ora che molti fisici  mettono in questione il concetto di «tempo», che sta in piedi  solo se il presente differisce dal passato, ossia dall’«ormai  nulla», e dal futuro, ossia dall’«ancor nulla». L’esempio più  recente e tra i più rilevanti di questa crisi del tempo nel  mondo della fisica è il libro del fisico Julian Barbour, La fine  del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura (Einaudi  2003).   Che la filosofia abbia da imparare dalla fisica è un luogo  comune. E sacrosanto. Perché se la filosofia intende  comprendere il senso della scienza e della tecnica, scienza e  tecnica deve in qualche modo conoscerle. Ma è vero anche  l’inverso. In una fase in cui, ad esempio, un fisico come  Steven Hawking prevede (1979) che la fìsica debba lasciare il  posto a una «Teoria del Tutto», si toccherebbe il fondo della  povertà di pensiero se non ci si rivolgesse alla filosofia che, da  sempre, è stata la «Teoria del Tutto». Ma poi la filosofia  giunge a indicare in concreto - nei miei scritti il linguaggio    229     mira appunto a questa indicazione - in che senso essa non è  un sapere ipotetico, esigenziale, metaforico, falsificabile ecc.,  ma è il sapere assolutamente incontrovertibile - in un senso  essenzialmente diverso da quello che la tradizione filosofica  attribuisce all’incontrovertibile e di cui la filosofia del nostro  tempo ha mostrato l’impossibilità.   Barbour scrive: «Da una quindicina d’anni un numero  esiguo ma crescente di fisici, me compreso, comincia a  considerare l’idea che il tempo non esista veramente. E lo  stesso vale per il movimento». Posso invitarlo a tener presente  che la riflessione sull’eternità di ogni essente e di ogni evento  è presente nei miei scritti sin dalla metà degli anni Cinquanta  e che a metà degli anni Sessanta la discussione su questo tema  è stato un non trascurabile evento della filosofia italiana, che  continua tuttora a essere vivo? Egli non è uno di quegli  sprovveduti che non vedono relazioni tra fisica e filosofia:  nella prima pagina del suo libro (di grande interesse e  avvincente) scrive che «ben pochi pensatori, nelle epoche  successive, hanno preso sul serio le idee di Parmenide; io  invece sosterrò che l’eterno fluire eracliteo... non è che una  radicata illusione».   Dirò allora al professor Barbour che qui in Italia, da mezzo  secolo, quelle idee sono state prese molto sul serio non solo da  me, ma anche da chi ha creduto di dover dissentire. E son  certo che al professore non interessa favorire quella sorta di  incompetenza che c’è all’estero intorno alla filosofìa italiana.    230     6. Erba e lastre, scienza e teatro   Letteratura, scienza e religione, confrontandosi con la  filosofia, si danno spesso la mano.   La Bellezza regna su queste pagine di Roberto Calasso, tra  le sue più importanti e ricche della loro disincantata sobrietà:  La letteratura e gli dei (Adelphi 2001). Indicano la Bellezza  che presenta sé stessa nella sua assoluta autonomia dalla  Verità e dalla Bontà. E indicano insieme gli dèi pagani,  soprattutto quelli greci, che si eclissano in oscurità variamente  profonde, ma per ritornare in Europa, secondo diverse forme  di «evidenza». Ad esempio nella pittura fra il Quattrocento e  il Settecento. Soprattutto tra la fine del Settecento e la fine  dell’Ottocento: «l’età eroica della letteratura assoluta» che  incomincia con la comparsa della rivista «Athenaeum»  (Schlegel, Novalis...) e si chiude con la morte di Mallarmé.  Letteratura «assoluta» perché indipendente da ogni  legislazione esterna, soprattutto quella della «comunità» è  «alla ricerca di un assoluto» e perciò non può che  «coinvolgere» «il tutto». Un anello - Calasso ne intende  decifrare la lega - unisce letteratura, linguaggio, mitologia,  poesia, arte e gli dèi che appaiono in queste grandi luci. Il  sottinteso è che il cristianesimo non appartiene alla  «letteratura assoluta».   Ma non è proprio all’assoluto e al tutto che la filosofia si è  sempre rivolta con l’intento di preservare il proprio sguardo  da ogni dipendenza da altro, innanzitutto dalla «comunità» e  dal «sociale»? E, se è così, la discordia tra «letteratura  assoluta» e «filosofìa» non è la discordia tra due forme della  filosofia, sia pure lontane tra loro? Per indicare questa  lontananza Calasso scrive ad esempio: «La letteratura cresce  come l’erba tra grigie, possenti lastre del pensiero». Ma è un  «accertamento poliziesco di identità» (come dice Calasso dei    231     tentativi concettuali di irretire la letteratura) chiedere se  quelle parole di Calasso sono erba o lastra? Certo, l’esperienza  degli dèi, in cui consiste la «letteratura assoluta», «intender  non la può chi non la pruova». Ma o quest’ultima espressione  non ha assolutamente senso, o, se lo ha, ed è innegabile tale  senso, è la mano che incorona la testa di quell’esperienza, e  pertanto la sovrasta. Calasso intende sfuggire a questo nodo  che stringe il collo della proclamazione romantica della  superiorità assoluta dell’arte. Ma se non è una possente lastra  del pensiero a conferire assolutezza alla «letteratura assoluta»,  allora, a conferirla, è erba che appassisce, semplice  aspirazione all’assoluto.   Oltre l’«età eroica della letteratura assoluta», ma nel suo  clima, si ricorda nel libro, Gottfried Benn scrive che al di  sopra del linguaggio che «raffigura» vi è «il linguaggio», cioè  Nietzsche: «E allora viene Nietzsche e incomincia il  linguaggio, che non vuole (e non può) altro che fosforeggiare,  luciferare, rapire, stordire». Calasso commenta: «Nietzsche  era stato il primo tentativo di evadere dalla gabbia delle  categorie di origine platonica e aristotelica. Che cosa si  estenda al di fuori di quella gabbia non è stato ancora  accertato». Nemmeno da Nietzsche, dunque. Da parte mia,  chiedo a Calasso se non gli sembra che su questo punto il suo  discorso possa procedere soltanto perché ha messo tra  parentesi il mio. E ancora: quel linguaggio, che come dice  Benn, non vuole altro che...» non è forse un «volere»? E non  si dovrà allora tentare di comprendere, innanzitutto, che cosa  il significhi, appunto, «volere»? (E, certo, l’affermazione che al  di sopra del linguaggio che «raffigura», vi è il linguaggio che  stordisce vuole raffigurare o stordire?)   Il rapporto teatro-scienza, e in generale arte-scienza è stato  teorizzato da Brecht in Scritti teatrali (Einaudi 1962). Una  prospettiva, questa, che per un verso, è decisamente    232     antiplatonica - il che non meraviglia in un marxista come  l’autore delle tre versioni di Vita di Galileo -, per altro verso  va incontro a una delle esigenze più profonde espresse da  Platone: quella di parlare di cose di cui si è competenti.   Platone, infatti, invita a diffidare dei poeti tragici e dell’arte  in genere proprio perché l’artista può avere soltanto opinioni  e non scienza intorno ai grandi temi della vita e della morte,  dello Stato, della pace, della guerra, dell’amore e dell’odio, ai  quali costantemente si riferisce in modo più o meno esplicito.   Certo, Brecht riconosce che «il piano della scienza e quello  dell’arte sono diversissimi». Tuttavia non solo si rifiuta di  considerare semplici «hobby» gli interessi scientifici di Goe¬  the e di Schiller, ma, con gli stessi esempi offerti da Platone  nel libro X della Repubblica («grandi passioni», «storia dei  popoli», «impulso del potere»), sostiene che anche nell’arte «i  grandi e complicati avvenimenti non possono essere  sufficientemente riconosciuti in un mondo di uomini che non  si provvedano di tutti gli strumenti utili ad intenderli».   Un dramma sulla vita di Galileo può essere quindi scritto  solo da chi conosce da vicino la nascita della scienza  moderna. E Brecht, che per la Vita di Galileo ebbe a ricorrere  anche all’aiuto di alcuni assistenti di Niels Bohr, non esita a  riconoscere che «una quantità di letteratura è a uno stadio  fortemente primitivo».   Platone respinge l’arte perché non ha competenza di ciò a  cui essa si rivolge; Brecht si fa banditore di un’arte che invece  questa competenza ce l’abbia, lasciando al suo destino la  sterminata quantità di «letteratura» che invece si trova, per la  sua incompetenza, «a uno stadio fortemente primitivo».  Rimane il problema di come «il contenuto scientifico che può  essere racchiuso in un’opera poetica» debba essere  «completamente risolto in poesia».    233     Rimane anche ovviamente incolmabile l’opposizione tra  Platone, che vede l’anima dell’uomo destinata a una vita  immortale, e un Brecht, che in sintonia con il pensiero  filosofico del nostro tempo, scrive:    Lo confesso: io   non ho nessuna speranza.   I ciechi parlano di una via d’uscita. Io  ci vedo.   Quando gli errori sono esauriti   siede come ultimo compagno   di fronte a noi il nulla ( Poesie , Einaudi 1962).   Non è allora del senso del nulla che (anche) l’artista deve  avere la massima competenza?    234     7. «Istoria e filosofia dell’umanità»   Oggi si tende a considerare la scienza moderna come la  forma più alta di sapere. Ma la scienza stessa riconosce ormai  il proprio carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo  riconoscono. Anzi, a questa consapevolezza sono giunte  prima delle scienze della natura e logico-matematiche. In  modo indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha  aperto la strada in questa direzione. «Ci è mancata sinora»  scrive «una scienza la quale fosse, insieme, istoria e filosofia  dell’umanità.» Passa la vita a tracciare la configurazione di  questa nuova scienza.   Al di fuori di essa, esiste una «istoria» senza filosofia, cioè,  per lui, senza «verità»: una conoscenza storica che mostra sì  un immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna  Legge immutabile, «eterna» che dia loro un senso unitario, e  quindi lasciandole allo stato di ipotesi. La «Scienza nuova»  deve procedere pertanto «senza veruna ipotesi»: senza le  «incertezze» e «dubbiezze» che competono alle scienze  storiche sino a che rimangono separate dalla filosofia.   Ma il nostro tempo - e innanzitutto l’essenza  (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo -  esclude l’esistenza di una qualsiasi Legge immutabile ed  eterna, sì che le scienze storiche si trovano oggi a conservare  proprio quel carattere di «incertezza», «dubbiezza», ipoteticità  che Vico aveva consapevolmente colto in esse in quanto  separate dalla filosofìa. La Scienza Nuova è stata ripubblicata  da Bompiani nelle tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di  Manuele Sanna e Vincenzo Vitiello, con un importante saggio  introduttivo di quest’ultimo. Il testo è riproposto secondo  l’edizione fattane dallo stesso Sanna, da Fulvio Tessitore e  Fausto Nicolini, con alcuni restauri per le edizioni del 1730 e  del 1744. Un’imponente operazione culturale.    235     Molto opportunamente, Vitiello mette in luce il carattere  problematico della conoscenza storica e in generale della  nostra memoria.   Vico e tutte le successive riflessioni sulla conoscenza storica  non mettono però in questione Yesistenza della storia. E  nemmeno le scienze naturali mettono in questione Yesistenza  della natura. Storia e natura sono cioè trattate come  indubitabilmente esistenti: la loro esistenza è considerata una  verità incontrovertibile. Ma a chi va affidato il compito di  mostrare la verità non ipotetica dell’esistenza del mondo? Che  esista il mondo è una conoscenza scientifica - quindi  problematica -, oppure è una conoscenza innegabilmente  vera, e quindi non scientifica? Né il senso comune può farsi  avanti con la pretesa di saper lui rispondere, infatti non può  avere la pretesa di possedere una conoscenza superiore a  quella della scienza.   Affermare che l’esistenza del mondo è una verità innegabile  significa affidare alla filosofìa il compito di mostrarlo. È  sempre stato il suo compito metter tutto in questione e  spingersi in vari modi fino al luogo che «non può» esser  messo in questione. Da questo punto di vista, non mettendo  in questione l’esistenza della storia, lasciandola cioè  implicitamente valere come verità innegabile, Vico rimane  indietro rispetto al compito essenziale della filosofia. Ma per  altro verso egli coglie nel segno intuendo che la filosofia non  può, a sua volta, chiudere gli occhi di fronte alla storia, alla  natura, al mondo. Proviamo a chiarire quest’ultima  affermazione.   Il «senso comune», in cui si trova ognuno di noi da quando  nasce, non ha dubbi sull’esistenza del mondo e della ricchezza  dei suoi contenuti: vi crede con tutte le sue forze. (Vi crede  anche la scienza, anche quando essa si discosta dal senso    236     comune.) Ma, appunto, lo crede, ha fede nella sua esistenza, e  non può fare a meno di crederlo - così come non può fare a  meno di credere che il sole si muova da oriente a occidente  anche se la scienza gli dice che è la terra a muoversi attorno al  sole, che sta fermo rispetto a essa.   Ma la fede non è la verità innegabile. La fede mette in  manicomio o distrugge chi mostra di dissentire da essa;  sebbene faccia questo quando il dissenziente ha meno forza  del credente. Sennonché la verità non è una forza o violenza  vincente. Quando la filosofia del nostro tempo lo sostiene, lo  può sostenere sul fondamento di ciò che per essa è la verità  innegabile: 1’esistenza del divenire del mondo, cioè del  divenire le cui forze sono capaci di travolgere e vincere ogni  «verità» che pretenda imporsi su di esse e regolarle.  Affermando che la verità innegabile è il divenire del mondo  (implicante l’inesistenza di ogni eterno e di ogni immutabile  al di sopra di sé), nemmeno la filosofia del nostro tempo lo  afferma perché è riuscita a mettere in manicomio o a  distruggere chi la pensa diversamente da essa.   In verità, il mondo non è il mondo (storia, natura, lo stesso  altro dal mondo) quale appare all’interno della fede nella sua  esistenza e nei suoi molteplici contenuti - ossia all’interno  della non-verità. Tuttavia è necessario che nella verità appaia  la non-verità: innanzitutto perché la verità è negazione della  non-verità e per esserne la negazione è necessario che la veda.  È necessario cioè che nella verità appaia la fede nel mondo, al  cui interno si costituisce ogni altra fede (ad esempio la fede  nella storia e nella natura, la fede religiosa), ossia ogni altra  non-verità, ogni altro errare. Ciò significa che, in verità, il  mondo è la fede nel mondo e che la non-verità della fede nel  mondo appartiene necessariamente, come negata, al  contenuto della verità.    237     Quando Vico pensa una «scienza la quale sia insieme  istoria e filosofìa dell’umanità», non scorge che l’esistenza  della storia (e del mondo) è il contenuto di una fede, ma crede  che nell’unione di storia e filosofia la storia sia illuminata  dalla verità della filosofia e divenga essa stessa verità; e  tuttavia egli intuisce che la verità è inseparabile dal proprio  opposto, cioè dalla fede, dall’errore.   Quale volto deve avere la verità che si mette  autenticamente in rapporto col proprio opposto? Nel capitolo  conclusivo della sua introduzione, intitolato «Prospezioni  vichiane » Vincenzo Vitiello scrive: «Al presente spetta la cura  della “possibilità” del futuro, che non solo, in quanto futuro,  non è, ma neppure è necessario che sia». Sono d’accordo che  questa sia una «prospezione vichiana», un proseguire cioè  lungo il sentiero percorso da Vico. Ma aggiungo che questo  sentiero è solo un tratto del grande Sentiero aperto dalla  filosofia greca e in cui consiste la storia dell’Occidente: il  Sentiero per il quale il divenire delle cose (di cui sopra si  parlava) è il loro uscire dal nulla del futuro e ritornare nel  nulla del passato. E Vitiello sa bene che, servendomi di  un’espressione dell’antico Parmenide, lo chiamo «Sentiero  della Notte» - dove la «Notte» è l’errare estremo. Quella  «prospezione vichiana» raggiunge il proprio culmine e la  propria estrema coerenza in ciò che prima ho chiamato  essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofìa del nostro  tempo, ossia nella distruzione di ogni Legge e di ogni Essere  immutabile ed eterno. Da gran tempo vado mostrando la  malattia mortale - l’essenziale non-verità del mondo - che sta  al fondamento di quel Sentiero e che impedisce alla verità di  essere l’autentica negazione dell’errore, cioè della malattia  mortale che, appunto, fa dire a tutti gli abitatori del pianeta  che il futuro e il passato non sono e non è necessario che  siano.    238     Ho detto che tutto questo vado mostrandolo «da gran  tempo»? Mi son lasciato andare. Rispetto alla grandezza della  posta in gioco quel tempo è minimo.    239     8. «Suicidio dell’Europa»   «Lasciar da parte la brocca riempita di vino e porre al suo  posto una cavità dove si trova del liquido.» È quel che fa la  scienza, secondo Heidegger, rendendo «un che di nullo» la  brocca e tutte le cose. Ma già per Goethe la scienza lascia da  parte gli aspetti più concreti e intimi delle cose; e questa  astrazione è chiamata da Hegel «intelletto». Non è nemmeno  un discorso perentorio, perché si potrebbe replicare che  anche la poesia «annulla» tutto ciò a cui invece si rivolge la  scienza.   E quella cosa che è l’«Europa»? Pietro Barcellona non si  confronta con il passo di Heidegger, ma anche nel suo ultimo  libro l’Europa è proprio come la brocca piena di vino che è  stata annientata dalla scienza e dalla tecnica moderne: è stata  sostituita con una cavità in cui si trova del liquido. E poiché la  scienza è un fenomeno europeo l’annientamento dell’Europa  è un autoannientamento. Il libro di Barcellona è infatti  intitolato II suicidio dell’Europa (Edizioni Dedalo 2005).   Da molto tempo Barcellona si dichiara d’accordo con vari  aspetti del mio discorso filosofico. A modo suo, con  sensibilità e acutezza. Del mio pensiero dice: «Bisogna fare a  pugni oppure aprire le braccia». Non mi sembra che le apra  alla mia tesi che la dominazione della tecnica e della scienza è  inevitabile (per un certo tratto - dunque finito - della storia  dell’Occidente.   Però lo invito a mostrare dove non lo soddisfano le pagine  che ho scritto a proposito di tale inevitabilità. In esse si  mostra che, lasciando il dominio alla tecnica, l’Europa non si  suicida ma è un albero dove i rami più alti (tecnica e essenza  profonda della filosofìa del nostro tempo), per respirare e  vivere, fanno appassire quelli più bassi (tradizione teologico-  metafisica-religiosa dell’Occidente), sebbene, come    240     quest’ultimi, traggano la loro linfa dalle stesse radici e dallo  stesso tronco. Certo, scienza e tecnica non hanno l’ultima  parola. E quello dell’Europa è l’albero della Follia. Anche  Lucifero è folle, ma è il signore del mondo.   Barcellona mi concede che gli eventi del mondo siano  l’apparire e lo scomparire degli Eterni, i quali sono pace,  guerra, amore, odio, albero, brocca, nubi e anche tutto ciò che  non si lascia vedere e che culmina nella gioia e nella gloria a  cui l’uomo è destinato. Ma Barcellona parla anche degli  «intervalli in cui l’Eterno della gioia, l’Eterno della gloria non  si è ancora presentato. Nel bel mezzo di uno di questi  intervalli, mi ci ritrovo io - scrive - che, non avendo (ancora)  visto la gioia o la gloria, ma avendo visto la tecnica, sto male».   Dice infatti che la tecnica distrugge «avvenire», «speranza»,  «promessa», «profezia», rende tutto presente, calcolabile,  manipolabile. Riprende la tesi di Heidegger e Bloch. Che vale  però per il pensiero filosofico tradizionale (i rami bassi  dell’albero di cui sopra parlavo). Volendo essere tale pensiero  incontrovertibile, ha infatti la pretesa di dire già tutto  sull’essenza del futuro, ossia di ciò che ancora, per l’intero  Occidente, è un nulla. Scienza e tecnica (i rami alti) sono  invece un sapere ipotetico, che non adatta a sé l’esperienza,  ma le si adatta, lasciandola vivere e aprendosi all’«awenire».  Inoltre la filosofìa del nostro tempo mostra l’impossibilità di  ogni Eterno che stia al di sopra delle cose create e annientate,  ma che non ha nulla a che vedere con gli Eterni, di cui  parlano i miei scritti, che non sono i padroni che dominano e  regolano quella creazione e annientano, ma sono le cose  stesse.   Questa sintesi di tecnica e filosofia del nostro tempo, alla  quale ben pochi guardano, è animata da quella volontà di  «avvenire», la cui mancanza fa star male Barcellona e anche    241     altri. Mi sembra che egli oscilli tra l’inconsapevole adesione  allo spirito del nostro tempo - che, proprio in quanto  tecnologico, e contro quel che di solito si pensa, intensamente  vuole e promuove l’«awenire» - e l’adesione al mio discorso  filosofico, dove anche la totalità del futuro è già, eterna, e  attende di venire alla luce, oltrepassando quell’Eterno che è la  Follia da cui è dominata la terra.   A volte Barcellona mi dice che la sua è una fede. Troppo  modesto. Alla base del suo discorso c’è invece una filosofia  per la quale la verità non può essere che «visione». È il  principio della fenomenologia. «Ma si può dare davvero un  rapporto necessario con la verità» scrive «che non sia la  visione?» Rispondo: sì, perché la semplice visione non potrà  mai essere «necessità». Limitarsi, in un paradiso, a «vedere»  Dio, significa esporsi al dubbio di essere vittime di una  illusione. La semplice «visione» non mostra la necessità di  quel che si vede. Nemmeno chi toccava Gesù toccava la  «necessità» che egli fosse il Figlio di Dio.   Tempo fa, in un editoriale di «Liberal» (n. 19, 1998) il  direttore Ferdinando Adornato richiamava il problema delle  nuove «regole di un equilibrio mondiale» e affermava la  necessità che l’Europa abbia «una propria autonomia politica  di difesa e di sicurezza. Aggiungeva di non trovare «saggio»  «pensare che tale autonomia debba servire a riproporre un  ordine mondiale basato su un “bipolarismo antagonista” nei  confronti degli Usa». Poiché in un mio articolo pubblicato su  quello stesso numero sostenevo una tesi che a prima vista  sarebbe potuta sembrare affine a quella che l’editoriale non  considerava «saggia», nel numero successivo aggiunsi, in  risposta, quanto segue.   Siamo d’accordo che l’Europa si trova all’interno di un  processo storico che la vede e continuerà a vederla alleata    242     degli Usa. D’accordo, anche, che un alleato non è un suddito.  Lo diventa se non ha potenza - se non ha l’«autonomia» di  cui Lei parla. A meno che l’alleato debole abbia grande  autorità su quello forte. Ma non è il caso dell’Europa rispetto  agli Usa (che hanno tirato diritto anche di fronte alle  esortazioni del Papa).   Nel mio articolo rilevavo che il processo storico in cui si  trova l’Europa la vede anche avvicinarsi alla Russia, nel senso  che si profila la tendenza verso la collaborazione tra la  potenza economica europea e la potenza nucleare russa.  L’unione di questi due fattori fa nascere appunto quell’alleato  degli Usa, che è tale solo se non è un suddito. Non si profila  dunque un semplice «antagonismo» rispetto agli Usa. Perfino  il bipolarismo Usa-Urss era chiamato dal sottoscritto, sin  dagli anni Settanta, «Duumvirato» (l’espressione era piaciuta  anche a Giulio Andreotti). Rispetto alla concordia discors del  Duumvirato di allora, il Duumvirato che si sta profilando (e  che il mio discorso si limita a constatare) vede  considerevolmente ridotta la discordia. D’altra parte gli alleati  sono veri, solo se ognuno dei due ha la forza di resistere alle  possibili prevaricazioni dell’altro. Solo questa forma di  alleanza tra Europa-Russia e Stati Uniti può consentire  all ’Occidente di tutelare affìcacemente i propri valori rispetto  al resto del mondo.   Lei rileva invece che la logica della deterrenza nucleare è  obsoleta. Il terrorismo è evanescente e asimmetrico.  (D’accordo). Per Lei, mi sembra, sarebbe obsoleto anche un  ombrello nucleare russo che sostituisse quello che gli Usa  hanno tenuto e tengono aperto sull’Europa. Ora,  contrapporre al terrorismo l’armamento nucleare è  ovviamente insufficiente. Oggi esistono le armi chimiche e le  cosiddette «nano-tecnologie» di basso costo e di altissimo  potenziale distruttivo dalle quali è estremamente difficile    243     difendersi. Ma perché i terroristi non le hanno usate, per  esempio per difendere l’Afghanistan e l’Iraq? Se l’armamento  nucleare è insufficiente, è però anche necessario. Alla fine,  sono soprattutto degli Stati ad alimentare il terrorismo. Gli  Usa non parlano forse di «Stati canaglia»? Rispetto a  quest’ultimi la minaccia atomica (esplicitamente richiamata  dagli Usa prima dell’attacco all’Iraq) non è obsoleta. E allora  non si dovrà dire che il terrorismo si astiene dall’uso delle  armi chimico-batteriologiche proprio perché certi Stati  temono la ritorsione atomica su di essi da parte degli Usa (e  della Russia)?   Ma poi, la concreta risposta americana al terrorismo dell’11  settembre non è stata forse l’attacco a due Stati? E un articolo  di questo numero di «Liberal», scritto da un americano, non è  forse significativamente intitolato E adesso l’Iran^ È proprio  così obsoleto il possesso di un arsenale invincibile (e  invincibile lo è tuttora e nonostante tutto anche quello russo),  in un mondo dove la rincorsa all’armamento nucleare sta  diventando sempre più pressante - come proprio in queste  settimane stiamo constatando?   A parte il riferimento alla «potenza economica europea»,  che come già si è accennato nelle pagine precedenti si è nel  frattempo notevolmente ridotto, le considerazioni presenti in  quella mia risposta vanno tuttora tenute ferme.    244     9. «Non credo alla sopravvivenza»   Molte le pagine di Maurizio Ferraris da cui la  comprensibilità del discorso di Jacques Derrida ha tratto, un  notevole, giovamento. Anche quelle pubblicate da Bollati  Boringhieri e affettuosamente intitolate Jackie Derrida.  Ritratto a memoria (2006), dove egli scrive che per Derrida,  «cercare di far sì che non tutto scompaia è stato al centro delle  sue preoccupazioni senza trasfomarsi in una meditatio mortis  narcisistica» (p. 20).   A dar ragione a Ferraris, è lo stesso Derrida che dichiara:  «Non penso che alla morte, ci penso sempre, non passano  dieci secondi senza che la sua imminenza mi sia presente.  Analizzo continuamente il fenomeno della sopravvivenza, è  veramente la sola cosa che mi interessi, ma proprio nella  misura in cui non credo alla sopravvivenza post mortem. In  fondo, è questo che comanda tutto, tutto ciò che faccio, sono,  scrivo, dico» (J. Derrida e M. Ferraris, Il gusto del segreto,  Laterza 1997). «Nella cenere tutto viene annientato» dice da  qualche parte.   Ma di quel continuo analizzare «il fenomeno della  sopravvivenza» non trovo traccia nelle pagine di Ferraris. E lo  si spiega; perché per quanto ne sappia, non la trovo nemmeno  nelle pagine di Derrida. Egli dice, sì, che continua a pensarci,  ma è difficile venire a sapere che cosa egli abbia pensato in  proposito; o si viene a sapere ben poco più del fatto che egli  «non crede alla sopravvivenza post mortem». In questo senso,  non solo Ferraris ha ragione a sostenere che in Derrida non  c’è «una meditatio mortis narcisistica», ma verrebbe da dire  che non c’è affatto una meditatio mortis.   Certo, a dirlo così nudo e crudo si sbaglierebbe, perché  Derrida conosceva bene la meditazione di Heidegger sulla  morte. E tuttavia doveva anche saper bene che è una    245     meditazione «fenomenologica», che cioè non si pronuncia sui  problemi «metafisici» come 1’esistenza di Dio, la  sopravvivenza dopo la morte ecc. Rimane dunque  l’impressione che Derrida abbia distolto lo sguardo da ciò che  maggiormente lo assillava.   Che è certamente quel che più conta. Sono d’accordo. Ma  sono d’accordo perché al tema della «cenere» in cui «tutto  viene annientato» ho invece dedicato tutto quello che ho  scritto. Tutto quel che ho scritto si riferisce alla necessità che  ogni cosa (evento, stato ecc.) sia, eterna, cioè che nessuna cosa  si annienti nel cosidetto suo diventar cenere. Vi si riferisce  argomentandola e mostrando il senso della «necessità» e  dell’«argomentare». Peccato che in proposito Derrida non  abbia voluto prendere posizione. Ma limitarsi a dichiarare la  propria incredulità intorno a qualcosa non è il momento più  alto della filosofìa.   All’amico Ferraris vorrei pertanto proporre di non seguire,  in questo, Derrida. Che, per quanto ne sappia, non si è mai  interessato di Leopardi. Ma la meditatio mortis di Leopardi è  grandiosa, straordinariamente potente, unica. E non è  soltanto «fenomenologia». Leopardi crede di poter mostrare  che nessuna cosa è eterna. Ma come è alto e ricco, e  argomentante il suo errare! Con questa meditazione devono  fare i conti i credenti. Derrida li disturba ben poco.   Se non si guarda da vicino il senso del pericolo, cioè  dell’annientamento e dello scomparire, che stanno alla radice  dell’angoscia, quale consistenza può avere la ricerca di un  rimedio contro la morte ossia di quel «far sì che nontutto  scompaia»? Per Derrida il rimedio era la «scrittura», che  trattiene ancora per un po’ le cose nell’esistenza. Proust  questa tesi l’aveva già analizzata a fondo. Ma, anche qui,  com’era ben più radicale Leopardi, che pensava alla scrittura    246     nel senso più ampio, cioè, come «opera» del «genio», ossia di  chi sa dire con potenza la nullità di tutte le cose.    247     10. Follia giudiziosa   Per le scienze del linguaggio il «sacro» è il «separato»: tiene  lontano l’uomo; anche se insieme lo attira. Freud ha visto  neH’inconscio la follia da cui la coscienza dell’uomo si è  distaccata. All’inizio del suo bel libro Orme del sacro Umberto  Galimberti scrive tuttavia che «a conoscere questa follia non  sono la psicologia, la psichiatria o la psicoanalisi, ma la  religione».   Ma la religione - osservo - è solo un «credere»; e se un  sapere riuscisse a mostrare che l’occhio della religione vede  più lontano degli altri e riesce a scorgere la profonda verità  della follia del sacro, non sarebbe allora questo sapere (lo si è  chiamato «filosofia») ad avere l’occhio più acuto? Più in alto  di una testa incoronata sta la mano che la incorona.   Per Nietzsche al di là della ragione c’è il «caos». Per  Dostoewskij c’è Cristo. Per Freud l’inconscio è il luogo in cui  non vige più il principio di identità e di non contraddizione.  La contraddizione è il caos, è Cristo, la follia. La follia è la  verità ultima dell’esistenza. In ognuno di questi casi, si apre  alle spalle della ragione il mondo dell’«indifferenziato», dove,  scrive Galimberti, una cosa è «questo e anche altro».   La ragione, tuttavia, non trova scandaloso pensare che un  vino possa essere forte e anche nero. I problemi incominciano  quando si pensa che lo stesso vino sia forte e non forte, nero e  non nero: «indifferenziato», appunto. Platone e soprattutto  Aristotele sostengono che il contenuto di questo pensiero non  può esistere: cioè che il mondo della follia non può esistere.  Qui mi limito a riproporre una domanda che può sembrare  oziosa.   Quella follia che, separata, sta al di là della ragione, è forse  non separata? Se ne stata forse al di là, ma anche al di qua,  dentro la ragione? No! - risponderanno gli amici della follia,    248     del caos, dell’inconscio, di Cristo, dell’indifferenziato. Ma la  follia non, è forse, anche, non follia? A questo punto quegli  amici perderanno la pazienza e diranno di aver già detto che  la follia è follia - punto e basta.   Ma, allora, non è forse molto, ma molto giudiziosa questa  follia che se ne sta ben attaccata a sé stessa (e dunque al  principio di non contraddizione), e non vuol essere «anche  altro», cioè non vuol essere ragione - e, dunque, tirate le  somme, non si permette di essere folle?    249     IL Paradosso e monocromia   «Secondo un principio consolidato della metafisica classica,  il divenire richiede una condizione che lo trascende» scrive  Biagio de Giovanni nel suo studio, importante e suggestivo,  dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno (Guida 2011,  p. 121) - e tale principio regola anche il pensiero di questi due  grandi protagonisti del «moderno». La complessità del saggio  di de Giovanni, implicante notevoli conseguenze sul piano  politico, richiede che qui si accenni solo ad alcuni punti. Quel  principio della metafisica classica domina effettivamente sia  l’«antico», sia il «moderno»; non però il pensiero del nostro  tempo, per il quale il divenire non richiede altro che sé stesso.  Il mondo non ha bisogno di Dio.   Che il divenire richieda una condizione trascendente,  indiveniente, infinita, significa che essa salva il finito - il  divenire (nascita e morte) essendo appunto il regno della  finitezza. La tesi di de Giovanni, che l’intento di fondo di  Spinoza e di Hegel è di salvare il finito, è quindi del tutto  consequenziale. Ed egli, questo intento, lo fa proprio, ma  dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo avviso, rende  esplicito quanto nei due pensatori rimane invece velato.  Semplificando molto il suo discorso, si può dire che il mondo  è salvato solo da Dio, ma che il rapporto tra Dio e Mondo  produce inevitabilmente un radicale spaesamento del  pensiero, che non riesce e non può riuscire a sciogliere i  problemi prodotti dalla coabitazione di quei due termini. Ciò  significa che le difficoltà e le contraddizioni a cui va incontro  il rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza non sono  imputabili alla limitatezza del loro pensiero, ma sono  strutturali.   In una delle pagine decisive del suo libro de Giovanni  scrive: «I grandi testi della filosofia non sono grandi    250     precisamente perché gravidi di altissimi contrasti, che sono il  vero sale del pensiero?», e questo sale non è forse «la profonda  istituzione di una dualità che non aspetta vera conciliazione e  che però ambisce a vincere la scissione senza poterla  abolire?», sì che «proprio questo paradosso è la stessa vita  umana»? Ritengo che i punti interrogativi non siano retorici.  De Giovanni non presuppone arbitrariamente 1’esistenza  delfinfinito, non ne progetta nemmeno la fondazione, né la  richiede a Spinoza e a Hegel, dove, a suo avviso, Dio, cioè  l’infinito e indiveniente Invisibile, è, non meno e anzi ancor  più del finito, il luogo dove i problemi e le contraddizioni  maggiormente si addensano. L’infinito-invisibile è infatti per  lui il contenuto di una «fede».   Ma questa fede, mi sembra, appartiene a suo avviso  all’essenza dell’uomo, ossia a quel «paradosso» che avvolge  non questo o quel gruppo umano; non questa o quell’epoca,  ma «la stessa vita umana» in quanto tale. E qui il paradosso  indicato da de Giovanni è scavalcato, nel senso che diventa  ancora più complesso, la fede nell’invisibile essendo appunto  ciò che, come richiamavo all’inizio, è spinto al tramonto  dell’essenza o «sottosuolo della filosofia del nostro tempo»,  dove il Tutto resta identificato alla totalità del visibile-finito -  diveniente. Egli vede sì l’unita sottostante all’«antico» e al  «moderno» (e si tratta di millenni), ma non intende allargarla,  e anzi prende le distanze dalla fede, indicata nei miei scritti,  che unisce l’intera storia dell’uomo e che quindi sostiene sia la  fede nell’Invisibile sia la fede dei nemici dell’Invisibile, amici  della Terra.   De Giovanni contrappone cioè il suo modo di considerare  la «storia dell’Occidente» a quello dei miei scritti, che  «considera il pensiero dell’Occidente come preso in un unico  solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo,  certo, geniale) invito a escludere il significato delle    251     differenze», ossia di ciò a cui non si può rinunciare (p. 117).  Credo che qui de Giovanni si riferisca alle differenze intese  come differenti modi di errare , non come differenze tout court  - giacché l’affermazione dell’esistenza e anzi dell’eternità delle  differenze (ossia delle molte cose e dei molti aspetti del  mondo, innanzitutto) è una tesi costante del mio discorso  filosofico.   Ma è una sua tesi costante anche l’affermazione  dell’esistenza di differenti, infiniti modi di errare; che però  hanno questo di identico, di essere errori, cioè negazioni della  verità. E l’avere in comune il loro esser errori non cancella i  differenti modi dell’errare - così come, per i colori, l’avere in  comune Tesser colori non è una monocromia, ossia non  cancella il loro differire l’uno dall’altro. Nei miei scritti si  mostra che la vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che  vi è di identico in ogni errore, ossia il suo essersi separato  dalla verità.   De Giovanni mi gratifica di un riconoscimento che mi  piacerebbe meritare («Sono convinto che la profondità  speculativa di Severino sia assai alta e pressoché unica oggi in  Europa»), ma aggiunge che «la pedagogia che nasce da questa  profondità è muta, perché riduce la dialettica interna alla  storia della metafìsica [...] alla monocroma ripetizione  dell’errore». Nei miei scritti si mostra che l’Errore è la fede  nella trasformazione delle cose, il loro diventar altro da sé.  Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta  monocromia, un solo punto, nella storia dell’uomo, dove non  si creda nell’esistenza della trasformazione delle cose, ma si  creda in una forma di errore diversa da questa fede. Poi, se  vorrà, potremo discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i  quali affermo che questa fede, nonostante la sua apparente  plausibilità ed evidenza, è l’Errore più profondo a cui l’uomo  è stato destinato - ma dal quale l’Inconscio autentico    252     dell’uomo è già da sempre libero.    253     12. Il realismo e il mito del realismo   Cresce il rifiuto dell’affermazione di Nietzsche (peraltro in  genere male intesa) che «non esistono fatti ma solo  interpretazioni». Nietzsche non è un «realista». Ma  implicitamente il bersaglio in Italia si allarga a Heidegger e a  Gadamer, e anche a chi, come Gianni Vattimo e Pier Aldo  Rovatti, ha lavorato sulla scia di questi pensatori, a partire  appunto da Nietzsche. È ora - sostiene Maurizio Ferraris - di  far rivivere su scala mondiale i «fatti», la «verità», il  «realismo».   Se è lecito annotarlo, c’è anche chi, da più di mezzo secolo  va dicendo che il senso autentico della verità non è investito  dalla crisi inevitabile a cui è andata incontro la «verità» quale  è intesa lungo la storia dell’Occidente, e quindi anche dal  «realismo».   Ma Ferraris vuol far rivivere «fatti», «verità» e «realismo»  dando come cosa per sé evidente (almeno così sembra) che la  realtà esista indipendentemente dalla coscienza umana, la  quale sarebbe però capace di conoscerla con verità, scorgendo  appunto i «fatti», ed essendo quindi una certezza che ha come  contenuto la verità. Con fatica, si potrebbe far rientrare  questo modo di pensare in ciò che Hegel chiamava appunto  «identità di certezza e verità». Non dubito che Ferraris (e Eco)  l’abbiano presente. Con fatica, dico, tuttavia, perché il senso  comune non è la conferma filosofica del senso comune.   Anche per le scienze della natura la realtà esiste  indipendentemente dall’uomo. Da qualche millennio questo è  anche il comune modo di pensare dei popoli, il loro «senso  comune». Ma ben prima della scienza è la filosofia, sin dai  suoi inizi, a riflettere sul rapporto tra l’essere umano e la  realtà - e sul significato di queste due dimensioni. Prevale,  con la grande filosofia classica (Platone, Aristotele), la    254     conferma del senso comune. E più tardi tale conferma sarà  chiamata «realismo». La prospettiva espressa dal principio di  Protagora che «l’uomo è la misura di tutte le cose» (e che  quindi la realtà dipende dal modo in cui l’individuo pensa e  vuole) resta a lungo emarginata.   Ma, proprio perché conforma il senso comune, il  «realismo» filosofico non è il senso comune. La filosofia,  infatti, viene alla luce evocando un senso prima sconosciuto  della parola «verità» - il senso che domina l’intera tradizione  dell’Occidente dai Greci a Hegel, a Einstein; cioè la verità  come «scienza» (epistéme) incontrovertibile, fondata su  principi primi innegabili e per sé evidenti e il realismo  filosofico ritiene che il senso comune abbia verità. Ma è la  filosofia a conoscere la verità del senso comune, non il senso  comune.   Per avere un esempio della potenza e complessità  concettuale del realismo filosofico si tenga ancora sott’occhio  (cfr. sezione prima, cap. Ili) questo passo deW Etica  Nicomachea di Aristotele: «Ciò di cui abbiamo scienza non  può essere diversamente da come; delle cose che possono  essere diversamente, invece, quando siano fuori dalla nostra  osservazione, rimane nascosto se esistano o no». (La parola  «osservazione» traduce la parola theoréin : l’osservazione  appunto, la manifestazione del mondo, che accade con  l’esistenza dell’uomo.) Si può dire che in questo passo sia  addirittura anticipato quell’importante atteggiamento del  pensiero contemporaneo che è la «fenomenologia» fondata da  Edmund Husserl, per la quale è verità tutto ma anche solo ciò  che è osservabile (manifesto, immediatamente presente,  sperimentabile); e quindi non è possibile che, con verità,  venga affermato qualcosa intorno a ciò che non è osservato.   Proprio per questo la fenomenologia non è una conferma    255     del nostro senso comune. Aristotele non riconoscerebbe ciò  che pure si è sviluppato dal proprio seme; eppure la sua è una  critica radicale del senso comune in quanto sussistente al di  fuori della conferma che Yepistéme gli dà: tutto ciò che esso  dice non è «scienza» (epistéme). Inoltre, per Aristotele, la  realtà di cui c’è scienza e che quindi esiste indipendentemente  dall’uomo è più ampia della realtà di cui, secondo la  «fenomenologia» c’è scienza (e anche Husserl intende la  filosofia come «scienza rigorosa»). La scienza è infatti, per  Aristotele (come per l’intera tradizione occidentale) anche  scienza di Dio, «metafìsica».   Il «realismo» filosofico greco si è sviluppato nella filosofia  patristica e scolastica (Agostino, Tommaso tee.) e quindi  nella dottrina della Chiesa cattolica e delle altre Chiese  cristiane, e poi nel Rinascimento e nella stessa filosofia  moderna prekantiana, che però procede a una forma più  elaborata di conferma del senso comune. E il realismo è stato  messo in questione da Kant e daH’idealismo, per poi  riaffacciarsi in varie correnti della filosofia degli ultimi due  secoli, Marx e marxismo compresi. Si continua a dire che ci si  è liberati della cultura idealistica. Ma quanti conoscono  l’idealismo da cui ci si deve liberare? Per l’idealismo (e il  neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il  realismo) che la natura esiste indipendentemente dalle singole  coscienze degli individui umani. È dalla coscienza  «trascendentale» (liquidata con troppa disinvoltura) che la  natura non è indipendente.   La scienza, si diceva sopra, è realista. E la «filosofia  analitica» sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il  mondo bisogna rivolgersi alla scienza moderna (che non è più  epistéme). Sennonché, se il «realismo» della scienza moderna  non vuol essere semplice, ingenuo «senso comune», allora è  una tesi filosofica è cioè quel realismo filosofico la cui potenza    256     e complessità concettuale e i cui rapporti con le concezioni  non realistiche sfuggono completamente al moderno sapere  scientifico - e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al  «nuovo realismo», stando al modo in cui esso è stato  presentato.   Si aggiunga che la scienza intende fondarsi  suh’«osservazione». Ma la gran questione è che la realtà - che  per la scienza esisterebbe egualmente anche se l’uomo non  esistesse (l’uomo è dice la scienza, compare soltanto a un  certo punto dello sviluppo dell’universo) -, in quanto  esistente senza l’uomo è per definizione ciò che non è  osservato dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa esperienza: non  può esserci esperienza umana di ciò che esiste quando  l’umano non esiste. Quindi l’affermazione che la realtà è  indipendente dall’uomo finisce anch’essa con l’essere una  semplice fede, o quella forma di fede che è considerata come  «altamente probabile».   Comune al «nuovo realismo» e al «pensiero debole» di  Vattimo e Rovatti è comunque l’istanza politico-morale,  messa in primo piano. Si accusano reciprocamente di favorire  il totalitarismo. Ora, la filosofia - come il mito e poi la scienza  moderna - è nata, sì, per difendere l’uomo dal dolore e dalla  morte dovuti alla natura e alla lotta tra gli uomini. In questo  senso la filosofìa (come il mito e la scienza), nascendo dalla  paura, è mossa da un’istanza politico-morale. Ma la filosofia  si accorge che il rimedio non può essere quello inaffidabile del  mito, ma deve avere «verità», e la «verità» non può fondarsi  sulla dimensione politico-morale. Per la sua assoluta  spregiudicatezza la «verità» deve chiedersi perché la violenza  dei più forti debba essere bandita. E deve saper rispondere.  Altrimenti essa è semplice edificazione.   Un’ultima osservazione a proposito di Nietzsche. La sua    257     tesi che non esistono fatti ma solo interpretazioni non va  intesa in senso assoluto: riguarda solo un certo insieme di  eventi. Infatti, che il divenire del mondo esista non è per  Nietzsche un’interpretazione affidata da ultimo alle decisioni  storiche e quindi cangianti deU’uomo: che il divenire (la storia  il tempo) esistano è per Nietzsche - anche per Nietzsche -  l’incontrovertibile verità fondamentale in base a cui è  necessario negare ogni realtà eterna immutabile, «divina» che  sovrasti il divenire e lo domini e guidi. Questa «verità» è la  Grande Fede al cui interno cresce l’intera storia dell’Occidente  e, ormai, del pianeta. La fede che da tempo i miei scritti  invitano a dar conto del suo incontrastato potere.    258     13. Intorno a Nietzsche, Gentile, Heidegger   Persiste il silenzio su uno dei tratti più importanti della  cultura contemporanea. Da parte mia continuo a richiamare  quanto sia decisivo il nucleo essenziale del pensiero filosofico  del nostro tempo. Sebbene possa sembrare inverosimile, tale  nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del  mondo da parte della tecnica - destinata a questo dominio  nonostante altre candidature, ad esempio quella capitalistica,  politica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo  essa) non è ancora in grado di prestare autenticamente  ascolto alla filosofia. Quel nucleo mette in luce che ogni  Limite assoluto all’agire delfuomo, ci oè ogni Essere e ogni  Verità immutabile della tradizione metafisica, è impossibile; e  dicendo questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare  ogni Limite, ma con tale autorizzazione le conferisce la reale  capacità di superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di  esserne capaci; e quel nucleo dice alla tecnica che essa ne è  capace.   Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale c’è sicuramente il  pensiero di Nietzsche. Ma anche quello di Giovanni Gentile,  la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti  figure filosofiche, di cui tuttavia continuamente si parla.  Invece su Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante  (sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi).  All’estero, poi, sia nella filosofia di lingua inglese, sia in quella  «continentale», di Gentile, direi, non si conosce neppure il  nome. La cosa è interessante, soprattutto in relazione al tema  filosofia-tecnica a cui accennavo. Infatti, nonostante i luoghi  comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della  tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante,  «reazionario», rispetto alla progressiva emancipazione  planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria    259     importanza sarebbe quindi la chiarificazione dei motivi che  producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi - come ho  incominciato a dire - al tema, molto più modesto,  riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune  implicazioni.   Per Gianni Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica  (Heidegger, Gadamer ecc.), l’«antirealista», cioè la critica alla  «concezione metafisica della verità» sarebbe una «scoperta» di  Heidegger (Della realtà, Garzanti 2012; p. 100). Si tratta della  critica alla definizione di «verità» come «corrispondenza» tra  intellectus e res, tra «l’intelletto» e «la cosa». In tutto il libro  Gentile non è mai citato. Ma ben prima di Heidegger, e con  maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo  radicale l’idealismo hegeliano) l’insostenibilità di quella  definizione. In sostanza egli argomentava - per sapere se  l’intelletto corrisponda alla cosa, intesa come «esterna» alla  rappresentazione che l’intelletto ne ha, è necessario che il  pensiero confronti la rappresentazione dell’intelletto con la  cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene a  essere conosciuta, non è «esterna» al pensiero, ma gli è  «interna». Ciò significa che il pensiero, per essere vero, non ha  bisogno e non deve «corrispondere» ad alcuna cosa «esterna».   Solo che Vattimo si fa guidare, prendendolo alla lettera, da  quell’appunto di Nietzsche in cui si annota - probabilmente  per studiarne il senso - che «non ci sono fatti, ma solo  interpretazioni» e che «anche questa è un’interpretazione»,  ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è  revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo intende tener ferma  questa «sentenza» di Nietzsche dovrà dire allora che anche la  critica alla concezione metafisica della verità è  un’interpretazione, ossia qualcosa di revocabile. Capisco  quindi che egli consideri anche la propria filosofìa soltanto  come un’«interpretazione rischiosa», una «scelta», una    260     «volontà» le cui motivazioni sono soltanto decisioni etico-  politiche (p. 53): «Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla  metafisica oggettivistica perché la sentiamo come una  minaccia alla libertà e alla progettualità costitutiva  dell’esistenza» (p. 122, corsivo mio). In sostanza, come tanti  altri, esclude ogni verità incontrovertibile perché altrimenti  libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma in questo modo  mostra di considerare come verità incontrovertibile la difesa  della libertà e della democrazia (la qual cosa è soltanto una  bandiera politica o teologica). Oppure - chiedo a lui e a tanti  altri - anche l’affermazione che la libertà è «costitutiva»  dell’esistenza è solo un’interpretazione revocabile?   En passant, egli è stranamente fuori strada quando mi  attribuisce l’intento di oltrepassare la metafisica «attraverso la  restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo» (pp. 164-  165) e rifacendomi a Heidegger. Il quale però sostiene che  l’Essere è «evento» (contingenza e storicità assoluta, assoluto  divenire) e che anche le cose sono avvolte da questo carattere;  mentre i miei scritti sostengono che ogni cosa è un essere  eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente  lontano anche dalla filosofia gentiliana, che afferma la totale  storicità del contenuto del pensiero (sebbene Gentile  differisca da Heidegger perché, platonicamente, intende il  Pensiero come indiveniente).   Comunque, già l’idealismo classico tedesco, soprattutto  quello hegeliano, è ben consapevole dell’impossibilità che la  verità sia corrispondenza o adeguazione dell’intelletto a una  realtà esterna, e tuttavia l’idealismo è una grande metafisica; sì  che la critica a tale corrispondenza toghe di mezzo solo un  certo tipo di metafisica. Per mostrare l’impossibilità di ogni  Limite assoluto, metafisico, all’agire dell’uomo, e in generale  al divenire delle cose, occorre altro, che, ripeto, è sì presente  in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri, come Leopardi), ma    261     non in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre e  che sopra chiamavo il «nucleo essenziale» della filosofia del  nostro tempo.   Se Vattimo, che condivide la critica heideggeriana alla  verità come corrispondenza, su questo punto è  inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo  tedesco, Markus Gabriel,sostiene ora un «nuovo realismo»  (che peraltro condivide con molti altri) al quale forse  rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con  Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è d’accordo con  Maurizio Ferraris (non più allievo di Vattimo), che presenta  in Italia il libro di Gabriel II senso dell’esistenza (Carocci  editore 2012). Vi si sostiene subito un «argomento» che  conduce alla tesi seguente: «C’è qualcosa che noi non  abbiamo prodotto, e proprio questo esprime anche il concetto  di verità» (p. 21). L’«argomento» è che, una volta ammesso  che «noi» produciamo qualcosa, noi però non produciamo il  «fatto» consistente nell’esser produttori di qualcosa - il  «fatto» che dunque è indipendente da «noi». Gabriel lascia  indeterminato il significato di quel «noi» (sebbene egli  interpreti in modo a volte condivisibile l’idealismo tedesco).  Ma l’idealista e quell’idealista rigoroso che è Gentile  risponderebbero che, certo, questo o quell’individuo non  producono il «fatto» consistente nella produzione umana di  qualcosa, e tuttavia questo «fatto» è pensato (anche da  Gabriel, sembra) e, in quanto pensato, non può essere, come  invece questo libro sostiene, una «realtà indipendente» dal  pensiero, ossia da «noi» in quanto pensiero.   «Io propongo di definire l’esistenza come l’apparizione-in-  un-mondo», scrive Gabriel (p. 46). Intendo: l’apparizione di  qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho trovato alcun  chiarimento sul significato del termine chiave «apparizione».  Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l’importanza.    262     L’apparizione non è il qualcosa (o «ente») che appare (anche  se essa stessa è un ente). Se Gabriel intende che c’è  apparizione di un mondo anche senza che appaia questo o  queU’individuo empirico, allora, su questo punto, sono  d’accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà  dire che ciò che esiste è ciò che appare (e un caso di esistenza  è l’apparire in cui tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto,  come «tutto ciò che non appare»). Ma Gabriel intende così  l’«apparizione»?   Per lui ciò che esiste esiste necessariamente «all’interno di  un campo di senso», cioè all’interno di un contesto. Se il  motivo è (come mi sembra di capire) che qualcosa esiste solo  in quanto differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo  «altro» è il contesto del qualcosa, sono d’accordo (ma  esortando Gabriel a rendersi conto che egli, contrariamente ai  suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione  - ossia il differire dal proprio «altro» - al rango di assoluto  principio incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente  abbia un contesto egli crede di dover concludere che qualcosa  come «il Tutto», la «totalità degli enti», non può esistere  perché il Tutto non può avere un contesto, e non può  nemmeno contenere sé stesso, giacché è necessario che il  Tutto, in quanto contenente differisca dal Tutto in quanto  contenuto (pp. 52 ss.). Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto  è l’«apparizione» del Tutto (anche per Gabriel dovrebbe  esserlo), allora questa apparizione contiene sé stessa proprio  perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il  contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il  contenente. Da gran tempo i miei scritti si sono soffermati su  questo tema come su quello del significato che compete  all’affermazione che il «nulla» è il contesto del Tutto. (A  proposito del tema del «nulla» è curioso che Vattimo, per il  quale - come per Gabriel e l’intera cultura del nostro tempo -    263     tutto è contingente, neghi a un certo punto - p. 60 -  l’annullamento delle cose. Curioso, dico, perché senza il loro  annullamento e nullità iniziale non si vede in che possa  consistere la loro contingenza e storicità.)   L’idealismo assoluto di Gentile è poi un a ssoluto realismo,  perché il contenuto del pensiero non è una rappresentazione  fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in sé stessa. Un  rilievo, questo, che potrebbe invogliare Gabriel e i vari  neorealisti a studiare Gentile.   Certo, la difficoltà maggiore è capire il carattere  «trascendentale» del pensiero, che si è presentato in modo  sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco e al  neohegelismo di Gentile. L’«al di là» di ogni pensiero,  l’«assolutamente Altro», l’«Ignoto», gli infiniti tempi in cui  l’uomo non c’era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo  possiamo parlare solo in quanto tutto questo è pensato. Per  questo Gentile afferma che il pensiero non può essere trasceso  e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di  là di esso e come indipendente da esso. Questo  trascendimento è la verità.   L’idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita  oggi dal consenso, cioè dall’accordo sociale su un insieme di  convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il  fondamento della verità. È vero ciò su cui la comunità più  ampia possibile è d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo  concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si  presenta, è il linguaggio della «comunità», giacché «siamo  esseri storici e la massima evidenza disponibile qui e ora si  costruisce solo con un accordo, che può essere messo in  questione e rinegoziato» (p. 109). Ma, daccapo, questa sua  affermazione è una verità incontrovertibile? Oppure che gli  uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o    264     discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile?  Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d’accordo nel  far rivivere la metafisica e altre cose non desiderate dalla  filosofia ermeneutica? Ma soprattutto a Heidegger (non solo a  lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo intento è di prendere  le distanze da ogni evidenza oggettiva, la configurazione dello  sviluppo storico (la sequela delle «epoche» dell’Essere) finisca  col valere, nel suo discorso, come un’evidenza oggettiva e  indiscutibile.    265     14. Realismo e idealismo in relazione all’ostacolo   La tecnica può riuscire a porsi alla guida del mondo solo se  si è in grado dimostrare che ormai questo compito non può  più essere assolto dalle grandi forze della tradizione (quali il  capitalismo, le religioni, la politica e la concezione del mondo  che sta al loro fondamento). Ma chi può mostrarlo? Non  certo la tecnica e la scienza. È invece l’essenza  tendenzialmente nascosta della filosofia del nostro tempo a  mostrarlo (purché si sappia guardare). Mostra che non  possono esistere quei Limiti assoluti, indicati dalle forze delle  tradizione, di fronte ai quali la tecnica debba arrestarsi. Anche  (ma non solo) per questo la filosofia ha un carattere decisivo.  Di qui l’importanza di saper cogliere ciò che chiamo «essenza  della filosofia del nostro tempo» - alla quale appartengono  pensatori come Nietzsche e Gentile. Appunto a questo  contesto si riferiva anche il mio articolo («Corriere della  Sera», la Lettura, 16 settembre 2011), intorno al quale sono  intervenuti vari interlocutori.   D’altra parte, continuo a ripetere, quell ’essenza è la forma  più coerente della Follia estrema da cui è avvolta l’esistenza  dell’uomo - la Follia del nichilismo).   Ben presto l’uomo si accorge degli ostacoli che limitano la  sua volontà. E si convince che il mondo esista  indipendentemente dalla coscienza che egli ne ha. Questa, la  base di ogni forma di «realismo». Se l’«uomo» è il singolo  individuo umano, anche l’«idealismo» è una forma di  realismo. D’altra parte, il mito, e il pensiero filosofico della  tradizione (sia pure in modo profondamente diverso) vedono  in quegli ostacoli una forma superiore, più potente, «divina»,  di Volontà, capace di dominare la materia di cui le cose son  fatte o addirittura capace di produrre ogni aspetto del mondo,  come pensa anche l’idealismo classico, culminante in Hegel,    266     che però indica i motivi per i quali quella Volontà divina e  cosciente non sta al di là dell’uomo, ma gli è unita. Come  Cristo, l’uomo autentico è Uomo-Dio. Il mondo è prodotto  non dall’uomo singolo, ma dall’Uomo-Dio. Nel pensiero del  neohegeliano Giovanni Gentile questa tematica è fondata nel  modo più rigoroso.   Giacomo Marramao («Il Secolo d’Italia» 18 settembre  2011) è limpidamente d’accordo con me circa questo rigore -  osservando giustamente, tra l’altro, che uno dei motivi del  disinteresse per Gentile sta nel suo stile «pesante» e  «ottocentesco». Che però, aggiungo, vanta un nitore  concettuale estremamente superiore a quello del neohegeliani  del mondo anglosassone del XIX-XX secolo. Contrariamente  alle loro intenzioni (e nonostante i loro indubbi meriti), essi  hanno offuscato e complicato la potenza speculativa di Hegel,  determinando una reazione «realistica» non immune da  consistenti ingenuità, che sarebbe stata di più alto livello se  nel mondo anglosassone la presenza di quella forma di  neohegelismo non avesse impedito la presenza di Gentile.   Ma soprattutto - per quanto riguarda il predominio del  realismo rispetto aH’idealismo - la tecno-scienza si presenta  quasi sempre come «realismo» (assunto come ipotesi di  lavoro o come tesi filosofica acriticamente accettata). Da parte  sua il «realismo» filosofico dà spesso per scontato che la  filosofia non possa procedere indipendentemente dalla  scienza. In questo modo accade che la centralità della scienza  nel mondo contemporaneo determini il predominio del  realismo rispetto a ogni altra forma filosofica.   Nell’intervento di Maurizio Ferraris («la Repubblica» 18  settembre 2011) si afferma che nella prospettiva che va da  Kant a Gentile, «noi non abbiamo mai a che fare con cose in  sé, ma sempre e soltanto con fenomeni, con cose che    267     appaiono a noi». No: questo lo si può dire di Kant (e  propriamente del Kant della Critica della ragion pura), non di  Hegel o di Gentile. Per Hegel, come per Aristotele, il  contenuto della ragione sono proprio le cose in sé. E a sua  volta Gentile ribadisce che solo se si presuppone  (arbitrariamente) che esistano cose in sé al di là del pensiero,  si può affermare che i contenuti del pensiero siano soltanto  fenomeni. Per confutare l’idealismo Ferraris richiama  l’esistenza delle infinite cose che esistevano prima dell’uomo,  gli ostacoli incontrati dall’uomo, l’imprevedibilità degli  eventi. L’idealista risponde, a ragione, che di tutte queste  situazioni non si potrebbe parlare se non fossero pensate e  che quindi esse non stanno al di là del pensiero, indipendenti  da esso, che invece include nel proprio contenuto gli stessi  individui umani che nascono, subiscono quelle avversità e  muoiono. I miei scritti stanno tuttavia al di là dell’opposizione  realismo-idealismo - e Luca Taddio ha richiamato  opportunamente («Corriere» 27 settembre 2011) i loro temi  centrali, che nel mio articolo avevo messo tra parentesi per  non complicare troppo il discorso.   Invece Gianni Vattimo («Corriere» 21 settembre 2011) mi  trova troppo affezionato «al vecchio argomento antiscettico»  (se uno dice che non c’è verità sostiene peraltro che quel che  lui dice è vero); argomento che poi non sarebbe altro, a suo  avviso, che un «giochetto logico-metafisico». Un giochetto  che però (per richiamare solo due tra molti) Platone ( Teeteto,  171 a) e Aristotele ( Metafisica, IV, Vili) prendono molto sul  serio. Platone scrive addirittura che quell’argomento è  «raffinatissimo» (kompsótaton). Ma poi Vattimo dimentica  che quel che qui egli chiama «giochetto», nel suo libro (Della  realtà, cit., p. 25) lo chiama invece «giusta accusa di  autocontraddizione». (Comunque nel mio articolo prendevo  atto delle sue frequenti dichiarazioni di non voler dire cose    268     vere, ma di voler soltanto esprimere desideri. E son d’accordo.  Ma poi, non è proprio per non esser vinto dall’argomento  contro lo scettico che Vattimo, per sostenere la propria  negazione della verità, dichiara di non voler dire una cosa  vera, ma di esprimere soltanto i suoi desideri - sì che  quell’argomento ha un’importanza decisiva nel suo discorso?)  Da parte mia ho scritto invece più volte che quell’argomento  non è sufficiente contro lo scettico non ingenuo, giacché a chi  gli obbietta che si contraddice egli può ancora replicare  chiedendo perché mai non ci si debba contraddire - e qui il  discorso prosegue in un territorio che Vattimo non sospetta  neppure. (Sostiene anche che dialogare con qualcuno significa  andare «a braccetto» con lui. Ora, vado sì dialogando con  Gentile, con l’«essenza del pensiero del nostro tempo», con la  storia del nichilismo, con i realisti, ma non vado «a braccetto»  con loro. Dialogo anche con Vattimo...)   Per Markus Gabriel («Corriere» 29 ottobre 2011) il  contenuto dei miei scritti è «realismo» e quindi, da realista,  scrive che «apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite  fu Parmenide in persona». Infatti, a suo avviso, Parmenide  afferma «un essere indipendente dall’ambiente umano».  Sennonché da più di mezzo secolo i miei scritti vanno  mostrando che ciò che Parmenide dice dell’«essere» va detto  invece degli enti : di ogni ente va detto cioè che è eterno (ossia è  impossibile - è contraddittorio - che non sia), e quindi è  eterno anche ogni «ambiente» e pertanto anche Cambiente  umano». Negarlo è, appunto, la Follia estrema del nichilismo,  che identifica l’ente e il niente. Nessun ente può essere stato o  può diventare un niente. Se «realismo» significa che certi enti  potrebbero esistere anche se non esistesse l’uomo, il realismo  è allora una forma di nichilismo (cioè una tesi  autocontraddittoria) - come l’idealismo. (Né l’uomo potrebbe  esistere se non esistesse un qualsiasi altro ente.)    269     Gabriel aggiunge che «la realtà è parzialmente  contraddittoria» (e cioè che il principio di non  contraddizione non regola tutta la realtà) perché gli uomini  continuano a contraddirsi. Ma, anche qui, è più di mezzo  secolo che vado distinguendo il contraddirsi, che invece è  l’impossibile, il necessariamente inesistente (Cfr. sezione  terza). Con una metafora: i pazzi esistono - e sono pazzi e  non sani, cioè sono enti in contraddittorio -, ma (secondo  coloro che si ritengono sani di mente) ciò di cui i pazzi son  convinti non esiste. L’esistenza del contraddirsi non rende  dunque parziale il dominio del principio di non  contraddizione - che peraltro, in relazione al modo in cui è  stato storicamente inteso, è ben lontano dal presentarsi come  un sapere assolutamente intoccabile, ma è anzi una delle  espressioni più decisive del nichilismo.    270     15. Stelle e formiche   Qualche chiarimento a proposito delle considerazioni  («Giornale di Brescia» 4 settembre 2012) che Massimo  Borghesi ha dedicato al mio libretto-intervista Educare al  pensiero, gentilmente propostomi da La Scuola editrice. Provo  a indicare, con un po’ di esagerazione, il senso complessivo di  quanto intendo dire. Supponiamo che si voglia dare un’idea  della Divina Commedia affermando che essa è una  illustrazione dell’Inferno (punto), e quindi, se non proprio  evitando di citare l’ultimo verso della Cantica - E quindi  uscimmo a riveder le stelle -, mormorandolo appena. (Per me  la vita sarebbe cioè infeliceì )   Chiedo scusa per il paragone inverecondo, ma vorrei  sfatare l’impressione complessiva che si può avere leggendo  l’articolo di Borghesi. Sembra cioè, dal tasto su cui egli batte  soprattutto, che il mio discorso consista nel sostenere che noi  tutti siamo eternamente dannati e con noi tutte le nostre  convinzioni (punto). E invece, se mi è concesso sfruttare la  metafora dantesca, nei miei scritti si mostra che ognuno di noi  è infinitamente di più di quel che crede solitamente di essere:  è lo sguardo eterno in cui eternamente appare lo splendore  delle «stelle», l’eterno apparire del firmamento.   Sennonché (lo mostro nei miei scritti), nella luce del  firmamento che noi siamo si fa innanzi questa nostra terra, la  quale, sì, corrisponde aH’Inferno del poeta. Infatti, abitandola,  noi ci chiudiamo in quel che per lo più crediamo di essere e  non vediamo il firmamento che noi siamo (al di sopra del  quale sta un Firmamento ancora più infinito).   Per quanto riguarda la parte dei miei temi considerata dal  Borghesi troverei invece molto più adatte queste parole di  Angelus Silesius: «Uomo, smetti di esser uomo se vuoi  raggiungere il Paradiso: Dio riceve solo altri dèi». Oppure,    271     «Uomo, se non hai dentro di te il Paradiso, non vi entrerai  mai». Certo anche queste sono metafore: ogni loro parola  indica e nasconde. Ad esempio è sommamente occultante  Yimperativo («smetti di esser uomo»), perché ogni uomo ha  già smesso da sempre di essere quell’uomo che per lo più  crediamo di essere, e già da sempre, necessariamente, ha  dentro di sé il «Paradiso» che peraltro è destinato a  raggiungere. Ma poi sono le parole «uomo» «Dio», «dèi»,  «Paradiso» a dover deporre il loro timbro mitico-metaforico -  anche perché sapere che cosa significhi «uomo» non è per  nulla più facile che sapere che cosa significhi «Dio».   Ancora un chiarimento. Borghesi scrive che il mio è «un  sistema di pensiero che rifiuta l’idea che l’uomo possa  cambiare». Detta così, questa sua affermazione altera il senso  del mio discorso, e, anche qui, perché ne mostra soltanto un  lato. Proprio nella prima risposta dell’intervista dico: «Invece  gli eterni che costituiscono gli essenti [quindi anche gli  uomini] hanno una essenziale mobilità; tanto che ho scritto  da qualche parte che “solo l’eterno può divenire”. Nel senso  che lo spettacolo che sta davanti, costituito dall’apparire degli  eterni, è continuamente variante», «è il variare che dapprima  si mantiene all’interno di ciò che chiamo “terra isolata dal  destino” [cioè l’Inferno di cui parlavo] e poi continua al di là  della terra isolata dal destino della verità [dove il “destino” è  l’apparire, che noi siamo, dello splendore delle “stelle”].  Questo proseguire della variazione degli spettacoli eterni è un  proseguire aU’infinito in un percorso che chiamo “Gloria”. La  Gloria è l’infinita adeguazione del finito all’infinito» (p. 18).  Ogni uomo è destinato a compiere questo percorso.   Nel suo secondo intervento ( Ibid ., 16 maggio 2012).  Massimo Borghesi dà, dei miei scritti, un’immagine  certamente più adeguata di quella da lui proposta in prima  battuta. In risposta avevo aggiunto qualche osservazione. Ma    272     qualche altra è forse opportuno che ne aggiunga a proposito  di questo suo nuovo articolo.   Mi sembra che egli non condivida la tesi che Inesistenza»  dell’uomo sia tenebra, sogno, non-verità, errore. Però a lui,  che è cattolico, posso ricordare che all’inizio del Vangelo di  Giovanni si legge: «E la luce splende nelle tenebre e le tenebre  non l’hanno accolta». La «luce» è innanzitutto la verità; le  «tenebre» sono l’esistenza dell’uomo nel «mondo», e sono  «tenebre» perché sono sogno, non-verità; errore, negazione  della verità. Dicendo questo, «delegittimiamo» forse le  tenebre, come Borghesi in sostanza sostiene, criticandomi? Si  delegittima ferrare dicendo che è errare (con tutto ciò che  ferrare implica)?   Certo, il pensiero filosofico non può accontentarsi del  senso che le religioni danno alla verità e alla non-verità; ma è  anche chiaro che il cristianesimo non intende render luce le  tenebre, ma condurre l’uomo fuori di esse. Si tratta allora di  capire perché, nei miei scritti, si afferma che ogni uomo è già  da sempre nella luce, al di fuori delle tenebre, e che ognuno lo  è nel modo che gli è proprio e che lo distingue da ogni altro  uomo. Ogni uomo è già da sempre Oltreuomo - anche se  questo suo esserlo è contrastato dalla convinzione  ottenebrante in cui tutti ci troviamo per lo più a vivere.   E, ancora, si tratta di capire perché in quegli scritti si  afferma che le tenebre sono essenzialmente più profonde ed  estese di quelle a cui si riferisce Giovanni, e perché da quel  contrasto siamo tuttavia destinati a uscire, e perché la luce  lasci sotto di sé le tenebre. Borghesi dice che il mio discorso è  un «dualismo». E allora? Questo suo dire è solo una  descrizione, non una confutazione.   Ma la sua descrizione è ancora alterante - cioè mi fa dire  cose che non ho mai detto -, soprattutto quando afferma che    273     per me la vita dell’uomo nelle tenebre è l’«inutile  affaccendarsi» di un «formicaio». Ancora una volta, vorrei  chiedere a Borghesi: ma la vita degli uomini che pensano  soltanto al «mondo» (alle «tenebre» di Giovanni), e non a  Dio, non è appunto, secondo il cristianesimo, l’inutile  affaccendarsi di un formicaio?   Tuttavia preferisco ricordare che il sogno nel quale  consistono le tenebre di cui parlano i miei scritti non è quel  vagare delle formiche che per chi non sa che cosa sia un  formicaio è senza senso, un «inutile affaccendarsi». Il grande  sogno si svolge anch’esso secondo la necessità del destino  (come peraltro lo stesso mio critico riconosce); e con un  ritmo e secondo una struttura che in molti ma molti miei libri  sono andato indicando, chiamandola «storia del mortale»  (ossia dell’abitatore del sogno). La follia che produce il grande  sogno è la persuasione che le cose si strappino da sé e  divengano altro, invadendolo, dividendolo, spezzandolo.  Quindi la follia sta al fondamento di ogni volontà di far  diventar altro le cose. E anche qui si tratta di capire perché è  necessario che la follia si presenti dapprima nei miti, poi nella  storia della razionalità teorico-pratica dell’Occidente, e infine  nella distruzione di questa razionalità e nella progressiva  dominazione planetaria della tecnica. È necessità che nelle  tenebre si proceda illuminati dalla luce di Lucifero.  L’autentica «educazione» è il linguaggio che mostra tutto  questo, e non invita a incrociare le braccia (anche il  rinunciare a volere, sappiamo, è un volere), ma mostra che  cosa, in quanto abitatori delle tenebre, i popoli sono destinati  a volere.   Altre volte Borghesi si è occupato dei miei scritti. Anni fa,  su «30 Giorni», ebbe a scrivere che «Severino su un punto ha  ragione: la tecnica è l’orizzonte assoluto del nostro tempo».    274     Ringraziandolo, con molto ritardo, per aver salvato uno dei  miei punti, osservo che non per caso la tecnica è l’orizzonte  assoluto del nostro tempo, ma lo è per la necessità che regola  lo sviluppo delle tenebre, ossia lo sviluppo della struttura qui  sopra indicata. Se la si studia, si può constatare che,  nelFInferno dantesco, non aveva torto il Diavolo a dire al suo  interlocutore: «Tu non pensavi ch’io loico fossi».    275     16. Esser sé   La vita dell’uomo incomincia con un Rifiuto. La vita  cosciente, dico, cioè quella in cui il mondo si manifesta. Tale  Rifiuto nega che il giorno sia notte, l’acqua aria, gli alberi  stelle, il freddo caldo, la vita morte: nega che qualcosa sia altro  da ciò che esso è. Già Platone avverte che questa negazione è  presente anche nel sogno e perfino nella pazzia. Nei primi  decenni del Novecento il sociologo-etnologo Lévy-Bruhl  tende invece a sostenere la tesi che nella «mentalità primitiva»  quel Rifiuto è assente o quasi. Bergson, Durkheim, Mauss  mostrano in molti modi l’insostenibilità di questa tesi. E  infatti come sarebbe possibile, per l’uomo, compiere il gesto  più semplice, ad esempio bere dell’acqua, se la «mentalità  primitiva» credesse che l’acqua sia pietra (o fuoco, aria)?  Anche il primitivo può vivere perché si rifiuta di crederlo.   Tale Rifiuto sta all’«origine» e alle «fondamenta» della vita  umana, la «domina» e la «comanda»: tutte parole, queste, che  corrispondono all’antica parola greca arché, che viene  tradotta anche con «principio». Già per la filosofia greca il  Rifiuto che qualcosa sia altro da sé è Yarché di tutta la  conoscenza. Ma la filosofìa intende il Rifiuto originario in un  modo radicalmente nuovo. Prima di essa il Rifiuto è un voler  negare che il giorno sia notte, l’acqua pietra, e così via. La  filosofia sostiene che questa negazioni non sono  semplicemente un «volere», ma un sapere assolutamente non  smentibile: il sapere che sta al fondamento di ogni altro sapere  e di ogni agire e che quindi è la verità originaria. Aristotele  dice appunto che tutte queste negazioni sono espresse da  un’unica arché, che è «la più salda» di tutte le conoscenze. Più  tardi questa arché sarà chiamata «principio di non  contraddizione».   Più tardi ancora, tuttavia, varie forme del pensiero    276     filosofico riterranno che il tentativo di separare questo  principio dalla volontà, facendone la suprema «verità»  incontrovertibile, è destinato a fallire. Ad esempio lo  ritengono Nietzsche e Dostoevskij, e prima di loro Leopardi e  (secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte della filosofia  contemporanea; e qualcosa di simile accade (sia pure con  vistose eccezioni) nelle scienze, nell’arte, nella coscienza  religiosa. Popper rileva sì che senza il principio di non  contraddizione crollerebbe l’intero edificio della scienza: tale  principio è il fondamento dell’atteggiamento «razionale»;  sennonché, per lui, ciò che fa scegliere tale atteggiamento è  una «fede irrazionale», e quindi è innanzitutto il principio di  non contraddizione a esser dominato e guidato da una  volontà («fede») senza verità. 1 Al di sotto della propria  maschera tale principio è in effetti, nelle sue diverse  configurazioni e formulazioni storiche, un grande dogma, è  appunto la volontà che le cose stiano nel modo da esso  prescritto. (Anche la filosofia ha sostanzialmente trascurato  l’unico grande tentativo, compiuto da Aristotele di sottrarre  quel principio all’arbitrio della volontà.) Tale principio serve  certamente a vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e  sia utile non significa che essa sia vera.   Ma tutta la vicenda che abbiamo sin qui sommariamente  richiamata - la storia cioè del Rifiuto originario - copre e  nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo e decisivo.   Da un lato copre e nasconde il Rifiuto autentico, ossia  l’autentica negazione che le cose siano altro da ciò che esse  sono: il Rifiuto che dunque non è né volontà, né il fallito  tentativo filosofico di liberare il Rifiuto dalla volontà.  Dall’altro lato quella vicenda copre e nasconde il sapere più  alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa può essere  altro da ciò che essa è (proprio perché ogni cosa è sé stessa),    277    proprio per questo ogni cosa è eterna. Ogni cosa - dunque  ogni stato di cose, ogni stato del mondo e dell’anima, ogni  situazione ed evento, e il contenuto di ogni istante del tempo.   La teoria della relatività afferma sì che ogni stato del  mondo (ossia del cronotopo quadridimensionale) è eterno,  ma non lo afferma perché ogni cosa non può essere altro da  sé: lo afferma invece sulla base della logica scientifica, che è  ipotetica, e quindi controvertibile, falsificabile. Anche la  teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e  nasconde sia il Rifiuto autentico, sia YEternità (anch’essa da  intendere autenticamente, cioè in senso essenzialmente  diverso da quello che le compete lungo tale vicenda).   Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da prospettive  diverse, ai miei scritti, che indicano il senso autentico del  Rifiuto e delfEternità come un dito indica la luna. Restando  in debito, verso molti miei critici, di una risposta adeguata  alle loro osservazioni, mi limito qui a richiamare alcuni degli  interventi più recenti. Suggestive e ricchissime le indagini  contenute nel sesto tomo di Filosofia e idealismo di Gennaro  Sasso (Bibliopola 2012). Che termina il suo libro con uno  struggente «Congedo» dai suoi lettori. Vorrei invitare Sasso a  rimuoverlo, quel congedo, a non restargli fedele, innanzitutto  perché egli ha ancora molto da dire, e poi anche perché possa  continuare il nostro colloquio - che generosamente, anche in  queste sue pagine, considera importante per lo sviluppo delle  sue ricerche. Egli sa bene che cosa intendo quando parlo del  senso autentico del Rifiuto e delfEternità.   Lo sa bene, e sostanzialmente lo condivide, anche Leo¬  nardo Messinese, che dopo altri due libri recentemente  dedicati ai miei scritti, pubblica ora Stanze della metafisica.  Heidegger, Lowith, Carlini, Bontadini, Severino (Morcelliana  2013) e Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia    278     (Dedalo 2013). Messinese è un pensatore, e sacerdote, che  tenta acutamente e coraggiosamente di porre la luna, indicata  dal mio dito, alla base di ogni sapienza. Un tentativo  compiuto anche da Francesco Totaro nel suo importante  volume Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi  (Vita e Pensiero 2013). Molto interessante e ricco di spunti  anche il modo in cui Nello Barile, nel suo Iperparmenide.  Scienza, cultura e comunicazione. Oltre il postmoderno  (Mimesis 2012) si rivolge alla luna e al mio dito.   Carlo Sini scrive invece che, sì, io lo costringo ad  «arrendersi» (perché lo colgo in contraddizione), ma che egli  può replicare dicendo: «Sì, mi contraddico, e allora?!» (La  verità è un’avventura, GruppoAbele 2013). Allora, rispondo,  se non gli importa contraddirsi non gli importa che la verità  non sia un’avventura e nemmeno che ogni affermazione  contenuta in questo e negli altri suoi libri sia la negazione di  ciò che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive che  noi «siamo quel che abbiamo e che per il fatto stesso di averlo  siamo destinati a perderlo», egli è disposto a contraddirsi e a  riconoscere che noi non siamo quel che abbiamo e non siamo  destinati a perderlo. Certo, se si ha presente (come mi sembra  che accada a Sini e a tanti altri) quella forma dogmatica dove  il «principio di non contraddizione» è la semplice volontà che  il mondo non sia contraddittorio, allora - se la cosa serve, se è  vantaggiosa, se rende vincenti - ci si può certo disinteressare  del proprio contraddirsi. A uno che gli aveva fatto notare che  stava contraddicendosi, Stalin rispose appunto: «Sì,  compagno, mi contraddico, e allora?!».   Raffinato e penetrante come gli altri scritti di Alessandro  Carrera, anche La consistenza della luce. Il pensiero della  natura da Goethe a Calvino (Feltrinelli 2010). Scrive Carrera  che questo suo saggio fa parte di un trilogia incominciata con  La consistenza del passato: Heidegger, Nietzsche, Severino    279     (Medusa 2007), dove si esamina, dopo Heidegger e Nietzsche,  «la radicale confutazione, da parte di Severino, di ogni ipotesi  heideggeriana, nietzscheana o altrui, in base alla quale il  passato sparirebbe nel non essere o non potrebbe  sopravvivere se non manipolato dal presente e per i fini del  presente» (p. 181). Sì, la consistenza del passato è implicata  dall’Eternità di ogni cosa. Non nel senso che questa luce che  viene dalla finestra debba esistere in ogni tempo, ma nel senso  che il fluire del tempo non porta via con sé, nel nulla, questa  luce, che invece è, eterna - e che, sì, ora è già scomparsa, ed è  un passato, ma come ogni altra cosa è destinata a ritornare.    280     17. Continuando un dialogo su tecnica e diritto   «Perché - mi domando, e domando a Severino - la tecnica  come capacità indefinita di realizzare scopi (capacità velata di  astratto e generico) sarebbe destinata a soverchiare la tecnica  della forza, che è immanente al diritto e che accompagna ogni  norma con la protezione di atti coercitivi? Perché quella  volontà di potenza è più potente di questa?» È la domanda  che Natalino Irti mi rivolge anche nel suo libro più recente  L’uso giuridico della natura (Laterza 2013) che, egli ricorda,  prolunga la pluridecennale discussione tra noi due sul tema  della tecnica. E la prolunga in modo quanto mai felice,  innanzitutto per l’importanza di queste pagine. Dedicate a me  «nella concordia discors del pensiero». Lo ringrazio di cuore.  Con altrettanta generosità l’eminente giurista rileva di quanto  si sia ridotto il suo sentirsi «discorde». Rimane però quella  domanda. Da lui rivoltami altre volte e a cui altre volte ho  risposto. Dev’esserci quindi qualcosa che inceppa l’intesa, e  che provo a snidare. Accennerò poi alla direzione delle  motivazioni che costituiscono l’organismo della risposta  (attendendo che Irti le consideri).   Il mio discorso sulla tecnica non indica uno stato di cose  già in atto, ma una tendenza (non priva di resistenze):  all’interno delle diverse forme di tecnica è oggi in via di  formazione il progetto che ha lo scopo di aumentare senza  limiti la capacità umana di realizzare scopi, di dominare il  mondo. Anche ma non solo per questo vado scrivendo che la  tecnica, in quanto è tale progetto, è «destinata» a prevalere  sulle forme di tecnica che a esso si oppongono. (La  «destinazione» si riferisce al futuro.) Questa capacità è «velata  di astratto e di generico» (come scrive Irti), ma solo nel senso  che oggi l’uomo non può conoscere concretamente e  specificamente le proprie capacità future. La sua volontà vuol    281     diventare «sempre più» potente. Soprattutto oggi, nel tempo in cui i Limiti filosofico-religiosi posti dalla Tradizione  all’agire umano vanno mostrando, soprattutto all’interno del  pensiero filosofico, la loro impotenza pratica e concettuale.   «Volontà di potenza» e «tecnica» sono sinonimi; ma la  Tecnica che progetta Fincremento senza Limiti inviolabili  della propria potenza differisce essenzialmente da tutte le  forme di tecnica in quanto sottoposte a quei Limiti e che  pertanto le si oppongono. Differisce da esse, spingendole  altrove, ma agendo al loro interno. Si chiamano economia,  politica, morale, diritto, arte, le stesse discipline scientifiche  (fisica, biologia, astronomia ecc.) e le «tecniche» da esse  guidate (apparati industriali, militari, burocratici, sanitari,  scolastici ecc.). Anche il capitalismo è ancora,  prevalentemente, una forma della Tradizione: pone come  Limiti inviolabili (e pertanto come «verità» indiscutibili e  «naturali») l’uomo in quanto individuo isolato e libero, la  proprietà privata di beni e mezzi di produzione, il mercato  come dimensione che rende possibile il profitto e la sua  crescita, la concorrenza e, anche, il sistema di leggi che  garantiscono la perpetuazione di questi Limiti, il sistema cioè  che nelle società capitalistiche viene chiamato «diritto» tout  court.   Invece, Irti è ancora convinto che, nel mio discorso, quella  tra la Tecnica e le altre forme di volontà di potenza sia la  contrapposizione tra una certa particolare forma di tecnica,  quella fisico-matematico-biologica, e le altre forme, tra cui il  diritto (la volontà capace di regolare altre volontà). E,  appunto, si domanda perché debba prevalere Luna piuttosto  che l’altra. Sennonché, dico destinata a prevalere non quella  forma particolare (sebbene oggi emergente), ma la Tecnica in  quanto progetto di incrementare all’infinito la potenza  presente nelle tecniche esistenti e che mira a porre tale    282     incremento come la norma suprema - la norma che è il più  radicale superamento delle Norme e Limiti imposti dalla  Tradizione. Un progetto dunque che non sta sopra la testa di  quelle forme («astratto e generico»), e non è nemmeno la loro  semplice somma, ma tende a esser sempre più presente e  dominante in ognuna (e, certo, in modo più avanzato, nella  forma fisico-matematico-biologica) e a distoglierle dalla loro  soggezione ai Limiti inviolabili che via via sono stati loro  imposti.   Nel diritto quei Limiti si incarnano nel cosiddetto «diritto  naturale». Che però tende a essere sempre più emarginato  dalla convinzione che il diritto sia «positivo», posto  storicamente dalle volontà vincenti; non, quindi, espressione  di una volontà che rispecchia una immodificabile «Legge  Naturale». Nel mondo occidentale (ma ormai sull’intero  Pianeta, sia pure in modi molto differenziati e spuri) vincente  è ancora, e nonostante le sue crisi, la volontà capitalistica, ed  essa si impone come «la Legge», lasciando sullo sfondo, quasi  dimenticato, quel carattere «positivo» della legge che sta  soppiantando la pretesa del diritto capitalistico, di essere  «naturale». La «forza» e la capacità «coercitiva» sottolineate  da Irti non competono cioè a una pura volontà giuridica  separata  dalla volontà vincente, ma alla capacità di  quest’ultima di rendere operante la forza e il carattere  coercitivo della volontà giuridica. (La contrapposizione tra  potere politico e potere giudiziario - o quella dove un gruppo  economico è sottoposto al giudizio della magistratura - si  svolge completamente all’interno dell’orizzonte giuridico che  tutela i valori dell’economia di mercato).   La volontà che progetta l’incremento indefinito della  potenza non è quindi, come invece Irti mi obbietta, «astratta  disponibilità, generica forza di raggiungere risultati»,  «indistinta e indefinita varietà degli scopi», «nome con    283     funzione riassuntiva» - mentre il diritto avrebbe il vantaggio  di essere «decisione» che impone certi scopi escludendone  altri (pp. 53-54). Le cose non stanno così.   Le decisioni del diritto sono le decisioni del capitale, o  dell’economia pianificata, cioè delle forme di volontà di volta  in volta vincenti. Le volontà di potenza che hanno come  scopo la potenza di certuni e non di altri, di certe concezioni  del mondo e non di altre, di certe forme di ricerca e non di  altre, non possono avere come scopo la crescita senza limiti  ed esclusioni della potenza, ma la ostacolano. (Il socialismo  reale ha ostacolato lo sviluppo tecnologico dell’Urss; il  capitalismo evita la produzione dei beni che, pur vantaggiosi  per l’uomo o l’ambiente, non avrebbero mercato, e alimenta  forse quella relativa scarsità delle merci senza la quale, cioè  con la loro abbondanza e la caduta della domanda, non  avrebbe nulla da vendere. E in ognuno di questi casi vengono  ostacolate forme di potenza, quali, appunto, la tecno-scienza,  il benessere dell’uomo e dell’ambiente, il superamento della  scarsità.)   Perché, dunque - riformulo così la domanda di Irti - la  Tecnica è destinata a prevalere sulle forme particolari di essa  nella misura in cui la ostacolano e che le si oppongono sia per  il loro chiudersi nella loro particolarità, sia per Tesser ancora  soggette ai Limiti della Tradizione? E quindi: perché la  Tecnica è destinata a prevalere anche sul diritto in quanto le si  oppone nel senso ora indicato (visto che, nella misura in cui  sono invece il terreno in cui prende piede la Tecnica in  quanto progetto di potenziare alTinfinito potenza, la Tecnica  non prevale su di esse, emarginandole, ma se ne serve - o  prevale nel senso che quel progetto è lo scopo che regola i  loro scopi particolari)?   Rispondo così. 1) Oggi la tecnica (tecno-scienza e apparati)    284     si presenta ancora come un mezzo, anzi come il mezzo più  potente di cui si servono le volontà di potenza dominanti e tra  di loro in conflitto: stati, concezioni politiche e religiose e,  soprattutto la volontà oggi più potente, il capitalismo. 2) Ma  nella tecnica si sta facendo largo, ravvivandola, la Tecnica in  quanto progetto di incrementare ah’infinito la potenza, oltre  ogni Limite «assoluto». 3) Il fondamento di questa negazione  è l’essenza - il «sottosuolo» essenziale - del pensiero filosofico  del nostro tempo. 4) Nel conflitto, ogni volontà può prevalere  sulle altre solo se rafforza sempre di più il mezzo tecnico di  cui dispone. 5) Tale rafforzamento è ulteriormente rafforzato  dal progressivo prender piede, nella tecnica, del progetto della  Tecnica di aumentare all’infinito la potenza - e tale progetto è  a sua volta rafforzato dalla volontà, quella capitalistica in  testa, di potenziare il mezzo di cui essa dispone. 6) Pertanto lo  scopo delle volontà dominanti si trasforma. Infatti,  riferendoci ora al capitalismo, esso - e quindi il diritto che lo  esprime e sancisce - tende a non aver più come scopo  primario l’incremento del profitto, ma la sintesi tra tale  incremento e il rafforzamento del mezzo: il rafforzamento che  nella sintesi tende a occupare sempre più spazio rispetto a  queU’incremento. 7) In tal modo la tecnica, da mezzo, tende a  diventare lo scopo di quelle volontà - che quindi si  trasformano e la cui configurazione originaria tramonta. La  tecnica tende dunque a diventare lo scopo del capitalismo e  del diritto capitalistico. E in questa tendenza consiste la  destinazione della tecnica al suo prevalere su di essi e al  dominio del mondo. 8) A questo punto si tratterebbe di  richiamare il senso autentico di tale «destinazione» (cfr. ad es.  E.S., La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi  1988, o Capitalismo senza futuro, Rizzoli 2012).   Ma, dicevo all’inizio, questo è solo un cenno alla direzione  della risposta.    285     18. Discutendo con amici 1   Pieno di debiti nei Loro confronti, non mi è concesso  nemmeno di esordire in modo originale. Perché anch’io,  come tutti coloro che mi hanno preceduto, debbo  incominciare con i ringraziamenti. Soprattutto io devo farlo -  e, certo, mi è caro farlo.   Mi rivolgo innanzitutto al dipartimento di Filosofia,  all’università di Venezia e a chi ha preso questa iniziativa: i  professori Mario Ruggenini e Davide Spanio; e poi c’è  l’appoggio finanziario dato a questa iniziativa dal professor  Luigi Ruggiu in qualità di presidente del progetto Prin. Mi ha  fatto piacere anche quella sorta di preconvegno, organizzato  dal professor Luigi Tarca, costituito da una serie di seminari  dedicati ai miei scritti.   Il professor Ruggiu ha anche opportunamente sottolinea-to  il senso centrale di quanto è venuto fuori questa mattina, e  cioè l’implicazione tra quello che a qualcuno del pubblico può  essere sembrato un discorso.... «algebrico», «astratto»,  «filosofico» (nel senso del formalismo filosofico), e le  implicazioni che invece tale discorso ha con la dimensione  politica. Qui davanti ho appunto l’amico professor Pietro  Barcellona e l’amico Natalino Irti, nei cui interventi questa  dimensione è emersa in modo più visibile.   Mi è capitato altre volte di essere oggetto di incontri come  questo, e mi sono sempre sentito inferiore a coloro che li organizzavano e vi partecipavano. Vivo la qualità etica di chi  festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di  festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i  festeggianti. D’altra parte considero questo nostro incontro  come manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è  chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio  discorso filosofico, emerge soprattutto l’interesse profondo    286    per la filosofia da parte di coloro che di questa università  costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia  dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama  culturale italiano, dato che (mi pare di aver dichiarato da  qualche parte) anche per merito del dipartimento di filosofia  di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia  straniera. L’Italia ha oggi pensatori di altissimo livello. Anche  per questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di  loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è data dalla presenza  di pensatori che, venendo da altre università, contribuiscono  ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese.   Penso di non avere dimenticato nulla. Devo però un  abbraccio al professor Spanio, in particolare, per l’amicizia  con la quale si è impegnato per la realizzazione di questo  nostro convegno, e in modo a mio avviso splendido: abbiamo  sentito voci quanto mai rilevanti e variegate. Come quelle ben  note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei  professori Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e  di tutti quelli che hanno parlato. Scusino se non li nomino  tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto  un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo  convegno, e allora andava via tutto lo spazio per l’intervista,  oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno,  fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che è stato ricordato  dal professor Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i  miei ringraziamenti in quanto egli è direttore del  dipartimento di filosofia.   Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che mi  sono stati suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata  dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei  rivolgermi soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può  avere avuto l’impressione - avevo incominciato a dire - di  una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico-    287     politici. Come eliminare questa impressione? Tento di  rispondere.   Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così  come crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con  una struttura sociale nella quale esistono forze politiche,  economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia,  America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi  -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande fede alla quale  nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere  questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad  esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo parlando di  filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia,  alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede  (come ogni fede) è un attribuire un valore di verità (usiamo  così «alla buona» la parola verità) a ciò che in quanto  contenuto di fede non ha verità. E a cui, però, noi non  sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al di fuori della  nostra fede.   Allora, una parte degli interventi - che qui ho sentito con  estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che  terrò presenti anche nel loro aspetto critico - si riferisce al  contenuto di questa fede, al centro del quale sta la nostra  civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno  sviluppo e un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che  vedono la storia del mondo come un susseguirsi di frammenti  caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà  dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo.  Allora, una prima parte degli interventi è consistita (penso  soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a  quello di Goggi) nel mettere in luce il calcolo, presente nei  miei scritti, della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui  è di stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma  iniziale della civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è    288     quella della civiltà della tecnica.   Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori non si  fosse raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così  insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e,  dall’altro lato (anche ieri il professor Spanio accennava a  questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia per le forme  più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente.  Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il  permesso di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in  un clima in cui la mia modestia è stata messa duramente alla  prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa  prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto.  Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del  sottoscritto (ma è anche questa una fede: che io abbia scritto  dei libri fa parte di quella fede nel mondo di cui parlavamo  prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato  coerentizzazione della storia dell’Occidente. Che, come è  venuto in chiaro da parte degli amici che hanno parlato, è la  coerentizzazione della Follia estrema.   Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le  capacità distruttive di un virus ne favoriscono lo sviluppo  massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità.   Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro  prima richiamava i miei scritti su Eschilo, su Leopardi, su  Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità.  Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande  indipendentemente dalla grandezza della negazione della  verità. La verità non è qualcosa di grande indipendentemente  dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non  c’è grandezza della verità. Se la verità è tale (è un po’ il tema di  cui parlava l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è  negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare    289     forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia  dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze  (consistenti nella dominazione definitivamente vittoriosa  della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto  a questo processo di coerentizzazione, allora la stessa energia  negativa della verità risulta astratta. Da questo punto di vista  potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state  rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello, Visentin (chiedo  scusa se in questo momento non mi ricordo altri nomi, ma ci  sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità.  Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la negazione dell’errore  esige la concretezza dell’errore.   Un primo lato di quanto abbiamo sentito in queste due  giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione  dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi l’immodestia -  credo di aver dato una mano. Qualche amico mi dice: guarda  che il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una  tua invenzione. Ma siccome penso che quel cosiddetto «mio  Nietzsche» sia in grado di eliminare la forza teoretica della  grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non  fosse stato o non fosse congruente col Nietzsche quale appare  nei miei scritti, allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei  scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione  dell’Occidente. Se fosse falsa la mia interpretazione, oltre che  di Nietzsche, di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire  che non son stati loro a essere vincenti rispetto al passato  dell’Occidente, ma sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel  Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto  ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero qualcosa di diverso  (ma non lo credo) peggio per loro: il loro discorso non  riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione  dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a mostrare l’impossibilità  degli eterni e dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre    290     questa capacità l’hanno il Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che  si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che  finora non mi sembra che debba cedere il passo a un’altra). E  qui siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni  dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei  scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati del mio discorso  filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere  al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È  probabile che una parte di Loro dirà: questo è il mondo,  quello in cui crediamo noi è il mondo vero; e quelle che  sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma  alla e nella fede nel mondo, va detto che la fede, in quanto  tale, non giustifica l’affermazione dell’esistenza del proprio  contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo  capisce, allora la sua fede tende a coincidere con lo  scetticismo ingenuo. Egli pensa: non c’è altro che questo  mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui  non so dare ragione.   E invece il mondo della fede è circondato dalla non-fede,  cioè dalla verità. E solo per questo può esser qualificato (con  verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È  nella verità che, in modo incontrovertibile, appare l’esistenza  della fede, ossia del mondo isolato dalla verità. Discuto questo  tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la  proposta del professor Messinese, di valorizzare la prima fase,  la chiamava così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è  semplicemente e innanzitutto una fede (sia pure altissima),  ma è innanzitutto ben di più, ossia è la manifestazione della  verità.   Ci stiamo movendo lungo il secondo lato del mio discorso  filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin,  Berti, e altri, riguardavano appunto questo secondo lato. Con  un’altra metafora geometrica, i due lati corrispondono a due    291     cerchi concentrici. Il cerchio inscritto è la nostra fede nel  mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del  convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a  quell’essere nella verità a cui accennavo prima, è stata  dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con quest’altra  parte, con la relazione del professor Visentin.   Mi rendo conto che rispetto alle accurate articolazioni  concettuali che abbiamo sentito, queste mie considerazioni  sono molto generiche.   Qualche osservazione, quindi, va fatta a proposito delle  obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come  quelle, mi sembra, del professor Vitiello: mostrano delle  difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere,  esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di  impostare l’obbiezione a ciò che chiamo «struttura originaria  del destino della verità», direi che rispetto a questa struttura la  situazione è diversa da quella che in campo scientifico si  produce quando si vuole assiomatizzare un certo tipo di  discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta  «aritmetizzazione» della matematica, l’intera complessità del  sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È  un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa  straordinaria di Godei, dove si mostra che partendo da un  certo gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono assunti  senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento  incontrovertibile, come appunto accade per i postulati  dell’aritmetica -, non si può escludere che lo sviluppo di tali  postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può  escludere che la matematica, approfondendo il contenuto  semantico dei propri postulati, venga ad accorgersi della  contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in  questo modo il discorso intorno alle obbiezioni alla «struttura  originaria del destino», allora ci si muove impropriamente,    292     perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si  rivolge appunto a quella «struttura») intende appunto  escludere una situazione concettuale in cui si parta da  postulati, che sono ipotetici, probabili, problematici ecc... È  chiaro che partendo da postulati assunti semplicemente in  base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come  immediatamente tra loro contraddittori, è possibile che si  deducano conclusioni o teoremi in sé stessi contraddittori.  Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere,  cioè del destino della verità, è impossibile che si pervenga a  mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto  diversa da quella «gòdeliana», perché il fondamento è  l’ incontrovertibile e partendo dall’incontrovertibile è  impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale  fondamento. Non ci si può appoggiare a questa base in modo  da sviluppare conseguenze che ne siano la negazione. E allora  l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire  dalla negazione di uno o più tratti di tale struttura, cioè dal  chiedersi perché una certa dimensione concettuale ha l’ardire  di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti  partire da mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono  da questa base è un mostrare solo ipoteticamente (mi pare che  con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di  questa base.   Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo:  chi obbietta contro la struttura originaria della verità (mi  rivolgo dunque non solo a Vitiello, ma anche a prospettive  come quelle di Tarca sulla «differenza») intende dire la stessa  cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso che tutti noi si  risponda di no: altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione  («ob» vuol dire «contro»). Anche quando si proclama  assolutamente problematica e ipotetica, l’obbiezione assume  come indiscutibile - incontrovertibile! - la differenza tra    293     quello che essa dice e ciò contro cui essa dice. Alla base di  ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura  originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il  riconoscimento che i differenti sono differenti - quella  differenza che è appunto il contenuto primario della struttura  originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è  un incominciare a essere d’accordo con la struttura originaria  (e pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se  la discussione dovesse proseguire, si dovrebbe proseguire -  penso, o almeno mi auguro che prosegua - chiarendo questo  punto.   Ma ora è tempo che io ringrazi nuovamente tutti Loro, con  ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi  quasi con invidia per la generosità che Loro hanno avuto nei  miei riguardi. Grazie!   Debbo tener presente, oltre alle considerazioni  estremamente interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese,  e del professor Pagani ieri (ottima la sua relazione), che  hanno parlato dopo il mio primo intervento. Era solo per  ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi.   A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo insieme, con Berti, e  parlavamo della sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli  chiedevo che differenza può produrre, tale evoluzione»,  rispetto all’affermazione di Aristotele, che il semantema (il  significato) «essere» non solo non è detto monachos, ossia  univocamente, ma non è nemmeno un significato equivoco.  L’osservazione che facevo all’amico Berti era questa: il tuo  avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore  sottolineatura delle differenze di significato della parola  «essere». Anche se l’obiezione può sembrare formale (mi pare  che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire  questo, cioè che facevo un’obiezione formale), però non    294     possiamo prendere sottogamba la circostanza che le  differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie  ecc.) hanno di identico Tesser differenze. (Tra parentesi:  perché le obbiezioni formali devono essere respinte?)   È questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando  dell’on hei on di Aristotele: che ci sia qualche cosa di identico  nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente  manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle). L’analogia dei  molti sensi dell’essere, non è il risultato di una  argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si  parlava della mia distinzione tra essere e apparire. «Apparire»  è appunto la parola italiana con la quale traduciamo  phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge,  perché altrimenti (negando cioè l’identità dell’esser differenze  delle differenze) il senso dell’«essere» diventa equivoco: non si  sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e,  se c’è, in Dio. Qualcosa di identico.   Invitavo a tener presente l’inizio del libro IV della  Metafisica, dove quando Aristotele parla dell’essente in  quanto essente (on hei on) dice che essente in quanto essente  è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia accidente, e poi  arriva persino a dire che anche il non-essere è un essente.  Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro -  continuare a discutere, penso che il rischio che corri tu, Berti,  è quello di arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità  di differenze del significato essere, che vorrebbero ma non  riescono a essere pure differenze, nient’altro che differenze,  appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze.   Poi mi ha molto interessato quello che ha detto il caro  Giorgio Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che  si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che  Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso di Spinoza e    295     quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il  concetto di causa (ben presente in Spinoza)? Adottando il  concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce  pressappoco con questa espressione «causa sui» - egli mostra  di intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del  Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno  bisogno di causa. Quando ci si chiede la causa delle cose, è  perché le si considera appunto come enti che possono esser  nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione  spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche  qui: le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è  interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle  o vada a riveder le stelle, però la semplice tesi filosofica non è  la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare  qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime  pagine di Borges sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la  tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una  tesi non ne è la fondazione - ed è la fondazione a dare  significato alla tesi. Si tratterebbe dunque di vedere se in  Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa,  ma che a me non sembra che ci sia.   Ancora un’osservazione, se posso. A proposito del mio più  volte citato Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire  che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la  parola «neoparmenidismo» - mai. Mai; anzi, è scritto sin da  Ritornare a Parmenide che Parmenide è il primo nichilista  (immenso anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così  essenziale e profondo, in questo suo intendere l’essere  monachos, che anche se oggi, come ha ricordato il professor  Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e  perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe  inventarlo quel Parmenide tradizionale che la storiografia  contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli    296     prende positivamente in considerazione la dóxa, che non si  limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc.  Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide che oggi viene  emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi  di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di  Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori -  grandi pensatori (chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a  Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse  quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica.   Mi fermo qui.   *   Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla  discussione, l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è «incoerente» la pretesa di fondare  l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il  rilevamento di questa «incoerenza» è a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper,  anche questa argomentazione, che conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una  «fede irrazionale», è a sua volta fondata su una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile.   *   - Due interventi alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi «Il destino dell’essere.  Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino» tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna  Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di Venezia.    297    Sezione terza   Postille alla sezione prima    298     Al capitolo I   1. La bellezza e il male   Gli uomini chiamano «male» tutto ciò che essi non  vogliono - innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i  battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio  hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita.  L’immagine si libra al di sopra del dolore. In qualche modo se  ne libera, rendendolo sopportabile. La più antica delle  immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è  chiamata theorìa, che significa «contemplazione»,  «immagine», appunto. Nella festa sono fuse insieme le forze  che poi, separandosi, si chiameranno «mito», «arte», ekklesìa,  «tecnica», «sapienza». In ognuna di queste forze separate si  prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche  nelle arti figurative, dunque.   Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del  male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra  altro che lo splendore delle forme della scultura greca, delle  «Madonne col Bambino» di Raffaello, dell’«Amor sacro e  profano» di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si  vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le  uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne  vedremmo la potenza, la capacità di tener lontano da sé il  male, il brutto, il dolore. Dove la bella forma sembra  dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica,  c’è sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto  intensamente visibile proprio per la sua assenza. Non  «vedere» questo Assente è non vedere la bellezza del bene.   Una mostra della rappresentazione visiva del male  dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una  mostra a Torino ha operato - né poteva, dunque, fare  diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il    299     male si rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le  dovute eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro  la scena, che provoca un’angoscia ancora più inquietante  perché è lasciato dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità  dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo  riferirmi all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella  suscitata dalla parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado  errato.   Credo che in quella mostra non fosse presente alcuna  «Madonna col bambino» di Raffaello. Ma in queste figure -  avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria  assenza del sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò  che per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del  Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a  coloro a cui il dipinto si rivolgeva.   La mostra di Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il  criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il  contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la  selezione di cui dicevo. Lasciando da parte la questione di  come è possibile, oggi, parlare di «valore artistico», è possibile  indicare il senso autentico dello sviluppo storico  dell’immagine?   In quella mostra, il tragitto temporale era dal Beato  Angelico ai grandi pittori del Novecento: dal tempo in cui il  cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto  del cristianesimo. La pittura lo rispecchia. Come ogni altra  opera dell’uomo occidentale. Dapprima la rappresentazione  mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come  scopo esplicito questa celebrazione. La serietà delle Madonne  e le Deposizioni nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che  si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava:  la luce della Resurrezione e della Gloria. Il tratto salvifico    300     dell’immagine è il Racconto cristiano. Colori, figure,  prospettive hanno come scopo la celebrazione della salvezza  cristiana dal male.   Ma un poco alla volta si fa innanzi un atteggiamento  nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni,  anche l’artista figurativo, come il poeta, non dipinge più per  celebrare Cristo, ma celebra Cristo per dipingere, per  celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque  della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento  dove il mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del  rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la  celebrazione della salvezza cristiana, diventa mezzo, pretesto.   In questo processo, rimane pur sempre incombente il male  - di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio  ma tale contenuto non essendo più lo scopo dell’arte,  ridotto a mezzo e pretesto, va perdendo la propria potenza ed  efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi  all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre più dalla  potenza della forma pittorica e sempre meno dal contenuto  cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra -  o della forma sul difforme - a impersonare il dominio del  bene sul male.   Questo processo giunge al culmine quando anche la pittura  del nostro tempo eredita il distacco dal divino - prodotto  soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e  non può assumere il Racconto cristiano nemmeno come  mezzo e pretesto per 1’evocazione della forma artistica. La  quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione  figurativa dell’Occidente gravava sulle spalle di quel  Racconto. Il dipinto, ormai, mostra il difforme, il male, il  dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può  esser data solo dalla potenza con cui il male è mostrato    301     dall’immagine. La forma è tolta via dal contenuto dell’opera  d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la  potenza dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la  dissoluzione della forma, il difforme, giacché la forma che  prima apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano  figurativo quell’ordinamento immutabile del mondo, evocato  dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è  inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del  pensiero filosofico del nostro tempo.   Ma la salvezza dal male, separata dal divino, non può più  avere la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco,  sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni «valore  artistico» - altre forme della rappresentazione visiva, come la  fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini.  Che quanto più si accostano, attraverso l’immagine, a un male  che si presenta in carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi  da esso.    302     2. Arte e tecnica   Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica - e  nel Medioevo le stesse arti figurative non venivano  considerate arti vere e proprie («arti liberali») ma «arti  meccaniche». Anche la semplice voce e la semplice scrittura  della poesia richiedono mnemotecniche, tecniche della  dizione, tecniche per la produzione del materiale richiesto  dalla scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti  figurative e architettoniche (e in qualche modo la musica)  richiedono tecniche guidate dalla matematica, dalla geometria  e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il  cinematografo si fanno innanzi quando il rovesciamento di  mezzo e fine ha già preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica  produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede  sempre più decisamente verso la produzione di una realtà  nuova. Con la tecnica del nostro tempo l’immagine festiva si  solleva al di sopra del proprio carattere di imma organizzavano e vi partecipavano. Vivo la qualità etica di chi  festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di  festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i  festeggianti. D’altra parte considero questo nostro incontro  come manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è  chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio  discorso filosofico, emerge soprattutto l’interesse profondo    286    per la filosofia da parte di coloro che di questa università  costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia  dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama  culturale italiano, dato che (mi pare di aver dichiarato da  qualche parte) anche per merito del dipartimento di filosofia  di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia  straniera. L’Italia ha oggi pensatori di altissimo livello. Anche  per questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di  loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è data dalla presenza  di pensatori che, venendo da altre università, contribuiscono  ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese.   Penso di non avere dimenticato nulla. Devo però un  abbraccio al professor Spanio, in particolare, per l’amicizia  con la quale si è impegnato per la realizzazione di questo  nostro convegno, e in modo a mio avviso splendido: abbiamo  sentito voci quanto mai rilevanti e variegate. Come quelle ben  note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei  professori Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e  di tutti quelli che hanno parlato. Scusino se non li nomino  tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto  un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo  convegno, e allora andava via tutto lo spazio per l’intervista,  oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno,  fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che è stato ricordato  dal professor Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i  miei ringraziamenti in quanto egli è direttore del  dipartimento di filosofia.   Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che mi  sono stati suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata  dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei  rivolgermi soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può  avere avuto l’impressione - avevo incominciato a dire - di  una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico-    287     politici. Come eliminare questa impressione? Tento di  rispondere.   Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così  come crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con  una struttura sociale nella quale esistono forze politiche,  economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia,  America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi  -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande fede alla quale  nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere  questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad  esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo parlando di  filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia,  alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede  (come ogni fede) è un attribuire un valore di verità (usiamo  così «alla buona» la parola verità) a ciò che in quanto  contenuto di fede non ha verità. E a cui, però, noi non  sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al di fuori della  nostra fede.   Allora, una parte degli interventi - che qui ho sentito con  estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che  terrò presenti anche nel loro aspetto critico - si riferisce al  contenuto di questa fede, al centro del quale sta la nostra  civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno  sviluppo e un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che  vedono la storia del mondo come un susseguirsi di frammenti  caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà  dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo.  Allora, una prima parte degli interventi è consistita (penso  soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a  quello di Goggi) nel mettere in luce il calcolo, presente nei  miei scritti, della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui  è di stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma  iniziale della civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è    288     quella della civiltà della tecnica.   Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori non si  fosse raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così  insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e,  dall’altro lato (anche ieri il professor Spanio accennava a  questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia per le forme  più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente.  Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il  permesso di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in  un clima in cui la mia modestia è stata messa duramente alla  prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa  prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto.  Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del  sottoscritto (ma è anche questa una fede: che io abbia scritto  dei libri fa parte di quella fede nel mondo di cui parlavamo  prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato  coerentizzazione della storia dell’Occidente. Che, come è  venuto in chiaro da parte degli amici che hanno parlato, è la  coerentizzazione della Follia estrema.   Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le  capacità distruttive di un virus ne favoriscono lo sviluppo  massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità.   Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro  prima richiamava i miei scritti su Eschilo, su Leopardi, su  Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità.  Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande  indipendentemente dalla grandezza della negazione della  verità. La verità non è qualcosa di grande indipendentemente  dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non  c’è grandezza della verità. Se la verità è tale (è un po’ il tema di  cui parlava l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è  negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare    289     forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia  dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze  (consistenti nella dominazione definitivamente vittoriosa  della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto  a questo processo di coerentizzazione, allora la stessa energia  negativa della verità risulta astratta. Da questo punto di vista  potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state  rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello, Visentin (chiedo  scusa se in questo momento non mi ricordo altri nomi, ma ci  sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità.  Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la negazione dell’errore  esige la concretezza dell’errore.   Un primo lato di quanto abbiamo sentito in queste due  giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione  dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi l’immodestia -  credo di aver dato una mano. Qualche amico mi dice: guarda  che il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una  tua invenzione. Ma siccome penso che quel cosiddetto «mio  Nietzsche» sia in grado di eliminare la forza teoretica della  grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non  fosse stato o non fosse congruente col Nietzsche quale appare  nei miei scritti, allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei  scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione  dell’Occidente. Se fosse falsa la mia interpretazione, oltre che  di Nietzsche, di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire  che non son stati loro a essere vincenti rispetto al passato  dell’Occidente, ma sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel  Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto  ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero qualcosa di diverso  (ma non lo credo) peggio per loro: il loro discorso non  riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione  dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a mostrare l’impossibilità  degli eterni e dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre    290     questa capacità l’hanno il Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che  si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che  finora non mi sembra che debba cedere il passo a un’altra). E  qui siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni  dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei  scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati del mio discorso  filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere  al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È  probabile che una parte di Loro dirà: questo è il mondo,  quello in cui crediamo noi è il mondo vero; e quelle che  sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma  alla e nella fede nel mondo, va detto che la fede, in quanto  tale, non giustifica l’affermazione dell’esistenza del proprio  contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo  capisce, allora la sua fede tende a coincidere con lo  scetticismo ingenuo. Egli pensa: non c’è altro che questo  mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui  non so dare ragione.   E invece il mondo della fede è circondato dalla non-fede,  cioè dalla verità. E solo per questo può esser qualificato (con  verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È  nella verità che, in modo incontrovertibile, appare l’esistenza  della fede, ossia del mondo isolato dalla verità. Discuto questo  tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la  proposta del professor Messinese, di valorizzare la prima fase,  la chiamava così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è  semplicemente e innanzitutto una fede (sia pure altissima),  ma è innanzitutto ben di più, ossia è la manifestazione della  verità.   Ci stiamo movendo lungo il secondo lato del mio discorso  filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin,  Berti, e altri, riguardavano appunto questo secondo lato. Con  un’altra metafora geometrica, i due lati corrispondono a due    291     cerchi concentrici. Il cerchio inscritto è la nostra fede nel  mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del  convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a  quell’essere nella verità a cui accennavo prima, è stata  dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con quest’altra  parte, con la relazione del professor Visentin.   Mi rendo conto che rispetto alle accurate articolazioni  concettuali che abbiamo sentito, queste mie considerazioni  sono molto generiche.   Qualche osservazione, quindi, va fatta a proposito delle  obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come  quelle, mi sembra, del professor Vitiello: mostrano delle  difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere,  esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di  impostare l’obbiezione a ciò che chiamo «struttura originaria  del destino della verità», direi che rispetto a questa struttura la  situazione è diversa da quella che in campo scientifico si  produce quando si vuole assiomatizzare un certo tipo di  discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta  «aritmetizzazione» della matematica, l’intera complessità del  sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È  un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa  straordinaria di Godei, dove si mostra che partendo da un  certo gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono assunti  senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento  incontrovertibile, come appunto accade per i postulati  dell’aritmetica -, non si può escludere che lo sviluppo di tali  postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può  escludere che la matematica, approfondendo il contenuto  semantico dei propri postulati, venga ad accorgersi della  contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in  questo modo il discorso intorno alle obbiezioni alla «struttura  originaria del destino», allora ci si muove impropriamente,    292     perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si  rivolge appunto a quella «struttura») intende appunto  escludere una situazione concettuale in cui si parta da  postulati, che sono ipotetici, probabili, problematici ecc... È  chiaro che partendo da postulati assunti semplicemente in  base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come  immediatamente tra loro contraddittori, è possibile che si  deducano conclusioni o teoremi in sé stessi contraddittori.  Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere,  cioè del destino della verità, è impossibile che si pervenga a  mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto  diversa da quella «gòdeliana», perché il fondamento è  l’ incontrovertibile e partendo dall’incontrovertibile è  impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale  fondamento. Non ci si può appoggiare a questa base in modo  da sviluppare conseguenze che ne siano la negazione. E allora  l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire  dalla negazione di uno o più tratti di tale struttura, cioè dal  chiedersi perché una certa dimensione concettuale ha l’ardire  di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti  partire da mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono  da questa base è un mostrare solo ipoteticamente (mi pare che  con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di  questa base.   Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo:  chi obbietta contro la struttura originaria della verità (mi  rivolgo dunque non solo a Vitiello, ma anche a prospettive  come quelle di Tarca sulla «differenza») intende dire la stessa  cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso che tutti noi si  risponda di no: altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione  («ob» vuol dire «contro»). Anche quando si proclama  assolutamente problematica e ipotetica, l’obbiezione assume  come indiscutibile - incontrovertibile! - la differenza tra    293     quello che essa dice e ciò contro cui essa dice. Alla base di  ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura  originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il  riconoscimento che i differenti sono differenti - quella  differenza che è appunto il contenuto primario della struttura  originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è  un incominciare a essere d’accordo con la struttura originaria  (e pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se  la discussione dovesse proseguire, si dovrebbe proseguire -  penso, o almeno mi auguro che prosegua - chiarendo questo  punto.   Ma ora è tempo che io ringrazi nuovamente tutti Loro, con  ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi  quasi con invidia per la generosità che Loro hanno avuto nei  miei riguardi. Grazie!   Debbo tener presente, oltre alle considerazioni  estremamente interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese,  e del professor Pagani ieri (ottima la sua relazione), che  hanno parlato dopo il mio primo intervento. Era solo per  ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi.   A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo insieme, con Berti, e  parlavamo della sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli  chiedevo che differenza può produrre, tale evoluzione»,  rispetto all’affermazione di Aristotele, che il semantema (il  significato) «essere» non solo non è detto monachos, ossia  univocamente, ma non è nemmeno un significato equivoco.  L’osservazione che facevo all’amico Berti era questa: il tuo  avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore  sottolineatura delle differenze di significato della parola  «essere». Anche se l’obiezione può sembrare formale (mi pare  che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire  questo, cioè che facevo un’obiezione formale), però non    294     possiamo prendere sottogamba la circostanza che le  differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie  ecc.) hanno di identico Tesser differenze. (Tra parentesi:  perché le obbiezioni formali devono essere respinte?)   È questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando  dell’on hei on di Aristotele: che ci sia qualche cosa di identico  nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente  manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle). L’analogia dei  molti sensi dell’essere, non è il risultato di una  argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si  parlava della mia distinzione tra essere e apparire. «Apparire»  è appunto la parola italiana con la quale traduciamo  phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge,  perché altrimenti (negando cioè l’identità dell’esser differenze  delle differenze) il senso dell’«essere» diventa equivoco: non si  sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e,  se c’è, in Dio. Qualcosa di identico.   Invitavo a tener presente l’inizio del libro IV della  Metafisica, dove quando Aristotele parla dell’essente in  quanto essente (on hei on) dice che essente in quanto essente  è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia accidente, e poi  arriva persino a dire che anche il non-essere è un essente.  Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro -  continuare a discutere, penso che il rischio che corri tu, Berti,  è quello di arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità  di differenze del significato essere, che vorrebbero ma non  riescono a essere pure differenze, nient’altro che differenze,  appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze.   Poi mi ha molto interessato quello che ha detto il caro  Giorgio Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che  si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che  Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso di Spinoza e    295     quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il  concetto di causa (ben presente in Spinoza)? Adottando il  concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce  pressappoco con questa espressione «causa sui» - egli mostra  di intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del  Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno  bisogno di causa. Quando ci si chiede la causa delle cose, è  perché le si considera appunto come enti che possono esser  nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione  spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche  qui: le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è  interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle  o vada a riveder le stelle, però la semplice tesi filosofica non è  la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare  qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime  pagine di Borges sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la  tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una  tesi non ne è la fondazione - ed è la fondazione a dare  significato alla tesi. Si tratterebbe dunque di vedere se in  Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa,  ma che a me non sembra che ci sia.   Ancora un’osservazione, se posso. A proposito del mio più  volte citato Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire  che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la  parola «neoparmenidismo» - mai. Mai; anzi, è scritto sin da  Ritornare a Parmenide che Parmenide è il primo nichilista  (immenso anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così  essenziale e profondo, in questo suo intendere l’essere  monachos, che anche se oggi, come ha ricordato il professor  Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e  perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe  inventarlo quel Parmenide tradizionale che la storiografia  contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli    296     prende positivamente in considerazione la dóxa, che non si  limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc.  Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide che oggi viene  emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi  di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di  Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori -  grandi pensatori (chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a  Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse  quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica.   Mi fermo qui.   *   Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla  discussione, l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è «incoerente» la pretesa di fondare  l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il  rilevamento di questa «incoerenza» è a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper,  anche questa argomentazione, che conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una  «fede irrazionale», è a sua volta fondata su una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile.   *   - Due interventi alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi «Il destino dell’essere.  Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino» tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna  Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di Venezia.    297    Sezione terza   Postille alla sezione prima    298     Al capitolo I   1. La bellezza e il male   Gli uomini chiamano «male» tutto ciò che essi non  vogliono - innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i  battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio  hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita.  L’immagine si libra al di sopra del dolore. In qualche modo se  ne libera, rendendolo sopportabile. La più antica delle  immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è  chiamata theorìa, che significa «contemplazione»,  «immagine», appunto. Nella festa sono fuse insieme le forze  che poi, separandosi, si chiameranno «mito», «arte», ekklesìa,  «tecnica», «sapienza». In ognuna di queste forze separate si  prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche  nelle arti figurative, dunque.   Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del  male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra  altro che lo splendore delle forme della scultura greca, delle  «Madonne col Bambino» di Raffaello, dell’«Amor sacro e  profano» di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si  vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le  uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne  vedremmo la potenza, la capacità di tener lontano da sé il  male, il brutto, il dolore. Dove la bella forma sembra  dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica,  c’è sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto  intensamente visibile proprio per la sua assenza. Non  «vedere» questo Assente è non vedere la bellezza del bene.   Una mostra della rappresentazione visiva del male  dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una  mostra a Torino ha operato - né poteva, dunque, fare  diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il    299     male si rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le  dovute eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro  la scena, che provoca un’angoscia ancora più inquietante  perché è lasciato dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità  dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo  riferirmi all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella  suscitata dalla parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado  errato.   Credo che in quella mostra non fosse presente alcuna  «Madonna col bambino» di Raffaello. Ma in queste figure -  avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria  assenza del sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò  che per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del  Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a  coloro a cui il dipinto si rivolgeva.   La mostra di Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il  criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il  contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la  selezione di cui dicevo. Lasciando da parte la questione di  come è possibile, oggi, parlare di «valore artistico», è possibile  indicare il senso autentico dello sviluppo storico  dell’immagine?   In quella mostra, il tragitto temporale era dal Beato  Angelico ai grandi pittori del Novecento: dal tempo in cui il  cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto  del cristianesimo. La pittura lo rispecchia. Come ogni altra  opera dell’uomo occidentale. Dapprima la rappresentazione  mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come  scopo esplicito questa celebrazione. La serietà delle Madonne  e le Deposizioni nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che  si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava:  la luce della Resurrezione e della Gloria. Il tratto salvifico    300     dell’immagine è il Racconto cristiano. Colori, figure,  prospettive hanno come scopo la celebrazione della salvezza  cristiana dal male.   Ma un poco alla volta si fa innanzi un atteggiamento  nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni,  anche l’artista figurativo, come il poeta, non dipinge più per  celebrare Cristo, ma celebra Cristo per dipingere, per  celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque  della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento  dove il mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del  rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la  celebrazione della salvezza cristiana, diventa mezzo, pretesto.   In questo processo, rimane pur sempre incombente il male  - di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio  ma tale contenuto non essendo più lo scopo dell’arte,  ridotto a mezzo e pretesto, va perdendo la propria potenza ed  efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi  all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre più dalla  potenza della forma pittorica e sempre meno dal contenuto  cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra -  o della forma sul difforme - a impersonare il dominio del  bene sul male.   Questo processo giunge al culmine quando anche la pittura  del nostro tempo eredita il distacco dal divino - prodotto  soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e  non può assumere il Racconto cristiano nemmeno come  mezzo e pretesto per 1’evocazione della forma artistica. La  quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione  figurativa dell’Occidente gravava sulle spalle di quel  Racconto. Il dipinto, ormai, mostra il difforme, il male, il  dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può  esser data solo dalla potenza con cui il male è mostrato    301     dall’immagine. La forma è tolta via dal contenuto dell’opera  d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la  potenza dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la  dissoluzione della forma, il difforme, giacché la forma che  prima apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano  figurativo quell’ordinamento immutabile del mondo, evocato  dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è  inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del  pensiero filosofico del nostro tempo.   Ma la salvezza dal male, separata dal divino, non può più  avere la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco,  sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni «valore  artistico» - altre forme della rappresentazione visiva, come la  fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini.  Che quanto più si accostano, attraverso l’immagine, a un male  che si presenta in carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi  da esso.    302     2. Arte e tecnica   Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica - e  nel Medioevo le stesse arti figurative non venivano  considerate arti vere e proprie («arti liberali») ma «arti  meccaniche». Anche la semplice voce e la semplice scrittura  della poesia richiedono mnemotecniche, tecniche della  dizione, tecniche per la produzione del materiale richiesto  dalla scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti  figurative e architettoniche (e in qualche modo la musica)  richiedono tecniche guidate dalla matematica, dalla geometria  e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il  cinematografo si fanno innanzi quando il rovesciamento di  mezzo e fine ha già preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica  produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede  sempre più decisamente verso la produzione di una realtà  nuova. Con la tecnica del nostro tempo l’immagine festiva si  solleva al di sopra del proprio carattere di imma e e tende a   diventare la realtà nuova che sostituisce la realtà angosciante  originaria, al di sopra della quale già si era sollevata  l’immagine festiva. Ad esempio - ma l’esempio è tra i più  significativi - la tecnica guidata dalla scienza moderna pensa  già alla costruzione di una vita umana in cui la sofferenza e la  morte siano allontanate il più possibile. La tecnica stabilisce la  nuova aura festiva, più potente di ogni immagine festiva  perché la festa, ora, è la produzione di una realtà nuova - la  produzione che anticipa l’Apocalisse cristiana, dove la terra  nuova e il nuovo cielo sostituiscono la vecchia terra e il  vecchio cielo.   Ma la logica della scienza, che sta al fondamento della  tecnica, non è una logica della verità assoluta e  incontrovertibile. È una logica ipotetica. La scienza stessa è un  sapere ipotetico-deduttivo. La liberazione tecnologica dalla    303     sofferenza e dalla morte, per quanto stupefacenti possano  essere i suoi progressi, rimane pur sempre una liberazione  ipotetica, esposta cioè in ogni momento alla possibilità che  l’intera legislazione scientifica si mostri incapace di dominare  le cose e che l’uomo ripiombi nell’antica indigenza di una vita  semianimale o addirittura nella propria completa estinzione.  La tecnica non salva l’uomo dal nulla. Ogni salvezza è  ipotetica. Il pensiero filosofico del nostro tempo è destinato a  farsi udire dalla tecnica, a farle sentire che nessuna potenza  può salvare necessariamente, incontrovertibilmente dal nulla,  e che dunque la minaccia del nulla rimane sospesa su ogni  avanzamento tecnologico della liberazione dell’uomo dal  dolore e dalla morte.   La nuova realtà e la nuova vita, che la tecnica produce  sostituendo l’antica immagine festiva della realtà e della vita,  si presenta così a sua volta esposta al dolore e alla morte,  tanto più insopportabili quanto maggiore è la felicità dell’aura  festiva che la tecnica sia riuscita a produrre. È a questo punto  che l’arte può riproporsi come l’ultimo barlume  dell’immagine festiva, che per la seconda volta si solleva al di  sopra della realtà - al di sopra cioè di quella nuova realtà che  con la tecnica sta oggi sostituendo l’antica immagine festiva e  salvifica della realtà originaria. È, questo, il pensiero di  Leopardi: quando - dopo il tramonto della verità definitiva e  assoluta della tradizione occidentale (cioè dopo il tramonto a  cui appartiene quel che Nietzsche chiama «morte di Dio») -  appare che nemmeno la tecnica ha la potenza di salvare con  necessità (ossia non ipoteticamente) l’uomo dal nulla, allora  la potenza dell’immagine poetica che canta l’impossibilità di  ogni salvezza non ipotetica dal nulla rimane l’ultimo barlume  di quella forma di festa in cui la poesia e l’arte consistono -  quella forma di festa dove è la potenza del canto, e non il suo  contenuto, a salvare ancora per un poco dal nulla (cfr. E.S., Il    304     nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, cit.).    305     3. Arte e tendenza fondamentale del nostro tempo   A volte, certi essenti che chiamiamo «opere d’arte» stanno  in una relazione specifica con l’«infìnito». Se non nel senso  che essi «rappresentano senz’altro l’«infinito», nel senso che  qualcuno crede che lo rappresentino. Ma, anche qui, ciò che la  tradizione filosofica intende per «infinito» non può essere  sempre presente, nel suo autentico e concreto significato, a  chi crede in quel modo, ossia a chi ha quella fede.   D’altra parte, anche se in tale fede l’«infinito» può apparire  in modo indeterminato, ambiguo, inadeguato, a volte essa è  tuttavia la fede di stare dinanzi a qualcosa di ultimo, non  oltrepassabile, intoccabile. Sono i casi in cui anche l’uomo  comune è disposto a parlare della «bellezza» di ciò che gli sta  dinanzi; e sono i casi in cui l’uomo comune nomina come  può l’«infinito». Beati gli umili (gli uomini comuni), perché di  costoro è il regno dei cieli - dove, in questo caso, il Regno dei  Cieli è il regno della bellezza che appare aH’interno della fede  (ingenua, umile) che qualcosa sia il senso ultimo delle cose,  inoltrepassabile, intoccabile.   Schelling, come Hegel, non parla di «fede», ma di una  «rappresentazione» che, sia pure «per riflesso», è verità che  essa abbia come contenuto l’«infinito», cioè Dio. Si tratta della  «verità» dell’intera tradizione filosofica, che giunge al suo  culmine ma anche al suo compimento.   Si può parlare di «arte contemporanea» prescindendo dalla  tendenza fondamentale del nostro tempo? Si può parlare di  un uccello migratore - sapere che natura abbia, da dove venga  e dove vada - prescindendo dallo stormo che sta migrando?   Oggi il grande stormo del nostro tempo sta migrando verso  l’estrema lontananza da Dio. Il grande uccello dell’arte non  può che andare nella stesa direzione. Schelling è ancora un  grande amico di Dio, ossia dell’«archetipo» per eccellenza.    306     L’arte contemporanea sta invece vivendo anch’essa ciò che  Nietzsche chiama «morte di Dio». Ci si accorge che la  «materia» è senza «luce», il «reale» senza «ideale». Il  contenuto della «bellezza» si trasforma radicalmente. La  bellezza, ora, è innanzitutto, ma non unicamente, la capacità,  da parte dell’«opera d’arte», di suscitare in qualcuno la  convinzione che in essa sia presente quel senso ultimo del  mondo che è il trovarsi privi di Dio e la disperazione che ne  consegue. Anche qui, ci si può rivolgere a questa terribile  bellezza da uomini «umili», «poveri di spirito», che però  questa volta non possono essere «beati» (o la cui beatitudine  può consistere, come dice Leopardi, solo nella forza con cui  vedono la propria infelicità, debolezza, nullità).   Il «tragico», la «frantumazione» dell’«ordine» e del «sacro»,  il «frammento» sono aspetti della «morte di Dio». Questa è la  «vertigine del moderno». Ma pensatori come Benjamin e  molti altri del tempo presente hanno molto da imparare da  Nietzsche - e innanzitutto da Leopardi non hanno qualcosa  di essenziale da insegnargli o un’obiezione decisiva da  muovergli. Proprio per questo il nostro tempo è «tragico». Se  la negazione nietzschiana di Dio fosse oscillante, la speranza  nei vecchi valori non sarebbe spenta - mentre in verità è  spenta, anche se molti sono ancora quelli che sperano.   In quanto tendenza fondamentale del nostro tempo, lo  stormo di uccelli di cui qui si è detto è l’ultimo degli stormi di  cui prima si è parlato - o il penultimo, se si tiene presente che  anche la civiltà della tecnica è destinata al tramonto (cfr. E.S.,  Oltrepassare, cit., cap. X).   Del tragico le élites si sono accorte da tempo; le masse  stanno accorgendosene. Infatti, come oltre ai modi adeguati  di rivolgersi a Dio ci sono quelli inedeguati, così c’è  adeguatezza e inadeguatezza nel rivolgersi al cadavere di Dio,    307     cioè nel pensare che Dio è morto. Nel tempo della morte di  Dio, la «bellezza» è la fede di qualcuno - ma è una fede in  espansione - per il quale il «tragico» è, appunto, il senso  ultimo del mondo e che crede che in certi essenti, detti «opere  d’arte», questo senso si manifesti.   Si parlava prima dello stormo di uccelli che migrano.  Migrano verso un tempo dove la Tecnica sostituisce Dio. I  due si assomigliano molto più di quanto di solito si creda. Ma  la questione decisiva è che cosa sia l’Aria in cui lo stormo si  muove. Lo stormo non può saperlo. Vola verso la morte di  Dio - come lo stormo della tradizione volava verso la vita di  Dio. Sono accomunati (amici e nemici di Dio) dalla volontà  di dominare gli spazi.   Ma poi resta la questione di ciò che qui ci limitiamo a  chiamare «Aria» - che è libera da ogni volo e sta al di sopra  della vita e della morte di Dio.   Qui, di essa, si può dire che non ha nulla a che vedere con i  modi in cui, all’interno dei voli, si è voluto andare oltre Dio e  gli dèi e si è pensato alla creazione come suicidio di Dio e alla  terra come al suo cadavere.   È tecnica il Dio demiurgo, ma è tecnica anche il Dio  suicida. Li accomuna la volontà di manomettere l’essere.  Nella nostra cultura, chi si vuole portare al di sopra  dell’azione e della dimensione demiurgica crede pur sempre  nella loro esistenza. L’arte lo ha sempre creduto. Oggi lo crede  ancora di più. Svela la propria anima tecnico-demiurgica.   L’Aria, di cui parlavo, è invece l’apparire dell’eternità di  ogni essere. Appare allora, in questo apparire, che l’azione -  anche l’opera d’arte, dunque - è soltanto un contenuto della  fede. Cioè non soltanto la «bellezza», ma anche Inesistenza»  dell’opera d’arte - ossia dell’opera che «fa essere le cose che  non sono» (J.J. Bodmer) - è il contenuto di una fede.    308     4. Immagini festive   Dice Leopardi che, nelle «opere di genio», «l’anima riceve  vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la  morte perpetua della cose e sua propria» ( Zibaldone , 261).  Una vita illusoria, ma che, sia pure per poco, rende possibile  la sopravvivenza dell’uomo. Un tema centrale, questo, del  pensatore-poeta che ha aperto la strada all’intera cultura del  nostro tempo.   La prima «opera di genio» è quella dei popoli più antichi: la  festa, che è l’immagine della vita e dunque della morte.  L’immagine si libra al di sopra del mondo: gli uomini festivi si  identificano in essa e si sentono quindi salvi dalla morte. Più  tardi la festa arcaica si dissolve e le sue membra diventano  religione, tecnica profana, arte. Oggi la festa si celebra  soprattutto in quelle sue deformanti e impallidite derivazioni  che sono le folle delle partite sportive, della musica rock, delle  visite dei pontefici romani e, in minor misura, del cinema.   Si dice che nei precedenti film di Terrence Malick emerga  l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane: al loro  orrore come ai pochi momenti di felicità. Ancora più crudele  la natura, nei film di questo regista, quando il massacro è  circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all’alba  e al tramonto, di fiumi, di mari. Se si uccidono dinanzi a una  natura che mostra a sua volta il proprio volto terribile, gli  uomini possono sentire che in qualche modo essa partecipa ai  loro tormenti. In ogni caso, non li rende sopportabili.   Ma questa interpretazione va nella direzione sbagliata. Per  lo meno è unilaterale. Certo, il timore è l’inseparabile  compagno dell’uomo. Il dolore e la morte ne sono la radice.  Ma, per quanto vissuta nei suoi derivati, la festa non ha  cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che  nei film di Malick la bellezza della natura non è l’indifferenza,    309     incapace di rendere sopportabile il dolore, ma è la forza con  cui l’immagine festiva, facendo sentire la morte, dà vita  air«anima».   Se non si guarda in questa seconda direzione, l’ultimo film  di Malick, L’albero della vita, delude. Sembra battere,  sorprendentemente, una strada del tutto diversa da quelli  precedenti. La strada biblica (nominata quasi all’inizio del  film). Per la quale chi segue la «via della Grazia» non avrà  timore. Che poi è la strada di tutte le religioni. Infatti il timore  è vinto, cioè reso sopportabile, solo quando ci si convince di  riuscire a stabilire un’alleanza con quella che si ritiene la  Potenza suprema - e il «Divino» è appunto questa Potenza.  Perché ciò accada è necessario che essa accolga il desiderio  dell’uomo; e poiché nulla può costringerla 1’accoglierlo è una  Grazia, un dono. Si può dire che Inalbero della vita» sia  questa alleanza. L’«anima» riceverebbe vita da questa alleanza.  L’intera tradizione dell’Occidente lo pensa.   Se l’«uomo» è l’essere che crediamo di conoscere, la fede  nella possibilità di questa alleanza è inestirpabile. Per questo  la religione si riaffaccia continuamente nella coscienza  umana. La cultura europea ha messo in discussione Dio, ma  non il bisogno di allearsi con la potenza che si ritiene  suprema. Oggi, nonostante tutto, si tende a ritrovarla nella  tecnica guidata dalla scienza moderna. In Europa le masse  avvertono più che altrove il disagio di un’esistenza che va  sempre più allontanandosi da Dio e che d’altra parte non si  vede ancora sufficientemente garantita da una tecnica ancora  troppo confusa con la gestione capitalistica della tecnica.   Continuando a seguire questa linea interpretativa, che  conduce il film di Malick nella direzione sbagliata, esso può  allora risultare sorprendente perché, prendendo le distanze  dai contenuti dalla cultura europea del nostro tempo, dà voce,    310     sia pure con un linguaggio elitario e con uno scarto che viene  indicato qui avanti, ai contenuti tradizionali della religiosità  americana. Non si tratta forse di un regista provvisto di una  rispettabile preparazione filosofica? Tale cioè da averlo messo  in grado di pubblicare la traduzione di una difficile opera di  Martin Heidegger?   Il che - si potrebbe osservare tra parentesi - metterebbe in  luce qualcosa di più importante, cioè la porta che Heidegger  ha lasciato aperta al divino; e che in qualche modo ha tentato  di tener aperta anche per Nietzsche, che invece si rifiuta di  venir sospinto lungo questa strada. Heidegger guarda infatti  al passato della cultura europea come a qualcosa da cui non si  può prendere un definitivo congedo. «Solo un Dio ci può  salvare», egli scrive - a differenza di pensatori radicali come  Nietzsche, appunto, o Giovanni Gentile, o, innanzitutto,  proprio Giacomo Leopardi, al quale Malick, si verrebbe a  trovare vicino se lo sfondo del suo quadro poetico fosse  l’indifferenza della natura per il dolore e la felicità dell’uomo.   Il protagonista del film è un ragazzo che ama, anche  morbosamente, la madre, dolcissima, e patisce l’esteriorità  della fede religiosa e il carattere soffocante e a volte brutale del  padre, e perde il fratello e non vede la ragione di esser buono  quando Dio è cattivo; ma infine, fattosi adulto, varca la porta  del dubbio e tra sogno e veglia si riconcilia con un mondo  dove la madre offre a Dio il proprio figlio, i morti risorgono e  tutti si amano.   Ma allora - vien fatto di dire - che la fede sia una lotta  continua col dubbio, la disperazione, il cedimento al peccato,  il cristianesimo lo sa da duemila anni. La tradizione religiosa  americana preferisce chiudere presto i conti con il dramma  della fede: predilige la compostezza, dove però, il dramma,  più che risolto è tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo    311     scarto del film di Malick rispetto a quella tradizione si  ridurrebbe a ben poco, cioè alla coscienza che quel dramma  esiste. Sarebbe dunque un film edificante. Che però  parlerebbe un linguaggio che per un verso è d’avanguardia ed  enigmatico, per l’altro lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi  ai tratti più toccanti dell’amore e a una natura splendida e  sovrana. La forma lussureggiante e innovativa dell’immagine  non farebbe allora che mascherare il contenuto edificante,  cioè l’aspetto scontato del film.   Però l’interpretazione che abbiamo sin qui prospettato non  rende giustizia a quell’immagine. La quale non esprime  l’indifferenza della natura per l’uomo, ma ha il carattere  festivo di cui si parlava all’inizio. Che il contenuto  «americano» del film di Malick sia edificante e scontato non  ha più importanza del fatto che i contenuti dell’antica  tragedia greca sono una serie di miti che tutti gli spettatori  conoscevano dall’infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove  se li vedevano riproposti. Sono i miti che parlano della vita,  dunque della morte. Prometeo, Edipo, la guerra di Troia. Ma  come li riproponeva il teatro greco? Riproducendo  l’immagine festiva che solleva gli spettatori sopra la morte:  l’immagine che è sentita più reale e più rassicurante dello  stesso carattere salvifico del mito che in essa viene riproposto.   E come il mito greco continua a salvare l’uomo evoluto  della polis solamente quando esso si trasfigura nell’immagine  festiva del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il  credente dell’Europa moderna soltanto quando anch’esso si  esprime nell’immagine festiva della Divina Commedia, nella  Cappella Sistina, nella Passione secondo san Matteo : soltanto  nella fusione di rito e arte. Nella minore dimensione del  cinema avviene qualcosa di analogo. In questo diverso senso,  L’albero della vita è davvero un’opera «edificante» ( aedes  facere ): «costruisce la casa» dell’immagine festiva e salvifica.    312     Al capitolo II   5. L’imperatore Giuliano e Hegel   L’imperatore Giuliano, «l’apostata», si adopera perché tra il  popolo vengano diffusi e difesi i miti e i riti pagani. E tuttavia  non è altrettanto noto che, ai suoi occhi, essi appaiono non  meno assurdi delle «finzioni mostruose» del cristianesimo.  Che senso ha, allora, questa sua difesa del paganesimo? Scritto  nel 1964, uno dei saggi che compongono II silenzio della  tirannide di Alexandre Kojève (Adelphi 2004) aiuta a  rispondere.   Giuliano è filosofo autentico e grande imperatore. Spesso  danneggiato dagli estimatori. Vince nelle Gallie e in Persia.  Muore a trentadue anni in battaglia. Se è vero che il  cristianesimo è uno dei maggiori fattori della crisi dell’impero  romano, la volontà di Giuliano di riportare al paganesimo i  popoli dell’impero è lungimirante. Ed è una volontà politica;  non l’espressione di una fede religiosa. Per lui, sia il  cristianesimo sia il paganesimo sono «miti», cioè «storie false  in forma credibile». Però il mito pagano può ancora salvare  l’impero. In ogni mito - egli scrive - il «senso» è  «contraddittorio» (falso, «indegno»), mentre l’«espressione» o  è capace di mascherare la contraddizione del senso - e in  questo caso il mito ha come contenuto il divino, oppure,  come nella «poesia», l’espressione non si preoccupa di  nascondere l’assurdo, ma si rivolge a chi, ancora «bambino»  nel fisico o nella mente, può credere in esso. In entrambi i  casi, la contraddizione è mobilitata per conseguire «un fine  utile» o per «divertire» (Pascal parlerà di divertissement), per  allontanare cioè lo spettro della morte. Affinché l’impero viva,  al popolo bisogna nascondere la «verità»: che con la morte è  tutto finito. Kojève qualifica giustamente come  «straordinario» questo passo di Giuliano.    313     Kojève: uno dei maggiori interpreti di Hegel. Anzi, per lui  Hegel è «il» Filosofo oltre il quale non si può andare. E di  Giuliano egli mostra più volte perché lo si debba considerare  un «“hegeliano” ante litteram». Proprio così. (Per esempio  legge in Giuliano l’anticipazione del celebre tema hegeliano  del riconoscimento del signore da parte del servo.)   Ora, è notevole che lo «straordinario» discorso di Giuliano,  intorno alla contraddittorietà del contenuto del mito, per  Kojève non faccia una piega. Giuliano dice che, proprio  perché il contenuto (il «senso») del mito, cristiano o pagano  che sia, è contraddittorio, proprio per questo esso è  inesistente. Un discorso aristotelico. Ma è anche noto che il  problema fondamentale dell’interpretazione di Hegel è stato  ed è tuttora il rapporto tra questo pensatore e il «principio di  non contraddizione». Sono molti a ritenere incautamente  (Popper in prima fila) che Hegel sia pervenuto alla negazione  di questo principio, e cioè che per lui la realtà sia, alla lettera,  contraddittoria. Quale occasione migliore dello  «straordinario» discorso di Giuliano avrebbe avuto allora  Kojève per allinearsi a quei cattivi interpreti, e dire con forza  (lui, che invece vede nel pensiero di Hegel la Verità) che il  discorso di Giuliano non sta in piedi, appunto perché  identifica Yirrealtà con la contraddittorietà? E invece niente.  Anche per questo silenzio Kojève è un grande interprete di  Hegel.    314     6. Impero romano e «Germania totalitaria»   «I Romani hanno conquistato il mondo con la serietà, la  disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee e del  metodo; con la convinzione di essere una razza superiore e  nata per comandare; con l’impiego meditato, calcolato della  più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda  più ipocrita, messe in atto simultaneamente o di volta in  volta; con una risolutezza incrollabile nel sacrificare sempre  tutto al prestigio, senza essere mai sensibili né al pericolo, né  alla pietà, né ad alcun rispetto umano; con l’arte di alterare  nel terrore l’anima stessa dei loro avversari, o di  addormentarli con la speranza, prima di asservirli con le  armi; infine con una manipolazione così abile della menzogna  più grossolana da ingannare persino la posterità e da  continuare a ingannarci.   Chi non riconoscerebbe questi tratti?»   Una pagina vigorosa di Germania totalitaria (Adelphi  1990) che Simone Weil ha pubblicato nel 1940. Alla domanda  finale la Weil risponde che in quei tratti tutti possono  riconoscere la Germania di Hitler: il nazionalsocialismo non è  una creazione specifica del popolo tedesco - come la  propaganda nazionalsocialista sosteneva -, ma qualcosa di  più profondo, cioè l’imitazione di un modello che va  rintracciato molto più indietro nella storia europea,  nell’Impero romano, appunto.   In Simone Weil questo giudizio sull’antica Roma - che si  estende al rapporto tra Hitler e il regime interno dell’Impero  romano - è anche più pesante di quanto non appaia dal passo  riportato, ma non è arbitrario (si pensi ad esempio alla  condanna dei metodi di conquista romani da parte di uno  storico come Jéròme Carcopino), o è arbitrario nella misura  in cui non spinge sino in fondo il proprio significato. Ma    315     intanto va completato l’intreccio proposto dalla Weil:  rendendo esplicita una conseguenza - forse non  adeguatamente sottolineata dalfautrice - che discende, da un  lato, dal suo giudizio su Roma e, dall’altro, dalla sua tesi sullo  stato attuale del capitalismo.   Con molte ragioni, la Weil vede già presente, in Marx, la  tesi che i lavoratori sono oggi sfruttati non tanto dal capitale  privato, ma dal capitalismo di Stato, divenuto ormai, secondo  l’espressione di Marx, una «macchina burocratica e militare»,  che è presente sia nello Stato nazionalsocialista, sia nello Stato  sovietico, sia nella democrazia americana di un Roosevelt  influenzato dai nuovi tecnocrati. Il comun denominatore di  queste tre forze è infatti la tecnica - la disumanità della  tecnica che riduce a «funzione» della macchina statale  l’individuo umano. La conseguenza è che l’impero romano è  il modello non solo per la Germania di Hitler, ma per l’intera  direzione fondamentale della storia.   Non solo della storia contemporanea, ma di tutta la storia  dell’Occidente. Il Sacro Romano Impero, gli Stati nazionali  moderni, Richelieu, Luigi XIV, Napoleone, procedono sulla  stessa strada. «Per ulteriore disgrazia», scrive la Weil, a Roma  si afferma il cristianesimo, che eredita il Vecchio Testamento,  dove la disumanità verso i nemici vinti e il culto della forza «si  accordano straordinariamente bene con lo spirito di Roma»  soffocando ^ispirazione divina del cristianesimo».   Il giudizio su Roma di Simone Weil, dicevamo, non rende  esplicito il proprio significato più profondo. Ma avrebbe  potuto trovare in Hegel un aspetto più profondo. Hegel non  mette tra parentesi la «virtù romana», ma mostra perché si  trovi unita, come egli dice, alla «durezza» e all’«atteggiamento  compostamente risoluto» dello spirito romano. Si tratta dello  spirito che assume lo Stato come scopo supremo e ultimo.    316     Tutto il resto è subordinato, a incominciare dalla stessa vita  familiare e dai sentimenti dell’uomo romano. Se si pensa per  davvero questa affermazione, si comprende l’inevitabilità di  tutti gli aspetti negativi, denunciati da Simone Weil,  attraverso i quali i Romani sono diventati i padroni del  mondo. La Weil, più debolmente, scrive che i Romani  sacrificano con «risolutezza» tutto al «prestigio». Ma se si va  più a fondo, il «prestigio» è l’aspetto assunto dallo Stato  presso le genti quando vale come scopo ultimo dell’esistenza.   Ciò non significa che questo spirito - la volontà di porre lo  Stato al di sopra di tutto - non sia stato attraversato da forze  opposte e potenti: significa che, nonostante le traversie a cui  Roma è andata incontro, quello spirito è rimasto sullo sfondo  anche quando sembrava svanito, e ha avuto la forza di  imporsi perfino su quei barbari che stavano prevalendo ma  che a lungo, nella maggior parte dei casi, non hanno pensato  di distruggere l’Impero - che anche ai loro occhi era il vero  Imperituro, l’orizzonte ultimo accessibile ai mortali -, ma  hanno inteso diventarne essi la forza portante, e i loro capi  hanno inteso porsi alla guida dei processi che continuavano  ad assumerel’Impero come scopo ultimo dell’esistenza. Come  si spiegherebbero altrimenti i dodici secoli di vita di Roma  (giungendo a Giustiniano), se lo spirito romano non avesse  esercitato un’attrazione così potente?   Appunto alla volontà di potenza, da ultimo, ci si deve  dunque rivolgere per comprendere perché quello spirito  abbia avuto una tale forza di attrazione - pur non essendo  certamente stato la prima forma di volontà di potenza nella  storia dell’uomo. L’uomo sperimenta sin dall’inizio la potenza  sprigionata dall’aggregazione dei singoli e che appare subito  superiore alla somma delle loro forze. Lo Stato  (l’aggregazione), deve apparire quindi qualcosa di «divino».  Inevitabile dunque che sin dall’inizio l’uomo assuma questa    317     potenza come lo scopo ultimo a cui tutto debba essere  subordinato. Sin dall’inizio la dimensione religiosa e quella  politica si fondono, sia pure con intensità diversa e con  diversa coerenza rispetto alla potenza che si vuole ottenere.   Se lo Stato si mostra ben presto come lo strumento più  efficace per avere potenza, tuttavia, proprio perché la potenza  sia grande e crescente, lo Stato non può rimanere soltanto  uno strumento nelle mani dei singoli e pertanto qualcosa che  non può non risentire negativamente della loro impotenza. È  cioè inevitabile che lo Stato divenga il loro scopo supremo, a  cui qualsiasi interesse e scopo particolare deve essere  sacrificato.   Lo spirito delle monarchie assolute dell’Oriente riesce a  sopportare a lungo la contraddizione per la quale il monarca è  un individuo e, insieme, è lo Stato, ossia qualcosa di non  individuale. Poi la contraddizione esplode, e la democrazia  greca tenta di superarla. Senza riuscirvi, perché in Grecia la  democrazia non può non sentire la voce della filosofia, cioè  della coscienza che non solo non può identificare l’individuo  a ciò che non è individuale, ma che, anche a proposito del  non individuale in cui consiste lo Stato, denuncia  l’impossibilità che uno scopo finito, quale è lo Stato, possa  essere assunto come lo scopo supremo, e in questo senso  infinito. La sapienza (il cui aumento, dice la Bibbia, aumenta  il dolore) indebolisce lo Stato. La potenza di esso è maggiore  quando cresce lontana dalla radicalità della sapienza  filosofica. Proprio per la sua intenzione di dare la felicità, la  filosofia indebolisce la fede dell’uomo negli strumenti di cui  egli si serve per sopportare il dolore. È la filosofìa a voler porsi  come scopo ultimo. (Poi sarà la fede cristiana.)   «I Romani» dice Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della  storia «sono solidamente orientati all’attività pratica», «ma    318     non riflettono teoricamente» su questo loro orientamento.  Hegel non dice che appunto questa riflessione indebolisce il  proprio oggetto, cioè Inattività pratica», come appunto  accade alla polis greca. E non la sapienza radicale della  filosofia, ma la sapienza del «diritto» rafforza la fede nello  Stato, appunto perché a Roma il diritto si sviluppa  esplicitamente, a differenza della filosofia, all’interno della  convinzione che lo Stato sia lo scopo ultimo dell’esistenza, e  contribuisce alla realizzazione di tale scopo.   Per i Greci la tragedia è uno dei punti più alti della loro  grandezza. Per i Romani l’anfiteatro è uno dei più bassi. In  entrambi i casi si tratta però di porsi in rapporto al dolore e  alla morte, per sollevarsi al di sopra di essi. E lo Stato appare  ai Romani come la salvezza. Ma nella tragedia, che è grande  filosofia, i Greci rappresentano il dolore mostrandone il senso  e indicando il senso che il rimedio può avere. L’anfiteatro  romano, invece, si limita a produrre realmente il dolore, e la  riflessione tende a coincidere con quella povertà dello spirito  che è il godimento suscitato dalla sofferenza altrui. Qui, la  «risolutezza» romana raggiunge, insieme, il proprio apice  imprevisto (muore ne ll’anfiteatro chi è stato vinto da Roma)  e, insieme, la propria distruzione, che l’originaria e sobria  lontananza romana dalla radicalità della sapienza filosofica  aveva saputo evitare.    319     7. Mein Kampf   Gli Ebrei hanno qualità positive di coesione e di solidarietà  che mancano ai Tedeschi. Affetti da «eccessivo  individualismo», i Tedeschi sono Ariani degenerati. Si  trovano in uno stato di debolezza, di divisione, di estremo  pericolo.   Giudizi, questi, insieme a molti altri affini, che non sono  espressi da un severo critico della Germania del XX secolo,  ma da Hitler in persona, nel suo scritto Mein Kampf.  Funestamente celebre; scritto tra il 1924 e il ’25; il libro più  diffuso in Germania sino alla fine della seconda guerra  mondiale. Per Hitler i Tedeschi di quel tempo erano un  «armento». Che non solo si era allontanato dalla creatività,  volontà di dominio e genialità del vero Ariano (un giudizio,  questo, ripetuto da Hitler poco prima di uccidersi), ma che  aveva anche il torto di essere «oggettivo», insensibile alla  prospettiva nazionalistica (che appunto si pone al di sopra  dell’«oggettività»), e dunque inferiore allo spirito «dialettico»  degli Ebrei. Aveva anche il torto, Sarmento», di sottovalutare  gli Inglesi e soprattutto di tollerare gli Ebrei.   Chi ha letto Mein Kampf («La mia battaglia») non sta  sentendo nulla di nuovo, ma è nuovo e interessante il modo  in cui il libro di Hitler viene interpretato da Dora Capozza e  da Chiara Volpato (cfr. Le intuizioni psicosociali di Hitler.  Un’analisi del Mein Kampf, (Patron 2004).   All’enorme quantità di ricerche che da ogni punto di vista e  con risultati di grande rilievo sono state condotte sul nazismo  questo saggio aggiunge una dissezione del linguaggio di Mein  Kampf operata con i metodi più recenti della psicologia  sociale. In primo piano, l’analisi delle «corrispondenze» tra le  espressioni più ricorrenti e significative usate da Hitler. I cui  giudizi riportati all’inizio non risultano irresponsabili, ma    320     appartengono a un piano ben preciso, che giustifica il  successo di un uomo come Hitler in uno dei Paesi più civili  del mondo.   Stando ai risultati di questo saggio di Capozza e Volpato è  già notevole che al centro delle pagine di Hitler non stia  «come ci si potrebbe attendere, la razza Ariana, ma quella  Ebraica», considerata come il prototipo della razza «aliena»  che ha di mira, alleandosi con i «bolscevichi», la distruzione  della civiltà ariana. Tutti gli insulti più odiosi e minacciosi  sono usati da Hitler contro gli Ebrei, che tuttavia hanno ai  suoi occhi alcune qualità positive che costituiscono per i  Tedeschi il pericolo maggiore. Egli addita cioè ai Tedeschi il  pericolo mortale in cui son venuti a trovarsi per colpa degli  Ebrei; ma non li deprime, perché presenta loro quel Partito  nazionalsocialista che sarebbe l’unica forza capace di salvar-li  e farli diventare quel che essi sono nella loro essenza ariana. Il  suo partito è unito, ha fede e pur lottando contro il marxismo  capisce i problemi della classe operaia.   Cioè «Hitler» scrivono le autrici «suscitava antisemitismo  non solo tramite la spiegazione dei fallimenti» dei Tedeschi,  «ma anche presentando gli Ebrei superiori ai Tedeschi in una  importante dimensione di confronto: coesione, solidarietà,  omogeneità»: «una dimensione in cui non si vuole essere  inferiori». Tanto che le autrici possono concludere che Hitler,  «capace di raffinate intuizioni sull’uomo sociale, per  diffondere il suo programma ha operato sulle motivazioni e i  processi previsti dalle teorie psicosociali».   A loro avviso il testo «è basato su tre idee»: «darwinismo  sociale» («lotta eterna tra forti e deboli», «selezione naturale»,  «spazio vitale» ecc.), «principio etnocentrico» (al centro  dell’esistenza c’è una certa razza, un certo popolo) e principio  «della personalità» (l’individuo superiore guida «la massa    321     stupida e incapace»). Qui vorrei rilevare che quei tre principi  appartengono (in modo filosoficamente ingenuo) a una  grande dimensione comune, che più o meno corrisponde ai  due ultimi secoli della storia dell’Occidente. Quelli della  «morte di Dio». Tutto a posto, allora, ritornando a Dio? No;  la «morte di Dio» è la figlia legittima, inevitabile, della «vita di  Dio». E invincibile sino a che non ci si sappia rivolgere al  senso essenziale e non si sappia mettere in questione la  «creatività» e la «volontà di potenza» dell’uomo ariano e non  ariano che sia.    322     Al capitolo III   8. Piazza della Loggia   Trentanni fa c’era molta incomprensione per quanto stava  accadendo in Italia con gli attentati terroristici. Pochi giorni  dopo la strage di Piazza della Loggia osservavo quanto fossero  inadeguate le interpretazioni fornite delle massime autorità  della politica e della cultura. Il presidente della repubblica  Giovanni Leone dichiarò che il fascismo, ritenuto  responsabile dell’eccidio, era «morto per sempre il 25 aprile  1945» e che di esso non sopravvivevano che «squallide  minoranze». Per eliminare le quali, aggiungevano altri, si  trattava soltanto di rendere più efficienti polizia e  magistratura. C’era anche, però, chi sosteneva la necessità di  adeguare la legislazione al dilagare del terrorismo - il cui  senso veniva peraltro lasciato nel buio -, ripristinando magari  la pena di morte. Il giorno dopo la strage di Piazza della  Loggia Alberto Moravia scriveva sul «Corriere della Sera» che  gli esponenti del fascismo erano soltanto dei «razionalizzatori  per lo più inconsci e quasi sempre imbecilli delle proprie  private tare».   Nel suo insieme, questo modo di prendere posizione  rispetto al terrorismo sottovalutava il fenomeno. C’era ben  altro dietro le «squallide minoranze» o gli «imbecilli» che  razionalizzavano «le proprie tare private». C’era il problema  dell’avanzata del Partito comunista italiano, che con i  consensi elettorali ottenuti stava andando verso la conquista  democratica del governo - e, questo, all’interno di una  situazione internazionale dove la sfera di influenza degli Stati  Uniti, alla quale l’Italia apparteneva, non avrebbe mai  consentito che al governo, in Italia, ci andassero i comunisti.   Nel 1974, al tempo del viaggio di Leone in America,  Kissinger non solo minacciò il ritiro delle truppe americane    323     dal nostro continente qualora gli alleati europei non si fossero  allineati agli Stati Uniti nei confronti dei Paesi produttori di  petrolio; ma a chi gli parlava di una troppo pesante ingerenza  degli Usa nella nostra penisola Kissinger (è importante  ricordarlo oggi) rispose che se l’Italia fosse passata sotto la  sfera di influenza dell’Urss, il mondo democratico avrebbe  poi rimproverato gli Stati Uniti di non aver «salvato» l’Itaha  dal comuniSmo - dal che si capisce quanto fosse un bluff la  minaccia di ritirare le truppe americane dall’Europa, che a sua  volta, e a maggior ragione, doveva essere «salvata» dal  comuniSmo.   Negli anni Settanta ho dedicato una considerevole  attenzione alle connessioni tra terrorismo e situazione politica  internazionale. Il mio libro Téchne (Rusconi 1979, Rizzoli  2002) ne è la testimonianza. Ma solo un poco alla volta è  maturata in Italia la consapevolezza che i fatti storici  esecrandi, che a prima vista sembravano solo esplosioni di  una ottusa brutalità, erano invece espressioni di quella dura  vicenda in cui popoli si scontrano per assicurarsi la  sopravvivenza e i privilegi in un mondo sempre più  pericoloso. Il terrorismo che ha portato a episodi come quello  di Piazza della Loggia non appartiene alla banalità o alla  semplice dimensione defl’immoralità, per uscire dalla quale  basta qualche pia intenzione delle anime belle. Un discorso  analogo vale anche oggi.   Rispetto al Partito comunista italiano il fascismo italiano  degli anni Settanta è un nano. Che però ha alle spalle una  forza enormemente più gigantesca di quella del Pei: il sistema  democratico-capitalistico, con gli Usa al proprio centro. Di  fronte alla possibilità di una conquista democratica del potere  da parte del comuniSmo, tale forza agisce in modo che il Pei  risponda agli attentati terroristici con azioni illegali, che  avrebbero consentito il ripristino autoritario della legalità e,    324     con la messa al bando del Pei, l’eliminazione del pericolo  comunista. Di qui il rifiuto violento del Pei alla proposta di  reintrodurre la pena capitale. Se il Pei non ha reagito  illegalmente alla «provocazione fascista» non è stato per  amore della legalità e della democrazia, ma perché, da un lato,  ha capito che alla legalità e al carattere democratico del  proprio operato era legata la propria sopravvivenza; e  dall’altro perché il Pei era consapevole di non potere e dunque  di non dovere prendere il potere in Italia. A quel tempo,  scrivevo che al governo il Pei sarebbe andato quando non  fosse più stato un partito comunista.    325     9. Tasse e amnistia   L’aumento della criminalità in Italia è, come si suol dire, un  «fatto». Dunque non solo in città come Brescia - dove il tasso  di immigrazione, superiore alla media nazionale, è uno dei  fattori di tale aumento. Non l’unico. Come l’atteggiamento  caritativo della Chiesa nei confronti degli immigrati non è  l’unico dei fattori da tener presenti nella discussione di questo  problema. Non l’unico; e tuttavia molto importante.   Dico questo, per l’analogia, apparentemente paradossale,  che sussiste tra il problema delle tasse degli Italiani e il  problema dell’amnistia nei confronti di migliaia di detenuti  delle nostre carceri - un’amnistia voluta dal centro-sinistra  del secondo governo Prodi e, direi, soprattutto e fortemente  dalle forze cattoliche. Le quali hanno agito, guidate dalle  decise sollecitazioni della Chiesa cattolica in quella direzione.  Ed ecco quanto intendo rilevare.   È molto probabile che, come a suo tempo aveva rilevato  l’onorevole Visco, il clima determinato dal precedente  governo di centro-destra in tema di tassazione avesse favorito  e incrementato la propensione degli Italiani all’evasione  fiscale. Quando l’«autorità» sembra andare incontro alle  nostre inclinazioni individuali, quest’ultime tendono infatti a  rafforzarsi e a espandersi. La televisione è ormai considerata  un’«autorità», e accade appunto che comportamenti  televisivamente tollerati, o lasciati scorrere con indulgenza sul  piccolo schermo, aumentino la propensione della gente a  imitarli.   Ma è anche difficile, a questo punto, evitare l’analogia tra il  problema fiscale e l’amnistia carceraria che ha rimesso in  strada anche persone il cui primo pensiero è stato di  riprendere l’attività interrotta dalla reclusione. L’amnistia non  aveva riguardato soltanto Italiani, ma anche immigrati    326     extracomunitari. Difficile, allora, evitare il seguente  ragionamento.   Come è molto probabile che il clima prodotto dalla politica  fiscale dei governi di centro-destra abbia favorito  l’incremento dell’evasione fiscale, così è molto probabile che il  clima determinato dall’amnistia carceraria abbia prodotto un  clima che ha portato la gente a credere che l’«autorità»  guardasse con una certa indulgenza l’evasione dal diritto  civile e penale, un clima che quindi ha in qualche modo  favorito ed esteso la propensione per quella diversa forma di  delinquenza che consiste negli omicidi e nelle rapine.   Inevitabile che chi ha subito questa forma di suggestione,  determinata dall’amnistia, siano stati soprattutto gli  immigrati e in particolare gli extracomunitari che, proprio  perché tali, entrano nel Paese da cui sono accolti senza  avvertire - come invece possono farlo coloro che in quel  Paese son nati - la presenza e il carattere bene o male  vincolante delle leggi in esso in vigore.   Nel caso dell’amnistia la suggestione è stata ancora  maggiore, perché il provvedimento era stato proposto non  solo dalle forze politiche al governo, ma anche da  quell’«autorità» della Chiesa, che nel mondo può certo  vantare un’autorità maggiore delle forze politiche italiane.   L’amnistia ha creato un’immagine pubblica del legame tra  legalità e carità, che ha allentato il timore di trasgredire la  legge.   Pensando a questo e ad altri ordini di problemi avevo detto  alla svelta, in un’intervista rilasciata al «Corriere», che mi  risultavano «incomprensibili» certi atteggiamenti caritativi  della Chiesa bresciana. Si parlava dei delitti commessi a  Brescia. Ma il mio discorso era rivolto primariamente alla  Chiesa in generale, che tenta di seguire come può l’invito,    327     rivolto da Gesù al giovane ricco, di dare ai poveri tutte le  proprie ricchezze.   Per seguire Gesù la Chiesa dovrebbe dire ai popoli ricchi di  dare tutte le loro ricchezze a quelli poveri. La Chiesa non può  seguire la sublime follia di Gesù. Non può permettersi di  sembrare sublimemente folle. Tenta come può di seguire  Gesù: con le forme tradizionali della carità. Le quali, per un  verso, lasciano che i ricchi rimangano ricchi, e per l’altro si  riversano, quando possono, alfinterno dei rapporti civili  presenti nei singoli Stati e diventano opere assistenziali di  vario tipo, su su fino a opere di grande portata come lo è stata  appunto l’amnistia in Italia. Che certamente non è l’unica  responsabile dell’aumento della criminalità nel nostro Paese,  ma che, altrettanto certamente, responsabile è.    328     10. Visibilità   Lo sport è importante. Perché - forse soprattutto - non è  innocente. Tanto più importante quanto più simula le forme  della lotta e del combattimento. La gente trova in esso quello  sfogo delle proprie frustrazioni, che altrimenti indirizzato le  procurerebbe gravi sanzioni civili e penali. Ma bisogna che la  squadra in cui ci si identifica vinca e che la vittoria non sia  ostacolata. Altrimenti lo sfogo straripa, diventa  incontrollabile.   Nelle società povere Finsoddifazione finisce col  trasformarsi in massacro. Ma oggi anche quelle ricche hanno  motivi per essere insoddisfatte. Si percepisce che il mondo dei  valori tradizionali va franando. È la notizia che fa da sfondo a  ogni altra. Ed è ormai un luogo comune rilevare che i mass  media, diffondendola e moltiplicandola, la trasformano nel  modello da imitare. Poiché la frana della tradizione è  violenza, che acquista mille volti, l’imitazione del modello  violento diventa a sua volta notizia, a sua volta diffusa e  moltiplicata. I violenti si sentono pertanto ripagati di molte  delle loro frustrazioni. Non è poi così banale l’affermazione  che si esiste solo se si è in televisione. C’è sempre stato  qualcosa di analogo. La violenza è una forma di potenza (o  addirittura coincide con essa); e la potenza esiste solo se è  pubblicamente riconosciuta. Non esiste un sovrano o un dio  la cui potenza non sia stata o non sia pubblicamente  riconosciuta. Non ci si sfoga delle proprie frustrazioni se non  ci si sente in qualche modo potenti o violenti e se quindi non  ci si rende il più possibile visibili. I mezzi di comunicazione di  massa del nostro tempo sono la forma più potente di  riconoscimento pubblico e quindi di produzione della  potenza e della violenza. Alla messa in scena del progressivo  disfacimento dei valori morali, civili, religiosi, estetici delle    329     società avanzate si unisce la messa in scena del disfacimento  di ogni regola di convivenza tra gli Stati. Hobbes rilevava che   10 Stato nasce per uscire dal belluino stato di natura (homo  homini lupus), ma gli Stati hanno continuato a essere lupi gli  uni per gli altri. Questo è l’esempio che gli Stati danno agli  individui! Gli Stati, che pure dovrebbero rappresentare la  ragione e la civiltà contro l’istinto e l’egoismo individuale! E  anche di questa belluinità degli Stati i mezzi di comunicazione  di massa danno continua notizia alla gente, dando la  maggiore visibilità e quindi il maggior respiro alla violenza. In  Italia è tempo di pensare alla riforma del diritto. Ripeto che  come la politica finanziaria della destra incrementa l’evasione  fiscale, così gli indulti e le amnistie della sinistra  incrementano la violenza del crimine. Ma la gran ventura, che  riguarda l’intero pianeta, e che (all’interno del dispiegarsi  della civiltà dell’Occidente) non è necessariamente negativa, è   11 guado che dai valori del passato conduce al futuro.    330     11. Tecnica e «grande politica» 1   Ravaioli (R.) La crescita produttiva continua a essere  l’obbiettivo più tenacemente auspicato e perseguito da  economisti, imprenditori, governi, politici di ogni colore, e di  conseguenza da tutti invocato anche nel discorrere più feriale,  che so, al bar, in treno, al mercato; dato come una  indiscutibile ovvietà, o addirittura come una verità di fede...  A lei certo la cosa non è sfuggita, e vorrei chiederle che ne  pensa: è d’altronde un avvio perfettamente calzante col  discorso che ci proponiamo...   Severino (S.) Questo continuo parlare della crescita come di  cosa ovvia è in buona parte dovuto all’ignoranza. Sono  decenni che si va intravedendo l’equazione tra crescita  economica e distruzione della terra. Comunque, è tutt’altro  checondivisibile l’auspicio di una crescita indefinita.   R. Professore, sta dicendo che l’economia è una scienza  consapevole delle conseguenze negative della crescita?   S. Ha incominciato a diventarne consapevole: l’auspicio di  una crescita indefinita va ridimensionandosi. Anche nel  mondo dell’intrapresa capitalistica - la forma ormai  pressocché planetaria di produzione della ricchezza - ci si va  rendendo conto del pericolo di una crescita illimitata (anche  se poi si fa ben poco per controllarla).   R. Non si direbbe proprio...   S. Sì invece. Vent’anni fa, quando Lei scrisse quel suo bel  libro che interpellava numerosi economisti a proposito del  problema dell’ambiente, la maggior parte degli intervistati  affermava che quello del rapporto tra produzione economica  ed ecologia era un falso problema. Oggi non pochi economisti  sono molto più cauti... e anche le dichiarazioni dei politici  sono diverse da venti o trent’anni.    331    R. In pratica però non fanno che invocare crescita, senza  nemmeno nominarne i rischi...   S. Be’, in periodo di crisi economica, di fronte al pericolo  immediato di una recessione, è naturale che si insista sulla  necessità della crescita... Purtroppo però lo si fa riducendo il  problema alle sue dimensioni tattiche, ignorandone la  dimensione strategica ...   R. E intanto si verificano sempre più tremendi disastri, che  inconfondibilmente denunciano la pericolosità della  crescita... Dal Golfo del Messico a Fukushima... per citarne  solo un paio dei più gravi e che hanno avuto massima  risonanza...   S. Certo. Ma, facendo un passo avanti, vorrei precisare che  prendere atto della gravità di fenomeni come questi significa  capire che essi non sono dovuti alla tecnica in quanto tale, ma  alla gestione economico-politica della tecnica... Non sono  disfatte della tecno-scienza, ma dell’organizzazione ideologica  della scienza e della tecnica... Sono disfatte, cioè, del  capitalismo (fermo restando che l’economia pianificata di  tipo sovietico era ancora più dannosa per l’ambiente).   R. La mia impressione però è che quanti insistono a  invocare crescita continuino a ignorare che tutto quanto  vediamo, tocchiamo, usiamo, è «fatto» di natura; e che  dunque disponiamo di materia prima in quantità date, e non  dilatabili a richiesta. Questa realtà in sostanza viene  «rimossa». I grandi industriali che si confrontano a Davos,  Cernobbio ecc., spesso neanche citano il problema...  Automobili, barche, indumenti, mobili, computer... tutto  quanto esce dalle loro fabbriche... di che cosa credono che  siano «fatti»?   S. Ma è un atteggiamento normale dell’uomo quello di  preoccuparsi soprattutto dei problemi immediati, lasciando    332     sullo sfondo quelli che non sembrano urgenti, ma che spesso  sono quelli decisivi. Quando la barca fa acqua la prima  preoccupazione è tappare la falla... Poi si pensa al luogo dove  approdare. Certo, ci sono quelli che stando nella barca non  pensano mai a trovare il porto, e quindi, nel complesso  diventa inutile tappare le falle... Si verificano allora tutti i  comportamenti che lei giustamente rileva.   R. Scusi, non vorrei aver capito male... La sua è una  giustificazione di questi comportamenti da parte di chi, poco  o tanto, è responsabile dell’economia mondiale?   S. No. Dicevo che è, purtroppo, costume umano non aver  occhi che per i problemi immediati, ignorando quelli  fondamentali - che magari gli stanno sotto il naso... È però  una mancanza di consapevolezza che ha incominciato a  incrinarsi anche prima di cataclismi come Fukushima.  Sebbene ancora non se ne vedano conseguenze nelle scelte  politiche...   R. Ma il problema esiste da decenni... Il deperimento  dell’equilibrio ecologico è stato clamorosamente denunciato  dagli anni Cinquanta, ma nelle scelte politiche è stato  completamente ignorato.   S. Ecco, forse su quel «completamente» si può non essere  d’accordo... Penso ad esempio a Clinton, consigliato da Al  Gore: nel suo primo discorso da presidente ha parlato agli  Americani della necessità e convenienza di una crescita  economica sostenibile... Una dichiarazione di intenti che in  qualche modo anche Obama ha fatto propria...   R. Però nessuno di quelli «che contano» sembra rendersi  conto che la crescita produttiva attualmente perseguita - che  è continua aggressione agli equilibri ecologici - si identifica di  fatto col sistema capitalistico. Anche celebri economisti (vedi  Stiglitz, Krugman, Fitoussi... per citarne qualcuno)    333     riconoscono la gravità della situazione ambientale, ma non  accennano nemmeno a soluzioni che mettano in discussione  il capitalismo.   S. Sono pienamente d’accordo con lei: è proprio questa la  situazione... Ma occorre anche dire che oggi, in un mondo  conflittuale, dove nessuno intende rinunciare al potere, una  politica economica meno «produttivistica» significherebbe  mettersi dalla parte dei perdenti, indebolirsi anche sul piano  militare, essere condizionati da Paesi come l’Iran o la Cina...  Nella situazione attuale, rinunciare alla crescita, cioè alla  potenza economica, significa essere sopraffatti... E sembra  difficile anche rinunciare alla base economica richiesta  dall’armamento nucleare. Oggi infatti, a differenza di quanto  spesso si continua a credere, la potenza nucleare appare  decisiva anche nella lotta contro il terrorismo... È un  problema enorme, che si tende a non affrontare nemmeno là  dove si è consapevoli che la crescita incontrollata... distrugge  la terra. Per arrivare a un impegno adeguato per la soluzione  di tale problema dovranno accadere disastri giganteschi...  con qualche milione di morti... Ma prima si tirerà la corda  finché sarà possibile.   R. Certo. Tutto questo che lei dice corrisponde a una  lettura intelligente e del tutto esatta della realtà. Mi domando  però fino a quando questa realtà potrà reggere, di fronte a una  natura devastata - in misura già oggi forse irrecuperabile - da  un agire economico fondato su una crescita produttiva che  non prevede limiti.   S. È da guardare con diffidenza - ma non voglio sembrare  cinico - l’intellettuale che dice alle grandi potenze mondiali:  «Dovreste mettervi in discussione». Le grandi potenze non  cambiano le loro scelte perché gli intellettuali dicono qualcosa  che va contro i loro interessi... Ce la vede lei una Cina che    334     rinuncia a una politica economica vincente, e al proprio tète-  à-tète attuale con Stati Uniti, Russia, Europa, per rispetto  dell’ambiente? Le pare verosimile? E ormai anche in Europa  la vita va avanti alimentata dalle centrali nucleari. E  continueranno ad andare avanti così, inevitabilmente... Non  basta quello che sta succedendo: solo un disastro di  proporzioni senza precedenti, dicevo, potrebbe convincere  l’ordinamento capitalistico a cambiar strada in modo  radicale...   R. Inevitabilmente... In base alla natura umana? Alla  storia?   S. In base alla priorità che per lo più vien data ai problemi  immediati. Ma c’è un’altra inevitabilità, ancora più  perentoria: quella del tramonto del capitalismo. Diciamolo in  quattro parole. Un’azione è definita dal proprio scopo. Anche  l’agire capitalistico è quindi definito dal suo scopo, cioè  dall’incremento indefinito del profitto privato. Quando il  capitalismo, di fronte a grandi disastri planetari dovuti al suo  agire, assumerà come scopo non più l’incremento del profitto  ma la salvaguardia della terra, allora non sarà più  capitalismo... Inevitabilmente: o il capitalistimo, andando  avanti così, cioè volendo avere come scopo il profitto,  distrugge la terra, la propria «base naturale», e quindi sé  stesso, oppure assume come scopo la salvaguardia della terra,  e allora anche in questo caso distrugge egualmente sé stesso.  In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del  tramonto del capitalismo.   R. Lei è uno dei pochissimi che fanno previsioni del genere.  Le stesse sinistre - quel poco che ne rimane - sembrano aver  definitivamente rinunciato all’idea di superare il capitalismo.  Che è l’idea per cui sono nate... Oggi in fatto di ambiente non  hanno alcuna politica propria, anche se gli spetterebbe,    335     perché in fondo a pagare le conseguenze dello sconquasso  ecologico sono soprattutto le classi più povere... Ma no,  anche le sinistre sono allineate sull’invocazione della crescita,  di fatto preoccupate esclusivamente di occupazione e salari:  ciò che certo è comprensibile, anzi necessario, ma che forse  potrebbe non limitarsi (come per lo più sostanzialmente  accade) a occuparsi di singole situazioni di crisi e magari  tentare di spingere lo sguardo un po’ più lontano: dopotutto  la globalizzazione è un fatto, che riguarda tutti e - anche se  non ce ne accorgiamo - tutti per mille modi ci determina...   S. Quando parlo di declino del capitalismo, parlo infatti di  qualcosa che presuppone anche il declino del marxismo,  delfumanesimo marxista, dell’umanesimo di sinistra. Non è  che la sinistra sia in una posizione avvantaggiata rispetto al  capitalismo... Ma il discorso va completato. Sia il capitalismo  sia il marxismo e le sinistre mondiali - ma anche i  totalitarismi e le teocrazie, e la democrazia, e anche le  religioni e ogni «visione del mondo» e «ideologia»... - si sono  illusi e si illudono tutt’ora di servirsi della tecnica. Ma che  cosa vuol dire questo? Che la tecnica è il mezzo con cui tutte  quelle forze intendono realizzare i propri scopi (per esempio  la società giusta, senza classi, oppure l’incremento del profitto  privato, oppure l’eguaglianza democratica ecc.)... Anche la  sinistra è cioè sullo stesso piano del capitalismo per quanto  riguarda il rapporto con la forza emergente della modernità,  cioè la tecno-scienza. Simone Weil diceva che il socialismo è  quel reggimento politico in cui gli individui sono in grado di  controllare la macchina tecnologico-statale-militare-  burocratico-finanziaria ecc.. L’«individuo» - come il  «capitalista» - si illude di poter controllare l’apparato  tecnologico. Si tratta di capire perché è un’illusione...   R. Una prospettiva che dovrebbe poter contenere tutti i  possibili...    336     S. Invece andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico,  essendo diventato la condizione della sopravvivenza  dell’uomo - ed essendo la condizione perché la terra possa  esser salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica  della produzione - è destinato a diventare la dimensione che  va sommamente e primariamente tutelata; e tutelata nei  confronti di tutte le forze che vogliono servirsene.  Sommamente tutelata, non usata per realizzare i diversi scopi  «ideologici», per quanto grandi e importanti siano per chi li  persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata a diventare,  da mezzo, scopo. Quando questo avviene, capitalismo, sinistra  mondiale, democrazia, religione, e ogni «ideologia» e «visione  del mondo», ogni movimento e processo sociale diventano  qualcosa di subordinato, diventano essi un mezzo per  realizzare quella somma tutela della potenza tecnica, che è  insieme l’incremento indefinito di tale potenza... Perciò  spesso dico che la politica vincente, la «grande politica», sarà  delle forze che capiranno che non ci si può più servire della  tecnica... La grande politica è la crisi della politica che vuole  servirsi della tecnica. Andiamo in una direzione dove,  dunque, anche le sinistre - e il capitalismo, e tutte quelle forze  in campo che ho menzionato - saranno costrette a rinunciare  ai propri scopi e diventeranno esse i mezzi di cui la tecnica si  serve. Non si tratta di un processo di «deumanizzazione», o  «alienazione», come invece spesso si ripete, dove l’uomo  diventerebbe uno «schiavo» della tecnica; perché in tutta la  cultura - anche in quella che alimenta ogni più convinto  umanesimo - l’uomo è sempre stato inteso come essere  tecnico. Le sto descrivendo il futuro: non prossimo, ma  neanche remoto. Certo, un futuro in cui anche la tecnica sarà  destinata a rendere conto della sua primazia, ma non dovrà  renderlo alle forze che ancora si servono di essa ma che sono  forme deboli di tecnica. In questo senso appunto parlo da    337     decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo.   R. Professore, mi permetta un’obbiezione. Già oggi la  tecnica, da mezzo, sempre più sembra imporsi come scopo...  E - ne abbiamo parlato poco fa - mi pare che in questa  funzione stia dando prove quanto meno discutibili...   S. No, perché come dicevo prima, ciò che dà cattiva prova  di sé è la gestione ideologica della tecnica - è il modo, ad  esempio, in cui in Giappone sono state organizzate le centrali  nucleari: e lì non c’entra la tecno-scienza, ma la gestione  capitalistica di essa, che per il profitto ha sottovalutato la  pericolosità di quel tipo di centrali. (Debbo però aggiungere -  ma anche qui chiudiamo subito il discorso - che la tecnica  destinata al dominio non è la tecnica tecnicisticamente o  scientisticamente intesa, ma quella che riesce a sentire la forza  della voce essenziale della filosofia del nostro tempo, la quale  dice che non possono esistere limiti assoluti all’agire  dell’uomo.)   R. Rimane il fatto che le tecniche, anche le più avanzate e  intelligenti, le più utili persino, finiscono per essere nei  confronti dell’equilibrio ecologico «naturale» delle continue  aggressioni, o quanto meno delle minacce...   S. Di nuovo rispondo di no, e che è la volontà di profitto a  rischiare oltre il livello di rischio denunciato nelle previsioni  tecno-scientifiche.   R. Ma non è la volontà di profitto a generare, o almeno a  favorire, la creazione di tecniche?   S. Sì, le ha favorite (e in qualche caso generate), ma allo  scopo di favorire sé stessa. Ora sto dicendo che questo scopo è  destinato al tramonto.   R. Resta però il fatto che molti istituti scientifici, anche di  largo prestigio, vivono in quanto finanziati da grandi  potentati economici... E questo in qualche misura significa    338     condizionarli...   S. Certo, questa è la situazione attuale. Ma la tendenza  globale è un’altra. Condizionarli significa indebolirli. È quindi  inevitabile che, a un certo momento, chi condiziona si renda  conto di non poter più continuare a farlo, perché, alla fine,  condizionare (e quindi subordinare e pertanto indebolire) la  tecnica per promuovere sé stessi è indebolire sé stessi...   R. Si diceva che le sinistre - a parte l’impegno per la difesa  del lavoro - non dicono, né propongono cose gran che  diverse dalla destra. Il marxismo un tempo aveva uno sguardo  ben più ampio di quello che hanno le sinistre oggi...  Dopotutto non a caso l’inno dei lavoratori era  l’ Internazionale... Tentare di guardare un po’ più lontano...  Cercare di allargare lo stesso discorso sul lavoro, non  potrebbe portare a una proposta alternativa?   S. Questo allargamento va imponendosi da solo. Infatti non  si può separare il lavoro dalla tecnica (ma dal capitalismo sì,  come dal marxismo). Un po’ da tutte le parti politiche oggi si  sente dire a proposito dei problemi più importanti: «Non è  questione né di destra né di sinistra, è una questione tecnica».  È un piccolo indizio del processo dove le soluzioni tecniche  prevalgono su quelle politiche e «ideologiche».   R. Mi riesce difficile seguirla... la tecnica viene solitamente  vista come uno strumento usato dal capitalismo...   S. Questo è lo stato attuale che il mondo capitalistico  vorrebbe perpetuare. Ma la tecnica non è il capitalismo. Il  servo non è il padrone. Ed è già accaduto che i servi si  liberassero dei padroni. La liberazione decisiva, rispetto alla  quale si è ancora ciechi, è la liberazione della tecnica dal  capitale.   R. In definitiva Lei vede il capitalismo sopraffatto dalla  tecnica...    339     S. Sì. O meglio: è la logica del discorso a vederla.   R. Una tecnica che - insisto - porta alla devastazione della  terra...   S. Se la tecnica continua a essere gestita dal capitalismo, sì.  Ma - insisto anch’io - sarà il capitalismo stesso ad accorgersi  che devastando la terra devasta sé stesso (e cambiando rotta,  cioè scopo, si distruggerà egualmente).   R. È insomma l’intero sistema produttivo che di fatto agisce  contro la salvezza dell’umanità... Non crede che in tutto ciò  esista qualche responsabilità anche da parte delle sinistre?  Dopotutto erano nate per combattere il capitale, no?   S. Ma il discorso che vado facendo da molto tempo indica  qualcosa che sta al di sopra delle esortazioni, delle  mobilitazioni, dei progetti, della volontà politica. Riguarda un  movimento che procede per conto proprio, guidando e  animando la volontà così come, si sa, la struttura del capitale  domina e anima la volontà dei singoli capitalisti. Marx diceva  appunto che i singoli capitalisti sono le prime vittime del  capitale. Ecco, si tratta di capire il modo in cui la tecnica  prende il posto del capitale.   R. Lei si riferisce a un movimento, o una tendenza, in  qualche modo, come dire... operante e avvertibile? Oppure si  tratta per ora soltanto di un’ipotesi filosofica?   S. È una tendenza che è operante e avvertibile proprio nel  modo adeguato (e dunque non «soltanto» ipotetico) di fare  filosofia. Per essenza la filosofìa si riferisce all’autenticamente  operante e avvertibile.   R. Cambiando discorso. Lei ha dedicato un suo recente  articolo, apparso sul «Corriere della Sera», al modo in cui il  Nordafrica va cambiando. Non crede che forse proprio dal  Sud del mondo, non ancora interamente assimilato alle  logiche e ai «valori» del capitalismo, possa muovere una    340     critica, e magari una messa in crisi della cultura dominante? È  qualcosa su cui più volte m’è capitato di riflettere. Ad esempio  quando un anno fa, in Bolivia, durante il Social Forum di  Cochabamba, un gruppo di «campesinos» lanciò uno slogan  che diceva: «Non si tratta di cambiare il clima, bisogna  cambiare il sistema»; aprendo un orizzonte enormemente più  ampio di tutte le altre «parole d’ordine» correnti, che  insistevano soprattutto sui mutamenti climatici, e di fatto  denunciando un rapporto Nord-Sud che per mille aspetti  ampiamente si attiene alle logiche del capitalismo, e le  impone. È solo un episodio, ma non crede che proprio da  questi mondi potrebbero partire spinte decisive alla messa in  crisi delle logiche politiche dominanti?   S. Be’, il fatto che questi popoli vadano riproducendo il  modello occidentale dimostra che l’Occidente ha raggiunto la  prospettiva più radicale: la destinazione della tecnica al  dominio. Questi popoli stanno ripercorrendo l’itinerario  compiuto dall’Occidente... L’autentico «cambiamento di  sistema» è quella destinazione.   R. Professore, certo è incapacità mia di seguirla fino in  fondo... Ma più volte m’è capitato di riflettere, e anche di  scrivere, in libri dedicati appunto alle questioni ambientali, su  questo crescente prevalere della tecnica sui modi e i ritmi  della natura... Spesso citando quello straordinario libro,  firmato dal grande biologo americano Stephen J. Gould, che  si intitola Gli alberi non crescono fino al cielo : una critica  dell’intera vicenda umana, tutta centrata su una impossibile  sfida alla natura. Nella quale peraltro sempre è evidente il  senso di colpa... E infatti Icaro, Prometeo, i Giganti, Ulisse...  tutti sempre vengono puniti... La tecnica, nella mitologia, è  colpa... E lo è la scienza in assoluto, si direbbe, se si pensa ad  Adamo ed Èva, cacciati dal paradiso terrestre per aver gustato  il frutto dell’albero del sapere...    341     S. Onorevole, non solo Lei segue benissimo, ma continua a  proporre spunti estremamente interessanti.   Quando parlo in termini «positivi» della tecnica, ne parlo  nel senso che essa va ritenuta la forma più rigorosa della più  radicale follia in cui l’uomo è caduto. Non intendo affatto fare  l’apologià della tecnica ma intendo dire che l’errore, la follia,  vanno progressivamente facendosi più rigorosi e coerenti...  Pensi al discorso di Freud, che la religione è quella follia -  grande, rigorosa follia - che assorbe e rende coerenti tutte le  forme di follia dell’individuo... Nella tecnica l’errore è  destinato a diventare massimamente rigoroso. L’errore nasce  con l’uomo, è la volontà di potenza. Ma bisogna saper dire  perché lo sia... Non lo sanno dire né i miti né le altre forme  della sapienza umana. È vano combattere e incolpare  Prometeo, «che ha dato tutte le tecniche ai mortali», con  strumenti che sono forme deboli di tecnica. Anche il  capitalismo, il marxismo, il cristianesimo, l’islam, il  totalitarismo, la democrazia ecc. sono forme deboli di tecnica.  Ma con ciò non intendo dire che la tecnica sia la verità. No. È  la forma più radicale dell’errore. Che però sembra la forza più  potente...   R. Una volta ancora non posso non apprezzare il suo  pensiero... Non riesco però a non domandarmi se non ci sia  nulla da fare, o per accelerare questo processo portandolo a  una soluzione, o in qualche misura per mitigarne la  distruttività. Sono tante ormai le persone che si preoccupano  per il futuro di un mondo per mille versi sempre più  problematico e rischioso... Per lo più si tratta di giovani,  consapevoli e impegnati... A tutti costoro che cosa si  sentirebbe di consigliare?   S. La ringrazio. Per ora siamo gettati nell’errore; ma  proprio per questo c’è molto da fare. C’è da favorire il    342     processo che porta l’errore a maturazione. Ecco perché  parlavo prima della «grande politica». Per praticarla è  necessario incominciare a guardare in faccia il senso  essenziale della storia dell’Occidente, il senso cioè della   volontà di potenza: il senso del fare.   *   - Intervista fattami da Carla Ravaioli e pubblicata sul «manifesto» nel luglio 2011.    343    Al capitolo V   12. Non veritas, sed auctoritas facit legem-   Per considerare il rapporto tra «processo» e «tecnica» si  può certo rimanere alFinterno della specializzazione  giuridica. Ma - chiediamoci - è ancora specializzazione  Patteggiamento che non riflette sul senso della  specializzazione? Si vive in una nave - la si vive come nave -  quando non si sa che cosa sia una nave? Certamente no. E  d’altra parte, riflettendo sul senso della specializzazione si è  ancora alFinterno di essa? (Si profila così un’antinomia, che  può essere il sintomo del carattere contraddittorio della  specializzazione.) Ma, qui, non svilupperemo questo aspetto,  peraltro fondamentale, del discorso.   La tecnica riguarda il «processo» in relazione, innanzitutto,  ai limiti entro i quali le competenze tecnico-scientifiche  devono mantenersi nel determinare l’evoluzione e il  compimento delle procedure giudiziarie. In questo caso, le  competenze tecniche (mediche, psicologico-psichiatriche,  chimico-fisiche, urbanistiche ecc.) servono da strumento - da  mezzo - per quello scopo che è la conduzione e il  compimento del «processo».   A sua volta, il «processo» stesso, come fatto giuridico, è  scomponibile in un momento tecnico-strumentale e in un  momento che è lo scopo di tale strumentazione. Momento  tecnico-strumentale è, ad esempio, la formazione dei  magistrati, e in genere, dell’organico, e il modo in cui sono  formalizzate le regole in base a cui il processo si svolge; lo  scopo è la verifica dell’applicazione della legge in rapporto ai  casi intorno a cui verte il processo.   Ma, daccapo, lo scopo di una società non è quello di  verificare se la legge sia applicata: lo scopo è che la legge  «viga». Affinché viga è necessario verificare se ciò avvenga. E    344    questo significa che la verifica giuridica si dispone a sua volta  come strumento, come mezzo per la realizzazione di quello  scopo che è il «regno della legge» nella società.   Questo rinvio, il triplice rinvio qui sopra sommariamente  indicato, dove lo scopo si dispone come strumento di uno  scopo superiore, ha un prolungamento decisivo, che riguarda  il concetto stesso di «legge», sottoposto a una profonda  trasformazione, dove l’atteggiamento giusnaturalistico,  proprio della tradizione occidentale, viene spinto al tramonto  dall’atteggiamento giuridico che è proprio del diritto positivo.  E, anche qui, si tratterà di comprendere l’ultima sezione di  questo capitolo che in tale tramonto il regno del diritto è a sua  volta destinato a diventare, da scopo della verifica giudiziaria,  mezzo, cioè strumento di uno scopo - la tecnica - verso il cui  dominio il pianeta sta procedendo.   A partire dal pensiero greco, e lungo la tradizione  occidentale, in cui il giusnaturalismo si inscrive, non  auctoritas, sed veritasfacit legem. La «verità» è il fondamento,  il principio ispiratore della legge. Lo ius è dato dalla natura  delle cose; e la verità è il luogo in cui tale natura mostra il  proprio volto autentico. Il popolo greco porta alla luce, dopo i  millenni del mito, un senso inaudito della Verità: la Verità  come sapere incontrovertibile che mostra, manifesta (e  pertanto è alétheia) un contenuto che non si lascia smuovere,  un contenuto che sta e appunto per questo è chiamato  epistéme ( epi-stéme ). La Verità mostra l’ordine immutabile al  quale lo Stato (e il singolo) deve adeguarsi. Lo Stato si adegua  alle leggi che si fondano sulla Verità che il sapere filosofico ha  portato alla luce e alla quale si commisura la stessa rivelazione  cristiana. Anche nell’Europa medioevale e moderna lo Stato  (e l’individuo) è misurato dalla sua adeguazione alla verità, in  quanto principio ispiratore della legge. Il valore della legge  non è dato dalla pura forza, ossia da un auctoritas che sia pura    345      forza, ma dalla sua dipendenza dalla verità.   Ma dopo questa grande epoca della civiltà occidentale,  dove verità e legge formano una unità indissolubile, si fa  innanzi con sempre maggior forza il principio opposto, per la  prima volta enunciato da Hobbes: non veritas, sed auctoritas  facit legem. È il principio del diritto positivo, che acquista il  proprio compiuto significato quando prenderà le distanze dal  contesto in cui viene formulato nella filosofìa di Hobbes - in  una filosofia cioè dove, nonostante tutto, resta ancora fermo il  senso di fondo che il pensiero greco ha conferito alla «verità».   La transizione dal giusnaturalismo al prevalere del diritto  positivo, ossia al positivismo giuridico, è un episodio  emergente del grandioso processo storico-critico, in cui la  tradizione dell’Occidente viene abbandonata dal pensiero, e  pertanto dall’agire umano, e soprattutto e fondamentalmente  dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli. Poiché il diritto  positivo non si fonda su alcuna «Verità» assoluta, ed è  positivo perché «pone» ciò che la volontà sociale dominante  (del sovrano, dell’eletto rato, di una oligarchia economico-  politica) vuole di volta in volta come legge, il processo  giudiziario che si sviluppa alfinterno di questa forma di legge  è compatibile con qualsiasi tipo di contenuto giuridico, di  natura democratica o no.   D’altra parte, la transizione al positivismo giuridico è  analoga a quella che conduce dalle varie forme di  totalitarismo alla democrazia del nostro tempo, che definisce  sé stessa come semplice «procedura», che di per sé non  propone o impone alcuna «Verità» assoluta ai cittadini ed è  pertanto compatibile con qualsiasi contenuto sollevato al  rango di legge dalla maggioranza dell’elettorato. Ora diventa  radicalmente fondata - e inevitabile, all’interno della storia  dell’Occidente - l’affermazione che non veritas, sed auctoritas    346     facit legem.   Il fenomeno, grandioso, di cui la transizione al positivismo  giuridico e alla democrazia sono aspetti particolari - e molti  altri potrebbero essere menzionati - conduce al di là delle  forme essenziali della tradizione occidentale. È il fenomeno  che Nietzsche ha chiamato «morte di Dio» - sì che il  passaggio dal giusnaturalismo al positivismo giuridico è la  morte di Dio in ambito giuridico -, è la morte della forma  assunta da Dio nella dimensione del diritto. Diciamo che quel  fenomeno è grandioso, non solo per le sue proporzioni, cioè  per il suo aver investito ogni aspetto del pensiero e dell’agire  tradizionali, ma anche perché si presenta secondo una  inevitabilità (cfr. sezione prima, cap. V), per la quale tale  fenomeno non è semplicemente un cambiamento di opinioni  da parte della società e dei suoi membri. Solo cogliendo il  senso di questa inevitabilità si può comprendere che oggi  l’uomo non può più cercare la propria salvezza volgendosi  verso la grande tradizione dell’Occidente - e dunque verso il  modo in cui all’interno di essa viene realizzato e praticato il  diritto. Certo, l’inevitabilità di cui stiamo parlando è  l’inevitabilità del tragico; ma non le si possono voltare le  spalle per il semplice fatto che non va incontro a certe nostre  aspirazioni.    347     13. Guerra fredda e corruzione   L’espressione «dietrologia» è screditata. Ma può essere un  sinonimo del concetto scientifico di «ipotesi»: l’«ipo-tesi»  esplora ciò che «sta al di sotto» di quanto si manifesta  comunemente o immediatamente. Al di là del senso  screditato della dietrologia, l’ipotesi scientifica ha cioè un  carattere essenzialmente «dietrologico». Nemmeno quel tipo  di disciplina scientifica che è il diritto può evitare di  formulare ipotesi, ossia di andare al di là di ciò che  comunemente appare e che viene chiamato «il fatto».   Gli estimatori del «fatto» - anche tra i non giuristi -  collocano spesso l’attività giuridica in un ambito improprio;  cioè la considerano come la dimensione all’interno della quale  «il fatto» riceverebbe uno dei più validi e autentici  riconoscimenti della sua importanza e del suo carattere  decisivo. Tuttavia è nota la tesi di Karl Popper, per la quale la  struttura del processo giudiziario è il modello dell’attività  scientifica. Certo, egli non fa che trarre un corollario dalla tesi  di Nietzsche, che non esistono «fatti», ma solo  «interpretazioni». Ma tale corollario significa che alla base  della scienza non esistono fatti, ma interpretazioni, e che tale  circostanza rispecchia la struttura del processo giudiziario, sì  che quest’ultimo - lungi dal presentarsi come il luogo in cui i  «fatti» sono posti al di sopra di tutto, come fondamenti  indiscutibili - è inteso invece come il luogo che si fonda su  «interpretazioni» rivedibili e falsificabili.   Gli estimatori dei «fatti», che vedono nell’attività giuridica  la più autentica valorizzazione dell ’infallibilità dei «fatti», non  si rendono conto che la scienza riconosce ormai senza  complessi la propria fallibilità e che quando intende chiarirne  il senso si riferisce proprio e precisamente all’analogia che  sussiste tra procedura scientifica e procedura giudiziaria.    348     L’analogia può essere così espressa: il sistema delle leggi  scientifiche viene commisurato a un insieme di elementi che  non sono «fatti», ma «interpretazioni» di fatti; cioè risultati di  decisioni che un gruppo qualificato di individui stabilisce di  assumere come base (o come fatti) del sapere scientifico, in  modo analogo alla commisurazione per la quale nel processo  giuridico il sistema delle leggi viene applicato non a «fatti»  incontrovertibilmente accertati veri, ma alla decisione di un  gruppo qualificato di assumere un insieme di eventi come  qualcosa di effettivamente accaduto. Il «veramente» accaduto  è inesistente. Esiste veramente la decisione di assumere  qualcosa come il veramente accaduto. Anche per questo  motivo la storia di un popolo non può essere ricostruita in  sede giudiziaria, appurando i «fatti».   Comunque, anche questa crisi della verità del «fatto»  appartiene al processo, a cui prima ci si è rivolti, che conduce  al tramonto inevitabile della tradizione e della tradizione  giuridico-politica dell’Occidente, la tradizione dove il  «giudice» è colui che «mostra con autorità» la Verità -  «giudice» essendo parola composta da ius e dalla forma  congetturale dix, riconducibile alla radice indoeuropea deic,  che indica appunto il «mostrare»; sì che l’autorità del giudice  gli deriva dal suo rapporto con la verità.   È aH’interno della transizione inevitabile di cui stiamo  parlando - cioè dalla vita alla morte della Verità e di Dio -  che assume un significato particolarmente rilevante anche il  tema della «corruzione» della società italiana e del  conseguente conflitto tra magistratura e potere politico. In  base a una logica diversa da quella che intende «appurare i  fatti», cioè in base alla logica dell’interpretazione, è possibile  affermare che nella seconda metà del xx secolo è stata  combattuta una lotta mortale tra capitalismo e socialismo  reale, una lotta senza esclusione di colpi. Una situazione,    349     questa, che, ovviamente, ha costretto ognuno dei due  antagonisti a tenere nascosto all’altro l’organizzazione delle  proprie forme di offesa e di difesa. Anche le società  democratiche, dunque, sono state costrette, per evitare il  suicidio, ad adottare questa strategia. Le democrazie  parlamentari sono state cioè costrette ad agire in modo non  democratico, giacché «democrazia» e «trasparenza» (e  dunque quella trasparenza che avrebbe messo la democrazia  nelle mani dell’avversario) sono inseparabili. La trasparenza  democratica è il carattere pubblico delle decisioni essenziali di  una società; e la democrazia, per sopravvivere, non poteva  rendere trasparenti i propri piani di difesa e di offesa contro il  socialismo reale.   Ma questo clima di non trasparenza, di occultamento e di  privatizzazione delle decisioni essenziali delle società  democratiche era il terreno in cui non poteva non attecchire  la corruzione. L’illegalità di alto profilo politico, cioè la  necessità che per sopravvivere la democrazia agisse in modo  non democratico, ha prodotto l’illegalità di basso profilo, cioè  la corruzione per ottenere vantaggi privati, che ha  accompagnato gli anni della guerra fredda (che si è  prolungata sino ai nostri giorni e anche in futuro alimenterà il  conflitto tra politica e magistratura) soprattutto in Paesi come  l’Italia, più esposti al pericolo comunista sia per la loro  posizione geografica sia per la consistenza dei movimenti  politici che in tali Paesi erano guidati dall’Unione Sovietica.   La fine di quel gigantesco fenomeno che è stato il  socialismo reale - una fine che a sua volta appartiene al  tramonto della tradizione occidentale - non ha lasciato il  vuoto: sul terreno ha lasciato un gigantesco cadavere, con il  quale ancora a lungo si dovranno fare i conti. Lo dicevo già,  più di una quindicina d’anni fa, ben prima cioè che  esplodessero i disordini nelle ex repubbliche dell’Urss.    350     (Infinitamente più complessi di quelli, pur consistenti, che si  devono fare quando un capofamiglia autoritario se ne va  all’altro mondo.)   Durante e dopo la «guerra fredda» c’è stato qualcuno che,  pur di combattere il comuniSmo, ha agito illegalmente; e  qualcuno che invece, pur di trarre vantaggio personale da  azioni illegali, ha combattuto il comuniSmo. È stata cioè di  alto profilo politico l’illegalità che la democrazia è stata  costretta a praticare per combattere il comuniSmo e per la  quale la democrazia si è avvantaggiata, ad esempio, dell’aiuto  di forze illegali ma sicuramente anticomuniste. (Molto più  sicuro, dal punto di vista anticomunista, il sistema mafioso  che non i partiti della sinistra italiana.) Anche la «corruzione»  italiana (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi  dell’Occidente democratico) è dunque una conseguenza della  morte inevitabile della verità, del diritto naturale, di Dio. Da  un lato il sistema democratico, per sopravvivere, si è posto  consapevolmente in contraddizione con sé stesso; dall’altro  lato, ha sopportato l’immoralità privata come tributo da  pagare alla sicurezza dello Stato democratico. Ed entrambi  questi due lati si costituiscono perché, a differenza degli Stati  totalitari, o «etici», del fascismo, del nazionalsocialismo, del  socialismo reale (che sono una versione secolarizzata e  distorta del divino), la democrazia non crede più  nell’esistenza di una «Verità» che regoli la vita sociale e  individuale e che non possa essere in alcun modo violata.  Come il giusnaturalismo sta al positivismo giuridico, così lo  Stato totalitario, persuaso di possedere la Verità e di dover  adeguare a essa la società, sta alla democrazia che si lascia la  Verità alle spalle e si propone come procedura di per sé  indifferente alla verità o falsità dei contenuti.   Lo stato di cose che ho or ora indicato - e che a sua volta si  presenta con i tratti dell’inevitabilità - dà luogo a un    351     dilemma.   Da un lato il sistema vincente è stato la democrazia, o,  meglio, il capitalismo, in quanto unito alla democrazia  parlamentare. Esso ha vinto il nemico mortale. È una forza  che non può quindi rassegnarsi a essere sottoposta al  controllo giuridico dei suoi atti - cioè a un controllo che non  può tener conto, in quanto giuridico, della situazione storica  eccezionale in cui il capitalismo democratico è venuto a  trovarsi. È presumibile che, se questo controllo fosse condotto  fino in fondo, il capitalismo italiano (e non solo) vedrebbe  minacciata la propria sopravvivenza. Quando, dopo la  seconda guerra mondiale, il fascismo è caduto, Togliatti ha  evitato che la burocrazia fascista - che in quanto funzionale  allo Stato fascista aveva agito in condizioni di illegalità - fosse  incriminata e giuridicamente perseguita. E si trattava di  incriminare chi aveva perso; non, come invece è il caso della  democrazia capitalistica, chi ha vinto lo scontro mortale e  ritiene un’ingiustizia essere punito per un’illegalità funzionale  alla vittoria. Come incriminare certi nodi cruciali dell’assetto  capitalistico vincente, operando con criteri giuridici che si  fondano sul principio fiat iustitia et pereat mundusì   Ma, dall’altro lato, non può essere dimenticata la situazione  drammatica del giudice consapevole della propria funzione,  perché a sua volta egli è e si sente obbligato a procedere  contro tutto ciò che gli appare come illegale. Sembra che sino  a che in Italia non si farà luce su questo dilemma e non si  prenderanno le decisioni richieste per operare una chiara  distinzione tra illegalità di alto profilo politico e illegalità di  basso profilo, si perderà anche di vista che lo scontro attuale  tra politica e magistratura è l’epifenomeno di una frattura ben  più profonda - che tuttavia non è qualcosa di statico, ma è in  evoluzione, come ora proverò a precisare, ossia si trova  anch’esso su un piano inclinato che porta al tramonto tutto    352     quanto si muove lungo di esso.    353     14. Conflitti di retroguardia   Ho iniziato queste riflessioni mostrando una sequenza  dove ciò che dapprima si pone come scopo, diventa in seguito  mezzo e strumento. Si era detto che nella tradizione  occidentale (ma ormai ogni altra sapienza appartiene alla  preistoria dell’Occidente) il regno della legge, fondato sulla  Verità, è lo scopo della vita sociale e individuale. Ma la Verità  tramonta. Restano, tra l’altro, una politica e un diritto che  sono entrambi «positivi». Ogni sapere e ogni azione ormai  sono «positivi» - o è in quanto «positivi» che essi guidano la  storia del mondo che gli epigoni del sapere e dell’agire  tradizionale tentano ancora di adeguare alla verità.   Ogni grande forza oggi ancora in vita (sia essa una forza  della tradizione o una forza che alla tradizione ha ormai detto  addio) ha questo tratto comune: di servirsi della tecnica.  Ognuna intende servirsi della tecnica, che è lo strumento più  potente oggi esistente. Anche la dimensione politica e la  dimensione giuridica intendono servirsi della tecnica. Ma la  tecnica guidata dalla scienza moderna è destinata a diventare,  essa, lo scopo di tutte queste forze.   Ciò significa che tende a diventare obsoleta anche la  conflittualità che contrappone le une alle altre: dopo il  socialismo reale, il capitalismo, la democrazia, il  cristianesimo, l’islam, il nazionalismo, le diverse forme di  umanesimo laico, e la stessa ideologia scientistico-tecnicistica  (che non è più capace delle altre forze di cogliere l’essenza  autentica della tecnica). Ma intanto va richiamato un  principio di cui spesso ci si dimentica, e cioè che lo scopo di  un’azione determina e stabilisce il senso e la configurazione di  essa; sì che essa diventa qualcosa di diverso da ciò che essa  era, se viene ad assumere uno scopo diverso da quello che  inizialmente la definiva e stabiliva. Un diritto, o una    354     democrazia, che si pongono come scopo della tecnica sono  qualcosa di essenzialmente diverso da un diritto, o da una  democrazia, che hanno come scopo la tecnica e che si  costituiscono come mezzi per la realizzazione di tale scopo.   Una situazione conflittuale, come quella che sussiste tra le  forze di cui stiamo parlando, richiede che ognuna di esse miri  non solo al potenziamento crescente dello strumento - la  tecnica - di cui si serve per imporre i propri scopi su quelli  antagonisti, ma anche a non intralciare il funzionamento  ottimale di tale strumento. Altrimenti soccombe. Ma quando  ha di mira i due tratti che abbiamo indicato, essa è già sulla  strada in cui, invece di assumere come scopo i propri valori,  ha assunto come scopo la potenza dello strumento che  dovrebbe realizzarli. Anche senza avvedersene, tende a uno  scopo diverso. Anche senza avvedersene, sta diventando  qualcosa di diverso da ciò che essa crede di essere. Andiamo  verso un tempo in cui non saranno più la democrazia e il  diritto a servirsi della tecnica, ma sarà la tecnica, nella sua  configurazione autentica, a servirsi, se ciò varrà ad accrescere  la sua potenza, della democrazia e del dir itto.   I due avversari che oggi si combattono - dimensione  politica e dimensione giuridica -, e la cui lotta dà luogo al  dilemma che sopra abbiamo considerato, sono pertanto  destinati a riconfigurare il loro conflitto in relazione alla  circostanza che tale conflitto tende a essere di retroguardia,  cioè a non essere più una lotta tra scopi, ma tra mezzi che  hanno lo stesso scopo: il potenziamento crescente della  tecnica - di una tecnica che non è la tecnica che intesa in  senso tecnicistico, scientistico, riduttivistico, merita di essere  soltanto un mezzo, ma la tecnica riduttivistica che tende a  dare sempre più ascolto alla voce essenziale del pensiero che  porta al tramonto la tradizione dell’Occidente. Mostrando la  morte di Dio e della «verità» tale pensiero mostra l’assenza di    355     ogni limite all’agire dell’uomo e soprattutto a quella forma  suprema dell’agire in cui consiste l’apparato scientifico-  tecnologico: la forma di volontà di potenza a cui va già  sottomettendosi ogni altra forma di volontà di potenza  apparsa lungo la storia della terra.   (Dopo di che sarà la volontà di potenza a dover dar conto  di sé - giacché le considerazioni che ho sviluppato non  intendono certo sostenere che la tecnica abbia l’ultima  parola.)    356     15. Tecnica e pluralità delle tecniche 1   La gente si accorge che le leggi difendono spesso gli  interessi dei più forti. Leggi cattive, dunque - anche se  vogliono sembrare «giuste». Però la gente crede ancora che ne  sono fatte e se ne potrebbero fare di buone. Nelle scienze  giuridiche tradizionali, «buone» e «giuste» sono innanzitutto  quelle che rispecchiano la «natura» dell’uomo: leggi, appunto,  del «diritto naturale», per il quale la «natura» dell’uomo  rispecchia a sua volta l’Ordinamento vero e divino del  mondo, immutabile e inviolabile, portato alla luce dal  pensiero filosofico sin dall’inizio della nostra civiltà e poi  interpretato dal cristianesimo.   Da uno-due secoli questa concezione giuridica è  profondamente in crisi (sebbene non sia ancora morta). Si  pensa cioè che non esista alcun diritto «naturale» e che ogni  legge esprima un «diritto positivo», «posto», «imposto» dalla  libera volontà dell’uomo. Anche alla radice di questa crisi si  trova la filosofia, quella che mostra l’inevitabilità della «morte  di Dio» e la conseguente morte di ogni «natura» che, in  qualsiasi campo, intenda rispecchiare l’Ordinamento vero e  divino della realtà. Anche il diritto (come la democrazia)  diventa pertanto semplice «procedura» in cui può essere  immesso qualsiasi contenuto - quello delle democrazie  parlamentari, del capitalismo, del nazionalsocialismo, del  socialismo reale, del cristianesimo, della grande e piccola  criminalità. (La procedura correttamente praticata può anche  sopprimere sé stessa.) Che una forza si imponga sulle altre  non dipende dalla sua «verità», ma, appunto, dalla sua forza.   Con Natalino Irti, eminente giurista di grande e rara  apertura filosofica, discuto da tempo questi problemi. Un  nostro Dialogo su diritto e tecnica è stato ad esempio  pubblicato nel 2001 da Laterza. Irti ha pubblicato in seguito il    357    volume Nichilismo giuridico (Laterza 2004), sul quale tra i  temi centrali figura una consistente ripresa della discussione  avviatasi tra noi due. Gli sono grato della grande attenzione e  stima che anche in queste pagine mostra nei miei riguardi -  anche se mi sembrava di aver già risposto a quanto egli mi  obbietta.   D’accordo con me, sostiene che il diritto, ridotto a  procedura, è una tecnica. Tuttavia sembra che per lui  «l’essenza tecnica del diritto» abbia già, di fatto, del tutto  eliminato ogni «diritto naturale» e ogni Ordinamento vero e  divino. E invece la situazione è diversa: di fatto, il passato  sopravvive. Anche se è una foglia secca attaccata al ramo il  punto è che può persino credere di stare alla guida del mondo  - si pensi alle foghe secche che hanno determinato la vittoria  di Bush alle elezioni americane del 2004. Per questo, da parte  mia, si parla di una «tendenza» che, certo inevitabilmente,  conduce dalla tradizione alla sua distruzione - e pertanto  conduce alla civiltà della tecnica -, ma che ancora deve fare i  conti con la sopravvivenza di fatto del passato.   Per Irti, invece, il diritto è già tecnica e sono già tecnica  «almeno» il capitalismo e le «discipline fisiche e naturali».  Non allunga l’elenco perché, credo, vede che, ad esempio,  delle religioni, di certe forme dell’arte e della cultura, del  comuniSmo, del nazionalismo, di larghi strati del  comportamento umano non si può ancora dire che siano già  tecnica. Nemmeno del capitalismo lo si può dire, che, proprio  perché intende servirsi anch’esso, in quanto si serve, della  tecnica, ne differisce. Non sono già tecnica: stanno  diventandolo. Le forze del passato, che intendono servirsi  della tecnica come mezzo, sono infatti sempre più costrette ad  assumere come scopo non più i valori che esse perseguono,  ma l’efficacia del mezzo di cui si servono per realizzarli, la  quale è pertanto destinata a diventare il loro scopo.    358     Ma Irti, ritenendo che tutto sia ormai tecnica, mi dice che  «la tecnica si scompone nella pluralità delle tecniche», in  modo che la tecnica a cui io penserei si svuoterebbe di ogni  contenuto. Egli non tiene ancora presente che quando dico  che la tecnica non mira «a uno scopo specifico e escludente»,  ma all’incremento indefinito della potenza, intendo che la  tecnica (a differenza delle forze che mirano a servirsi di essa)  tende a far sì che gli scopi da essa realizzati non impediscano  la realizzazione di altri scopi che aumentano la potenza  disponibile. Ad esempio tende a far sì che la produzione di  farmaci che arricchiscono certe industrie non impedisca la  produzione di farmaci non remunerativi ma indispensabili  alla sopravvivenza di intere popolazioni; o che le istanze  ecologiche siano soddisfatte evitando la catastrofe economica;  o che le condizioni della libertà e quelle dell’eguaglianza non  si limitino a vicenda. Irti vede solo lo scontro (il cui esito  sarebbe imprevedibile) tra le forze che ormai sono già  tecniche e mi obbietta che la tecnica non se ne sta al di fuori e  di contro alle tecniche specifiche, come «astratta» capacità di  produzione. Io gli rispondo che non ho mai pensato a una  tecnica siffatta e che lo scontro fondamentale è tra le forme  meno potenti della tecnica e la tecnica moderna, cioè tra le  forze del passato - fra cui il «diritto naturale» - che ancora  tentano di trattenere i loro apparati tecnici al rango di mezzi  (illudendosi di dominarli), e l’inarrestabile tendenza di questi  apparati a farsi strada e a diventare essi gli scopi di quelle  forze detronizzandole. La tecnica moderna è il nostro destino  perché è la forza oggi più potente, ed è la più potente perché  avverte sempre più la voce della filosofia. Tale voce dice che  davanti alla tecnica non esiste più alcun limite, alcuna  «natura» da rispettare.   Con ciò non si intende negare la presenza di qualsiasi  forma di limite. Infatti, la tecnica si dà limiti che, pur non    359     essendo espressione del diritto naturale, sono espressione del  diritto positivo. E se in un primo tempo anche il diritto  positivo può illudersi di assumere come mezzo la tecnica,  nell’età della dominazione del senso autentico della tecnica  nemmeno il diritto positivo può essere lo scopo che si serve  della tecnica come mezzo, limitandone pertanto la potenza.  Anche il diritto positivo è cioè destinato a diventare un mezzo  che rende possibile il maggior incremento possibile della  potenza tecnica. Il diritto positivo, peraltro, sa di non essere  una «verità» necessaria, incontrovertibile; e quindi ancor  meno della «Verità» della tradizione può avere la pretesa di  porsi come scopo del potenziamento dell’apparato scientifico-  tecnologico.    360     16. Mactare   In latino «uccidere» si dice anche mactare. Noi diciamo  «mattanza». In spagnolo «uccidere» si dice appunto matar.  Ma la parola latina mactus significa «ingrandito»,  «rafforzato», «innalzato», «glorificato». Ha la stessa radice di  magnus («grande»): la radice indoeuropea magh, che è  presente anche nel greco mechané («strumento»). Una sorta  di etimologia popolare latina sente in mactus qualcosa come  magis auctus, cioè «reso ancora più grande e più ricco». Su  mactus si forma il verbo mactare, che significa appunto  «ingrandire», «aumentare», «glorificare», «innalzare», e anche  «onorare», «placare»; ed è parola specifica del linguaggio dei  riti, soprattutto di quello del sacrificio. Mactare sposta allora  la propria mira dal dio, a cui si sacrifica ( mactare deus extis,  «rafforzare» il dio con le viscere delle vittime del sacrifìcio),  allo strumento del sacrificio, cioè alla vittima, e significa allora  anche «uccidere», «ammazzare»: accanto a mactare deum,  compare mactare victimam. In qualche modo il linguaggio  nasconde la violenza di cui parla; tenta di rovesciarla nel  proprio opposto. Ma dai recessi dove il linguaggio costruisce  le apparenze da cui sono guidati i mortali si deve risalire ben  più indietro. Le trasformazioni del mondo gettano nel terrore  i mortali. Essi sono appunto coloro che «vedono» le  trasformazioni, cioè la morte delle forme. Fame e sazietà,  freddo e caldo, dolore e piacere, tenebra e luce, comparire e  svanire nelle costellazioni celesti, allegria e angoscia, vita e  morte; e le metamorfosi dell’uomo in animale, insetto, pianta,  roccia. Non appena il mortale si afferra a qualcosa, fuori o  dentro di sé, le cose gli diventano altro da quello che sono.  L’altro in cui si trasformano è l’imprevisto, dunque  l’angosciante. Ci si difende dall’angoscia evocando come  rimedio la forza più potente e rendendosela amica: la forza  del dio. Agli occhi del popolo greco questo processo    361     incomincia a mostrarsi nella sua intensità estrema: cose,  eventi, stati incominciano a trasformarsi in  quell’assolutamente altro che è il nulla. Al culmine della storia  dell’Occidente, con la morte del vecchio Dio, si crede che la  tecnica sia la forza più potente, cioè il dio, il rimedio efficace  contro l’angoscia del divenir altro. La storia della fede nel  divenir altro è la storia della Follia più profonda. Quella in cui  si ha fede che una cosa sia il proprio altro, ossia ciò che essa  non è, e infine si ha fede che le cose - gli essenti le cose che  non sono un nulla - siano nulla.   Affinché Dio ci salvi, bisogna che abbia forza. Bisogna che  l’uomo la custodisca e l’accresca. All’inizio del rafforzamento  umano del Dio domina il sacrificio: l’uomo offre al Dio sé  stesso e quanto possiede. Poi il Dio è rafforzato vedendo in  lui, con la filosofia, la forza che non si lascia strappare da sé,  ed è quindi immutabile, eterna, e custode di tutte le cose che  nella vicenda terrena son divenute cose morte. Anche in  questo secondo caso - e proprio con l’intento di salvarsi  dall’angoscia del divenir altro - l’uomo cede al Dio la propria  eternità e immutabilità, il proprio essere.Un Dio che uccide,  dunque - sia come Dio religioso sia come quel Dio  tecnologico - che permane al di sopra del tempo degli  individui, ma rifiutando l’eternità dal vecchio Dio. Per  sopravvivere, l’uomo si fa divorare da lui. Da quando  Feuerbach mette in tensione la sentenza di Moleschott: der  Mensch ist, was er isst («l’uomo è ciò che egli mangia») con  Laffermazione che Gott ist was er isst (cioè che anche «Dio è  ciò che egli mangia») il nesso tra ontologia e nutrimento - e  tra nutrimento, sacrificio e annientamento - non ha più nulla  di implicito. (Cfr. in proposito il saggio di Ines Testoni II Dio  cannibale, Utet 2001, uno dei contributi più importanti in  questa direzione e che insieme si porta al di là dell’ontologia  da cui è dominata la storia dell’Occidente.) Il «diventare Dio»    362     esprime in forma positiva il diventare nulla dell’uomo. Tale  divenire è infatti un «sacrificarsi» al Dio. Hegel pensa che  nella religione lo «Spirito assoluto» veda sé come Altro, ceda  sé stesso all’Altro - al Dio, appunto. Feuerbach traduce questa  tesi hegeliana pensando che è l’«Uomo» a cedere sé stesso al  Dio. In entrambi i casi il Dio consuma l’essere dello «Spirito  assoluto» e dell’«Uomo». E anche Hegel e Feuerbach fondano  l’alienazione dello «Spirito» e dell’«Uomo» sulla fede nel  divenir altro.   Tuttavia, in gran parte delle immagini del divino lo  svuotamento dell’uomo che si aliena in Dio rispecchia lo  svuotamento del Dio che crea e salva l’uomo e il mondo.  Nonostante ogni intenzione contraria anche il Dio è un  divenir altro. Lo svuotamento del Dio per la salvezza  dell’uomo, che sta al centro del messaggio cristiano, sta al  centro dei miti precristiani: la morte del Dio è creatrice del  mondo. Il sacrificio del mactare victimam è preceduto dal  sacrificio dove la vittima è il Dio (Prajapati, Dioniso, Cristo)  che deve morire per creare o salvare il mondo. E ancor prima,  all’inizio del tempo umano, c’è la lotta tra il Dio e l’uomo,  dove il Dio è il Tremendum la cui inflessibilità non lascia  vivere l’uomo, cioè lo uccide e dove l’uomo, per vivere, deve  farsi largo e abbattere la divina barriera inflessibile, ossia deve  uccidere il Dio - giacché abbattendo la barriera e facendo  sempre più arretrare il confine dell’imbattibile (e collocando  Dio nell’«al di là» e infine negandone l’esistenza) l’uomo  uccide il Dio originariamente omicida (Cfr., ad esempio, E.S.,  L’intima mano, Adelphi 2010, IV, 1-2).    363     17. Ancora su «L’anello del ritorno»   Particolarmente interessanti i rilievi critici rivolti a L’anello  del ritorno da Vincenzo Vitiello e Francesco Totaro. Qui  rispondo brevemente solo ad alcune delle obbiezioni sollevate  (Cfr. gli atti del convegno su Nietzsche tenutosi nel 2004  all’università di Macerata).   Riprendendo un problema già sollevato in quel libro,  Vitiello osserva (pp. 131-132) che la volontà, che nella  dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale rivuole il già voluto,  «non vuole al modo del precedente volere», e quindi ciò che  ritorna non è l’uguale, ma un che di diverso. L’interpretazione  dell’eterno ritorno data in quel libro non riuscirebbe quindi a  mostrare l’inevitabilità di tale dottrina. Ne L’anello del ritorno  si rispondeva anticipatamente a questa obbiezione (p. 258)  dicendo che il ritorno dell’uguale non può essere il ritorno  dell’assolutamente identico, appunto perché un qualcosa  differisce dal ritorno di tale qualcosa. D’altra parte, Nietzsche  fonda la necessità che tutto ritorni; e Vitiello non prende  posizione rispetto a questa fondazione, ma si limita a indicare  l’assurdo che scaturirebbe qualora la si accettasse. Tuttavia,  per Nietzsche tale necessità sussiste nel senso che è necessario  che ciò che nell’eterno ritorno ritorna assolutamente identico  sia la totalità del contenuto voluto (la totalità che dunque è  «finita»), ma non la forma del contenuto, cioè il ritornare di  esso, il suo ripetersi. (Pertanto è necessario che tale forma,  ossia Inattività» del volere cresca all’infinito. E poiché  nemmeno ogni nuova ripetizione può costituirsi come un  «così fu», cioè come un passato immutabile e indipendente  dalla volontà, è necessario che ogni nuova ripetizione sia essa  stessa eternamente ritornante e ripetuta, eternamente  rivoluta: «l’attività è eterna», scrive Nietzsche. Il contenuto  ritorna eternamente, assolutamente identico; la forma cresce    364      all’infinito e ogni sua nuova configurazione incomincia a  ritornare, aH’infinito, e in questo senso «eternamente» essa  stessa.)   La critica di fondo sviluppata da Totaro nel suo confronto  con L’anello del ritorno riguarda la tesi, fondamentale anche  in questo libro, che anche per Nietzsche l’esistenza del  divenire - inteso come venire dal non essere e ritornarvi, da  parte degli enti - è l’evidenza suprema, la suprema verità.  Nella sua forma più generale questa tesi dice che, nel proprio  sottosuolo essenziale, il pensiero filosofico degli ultimi due  secoli (e Nietzsche è tra i pochi abitatori di tale sottosuolo)  non intende essere un semplice scetticismo, relativismo,  prospettivismo, ma intende essere anch’esso verità  assolutamente incontrovertibile, ossia intende anch’esso  come verità assolutamente incontrovertibile ciò che per  l’intera cultura e anzi per l’intera civiltà dell’Occidente è la  verità assolutamente e originariamente incontrovertibile:  l’esistenza, appunto, del divenire, inteso nel modo indicato (e  una qualsiasi forma di sapere che non intenda essere una  verità assolutamente incontrovertibile è una forma di  scetticismo). Anche per Nietzsche la «rappresentazione» del  divenire è indubitabile. Totaro invece lo nega, sostenendo che  anche per Nietzsche ogni rappresentazione, quindi anche la  rappresentazione del divenire, è «la posizione di un  permanente» cioè «una inevitabile fissazione del divenire»,  una negazione di esso, «un andare controcorrente rispetto al  flusso del divenire». Sennonché - rispondo -, se per  Nietzsche tutte le rappresentazioni metafisico-teologico-  morali hanno questo carattere, non tutte le rappresentazioni  lo hanno: per lo meno non l’ha quella rappresentazione che è  la teoria delle rappresentazioni di quel primo tipo, giacché se  qualsiasi conoscere avesse quel carattere, questa teoria non  potrebbe nemmeno rappresentarsi il divenire come tale, cioè    365     come quel «flusso» che viene «fissato», negato da quel primo  tipo di rappresentazioni «controcorrente». È indubbio che in  quella teoria il divenire è e appare come divenire, ossia è  identico a sé e quindi permanente; ma se questa identità e  permanenza non ci fossero, non ci sarebbe nemmeno  divenire e, questa volta sì, il divenire sarebbe negato e fissato  nel suo non esser divenire.   Come ho già detto altre volte, a partire da L’anello del  ritorno, il Nietzsche che si mostra nella interpretazione offerta  da questo libro ha la straordinaria potenza (insieme a pochi  altri abitatori del sottosuolo essenziale del pensiero filosofico  degli ultimi due secoli) di mostrare fimpossibilità del Senso  dell’essere che guida la tradizione metafisico-morale  dell’Occidente. Ammesso e non concesso che questa  interpretazione di Nietzsche sia insostenibile perché  violerebbe le proprie regole, bisognerebbe dire che allora  (modestia invita, ma inevitabilmente, quella straordinaria  potenza compete al Nietzsche arbitrario che appare ne  L’anello del ritorno. Ho detto anche altre volte che il «mio»  discorso filosofico dà anche una o due mani affinché il  pensiero del nostro tempo mostri tutta la potenza che gli  compete - lasciandolo poi al suo destino, che è quello di  essere la forma più coerente della follia estrema del divenir  altro. Le altre interpretazioni di Nietzsche (e dei pochi che  stanno al suo passo) non mostrano questa coerenza e potenza.   Restando ad esempio nell’ambito del convegno a cui ci  stiamo riferendo, un altro mio critico, Umberto Regina, scrive  che per Nietzsche «Dio è impensabile perché non consente  all’uomo di poter “sperare” di far suo tutto il mondo». Ma -  osservo - questo discorso non intimorisce Dio, che,  rimanendo al suo posto, può rispondere invitando l’uomo a  fare a meno di queste sue speranze, come appunto incomincia  ad accadere col Dio veterotestamentario, che a W’erimus sicut    366     dii - in cui si esprime la «speranza» del primo uomo di far  tutto suo il mondo -, risponde deludendolo, cioè cacciandolo  dal paradiso terrestre. Un Nietzsche che si fonda su tale  speranza - o sulle varie forme di «prospettivismo» - per far  morire Dio è ben debole. Il Nietzsche de L’anello del ritorno  ha invece la potenza di farlo morire per davvero.   (Per mostrare, poi, che la filosofìa di Nietzsche non ha  nulla a che vedere con le critiche ingenue che vengono rivolte  al principio di non contraddizione, ma, come in Hegel, è una  critica del modo inadeguato di intendere tale principio, è  sufficiente pensare l’espressione «l’eterno ritorno dell’uguale»  - die ewige Wiederkunft des Gleichen. Come prima si è  richiamato, ritorna eternamente l’ identico contenuto - ritorna  «ogni cosa... e tutte nella stessa sequenza e successione»,  scrive Nietzsche nella Gaia scienza - e una cosa può essere  identica, la stessa, solo in quanto non è le altre cose, ossia non  è contraddittoria: ritorna eternamente l’incontraddittorietà di  tutte le cose.)    367     18. La tecnica e il sottosuolo 1   Si parla di «governi tecnici» e di «tecnocrazia». Ma il senso  conferito oggi a questi termini è essenzialmente diverso dalla  più profonda dimensione tecnica sulla quale (ancora una  volta) inviterei a riflettere. I «governi tecnici» - ad esempio  quello sperimentato in Italia oppure, a livello europeo, il  governo costituitosi con l’asse Sarkozy-Merkel - sono  soltanto epifenomeni di quella dimensione: così come  l’immoralità e l’indifferenza religiosa delle masse sono  soltanto un epifenomeno della «morte di Dio» a cui si rivolge  il pensiero filosofico del nostro tempo.   Dal punto di vista etimologico, «tecnocrazia» significa,  certamente, «il kratos (il potere) alla tecnica». Ma per lo più  questo termine ha il senso di un ottativo, di un’aspirazione o  di una deprecazione: di un esortare verso la realizzazione o di  rifiutare o far rifiutare qualcosa che si ritiene più o meno  realizzabile, più o meno incombente. Si può andare più  indietro di Veblen o Spengler: si può arrivare agli inizi  dell’Ottocento, a Saint-Simon, il quale comincia a parlare di  necessità, di doverosità, di opportunità di dare il potere alla  tecnica.   Invece quella più profonda dimensione tecnica a cui mi  riferisco non è in alcun modo qualcosa a cui si invita, un  progetto, una ricetta, un’esortazione o un rifiuto, ma ha il  carattere di una descrizione, di una constatazione - che  peraltro si trova su di un piano ulteriore, e se si vuole  «astratto» rispetto a quello su cui di solito la riflessione  «fenomenologica» si mantiene (un’affermazione, questa, che  sottintende quell’elogio dell’«astratto» che Hegel invita a  condividere).   Nonostante abbia l’apparenza di un tema specialistico, il  discorso sulla «tecnocrazia negli anni Trenta» coinvolge    368    qualcosa di profondamente essenziale, che travalica i confini  geografico-temporali indicati da quel discorso, fino a  presentare, addirittura, un carattere planetario e a costituire  una svolta in cui ne va delfintera tradizione dell’Occidente e  dei suoi valori. Quel discorso coinvolge la «dimensione  tecnica», di cui abbiamo incominciato a parlare: in essa la  tecnica appare come destinata al dominio del pianeta. La  descrizione e constatazione di cui prima si è detto è  descrizione di una destinazione, cioè di una necessità. Si tratta  di capire in che senso queste affermazioni non siano  un’esagerazione arbitraria e incomprensibile, e in che senso la  tecnocrazia negli anni Trenta possa coinvolgere una  destinazione di questa portata.   Natalino Irti ha parlato dell’importanza di Ugo Spirito in  relazione alla situazione italiana di quel tempo. Ma prima e  alle spalle di Ugo Spirito c’è la figura decisiva di Giovanni  Gentile. Questo apprezzamento può stupire, perché (a parte le  riserve che si possono avanzare sul piano politico) non solo si  riferisce a una forma culturale che spesso vien guardata con  sospetto - cioè la filosofia -, ma anche perché si può dire che  la filosofia contemporanea ignori quasi completamente il  pensiero di Gentile (e in generale la filosofia italiana). Ignora,  però, ciò che essa ha di più decisivo ed essenziale.   Non solo: può sembrare anche molto strano che, a  proposito di tecnica e tecnocrazia, si parli di Giovanni  Gentile, visto che in Italia il pensiero di Gentile (ma anche  quello di Croce) è stato considerato radicalmente avverso alla  scienza e alla tecnica e quindi estraneo al nuovo clima  culturale postbellico. Si tratta di capire perché questa  prospettiva è completamente fuori strada.   Si incominci a rilevare che, sebbene ignorato, il pensiero di  Gentile afferma ciò che nel nostro tempo è affermato, si può    369     dire, ovunque (sia pure con tonalità e reazioni diverse): che  non esiste alcuna realtà immutabile e alcuna verità definitiva  al di là del mondo umano. Solo che, quasi sempre, questa  affermazione non è altro che un dogma, un presupposto che  vien dato per scontato, un’intuizione, un impulso, una fede,  qualcosa che sta diventando senso comune; laddove il  pensiero gentiliano (insieme a pochissime altre posizioni  filosofiche) è la fondazione rigorosa di tale affermazione.  «Rigorosa», nel senso che è la più coerente al fondamento che  è comune all 'intero pensiero dell’Occidente (quindi non solo  alle prospettive della tradizione filosofica, artistica, religiosa  che invece affermano l’esistenza di una Realtà immutabile e  «divina», ma anche alla prospettiva tecnico-scientifica). Tale  fondamento è la convinzione che il divenire del mondo, il  trascorrere delle cose dal non essere all’essere e daccapo al  non essere, sia l’evidenza più indiscutibile e originaria.  Gentile mostra che tale evidenza implica il divenire del Tutto.   A questo punto, ciò che passa inosservato - per chi non sa  scendere nel sottosuolo abitato dal pensiero di Gentile - è che  la negazione fondata di ogni Immutabile è la negazione di  ogni Limite assoluto e inviolabile che si innalzi di fronte  all’azione dell’uomo e quindi a quella forma dell’agire umano,  che oggi è la più potente, nella quale consiste l’agire della  tecnica.   Ciò significa che, di per sé, la tecnica non può sviluppare  tutta la potenza di cui è capace, ma può svilupparla solo alla  condizione che sappia ascoltare e capire la potenza  concettuale di quel sottosuolo. È questo sottosuolo filosofico a  dare potenza reale alla volontà di potenza della scienza e della  tecnica. Appunto per questo vado ripetendo che solo  apparentemente Gentile è stato fascista e che se c’è una forma  di filosofia radicalmente opposta al fascismo essa è proprio la  filosofia di Gentile. Il fascismo infatti, come ogni regime    370     politico totalitario è uno degli Immutabili di cui il pensiero  gentiliano ha mostrato l’essenziale impossibilità.  L’impossibile è un sogno che per qualche tempo riesce a  prevalere sulla veglia, ma dal quale è inevitabile che prima o  poi ci si risvegli.   Della fondazione gentiliana di questa impossibilità si può  dare qui solo qualche cenno, formulandola in modo che possa  venire alla luce la configurazione che è comune a tale  fondazione e a quella operata dai pochi altri abitatori del  sottosuolo filosofico del nostro tempo (quali Nietzsche e  Leopardi).   Gentile mostra che se esistesse una realtà immutabile - che  quindi sarebbe una realtà esistente in sé stessa, al di fuori e al  di là della nostra esperienza, cioè del nostro pensiero,  indipendente da essa (e questo è il volto che il divino ha  mostrato lungo la storia dell’uomo) -, il divenire delle cose, il  loro uscire dal nulla e ritornarvi, non avrebbe quella «serietà»  che invece gli compete per il suo essere l’evidenza originaria e  suprema. Innanzitutto, se esistesse un Dio in cui ogni cosa è  già contenuta prima ancora di essere prodotta o creata, allora  l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo,  sarebbe una semplice apparenza, non avrebbe «serietà». Ma  l’uscire dal nulla e il ritornarvi è l’evidenza e verità  fondamentale (è, questa, la suprema certezza dell’Occidente,  quindi anche di Gentile). Dunque non può esistere alcuna  realtà e quindi alcuna verità immutabile e divina, esistente al  di là dell’esperienza umana.   Si può riproporre così questo tratto decisivo della coscienza  contemporanea: sulla base della convinzione originaria che,  evocata dal pensiero filosofico, sta al fondamento non solo  delle forme religiose, della scienza moderna e di tutta la  cultura occidentale, ma anche delle stesse opere e istituzioni    371     dell’Occidente, sulla base dunque della convinzione che le  cose del mondo umano oscillano tra l’essere e il nulla, è  impossibile che esista qualcosa di assoluto, immutabile,  divino, perché esso, precontenendo tutte le cose, avrebbe già  riempito tutti gli «spazi vuoti» che sono richiesti dal divenire,  ossia avrebbe già riempito quel non essere che (come gli  antichi atomisti avevano compreso) è necessario che competa  alle cose quando ancora non sono e quando non sono più. Un  Dio immutabile («pieno», «satollo», dice Nietzsche) e quindi  una verità assoluta in cui questo Dio sia eretto sono la Legge  alla quale sia il futuro sia il passato più lontani devono  adeguarsi, sì che l’ormai nulla e l’ancor nulla non possono più  rimanere un nulla ma diventano degli ascoltatori della Legge,  cioè diventano qualche cosa di positivo, un essere.   Questo, sommariamente richiamato, il tratto decisivo della  coscienza moderna. Come già si è detto, esso è anche la  distruzione di ogni Limite (Legge) all’agire dell’uomo e quindi  all’agire della tecnica. La legittima a oltrepassare ogni limite.  La legittima quindi - essendo essa l’agire che di fatto è il più  potente nel mondo contemporaneo - a subordinare al  proprio scopo gli scopi di tutte le forze (politiche, religiose,  economiche, giuridiche ecc.) che invece intendono servirsi  della tecnica per realizzarli. Col compiersi di tale  subordinazione quelle forze cambiano volto, tramontano.   Richiamiamo ora, anche qui, e sommariamente, la  giustificazione di queste affermazioni (rinviando ai miei  scritti per il suo senso concreto).   Ci si rivolga innanzitutto a un concetto che pur essendo  ampiamente presente anche nelle discipline scientifiche va  però esplorato al di là delle prestazioni da esso offerte in quei  campi. Mi riferisco al concetto di mezzo e di scopo.   Lo scopo di un’azione determina il modo in cui essa si    372     costituisce: ne determina il senso e l’essenza. Se si decide di  uscire di casa (o di fondare un impero), il contenuto di questa  decisione fa sì che si compiano certe azioni e non altre,  diverse cioè da quelle che si compirebbero se si decidesse di  rimanere in casa. Lo scopo determina la struttura dell’azione.  Pertanto, se lo scopo di un’azione cambia, l’azione cambia, è  un’altra azione anche se in certi casi si può credere che sia  rimasta la stessa.   La tecnica guidata dalla scienza moderna è il mezzo di cui  si servono o si sono servite tutte le forze dominanti  (capitalismo, democrazia, cristianesimo, islam, comuniSmo e  altri regimi totalitari ecc.). Intendono servirsi della tecnica per  realizzare i loro scopi, cioè per realizzare, ognuna prevalendo  sugli scopi delle altre, un mondo capitalistico, democratico,  comunista, islamico, cristiano ecc. E la tecnica è il loro mezzo:  non esiste oggi uno strumento più potente della tecnica.   Il teorema sul quale va richiamata l’attenzione è che le  forme di azione che perseguono gli scopi rispetto ai quali la  tecnica moderna è il mezzo insostituibile, sono costrette ad  assumere come scopo lo scopo che è proprio della tecnica,  mentre i loro scopi iniziali sono costretti a diventare mezzi  del loro nuovo scopo.   Le forze che si servono della tecnica sono infatti tra loro  conflittuali. Il capitalismo è in conflitto con la democrazia (sia  di tipo classico sia procedurale), la democrazia procedurale  con il cristianesimo, il cristianesimo col capitalismo e col  comuniSmo ecc. La democrazia intende porre dei limiti alla  volontà di profitto privato; questa volontà non vuol farsi  limitare dal principio democratico e innanzitutto cristiano del  «bene comune»; il cristianesimo e la Chiesa cattolica in  particolare riconoscono al capitalismo il suo essere un mezzo  di produzione della ricchezza più efficace dell’economia    373      pianificata, e tuttavia gli ingiunge di assumere come scopo  ultimo non il profitto privato, ma, appunto, il «bene  comune».   In tale conflitto ogni forza mira quindi a che le forze  antagoniste assumano come scopo uno scopo diverso da  quello che le definisce e per il quale esse sono ciò che sono, e  cioè mira a distruggerle. Quando la Chiesa dice al capitalismo  di non assumere come scopo ultimo l’incremento indefinito  del profitto privato, che invece deve essere soltanto un mezzo  per realizzare il «bene comune», essa sollecita il capitalismo a  non esser più capitalismo. (E questo va detto anche  riconoscendo che la Chiesa, spingendo oggettivamente il  capitalismo al tramonto, non ha l’intenzione di distruggerlo e  intende differenziare il proprio all’agire marxista-comunista,  senza peraltro riuscirvi.)   Nella conflittualità tra le forze dominanti, il mezzo di cui  tutte si servono per prevalere sulle altre è oggi la tecnica: la  tecnica, intesa in senso, per così dire, «trascendentale», cioè  come sistema dei sottosistemi (giuridico, sanitario, militare,  burocratico, economico, scolastico ecc.) che coordinano  razionalmente mezzi in vista della produzione di scopi tra  loro non conflittuali.   Ma, dato il rapporto conflittuale tra le forze dominanti,  ognuna di esse, per prevalere sulle altre e non soccombere, è  costretta a rafforzare sempre di più il mezzo di cui essa si  serve, ossia la frazione dell’apparato scientifico-tecnologico da  essa gestito. Questa volontà di rafforzamento del mezzo è  crescente perché è continuamente alimentata dalla situazione  conflittuale.   Questa crescita toglie spazio, dunque, allo scopo iniziale di  ognuna di tali forze; lo scopo di ognuna di esse viene cioè  sempre più occupato dal potenziamento del mezzo. Fino a    374     essere completamente occupato, in modo che lo scopo iniziale  resta subordinato al nuovo e diventa un mezzo per la  realizzazione del nuovo scopo. Ad esempio, se lo scopo è un  mondo capitalista, allora, per realizzarlo vincendo le  resistenze opposte dalle altre forze, è necessario che il  capitalismo potenzi le possibilità tecnologiche di cui esso  dispone; ma incrementando questo potenziamento è  necessario che il capitalismo assuma come scopo non più  soltanto l’incremento del profitto, ma l’incremento del  potenziamento del mezzo tecno-scientifico. E come prima si  diceva che quando la Chiesa esorta il capitalismo ad assumere  come scopo il «bene comune» essa distrugge il capitalismo,  così ora va detto che, quando l’area dello scopo del  capitalismo a un certo punto viene completamente invasa dal  potenziamento (promosso dal capitalismo stesso)  dell’apparato della tecnica, la tecnica distrugge il capitalismo  - appunto perché, assumendo uno scopo diverso da quello da  cui è definito, il capitalismo non è più capitalismo (anche se si  continua a chiamare con questo nome ciò in cui esso si è  trasformato). E non più capitalismo anche quando l’area dello  scopo capitalistico è anche solo parzialmente invasa.   Quanto si è detto del rapporto tra capitalismo e tecnica va  ripetuto anche in relazione a ogni altra forza oggi dominante.  Le forze che non potenziano il proprio mezzo tecno-  scientifico soccombono; ma soccombono anche le forze che  prevalgono perché tale potenziamento l’hanno operato.   Tuttavia il rovesciamento del rapporto tra tecnica e forze  che se ne servono per realizzare i loro scopi dipende da una  condizione decisiva.   Sino a che gli scopi di queste forze sono da esse vissuti  come imposti da una «Verità» immutabile e assoluta, esse  eviteranno di alterarli e si opporranno al loro spodestamento    375     da parte della tecnica. Ognuna di esse si farà spezzare  piuttosto che piegarsi e la forza vincente della tecnica sarà  giudicata illegittima, ingiusta, malvagia, prevaricante,  tirannica, disumana, dissennata - priva di verità, appunto. E  comunque, anche se non giungeranno a farsi spezzare, quelle  forze renderanno il più possibile difficile il prevalere della  tecnica e le imporranno, come Limiti che essa non deve  oltrepassare, i valori della «Verità» in cui esse credono.  (Limiti che non sono soltanto etico-religiosi, ma anche di  carattere diverso, come quello economico. Ad esempio il  capitalismo, oltre a porre come «Verità» assoluta e come  Limiti inviolabili la proprietà privata e la libertà di intrapresa,  proibisce alla tecnica di produrre beni che non possono essere  venduti, o la cui vendita non produce un profitto ritenuto  conveniente, anche se sono indispensabili alla sopravvivenza  degli insolventi - e tale proibizione è inevitabile se il  capitalismo vuol sopravvivere.)   Ma oggi la fiducia nell’esistenza della «Verità» va  tramontando. Questo è il clima che, procedendo  dall’Occidente, sta diventando planetario - destinato com’è a  travolgere fenomeni di crescente presenza del cristianesimo  nei continenti extraeuropei. (Nell’Unione Sovietica i sacrifici  richiesti ai cittadini potevano essere sopportati quando era  più diffusa la convinzione che il marxismo fosse una «Verità»  assoluta e che quindi la produzione tecnico-economica della  ricchezza dovesse innanzitutto servire alla promozione e  difesa di tale «Verità» e non alla riduzione di quei sacrifici.  Ma, quando questa convinzione è venuta meno, è venuta  meno, oltre alla disponibilità dei cittadini al sacrificio  richiesto per realizzare la «società giusta» e senza classi, anche  la disponibilità dell’apparato tecno-scientifico a essere il  mezzo per tale realizzazione.)   Ora, il fuoco sotto la cenere del progressivo    376     allontanamento delle masse dalla «Verità», divina o terrena, è  il sottosuolo filosofico del nostro tempo (il sottosuolo abitato  da pensieri decisivi come quelli di Gentile o di Nietzsche),  dove - si è richiamato - si mostra Yimpossibilità di ogni  Immutabile, quindi di ogni «Verità» immutabile, di ogni  inviolabile Limite all’agire delfuomo e pertanto all’agire  tecnico. E tale impossibilità è l’impossibilità che gli scopi delle  forze ancora convinte di potersi servire della tecnica siano  l’adeguazione dell’agire alla «Verità» immutabile, che ora (ma  ancora, per lo più, sotto la cenere) si palesa come un sogno.  La coscienza che l’Apparato scientifico-tecnologico ha ancora  di sé stesso è ancora cenere, la cenere che copre il fuoco del  sottosuolo, e quindi tende a essere ancora una fede  nell ’inesistenza degli Immutabili e nella «morte di Dio»; ma,  nella misura in cui quel fuoco si libera dalla cenere di tale  fede, in questa misura la subordinazione della tradizione  dell’Occidente (e del pianeta) alla tecnica è inevitabile.   Si può richiamare un ulteriore aspetto del rovesciamento  per il quale il potenziamento della tecnica diventa lo scopo  delle forze che intendono servirsi di essa. Riguarda il rapporto  tra capitalismo e tecnica - il capitalismo essendo ancora,  nonostante la sua crisi profonda, la più potente delle forze che  dominano il mondo, visto che è da essa che viene organizzata  la produzione dei beni di consumo e della ricchezza. A un  aspetto soltanto di tale rapporto qui si farà cenno.   Non può esistere capitalismo senza perpetuazione della  scarsità delle merci prodotte. Un bene di consumo totalmente  disponibile non è merce, non è vendibile, nessuno è  interessato a produrlo o ad acquistarlo. E il capitalismo,  essenzialmente legato alla perpetuazione della scarsità, si  serve della tecnica per produrre merce.   D’altra parte la tecnica, proprio in quanto mezzo, ha un    377     proprio scopo fondamentale e supremo: l’aumento indefinito  della capacità di realizzare scopi. Questo scopo non è  escludente - a differenza degli scopi delle forze che si servono  della tecnica. Non è escludente anche perché esso è un mezzo  capace di realizzare gli scopi tra loro conflittuali perseguiti da  tali forze. (Lo scopo del capitalismo è invece un mondo  capitalistico e non comunista, e viceversa; lo scopo del  cristianesimo è un mondo cristiano e non ateo ecc.)   Ora, se per sopravvivere il capitalismo deve perpetuare la  scarsità delle merci e si serve della tecnica - la quale ha  peraltro come scopo fondamentale l’incremento indefinito  della potenza, ossia della capacità di realizzare scopi -, va ora  rilevato che l’incremento indefinito della potenza implica  Veliminazione progressiva della scarsità. La situazione è cioè  quella di un padrone che si serve di un servo il cui scopo è  l’ehminazione del padrone. Il capitalismo si serve di un servo  (la tecnica) che lavora per lo spodestamento del padrone.  Nella dialettica di servo e padrone, Hegel mostra appunto che  la storia è fatta dai servi: per servire il padrone essi devono  acquistare competenze, sollevandosi quindi al di sopra di  quelle del padrone; elaborano tecniche e conoscenze  scientifiche, gestiscono e quindi si impadroniscono di quella  potenza scientifico-tecnologica che finisce per rovesciare, il  rapporto feudale servo-padrone.   Ma, anche qui, il servo può rovesciare il padrone solo se  non crede più che egli sia il portatore della «Verità» - solo se  la tecnica non crede più che il capitalismo, quindi la  perpetuazione della scarsità delle merci, sia la «vera» e  insuperabile condizione umana. La contraddizione in cui  consiste il rapporto fra forze che si servono della tecnica e  tecnica si acuisce e diventa estrema quando cioè viene in luce  che gli scopi delle forze che si servono della tecnica non  hanno una «Verità» assoluta. E a portare alla luce la morte    378     della «Verità» e di Dio non può essere la scienza o la tecnica  (che quando tentano di farlo sono soltanto cattiva filosofia)  ma, si è visto, è il sottosuolo filosofico del nostro tempo. (Così  come, d’altra parte, non può essere una fede a rifiutare quella  morte e il principio che tutto ciò che si può fare sia lecito  farlo.)   Non ci si può dunque limitare alfawertimento che la  tecnica non ha limiti. Il sapere che dà questo avvertimento è  innegabile - è il sottosuolo di cui stiamo parlando -, solo in  quanto mostra che è sul fondamento di ciò in cui da ultimo  credono sia gli stessi difensori dei Limiti sia la tecnica stessa, è  su tale fondamento che viene affermata l’assenza di Limiti. Da  ultimo sia la tecnica sia i difensori dei Limiti all’agire  dell’uomo credono, appunto, nell’esistenza dell’agire.   Lo si crede lungo l’intera storia dell’uomo. Si crede che le  cose possono essere smosse, controllate, prodotte, create e  distrutte. Per la prima volta il pensiero greco intende la  creazione (produzione) come l’uscire dal non essere e la  distruzione come annientamento. Pensando per la prima  volta l’«essere» e il «niente» conferisce un senso «ontologico»  al creare e al distruggere. In modo sempre più diffuso lungo la  storia dell’Occidente si crede che l’agire sia creare e  distruggere in senso ontologico. Se non credesse in questo  senso della creabilità e annientabilità delle cose, l’Occidente  non esisterebbe: non esisterebbe, in esso, azione (umana o  divina o della natura), quindi non esisterebbe nemmeno  azione tecnico-scientifica. La scienza e la tecnica credono nel  senso ontologico dell’agire anche quando sono convinte di  non aver nulla a che vedere con l’«essere» e il «niente».   Nel suo senso più alto e autentico, la tecnocrazia è l’ascolto,  da parte della tecnica, della voce del sottosuolo filosofico del  nostro tempo - della voce che, sul fondamento della    379     convinzione che l’agire esiste secondo il senso ontologico  evocato dall’Occidente, fa sentire l’impossibilità dell’esistenza  di un Limite assoluto all’agire così inteso, che peraltro è la  forma radicale dell’agire. Nella misura in cui la tecnica dà  ascolto a quella voce (e tale ascolto è un processo in corso, che  ancora fatica ad affermarsi), lo scopo della tecnica, ossia  l’incremento indefinito della potenza, è destinato al dominio  del mondo, cioè a presentarsi come lo scopo delle forze che  ancora vogliono servirsi della tecnica, trattenendola al ruolo  di semplice mezzo. Poiché Gentile è uno dei pochi abitatori di  quel sottosuolo il tema della tecnocrazia negli anni Trenta  non solo non ha carattere specialistico, ma coinvolge, come si  è già rilevato, il problema centrale del nostro tempo: dove sta  andando il mondo?   Ma, ora, si aggiungeranno soltanto alcune sottolineature e  alcune precisazioni - rinviando al modo in cui nei miei scritti  si configura l’affermazione che il mondo sta andando verso la  dominazione della tecnica. (E comunque, si ripeta, non si  tratta di consigliare al mondo dove debba andare, ma di  osservare dove è destinato ad andare. È patetico voler dire ai  popoli quello che devono fare: si tratta invece di capire che  cosa sono destinati a valere e a fare.)   Nel suo significato più profondo la tecnica non ha nulla a  che vedere con la concezione scientifico-tecnicistica della  tecnica (e tanto meno con i «governi tecnici di cui oggi si  parla). Mostrando l’inesistenza di ogni Limite inviolabile, il  sottosuolo filosofico del nostro tempo non solo legittima la  volontà di potenza della tecnica e il suo oltrepassamento di  ogni limite, ma li rende possibili. Se non si sa di avere in  mano una spada invincibile non ce se ne serve e non si vince.  Di qui (anche di qui) il carattere radicalmente «pratico» del  pensiero filosofico, ossia di ciò che è il più «astratto».  L’ascolto della voce del sottosuolo, da parte della tecnica, è un    380     processo in atto che ancora è ostacolato dalle voci della  superficie. La voce autentica dice che il vero tramonto degli  Immutabili è dovuto alla necessità che la loro esistenza renda  impossibile quel nulla del futuro e del passato, quel senso  ontologico del divenire che ormai ovunque è considerato  come l’evidenza suprema. La potenza della tecnica è dovuta al  carattere «pratico» del sottosuolo filosofico, non alla  «praticità» del sapere matematico (o fisico-matematico) che  sta al cuore della tecnica. Il che va detto anche se oggi questo  secondo carattere è il fattore per il quale la tecnica ha più  potenza di altre forze. Tale maggior potenza è però una  situazione storica contingente, perché se accadesse  nuovamente che pregando si muovano le montagne e le si  muovano più di quanto la tecno-scienza riesca a muoverle,  allora la tecnica non sarebbe più quella fisico-matematica ma  quella pregante, destinata dunque essa al dominio del mondo  (e, certamente, diversa da quella che si rivolge alfimmutabile  «Verità» di un Dio).   Se la dimensione economica - la più potente delle forze che  si servono della tecno-scienza - domina ormai la politica e le  strutture statuali (si pensi al peso che grava su di esse in forza  della globalizzazione capitalistica), ora è la stessa economia  che sta per essere oltrepassata dalla tecnica. Non nel senso che  non esisterà più economia, ma nel senso che, mentre per il  capitalismo la tecnica serve per incrementare il capitale, si sta  andando verso un tempo in cui il capitale servirà per  incrementare la potenza tecnica.   E l’uomo? Molte, le voci che accusano la tecnica di essere  disumanizzante. Ma che cos’è l’«uomo» nella cultura  occidentale, ormai planetaria? Al di sotto delle molteplici  definizioni dell’esser uomo agisce un tratto a esse comune - e  decisivo -, per il quale l’uomo è un centro di forze cosciente,  capace di organizzare mezzi, in vista della produzione di    381     scopi. (Anche l’uomo mistico è e intende essere questo  centro. Il mistico è infatti il supertecnico: apre le braccia alla  suprema e infinita potenza di Dio e crede, lasciandosi  invadere da essa, di poter essere estremamente più potente  deWhomofaber spesso dimentico di Dio.)   Ma la definizione dell’uomo come centro cosciente di  forze, capace di organizzare mezzi in vista della produzione di  scopi, è la definizione stessa della tecnica. E allora non si  dovrà forse dire che la tecnica è Yinveramento massimo  dell’uomo, ossia che l’uomo trova nella tecnica la propria  essenza più profonda, così come, nel tempo che precede la  morte di Dio, è nella potenza, ossia nella tecnica divina che  l’uomo trova e vive il più profondo esser sé stesso?   Anche Dio è stato l’inveramento massimo dell’uomo,  perché l’uomo, che da principio chiede a Dio di salvarlo, poi  si rende conto che per essere salvo deve essere innanzitutto  salvaguardata la potenza del Salvatore, perché se Dio diventa  un mezzo nelle deboli mani dell’uomo, bisognoso di salvezza,  allora anche Dio in quelle mani diventa un debole strumento  di salvezza. Nello stesso modo, quando l’uomo si rivolge alla  tecnica per essere salvato, e dopo averla assunta come mezzo  nelle proprie mani si rende conto di poter esser da essa  salvato solo se egli non assume come scopo la propria  salvezza ma il potenziamento dello strumento salvifico, allora  egli trova e vive nella Tecnica il più profondo esser sé stesso. E  lo trova e lo vive solo se la tecnica si è posta in ascolto del  sottosuolo essenziale del nostro tempo.   La discrasia tra tecnica e uomo - la disumanizzazione  dell’esistenza da parte della tecnica - riguarda quindi le  diverse concezioni «ideologiche» dell’esser uomo, cioè l’uomo  cristiano, l’uomo capitalista, comunista ecc.; non riguarda il  tratto essenziale che è a esse sotteso. Tale tratto dice che    382     l’uomo è azione, prassi, volontà cosciente e convinta di avere  la capacità di trasformare le cose fino a farle diventare, da  nulla, essenti e, da essenti, nulla.   L’uomo «ideologico» viene certamente «messo da parte»  dalla tecnica autentica, che ascolta il sottosuolo. La tecnica  non ha come scopo il benessere o la felicità dell’uomo, ma  quel potenziamento indefinito di sé stessa che peraltro dà  all’uomo più benessere e felicità di quelli che egli otterrebbe  se essi fossero lo scopo del suo agire. Sì che egli è «messo da  parte» non come tratto comune ai diversi modi «ideologici»  di intendere l’uomo, ma, appunto, come uomo «ideologico»  che, da scopo, diventa mezzo per l’aumento indefinito della  potenza tecnica. Anche la scienza e la tecnica sono  «ideologie», cioè non sono verità incontrovertibili, ma sono le  ideologie più potenti - sebbene il sottosuolo filosofico che  conferisce loro l’effettiva potenza sia, ormai per l’intero  pianeta, e più o meno esplicitamente, la suprema e unica  verità incontrovertibile.   A questo punto è possibile intrawedere Yinizio del sentiero  che conduce a un Sottosuolo essenzialmente più profondo di  quello di cui si è parlato sin qui. Si può esprimere così tale  inizio. In quanto unita al sottosuolo filosofico del nostro  tempo, la tecno-scienza non è scetticismo ingenuo, appunto  perché in questa unione si nega l’esistenza non di ogni verità,  ma di ogni «Verità» immutabile che stia al di là di ciò che nel  sottosuolo appare come l’unica verità incontrovertibile: l’agire  del divino, dell’uomo, della natura, cioè l’oscillazione delle  cose tra il loro non essere e il loro essere, per la prima volta  evocata dal pensiero filosofico greco.   Del carattere «pratico» della filosofia che abita il sottosuolo  del nostro tempo, si è già detto. Ma quella evocazione ha un  carattere «pratico» ancora più decisivo, perché solo se si crede    383     nella disponibilità delle cose al loro oscillare tra il non essere e  l’essere è possibile l’agire e quella forma estrema dell’agire che  è l’agire in senso «ontologico». L’evocazione greca di tale  senso è il luogo nel quale soltanto è potuta e potrà crescere  l’intera storia dell’Occidente.   Tuttavia, se ovunque si è convinti della verità  incontrovertibile di quel luogo, perché tale convinzione è  verità incontrovertibile?   Questa domanda suona assolutamente strana. Non è forse  ovvio, e sin dagli inizi dell’uomo, che l’agire esiste e che le  cose vanno dal non essere all’essere e viceversa? Non si perde  tempo a prenderla in considerazione?   È inevitabile che sembri strana. La si ascolta infatti stando  all’interno del luogo che da tale domanda è messo in  discussione. Ma perché è necessario rimanere all’interno di  quel luogo?    384     19. Innocenza del divenire e valore dell’uguaglianza   Se spesso gli storici del pensiero filosofico vedono gli alberi  - come si suol dire - ma non la foresta, non è certo questa  una critica che si possa muovere all’imponente e poderosa  ricerca di Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle  aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico (Bollati  Boringhieri 2002). Egli mostra come il pensiero di Nietzsche  sia potentemente unitario e come in esso le variazioni non  siano casuali. Anche per Leopardi si è dovuto attendere molto  tempo prima che lo si capisse - e non è che oggi tutti  l’abbiano capito. Sono d’accordo con Losurdo anche  nell’individuazione del tratto o «elemento» che determina il  carattere unitario del pensiero di Nietzsche.   Egli considera Nietzsche «filosofo totus politicus», ma  questa espressione non riduce il suo pensiero alla dimensione  specialistica della «politica»: all’opposto, intende «“salvare” il  filosofo nella sua interezza», cioè nella sua volontà di  «abbracciare e comprendere la realtà nella sua totalità» e nel  suo «assillo di intervenire attivamente su di essa» (p. 900).  «Solo non rimuovendo l’elemento che l’attraversa in  profondità, solo tenendo ben presenti la critica e la denuncia  militante della rivoluzione e della modernità, è possibile  cogliere l’unità del pensiero di Nietzsche e la sua interna  coerenza» ( Ibid .). Losurdo scorge che per Nietzsche la  «modernità» e la «rivoluzione» hanno un inizio lontanissimo  nella storia dell’Occidente: incominciano con Socrate; e, da  ultimo, il loro avversario autentico, al di sotto delle sue  molteplici forme, è l’«innocenza del divenire» - quella in cui  forse vive il più antico uomo greco, l’uomo dionisiaco, e nella  quale intende consapevolmente abitare il superuomo  annunciato da Nietzsche. Il divenire è innocente quando,  liberato da ogni Verità assoluta e da ogni Dio immutabile che    385     intendono assoggettarlo, è liberato anche da ogni «colpa» che  gli deriverebbe dal suo non adeguarsi alle Leggi vere e divine.   Il quadro presentato da Losurdo è tra i più fedeli e  pregevoli. Ma quando si mostra il corpo di un lottatore, la  rappresentazione è concreta - ossia non è un semplice dipinto  -, quando riesce a mostrare la forza del lottatore, cioè la sua  effettiva capacità di vincere gli avversari. Nietzsche appartiene  al ristretto gruppo dei grandi lottatori che riescono a  distruggere i nemici del divenire, i nemici che formano l’intera  tradizione dell’Occidente. La ricerca di Losurdo è quanto mai  pregevole, ma ancora non dà a Nietzsche quel che è di  Nietzsche, cioè la sua straordinaria potenza speculativa, che  esige di essere riconosciuta anche aH’interno della riflessione  storica.   Per cogliere tale potenza bisogna fare i conti con coloro che  a essa si sono esplicitamente rivolti. Per esempio Heidegger.  Ma qui sarebbe modestia fuori luogo se non mi riferissi anche  a L’anello del ritorno. Sul quale inviterei Losurdo a riflettere -  anche perché la scansione meno convincente del suo libro è  proprio data dal modo in cui egli fa rientrare il tema  deH’eterno ritorno nel «Nietzsche totus politicus» che lotta per  la salvaguardia dell’innocenza del divenire.   Losurdo, giustamente, dà valore al modo in cui Nietzsche  intende sé stesso. Ma a un certo momento Nietzsche stesso ha  posto al di sopra di tutte le proprie dottrine quella dell’eterno  ritorno. Sembra che a questo fatto Losurdo non dia il peso  dovuto e che, anche lui, si ritragga dal problema. Che certo, è  gigantesco: il divenire, cioè la negazione deH’eterno, è un  ritorno eterno! Ancora non si comprende che tale dottrina  non è una stranezza, ma, come Nietzsche stesso asserisce, è  quella «nuova conoscenza» che è «necessità» suprema,  innegabile e incontrovertibile. Ma, daccapo, non basta    386     asserirlo: bisogna mostrarlo in concreto. Nietzsche l’ha  potentemente mostrato, mostrando l’implicazione  «necessaria» tra divenire e eterno ritorno. Anche lo storico ha  il compito di non nascondere tale potenza.   Soprattutto la filosofia è equivocabile. Rivolge lo sguardo  verso temi che tutti credono di conoscere. Grandi filosofi  sono anche straordinari scrittori e, tra chi li legge, si crede che  accostandosi al linguaggio letterario si abbia in mano il suo  senso filosofico. Quasi sempre i mass media comunicano  «tesi», dominati dalla convinzione che ogni tentativo di  discuterle le sbiadisca, le tolga di scena, le indebolisca. E  invece c’è filosofia solo quando le «tesi» sono radicalmente  discusse, fondate, argomentate. Si potrebbe continuare a  lungo.   Bene ha fatto dunque Luciano Canfora a riconsiderare  («Corsera», 11/1) gli equivoci che possono nascere intorno  alla filosofia di Nietzsche. Sostiene che i grandi pensieri  «hanno a che fare» con le loro «conseguenze»; ad esempio il  Vangelo con la storia della Chiesa; Marx con l’Unione  Sovietica, Nietzsche con il nazionalsocialismo e il razzismo.  Ma quasi a parare l’obbiezione che la luce del sole ha a che  fare sia con l’azzurro del cielo sia con la putrefazione dei  cadaveri, Canfora richiama il «fatto» che in Nietzsche i valori  dell’uguaglianza (morale del dovere, democrazia, socialismo)  sono rifiutati. E il «fatto» c’è indubbiamente.   Tuttavia questi valori - che in parte sono anche cristiani -  hanno a loro volta a che fare con le loro conseguenze, tra le  quali le crociate, il periodo del «terrore» durante la  rivoluzione francese, la stessa rivoluzione sovietica e il  comuniSmo, la soppressione fisica di chi, di volta in volta, è  stato ritenuto immorale. Nessuno è innocente, nemmeno i  nemici del «superuomo» di Nietzsche.    387     È però necessario che si capisca perché Nietzsche abbia  questi nemici. Non si può affermare che egli è un «ribelle  aristocratico» (Canfora riprende l’espressione dal libro di  Domenico Losurdo) nello stesso modo in cui si dice che il  nostro calzolaio vota per questo o quell’uomo politico (con  tutto il rispetto per i calzolai). Si deve invece capire quale  fondamento filosofico abbia condotto Nietzsche a  quell’atteggiamento. Egli si ribella all’intera tradizione  occidentale, perché ne mostra l’insostenibilità. Non vedo,  ripeto da tempo, che si facciano o si siano fatti sforzi  consistenti in tale direzione.   Heidegger ha sostenuto che Nietzsche è rigoroso come  Aristotele. Sono d’accordo. Ma si tratta di capire perché lo sia.  In Nietzsche, si crede, «c’è tutto e il suo contrario». Un  eminente illogico. (Anche Leopardi è stato trattato come un  dilettante che andava compitando la filosofìa. Il «fatto» è che  quelli che lo leggevano, non capivano.) Se il nostro calzolaio si  contraddicesse come spesso si crede che Nietzsche si sia  contraddetto, non gli faremmo più aggiustare le scarpe. Nel  suo Saggio sullo Hegel, Croce, (che giustamente è assunto da  Canfora come affidabile punto di riferimento nel problema-  Nietzsche) scrive, della Nascita della tragedia di Nietzsche:  «Per quel che concerne la logica, quale migliore propedeutica  si potrebbe consigliare di questo immaginario antihegeliano  per intendere la soluzione che lo Hegel propose del problema  degli opposti?».   La nietzschiana «morte di Dio» che sta alla base del  «superuomo» appartiene al significato essenziale dello stesso  pensiero crociano, anzi di tutta la filosofia (e quindi la  cultura) contemporanea. (A tale significato appartiene anche  quel Gramsci che incautamente «sardonico» riconduceva il  «superuomo» di Nietzsche al conte di Montecristo e ai  «romanzi di appendice».) Nietzsche rifiuta i valori    388     dell’uguaglianza perché essi sono legati al Dio che muore. Ma,  soprattutto qui, si tratta di capire perché egli annuncia la  «morte di Dio».    389     20. Rawls, Hegel, Kant   John Rawls è molto conosciuto in Italia per iniziativa  meritoria di alcuni studiosi come Salvatore Veca, Sebastiano  Maffettone e altri. Nel 1982 Feltrinelli aveva pubblicato Una  teoria della giustizia, l’opera maggiore di Rawls, e nel 2004 le  sue Lezioni di storia della filosofia morale, apparse negli Stati  Uniti nel 2000.   Sono una gradita sorpresa soprattutto per l’ampia e  approfondita attenzione che dedicano a grandi figure della  filosofia moderna come Leibniz, Hume, Hegel e soprattutto  Kant. Un riconoscimento dell’importanza della filosofia,  osserva giustamente Veca nella «Nota all’edizione italiana»,  «non abituale nella tradizione che per mera convenzione  possiamo chiamare analitica, entro cui la ricerca e  l’insegnamento di Rawls si situano».   Lo stesso Rawls riconosce «le radici kantiane di Una teoria  della giustizia», ma queste Lezioni si spingono sino ad  affermare che lo stesso Hegel è «un liberale riformista  moderatamente progressista», che si muove lungo quella linea  del «liberalismo della libertà» che da Kant (senza escludere  J.S. Mill) giunge a Una teoria della giustizia.   Rawls può sostenerlo, perché è convinto che «buona parte  della filosofìa morale e politica di Hegel possa reggersi da  sola», cioè indipendentemente dal suo fondamento  metafisico-speculativo. E, certo, qui c’è molto da discutere,  anche perché è poi lo stesso Rawls a coinvolgere quel  fondamento in momenti cruciali della sua interpretazione di  Hegel.   È chiaro che le cose vanno invece del tutto lisce nella parte  più ampia e centrale di queste Lezioni, dedicata a Kant. Il  gesto essenziale di Kant consiste infatti nel porre la filosofia  morale e politica come, appunto, una dimensione    390     indipendente dalla metafisica. Primato della ragion pratica.  Non a caso, un saggio di Rawls tradotto recentemente in  italiano da Edizioni di Comunità è intitolato Vindipendenza  della teoria morale.   Non sembra tuttavia che Rawls risolva il problema relativo  alla genesi del teorema del primato della ragion pratica. In  Kant questo teorema presuppone la critica del sapere  metafisico. Se questa critica cade, cade anche quel teorema.  Ad esempio non si potrà più dire che 1’esistenza di Dio,  f immortalità delfanima, la libertà sono «postulati della  ragion pratica» e non verità metafìsiche.   Ma Fidealismo classico - Schelling, e Hegel in particolare -  ritiene di aver messo in luce i presupposti arbitrari e da  ultimo contraddittori che stanno alla base del rifiuto kantiano  del pensiero metafìsico. Questa convinzione delfidealismo  non è cosa da poco - e soprattutto non può esser messa da  parte perché sembra trovarsi in contrasto col sapere  scientifico.   Purtroppo Rawls non entra in questo tipo di problemi. E  questo può essere il limite (del tutto comprensibile) di questo  suo magistrale interesse - per molti imprevedibile - per le  grandi forme del pensiero filosofico.    391     21. Bergson e la realtà del tempo   «Possiamo riassumere la filosofìa di Bergson in una singola  idea: il tempo è reale.» Lo afferma Leszek Kolakowski  alfinizio del suo studio del 1985: Bergson (Palomar dialoghi  2005, che ricostruisce il pensiero di Kolakowski, dedicato  soprattutto alla storia critica del cristianesimo e del  marxismo). Kolakowski aggiunge subito che se l’affermazione  «il tempo è reale» «non suona particolarmente illuminante,  originale o stimolante», essa è invece il «nucleo» di «una  visione del mondo del tutto nuova», perché «dire che il tempo  è reale equivale a dire che il futuro assolutamente non esiste»  - e questa tesi è invece stata in vari modi negata nelle forme  di pensiero che credono in una qualche forma di  anticipazione del futuro. In questa pagina Kolakowski si  riferisce al determinismo e alla fisica, ma sa bene che per  Bergson anche la concezione tradizionale del Dio onnisciente  e immutabile è un modo di affermare l’anticipabilità del  futuro.   L’implicazione tra realtà del tempo e assoluta inesistenza  del futuro è indubbiamente decisiva, come appunto ritiene  Kolakowski, e conduce al rifiuto più radicale della tradizione  dell’Occidente. Ma questo rifiuto che si basa sull’esigenza di  prendere sul serio il senso del tempo, non è solo di Bergson,  bensì è il tratto fondamentale del pensiero del nostro tempo.  Non a caso Gentile parla di «serietà della storia»: la storia è  «seria», e va presa sul serio, precisamente nel senso che essa  non può esistere insieme ad alcunché che (come il Dio della  tradizione) la anticipi. Si vuole andare alla radice di questa  volontà di «serietà»? Si incontra Nietzsche, e, ancor prima, la  straordinaria critica che Leopardi rivolge alla concezione  platonica dell’«idea», la quale è il prototipo di ogni volontà di  anticipare il futuro, negando la «serietà» del divenire e del    392     tempo.   Nel suo testamento (1937) Bergson, ebreo, scrive che si  sarebbe convertito al cattolicesimo se non avesse visto  «l’ondata formidabile di antisemitismo che sta irrompendo  sul mondo». Un gesto di grande nobiltà. Ma nel 1914 il  Sant’Uffizio aveva messo le opere di Bergson all’indice dei  libri proibiti e Kolakowski ricorda che «tutti i principali  filosofi tomisti francesi», con Maritain in testa, «pensavano  fosse Loro dovere combattere la dottrina bergsoniana». E  Sant’Uffizio e filosofi tomisti coglievano nel segno per quanto  riguarda il rapporto tra filosofia di Bergson e dottrina ufficiale  della Chiesa. Alla fine della sua vita Bergson si è sentito  cattolico. Ma non ha rinunciato alla propria filosofia, che in  sostanza identifica Dio al tempo, ossia alla libera creatività di  un agire, soprattutto per il quale il futuro è del tutto  inanticipabile. Un agire senza scopo (come pensa Nietzsche),  che solo dopo aver agito può scoprire dove è arrivato e che  cosa ha prodotto: una negazione radicale, questa, del Dio  della tradizione cristiana.   Tuttavia, anche se ancora si stenta a capirlo, il  cristianesimo del futuro dovrà dare sempre più ascolto al  pensiero che tien ferma la «serietà» del tempo. In questo  processo (dove tramonta la forma tradizionale del  cristianesimo), dopo la consonanza tra il movimento cattolico  del «modernismo» e la filosofia di Bergson, quest’ultima,  insieme alla maggior parte della filosofia del nostro tempo,  sembra destinata - ma non certo nel futuro prossimo - ad  attrarre nuovamente su di sé l’attenzione della cultura  cristiana.    393     22. Heidegger. La domanda e la risposta   «Non vi sono tesi somme», ossia «principi», «verità eterne»  che sovrastino la storia, il tempo, il divenire. A esprimere  questo rifiuto, ormai, non sono soltanto le forme filosofiche  del nostro tempo, ma anche la scienza: non soltanto la  filosofia - che riferisce tale rifiuto a ogni pensiero e azione  dell’uomo, dunque anche a sé stessa -, ma anche, e da tempo,  la scienza, nella misura in cui essa si libera dalla illusione di  essere, oltre che potente, assolutamente vera.   La frase riportata all’inizio è contenuta nei Contributi alla  filosofia (Beitrdge zur Philosophie), composti da Heidegger tra  il 1936 e il 1938, pubblicata postuma nel 1989 (Adelphi).  Nonostante le profonde e suggestive innovazioni rispetto a  Essere e tempo, anche nei Contributi la struttura di fondo del  pensiero di Heidegger rimane immutata. A cominciare,  appunto, da quel rifiuto di ogni «tesi somma » e di ogni verità  eterna e soprastorica. In Essere e tempo si dice: «Che ci siano  delle “verità eterne” potrà essere concesso come dimostrato  solo se sarà stata fornita la prova che l’Esserci era, è e sarà per  tutta l’eternità. Finché questa prova non sarà stata fornita,  continueremo a muoverci nel campo delle fantasticherie».  Heidegger sta dicendo che, fino a quando non si proverà che  l’uomo (l’«Esserci») è eterno - eterno non semplicemente  immortale -, sarà solo una fantasticheria parlare di «verità  eterne».   Ma per Heidegger è del tutto ovvio che l’uomo (come ogni  cosa del mondo) non è eterno e che quindi quella prova non  potrà mai esser data - per Heidegger, dico, come per tutti  coloro che in qualsiasi campo hanno pensato e agito da  quando, all’inizio della storia dell’Occidente, è apparso il  senso del tempo e dell’eterno. Che nessuna cosa con cui  l’uomo abbia a che fare sia eterna è diventata ormai la    394     convinzione più profonda e scontata anche presso la gente  comune, tanto che starvi a riflettere sembra una pura perdita  di tempo.   Il tempo perduto - che fortunatamente ha forme diverse - i  miei scritti l’hanno aumentato di molto, mostrando invece  che lo splendore delle cose (anche di quelle terribili) è  infinitamente più luminoso di quanto si sia disposti ad  ammettere. Hanno cioè indicato, quegli scritti, la necessità che  non solo l’uomo, ma tutte le cose siano eterne. Tutte le cose:  situazioni, configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi,  ombre, universi, pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e  invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la storia, è il comparire e  lo scomparire degli eterni. E la «necessità» che ogni cosa sia  eterna è qualcosa di essenzialmente più radicale di quella  «prova» dell’eternità dell’uomo che per Heidegger non potrà  mai esser data.   Dall’inizio alla fine il tema di questo pensatore è stato «la  domanda dell’Essere» ( Seinsfrage ). La domanda - che  continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa  mostra, per Heidegger, tutta la propria grandezza. L’«Essere»  non è l’«ente», non è alcuno degli «enti» (case, fiumi, stelle,  pensieri, azioni, uomini, dèi), di ognuno dei quali si dice  tuttavia che «è» e che «è» questo e quest’altro. Qual è il senso  di questo «è» - ecco la «domanda dell’Essere» -, da cui tutto  in qualche modo dipende? Dai Greci a Nietzsche la filosofìa è  stata, per Heidegger, riflessione sul senso dell’«ente», ossia è  stata «pensiero metafisico», e ha quindi velato la «domanda  dell’Essere», pur dando vita alla storia dell’Occidente.   Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni  asserire. Si trova alla sommità del pensare, ma non per questo  è una «tesi somma», una «verità assoluta». Essa è «storica».  Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già lui il    395     «superuomo», ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei  Contributi, non attribuisce al proprio discorso nemmeno la  capacità di costituirsi come l’autentica «domanda dell’Essere»,  ma solo il carattere di «pensiero transitorio», che «ai fini della  comunicazione deve spesso procedere ancora lungo il  tracciato del pensiero metafìsico», e i cui «sforzi» «saranno un  giorno superflui e ricadranno nell’accidentale» (p. 419).   In una conferenza pubblicata nel 1964, e intitolata La fine  della filosofia e il compito del pensiero, Heidegger aggiungerà  che al proprio pensiero «non può esser riconosciuta alcuna  azione immediata o mediata sulla dimensione pubblica  dell’epoca industriale, improntata dalla scienza-tecnica», e  che «il suo compito ha solo un carattere preparatorio e  nient’affatto fondante», giacché «gli basta risvegliare una  disponibilità dell’uomo per una possibilità, i cui tratti restano  oscuri e il cui avvenire incerto».   Va tuttavia anche detto che queste affermazioni non sono  affatto, come Heidegger esplicitamente dichiara, espressione  di una «falsa modestia», giacché quell’oscurità e incertezza,  quella incapacità di influire sul mondo della tecnica, quel  carattere preparatorio e non fondante non sono per lui  semplici caratteri della scrittura dell’individuo Heidegger, ma  sono insieme, e addirittura, il modo in cui l’«Essere» stesso si  vela e si ritrae dall’epoca presente. E lo stesso si può dire di  quella «superfluità» e «accidentalità» che nei Contributi  Heidegger attribuisce al proprio pensiero. I Contributi sono  pertanto grandi prove di una filosofìa che vorrebbe  allontanarsi dalla tradizione metafisica, pur riconoscendo  tutte le difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma  insieme essendo convinta che tali difficoltà non sono dovute  alle carenze di un certo individuo, ma sono le difficoltà in cui  le cose stesse si trovano. Ma queste non sono «tesi somme»?    396     Destano sorpresa anche molte delle tesi, peraltro  suggestive, che si incontrano nei Contributi. Sembrano  andare troppo più in là di quanto secondo lo stesso Heidegger  sia lecito. Ad esempio le tesi dei «venturi», dell’«ultimo Dio»  («Quello del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie  rispetto al Dio cristiano»), del modo in cui l’«Essere» -  «vibrando», «oscillando» - si appropria del mondo.  Heidegger intende «rovesciare» la metafisica senza abolirla (e  il timbro della sua filosofia è fortemente neoplatonico), senza  cioè abolire la fede di cui parlavo e che guida l’Occidente e  ormai il pianeta: la fede che l’uomo e le cose non sono eterni.  Tra i temi più in vista e operanti, nei Contributi, quello del  «creare», è essenzialmente «metafìsico». («Quanto è lontano  da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e crea-tori,  perché di costoro ha bisogno la sua essenza?») Ma - dico -  nessuna cosa creata è eterna. È creata proprio perché non è  eterna. Nessun creatore crea l’eterno. E dell’«Essere stesso»  Heidegger esclude che sia eterno. L’«Essere» stesso è  «storico».   Ma questa fede nella non eternità di ciò che è non esprime  forse la follia estrema? Non pensa forse che ciò che è, non è  (appunto perché non è eterno)? Che il non niente è niente?  Che gli esseri sono nulla? Certo, questa non è come la  domanda di Heidegger. Qui la Risposta - positiva - è già da  sempre data e non da uno di noi, ma dalla Necessità, e rende  possibile ogni domanda.    397     23. Fenomenologia e libertà   La «distruzione» della tradizione filosofica occidentale,  compiuta da Heidegger, non ha un significato semplicemente  negativo. Soprattutto quando egli si rivolge a Platone e ad  Aristotele. Piuttosto egli intende portare alla luce la  dimensione implicita che rende possibile il loro esplicito dire.  In questa direzione interpretativa si muoveva il mio libro,  ahimè così antico da essere stato la mia tesi di laurea,  composta negli ultimi anni Quaranta, discussa nel 1950 e in  quell’anno pubblicata (e ripubblicata poi da Adelphi nel 1994,  insieme ad altri miei scritti di quel tempo, col titolo Heidegger  e la metafisica).   Ricordo queste cose per un certo e spero scusabile  compiacimento da me provato leggendo l’imponente lavoro  del filosofo tedesco Gunter Figai, ( Martin Heidegger.  Fenomenologia della libertà, il melangolo 2007), che si muove  sostanzialmente nella direzione di quel mio libro, vecchio, ma  che ritengo tuttora valido nelle sue linee essenziali.   Non intendo ovviamente confrontare l’esperienza filosofica  di un ragazzo con il lavoro maturo di uno studioso di grande  serietà (e tanto meno vantare priorità). Ma in filosofia hanno  la preminenza i concetti, in nome dei quali vorrei dire a Figai,  tra l’altro, che il suo modo di intendere la «distruzione»  dell’ontologia tradizionale da parte di Heidegger si sarebbe  ulteriormente rafforzata se anch’egli avesse richiamato quegli  avvertimenti quanto mai sintomatici e abbastanza frequenti  di Heidegger, nei quali, già a partire da Essere e tempo, egli  dichiara che la propria indagine «fenomenologica» non  pregiudica in alcun modo la soluzione dei grandi problemi  della metaphysica specialis; quali l’esistenza o meno di una  vita dell’uomo dopo la morte o l’esistenza o meno di Dio - i  problemi, appunto, che ricevono le prime grandi risposte    398     positive dalla metafisica di Platone e di Aristotele. E in effetti  un’indagine che si propone come «fenomenologia» non può  dir nulla intorno a questioni che per definizione stanno oltre  la dimensione fenomenologica, ossia alla dimensione che, con  qualche approssimazione, si può identificare  nell’«esperienza».   È invece più difficile convincersi della tesi che Figai intende  rendere più visibile e che è indicata dal sottotitolo del suo  libro: «Fenomenologia della libertà». Sono d’accordo  sull’implicazione tra riflessione sul senso dell’«essere»  («ontologia») e sul senso della «libertà» in Heidegger. Ma  Figai si dice convinto che «la filosofia di Heidegger dia modo  di ripensare l’idea della libertà in modo radicalmente nuovo».  Cosa che a me non sembra, perché se il senso ontologico della  libertà significa da ultimo la finitezza e contingenza delle cose  e quindi delle decisioni (cioè il loro essere qualcosa che  sarebbe potuto non essere), allora tale contingenza dei  contenuti mondani è pienamente affermata già da Platone e  Aristotele. Anche per Figai la libertà si riferisce, nel discorso  di Heidegger, a qualcosa che, come dice Figai, «la si sarebbe  potuta compiere in modo diverso» (p. 411). Ma allora, come  Kant sapeva (ma Figai, mi sembra, non tiene presente), l’idea  trascendentale della libertà - dice Kant - «non contiene nulla  di derivato dall’esperienza» ossia non è un contenuto  «fenomenologico»), e pertanto rimane aperto il problema, che  né Heidegger né il suo interprete hanno affrontato: quello di  mostrare quale sia il fondamento deU’affermazione che è il  contenuto di tale idea è anche qualcosa di «realmente»  esistente.    399     24. La «mente» come parte   Nella «biolinguistica» di Noam Chomsky il linguaggio è  considerato come un aspetto particolarmente significativo  della mente e dunque del rapporto mente/cervello. Pertanto  «si inquadra ragionevolmente nella psicologia e, più in  generale, nella biologia umana». Esplorazioni in questo  campo, da lui peraltro già da tempo dissodato, sono Nuovi  orizzonti nello studio del linguaggio e della mente (il  Saggiatore 2005).   Anche qui Chomsky dichiara di voler usare le parole  «mente» e «linguaggio» «senza una valenza metafisica». Così  attento al significato delle parole, egli non dice nulla sul  significato della parola «metafisica»; ma è chiaro che il suo  intento è di considerare la «mente» e il «linguaggio» «come  oggetti naturali» - senza però addossarsi l’onere di escludere  ricerche filosofico-metafìsiche sulla mente, il corpo, il  linguaggio.   E, a prima vista, il proposito sembra del tutto legittimo.  Analogamente, come può essere illegittimo l’intento di  considerare la nona sinfonia di Beethoven semplicemente dal  punto di vista delle scienze fisiche, quando la ricerca non  intenda escludere la comprensione estetico-musicologica e  nemmeno quella filosofico-metafisica di quest’opera? È lo  stesso Chomsky a riconoscere che l’arte può ammaestrarci,  intorno alla mente, molto di più di tutte le informazioni che  intorno a essa possono esserci fornite dalla biolinguistica.   Eppure, come era prevedibile, anche in questo caso la  filosofia e la metafisica si insinuano nella dimensione  scientifica che vorrebbe tenerle fuori dalla porta. Come il  corpo, anche la mente e il linguaggio sono, per Chomsky,  «uno dei domini empirici» analizzati dalla scienza. Anche la  mente è una parte della totalità dei «domini empirici», ossia    400     della totalità dell’esperienza. Ma, come la parola «metafisica»,  così l’espressione «totalità dell’esperienza» - o dei «domini  empirici» - non riceve alcun chiarimento esplicito da parte di  Chomsky. O, meglio, riceve un chiarimento implicito che  rende esplicita la presenza di quella metafisica da cui egli  vorrebbe tenersi lontano.   Intendo dire che una certa metafisica (ben lontana dal  mostrarsi come inoppugnabile) è presente proprio nel  concepire la mente e il linguaggio come parti dell’esperienza.   Infatti, anche per Chomsky la scienza non ha «basi  assolutamente certe» (pur essendo affidabile e applicabile alla  «realtà»), perché «i segreti della natura, delle cose-in-sé, ci  saranno per sempre celati». Il che significa che l’indagine  scientifica si chiude prudentemente in sé - lasciando fuori di  sé la metafisica - perché essa non accetta imprudentemente la  metafisica della cosa in sé: quella «cosa in sé» kantiana,  rispetto alla quale non solo la dimensione della mente non  può essere altro che una parte, ma la stessa totalità  dell’esperienza (che potrebbe essere la definizione più ampia  del «mentale» in campo scientifico) si riduce a essere una  parte della totalità degli enti. Chomsky si dichiara, per altri  motivi, cartesiano, ma questo indicato, dove la res cogitans ha  altro al di fuori di sé, è il motivo più profondo. Come tanti  altri che ignorano l’insegnamento idealistico, non vede il  carattere profondamente metafisico dell’affermazione  dell’esistenza della «cosa in sé».    401     25. V«anima» come totalità e come parte di ciò che appare   «L’anima è in certo modo gli enti»: He psyché ta ónta pós  estin. Questo, afferma Aristotele nel De anima, Vili, 231 b,  21. «Gli enti» (ta ónta ) non significa «una certa parte degli  enti, ma non le altre parti». Significa: «tutti gli enti»: pànta ta  ónta. L’anima è «in certo modo» (pós) la totalità degli enti.  «In certo modo» dalla tradizione aristotelico-scolastica a  Brentano e alla fenomenologia questa espressione è intesa  come già Aristotele sostanzialmente la intende: l’anima «è» gli  enti, ma non nel senso che essa sia simpliciter («fisicamente»  dicono gli scolastici) gli animali, le piante, le case, la terra, il  cielo e la totalità degli enti, bensì nel senso che essa è la loro  rappresentazione, ossia il loro presentarsi, manifestarsi,  apparire. Si interpreta: l’anima è «intenzionalmente» tutti gli  enti; è il riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono  innanzitutto l’apparire, il manifestarsi degli enti. E il pensiero  greco chiama phàinesthai tale apparire. D’altra parte, la  totalità degli enti non appare tutta insieme, compitamente, e  quindi Aristotele non intende affermare che l’anima sia  onnisciente, ma che essa è tutti gli enti che vanno via via  manifestandosi, cioè di cui essa è la manifestazione; e insieme:  che essa è sì la manifestazione della totalità degli enti, ma la  totalità si manifesta come processo, sviluppo, «generazione»  degli enti del mondo.   E tuttavia, in quanto apparire della totalità degli enti (via  via manifestantisi) l’anima non è un ente particolare  appartenente a tale totalità. Ciò non significa che l’anima non  possa apparire. In Aristotele questo aspetto del discorso  sull’anima rimane implicito; ma la stessa affermazione che  l’anima è in certo modo gli enti è proprio l’apparire di questa  forma di identità dell’anima e della totalità degli enti, sì che  tale affermazione è insieme l’apparire in cui l’anima ha come    402     contenuto sé stessa. Ma, si sta dicendo, ha come contenuto sé  stessa non come uno tra gli enti particolari che appaiono, ma  come l’apparire della loro totalità.   L’apparire degli enti è il fondamento di ogni ricerca,  problema, conoscenza, scienza, opinione, fede, e di ogni  progetto, deliberazione, decisione, azione: è il fondamento di  ogni aspetto della vita dell’uomo: anche di quelle convinzioni  e indagini che si rivolgono aU’«anima» («coscienza», «mente»,  «spirito»), intesa questa volta come parte della totalità degli  enti. Filosofia (e lo stesso pensiero aristotelico), religione,  scienza, arte hanno imboccato questa strada, dove l’anima è  uno degli enti particolari che appaiono. Per esempio, per  millenni - e, dopo la parentesi idealistica, tuttora - quelle  forme culturali (guidate da un sapere filosofico, che a sua  volta si fa guidare dal senso comune) credono che, al di là del  loro apparire, gli enti esistano in sé stessi, cioè  indipendentemente dal loro apparire e dunque dall’anima in  quanto sia intesa come il loro apparire. Solo sul fondamento  di questa credenza possono farsi innanzi teorie come quella  evoluzionistica, che concepisce i fatti mentali come risultato  di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quella  in cui consiste la «psichiatria», dove la psiche, intesa come  oggetto di una iatréia, è circondata dalla «cura» come ogni  altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua volta  inscritta in un contesto sociale rinviante al mondo intero.   In questo modo, si perde però di vista che queste e ogni  altra teoria che considerano l’anima come parte - e  innanzitutto quella credenza nell’indipendenza degli enti dal  loro apparire, sulla quale esse si fondano - debbono peraltro  da ultimo fondare ogni loro pretesa di verità proprio  sull’apparire degli enti, cioè su quell’«anima» che lungo la  storia del pensiero occidentale è sopravvissuta ed è stata  pensata come phàinestai, cogito, «Io penso», «Spirito come    403     atto puro», «esperienza» (in quanto esperienza della totalità  degli enti che vanno via via mostrandosi).   Per quanto riguarda il concetto di esperienza, si osservi che  il «metodo sperimentale» è, per la scienza stessa, l’indagine  che pone a proprio fondamento l’esperienza; sennonché  dell’esperienza in quanto tale la scienza non si interessa: volta  le spalle al senso fondamentale dell’«anima» per dedicare ogni  sua attenzione all’«anima» come ente particolare. E se oggi si  rivendica il carattere linguistico dell’esperienza, va detto che  anche con questo carattere l’esperienza è il fondamento di  ogni attività teorica e pratica dell’uomo.   Ma anche Aristotele, oltre a intendere l’anima come  apparire della totalità degli enti, la intende come parte della  totalità. Tale apparire è infatti per Aristotele l’identità del  conoscente in atto e del conosciuto in atto, ma questa identità  è un risultato. Il cominciamento del processo che conduce a  questo risultato è, da un lato, la «capacità» dell’anima di  conoscere (ossia il suo esser conoscente «in potenza»),  dall’altro lato è la «capacità» degli enti di essere conosciuti  (ossia il loro esser conosciuti «in potenza»). Queste due  capacità non sono lo stesso, non sono identiche. L’identità di  conoscente e conosciuto si produce quando i due sono in atto  ed essa è appunto il risultato del processo che conduce dalla  potenza all’atto. Ma quando l’anima è conoscente in potenza  (Aristotele parla in proposito di «intelletto passivo») e  differisce dal conosciuto in potenza - ossia dagli enti che  hanno la capacità di apparire -, l’anima è una parte della  totalità degli enti.   L’anima diventa parte anche quando l’apparire della  totalità degli enti è inteso come atto di un «io» («persona»,  «soggetto»), e si afferma, appunto, che «io penso» - dove il  «pensare» è innanzitutto quell’apparire. Anche qui, e    404     nonostante tutti i dubbi che si nutrono in proposito, è la  filosofia greca, e dunque lo stesso Aristotele, ad aprire questa  prospettiva. Si ritiene che esista un produttore del pensare e  che tale produttore sia un «io», una «persona», un «soggetto».  (Variante di questa convinzione è la tesi, oggi centrale  soprattutto in campo biologico, che a pensare sia il corpo, il  cervello, la materia.)   «È manifesto che è quest’uomo singolo a pensare» -  manifestum est quod hic homo singularis intelligit, si afferma  nel De unitate intellectus contro averroistas di san Tommaso.  Quest’uomo singolo è l’io. Che quest’uomo singolo sia il  pensante (Tommaso) e che il cogitare sia il cogitare di un ego  (Cartesio) appartengono alla stessa prospettiva. Alla quale  appartiene gran parte della cultura non solo filosofica -  peraltro con notevoli eccezioni (ad esempio Nietzsche,  Lichtenberg, Russell, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale  prospettiva, l’io, la persona, il soggetto (ma anche il corpo, la  materia, il cervello) sono parti della totalità che appare.  Vintelligere di «quest’uomo singolo» è il campo di ciò che è  manifestum e «quest’uomo singolo» è una parte di questo  campo - ossia dell’apparire della totalità degli enti. A questo  punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di  questa prospettiva. Ci si limiterà qui a un’indicazione  sommaria.   Se in quella prospettiva «io penso» significa «io sono  produttore del pensiero», il pensiero non è d’altra parte inteso  come qualcosa che sia ignoto all’io. L’io ha notizia del  pensiero da lui prodotto. Ma l’aver notizia è l’apparire. E a sua  volta il «pensiero» è innanzitutto l’apparire degli enti. L’«io  penso» viene infatti quasi sempre unito (in modo più o meno  esplicito) a «gli enti appaiono a me»: io, che penso, sono  appunto l’io a cui appaiono gli enti. L’«a cui» è la notizia che  l’io ha di essi.    405     Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che  l’apparire degli enti appare a me - appunto perché «a me»  non può non significare, in questa prospettiva, «apparire a  me»; sì che dire che l’apparire degli enti appare a me significa  dire che l’apparire degli enti appare all’apparire a me... et sic  in indefinitum.   In altri termini, che gli enti appaiano «a me» non significa,  in quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un  albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè a un apparire; e  se si intende tener fermo che l’apparire è sempre un apparire  «a un io», «a una coscienza», allora l’apparire «a me» è  l’apparire all’apparire a me, dove l’«a me» determina un  progressus in indefinitum.   Con la conseguenza che, se ciò a cui appaiono gli enti viene  indefinitamente spostato e allontanato, gli enti non appaiono  più a qualcuno, e chi crede che l’apparire possa essere solo un  apparire a qualcuno è costretto a concludere che non appare  alcun ente. E questa è la contraddizione della prospettiva per  la quale «io penso» e «gli enti appaiono a me».   Nella variante riduzionistica di tale prospettiva, «il cervello  pensa» (o «il corpo pensa»). Ma in questa variante non si  intende sostenere che il pensiero - cioè gli enti che appaiono  - è il loro apparire «al cervello», e quindi in tale variante non  è presente la contraddizione che invece compete alla  prospettiva di cui il riduzionismo è, appunto, una variante.   Al riduzionismo compete un’altra contraddizione, che ho  considerato in altre occasioni e che è cioè Yanàlogon del  riduzionismo teologico. La riduzione della mente al cervello è  cioè Yanàlogon mondano della riduzione teologica del mondo  a Dio. Infatti, se il mondo è totalmente riducibile a Dio, non  c’è mondo; e se la mente è totalmente riducibile al cervello,  non c’è mente. In entrambi i casi, se la riduzione non è totale    406     c’è un residuo irriducibile. Ma se la riduzione è totale, essa  nega ciò che essa stessa afferma: nega quella mente e quel  mondo che essa riconosce esistenti proprio per la sua volontà   di ridurli, rispettivamente, al cervello e a Dio.   *   Testo, con alcune modifiche, dell’intervento alla tavola rotonda sul tema «Tecnica e processo»;  tenutosi a Venezia il 27 febbraio 2004, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2004.   *   ” Articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» il 27 gennaio 2005. L’ultimo capoverso è aggiunto.   *   - Rielaborazione dell’intervento alla tavola rotonda «La tecnocrazia negli anni Trenta» con Giuseppe  Morbidelli, Natalino Irti, Guido Rossi. Firenze, Palazzo Strozzi, 21 gennaio 2013.    407    Al capitolo VI    26. Essere e nulla   Già nel capitolo IV de La struttura originaria - dunque più  di cinquantanni fa - avevo indicato quanto occorre per  rispondere alle obbiezioni che in seguito mi sarebbero state  rivolte intorno al modo in cui, in quel capitolo, viene risolta  «l’aporetica del nulla». Questa aporetica, sin da Platone,  consiste nel rilevare che il nulla è pensato, e che quindi è  qualcosa che appare e di cui il linguaggio parla  continuamente, sì che il nulla non è il nulla.   La radice di quelle obbiezioni è il pensiero che, sin  dall’inizio della storia dell’Occidente, isola la terra dal destino  e su questa base isola le cose della terra (le molteplici  determinazioni del mondo) dal loro essere, ossia isola (in ciò  che è, cioè nell’ essente) il ciò che dal suo è. Tale atteggiamento  isolante si riflette, appunto, nel modo in cui l’Occidente pensa  il nulla. L’isolamento delle cose dal loro essere incomincia con  Parmenide - col Parmenide quale è interpretato nella  tradizione platonico-aristotelico-hegeliana.   E alcuni miei critici - Gennaro Sasso innanzitutto, e Mauro  Visentin - sono giunti, attraverso l’esperienza del mio  discorso filosofico, a riproporre in Italia la prospettiva  originaria di Parmenide - del Parmenide, appunto, che è  presente in quella tradizione e per il quale, al di fuori della  «verità dell’essere» che oppone l’essere al nulla, il mondo  intero e l’intera storia dell’uomo sono soltanto dóxa,  opinione, illusione, «nomi», cioè sono, in quanto tali, non¬  essere, nulla. Per quei miei critici, e innanzitutto per Sasso,  «essere» significa, come per Parmenide, soltanto «essere»,  senza alcuna proprietà oltre a quella di non essere il nulla. In  questa prospettiva, la totalità delle determinazioni, ossia delle  differenze che costituiscono il mondo naturale e umano, sono    408     appunto il contenuto dell’opinione.   Ne viene, allora, che anche tutte le considerazioni  sviluppate da questi miei critici per sostenere le loro tesi e per  criticare il contenuto dei miei scritti - considerazioni che  formano a loro volta un sottoinsieme della totalità delle  differenze del mondo - sono opinioni, non sono verità  (assolute e incontrovertibili). E vedo che essi stessi, sia pure in  modi diversi, riconoscono il carattere opinabile (Visentin) o  addirittura contraddittorio (Sasso) delle loro proprie e pur  interessanti e articolate riflessioni (cfr. G. Sasso, Il logo, la  morte, Bibliopola 2010, pp. 202, 224-226; M. Visentin, Il  neoparmenidismo italiano, Bibliopolis 2011, p. 402, nota).   La struttura originaria della verità è l’apparire  dell’impossibilità che ciò che è non sia ciò che esso è.  L’isolamento delle differenze del mondo dal loro essere  implica infatti che qualcosa non sia ciò che esso è: implica  (con Parmenide) che le differenze siano esplicitamente poste  come nulla; e implica (con Platone e poi con l’intera storia  dell’Occidente) che, essendo intese come ciò che esce dal  nulla e vi ritorna, siano implicitamente poste - esse, che non  sono un nulla - come nulla. Questa implicitezza custodisce il  segreto dell’Occidente, cioè l’essenza del nichilismo.   Tale essenza non può riuscire a scorgere che le differenze si  distinguono sì dal proprio essere, ma non per questo sono  nulla. La distinzione, infatti, non è separazione, isolamento.  Anche quando intende essere la negazione più radicale della  separazione - per esempio e soprattutto con Hegel -,  l’essenza del nichilismo rimane prigioniera di ciò che essa  nega, perché intende unire ciò che peraltro essa intende come  originariamente separato; sì che ogni volontà di sintesi è  destinata al fallimento. Ogni differenza del mondo - cioè ogni  essente, o significato - è cioè destinata a esser pensata e vissuta    409     come un nulla - anche quando si ritiene che un Dio eterno  possa salvare il mondo dal nulla.   Il modo in cui il nichilismo pensa e vive la nientità degli  essenti determina il modo in cui esso pensa e vive la presenza  del nulla. Nella Struttura originaria si mostra che il nulla è un  significato contraddicentesi. Data la distinzione, indicata in  quelle pagine, tra il «contraddittorio», o  r«autocontraddittorio» - ossia l’impossibile, il nullo - e la  «contraddizione», che invece non è un nulla, in queste pagine  si precisa - IV, 6 - che «il significato “nulla” è un significato  autocontraddittorio, ossia è una contraddizione» - un  «significato contraddicentesi», appunto. Affermando  l’esistenza di quel «significato autocontraddittorio» (cioè  contraddicentesi), in tale scritto non si dice quindi che  l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, sia, ma che la  contraddizione è (e che la contraddizione sia non è  impossibile - fermo restando che questo suo essere ha un  «fondamento», cfr. ad esempio Fondamento della  contraddizione, Adelphi 2005, sul quale nei miei scritti si è  sempre richiamata l’attenzione). I due momenti  contraddicentisi del significato nulla sono, da un lato, il  «positivo significare» del nulla, ossia il suo essere nulla e  l’ apparire di questo essere, e, dall’altro, l’assoluta nientità e  assenza di significato del nulla che è positivamente  significante. Da un lato, il positivo significare di ciò che,  dall’altro lato, è l’assoluta negazione di ogni positività e  significato. (Recentemente ho ripreso e approfondito queste  tematiche nello scritto Intorno al senso del nulla, Adelphi  2013).   Questi due lati o momenti sono originariamente e  necessariamente uniti perché la loro separazione, cioè  Yisolamento dell’uno rispetto all’altro, implica l’essere  dell’impossibile, ossia che il nulla sia un essente. Infatti, se i    410     due momenti sono (più o meno esplicitamente) intesi come  separati, l’assoluta nientità del nulla appare, e appare come  significante, ossia è: il nulla appare inevitabilmente come un  essente. Se i due momenti vengono separati, è inevitabile che  il positivo significare del nulla (il primo momento) si  ripresenti nel nulla - ossia nel secondo momento, cioè nel  significato che è il contenuto di quel positivo significare -, sì  che Y esito inevitabile di quella separazione è la constatazione  che il nulla è un essente.   Questo esito differisce essenzialmente dal significato  autentico del nulla, ossia dal nulla come significato  contraddicentesi. Infatti questo contraddirsi sussiste perché,  in esso, nulla (il significato nulla) non significa essente, ossia  non è un essente (e appunto per questo il significato nulla  contraddice quell’essente che è la positività del proprio  significare). Nell’esito della separazione dei due momenti del  significato contraddicentesi, si è costretti invece ad affermare  che il nulla, essendo significante, è, è un essente, sì che  l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di  nulla e di essere, è. In seguito alla separazione, l’aporia del  nulla si presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è  definitivamente legato all’assurdo.   L’isolamento-separazione conduce all’essenza del  nichilismo, costringendola ad affermare che gli essenti sono  nulla (in quanto escono e ritornano nel nulla); ed è ancora  l’atteggiamento isolante a costringere l’essenza del nichilismo  ad affermare, in relazione al nulla, che il nulla è un essente.  Con la differenza (rilevata da Nicoletta Cusano in Capire  Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla, cit.) che nel  primo caso il nichilismo non può vedere il proprio essere  identificazione dell’essente e del niente, mentre nel secondo  caso - in relazione cioè al modo in cui il senso del nulla si  inscrive nella struttura originaria della verità (alla quale si    411     rivolge il mio discorso filosofico) - il nichilismo, e  propriamente quella sua forma che si è posta in relazione a  quel mio discorso (la forma presente ad esempio negli scritti  di Sasso, Visentin, Massimo Donà), porta esplicitamente alla  luce il proprio identificare il nulla a un essente e intende  questa identificazione come inevitabile (ossia come  inevitabilità della negazione della struttura originaria della  verità).   D’altra parte il nichilismo può affermare l’inevitabilità di  tale identificazione - ossia dell’assurdo e dell’impossibile, in  cui appunto consiste Tessere del nulla - solo in quanto,  dlYinterno stesso del nichilismo, appare che nulla non significa  essere (essente). Se questo assoluto differire non apparisse non  si potrebbe nemmeno affermare che l’identificazione di nulla  e di essere è una contraddizione che secondo alcuni miei  critici inficerebbe la struttura originaria del destino.   Il nichilismo non si avvede che l’aporetica del nulla sorge  non perché il nulla sia inevitabilmente un essente, ma per la  logica isolante messa in atto dal nichilismo stesso, ossia  perché quella inevitabilità è, ancora una volta, la conseguenza  della separazione che, in questo caso, crede di poter  prescindere dalla sintesi originaria del significato nulla e del  suo positivo significare - sì che, presentandosi isolato, tale  significato, proprio perché si presenta, non può che apparire  come Tesser un essente da parte del nulla.   Pertanto, che il nulla sia «significante» non significa che il  nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto  sarebbe il significare. Il significare del nulla non appartiene al  nulla, perché il nulla non è un essente a cui questo significare  o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere. In  quanto il significare è positività (e anzi è la positività stessa, lo  stesso esser essente), il significare del nulla appartiene cioè    412     all’essente, e propriamente alla totalità dell’essente in quanto  essa appare nella struttura originaria della verità. E che il  nulla sia un «significato» non significa che il nulla sia  qualcosa di «passivo» rispetto all’attività significante  dell’essere, giacché anche questo essere un che di «significato»  appartiene a quella totalità.   Si aggiunga la seguente annotazione in rapporto al modo in  cui Heidegger intende il problema del «Niente» (soprattutto  in alcune pagine de II nichilismo europeo, 1940, intitolate  Nichilismo, nihil e Niente). L’intento di Heidegger è di  mostrare che il Niente non è un ente, ma non è «nemmeno  mai ciò che è soltanto nullo»: il «soltanto nullo» relativamente  al quale il pensiero metafisico dà per scontati sia il suo esser  contrapposto all’ente sia l’assenza di ogni altra forma di  contrapposizione alla totalità dell’ente. In apparenza  Heidegger vuol portarsi in una dimensione più profonda di  quella in cui si dà per scontata la contrapposizione tra «ciò  che è soltanto nullo» - il nihil -, e l’ente; ma dicendo che il  «Niente» (che poi è per lui l’«Essere» stesso) non è «nemmeno  mai ciò che è soltanto nullo» attribuisce una funzione decisiva  al «soltanto nullo»: la funzione di determinare la dimensione  che include sia l’ente, sia il «Niente» (l’«Essere»).   In tal modo, tutte le connotazioni del «soltanto nullo» da  cui Heidegger in quelle pagine intende prendere le distanze, e  tutte le aporie che il «soltanto nullo» solleva, ma che  Heidegger qualifica come conseguenze dell’incapacità di  sollevarsi al senso autentico del «Niente», ritornano in  circolazione, e vi ritornano nel loro non esser state chiarite e  risolte - innanzitutto l’aporia, già pensata da Platone (ma  Heidegger non lo rileva), per la quale ogni considerazione  intorno al nulla fa del nulla un «qualcosa», ossia un ente;  l’aporia che tuttavia Heidegger include tra le riflessioni  «apparentemente acute».    413     È probabile, stando all’andamento del testo, che per  Heidegger sia solo «apparentemente acuta» anche  l’osservazione, da lui richiamata che «se il Niente è niente [e  qui il Niente è il «soltanto nullo»], se il Niente non c’è, allora  non può nemmeno darsi che l’ente sprofondi mai nel Niente  e che tutto si dissolva nel Niente, allora non ci può essere  nemmeno il processo del diventare-niente». Ma anche questa  osservazione, che Heidegger sembra trattare con sufficienza e  lasciare infine da parte, ritorna in circolazione nello stesso  discorso di Heidegger, quando egli, come si è rilevato, di fatto  assume il Niente, inteso come il «soltanto nullo», come  essenziale per poter affermare che il Niente, autenticamente  inteso (ossia il Niente che è l’«Essere» stesso) non è il nihil  «soltanto nullo», come d’altronde Heidegger ha sempre  affermato nei suoi scritti.    414     27. Un libro   Nella «successione» dei miei scritti, Destino della Necessità  (cit.) sta al centro. Rende radicale il tema di fondo che si era  presentato un quarto di secolo prima; apre i problemi che il  filone primario degli scritti successivi intende risolvere.   Il tema di fondo è, appunto, la Necessità : di ogni cosa, di  ogni aspetto o stato del Tutto. Ma di «necessità» gli uomini  parlano da millenni. Al di là di ciò che ne dicono, in Destino  della Necessità «si fa innanzi» il senso innegabile della  Necessità. Esso sta : nessuna forza può scuoterlo. La parola  «de-stino» indica questo stare. Appunto per questo è nel  linguaggio che quel senso «si fa innanzi», venendo a mostrarsi  nel destino, cioè in sé stesso in quanto luogo che accoglie  anche il linguaggio: nella già da sempre manifesta innegabilità  dell’esser sé di ogni essente.   L’esser sé: il non esser altro e tanto meno quelfaltro che è il  nulla: l’impossibilità dell’essente di essere stato e di tornare a  esser altro e quell’assolutamente altro che è il nulla: la  necessità-eternità dell’essente in quanto essente. Tempo,  storia, divenire del mondo umano e della natura non sono il  venire dal nulla e il ritornarvi, ma l’incominciare ad apparire  e il non apparir più, all’interno del cerchio eterno del destino,  da parte degli eterni (quindi anche di quell’eterno che è il  linguaggio - e anche il linguaggio che testimonia il destino).   Da sempre e per sempre il destino è l’essenza dell’uomo.  Ma non testimoniando il destino l’intera storia dell’uomo è  alienazione della verità. Nel suo stato attuale, ossia nella  forma finita del destino, l’uomo è pertanto il contrasto tra il  destino e tale alienazione - la quale, nella sua configurazione  più ampia, è l’isolamento della terra dal destino.   Destino della Necessità rende radicale tutto questo, perché  Essenza del nichilismo (1971, 2 a ed., Adelphi 1981) lascia    415     ancora aperto il problema relativo alla Necessità o non-  Necessità del sopraggiungere e del modo in cui  sopraggiungono gli eterni nel cerchio eterno, in cui il destino  consiste, nelVapparire degli essenti: ogni essente è eterno; ma  gli eterni sarebbero potuti non sopraggiungere in quel  cerchio, o sopraggiungervi in modo diverso da quello che  appare? Destino della Necessità mostra che la Necessità  autentica implica anche la Necessità del sopraggiungere e del  modo in cui gli eterni sopraggiungono nelVapparire del  destino.   La contingenza degli eventi e la libertà della volontà  appartengono cioè all’essenza del nichilismo ossia alla  persuasione che Tessente in quanto essente sia un esser stato e  un tornare a esser nulla. La volontà ha quindi un significato  essenzialmente diverso da quello che le è stato via via  assegnato. Non è una potenza che determini liberamente  l’oscillazione degli essenti tra il loro essere e il nulla, ma è la  fede di avere tale potenza, la fede che quindi vuole  l’impossibile, non sapendolo, ma essendo anche fede di  ottenere, a volte, e a volte di non ottenere ciò che essa vuole.  La volontà di potenza, che culmina nella tecnica moderna, si  manifesta anche nel modo in cui le lingue indoeuropee, cioè il  terreno in cui cresce il linguaggio del nichilismo, parlano del  mondo) ( Destino della Necessità, capp. Vili, IX, X). Al di  fuori dell’alienazione della terra isolata, la «volontà» autentica  e il destino, in quanto apparire della Necessità e libertà  dall’errore (Verrare essendo peraltro anch’esso un eterno).  Nella sua forma infinita il destino è l’eterno oltrepassamento  di ogni contraddizione, ossia è la gioia. Nel suo «inconscio»  più profondo, l’uomo è la Gioia - il finito è l’infinito.   Ma Destino della Necessità apre, insieme, i problemi  fondamentali degli scritti successivi Nell’ultimo capoverso del  libro ci si chiede innanzitutto: «Ma quale sentiero la terra,    416     inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a  percorrere? È destinata alla solitudine [all’isolamento dal  destino] o all’oltrepassamento della solitudine?». Gli scritti  successivi (soprattutto La Gloria, Oltrepassare, La morte e la  terra, citt.) mostrano la destinazione della terra a questo  oltrepassamento e le sue decisive implicazioni.    417     28. La mano dell’Occidente   Nietzsche e Freud insegnano a Hemingway quanto siano  terribili gli impulsi più profondi dell’uomo. Ma già Sofocle,  millenni prima, dice che l’uomo è deinótaton, cioè «il più  temibile» degli esseri. E si può ancora retrocedere.  Hemingway concepiva la sincerità come il supremo  comandamento morale. Anche e innanzitutto nella scrittura,  che non deve nascondere quello che l’uomo prova veramente.  Quindi il suo non era soltanto cinismo, esibizione della  propria malvagità.   Spesso si confonde la bontà con la conformità degli istinti  alle consuetudini sociali. Li si nasconde perché è difficile che  siano confessabili. La bontà non è la cosiddetta «innocenza»  dei bambini o la mansuetudine delle pecore - anche della  quale si può peraltro dubitare come si dubita di  quell’innocenza.   Hemingway aveva imparato che il piacere della vita è  inseparabile dal dolore: la vita è lotta - è «guerra», diceva  l’antichissimo Eraclito. Ora, intendo dire che non c’è bontà  che non sia lotta contro il male esistente fuori e dentro di noi.  E da ultimo il male è il dolore, l’angoscia, la morte che  l’impulso distruttivo dell’uomo produce negli altri e in lui  stesso.   L’uomo buono - soprattutto il santo - non è chi sia privo  di inconfessabili impulsi, ma chi ne abbonda. Se ne fosse  privo, sarebbe appunto l’innocente o il mansueto  quadrupede. Forse per questo i veramente buoni e i santi  sono spesso insopportabili. La loro indole è terribile. Sono  buoni e santi perché, lottando contro di essa, la vincono.  Tanto più buoni e santi quanto più la malvagità invade la loro  natura. Se i cristiani sono convinti che Gesù sia il più santo,  devono credere che natura, indole, impulsi siano in lui i più    418     malvagi e che egli sia il più santo proprio perché, solo lui,  riesce a vincerli. La crudezza di certe espressioni di Gesù può  essere un sintomo.   Il primo passo per vincere quanto di «terribile-temibile» è  presente in ognuno di noi è guardarlo in faccia. Con sincerità.  Hemingway la possedeva. Poiché credeva che i «valori  supremi» della tradizione occidentale siano morti - e che  uccidere gli uomini non violi dunque alcuna legge inviolabile  -, gli restava come unico valore l’aspirazione alla sincerità, il  desiderio di dire la verità (forse esagerando) intorno a quanto  di malvagio c’era anche in lui e di cui egli godeva. Ci si può  spiegare come alla fine non sia più riuscito a sopportare la  vista di sé stesso e, forse per questo, si sia ucciso.   Nietzsche scrive: «Che cosa significa nichilismo? Significa  che i valori supremi si svalutano. Che i valori si svalutino  significa che essi restano distrutti, annientati. Lo stesso  Nietzsche alimenta la convinzione che il vero senso del  nichilismo sia la volontà di annientare - e gli uomini pensano  che l’annientamento più nefando sia quello di cui son vittime  essi stessi.   Eppure, per quanto potente sia la riflessione di Nietzsche -  e poi di Heidegger - sul nichilismo, essa non ne raggiunge il  fondo. Le «guerre di annientamento» del XX secolo sono la  conseguenza più vistosa di una persuasione che risale alle  origini della nostra civiltà, cioè al pensiero filosofico dei  Greci. Si tratta della persuasione che gli esseri possano esser  stati e possano ridiventare niente; ossia che gli esseri possano  esser non essere, cioè nulla. Il culmine dell’errore, qui, si  unisce al culmine dell’orrore - anche se questa persuasione  domina ormai l’intero pianeta.   Se qualcuno dicesse che c’era un tempo in cui il cerchio era  quadrato e ci sarà un tempo in cui il cerchio tornerà a essere    419     un quadrato, tutti, o i più, protesterebbero e direbbero che un  tempo siffatto non può esistere; ma nessuno protesta di fronte  al pensiero che c’è un tempo in cui l’essere (che ora è) era  ancora nulla e un tempo in cui tornerà a esserlo. Qui la  sordità è totale. Troppo profonda perché sia imputabile alla  semplice debolezza della mente umana.   Ma intanto, come potrebbero, un uomo o un Dio, proporsi  di annientare un qualsiasi essere, se non fossero convinti che  l’essere da annientare possa diventare nulla e, una volta  diventatolo, sia vero affermare che tale essere è il nulla? Il  culmine della follia non è forse pensare che l’essere è il nulla?  E «nichilismo» non è forse, innanzitutto, pensare che l’essere  è nulla? E non è forse per questo antico pensiero che possono  esser maturate tutte le radicali distruzioni che scandiscono la  storia dell’Occidente?   Nietzsche afferma che «Fannichilimento mediante la mano  asseconda Fannichilimento mediante il pensiero». E invece è  Fannichilimento dell’essere mediante il pensiero dei Greci che  non solo asseconda ma è il fondamento essenziale di tutte le  distruzioni estreme compiute dalla mano dell’Occidente - la  più civile delle civiltà -, che ormai è la mano del pianeta.    420     Indice   Per richiamare e introdurre    Sezione prima   Scambio delle parti e alienazione della verità   L II «fiore»: cristianesimo , arte , tecnica   1. Poesia e festa   2. Gli «odori»   3. Volontà di sapienza   4. Potenza della «bella menzogna»   5. Poesia e sapienza filosofico-cristiana   6. «L’anima riceve vita»   7. Il «profumo» e il «deserto»   8. Poesia, tecnica e meccanismo dello scambio delle parti   II. Preghiera e «macchina» politico-economica   1. Credere e pregare   2. Nota su cristianesimo, islam, modernità   3. La Barriera e Prometeo   4. Macchine razionali e grande politica   5. Efficienza e solidarietà   6. Governi tecnici   III. Democrazia e tecnica   1. Europa e America   2. Europa, Russia, America   3. Le democrazie e la tecnica   4. Sulla coerenza della follia estrema   5. Suirinevitabilità dello scambio delle parti   6. Note su identità dell’Europa, frammento, potenza   IV. Diritto, filosofia, tecnica    421                               1. La filosofìa   2. La giustizia   3. Il sottosuolo filosofico del nostro tempo e il   positivismo giuridico   4. Realismo e idealismo   5. Uno sguardo al di là della fede deirOccidente   V. Sull'essenza del nichilismo   1. Alle origini del deicidio   2. Essenza del nostro tempo ed essenza del nichilismo   3. Il deserto e il profumo   4. «Morte di dio» e «anello del ritorno»   a) La sequenza essenziale   b) «Affinché vi apra tutto il mio cuore»   c) Eterno ritorno e tecnica   d) Volere Teterno ritorno e volere il passato   5. Divenire, tecnica, «differenza ontologica»   VI. Stare autenticamente oltre l’essenza del nichilismo: il   destino   1. Il destino   2. La fantasia e la terra   3. Discutere il. destino della verità, concretezza   dell’errare, isolamento della terra, linguaggio   4. Ripresa   5. Il destino e Ferrare   6. Il destino e la Gloria   Sezione seconda   Storia delVOccidente e filosofia  I. Alle origini dellPeci dente. Due colloqui   1. Eschilo    422                                 2. Parmenide   II. Relativismo, evoluzionismo, realismo e altre   discussioni sulla storia filosofica dell’Occidente e sul senso   dell’eternità   1. Ancora sul senso del discutere   2. Verità e relativismo   3. Equivoci   4. L’origine   5. «La fine del tempo»   6. Erba e lastre, scienza e teatro   7. «Istoria e filosofia delFumanità»   8. «Suicidio dell’Europa»   9. «Non credo alla sopravvivenza»   10. Follia giudiziosa   11. Paradosso e monocromia   12. Il realismo e il mito del realismo   13. Intorno a Nietzsche, Gentile, Heidegger   14. Realismo e idealismo in relazione all'ostacolo   15. Stelle e formiche   16. Esser sé   17. Continuando un dialogo su tecnica e diritto   18. Discutendo con amici   SfZTONF. TF.R7.A   Postille alla sezione prima   Al capitolo I   1. La bellezza e il male   2. Arte e tecnica   3. Arte e tendenza fondamentale del nostro tempo   4. Immagini festive    423                                 Al capitolo II   5. L’imperatore Giuliano e Hegel   6. Impero romano e «Germania totalitaria»   7. Mein Kampf   Al capitolo III   8. Piazza della Loggia   9. Tasse e amnistia   10. Visibilità   11. Tecnica e «grande politica»   Al capitolo V   12. Non veritas, sed auctoritas facit legem   13. Guerra fredda e corruzione   14. Conflitti di retroguardia   15. Tecnica e pluralità delle tecniche   16. Mactare   17. Ancora su «L’anello del ritorno»   18. La tecnica e il sottosuolo   19. Innocenza del divenire e valore dell’uguaglianza   20. Rawls, Hegel Kant   21. Bergson e la realtà del tempo   22. Heidegger. La domanda e la risposta   23. Fenomenologia e libertà   24. La «mente» come parte   25. L’«anima» come totalità e come parte di ciò che   appare   Al capitolo VI   26. Essere e nulla   27. Un libro   28. La mano deirOccidente    424                                 Indice    Per richiamare e introdurre 7   S EZIONE PRIMA 12   Scambio delle parti e alienazione della verità 12   I. Il «fiore»: cristianesimo, arte, tecnica 13   1. Poesia e festa 13   2. Gli «odori» 15   3. Volontà di sapienza 18   4. Potenza della «bella menzogna» 20   5. Poesia e sapienza filosofico-cristiana 24   6. «L’anima riceve vita» 28   7. Il «profumo» e il «deserto» 32    8. Poesia, tecnica e meccanismo dello scambio delle    parti   IL Preghiera e «macchina» politico- ^   economica   1. Credere e pregare 38   2. Nota su cristianesimo, islam, modernità 46   3. La Barriera e Prometeo 48   4. Macchine razionali e grande politica 52   5. Efficienza e solidarietà 55   6. Governi tecnici 60   III. Democrazia e tecnica 65   1. Europa e America 65   2. Europa, Russia, America 69    425     3. Le democrazie e la tecnica 74   4. Sulla coerenza della follia estrema 79   5. Sull’inevitabilità dello scambio delle parti 81   6. Note su identità dell’Europa, frammento, potenza 86   IV. Diritto, filosofia, tecnica 90   1. La filosofìa 90   2. La giustizia 95   3. Il sottosuolo filosofico del nostro tempo e il ^   positivismo giuridico   4. Realismo e idealismo 104   5. Uno sguardo al di là della fede dell’Occidente 108   V. Sulfessenza del nichilismo 112   1. Alle origini del deicidio 112   2. Essenza del nostro tempo ed essenza del nichilismo 119   3. Il deserto e il profumo 126   4. «Morte di dio» e «anello del ritorno» 133   a) La sequenza essenziale 133   b) «Affinché vi apra tutto il mio cuore» 136   c) Eterno ritorno e tecnica 140   d) Volere l’eterno ritorno e volere il passato 143   5. Divenire, tecnica, «differenza ontologica» 147   VI. Stare autenticamente oltre l’essenza del   153   nichilismo: il destino   1. Il destino 153   2. La fantasia e la terra 159   3. Discutere il destino della verità, concretezza  dell’errare, isolamento della terra, linguaggio   4. Ripresa 170    426     5. Il destino e Ferrare 176   6. Il destino e la Gloria 181   S EZIONE SECONDA 187   Storia deirOccidente e filosofia 187   I. Alle origini dell’Occidente. Due colloqui 188   1. Eschilo 188   2. Parmenide 197   IL Relativismo, evoluzionismo, realismo e   altre discussioni sulla storia filosofica 209   dell’Occidente e sul senso dell’eternità   1. Ancora sul senso del discutere 209   2. Verità e relativismo 212   3. Equivoci 218   4. L’origine 222   5. «La fine del tempo» 229   6. Erba e lastre, scienza e teatro 231   7. «Istoria e filosofìa dell’umanità» 235   8. «Suicidio dell’Europa» 240   9. «Non credo alla sopravvivenza» 245   10. Follia giudiziosa 248   11. Paradosso e monocromia 250   12. Il realismo e il mito del realismo 254   13. Intorno a Nietzsche, Gentile, Heidegger 259   14. Realismo e idealismo in relazione all’ostacolo 266   15. Stelle e formiche 271   16. Esser sé 276   17. Continuando un dialogo su tecnica e diritto 281    427     18. Discutendo con amici 286   S EZIONE TERZA 298   Postille alla sezione prima 298   Al capitolo I 299   1. La bellezza e il male 299   2. Arte e tecnica 303   3. Arte e tendenza fondamentale del nostro tempo 306   4. Immagini festive 309   Al capitolo II 313   5. L’imperatore Giuliano e Hegel 313   6. Impero romano e «Germania totalitaria» 315   7. Mein Kampf 320   Al capitolo III 323   8. Piazza della Loggia 323   9. Tasse e amnistia 326   10. Visibilità 329   11. Tecnica e «grande politica» 331   Al capitolo V 344   12. Non veritas, sed auctoritas facit legem 344   13. Guerra fredda e corruzione 348   14. Conflitti di retroguardia 354   15. Tecnica e pluralità delle tecniche 357   16. Mactare 361   17. Ancora su «L’anello del ritorno» 364   18. La tecnica e il sottosuolo 368   19. Innocenza del divenire e valore dell’uguaglianza 385   20. Rawls, Hegel, Kant 390    428     21. Bergson e la realtà del tempo 392   22. Heidegger. La domanda e la risposta 394   23. Fenomenologia e libertà 398   24. La «mente» come parte 400   25. L’«anima» come totalità e come parte di ciò che   F 402   appare   Al capitolo VI 408   26. Essere e nulla 408   27. Un libro 415   28. La mano dell’Occidente 418    429 





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