EMANUELE SEVERINO LA POTENZA DELL'ERRARE Sulla storia dell'Occidente Alle radici della storia dell’Occidente, in concetti come azione, volontà, potenza, si trova l’alienazione più profonda della verità, ossia l’estremo disfarsi della verità: nel senso in cui ci si libera di una ricchezza rimanendo impoveriti. A questo principio cruciale della filosofia di Emanuele Severino è dedicato questo libro che, parlando di arte, cristianesimo, politica, diritto, economia, mostra in azione l’essenza del nichilismo, il più potente dei meccanismi dell’errare. «Quando si parla di “nichilismo”» scrive l’autore «si intende per lo più il crollo dei valori tradizionali. Inoltre, solitamente, il nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato come un fatto che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe non accadere.» Queste pagine ci esortano invece a prestare ascolto alla spinta che ha provocato l’inevitabile accadere della resa al nulla. Da Dante e Leopardi fino allo stato-azienda e ai governi tecnici, la riflessione di Severino svela il meccanismo oscuro che culmina nel rovesciamento del mezzo in scopo. Il risultato è un’analisi che porta allo scoperto come lo “scambio delle parti” derivi dall’origine di ogni alienazione del destino della verità e che dimostra — con nuovi scorci e riferimenti — come «la malattia nascosta (il culmine dell’errare) sia la persuasione che le cose siano nulla, e il viverle come un nulla». 2 EMANUELE SEVERINO, accademico dei Lincei, è autore di opere fondamentali tradotte in varie lingue. Scrive regolarmente sul “Corriere della Sera”. Tra i suoi libri più recenti ricordiamo l’autobiografìa 1/ mio ricordo degli eterni (Rizzoli 2011, ora in BUR), Capitalismo senza futuro (Rizzoli 2012) e Intorno al senso del nulla (Adelphi 2013). 3 Emanuele Severino La potenza dell’errare Sulla storia dell’Occidente 4 Proprietà letteraria riservata © 2013 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-66255-7 Prima edizione digitale 2013 da edizione novembre 2013 In copertina: Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Andrea Cavallini / f/zeWorldo/DOT www.rizzoli.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. 5 La potenza dell’errare 6 Per richiamare e introdurre Anche la storia dell’Occidente presenta un insieme di processi in cui il mezzo di cui ci si serve, agendo in modo più o meno complesso, diventa lo scopo (il nuovo scopo) di tale agire e lo scopo iniziale diventa il mezzo per realizzare il nuovo scopo. Si può dire che tale rovesciamento è uno scambio delle parti. Altri miei scritti si rivolgono a questo tema. La sezione prima di questo libro intende tuttavia mettere in luce la relazione tra alcuni «luoghi» apparentemente distanti in cui quel rovesciamento si manifesta: arte, cristianesimo, politica, diritto, economia. Ma intende anche richiamare che alla radice non solo di tale rovesciamento, ma dello stesso rapporto tra mezzo e scopo, cioè dello stesso concetto di azione-volontà-potenza si trova Yalienazione più profonda della verità, ossia il disfarsi della verità, in modo estremo, da parte della storia dell’Occidente. «Disfarsi», nel senso in cui ci si disfa di una ricchezza rimanendo impoveriti, disfatti. Appunto per questa alienazione il rovesciamento in cui consiste lo scambio delle parti di cui si è detto appartiene all’ essenza del nichilismo (a sua volta richiamata nella sezione prima). Tale essenza è il più potente dei meccanismi delVerrare. Quanto più l’errore è profondo, tanto più è cresciuta la potenza. L’errore è potenza. E viceversa. Non può quindi esistere un potenza «buona» e una «cattiva»: la potenza è, in quanto tale, errare e ferrare è la forma originaria di ogni violenza e malvagità. L’impotenza, tuttavia, non è altro che la volontà di potenza fallita, frustrata. E la potenza «ottenuta» e «vincente» è soltanto l’ illusione di aver ottenuto e di aver vinto. L’essenza del nichilismo esprime nel modo più radicale un evento che è essenzialmente più profondo di ogni «peccato originale». L’illusione estrema è la fede (posseduta 7 da uomini e dèi) di avere la potenza di condurre le cose dal nulla all’essere e dall’essere al nulla. È però possibile parlare di errare e di errore, di alienazione della verità, solo se la verità appare, solo se si manifesta ciò che è opportuno chiamare destino della verità per indicare qualcosa il cui contenuto è abissalmente diverso da tutto ciò che, lungo Vintera storia dell’Occidente, è stato chiamato «verità». Il capitolo VI della sezione prima richiama appunto la configurazione di fondo di tale diversità. Con questo si sta insieme dicendo che l’alienazione della verità non è «soltanto» un evento che appartenga alla storia del pensiero filosofico, ma è il terreno in cui vanno via via crescendo le opere, le istituzioni, le res gestae - e quindi anche, e certo innanzitutto, le molteplici forme culturali - dell’Occidente e quindi anche ogni historia rerum gestarum. E forse è il caso di avvertire già qui che, anche queste pagine, per lo più, intendono parlare delle «cose segrete», delle più segrete, a lettori che non hanno la filosofìa in cima ai loro pensieri giacché le cose più segrete sono peraltro manifeste, e in piena luce, nel più profondo di ogni uomo (e forse non solo), ed è inevitabile che trapelino nel deserto in cui l’uomo è gettato dall’alienazione della verità. La forma in cui oggi culmina lo scambio delle parti rimane quella che altre volte ho indicato, cioè il rapporto con la tecnica, dove tutte le forze oggi dominanti (i «luoghi» indicati all’inizio) sono destinate ad assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza, lo scopo cioè nel perseguimento del quale la tecnica consiste (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro, Rizzoli 2012). Tuttavia quest’ultima forma è preceduta e accompagnata da altre forme dove tale scambio si costituisce tra quelle forze stesse (ognuna peraltro destinata alla fine, come si sta dicendo, a rinunciare alla volontà di essere lo 8 scopo che subordina a sé gli altri e ad assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza). Ad esempio: lo scambio esistente tra felicità e verità - per cui dapprima la verità viene ricercata per essere veramente felici e poi si vuole esser felici per poter contemplare la verità con una felicità diversa da quella che serve a produrre tale contemplazione (cfr. E.S., La buona fede, Rizzoli 1999, 5-6; Dall’islam a Prometeo, Rizzoli 2003, 7). Altri esempi: lo scambio che si produce tra cristianesimo e arte cristiana (cfr. sezione prima, cap. I), tra individuo e Stato, tra individuo e capitale, tra merce e denaro - lo scambio marxiano, questo, che ripropone lo scambio aristotelico tra economia e crematistica (dove l’uso del denaro non ha come scopo l’acquisto e il consumo della merce, ma l’aumento indefinito del denaro stesso). In generale: nella storia dell’Occidente la verità sta alla felicità come l’arte cristiana sta al cristianesimo, come Dio o lo Stato stanno all’individuo, come il denaro sta alla merce, come la tecnica sta al diritto (naturale e positivo) e, infine, sta a tutte le forze che ancora oggi intendono servirsi della tecnica come mezzo per realizzare i loro scopi. Il primo termine di queste coppie è ciò che, assunto inizialmente come mezzo per realizzare il secondo termine, diventa lo scopo di quest’ultimo, che diventa il mezzo. Come volontà di aumentare aU’infinito la propria potenza, e riuscendo a essere la potenza suprema, cioè vincente su ogni altra, l’Apparato scientifico-tecnologico non può non essere planetario, destinato quindi a subordinare a sé ogni forma politica dello Stato e ogni trust sovranazionale che sul fondamento della potenza economica sia riuscito a subordinare a sé tale forma. L’Apparato è cioè destinato a costituirsi come Superstato planetario, essenzialmente diverso dalle logiche politiche che hanno condotto a organizzazioni internazionali come la Società delle Nazioni e l’Onu. La forma 9 politica dello Stato nasce come scopo che gli individui o i gruppi sociali si danno per sopravvivere, rinunciando ai propri impulsi (il cui soddisfacimento costituiva il loro scopo iniziale) e riconoscendo nello Stato il «monopolio legittimo della violenza-potenza». In modo analogo, la conflittualità oggi esistente tra gli Stati (che ripropone il bellum omnium contro, omnes) spinge verso la forma estrema di Superstato, il Leviatano supremo in cui consiste l’Apparato della tecnica (e di cui il Duumvirato Usa-Urss è stato una prima, ancora acerba ma significativa anticipazione). Esso riesce a essere il supremo monopolio legittimo della potenza quando riesce a comprendere il senso autentico della propria potenza perché sente la voce del pensiero filosofico che mostra fimpossibilità di ogni Limite assoluto all’agire dell’uomo e quindi all’agire tecnico, che più di ogni altra forza è capace di oltrepassare i limiti dell’uomo. Ascoltando quella voce, l’Apparato ha la capacità di mostrare l’«illegittimità» di ogni Limite assoluto e di ogni altra forma di potenza. Anche ma non solo in questo senso la filosofia è la madre della potenza estrema. Ancora una volta la filosofia degli ultimi due secoli - e propriamente il suo sottosuolo essenziale e per lo più inesplorato (cfr. sezione prima, cap. II) - è il fondamento della più grande trasformazione storica del pianeta: quella appunto dove la tecnica, ricevendo dalla filosofia la coscienza della propria forza, riesce a subordinare a sé ogni altra forza. Questa, sommariamente indicata, è la configurazione complessiva di ciò che abbiamo chiamato «scambio delle parti» e dell’alienazione nichilistica della verità che sta alla radice di esso. Ad alcune delle forme di tale scambio si rivolgono queste pagine. Quando si parla di «nichilismo» si intende per lo più il crollo dei valori tradizionali. Inoltre, solitamente, il 10 nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato come un fatto che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe non accadere. Questo libro mette appunto in risalto (richiamandosi ad altri miei scritti) l’incapacità di prestare ascolto alla spinta che lo ha fatto inevitabilmente accadere, e al significato di questa inevitabilità. Ma mette in risalto anche qualcosa di ben più decisivo, giacché la definizione usuale di «nichilismo», nonostante la sua visibilità, è soltanto una conseguenza del senso autentico, ossia di ciò che abbiamo chiamato Yessenza - peraltro nascosta del nichilismo. Inutile ogni rimedio se si ignora la natura della malattia. La malattia nascosta (il culmine dell’errare) è la persuasione che le cose siano nulla, e il viverle come un nulla. Tanto più profonda, la malattia, quanto meno si riconosce di esserne affetti. Ma una volta accertata la vera malattia anche il senso del rimedio mostra un volto essenzialmente diverso. Questo tema sta al centro di tutto il mio lavoro filosofico, ma è prevalentemente accessibile a chi ha già una certa confidenza con il pensiero filosofico. Come già ho accennato, questo libro intenderebbe invece coinvolgere nella riflessione su questo tema - che è la radice più profonda di ogni «attualità» - i lettori che tale confidenza non hanno. Intenderebbe, appunto, avvicinarli all’essenza del nichilismo e della potenza - quindi al destino della verità, cioè allo stare autenticamente oltre tale essenza. 1 * Il linguaggio di queste pagine proviene da un gruppo di scritti (alcuni inediti e altri rielaborati), pubblicati prevalentemente sul «Corriere della Sera» e sul settimanale «Liberal» nell’ultimo decennio. 11 Sezione prima Scambio delle parti e alienazione della verità 12 I Il «fiore»: cristianesimo, arte, tecnica 1. Poesia e festa Il titolo di questo capitolo che si rivolge alla poesia di Dante e di Leopardi può lasciare perplessi: «Il fiore»! Che serietà può avere rivolgersi alla poesia - e per di più con un’immagine così scontata come «il fiore» - in un tempo tragico ed enigmatico come il nostro, dove i popoli poveri intendono non essere esclusi dalle ricchezze dei ricchi e dove la tecnica sta avviandosi al dominio su tutte le altre forze della civiltà? La lotta contro il dolore e la morte si è fatta troppo dura perché sia ancora lecito rivolgersi alla poesia e ai fiori. Ma dobbiamo subito chiederci qui: la poesia non ha proprio nulla a che vedere con la lotta contro il dolore e la morte? È così scontato che la poesia appartenga al regno del superfluo? Queste domande non intendono alludere al luogo comune che, dopo aver chiuso la poesia nella dimensione dell’«estetica», crede che la poesia sia qualcosa di indispensabile per le anime belle. Oggi, indebolendosi, la poesia è diventata anche questo. Ma alVorigine la poesia appartiene invece al gesto essenziale che l’uomo compie contro il dolore e la morte. Appartiene al rimedio essenziale. In principio, il gesto e il rimedio essenziale sono la festa arcaica. All’origine la festa unisce e fonde in sé ciò che in seguito si separa e diventa canto, mito, rito, danza, poesia, arte, sapienza, saggezza, filosofia, tecnica, scienza (cfr. E.S., Dall’islam a Prometeo, cit., 8). Quanto più la poesia si allontana dall’originaria casa festiva, tanto più si indebolisce e diventa oggetto di godimento estetico - cioè qualcosa che può certamente sembrare superfluo rispetto ai bisogni primari dell’uomo. E invece, nell’antica lingua greca «poesia» - poìesis 13 - significa «produzione». La poesia appartiene cioè all’ambito della potenza. Come gli altri fattori della festa. 14 2. Gli «odori» Anche in seguito la grande poesia conserva le tracce di quell’antica potenza. Nel canto XIX del Paradiso (w. 22-24) Dante si rivolge così ai beati: [...] O perpetui fiori de l’eterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti i vostri odori. Sono, i beati, i perpetui fiori della letizia divina. Fioriscono dall’albero della letizia eterna, che li unisce in modo che i loro «odori», per i quali essi si distinguono l’uno dall’altro, paiono e sono tuttavia un unico profumo: «pur uno». Mezzo millennio dopo, Leopardi compone La ginestra o il fiore del deserto. Rivolgendosi alla ginestra il canto dice (w. 32-37); [...] Or tutto intorno una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo che il deserto consola. Il riferimento a Leopardi e a questo suo canto può sembrare estrinseco. Eppure il pensiero di Leopardi porta al tramonto l’universo in cui si muove il pensiero di Dante. Leopardi, prima ancora di Nietzsche, e nel modo più radicale, mostra l’impossibilità di ogni eterno, di ogni Dio, di ogni eterna letizia. Non si tratta dell’opinione, della fantasia, del sentimento di un «poeta» infelice e deluso. Leopardi, come altrove ho mostrato, apre la strada della filosofia del nostro tempo: un percorso inevitabile che tuttora è in attoed è la radice del distacco del nostro tempo dalla grande tradizione occidentale, che a sua volta ha la propria radice nel pensiero filosofico dei Greci. 15 Di questa radice Dante è pienamente e potentemente consapevole. Quando all’uomo non basta più la letizia della festa arcaica, nasce la letizia della filosofia, che per i Greci è la massima di cui l’uomo possa godere sulla terra. Ma, in precedenza, la festa è il primo rimedio c ontro la paura del dolore e della morte perché è l ’immagine della lotta umana contro di essi. Nella festa l’uomo si identifica a questa immagine. L’immagine si solleva e si libra al di sopra della lotta: già per questo librarsi si sente libera dal pericolo e dalla paura, ossia è vittoria, lotta vincente, godimento della salvezza. La paura che è vinta dalla festa è più originaria e angosciante della paura di chi, ormai all’interno del regno della ragione e della fede cristiana ha «paura» perché si è allontanato dalle leggi divine, dalla «diritta via» della salvezza. Lo dice anche Dante all’inizio deìYInferno. La «selva oscura» è la lontananza da Dio, dalla quale proviene «la paura»; ma questa selva paurosa Tant’è amara che poco è più morte. ( Inferno , I, v. 7) È tanto amara che la morte è poco più amara. Il che vuoi dire che la paura della morte è ancora più amara della paura suscitata dalla lontananza di Dio. È questa ancor più amara paura a essere inizialmente vinta dalla festa arcaica. Il deserto della morte è dunque ancora più originario del «gran diserto» (Ibid., v. 64) della selva dove Dante incontra Virgilio. La paura che non è ancora raggiunta e vinta dall’evocazione dell’immagine festiva è essenzialmente più radicale di quella di chi, dopo aver abitato quell’immagine, se ne è allontanato credendo di trovare altrove il rimedio, e teme le conseguenze di questo suo gesto - e tuttavia, anche e proprio per questo 16 suo timore è pur sempre in rapporto con la dimensione festiva e salvifica. Di quel più originario e pauroso deserto, da cui l’uomo ha sempre tentato di salvarsi, parla il canto della Ginestra. Il «fiore del deserto» «il deserto consola». Nel mondo di Dante i perpetui fiori dell’eterna letizia sono lo stato più alto dell’uomo. Ma Leopardi vede l’impossibilità di questa letizia: dal deserto che è il regno della morte non si può uscire. La ginestra è il poeta stesso; il «poeta» è insieme il «filosofo»; il «genio» è l’unità di poesia e filosofia, e questa unità è lo stato più alto che l’uomo può raggiungere prima di essere afferrato dal nulla della morte (e dopo che la tecnica ha invano tentato di salvarlo). Leopardi vive e sa di vivere questo stato supremo, effimero paradiso terrestre; sa di essere il «genio». Il genio della ginestra «consola» il deserto perché sa che non ci si può salvare dal deserto della morte. La consolazione consiste nella poesia pensante, nel pensiero poetante. (Cfr. E. S., Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli 1990 e Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli 1997). Nell’incontro di Dante col «cielo», all’inizio del viaggio nell’oltretomba, la parola «consolazione» è invece assente in quanto riferita alla paura del poeta. Dal «cielo» giunge per lui la salvezza. Quando Virgilio glielo dice, Dante si sente come i fiori che escono dal gelo notturno - e questo suo stato è la prima prefigurazione della rosa dei beati: Quali i fioretti, dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che ’l sol li imbianca si drizzan tutti aperti in loro stelo tal mi fec’io [...]. ( Inferno , II, w. 127-130) Dalla paura del gelo notturno al calore eterno - «un sol calar di molte brace» -, da cui si leva l’unico «odore» dei fiori dell’eterna letizia. 17 3. Volontà di sapienza Volendo essere il rimedio contro la paura originaria del dolore e della morte, la festa arcaica vuol essere sempre più potente. Questa volontà attraversa l’intera storia dei mortali e oggi si presenta come civiltà della tecnica. Potenziamento crescente della festa, che è potenziamento delfimmagine festiva della lotta in cui la vita consiste. Il potenziamento delfimmagine festiva procede lungo due vie: quella del contenuto delfimmagine e quella della forma, cioè del modo in cui l’immagine esprime il contenuto. Ma appunto perché la potenza originaria della festa sdoppia la via della propria crescita, appunto per questo l’originaria potenza festiva si indebolisce. Il potenziamento del contenuto è il sorgere e l’articolarsi del mito; il potenziamento della forma è il sorgere e l’articolarsi di ciò che sarà chiamato «arte», «poesia», «tecnica». Gli abitatori originari della casa festiva tendono a separarsi e la separazione diviene violenta e irreparabile quando il contenuto sapienziale del mito non sa resistere alla propria volontà di sapienza e diventa lògos, ragione, filosofìa. Il mito, infatti, vuole sapere per salvare. Ma la volontà di salvezza è massimamente esigente: richiede che il sapere sia capace di resistere a qualsiasi dubbio; e ciò che possiede in modo assoluto questa capacità è la «verità», intesa come i Greci per la prima volta l’intendono, cioè come sapere che non può essere in alcun modo smentito. Questo il senso della verità che, lungo l’intera tradizione dell’Occidente, giunge fino al XIX secolo - fino a Leopardi. In questo senso della verità il pensiero di Dante è essenzialmente immerso, e in modo pienamente consapevole. È questo senso radicale della verità a separarsi dal mito e a scorgere e insieme a produrre il differenziarsi; il separarsi e dunque l’indebolimento degli abitatori dell’antica casa festiva. 18 Li separa da sé e gli uni dagli altri. Separati, è inevitabile che si trovino estranei gli uni agli altri, dunque sostanzialmente in conflitto e pertanto privati della forza a essi conferita dalla loro unità originaria. Arte, poesia, tecnica, sapienza incominciano a vivere di vita propria. La loro capacità di salvare dal dolore e dalla morte si prolunga, ma indebolita. Pochi oggi credono che la poesia o la filosofia possano salvare dal dolore e dalla morte. E il discorso può essere esteso in consistente misura alla religione. Eppure, per quasi due millenni e mezzo la verità evocata dalla tradizione filosofica è la via lungo la quale procede non solo Finterà cultura, ma l’intera civiltà dell’Occidente. È la «diritta via», la «verace via» di cui parla Dante. Nascendo, la filosofia porta alla luce la forma estrema di ciò che per il mortale è il pericolo: intende il dolore come l’andare nel «nulla» da parte dei piaceri, e la morte come l’andare nel «nulla», da cui non c’è ritorno, da parte della vita intera. E per poter così intendere il dolore e la morte la filosofia deve pensare il significato radicale del «nulla» e dell’«essere». La filosofia salva il mortale perché essa crede che la verità esiga che quanto più conta, nella vita dell’uomo, sia già da sempre salvo dal nulla, cioè sia in quell’Essere, o addirittura sia quell’Essere, già da sempre salvo dal nulla, che è il divino. In questa concezione del divino si inserivano l’esperienza cristiana e la riflessione teologica su di essa. Dante è uno dei massimi testimoni di questa inscrizione. 19 4. Potenza della «bella menzogna» Ma i testimoni non aggiungono alcunché al testimoniato. Questo significa che Dante non è soltanto un testimone. Si sa che il concetto che Dante possiede della poesia va in direzione opposta al suo fare poetico. Egli non fa quel che pensa. Pensa che la poesia sia soltanto «bella menzogna» qualora non si faccia «banditrice del vero», testimone della verità che sta nascosta sotto «il velame della favola» e il «favoloso e ornato parlare». Dante pensa della poesia quello che pensa Platone. E anche di tutto il gran volume della sapienza greco-latina- cristiana - comprendente anche la configurazione dell’oltretomba e i viaggi che in esso si possono compiere -, anche di tutto questo egli pensa, nella sostanza, quel che è già stato pensato, per quanto rilevanti siano alcune sue prese di posizione. Scrive allora la Commedia solo per esprimere in un «favoloso e ornato parlare» la verità già pensata da altri? Per questo impegna e consuma tutta la sua vita? Impegna e consuma tutta la sua vita per qualcosa di essenzialmente più decisivo. Anche senza rendersene conto, con la Commedia egli intende produrre la nuova immagine salvifica della festa: intende rinnovare la festa che salva, consentendo ai mortali di sopportare il dolore e la morte. Questo suo gesto scuote fino alle radici il grande albero della tradizione. Che Dante scriva la Commedia significa cioè che per lui la grande sapienza della tradizione greco-cristiana e la stessa vita a essa conforme hanno una potenza salvifica inferiore a quella della dimensione dove la verità e la vita adeguata alla verità sono il contenuto del canto e della poesia. «Bella menzogna» e «velame della favola», la poesia, quando il suo contenuto non è la verità; ma più potente della 20 nuda verità quando, avendo come contenuto la verità, le conferisce una potenza salvifica ben superiore a quella che la verità possiede di per sé sola. La poesia della verità parla inoltre a tutti, anche agli indotti. La difesa di Dante della lingua volgare, su cui egli fa crescere il proprio linguaggio poetico, non è un fatto semplicemente letterario o astrattamente culturale, ma esprime la coscienza che ad attendere e a tendere alla salvezza della verità sono tutti i mortali, e coloro, tra essi, che sono gli indotti, possono identificarsi a quella rinnovata immagine festiva, che è la verità della filosofia, solo se tale immagine si presenta non nella sua cruda e astrale concettualità, ma, attraverso un ulteriore rinnovamento, con le parole terrene della poesia. Unendo poesia e filosofia (e, sul tronco della filosofia, il cristianesimo), Dante fa cenno all’antica festa di ritornare presso i mortali. Ciò significa che troppo flebile rimembranza è per lui la liturgia cristiana - in cui peraltro si sente ancora forte l’eco della festa arcaica. Dante pensa che dalla poesia non possa separarsi la festa della verità e della cristianità - cioè il luogo dove sulla terra il mortale sperimenta la propria salvezza e la propria destinazione all’«eterna letizia». La liturgia cristiana deve diventare liturgia poetica. Questo pensiero di Dante non si mantiene dunque sotto la protezione della cattedrale del passato: scava a fondo nel terreno del suo tempo e sbuca in un altro emisfero. In tale pensiero si dice che lo scopo dell’esistenza è l’immagine festiva come unità di poesia e di filosofia. Dante non si limita a essere un grande testimone della situazione dove lo scopo dell’esistenza, sulla terra, è la verità cristianamente concretantesi e la vita a essa adeguata: al di là delle sue convinzioni sulla poesia, Dante, nel suo agire poetico, evoca la poesia come fattore indispensabile all’immagine festiva che 21 consente all’uomo di sopportare il dolore e la morte. Certo, la poesia è terrena; a differenza della nuda verità parla, oltre che ai sapienti, anche agli indotti; mentre nella letizia eterna del paradiso nessuno è indotto. Nell’eterna letizia la poesia, in quanto indispensabile alla verità, è cioè destinata a scomparire come scompare la fede - giacché la fede è l’assenso alle «cose che non si vedono» (non apparentia, dice l’apostolo Paolo), mentre nel paradiso le cose si mostrano e non hanno bisogno della fede. Ma perché qui, sulla terra, si libri l’immagine festiva e salvifica è necessario che alla fede, che cresce sul tronco della verità filosofica, si unisca anche la poesia. E Dante è pur sempre un essere terreno quando giunge al cospetto dei fiori dell’Eterno e della «candida rosa». Rispetto alla verità che si mostra nel paradiso, le forme visibili della «rosa sempiterna» dei beati - «Il fiume e li topazii / ch’entrano ed escono e il rider de l’erbe» ( Paradiso , XXX, v.v. 76-77) - sono forme esterne, preamboli, prefazioni - «prefazi» - della loro verità, che in qualche modo esse coprono d’ombre («son di lor vero umbriferi prefazi», ibid., v. 78), mentre i beati la contemplano in sé stessa. Ma nella condizione terrena - all’interno della quale Dante pur sempre rimane compiendo il suo viaggio nell’oltretomba - è l’ombra terrena della poesia a illuminare la sapienza del contenuto, a rendere potente l’immagine che salva: a rendere potente la sua forza salvifica e a rendersi quindi indispensabile alla potenza dell’immagine: E vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogni parte si mettean ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive. Poi, come inebriate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge; e s’una intrava, un’altra n’uscia fòri. 22 ( Ibid w. 61-69) Come semplice verità della ragione e della fede, l’immagine terrena della beatitudine del paradiso impallisce e dunque non dispiega la propria potenza salvifica se i beati non appaiono insieme nelle forme della poesia: come i perpetui fiori dell’eterna letizia che ora, in questa più alta regione del cielo, formano le due rive, «dipinte di mirabil primavera», del fiume, «fulvido di fulgore», da cui escono di continuo le scintille degli angeli della vita eterna, api che sui fiori depongono rubini nell’oro e che restano a loro volta «inebriate da li odori». 23 5. Poesia e sapienza filosofico-cristiana Imponendo la propria presenza alla liturgia sacra, la liturgia poetica, si è detto, scava nel terreno del tempo in cui Dante vive - e sbuca in un altro emisfero. Di che cosa si tratta? La Commedia apre uno spazio nel quale lo scopo del mortale è l’immagine festiva dove la poesia si unisce alla filosofia - e dove la sophla si dispiega nel kérygma cristiano. Anche se Dante deve chiamare «commedia» e non «tragedia» il proprio poetare cristiano, tuttavia la commedia, sulla scia della tragedia attica intende riproporre il clima della festa arcaica - sebbene ormai la festa non possa più prescindere dalla filosofìa, che è peraltro il principio della separazione degli abitatori della casa festiva. Dante pensa come scopo dei mortali la festa, nella forma poetica della «commedia» filosofico-cristiana. (La tragedia infatti si arrende al dolore e alla morte, dice Platone nel libro X della Repubblica e quindi è la «commedia» la forma poetica adeguata all’eterna letizia cristiana). San Pietro gli dice: E tu, figliuol, che per lo mortai pondo ancor giù tornerai, apri la bocca, e non asconder quel ch’io non ascondo. (Paradiso, XXVII, w. 64-66) Il riferimento immediato è alla corruzione della Chiesa, ma il contesto imprescindibile di tale riferimento è tutto il contenuto della Commedia : su tutto questo contenuto Dante è convinto di dover aprire la bocca e non nascondere quel che in cielo non è nascosto. Non nasconderlo è proclamarlo appunto scopo dell’uomo. E se lo scopo è il dispiegarsi dell’immagine festiva, nella quale il contenuto filosofico- cristiano deve stare unito alla poesia, allora, questo contenuto, in quanto separato dalla poesia, non è più lo scopo a cui l’uomo deve mirare. 24 Ma quando la filosofia, che già si è fatta innanzi, si unisce al messaggio cristiano, è soprattutto questo messaggio a parlare alle genti, e a dir loro che la salvezza si ottiene seguendo Gesù e nient’altro. Ogni altro che si voglia seguire è un secondo padrone; e non si possono servire due padroni. Quaerite primum regnum Dei. Il messaggio cristiano non dice di tendere all’unità del regno di Dio e della poesia. La primarietà che compete al regno di Dio in quanto scopo non include la poesia. La «bella menzogna» della poesia, «il velame della favola» poetica, «il favoloso e ornato parlare» non sono necessari per andare in cielo. La Commedia di Dante, già con la sua semplice esistenza, intende invece mostrare che il viaggio dalla terra al cielo è autentico solo se è avvolto, espresso, sorretto dalla poesia. Unita alla filosofia cristiana, la poesia salva. In quanto separato dalla poesia, il contenuto filosofico-cristiano cessa quindi di essere lo scopo: diventa, nella Commedia, il mezzo per poter cantare la verità, cioè per raggiungere quello scopo che è «l’unità della verità e del canto. Cercate per prima l’unità del regno di Dio e della poesia. Separato dalla poesia, il regno di Dio non salva. Questo è lo straordinario pensiero di Dante - anche se in lui tale pensiero può aver evitato di guardare in faccia sé stesso. Tale pensiero è infatti la perentoria negazione del mondo sapienziale e morale - cioè della filosofia e del cristianesimo - che pure è cantato nella Commedia. Nel pensiero di Dante la salvezza può presentarsi all’uomo in un’immagine salvifica che dev’essere guidata da due padroni, cioè dal mondo cristiano e dalla poesia; e pertanto il mondo cristiano, come id quod primum quaeritur, dunque come indipendente e separato dalla poesia, non appartiene allo scopo dell’esistenza. Tale mondo può essere cioè presente solo come mezzo per raggiungere lo scopo, ossia l’unità di 25 mondo cristiano e di poesia, e dunque resta negato, essenzialmente negato, nella sua pretesa di essere l’unico padrone a cui l’uomo debba affidarsi - che è la pretesa evangelica. La Commedia si rivolge al divino - al salvifico - per cantarlo; non canta per rivolgersi al divino. Non canta per rivolgersi al divino, inteso come l’unico padrone che si serve della poesia per mostrare la propria gloria al di sopra di tutto, anche della poesia. Così inteso, il divino non salva. Certo, il canto della Commedia canta il divino, ma, appunto, è il divino che appare nella sua inscindibile unità alla poesia - e che è salvifico solo in quanto è cantato. Questo che si è indicato è il tratto comune di tutta la grande arte cristiana, da Giotto a Bach e oltre ancora, lungo un processo dove il divino diventerà sempre di più il pretesto perché il canto si levi come unico padrone di ciò che rimarrà dell’immagine festiva sapienzialmente e religiosamente salvifica. Diventa sempre più intenso e perentorio il processo in cui, per il grande artista «cristiano», al di sopra di tutto - anche al di sopra del messaggio di Gesù - finisce con Tesserci l’arte; nell’arte egli vede, sempre di più, la salvezza. Quando non si sentirà più cristiano, l’artista crederà di essere lui il vero creatore del mondo. La negazione oggettiva - ossia non intenzionale - del mondo sapienziale della tradizione greco- cristiana è quella esercitata dall’arte nel tempo della dominazione di tale mondo. Sussiste, questa dominazione, anche quando le forze della terra, specie quelle pratico- economico-politiche agiscono in direzione contraria alla sapienza e alla morale filosofico-cristiana. Anche questo agire è una negazione di tale sapienza, ma è una negazione che avviene alTinterno del riconoscimento esplicito, da parte dei potenti, che tale sapienza è l’inviolabile guida del mondo. È quindi una negazione in malafede. Video meliora proboque, 26 deteriora sequor. Invece la grande arte cristiana, dunque anche la poesia di Dante, non nega in malafede la sapienza filosofico-cristiana, perché ancora non sa o ancora non rende esplicito che il suo sentirsi indispensabile a tale sapienza, e alla evocazione delfimmagine salvifica, è in effetti la negazione perentoria del modo in cui il cristianesimo, cresciuto sul tronco della filosofia greca, intende sé stesso. È una negazione che dal sottosuolo preme sul pavimento della coscienza, ma che ancora non lo frantuma e non si rende visibile. 27 6. «L’anima riceve vita» Negazione perentoria ma implicita, dunque; e non solo implicita ma an che soltanto «sentita», voluta, vissuta, cioè senza sostegno e fondamento che non sia appunto la prepotenza con cui il nuovo modo di sentire del poeta si contrappone al vecchio, sapienziale - il vecchio modo che però ha alle proprie spalle il fondamento costituito dalla grande tradizione filosofica. Per quanto innovatrice, la negazione della verità della tradizione, da parte della poesia e dell’arte, attende ancora che venga alla luce la necessità di lasciarsi alle spalle la verità che la filosofìa ha portato alla luce e in cui si manifesta il «vero» senso del divino. Nel tempo del dominio della verità filosofico-cristiana, l’arte cristiana apre la porta alla «morte di Dio», ma senza ancora sapere quel che sta facendo e senza riuscire a scorgerne la legittimità e la necessità. È Nietzsche a parlare della «morte di Dio» - e a fondarla (cfr. sezione prima, cap. V). Ma è innanzitutto il pensiero di Leopardi a scorgere questo fondamento a mostrare la necessità di questa morte, cioè Yimpossibilità di ogni eterno, di ogni divino, di ogni vita perpetua che fiorisca dall’eterna letizia. Nonostante tutto, la gigantesca potenza filosofica di Leopardi rimane oggi ancora celata, sebbene fosse stata intravista da Nietzsche e Wagner. Di questa gigantesca potenza, qui, non si può dir nulla di determinato e pertanto rinvio ancora una volta ai miei due scritti sopra ricordati, Il nulla e la poesia: Leopardi; e Cosa arcana e stupenda. Si deve però richiamare che il carattere indissolubile dell’unità di poesia e filosofìa, al quale Dante guarda per primo nel mondo cristiano, forma uno dei temi più esplicitamente, potentemente e diffusamente presenti nel pensiero di Leopardi. Ma è presente nella sua innegabile 28 necessità - cioè appoggiandosi al fondamento, di cui qui sopra si parlava, che invece è assente nella negazione del mondo sapienziale cristiano da parte dell’arte cristiana e dunque della poesia di Dante -, cioè nella negazione che è soltanto volontà di negazione, soltanto volontà di autoaffermazione. E va aggiunto che l’unità di poesia e filosofia è presente nel pensiero di Leopardi con il senso radicalmente nuovo che la filosofia assume quando essa si rende conto delfimpossibilità della «verità» e del «divino» evocati dalla tradizione dell’Occidente. Leopardi mostra per primo, aprendo la strada della filosofia del nostro tempo, che l’uomo non può salvarsi dal nulla. La «verità», ora, è questa, terribile. Ci si è anche rallegrati, nella cultura degli ultimi due secoli, della morte di un Dio divenuto più angosciante della paura da cui egli avrebbe dovuto liberare. Ciononostante l’angoscia diventa massima quando ci si rende conto che nessuna opera umana potrà mai salvare l’uomo dal nulla. Il contenuto del mito consente al mortale di sopportare il dolore e la morte: è il tratto sapienziale che, sebbene unito agli altri tratti dell’immagine festiva, più le conferisce la potenza salvifica e dunque la letizia per la quale la festa si configura come lo scopo supremo del mortale. La filosofia porta il mito al tramonto, ma nella tradizione dell’Occidente ne diventa anche l’erede. La filosofìa della tradizione è la suprema theoria - e in origine questa parola significa appunto «festa». Ma quando la filosofia scorge, e innanzitutto nel pensiero di Leopardi, che la verità innegabile è l’impossibilità, per l’uomo, di salvarsi dal nulla, allora la verità della filosofia non può più dare alcuna letizia. Leopardi vede dapprima che la conoscenza della verità rende estrema e insopportabile l’angoscia dell’uomo e che se per il mortale può esserci, sia pur breve, un tempo di letizia, cioè di festa, questo deve nascondere la verità e non essere altro che «bella 29 menzogna» - che dunque può essere solo «umbrifera», apportatrice di ombre che oscurano e che non possono essere, come in Dante, «prefazii» della verità. Ma dopo questo primo modo di intendere la poesia Leopardi si avvede anche, ben presto, che ormai non solo r«intelletto», ma nemmeno la «fantasia» può lasciarsi ingannare dalla poesia e che dunque è inevitabile che anche e soprattutto nella poesia la verità terribile si mostri. Il risultato di questa consapevolezza è che l’unico tratto festivo e caducemente salvifico concesso al mortale è la potenza con cui la poesia esprime la nullità dell’uomo. Il «genio» è il produttore: gignens. Genera quanto ormai, eco lontana, è possibile ripristinare dell’immagine salvifica della festa. Volgendosi all’opera del genio, - dice Leopardi nel «pensiero» 259-61 dello Zibaldone - «l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria». Questa «vita» è appunto quanto rimane dell’antica letizia della festa - le opere del genio, scrive Leopardi in quel «pensiero» dello Zibaldone, «riaccendono l’entusiasmo», sono «consolazione» che «apre il cuore e ravviva» ma tale «vita» e «forza» festive posseggono la potenza dell’immagine in cui il genio presenta la terribile verità innegabile della filosofia, cioè la morte e la nullità dell’uomo e di tutte le cose. L’immagine prodotta dal genio unisce la poesia alla filosofia, ma è la potenza della poesia a consentire al mortale di sollevarsi ancora per un poco al di sopra del nulla che si mostra nella verità terribile della filosofia. Nel genio, l’unione di filosofia e poesia è l’ultimo modo in cui, col disincanto rispetto alla tradizione cristiana, è concessa al mortale l’aura festiva di una passeggera letizia. Il pensiero di Leopardi mostra cioè che quando sarà manifesta 30 l’incapacità della tecnica di salvare l’uomo dal nulla, resterà quell’ultima forma di tecnica che è la poesia pensante del genio, l’ultima festa - «l’ultimo quasi rifugio», dice Leopardi - a cui tendere prima del «silenzio nudo» e della «quiete altissima» della morte. 31 7. Il «profumo» e il «deserto» Il genio è la ginestra, il «fiore del deserto». La ginestra «siede» tra le rovine del deserto che il vulcano ha steso attorno a sé: una ruina involve dove tu siedi, o fior gentile. come il genio, cioè Leopardi, «siede» a notte sulle «rive» del «flutto indurato» della lava: Sovente in queste rive; che, desolate, a bruno veste il flutto indurato, e par che ondeggi, seggo la notte. Il «lume» divino, le «scintille» del fiume di fuoco dell’amore divino fulvido di fulgore, intradue rive dipinte di mirabil primavera. è ormai divenuto «il flutto indurato» della lava, sepolcro che sigilla, copre e a «bruno veste» la vita annientata dal fuoco del vulcano. La mirabile primavera delle rive del paradiso è vestita a lutto. La ginestra, cioè il genio, siede tra le rovine delfeterno. Esse sono il «deserto». Ma Inodorata ginestra», che è la «nobile natura» del genio, è «contenta dei deserti»: guarda in faccia il deserto del nulla e, sapendo di non potervisi sottrarre, ne è «contenta», cioè non si illude di poter aver altro, non si sente il perpetuo fiore dell’eterna letizia che «d’eternità s’arroga il vanto». La «nobile natura» del genio della ginestra tien ferma dinanzi agli occhi la verità terribile, non le sottrae nulla, non distoglie lo sguardo dal fato comune del nulla: 32 Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al cumun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale. Non detrae nulla dal «vero» in cui appare l’essenziale nullità deH’uomo; ardisce sollevare lo sguardo mortale sulla verità: questa forma intransigente di volontà di verità è l’essenza della filosofia del nostro tempo. Leopardi la inaugura. Ma la «franca lingua» che nulla detrae alla verità è la libera lingua della poesia, la potenza dell’immagine che mostra l’impotenza dell’essere e dell’uomo. Senza la potenza poetica l’uomo è subito risucchiato nella pietrificata contemplazione nel nulla. Riesce a persistere ancora per un poco nell’ultima eco dell’aura festiva, unendo dunque filosofia e poesia. La ginestra non detrae alcunché alla verità angosciante della nullità del tutto; e tuttavia il can i. C’è uno «scambio delle parti» già a partire dal «fiore» della poesia, che da mezzo per mostrare la verità diventa fine; per arrivare alla tecnica, che, da mezzo per realizzare gli scopi delle grandi forze dell’Occidente è destinata a diventare il loro scopo. Anche le pagine che seguono possono essere lette come un contributo a una fenomenologia, finora solo abbozzata nei miei scritti, di questo «scambio delle parti». 35 Poesia, tecnica e meccanismo dello scambio delle parti Il problema del fiore della poesia conduce dunque al problema della tecnica. Oggi se ne continua a discutere. Ma se ne discute rimanendo all’interno della dimensione che ha reso possibile qualcosa come la festa, la tecnica, la poesia, il mito, la filosofia, il cristianesimo, la scienza. Si rimane all’interno della dimensione dove l’uomo percepisce sé stesso come un mortale, che in preda alla morte e al nulla ha bisogno di salvarsi. Siamo proprio sicuri che questa dimensione, in cui l’intero pianeta è ormai completamente immerso, non debba finalmente esser messa essa stessa in questione? Siamo proprio sicuri che l’eterna letizia non possa avere altro significato che quello che la tradizione le ha conferito? Al di là di questo significato, noi siamo perpetui fiori dell’eterna letizia, ma non nel senso che è stato inevitabilmente distrutto dal pensiero e dalla cultura del nostro tempo. Il senso autentico dell’eternità del Tutto è abissalmente lontano dal senso che l’eterno possiede nella tradizione filosofico-cristiana; e non è nemmeno qualcosa che possa essere rintracciato in qualche altra forma di civiltà, diversa da quella dell’Occidente - anche se esso risplende nel fondo di ogni uomo. Nel paradiso della tecnica, la tecnica può essere guidata e animata o dalla scienza moderna o dalla poesia che si unisce alla filosofia del tempo della tecnica. Ma in entrambi i casi, per quanto alta possa essere la luce del tramonto, è inevitabile che ci si renda conto dell’essenziale incapacità del mortale di vincere il nulla - ossia di vincere il divenire, il contenuto della fede, cioè della volontà che le cose siano un uscire dal nulla e un ritornarvi. Comunque si configuri, il paradiso della tecnica è cioè destinato all’angoscia estrema. 36 Può essere quello, allora, il tempo in cui l’uomo incomincia a volgersi verso il senso inaudito dei fiori dell’eterna letizia. Esso non è un futuro da produrre e da creare. Già da sempre attende di essere condotto fuori dall’ombra: già da sempre attende che tramontino le ombre che attirano su di sé la cura dei mortali, lasciando fuori del linguaggio (e, in questo senso, nell’ombra) la luce piena di quel senso inaudito. 37 II Preghiera e «macchina» politico-economica 1. Credere e pregare Nella sua essenza il cristianesimo è una grande religione della salvezza. Ma - Gesù è esplicito - solo chi crede in lui sarà salvo. La fede, peraltro, può ottenere la salvezza solo se la vuole, e solo se, d’altra parte, questo volerla non è un atto di imperio ma è un chiederla a Dio. Chiedere a Dio la salvezza è pregare. Nella sua essenza il cristianesimo è quindi la preghiera, così intesa. Appunto per questo Tertulliano dice che la preghiera insegnata da Gesù «è veramente la sintesi di tutto il Vangelo». Alla fine del Vangelo di Marco (16, 16-17) Gesù dice: «Chi crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato». Ma prima di questa sentenza il testo (Me., 11) racconta come Gesù abbia unito strettamente e sorprendentemente il tema del credere a quello della preghiera. In quanto inseparabile dalla fede, la preghiera sta dunque al centro di ciò che più conta: la salvezza eterna. In quel testo Gesù dice. «Abbiate fede in Dio. In verità vi dico che se qualcuno dirà a questa montagna: “Togliti di lì e gettati nel mare”, e non avrà alcun dubbio nel suo cuore [et non haesita = verit in corde suo], ma crederà che quel che dice s’abbia a compiere [fiat], questo gli accadrà [fiet ei]. Perciò vi dico: tutte le cose che chiederete nella preghiera abbiate fede [credite] di ottenerle e le otterrete [et evenient vobis]. E quando vi accingete a pregare, perdonate, se avete qualcosa contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli vi perdoni i vostri peccati». Marco accenna subito dopo a quello che a suo avviso è il centro della preghiera insegnata da Gesù, ma non lo sviluppa. Essa è invece compiutamente riportata nel Vangelo di Matteo (6, 9). 38 In questa concezione della preghiera è presente un grande sottinteso. Supponiamo che un uomo chieda a Dio qualcosa, per esempio di essere aiutato in una certa circostanza, ma che in un primo tempo Dio ritenga di non dargli ascolto; e che tuttavia quell’uomo insista, sino a che, alla fine, riesca a ottenere quel che voleva. Se ci si chiede che Dio sia mai questo, la risposta è scontata: non è il Dio delle religioni monoteistiche; non è il Dio di Gesù. E non può esserlo, perché se alla fine egli cambiasse parere ciò accadrebbe o perché quell’uomo è più potente di lui, oppure perché alla fine Dio si renderebbe conto di aver avuto torto a non dargli ascolto subito. Ma un Dio che è meno potente di un uomo o che può aver torto non è, appunto, il Dio del monoteismo, non è il Dio di Gesù. Chiedere a Dio qualcosa è pregare. Se si prega Dio di avere da lui qualcosa che egli non vuol dare, non si potrà mai essere esauditi. Egli è l’Onnipotente. A Dio si può chiedere dunque solo quel che egli vuol dare. Si può volere solo quel che egli vuole. Appunto per questo, Gesù insegna a dire, nella preghiera: «Sia fatta la tua volontà». È sul fondamento di questo decisivo sottinteso che va interpretato il senso deH’affermazione paradossale che la fede muove le montagne e che, se uno riesce ad avere la forza (si potes) di credere, «tutte le cose sono possibili per lui» (omnia possibilia sunt credenti, Me., 9, 23). Se avendo fede si ottiene il massimo, cioè la salvezza eterna, si può anche ottenere tutto il resto. Purché sia voluto da Dio, l’Onnipotente. Già Platone, dando forma filosofica al mito biblico, afferma che Dio è «tecnica» divina, cioè la più potente. Inoltre, se Gesù dice che chi crede sarà salvo, egli vuole la salvezza dell’uomo. Quel suo dire è cioè un comandare 39 all’uomo di credere. Non lo lascia solo, dunque, a trovare la forza che lo porti a credere. Vuole che creda. E quindi, pregando, l’uomo deve innanzitutto chiedere, senza aver dubbi, di credere, e otterrà di essere un credente, cioè salvo. (Chiedendo di credere, chiede insieme di non aver dubbi intorno a questa sua richiesta. Si può mostrare che chiedere con fede di aver fede non è una contraddizione?) Dal punto di vista cristiano, se l’uomo vuole ciò che Dio vuole, non può non ottenerlo, perché Dio è l’Onnipotente. Da quel punto di vista, la fede che muove le montagne non è un paradosso. Pregando nel modo voluto da Gesù, l’uomo non solo ottiene ciò che vuole, ma sa di ottenerlo, perché non può non sapere di voler quello stesso che è voluto da Dio, che è l’Onnipotente. E non spezza nemmeno in due quella preghiera, come se nella prima parte di essa egli voglia che sia fatta la volontà di Dio, ma nella seconda gli dica quel che vuole lui - il pane quotidiano, la remissione dei debiti; la liberazione dal male ecc. Infatti, se Gesù gli comanda di chiedere il pane, è perché sa che il Padre vuole che l’uomo abbia il pane. Lo stesso si dica per gli altri doni richiesti. Anche per quello che è espresso dalle parole «e perdona a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Infatti nella preghiera autentica l’uomo può chiedere di essere perdonato solo se sa che Dio vuole perdonarlo. E lo sa per lo meno perché crede che sia il Figlio di Dio a comandargli di chiedere al Padre di essere perdonato, e il Figlio non potrebbe comandarglielo se sapesse che Dio non vuole perdonare l’uomo. La preghiera di Gesù contiene dunque anche l’implicazione, vincolante e compromettente, tra il perdono per i propri debiti, che un uomo chiede a Dio, e il perdono, da parte di quest’uomo, dei debiti che gli altri hanno nei suoi 40 confronti. Perdonami come io perdono, dice quell’uomo. Egli chiede perdono perché sa che Dio vuole perdonarlo. Ma il suo perdonare i debiti che gli altri hanno contratto nei suoi confronti? Questo suo perdonare gli altri può essere un gesto che riguardi lui solo, cioè dove Dio lo lasci solo a compierlo? No. Lasciarlo solo vorrebbe dire, per Dio, non volere che l’uomo perdoni e non volere nemmeno che non perdoni: starsene in disparte lasciando che sia l’uomo a trovar la forza che lo può salvare eternamente - visto che se non perdona non è perdonato. Ma in questo modo l’uomo dovrebbe volere qualcosa che Dio o non vuole o rispetto a cui è indifferente. Verrebbe meno, allora, il principio per il quale l’uomo può ottenere soltanto ciò che Dio vuole. È dunque impossibile che Dio, dopo aver detto all’uomo che se non perdonerà non sarà perdonato lo lasci solo a raccogliere le forze che gli occorrono per riuscire a perdonare le offese ricevute dal prossimo. Tutto questo significa che - quando, nella preghiera di Gesù, l’uomo chiede a Dio di perdonare i propri debiti come egli perdona quelli dei propri debitori - è necessario che l’uomo creda che Dio vuole che egli abbia la forza di perdonarli. Anche il perdono delle offese è dunque qualcosa che l’uomo chiede a Dio, sapendo che anche questa sua capacità di perdonare è voluta da Dio, e che quindi egli otterrà anche questa capacità (più diffìcile da avere che non la capacità di muovere le montagne). L’uomo è salvo solo se ha fede nel Liglio di Dio. Ma la fede è inseparabile dalla volontà che vuole quello che è voluto da Dio, e la preghiera è quel mettersi in rapporto con Dio, dove non solo si dice di volere quel che Dio vuole, ma lo si vuole effettivamente, cioè si perdona il prossimo, lo si ama, e si fa tutto ciò che Dio prescrive. E volendo tutto questo si è convinti di ottenerlo, giacché chi crede di volere quel che è voluto da Dio non può pensare che Dio non sia capace di 41 ottenere quel che vuole. Chi vuole che sia fatta la volontà di Dio è il giusto, il buono, il santo, ossia è quel che Dio vuole che egli sia. Ma è anche necessario che egli sia convinto di essere il giusto, il buono, il santo, perché se fosse incerto di esserlo sarebbe in dubbio anche sul proprio star volendo quel che Dio vuole. Chi si trova in questo dubbio ammette la possibilità di star volendo qualcosa di non voluto da Dio; dunque non vuole quel che Dio vuole e quindi non può nemmeno credere di ottenerlo. Volere qualcosa, infatti, è credere di volerlo. Se non si crede di volerlo non lo si sta volendo ma si resta incerti se lo si voglia o meno, non ci si trova cioè nella condizione di chi, pregando, riesce a muovere le montagne. Convinto di essere il giusto che perdona le offese e ama il suo prossimo, chi prega nel modo dovuto agisce nel mondo e si imbatte in situazioni via via diverse, portando sempre con sé quella convinzione. (Altrimenti abbandonerebbe l’insegnamento di Gesù.) Agisce nel mondo, cioè nella polis. La «politica» è appunto questo suo agire tra gli individui, le istituzioni, i gruppi sociali. Per Gesù la «politica» è innanzitutto perdonare le offese e amare. Ma che una certa azione sia un’offesa, una cert’altra sia un perdono e una cert’altra ancora sia una forma di amore è chi agisce nel mondo a doverlo decidere. A questo punto chi presta ascolto alla parola di Gesù si trova davanti a due strade. O rinuncia a credere che il modo in cui egli decide di considerare offesa, perdono, amore certe azioni sia esso stesso un volere ciò che Dio vuole; oppure non compie questa rinuncia e crede che tutto quello che egli vuole e fa sia voluto da Dio. Nel primo caso, non può più credere - in relazione alle valutazioni e decisioni che egli, da solo, deve adottare nel mondo - nell’identità tra la volontà propria e 42 quella di Dio: rinuncia a credere e quindi a pregare nel modo autentico; rinuncia pertanto alla propria salvezza (perché «solo chi crede sarà salvo»). Sul piano politico è la rinuncia a ogni progettazione cristiana della politica. Nel secondo caso crede che ogni sua azione privata o pubblica sia la volontà di Dio e che quindi egli sia il giusto, il buono, il santo che sa capire quando un’azione è offesa, perdono, amore e dunque sa realizzare il regno di Dio in terra. Non ammette che sia per un equivoco che egli giudica come offesa un’azione; né può ammettere che nel proprio agire non sia presente il vero perdono e il vero amore, conciliabili con la punizione del colpevole che non può essere che giusta. Sul piano politico è, questo, il passo decisivo verso la teocrazia, che è il regno di Dio in questo mondo, mentre Gesù assicura che il suo regno non è di questo mondo. Certo, chi ha l’intenzione di essere cristiano tenta di ritrarsi da ciò a cui conducono entrambe queste strade (anche se entrambe sono una tentazione costante). Tenterà di camminare un po’ sull’una e un po’ sull’altra. Ma anche in questo modo tradirà la propria fede, non ne salverà la coerenza. Non sono infatti, quelle indicate, le conseguenze del rapporto che nei Vangeli viene istituito tra il credere e il pregare? Lo scambio delle parti che si presenta nella preghiera di Gesù è una delle più potenti anticipazioni dello scambio in cui la tecnica, da mezzo, sta diventando scopo. Prima di Gesù l’uomo prega Dio, la Potenza suprema, per salvarsi: la salvezza è lo scopo, la Potenza divina il mezzo. Ma anche Gesù fa capire che lo scopo determina, condiziona, configura il mezzo, e che quindi uno scopo umano, cioè assunto da un essere bisognoso di salvezza, quindi debole, finito, mortale quale è l’uomo, indebolisce e vanifica il mezzo (la Potenza) e 43 pertanto pregiudica la propria realizzazione. Anche Gesù fa capire che l’uomo deve porre come scopo non il soddisfacimento dei propri bisogni ma la volontà di Dio («Sia fatta la tua volontà»). In questo modo gli sarà dato tutto il resto. È, questo, uno dei modelli più rilevanti della situazione in cui l’uomo, dopo aver tentato di servirsi della tecnica, capisce che, per salvarsi, deve dire anche alla Tecnica: «Sia fatta la tua volontà, non la mia», che, posta come scopo (volontà capitalistica, comunista, cristiana, democratica ecc.), non ha la potenza della Tecnica e quindi, condizionandolo, indebolisce il proprio mezzo, ostacolando in tal modo sé stessa. Sennonché, ponendo come scopo la Tecnica, la volontà cessa di essere ciò che intendeva essere, giacché per essere ciò che intendeva essere doveva essere scopo. Nello stesso modo, si è visto, pregando autenticamente, il cristiano è costretto a imboccare quelle due strade che lo portano a non esser più cristiano. Proprio per aver fede in Gesù e quindi per pregare autenticamente, per salvarsi, il cristiano non può più essere cristiano. Non lo è, sia facendo la propria sia facendo la volontà di Dio. È indubbio che «chi vorrà salvare la propria vita la perderà», ma non è nemmeno vero che «chi perderà la propria vita per amor mio [héneken emou, cioè avendo me come scopo, dice Gesù, Me., 8, 35] e del Vangelo, la salverà». Lo scambio delle parti dove la Potenza, da mezzo, diventa scopo e quindi salvifica, non salva, giacché la vita, intesa come vita autentica, cioè cristiana, è perduta anche quando, dopo che la si è perduta, Gesù assicura che la si sia salvata. È perduta lungo entrambe le strade, qui sopra indicate, che chi vorrebbe esser cristiano è costretto a imboccare. Proprio perché, per raggiungere la salvezza, ci si serve di ciò che si considera come la Potenza suprema (teologica o tecnologica), proprio per questo non ci si può salvare; ma non 44 ci si salva nemmeno assumendo come scopo la Potenza suprema, perché, rispetto alla Potenza teologica, la volontà che intenderebbe esser cristiana non può esserlo e, rispetto alla potenza tecnologica, la volontà che vorrebbe essere scopo, cioè volontà capitalistica, comunista, democratica, totalitaria, cristiana ecc., cessando di essere scopo, non può più essere ciò che essa intende essere. 45 2. Nota su cristianesimo, islam, modernità Continua ad aumentare la pressione dei popoli poveri su quelli ricchi. Non si tratta solo di spostamenti di masse umane, determinati dal bisogno elementare di sopravvivere. Da sempre, infatti, l’uomo interpreta la propria sofferenza. Il modo in cui soffre nel corpo e nell’anima e tenta di uscirne dipende da ciò che egli crede di essere, dal modo in cui interpreta la propria vita. «Cultura» è innanzitutto questo credere. Per quanto ne sappiamo, in questo credere sono sin dall’inizio presenti gli dèi. L’uomo crede di essere un vivente che è in pericolo e che sta in rapporto con misteriose potenze che lo possono aiutare o schiacciare. Il senso della «cultura» è legato a quello della «coltivazione» e del «culto». La pressione dei poveri sui ricchi è cioè un fenomeno eminentemente culturale. Gran parte dell’immigrazione è islamica. Il culto dei poveri è diverso da quello cristiano in cui, almeno formalmente, i Paesi ricchi si riconoscono. Dopo l’Unione Sovietica, è l’islam a essersi posto alla guida dell’interpretazione della sofferenza e della fame dei poveri. In quest’ultimo decennio si è reso altrettanto visibile - sebbene non nelle forme drammatiche della protesta islamica contro l’Occidente - il rinnovato vigore della Chiesa cattolica. Si tratta di un fenomeno ambivalente, perché da un lato la Chiesa non può non vedere nell’islam un alleato contro l’ateismo della modernità, dall’altro non può non avvertire che l’islam è anche l’avversario dove la religiosità dei fedeli è molto più convinta di quella cristiana (non dice forse la Chiesa che «l’Europa è terra di missione»?), tanto da alimentare quel fondamentalismo che convince individui a immolare la propria vita per il trionfo della causa. D’altra parte non è nemmeno possibile affermare che l’ambivalente tensione tra 46 islam e cristianesimo è il fenomeno culturale che più determina la fisionomia degli ultimi decenni. Se non altro perché la modernità, contro cui cristianesimo e islam si trovano alleati, esiste. La tecnica, che è impensabile senza la cultura moderna, stupisce il mondo. Tuttavia la tecnica sta procedendo senza guardarsi le spalle, cioè senza sapersi difendere dalle critiche della tradizione occidentale, che la accusano di violare limiti inviolabili. Un gigante, la tecnica, che tocca il cielo, ma che rimane incapace di interloquire con chi gli dice che il cielo non va toccato. Intendo dire che chi potrebbe rendere il gigante capace di replicare è la punta estrema della modernità, ossia quella essenza, prevalentemente nascosta, della filosofìa del nostro tempo che è in grado di mostrare l’inesistenza di ogni inviolabile e che quindi il gigante è legittimato a toccare il cielo. E tuttavia quell’essenza è come l’arco di Ulisse, che nessuno dei Proci è in grado di tendere. Da un lato, pertanto, la potenza cieca della tecnica; dall’altro lato quegli sguardi impotenti del laicismo contemporaneo, che andando avanti così non riuscirà mai a possedere Penelope, cioè a dominare il mondo, lasciando ancora a lungo la scena alla coscienza religiosa. 47 3. La Barriera e Prometeo Nel nobile modo in cui Benedetto XVI ha espresso la sua rinuncia è indicato esplicitamente il problema centrale del cristianesimo: il cristianesimo si trova oggi in un mondo «soggetto a rapide mutazioni e turbato da questioni di gran peso per la vita della fede» (in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis prò vita fidei perturbato ). Rispetto a questo problema, che un pontefice dichiari di non avere più le forze per affrontarlo è un tema che, nonostante la sua rilevanza e pertinenza, passa in secondo piano. Nel testo, la parola pondus («peso») compare tre volte: come peso delle questioni riguardanti la vita della fede, come «peso» del gesto di rinuncia e come peso del ministerium che viene lasciato per il venir meno delle forze. Ma solo il primo peso vien detto «grande»: la vita della fede è oggi gravata da «questioni di gran peso» ed è essa stessa turbata dal turbamento del mondo. Il mondo cristiano (tanto meno un pontefice) non può riconoscere che il turbamento della fede è ben più profondo di quello visibile, dovuto alla corruzione alfinterno della Chiesa. Il turbamento del mondo, tuttavia, riguarda non solo la fede religiosa, ma anche quelle altre forme di fede ancora dominanti (e che non amano sentirsi dire che sono a loro volta «fedi»). Mi riferisco soprattutto al capitalismo, alla democrazia, al capitalismo-comunismo cinese, o, in Iran, alla mescolanza di teocrazia e capitalismo; e il comuniSmo sovietico, come il nazismo, era tra le più rilevanti di queste forze. Ognuna delle quali avverte la necessità di eliminare le proprie degenerazioni, ma si rifiuta di ammettere l’inevitabilità del proprio tramonto. Non è una metafora né un’iperbole fuori luogo affermare che ognuna di esse si sente un dio che deve distruggere gli infedeli. Ma, come la fede 48 religiosa, anche la vita di queste altre forze è gravata da «questioni di gran peso» - da questioni che fanno intravedere l’inevitabilità di tale tramonto. Certo, un pontefice deve credere che il cristianesimo durerà fino alla fine del mondo. Ma la gran questione è se quelle forze - dunque anche il cristianesimo - si rendano conto del loro vero avversario, che le scuote e le travolge. Il «relativismo» è stato l’avversario di Benedetto XVI. Lo sforzo di combatterlo ha avuto un carattere soprattutto pastorale. Il semplicismo concettuale e l’ingenuità del relativismo ne favoriscono infattila diffusione presso le masse, e tale diffusione è tutt’altro che irrilevante per la vita della fede. Giovanni Paolo II si avvicinava maggiormente all’avversario autentico quando individuava negli inizi della filosofia moderna (Cartesio) la matrice di tutti i grandi «mali» del XX secolo, quali le dittature del comuniSmo e del nazionalsocialismo, o l’egoismo dell’economia capitalistica. In questa prospettiva, lo stesso relativismo può essere inteso come un parto di quella matrice. Ma tutte queste interpretazioni non riescono ancora a guardare in faccia l’avversario autentico. Riusciranno le varie forme di fede ad alzare lo sguardo affinché, se vogliono vivere un po’ più a lungo, non accada loro di combattere i nani, quando invece il gigante pesa già su di esse e toghe loro il respiro? Il gigante che possiamo chiamare «Prometeo». Anche qui, è ovvio, mi limiterò ad alcuni cenni; doppiamente insufficienti perché a chi sta per morire, e non vuole, è estremamente difficile fargli alzare lo sguardo sulla propria morte. All’inizio dei tempi è invece un altro gigante a togliere all’uomo il respiro, impedendogli di vivere. L’uomo può incominciare a vivere solo se vuole trasformare sé stesso e il 49 mondo da cui è circondato. Se non fa questo non può nemmeno compiere quella trasformazione di sé che è il respirare in senso letterale. E muore. Vive solo se si fa largo nella Barriera che gli impedisce di trasformare sé e il mondo. La Barriera è l’Ordine immutabile della natura. Solo se la penetra, la sfonda, la squarta, e comunque la fa arretrare, può liberarsi un poco alla volta dal suo peso e ottenere ciò che egli vuole. La Barriera è l’altro gigante: il Tremendum (per servirci, ma per altri scopi, dell’espressione di Rudolf Otto). Ma è anche il Fascinans (ancora Otto), perché l’uomo può incominciare a vivere solo se domina le parti della Barriera frantumata, e se ne ciba - così come Adamo, cibandosi del frutto proibito, frantumando cioè l’icona stessa del divino, può diventare Dio ( eritis sicut dii, «sarete come dèi», dice il serpente). E infatti il tremendum-fascinans è il tratto essenziale del sacro, del divino, del Dio. La Barriera divina vive inviolata solo se uccide l’uomo; l’uomo vive soltanto se uccide Dio. Il fuoco è il simbolo essenziale della potenza divina; e Prometeo ruba il fuoco - uccide l’inviolabilità degli dèi - per darlo all’uomo. Prometeo è l’uomo. Soprattutto da due secoli egli è l’avversario della tradizione. Mostra infatti che il divino merita di tramontare e che su questo meritarlo si fonda tutto ciò che più salta agli occhi, ossia l’allontanamento della modernità e soprattutto del nostro tempo dai valori della tradizione e dunque dalla «vita della fede». (In questo contesto, la corruzione della Chiesa è più grave di tutte le forme passate del suo degrado.) Se Dio esistesse, non potrebbe esistere l’uomo, ossia ciò la cui esistenza è considerata innegabile anche da chi si è alleato con Dio. Giacché, dopo l’inizio dell’uomo, la Barriera si è ritirata, ha lasciato spazio al mondo, Dio è diventato trascendente, e l’uomo della tradizione lo ha trovato meno tremendum e più fascinans, e gli si è alleato, diventando uomo di fede, non solo 50 cristiana ma anche quella degli dèi - delle barriere - in cui consistono le forze (sopra menzionate) via via dominanti nel mondo. Prometeo, ora, ruba il fuoco dell’alleanza dell’uomo con Dio. È la potenza di questo furto a nascondersi, per lo più inesplorata, sotto le «rapide mutazioni» del nostro tempo, «turbato da questioni di gran peso per la vita della fede». 51 4. Macchine razionali e grande politica Una delle radici dello Stato moderno è il desiderio dell’uomo di sottrarsi all’imprevedibilità della vita facendo funzionare lo Stato come una «macchina tecnicamente razionale» a cui viene riconosciuto il monopolio della forza e che quindi consente a ognuno di «calcolare» in anticipo le conseguenze delle azioni proprie e altrui. Così si esprime Max Weber; ma questa constatazione risale a Hobbes. Allo Stato si chiede di eliminare il più possibile il rischio del vivere. Anche il capitalismo è un calcolo razionale (a differenza delle forme violente di acquisizione della ricchezza). Tuttavia è anche rischio, scommessa, imprevedibilità delle conseguenze dell’agire. Due componenti inseparabili, fino a che il capitalismo esiste nella sua forma tradizionale. Il talento dell’imprenditore sta nell’indovinare ciò che dal punto di vista scientifico è imprevedibile: la forma relativamente più remunerativa di investimento. A sua volta, il talento è inseparabile dalla fortuna. Il più «capace» degli imprenditori, se è sfortunato, non è veramente capace. È vero: oggi si sa che una teoria scientifica non è valida se non è confermata e che tale conferma è una forma di fortuna, una «circostanza felice». Ma l’imprenditore capace deve avere una fortuna incomparabilmente più grande di quella sinora richiesta per le teorie scientifiche: egli ha tanto più successo quanto più rischia, cioè si lascia alle spalle - in base alle proprie intuizioni - le precauzioni della razionalità scientifica - che essendo di dominio pubblico, sono tra l’altro adottabili anche dalla concorrenza. Sebbene siano entrambi macchine tecnicamente razionali, Stato e intrapresa capitalistica vanno dunque in direzioni opposte: azzeramento e moltiplicazione del rischio. La tendenza verso lo Stato-azienda - o l’azienda-Stato - 52 non è soltanto un fenomeno italiano. Alla sua base sta il crescente potenziamento dell’economia e il crescente indebolimento dello Stato moderno. Ciononostante, a quel potenziamento corrisponde non solo l’indebolimento dello Stato, ma anche quello della produzione economica legata principalmente al rischio, al talento e alla fortuna del singolo imprenditore. La «macchina» economica tende cioè a diventare l’erede della «macchina» statale e del compito, proprio di quest’ultima, di garantire gli individui dal rischio del vivere. Contro l’oppressione di uno Stato sempre più obsoleto rispetto ai bisogni della società civile, le destre mirano invece, ancora, a un’azienda-Stato diretta da ultimo (sebbene non esclusivamente) da uno o più superimprenditori capaci di rischiare, e soprattutto fortunati. Ma in questo modo si mira a qualcosa che corre a sua volta il rischio di diventare obsoleto prima di nascere. Lo Stato-azienda, così inteso, è uno Stato a rischio. Certo, in democrazia l’elettorato ha il diritto di rischiare e di imporre il rischio alle minoranze, credendo che la fortuna continuerà ad accompagnare i superimprenditori statali. Però è opportuno sapere quel che si sta facendo. La difesa dello Stato tradizionale contro le prevaricazioni dell’economia è invece propria delle sinistre. Che a loro volta stentano a comprendere la tendenza, di cui si è detto, che conduce dalla «macchina tecnicamente razionale» dello Stato a quella di una economia sempre più simile alle procedure scientifiche e sempre meno bisognosa del carisma e della fortuna di certe persone - la presenza delle quali può peraltro costituire un passaggio obbligato. Ormai, anche le sinistre credono nella necessità di rafforzare l’iniziativa privata; e la concezione minimalista dello Stato non equivale, per le destre, alla soppressione di esso. Tuttavia le sinistre continuano a credere nella capacità dell’apparato giuridico 53 statale di guidare i popoli. Per esse la crisi dello Stato può essere superata restando all’interno della politica. Ma si vuol riflettere sul fatto che la macchina dello Stato e quella economica sono «tecnicamente» razionali? Non è già significativo che tanto lo Stato moderno quanto il capitalismo siano considerati delle «macchine»? Si tratta di comprendere che è la tecnica a conferire potenza agli Stati e alle economie. E si è richiamato che nel suo significato più autentico la tecnica è la potenza che presta ascolto alla voce del pensiero filosofico degli ultimi due secoli - alla voce cioè che mostra l’inesistenza di ogni limite assoluto all’agire dell’uomo e innanzitutto all’agire tecnico. Tale ascolto non va confuso con un ozio astratto: è la condizione che consente all’operatività tecnica di accrescere indefinitamente la propria potenza. Andiamo verso un tempo in cui, a eliminare il rischio del vivere, non sarà più né la forma tradizionale dello Stato, né lo Stato-azienda, ma la tecnica, di cui entrambi hanno così bisogno da doverla togliere dalla sua funzione di mezzo per assegnarle quella di scopo. Non più lo Stato o lo Stato-azienda che si servono della razionalità tecnologica, ma quest’ultima che si serve di ciò che rimane di essi una volta che da scopi siano diventati mezzi: mezzi di cui la tecnica può servirsi per accrescere il proprio dominio sul mondo. Se a questo punto si vuol usare ancora la parola «politica», si può dire che la «grande politica» è destinata a restare estranea alle destre e alle sinistre mondiali sino a quando non comprendono l’inevitabilità della rotazione che dalla dominazione dello Stato e dell’economia conduce alla dominazione della tecnica. 54 5. Efficienza e solidarietà In uno dei suoi significati economici più importanti la «collaborazione» riguarda oggi, nel sistema capitalistico, il rapporto tra datori di lavoro e lavoratori (nel senso più ampio di questo termine). Con la fine del socialismo reale è finita anche, nelle società avanzate del pianeta, la volontà di soffocare questa forma di collaborazione e di sostituirla col suo opposto, cioè con la lotta di classe. La collaborazione riguarda il rapporto tra gli interessi di chi lavora e quelli del capitale. Quest’ultimo collabora con gli interessi dei lavoratori quando non si propone soltanto il proprio interesse, cioè l’aumento del profitto, ma anche la salvaguardia di un dignitoso tenore di vita del lavoratore. A sua volta, il lavoratore collabora con gli interessi del capitale quando non si propone soltanto di aumentare il proprio tenore di vita, ma anche il rafforzamento dell’intrapresa in cui egli si trova ad agire. Il primo tipo di collaborazione conduce alla «solidarietà»; il secondo all’«effìcienza». Fino a questo punto, si può credere che, sia nell’ambito del capitale sia in quello del lavoro, quando esiste la collaborazione di cui stiamo parlando, ci si proponga, in egual modo, la sintesi di efficienza e solidarietà - la sintesi in cui, appunto, consiste tale collaborazione e si può credere che il centro del problema stia nel saper realizzare le condizioni che conducono alla collaborazione. Ma in questo modo si va fuori strada: non si scorge la configurazione autentica del problema e ci si priva degli strumenti per poterlo affrontare. Visibilissima in tutte le società avanzate, la lotta tra capitale e lavoro ha quasi completamente perduto i connotati della «lotta di classe» marxista; ma non si estingue con la realizzazione di quella sintesi di efficienza e solidarietà che sarebbe perseguita in egual modo dalle forze lungimiranti del 55 capitale e del lavoro: non vi si estingue, perché essa si ripropone a causa del diverso modo in cui tale sintesi è perseguita da queste due forze. Oggi si tende a mascherare questa diversità. Per esempio dicendo che efficienza e solidarietà «devono alimentarsi in una circolarità virtuosa» - una espressione che si è fatta strada tanto nel mondo imprenditoriale, quanto nel mondo cattolico (o, in generale, cristiano) e in quello delle sinistre. Nella alimentazione circolare i due elementi in circolo sono posti sullo stesso piano. Ma è un’apparenza, come è un’apparenza la «virtù» del circolo. Infatti, dal punto di vista del capitale i «livelli di solidarietà» (quelli cioè fino e non oltre i quali può essere spinta la solidarietà) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei quali il capitale ritiene che l’efficienza (cioè l’incremento del profitto) non possa scendere. Ma dal punto di vista del lavoro i livelli di efficienza (cioè fino a che punto debba essere promosso lo sviluppo economico) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei quali chi lavora ritiene di non poter far scendere il proprio tenore di vita e la qualità della propria vita. Nel primo caso la collaborazione di efficienza e solidarietà ha come scopo primario e dominante l’efficienza; nel secondo caso la collaborazione ha come scopo primario e dominante la solidarietà. Nel primo caso la solidarietà è un mezzo per realizzare l’efficienza; nel secondo l’efficienza è un mezzo per realizzare la solidarietà. In entrambi i casi le due semicirconferenze della «circolarità virtuosa» sono diseguali, si alimentano in modo diseguale, la circolarità è claudicante, cioè viziosa. I due avversari possono gettarsi a vicenda polvere negli occhi, invocando ed elogiando la collaborazione. Ma quando la Chiesa cattolica dichiara che il profitto deve avere come 56 scopo il bene comune della società pensa a una sintesi di efficienza e solidarietà, cioè a una forma di collaborazione, dove lo scopo dell’agire economico è la solidarietà e l’efficienza è il mezzo per realizzarla. E quando il capitalista afferma che «non si può dire a un capitalista “limita il tuo guadagno”», perché «un imprenditore deve produrre ricchezza e quanto più lo fa, più opera per il bene della società», il capitalista che parla così pensa a una sintesi di efficienza e di solidarietà, cioè a una forma di collaborazione dove invece lo scopo dell’agire economico è l’efficienza e la solidarietà è il mezzo per realizzarla. In entrambi i casi, come si è detto, la collaborazione è una circolarità viziosa, dove ognuno dei due fattori circolanti tende a fare dell’altro il proprio «alimento» evitando di diventare a sua volta l’«alimento» dell’altro. Ciò significa che la «collaborazione» è un paravento, una maschera che più o meno consapevolmente nasconde il proprio opposto, ossia la lotta, l’opposizione, il conflitto irrisolto. Si evita di riconoscere che se la collaborazione tra interessi del capitale e interessi del lavoro esistesse per davvero, allora ognuno dei due limiterebbe sé stesso per far posto all’altro, e pertanto non esisterebbe più né il senso autentico dell’intrapresa capitalistica, né il senso autentico del lavoro; e che se invece questi due fattori esistono per davvero - come in effetti esistono storicamente per davvero -, allora ognuno dei due vuole diventare lo scopo dell’altro e ridurre l’altro alla funzione di mezzo, e in questo caso il loro «alimentarsi in una circolarità virtuosa» svanisce, cioè svanisce la loro collaborazione. Si tratta infatti di comprendere che se lo scopo dell’agire economico è la sintesi di quei due fattori - ossia è la sintesi costituita dalla loro collaborazione -, allora, in questa loro sintesi, ognuno dei due limita l’altro, gli impedisce di 57 espandersi sino a diventare l’unico scopo, e quindi ne distrugge la configurazione originaria. Se un uomo (fuor di metafora: l’agire economico) ama due donne (fuor di metafora: la crescita del profitto e la solidarietà), e crede che il suo amore per l’una e il suo amore per l’altra abbiano a «collaborare», cioè ad «alimentarsi in una circolarità virtuosa», quest’uomo si inganna, perché l’amore che darebbe a una se non ci fosse l’altra non può esserci più quando oltre a quell’una ama anche l’altra. Se i due amori si alimentano virtuosamente e collaborano, ognuna delle due donne è meno amata, l’amore «vero», «esclusivo» che ci sarebbe potuto essere per lei è andato perduto; se invece questo amore «vero» ed «esclusivo» rimane, allora esso non potrà più dividersi tra le due donne e cioè l’amore «vero» ed «esclusivo» per l’una finirà inevitabilmente col detronizzare e vanificare l’amore «vero» ed «esclusivo» per l’altra. Fuor di metafora: o efficienza e solidarietà collaborano, ma allora non ci sarà più né capitalismo - cioè volontà di «non limitare il proprio guadagno» - né dottrina sociale della Chiesa o delle sinistre, che, sia pure in modo diverso, non intendono limitare la realizzazione del bene comune, sacrificandone parti o aspetti al profitto; oppure efficienza e solidarietà mantengono i caratteri che storicamente sono loro propri e per i quali ognuna di queste due forze intende essere lo scopo primario dell’agire economico, ma allora non ci potrà essere collaborazione tra i due, ma urto, lotta, conflitto più o meno mascherati. Per ora, si può dire che ognuno dei due antagonisti tende a predicar male e a razzolar bene. Cioè predica la collaborazione con l’altro (e dunque predica, più o meno consapevolmente, la propria rovina - e questo è appunto il predicar «male»), ma in effetti persegue il proprio scopo tentando di ridurre a mezzo lo scopo dell’antagonista (e 58 questo è appunto il razzolar «bene»). Ci sono avvisaglie, nel mondo, che oltre a predicar male i due avversari incomincino anche a razzolar male, e cioè incomincino a «collaborare». Ma questo fatto vorrebbe dire che i due avversari - efficienza capitalistica e solidarietà cristiana o progressista - stanno avviandosi al tramonto: così come va al tramonto quel «vero» amore per una donna quando esso viene a trovarsi in compagnia dell’amore per un’altra. Stanno avviandosi al tramonto perché rinunciano al proprio scopo, cioè rinunciano a sé stessi. 59 6. Governi tecnici Che cos’è oggi un «governo tecnico» in Europa - e, con qualche riserva, nel mondo? È un insieme di decisioni, vincolanti per un popolo, che, guidate dalla competenza scientifica, si propongono il benessere di quel popolo. Ma tale «benessere» non è lo stesso per le destre, le sinistre, la Chiesa cattolica, il comuniSmo cinese, l’islam ecc.: in generale, per le diverse concezioni culturali dell’«uomo» e del «bene». Appunto per questo, quando si produce un forte condizionamento politico dei partiti che sostengono un governo tecnico (come ad esempio è accaduto in Italia), le decisioni vincolanti sono guidate da una mescolanza di competenza scientifica e di volontà politica, e la competenza scientifica è soprattutto il mezzo per realizzare il concetto che forze politiche quasi sempre contrapposte hanno del benessere del popolo che esse intendono guidare. Tale concetto non ha un carattere scientifico. L’azione politica non è la scienza politica. Si dice, appunto, che la «politica» (Yazione politica) è un’«arte», avvolta quindi da quell’alone di arbitrarietà che compete a ogni arte. Accade quindi, al governo tecnico così inteso, che la scienza serva per realizzare una forma di non-scienza, tanto più lontana dalla coerenza scientifica quanto più accentuato è il contrasto delle forze politiche che sostengono tale governo. È vero che per Max Weber la scienza ha un carattere puramente strumentale, il cui scopo non ha un valore scientificamente appurabile; ma è anche vero che in questo modo la ragione vien posta al servizio della non-ragione, alla quale viene affidata la sorte del mondo. (Certo, si dovrà poicapire che cosa sta dietro la ragione scientifica.) Ma nei governi tecnici che agiscono nelle economie di mercato il benessere del popolo, perseguito attraverso il 60 condizionamento politico, è il benessere quale è inteso, appunto, all’interno delle categorie della produzione capitalistica della ricchezza. In questa situazione, il capitalismo è la condizione ultima della politica e del governo tecnico: la politica è un mezzo di cui il c apitalismo si serve. Chi si propone ancora, nel mondo democratico, una economia non capitalistica? Tolta qualche eccezione, anche le sinistre vogliono essere ormai lontanissime da ogni forma di marxismo o di economia pianificata. La contrapposizione tra destra, sinistra, centro ha un consistente denominatore comune, è una lotta all 'interno del sistema capitalistico. Parlare dunque di un condizionamento capitalistico dei governi tecnici e della politica sembra soltanto un’owietà. E lasciarsi alle spalle la distinzione tradizionale di centro, destra, sinistra significa, innanzitutto, adottare correttamente e seriamente le regole dell’economia di mercato. Nulla di strano che il «riformismo» del governo di Monti si sia rivolto a (quasi) tutte le formazioni politiche, rendendo più visibile che (quasi) tutte, ormai, si muovono all’interno della logica capitalistica. Tecnica e politica sono un mezzo di cui il capitalismo si serve per realizzare i propri scopi. Sennonché nemmeno il capitalismo è scienza. La scienza economica può sostenere che esso è la forma più efficace di produzione della ricchezza, ma all’essenza del capitalismo appartiene il rischio, Yazzardo, mentre la scienza è essenzialmente la volontà di evitare che le proprie leggi siano leggi a rischio, azzardate, e dunque arbitrarie. Joseph Schumpeter, amico del capitalismo, ha sostenuto che la sua crisi è dovuta alla progressiva sostituzione del rischio con la routine delle procedure tecno-scientifiche. D’altra parte, anche per il carattere rischioso del proprio agire, il capitalismo si sente autorizzato a porre come scopo primario non già il benessere del popolo ma il continuo aumento del capitale 61 privato. Anche per il capitalismo si deve dunque affermare che esso, assumendo come mezzo la tecno-scienza, fa sì che la scienza serva a realizzare la non-scienza: che la ragione (ossia ciò che oggi è considerato come «la ragione» per eccellenza) serva a realizzare la non-ragione. Tuttavia, la situazione si complica ulteriormente quando accade che la dimensione tecnica del potere sia condizionata non soltanto dall’economia capitalistica, ma anche, e magari fortemente, dalla dimensione religiosa, per esempio dalla Chiesa cattolica. In questo caso, l’intento, lo scopo, è di tenere insieme capitalismo, politica e cattolicesimo (evitando le degenerazioni dell’agire economico e politico e anche religioso), servendosi della tecno-scienza. La situazione si complica ulteriormente perché, mentre per il capitalismo lo scopo primario dell’agire economico e quindi del governo è l’incremento del profitto privato, per la Chiesa lo scopo primario di tale agire e di un governo giusto non deve essere il profitto, ma il «bene comune» quale è appunto concepito dalla dottrina sociale della Chiesa. Il capitalismo deve essere cioè un mezzo per realizzare questa forma del «bene comune». Mezzo, e non scopo. La pretesa della Chiesa (vado ripetendo da tempo) che il capitalismo abbia come scopo il «bene comune» e non il profitto è volerne (inconsapevolmente?) la distruzione. A sua volta il capitalismo, assumendo come scopo primario il profitto, vuole, a volte non rendendosene conto, la distruzione della società cristiana. È un problema, questo, che non riguarda soltanto l’esperienza governativa Monti, ma tutte le presumibili coalizioni che governeranno l’Italia. (Quasi vent’anni fa, in un articolo sul «Corriere» poi incluso in Declino del capitalismo, Rizzoli 1993, avevo preso in considerazione la proposta di Monti al convegno di Cernobbio di quell’anno, di tenere insieme efficienza - 62 capitalistica - e solidarietà - cristiana - e avevo mostrato le difficoltà a cui va incontro non solo tale proposta, ma ogni progetto politico che intenda conciliare democrazia, capitalismo, cristianesimo.) Dico questo per rilevare come anche, ma non solo, in Italia si renda percepibile quella gigantesca trasformazione del mondo che è costituita dalla crisi del capitalismo (e del cristianesimo - e della politica). Un governo che assuma come scopo primario sia l’efficienza sia la solidarietà, assume infatti uno scopo che non può essere né quello del capitalismo né quello della Chiesa, i quali non intendono avere al loro fianco, in posizione paritaria, alcun altro scopo (ma dove l’efficienza subordina a sé la solidarietà, servendosene, e la solidarietà, a sua volta, subordina a sé l’efficienza, servendosene). Se tale governo crede di poter mantenere in posizione paritaria sia l’efficienza capitalistica sia la solidarietà cristiana si illude, cioè si propone di realizzare una contraddizione. Ciò non significa che tale proposito non abbia a realizzarsi, e magari con risultati soddisfacenti: significa che tali risultati saranno inevitabilmente provvisori, instabili, ossia che quel proposito non potrà mai ottenere ciò che crede di poter ottenere. Come di regola accade lungo il corso storico. Comunque, sia illudendosi di unire efficienza capitalistica e solidarietà cristiana (e politica) sia evitando questa contraddizione, dando quindi vita a un nuovo senso dell’efficienza e della solidarietà e dunque della loro unione, proporsi come scopo tale unione servendosi delle competenze tecno-scientifiche è pur sempre un agire in cui la forma oggi ritenuta la più rigorosa della razionalità umana (la tecno- scienza, appunto) è posta al servizio di forme meno rigorose di tale razionalità. Cioè la potenza di quell’agire è posta al servizio della non potenza. E la potenza, la capacità di 63 realizzare scopi, è insieme la ricchezza di un popolo. Proporsi, come accade nei governi tecnici d’oggigiorno, di eliminare le degenerazioni della politica e dell’economia è però un passo avanti nella direzione lungo la quale si finisce col capire che le società diventano potenti e ricche non eliminando la «cattiva» politica e la «cattiva» economia, ma mettendo la buona politica e la buona economia (che anche risanate sono pur sempre forme meno rigorose dell’agire razionale) al servizio della tecnica guidata dalla scienza - della tecnica, il cui scopo è precisamente l’aumento indefinito della potenza. 64 Ili Democrazia e tecnica 1. Europa e America Difficile smentire, nel loro insieme e nel loro senso più corrente e generale, le osservazioni proposte nel 2003 dalla rivista «Liberal» (n. 19) per la discussione intorno agli Stati Uniti d’America. Esempio. «Dall’Europa, dalla sua cultura politica prevalente, si guarda sempre più all’America in modo semplificato. C’è la tendenza a sottovalutare i valori della sua democrazia e a sottolinearne, al contrario, i limiti.» Se le espressioni «Europa» e «sua cultura politica prevalente» indicano soprattutto gli umori dell’opinione pubblica europea, allora è un «fatto» che mentre alla fine della seconda guerra mondiale gli Americani erano per gli Europei i «liberatori», oggi vengono piuttosto sentiti come i cittadini di uno Stato che ritiene di non dover dar conto a nessuno del proprio operato. Questo è un problema di «psicologia delle masse», facili a dimenticare i benefìci ricevuti (anche perché il ricambio generazionale fa sì che i dimentichi di oggi non siano più i beneficiati di ieri). Se invece «Liberal» intendesse affermare che oggi in Europa è in atto una critica dei valori espressi dalla Costituzione americana, questa affermazione vorrebbe dire che in Europa cresce la preferenza (o la nostalgia) per lo Stato autoritario. Ma questo non è vero (in Europa i partiti di estrema destra e di estrema sinistra sono piccole minoranze); e non sembra nemmeno che «Liberal» voglia sostenere questa tesi. Fuori discussione, invece, che quella americana è la prima costituzione liberal-democratica apparsa nel mondo moderno - la prima, cioè, dove il principio della libertà dal potere politico si unisce al principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. 65 E fuori discussione, inoltre, che «gli Stati Uniti sono nati da una grande decisione collettiva di proteggere gli interessi e il bene comune», definiti soprattutto in relazione a ciò che essi significano nella cultura illuministica. Qui va aggiunto che tale decisione è tanto più rilevante quanto più essa ha inteso arginare (con maggiore o minore successo) gli interessi e il bene dell’economia di mercato, dove l’agire capitalistico non ha e non può avere di mira l’interesse e il bene comune, ma l’interesse e il bene privato, cioè l’incremento del profitto (sì che l’interesse e il bene comune, nell’intrapresa capitalistica, non sono lo scopo dell’agire economico, ma una conseguenza, un sottoprodotto di quell’incremento). Relativamente allo sfondo (o al contenimento) liberal- democratico del capitalismo si può dire, con «Liberal», che «è la natura della democrazia americana a presentarsi come un fenomeno unico anche nel contesto più generale dell’Occidente». La domanda centrale (e, se non mi inganno, retorica) di «Liberal» suona comunque: «Non è forse questo» - americano - «l’unico modo di vivere una democrazia, che altrimenti si limiterebbe ad essere un insieme di procedure...?»; e tale domanda è preceduta dalla affermazione della capacità della democrazia americana di credere in sé stessa e di assumersi le proprie «responsabilità». Queste affermazioni riguardano un insieme di questioni eterogenee: da un lato, la tesi che la condotta storico fattuale degli Stati Uniti è sostanzialmente fedele al proprio ordinamento costituzionale; dall’altro lato, la tesi che l’Europa avrebbe il miglior ordinamento costituzionale se adottasse quello statunitense; e, anche che gli Europei condurrebbero la miglior vita politica se sul piano storico-fattuale si adeguassero alla propria rinnovata costituzione così come gli Americani vi si adeguano. 66 Tesi, queste ultime, che possono essere veramente discusse, ma che lasciano fuori campo la questione preliminare e decisiva (alla quale abbiamo già accennato), che peraltro è venuta sempre più in luce dopo la risposta americana, in Afghanistan e in Iraq, all’attacco terroristico dell’11 settembre: che cosa significa, che cosa implica, quali reazioni produce uno Stato che agisce in base alla convinzione di essere di fatto rimasto l’unica Superpotenza alla guida del mondo e a proposito del quale si teorizza anche il diritto a esserlo? La risposta americana all’attacco subito era inevitabile (come in altre sedi ho motivato), ed era inevitabile che la risposta avvenisse nella forma della «guerra preventiva» concepita come legittima difesa. Ma, nonostante tutto quel che si è detto in proposito, non sta qui il problema - il problema preliminare e decisivo. Esso riguarda il contesto delle convinzioni con le quali gli Usa stanno vivendo questa fase della loro storia. Altro è infatti credere che i supremi interessi dello Stato americano richiedano che esso si difenda adottando misure come la «guerra preventiva», ma lo si creda sapendo che tali misure, prese in modo così fortemente autonomo, sollevano il problema, non meno grave di quello del terrorismo islamico, del rapporto tra l’autonomia americana e il resto del mondo, e cioè sapendo che tale problema è, appunto, problema e non soluzione; altro è che gli Usa trattino come soluzione questo problema e siano convinti che, poiché sono di fatto venuti a trovarsi alla guida del mondo, o hanno il compito di porvisi, allora l’autonomia esercitata nella loro risposta al terrorismo è la conseguenza naturale della loro primazia planetaria. Due atteggiamenti profondamente diversi, questi due, e, soprattutto negli ultimi tempi, tra loro in contrasto negli stessi Stati Uniti. Il contrasto è alimentato dalla coscienza crescente che gli Stati Uniti non 67 possono reggere da soli il peso immane di cui il secondo, e trionfalistico, di quei due atteggiamenti vorrebbe caricarli. Affermare che «l’unico modo di vivere una democrazia» è quello americano significa certamente che l’Europa non può mettersi in rotta di collisione con gli Usa. Ma significa anche che l’Europa deve stare a loro soggetta? Il bon ton della riflessione politica auspica che l’Europa non allenti i legami con gli Usa e che d’altra parte non ne sia succube. Ma può l’Europa non essere succube senza essere forte - cioè militarmente forte, o addirittura competitiva rispetto agli Usa - e continuando ad affidare aU’America la propria difesa? 68 2. Europa, Russia, America Sembra che vi sia stata la tendenza a sottovalutare l’asse Parigi-Berlino-Mosca (e Madrid), costituitosi in contrapposizione alla guerra Usa contro l’Iraq. Ma si parla anche dell’opportunità dell’ingresso della Russia nell’Unione eu-ropea - sia perché la Russia muove i primi passi verso l’economia di mercato sia per la rinnovata visibilità della Chiesa ortodossa. Una ventina d’anni fa avevo scritto (il testo è stato poi incluso ne II declino del capitalismo, cit., col titolo L’Europa tra America e Russia ): «Ciò a cui si presta troppo poca attenzione è che la Russia, una volta aiutata dall’Occidente a uscire dalla crisi economica in cui si trova attualmente, è anch’essa in grado di offrire all’Europa quella protezione militare, contro le minacce del Sud, di cui gli Stati Uniti hanno oggi il monopolio - e in nome della quale possono pretendere che l’Europa stia in posizione subordinata, perché non può restituir loro un vantaggio di egual peso. Scambio che invece è possibile nel rapporto tra Europa e Russia, perché l’Europa ha sì bisogno di aumentare sostanzialmente il livello della propria potenza militare, ma anche la Russia, che può consentire questo aumento, ha a sua volta bisogno del sostegno economico che l’Europa occidentale può darle. Un processo che d’altra parte già allora si presentava tutt’altro che agevole, soprattutto per quanto riguarda il controllo dell’arsenale moderno russo, giacché l’Europa potrebbe sostenerne economicamente l’efficienza solo se la gestione e il controllo di esso fossero effettuati, oltre che dalla Russia, anche dagli altri Stati europei. Certo, a distanza di vent’anni, la situazione è cambiata: la crisi economica dell’Unione europea rende quest’ultima molto meno forte nella contrattazione con una Russia che ha superato il trauma dovuta al tramonto del marxismo e 69 dell’economia pianificata. Da ciò si spiega l’aumento della diffidenza dell’Ue (perfino della Germania) nei riguardi della Russia. Sino a che la crisi economica dell’Europa non verrà superata, il processo che conduce a una più stretta collaborazione politica tra Europa e Russia subirà un inevitabile rallentamento. Da satellite degli Stati Uniti - per i quali diventa peraltro sempre più pesante il compito di contenere anche in Europa la pressione del mondo arabo -, l’Europa non intende diventare satellite della Russia. D’altra parte è nella natura della storia dei rapporti secolari tra Europa e Russia, della situazione geopolitica e degli attuali rapporti economici tra le due aree, che esse vengano a formare un unico sistema euroasiatico di controllo della conflittualità internazionale, insieme a Stati Uniti, Cina, India. E se da un lato è nell’interesse della Russia che la decadenza dell’Europa venga arginata per non essere coinvolta, dall’altro lato la Russia non può non capire che gli Stati Uniti non accetterebbero mai che per tale decadenza la Russia divenga arbitra delle sorti dell’Europa. Pertanto, se oggi l’Europa è più debole che in passato nella contrattazione con la Russia, esistono tuttavia le condizioni perché il rapporto tra queste due aree tenda a riequilibrarsi. Non si tratta qui di «auspicare» (o «temere») la simbiosi Europa-Russia, ma di constatare una tendenza che è nell’ordine delle cose, anche se contrastata da molte forze, innanzitutto da quanti, ancora, concepiscono gli Usa come l’unica Superpotenza che non può rinunciare a questo suo status e che in ultima istanza deve rispondere soltanto a sé stessa. (Tra quelle forze va annoverata anche la Chiesa cattolica, che vedrebbe ridimensionata la sua presenza in Europa ad opera della Chiesa ortodossa russa, e che tempo fa, per bocca dell’allora ministro degli Esteri vaticano Tauran ha manifestato perplessità circa l’entrata della Russia nell’Unione 70 europea, aggiungendo che prima si dovrebbe pensare all’entrata di Stati come l’Ucraina e la Moldavia.) Per mezzo secolo il bipolarismo Usa-Urss ha assicurato la pace nel mondo, nonostante l’insanabile contrasto ideologico delle due superpotenze. Alla guida dei popoli poveri, l’Urss ha anche contenuto e controllato la loro aggressività. Impensabile, in quel tempo, un terrorismo islamico. Per quanto paradossale possa sembrare, l’Urss ha contribuito in modo decisivo ad assicurare la pace delle società democratico-capitalitiche. Da quando si è creduto che il bipolarismo fosse ormai tramontato, gli Usa si sono trovati sulle spalle un fardello troppo pesante, reso ancor più pesante dal fatto che la Russia, avviandosi verso la democrazia e l’economia di mercato, si è sempre meno presentata come guida delle rivendicazioni dei popoli poveri e si è sempre più schierata in favore delle popolazioni slave contro quelle mussulmane. Il bipolarismo Usa-Urss è stato (come da vent’anni sostengo) la prima incarnazione dello Stato mondiale - ossia del «monopolio legittimo della violenza» esercitato su scala mondiale (cfr. E.S., La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi 1988); e sin dalla caduta del muro di Berlino sostengo che la scomparsa del bipolarismo è un’apparenza che ha illuso e illude molti. Infatti, il bipolarismo ha un carattere primariamente militare, che non è certo venuto meno per il fatto che l’arsenale nucleare russo, tuttora concorrenziale rispetto a quello Usa, non è più gestito da una ideologia totalitaria (Cfr. E.S., Il declino del capitalismo, cit.). Se il bipolarismo gestito da irriducibili avversari ideologici ha salvaguardato per mezzo secolo la pace (ho spesso rilevato l’ingenuità della convinzione che le due maggiori potenze della terra considerassero seriamente la possibilità di distruggersi a vicenda), si presenta ora la tendenza reale verso 71 un bipolarismo costituito da due dimensioni economico- politiche (Usa e Europa-Russia), che, in parte già omogenee, per quanto riguarda l’Europa, vanno sempre più avvicinandosi e che, insieme, possono costituire quel centro dello sviluppo storico sulla terra, che non può essere gestito da una sola delle due. È nello stesso interesse di quest’ultimi che tale nuova forma di bipolarismo prenda piede. Ed è prevedibile che alla fine gli Usa prendano coscienza dei loro autentici interessi. Degno di nota, in proposito - ripetiamo - che in Italia il presidente del Consiglio del governo di centrodestra abbia più volte proposto l’entrata della Russia nell’Unione europea. Le considerazioni qui sopra sviluppate indicano il contesto in cui tale proposta può avere fondamento. E forse è interessante anche (e non paradossale, come a prima vista potrebbe sembrare) che quella proposta sia accompagnata dalla volontà di mantenere un asse preferenziale con gli Usa. Se non è una contraddizione, quella proposta può essere infatti condotta a significare che l’Europa può essere la vera alleata e dunque non subordinata ah’America, solo se essa possiede, oltre alla potenza economica, anche quella militare, che oggi continua ad avere il suo fulcro in un arsenale atomico invincibile, cioè in un apparato che sarebbe velleitario per l’Europa costruire (nonostante la chance nucleari di Francia e Inghilterra), ma che la Russia realmente possiede, e la cui perpetuazione diventa tuttavia sempre più onerosa per la Russia - premuta, quest’ultima, da un lato dalla consapevolezza che in un mondo sempre più pericoloso l’invincibihtà atomica è un bene irrinunciabile, e dall’altro dalla tentazione di intaccare il capitale atomico cedendone porzioni in cambio dei vantaggi economici che i compratori, più o meno affidabili, potrebbero assicurarle. L’entrata della Russia in Europa pone indubbiamente 72 enormi problemi - soprattutto, si è già detto, per quanto riguarda la gestione dell’apparato nucleare russo -, che però sono pur sempre inferiori a quelli dell’alternativa costituita da un mondo sempre più complesso (anche per l’affacciarsi di nuove grandi potenze come la Cina) ed esplosivo, dove gli Usa fossero convinti di poterne da soli determinare le sorti e dove le difficoltà economiche della Russia potrebbero farle perdere il controllo del proprio apparato nucleare a vantaggio del terrorismo islamico. Il problema del rapporto tra popoli ricchi e poveri si risolve riducendo il loro dislivello economico; ma la tendenza verso l’entrata della Russia nell’Unione europea e il conseguente rinnovato bipolarismo stabilizza l’organizzazione globale dei Paesi ricchi e rende quindi efficace e sicura la loro indifferibile decisione di ridurre la loro distanza economica dai Paesi sottosviluppati. 73 3. Le democrazie e la tecnica La costituzione americana è un grande modello di società liberal-democratica, ma è un’astrazione proporlo all’Europa senza tener conto del processo storico reale che spinge l’Europa a confrontarsi col problema-Russia. È un’astrazione anche perché il sottinteso dei sostenitori della democrazia e dell’economia di mercato è che quest’ultime, dopo la fine del socialismo reale, non abbiano alternative. Ma, anche qui, debbo rinviare a quanto vado sostenendo da molto tempo. Infatti il Meccanismo inaggirabile - richiamato anche nelle pagine precedenti - per il quale le grandi forze che oggi guidano il pianeta (capitalismo, democrazia, cristianesimo, islamismo, nazionalismo ecc. - e, ieri, socialismo reale), e che lo guidano servendosi, come mezzo, della tecnica moderna, sono destinate a diventare mezzi del potenziamento del proprio mezzo, cioè della tecnica, la quale dunque è destinata a diventare il loro scopo. Ma la tecnica destinata a diventare scopo non è la tecnica scientisticamente intesa, ma è l’apparato scientifico- tecnologico in quanto esso va unendosi all’essenza della filosofia contemporanea, ossia alla struttura concettuale che negli ultimi due secoli ha mostrato l’impossibilità di ogni limite assoluto all’agire dell’uomo. La tecnica, così intesa, è guidata dal risultato essenziale del pensiero filosofico dell’Occidente. In quanto tale pensiero la guida e le fa scorgere l’impossibilità di ogni limite assoluto dell’agire, la tecnica acquista una potenza essenzialmente superiore a quella di ogni tecnica che invece sia assunta come mezzo e pertanto sia limitata e frenata dagli scopi delle forze della tradizione occidentale. E la superiorità della sua potenza la destina - in un mondo che crede sempre di meno nei valori assoluti della tradizione - a prevalere su ogni forma di tecnica 74 che funzioni come mezzo per la realizzazione di tali valori. Già da questo ordine di considerazioni si può capire che lo strumento vincente conduce a una situazione dove la sua tutela e Fincremento della sua potenza sono destinati a diventare lo scopo delle forze che invece vorrebbero trattenerlo nella sua funzione di mezzo. Oggi anche la democrazia si serve della tecnica, ma il mondo procede verso un tempo in cui sarà la tecnica (intesa in quel suo significato complesso) a servirsi della democrazia (e delle altre forze prima menzionate), ossia a utilizzare l’organizzazione democratica della società per realizzare Fincremento della propria potenza - a utilizzare la democrazia, dico, e non quell’assolutismo politico che appartiene all’insieme dei limiti assoluti di cui il pensiero filosofico del nostro tempo mostra l’impossibilità. Ma la democrazia come scopo della tecnica è qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia che diventa mezzo della tecnica. Così come la ricchezza al servizio della vita buona, cioè dell’etica, è qualcosa di essenzialmente diverso della ricchezza che ha l’etica al proprio servizio; e l’etica che si serve della ricchezza è qualcosa di essenzialmente diverso dall’etica di cui la ricchezza si serve. Ho in più modi indicato perché il Meccanismo che conduce a questo rovesciamento di scopo e mezzo sia qualcosa di inaggirabile - un rovesciamento, peraltro, che pur non dicendo affatto l’ultima parola, è destinato a dominare per lungo tempo la storia del pianeta (cfr., oltre ai miei due scritti prima citati: E.S., Il destino della tecnica, Rizzoli 1998; Crisi della tradizione occidentale, Marinotti 1999; e N. Irti - E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza 2001; E.S., Capitalismo senza futuro, cit.). La democrazia europea e americana continuano a concepire la tecnica come mezzo per realizzare un mondo 75 democratico. Stando all’interno di questa convinzione, si può vedere nella costituzione americana il modello stesso della vita democratica. Ma se, in forza di quel Meccanismo, la democrazia è destinata a perpetuarsi solo nella misura in cui diventa mezzo della tecnica, e se la democrazia come mezzo è qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia come scopo, allora il problema dell’adeguazione della democrazia europea al modello americano diventa obsoleto, perché a questo punto viene in primo piano il problema di quale nuova configurazione venga ad assumere - negli Stati Uniti, in Europa, in Russia - la democrazia, una volta che essa sia ridotta, appunto, alla funzione di mezzo. Il Meccanismo di cui stiamo parlando avvolge cioè e coinvolge lo stesso problema, prima considerato, relativo al rapporto tra Usa, Europa, Russia. Il processo che conduce verso il nuovo bipolarismo democratico è inscritto cioè nel più ampio e più profondo processo che conduce al rovesciamento dove l’indefinito potenziamento della tecnica - in quanto unita alla consapevolezza filosofica che non esistono limiti assoluti all’agire umano («Dio è morto») - diventa lo scopo delle forze che tuttora si illudono di servirsi della tecnica e dunque diventa lo scopo della stessa democrazia. La rivista «Liberal» rileva che la democrazia americana «crede anche nelle responsabilità che si assume e nella sua capacità di difendere i suoi principi di riferimento». A fondamento di questa fede si trova la volontà di non cedere agli avversari; e tale volontà è concreta solo in quanto potenzia il più possibile l’apparato scientifico-tecnologico che le consente di non cedere. Ma sino a che tale apparato è mezzo, strumento, esso è soggetto al logoramento a cui ogni mezzo è soggetto; sì che la democrazia stessa non può permettere che abbia a logorarsi lo strumento che le assicura la sopravvivenza e la primizia. Ma quando e in 76 quanto evita che la tecnica, ossia il proprio strumento, attualmente insostituibile, abbia a logorarsi, la democrazia è già sulla strada del Meccanismo a cui abbiamo accennato, la strada dove la democrazia stessa rinuncia a porsi come lo scopo dell’agire sociale e assume come scopo del proprio agire la tutela e rincremento indefinito della potenza del proprio strumento. Lo stesso discorso va fatto a proposito di tutte le altre forze che, come la democrazia, intendono servirsi della tecnica come mezzo per la realizzazione dei loro scopi (reciprocamente escludentisi). D’altra parte la liberal-democrazia americana è unita all’economia di mercato e già da tempo quest’ultima non è più lo scopo dell’azione storica degli Stati Uniti. Essi cioè, in quanto superpotenza planetaria, non intendono sviluppare la propria potenza, e guidare il mondo, allo scopo di incrementare il profitto dei grandi trust del capitalismo americano, ma, all’opposto, intendono servirsi del profitto che l’economia capitalistica va accumulando, allo scopo di sviluppare la propria potenza e dominare il mondo. Infatti, anche questi due scopi sono tra loro conflittuali; ed essere potenti per essere ricchi indebolisce da ultimo la potenza e quindi la stessa ricchezza che dalla potenza è resa possibile e sostenuta. L’inevitabile percezione di questa conseguenza spinge l’America verso un atteggiamento dove essa vuole essere ricca per essere potente, cioè per incrementare la potenza del proprio apparato tecnologico, di cui ci si illude ancora, negli stessi Usa, di servirsi. Peraltro, l’illusione è tanto più giustificata quanto meno viene percepita l’inevitabilità del tramonto dei valori della tradizione occidentale - tra i quali, va sottolineato, vanno annoverati gli stessi valori dell’islamismo. In questa situazione, lo scopo dell’agire non è più l’incremento capitalismo del profitto, e quindi non è più 77 la liberal-democrazia in quanto a esso unita: lo scopo diventa la tecnica; e la democrazia, cambiando volto, assume tratti che sono ancora tutti da decifrare. 78 4. Sulla coerenza della follia estrema Ma già qui è opportuno rilevare (e l’osservazione vale per tutto quanto ho scritto sulla tecnica) che il «rovesciamento» in cui la tecnica, da mezzo, diventa scopo - il meccanismo cioè del rovesciamento - è un «movimento» che si costituisce alVinterno della fede che esistano mezzi e scopi - e questa fede appartiene alla follia estrema del mortale (cfr. cap. VI). Come tale follia diventa coerente quando essa nega ogni immutabile e ogni verità che pretendano porsi al di sopra del divenire, per dominarlo, così la follia estrema diventa coerente quando la volontà di far diventar altro le cose esce dalla situazione in cui essa si serve della tecnica come mezzo ed entra nella situazione in cui il potenziamento infinito della tecnica diventa lo scopo dell’uomo. Proprio perché appartiene al contenuto della fede nel divenir altro delle cose, e pertanto della volontà di farle diventare altro, il «rovesciamento» di cui stiamo parlando appartiene alla volontà interpretante, ossia alla non-verità. Nello sguardo del destino, invece, appare che, commisurato alla verità autentica ossia al destino della verità, il contenuto della follia - cioè della fede, della volontà e della volontà interpretante - è il nulla - non essendo invece un nulla la fede, la certezza che tale contenuto non solo non sia un nulla, ma sia l’evidenza suprema. Nello sguardo del destino della verità appare cioè che l’apparire di quelVeterno, che è la fede di assumere la tecnica come mezzo, è seguito da quell’altro eterno che è la fede che la tecnica da mezzo diventa scopo - dove questo rovesciamento, cioè questo scambio delle parti, ha un carattere vincolante, ossia è qualcosa di inevitabile, aU’interno della logica e delle regole secondo cui si costituisce il contenuto della volontà interpretante, ossia della fede. In altri termini, è lasciando parlare la fede nel divenir altro, che essa, diventando coerente alla propria logica, afferma la «necessità» che quella volontà di far diventar altro 79 le cose, in cui la tecnica consiste, divenga, da mezzo, scopo. Il discorso va esteso all’intero contenuto della volontà interpretante: l’intero contenuto di tale volontà è il nulla, ma tutte le determinazioni che restano evocate dalla volontà intepretante sono degli eterni che appaiono con necessità così come appaiono - dove questa necessità è essenzialmente diversa da quella che compete alla logica che guida la fede e la volontà interpretante. 80 5. SuU’inevitabilità dello scambio delle parti Si richiami qui uno dei motivi fondamentali per i quali in queste pagine si afferma che lo «scambio delle parti» - ossia il rovesciamento del rapporto mezzo-fine - è, all’interno di tale logica, inevitabile (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro, cit.). Nell’agire, lo scopo, come «idea» - ossia come primum in intentione, come «presenza ideale nella mente di chi agisce» - determina il mezzo da cui è realizzato: lo configura, lo orienta e gli assegna i limiti oltre i quali esso non sarebbe più idoneo a realizzare tale scopo. Lo scopo, come «fatto reale» - ossia in quanto è Yultimum in executione -, è prodotto dal mezzo; ma, prima e durante questa produzione, la «presenza ideale» dello scopo guida, controlla, regola la produzione del mezzo. (Ad esempio, la decisione di far guerra guida, controlla, regola la produzione delle armi che sono il mezzo con cui tale decisione è realizzata, cioè sono il mezzo di cui quella decisione si serve per realizzarsi?) Se uno scopo è in conflitto con altri scopi e non intende farsi sopprimere da essi, e anzi intende prevalere e sopprimerli, l’agire che mira a farlo prevalere non può evitare di potenziare il più possibile il mezzo di cui tale agire si serve per far prevalere tale scopo. Ma non può potenziarlo oltre i limiti al di là dei quali il mezzo non è più guidato, controllato, regolato dallo scopo. Ad esempio l’agire che ha uno scopo non può concentrare tutte le proprie energie nella produzione e nel perfezionamento e potenziamento del mezzo, altrimenti non resterebbero più energie e tempo per la realizzazione dello scopo dell’agire. Proprio la volontà di perfezionare e potenziare il più possibile il mezzo con cui ci si propone di realizzare uno scopo sottrae il mezzo alla guida, al controllo, alla regola che lo scopo stabilisce per la produzione del mezzo. 81 Se, nel conflitto tra scopi (e nella storia dell’uomo nessuno scopo si è trovato al di fuori dell’elemento conflittuale), uno di essi, per prevalere sugli altri, rinuncia alla propria o a una parte della propria determinazione del mezzo e potenzia il mezzo oltre il limite che rende coerente il mezzo allo scopo, gli scopi antagonisti saranno certamente vinti, ma il vincitore non sarà nemmeno lo scopo che, per vincere, ha rinunciato a determinare il proprio mezzo, ossia ha rinunciato a sé stesso. Sfuggendo alla guida di ciò che dovrebbe essere il suo scopo, il mezzo che ha vinto non ha realizzato il proprio scopo perché andato oltre i limiti che determinano il mezzo e che, insieme, definiscono lo scopo, ha realizzato uno scopo diverso da quello che inizialmente intendeva servirsi di tale mezzo per realizzarsi. Propriamente, lo scopo che è stato realizzato è diventato il potenziamento del mezzo che doveva realizzare un certo scopo, e al nuovo scopo, costituito da tale potenziamento, il vecchio tenta di restare aggrappato per poter mantenere ancora la propria funzione di scopo. Ma invano, perché la fine di un conflitto è solo una parentesi nella conflittualità che è ineliminabile perché è dovuta all’esistenza stessa dell’agire e della volontà; sì che viene alla luce che lo scopo autentico dell’agire è un potenziamento del mezzo, che non consente ai vecchi scopi di restargli aggrappati per sopravvivere come scopi. Anche lo Stato parassitario che dà loro l’apparenza di scopi è destinato a tramontare. Una situazione, poi, in cui nessun agire oltrepassi i limiti che determinano i propri mezzi e definiscono i propri scopi sarebbe una situazione non conflittuale, cioè una situazione impossibile, perché le cose che la volontà di una certa forma di agire vuol trasformare per ottenere un certo scopo sono le stesse che la volontà di una cert’altra forma di agire vuol trasformare per ottenere uno scopo diverso, e quindi il 82 conflitto tra le due volontà è inevitabile. Quando si afferma che il fine non giustifica i mezzi, si intende che i mezzi devono essere coerenti al fine voluto. Il fine giustifica i mezzi che sono coerenti a esso. Ma la giustificazione dei mezzi è anche la loro limitazione. La giustificazione dei mezzi da parte del fine è la loro mortificazione, il loro freno. Poiché ogni scopo si trova in una situazione conflittuale, l’agire, cioè l’assunzione di mezzi per realizzare scopi, è una contraddizione, dove, da un lato, lo scopo guida il mezzo da cui è realizzato e, dall’altro, per prevalere sugli scopi che impediscono tale realizzazione, lo scopo non guida il mezzo. Da un lato il mezzo è potenziato fino a un certo punto, dall’altro è potenziato oltre quel punto. La «libertà» dell’individuo moderno è la facoltà di realizzare una serie di scopi, e nella democrazia la libertà di un individuo si estende sin dove arriva la libertà degli altri individui. Lo Stato moderno dovrebbe garantire l’equilibrio, cioè i limiti che definiscono le diverse serie di scopi, cioè la libertà di ogni individuo. Ma anche all’interno dello Stato moderno queste diverse serie sono tra loro conflittuali, e pertanto l’agire individuale è esso stesso una contraddizione. La libertà del cittadino è contraddizione. All’interno della contraddizione si trova tuttavia anche la schiavitù e la servitù, che è totale o parziale a seconda che chi si impone abbia una signoria totale o parziale sul vinto. Nel conflitto, chi ha vinto un avversario autentico - cioè che non si limita a subire lo scopo del potente, ma intende a sua volta prevalere sull’avversario - ha dovuto potenziare i propri mezzi oltre i limiti che determinano i mezzi e definiscono lo scopo del vincitore. Ma lo stesso ha dovuto fare chi ha perso, perché per non perdere ha dovuto a sua volta oltrepassare il più possibile 83 i limiti che determinano i mezzi di cui disponeva e che definiscono gli scopi a cui mirava. L’avversario autentico non perde (diventando in tal modo «servo» o «schiavo») perché non ha oltrepassato quei limiti, ma perché, oltrepassandoli non ha ottenuto dai propri mezzi la potenza che dai propri è riuscito a ottenere il vincitore. L’agire del vincitore è contraddizione proprio perché è contraddizione anche l’agire del vinto. Poiché l’agire dell’uomo è coordinazione di mezzi in vista della realizzazione di scopi, e si trova essenzialmente all’interno di una situazione conflittuale, l’agire umano in quanto tale è contraddizione. È contraddizione dallo stesso punto di vista di chi non vede l’alienazione dell’agire in quanto volontà che qualcosa divenga e sia altro da ciò che essa è. Tutte queste considerazioni sono ora da riferire alla situazione conflittuale di particolare rilievo storico, dove le grandi forze dell’Occidente intendono realizzare i loro scopi conflittuali servendosi ognuna di una certa frazione dell’apparato scientifico-tecnologico, divenuto ormai il Mezzo supremo per la realizzazione di ogni scopo dell’uomo. La filosofia del nostro tempo mostra infatti, nella propria essenza, che non può esistere alcuna dimensione divina e immutabile che possa essere raggiunta con un mezzo diverso da quello tecnologico, cioè da ciò che nella tradizione filosofica era l’adeguazione dell’uomo e dello Stato alla verità svelata dal sapere filosofico. All’inizio, ognuna di quelle grandi forze dell’Occidente intende guidare, controllare, regolare e quindi limitare il mezzo tecnologico di cui essa dispone. Ma nella situazione conflittuale è inevitabile che il limite che determina il mezzo e definisce lo scopo di ognuna di tali forze sia oltrepassato e che il potenziamento della tecnica divenga lo scopo supremo di tutto l’agire umano. Qui si produce la forma più imponente dello «scambio delle parti» e, insieme, la forma più imponente 84 della contraddizione dell’agire. Capitalismo, comuniSmo, democrazia, cristianesimo, islamismo, nazionalismo sono (o sono stati) costretti da un lato, a potenziare sempre di più il Mezzo tecnologico a loro disposizione, e, dall’altro, sono (o sono stati) costretti a indebolirlo, cioè a limitarne il potenziamento, per evitare di farlo uscire dal loro controllo, dalla loro guida, dalla loro regola. Oggi la tecnica è il fondamento della salvezza di ogni scopo e quindi ogni scopo, per salvare sé stesso, è costretto ad assumere come scopo il potenziamento del proprio Mezzo: per salvare sé stesso ogni scopo è costretto a rinunciare a sé stesso. 85 6. Note su identità dell’Europa, frammento, potenza Nel mio libro La tendenza fondamentale del nostro tempo (Adelphi 1988), ma anche prima in Téchne (Rusconi 1979), e in seguito in altri scritti ancora, si mostra in che senso e per quali motivi è «necessario» affermare, da un lato, che l’«essenza» - Inanima» - della civiltà occidentale è il pensiero filosofico, e, dall’altro, che il pensiero filosofico del nostro tempo, quando si riesca a scendere nel suo sottosuolo essenziale, mette in luce l’«inevitabilità» del tramonto della grande tradizione dell’Occidente e l’altrettanto «inevitabile» destinazione della tecnica al dominio del pianeta. Ma, fino a che non si scorge il significato autentico di queste affermazioni, esse scadono al livello della semplice notizia. (Se non intende essere la semplice opinione di qualcuno, ogni affermazione dev’essere infatti «argomentata». La parola «argomento» proviene dal latino arguo e dal greco argòs, che indicano il porre in chiara luce. Poiché la luminosità può essere maggiore o minore, per affermare qualcosa in modo adeguato bisognerebbe dire che cosa propriamente significa «luce» e qual è il grado di luminosità di cui la risposta si avvale. Da millenni l’uomo tenta di dirlo.) In che consiste l’«identità» dell’Europa? È stato indicato in molti modi. Come prendere posizione? Innanzitutto va messa in luce l’indicazione che è in grado di includere tutte le altre e che non è inclusa da nessun altra. È quindi inevitabile che essa sia la più «astratta». In quanto è comune alla maggiore o minore «concretezza» di tutte le altre, tale indicazione sta infatti al di sopra della concretezza - senza tuttavia ignorarla. L’«astratto» non è qualcosa di negativo; è anzi il segreto in cui è riposta l’adeguatezza della diagnosi. Si tratta di portare alla luce ciò che è comune all’immensa varietà di eventi da cui è costituita la storia europea. Oggi il 86 sapere diffida di ciò che è comune. Si ritiene, oggi, che la forma più rigorosa del sapere sia la specializzazione scientifica - che, appunto, è l’opposto della cura per ciò che è comune. Ma dal comune non ci si può liberare. Ogni sapere autentico - si dice - dev’essere specialistico e quindi il senso dell’Europa si spezza nella molteplicità di sensi che appaiono all’interno delle varie forme della specializzazione e del frammento. Ma se solo il frammento ha senso - se cioè il senso è frammentario -, allora tutti i frammenti hanno questo di inevitabilmente comune : di essere, appunto, dei frammenti. Inoltre l’Europa è, originariamente ed essenzialmente, tendenza e vocazione al frammento e all’isolamento delle cose. A un certo momento, in Grecia si incomincia a pensare che una «cosa» è «ciò che è» - l’«ente» - ed è come ciò che non era e non sarà, ossia è come ciò che era nulla e tornerà a esserlo. Ma ciò che è stato nulla non può avere alcuna relazione con ciò che già esiste, instaura relazioni provvisorie e accidentali che verranno meno quando ciò che è non sarà più. Questo significa che, nonostante ogni intenzione in senso contrario, ogni cosa è un frammento, è isolata da ogni altra. La specializzazione scientifica ha il proprio fondamento nella filosofia greca, che stabilisce una volta per tutte il significato delVesser-cosa, con un gesto che si rende sempre più presente e operante in ogni azione e in ogni conoscenza: in ognuno degli infiniti eventi, grandi e piccoli, che formano la storia dell’Europa, dapprima, e, ormai, dell’intero pianeta. In questo significato consiste Yidentità dell’Occidente. A esso sono essenzialmente legate la volontà di potenza e la violenza estrema. Si può voler annientare qualcosa solo se si crede che le cose (uomini e enti non umani) siano di per sé stesse figlie del niente e a esso destinate. E la violenza 87 dell’annientamento inseparabile dalla violenza della creatività. Dapprima l’Occidente non si accorge del proprio essere volontà separante e costruisce le grandiose cattedrali della volontà unificante: il senso filosofico del Tutto, che raccoglie in sé le differenze e le opposizioni più marcate, il «Dio» di tutte le cose, l’eguaglianza cristiana tra gli uomini in quanto figli di Dio, la volontà di essere comprensibile da tutti, lo Stato che è il Dio in terra e dunque principio di unità, l’economia di mercato che mette in comunicazione i popoli, la scienza che, prima di diventare specializzazione, vuol essere a lungo unificazione delle leggi della natura, il comuniSmo che si rivolge ai lavoratori di tutto il mondo perché si uniscano, la «globalizzazione» del nostro tempo: sono alcuni degli esempi più rilevanti della volontà di unire ciò che, essendo stato concepito e vissuto come separato, non può essere unito. È innanzitutto il sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo a portare al tramonto la volontà unificante della tradizione. Dio muore e rimane la «terra infranta». Su questa base, non solo ogni «integrazione» e «interazione» tra i popoli, ma anche tra gli individui dello stesso popolo, della stessa città, della stessa famiglia è velleitaria. Rimedi provvisori. Auctoritas, non veritasfacit legem (si dice da Hobbes a Cari Schmitt). Anche su base linguistica, lex è l’ordinamento imposto alle cose, che quindi le costringe a stare insieme. La «verità» è il mondo in cui nella tradizione occidentale si vuole legare ciò che è vissuto e inteso come originariamente separato. La verità è quindi destinata al tramonto. E auctoritas significa «potenza» (anche qui la linguistica lo conferma). La legge è il risultato dell’ auctoritas, ossia della costrizione che lega insieme le cose. 88 La potenza della legge può essere maggiore o minore. Oggi la potenza maggiore è la tecnica guidata dalla scienza moderna. Il sottosuolo della filosofia del nostro tempo ha distrutto la «verità» e quindi autorizza la tecnica a facere legem. La specializzazione scientifica, Lisciamento e il frammento sono legati alla costrizione che con la propria potenza unisce i frammenti del mondo. Qui è il fondamento di ciò che vien chiamato «globalizzazione». Ma se ogni volontà di unire ciò che non può essere unito è una costrizione destinata, prima o poi, a fallire, si apre il problema della configurazione dell’evento che è destinato a lasciarsi alle spalle la stessa civiltà della tecnica. 89 IV Diritto, filosofia, tecnica 1. La filo sofia 1 Stiamo parlando a un pubblico composto soprattutto da giuristi. Che però sono anche filosofi del diritto e quindi comprendono bene l’opportunità che nel mio intervento tenga conto anche delle sollecitazioni che prima mi sono state rivolte. Innanzitutto è il caso che ci si chieda che cosa significhi «filosofia». Se già qui non ci intendiamo, faremo poca strada insieme. Ne facciamo ben poca se concepiamo la filosofia come un sapere che dipende dalla scienza, se riteniamo cioè che la filosofia, per costituirsi, debba incominciare col tener conto di quanto si afferma nell’ambito del sapere scientifico. Alla filosofia è nota l’esistenza del mondo, e nel mondo c’è anche la scienza; ma ciò non significa che la filosofia debba fondarsi sulle sapienze del mondo (oltre alla scienza ce ne sono anche altre). Se ha bisogno di fondarsi sulla scienza, meglio lasciarla perdere, la filosofia; che non potrebbe andare molto oltre una specie di ricapitolazione del sapere scientifico. Meglio lasciar parlare questo sapere. Prima è venuto fuori il nome di Searle. Che, anche lui insieme a moltissimi altri (in ogni campo), dà appunto per scontato che esista quella forma di storia del mondo dove, in un primo tempo, l’uomo ancora non esiste, seguita da un tempo nel quale l’uomo esiste, e infine da un tempo in cui, con ogni probabilità, l’uomo non ci sarà più e il mondo continuerà a esistere più o meno a lungo. Certo, la scienza procede adottando la convinzione che la realtà esista indipendentemente dalla conoscenza umana di essa, breve parentesi nel corso degli eventi. Spesso (ma con eccezioni) gli scienziati (per esempio Max Planck) lo affermano 90 esplicitamente. (Però Bertrand Russell, senza essere idealista, ammette la possibilità che il mondo intero sia incominciato a esistere da pochi istanti, corredato di tutte le esperienze che ne abbiamo, di tutti i nostri ricordi del suo più lontano passato e con tutte le aspettative e i progetti riguardanti il futuro.) Per Searle, poi, uno che non lo creda è un minus habens. Non credo tuttavia di esserlo, se affermo che la filosofia non può presupporre alcune delle pur mirabili costruzioni del sapere scientifico, anche perché si tratta di un sapere che, come l’amico Giorello sa benissimo, oggi riconosce il proprio carattere ipotetico. Ora, sarebbe sorprendentemente improprio che si desse credito (come mi sembra che Ferraris finisca col fare) al «senso comune», e lo si sollevasse al rango di verità incontrovertibile, là dove il sapere scientifico, perfino il sapere logico-matematico, mette in questione la propria incontrovertibilità, la propria verità assoluta. La filosofia è critica radicale, radicale problematizzazione del sapere, e quindi non può procedere dando per scontati i risultati della scienza (o di qualsiasi altra sapienza, quella filosofica compresa). Per questo non è il caso di farsi riguardo ad affermare che la filosofia, autenticamente intesa, richiede una concettualità estremamente più radicale di quella scientifica. Altrimenti la filosofìa si limiterebbe a essere (ripeto) un panorama del sapere scientifico, o una specie di pattuglia in avanscoperta dove alcuni audaci, o incoscienti, si inoltrano nel deserto per tentar di vedere di sfuggita e approssimativamente come stanno le cose, in attesa che poi arrivino le truppe regolari, quelle della scienza, che stabiliscono come le cose effettivamente stanno e rimandano nelle retrovie le avanguardie filosofiche. No: sin dall’inizio la filosofia ha inteso essere 1’evocazione dell’innegabile, della verità in quanto innegabilità assoluta. Anche quando si 91 contrappongono i «fatti» alle «interpretazioni» si tende a considerare il «fatto» come l’innegabile, come ciò che non può essere negato, mentre l’«interpretazione» - lo richiamava il professor Zaccaria - rende sì particolarmente significativo il «fatto», ma immergendolo in un alone di controvertibilità, di non-verità, per cui da ultimo, nel confronto, è il «fatto» che prevale - e prevale in quanto, appunto, lo si ritiene innegabile. La filosofia evoca il senso radicale dell’innegabile unendolo al suo carattere di visibilità. Non c’è bisogno di leggere Heidegger: basta un vocabolario per sapere che i Greci chiamano alétheia la verità. A-létheia significa, alla lettera, «non nascondimento». Ciò che è vero è il non nascosto. Heidegger però non rileva che, per il pensiero greco la verità, nel suo senso radicale, non è solo alétheia, ma epistéme tes alethéias («scienza della verità» è una delle traduzioni correnti di questa espressione). Ciò che si disvela neW alétheia è il contenuto assolutamente stabile (epistémonikón ). Il tema -ste di epi-stéme, dalla radice indoeuropea -sta, nomina appunto lo stare di ciò che, disvelato, si impone «su» (epi) tutto ciò che vorrebbe spingerlo a essere diversamente da come è e sta. Si può dire che epistéme tes alethéias esprime sia un genitivo oggettivo (il sapere assolutamente stabile che ha come contenuto la verità), sia un genitivo soggettivo (la stabilità assoluta che è il contenuto del disvelamento). Questo senso radicale della verità - il contenuto manifesto che sta e che, proprio perché sta, è innegabile - è evocato una volta per tutte dal pensiero greco. «Una volta per tutte», anche perché quando oggi, per esempio nel sapere scientifico o filosofico, si dichiara di non voler proporre verità assolute, incontrovertibili, definitive, ci si riferisce appunto al senso radicale della verità che i Greci hanno per la prima volta evocato, e da esso ci si allontana. 92 A questo punto, che l’innegabile sia Yalétheia-epistéme, ciò che si mostra nella sua stabilità, significa che ciò che oggi è chiamato «coscienza» è il luogo dell’innegabile. È nella coscienza che le cose escono dal loro nascondimento e si rendono visibili. I Greci chiamano phàinesthai la visibilità, l’ apparire (phàinesthai deriva da phos, «luce», e il visibile, essendo ciò che sta in luce, garantisce la propria esistenza). Ma come la semplice affermazione che X è X, o che a X non possono convenire Y e non-Y, non è sufficiente per poter affermare che il principio di identità e di non contraddizione sono innegabili, così la semplice affermazione che qualcosa appare non è sufficiente per rendere innegabile il principio della fenomenologia - che in effetti non riesce a essere che un presupposto, un dogma. Perché ciò che appare non può essere negato? Con questa osservazione alludo alla necessità di procedere oltre l’immediata elevazione del visibile al rango dell’innegabilità. Il senso greco deìYalétheia (da cui discende il «principio di tutti i principi» della fenomenologia) è ineliminabile, ma non può riuscire a essere l’assoluta stabilità e innegabilità richieste dal pensiero filosofico. Quando, sul «Corriere della Sera», intervenni nella polemica sul cosiddetto «nuovo realismo» (cfr., nel presente saggio, sezione seconda, cap. 8) intendevo mostrare quali siano le possibilità del realismo e dell’idealismo, ossia di forme filosofiche che si presentano all’interno della storia dell’Occidente. I miei scritti indicano tuttavia la dimensione che mostra perché tale storia è il culmine de\Y alienazione della verità. I Greci evocano cioè una volta per tutte il senso della verità, ma aprono anche la strada al pensiero in cui si intende come verità ciò il cui contenuto è, in modo radicale, l’alienazione della verità. In quel mio intervento sottolineavo la potenza concettuale di Giovanni Gentile; ma non, ovviamente, perché il pensiero di Gentile sia libero da 93 quell’alienazione. Ciò a cui quegli scritti si rivolgono è abissalmente lontano dal pensiero di Gentile. La potenza concettuale del pensiero di Gentile è massima perché tale pensiero è massimamente rigoroso nell’errare. Non tenendo conto di questa potenza dell’errare, il cosiddetto «nuovo realismo» (all’estero e in Italia) non fa cheriproporre (sembra senza rendersene conto) quel realismo della tradizione greco- medioevale che è stato messo in questione, e fuori gioco, dallo sviluppo fondamentale della filosofia moderna da Cartesio a Kant, all’idealismo fino, appunto, aH’idealismo gentiliano. Giacché - qui entriamo nel vivo della questione - più decisivo del problema del rapporto tra realismo e idealismo o tra realismo e ermeneutica, ben più decisivo è il problema della sorte della verità lungo la storia dell’Occidente. Infatti, altro è il contenuto che la verità (l’incontrovertibile, l’innegabile) ha assunto nella tradizione dell’Occidente, altro è il contenuto che la verità è venuta in seguito ad assumere - e inevitabilmente. 94 2. La giustizia Queste considerazioni coinvolgono anche la dimensione del pensiero giuridico. Quando si confronta il fatto con l’interpretazione, il fatto si presenta come ciò a cui per lo più compete il carattere dell’innegabilità, della verità. Tuttavia in campo giuridico il problema del rapporto fatto- interpretazione riguarda l’esigenza di porre tale rapporto in relazione con la norma : l’accertamento del fatto intende stabilire la compatibilità del fatto con la norma. E l’accertamento della convergenza o divergenza del fatto rispetto alla norma non è fine a sé stesso, ma è operato perché sia fatta giustizia. Il problema del rapporto fatto-norma rinvia al problema della giustizia; e tale problema riceve oggi (penso ad esempio a Rawls e a Kelsen) una soluzione essenzialmente diversa da quella che gli viene data lungo la tradizione filosofico-giuridica. Qual è la definizione tradizionale di «giustizia»? Nella Summa Theologica Tommaso d’Aquino scrive: «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum unicuique tribuendi», «la perpetua e costante volontà di assegnare a ciascuno il suo ius». Una definizione in seguito continuamente ripetuta (qualche volte con l’infinito del verbo invece del gerundio). Sono note le critiche che sono state rivolte a questa definizione - non solo tomistica, ma classica - di «giustizia». Essa sarebbe un circolo vizioso perché nel definiens si ripresenterebbe il definiendum (iustitia è il definiendum, ma ius, che compare nel definiens sarebbe daccapo identico al definiendum). Eppure questa definizione non è un circolo vizioso. Si rifa a Platone, al secondo e quarto libro della Repubblica : «giustizia» è, sì, che «ciascuno non abbia ciò che è di altri e non sia privato di ciò che è suo (IV, 433 e), ma quel che è decisivo è 95 che ciò che è «suo» è ciò che gli spetta in relazione all’Ordinamento assoluto della realtà che è compito dell’ epistéme della verità mostrare, indicando pertanto in che luogo di tale Ordinamento si trova ogni uomo e ogni cosa. La verità mostra incontrovertibilmente in che cosa consistono gli uomini e i diversi tipi dell’umano, e la giustizia è il riconoscimento, nel conoscere e nell’agire, di ciò che, in verità, ogni uomo è e di ciò che non può essere perché, in verità, è di altri. Lo ius che compare nel definiens della definizione qui sopra menzionata non è dunque la semplice ripetizione della iustitia in quanto definiendum. Poiché Yepistéme tes alethéias crede di poter mostrare in modo incontrovertibile l’esistenza di un Ordinamento assoluto e immutabile in cui ogni cosa prende posto (sì che ogni cosa è quello che essa è solo in quanto ha il posto che le spetta all’interno di tale Ordinamento), la giustizia è appunto il riconoscimento di ciò che incontrovertibilmente spetta a ogni cosa, e pertanto quella definizione della iustitia non è un circolo vizioso. (Né ciò significa che lungo la storia del pensiero filosofico quell’Ordinamento abbia avuto sempre la stessa configurazione.) Questa grandiosa concezione della giustizia illumina e domina anche la dimensione giuridica della tra dizione occidentale. Uno dei temi centrali in sede giuridica è oggi il rapporto tra «diritto naturale» e «diritto positivo». Il diritto naturale è il modo in cui l’Ordinamento della realtà, mostrato dall’epistéme della verità, si riflette nei rapporti tra ciò che nella società accade, i «fatti», e le norme che la regolano. Tali norme si inscrivono in quell’ordinamento e stabiliscono ciò che spetta a ciascuno aH’interno di esso, ossia ciò che a ciascuno spetta «per natura» - la «natura» non essendo altro che tale Ordinamento. Si aggiunga che se il diritto naturale afferma che l’uomo ha un posto che gli spetta 96 necessariamente, per natura, nell’Ordinamento complessivo e incontrovertibilmente immutabile della realtà, allora non le «interpretazioni», ma le constatazioni (ossia ciò che è ritenuto «constatazione»), qui, hanno il compito di accertare se i «fatti» (ciò che accade) siano o no compatibili con le norme. Al diritto naturale si contrappone oggi il «diritto positivo». Questa contrapposizione è la conseguenza, in campo giuridico, di un evento grandioso e spaesante: il tramonto delle forme sapienziali e pratiche della tradizione dell’Occidente, il tramonto cioè al cui fondamento agisce il tramonto dell ’epistéme della verità e dell’Ordinamento immutabile che essa ha inteso mostrare. Essenzialmente più decisiva del rapporto tra idealismo (o pensiero ermeneutico) e realismo - ognuno dei quali intende valere come il contenuto della verità - è, dicevo prima, la domanda: «Che ne è della verità?»; e quindi: «Qual è la storia della verità?». Infatti il problema della contrapposizione tra realismo e idealismo può essere risolto solo accertando perché si debba tener ferma la verità dell’uno piuttosto che la verità dell’altro. Tutto ciò significa che il problema relativo a quella contrapposizione, e pertanto alla questione del rapporto tra fatti e interpretazioni, rinvia da ultimo alla questione di quale sia il contenuto che è necessario porre come verità, ossia come incontrovertibilità. Vado richiamando da tempo che l’autentico e profondo avversario della tradizione occidentale non è il relativismo (come ad esempio la Chiesa cattolica invece ritiene). Al di sotto del rifiuto appariscente ma impotente della tradizione occidentale, proprio del relativismo, al di sotto di tale rifiuto, ossia nel luogo che vado chiamando «sottosuolo filosofico del nostro tempo», agisce un pensiero tendenzialmente nascosto, ma capace di mostrare Vimpossibilità che l’Ordinamento 97 immutabile e divino della tradizione sia il contenuto dell’ epistéme della verità. Fra i pochi abitatori del «sottosuolo», Giovanni Gentile, Nietzsche, e ancor prima di loro Leopardi. Nell’ epistéme della verità quell’ordinamento immutabile domina il mutamento degli enti del mondo, domina cioè il loro uscire dal nulla e il loro ritornarvi. L 'epistéme è il riconoscimento originario dell’esistenza del mutamento così inteso. Ma è appunto sul fondamento di tale riconoscimento che nel «sottosuolo» essenziale del nostro tempo si mostra (ne accenneremo tra poco) Vimpossibilità dell’esistenza di ogni dimensione immutabile. Ogni realtà e ogni sapienza sono pertanto storiche, temporali, contingenti, finite. Da ciò segue, e inevitabilmente, il prevalere del diritto positivo sul diritto naturale, cioè segue la necessità che ciò che spetta a ciascuno e ciò che non deve essergli sottratto è tale non assolutamente, ma in relazione a una certa epoca storica dove le forze sociali che sono riuscite a imporsi sulle altre stabiliscono (con una voluntas che quindi non è constans et perpetua ) che cosa sia ciò che in tale epoca spetta a ciascuno (ius suum unicuique tribuendi) e ciò che non gli può essere tolto. Hanno carattere storico, pertanto, non solo i fatti, ma anche i criteri in base ai quali i fatti sono individuati, interpretati e giudicati. E, questo, sia che i fatti vengano sia che non vengano considerati come indipendenti dal loro essere interpretati. Il tramonto di ogni realtà e sapienza immutabile è quindi l’orizzonte comune al realismo e all’idealismo - la cui contesa si risolve peraltro in favore dell’idealismo solo qualora quest’ultimo si sollevi alla dimensione che l’attualismo gentiliano (come altrove ho mostrato) ha saputo indicare. 98 3. Il «sottosuolo» filosofico del nostro tempo e il positivismo giuridico Se si vuole richiamare in breve il senso essenziale della potenza concettuale del «sottosuolo» filosofico del nostro tempo (degli ultimi due secoli, si potrebbe dire) - se lo si vuole richiamare in breve e in una forma che possa valere come tratto comune agli abitatori del «sottosuolo» (che d’altra parte hanno elaborato in modi specifici e differenziati tale tratto) -, si deve innanzitutto richiamare la convinzione di fondo che incomincia con la vita stessa dell’uomo sulla terra, e che lungi dall’esser qualcosa di nascosto in un sottosuolo sta invece alla luce del sole, mostrando ciò che non viene in alcun modo messo in questione lungo l’intera storia dell’uomo: si tratta della convinzione che la terra si trasforma, e l’uomo con essa. La trasformazione è il diventar altro da parte delle cose, il loro diventare altro da ciò che dapprima esse sono. Le «teogonie» e le «metamorfosi» confermano il carattere archetipico di questa convinzione. Con l’avvento del pensiero filosofico il diventar altro da parte delle cose è interpretato in senso ontologico : il loro diventar altro si spinge fino al loro diventare quell’assolutamente altro che è il loro non essere, ossia il loro esser nulla, e le cose, provenendo dal nulla, diventano quell’assolutamente altro dal nulla che è il loro essere, ossia il loro esser enti. La filosofia evoca pertanto, una volta per tutte nella storia dell’Occidente e ormai del pianeta, non solo il senso della verità come assoluta incontrovertibilità, come epistéme tes alethéias, ma anche il senso ontologico del diventar altro delle cose; e una volta per tutte, lungo quella storia, l ’epistéme della verità pone tale senso come il proprio contenuto originario. È a partire da questo contenuto che, nella tradizione, 99 Yepistéme della verità si porta oltre di esso («oltre», cioè metà, nella lingua greca) e si costituisce come metafisica, ossia come sapere che mostra la necessità di affermare, «al di là» delle trasformazioni del mondo, 1’esistenza dell’Ordinamento immutabile e divino dal quale il mondo è regolato e per il quale il diritto naturale si fonda su di un’etica assoluta. Il senso ontologico del diventar altro diventa in tal modo l’evidenza suprema delVintero Occidente: sia della tradizione dell’Occidente, sia del sottosuolo filosofico del nostro tempo, sia degli amici sia dei nemici di Dio. Ma è questo sottosuolo e il carattere della sua inimicizia verso il divino a costituire la forma più radicale e rigorosa della fedeltà a ciò che lungo l’intera storia dell’Occidente e ormai del pianeta - dunque anche all’interno del sapere scientifico, religioso, artistico e ormai dello stesso senso comune - è ritenuta la suprema evidenza del senso ontologico del diventar altro. (È per questa fedeltà che il diritto positivo si fonda su una forma storica di etica, su di una Grundnorm, che è tale solo in relazione a una certa epoca storica e che quindi - la tesi è resa esplicita da Kelsen - può avere qualsiasi contenuto.) Ebbene, da un lato, l’Occidente è convinto, sin dai suoi primi pensatori, che l’evidenza suprema sia il provenire degli enti dal nulla e il loro ritornarvi (e si può dire che anche Parmenide lo creda: nel senso che egli afferma l’esistenza di una regione dove si crede evidente il provenire e il ritornare nel nulla da parte degli enti, una regione che tuttavia egli qualifica come illusione, dóxa). All’interno di questa convinzione il futuro è «l’ancor nulla», il passato è «formai nulla». D’altra parte, in ogni sua configurazione, Yepistéme della verità, che lungo la tradizione dell’Occidente intende affermare l’esistenza di un Ordinamento (o Legge) immutabile, non può ritenere che tale Ordinamento domini soltanto il presente, ma deve ritenere che il suo dominio si 100 estenda anche alla totalità del futuro e del passato, cioè che futuro e passato non possano sottrarsi al suo dominio e alla sua legislazione. Non può cioè ritenere che dall’ancor nulla del futuro possano provenire o che dall’ormai nulla del passato possano ritornare cose che si sottraggono a tale Ordinamento e siano per esso qualcosa di imprevisto. Nemmeno la libertà dell’uomo e la contingenza delle cose riescono a distruggere realmente la Legge. La Legge deirimmutabile è universale (e chi ha creduto di poterla violare si è ingannato, perché alla fine è raggiunto dalla Giustizia e dalla Punizione). Ciò significa che l’Ordinamento immutabile invade l’ancor nulla del futuro e l’ormai nulla del passato e gli prescrive tutto ciò che da essi può veramente (e non apparentemente e provvisoriamente) generarsi e tutto ciò che a essi è destinato ad appartenere. Ma questa invasione del nulla da parte deH’Immutabile rende essente il nulla, lo entifica e quindi cancella o rende apparente il senso ontologico del diventar altro, il senso che sussiste solo in quanto è un diventare dal nulla e un diventare nulla. E tale entificazione del nulla non soltanto nega l’evidenza del diventar altro l’evidenza che Yepistéme stessa dell’Immutabile è essa per prima a riconoscere -, ma nega e sopprime anche quella differenza tra il cominciamento e il risultato del divenire, senza la quale nessun divenire, e tanto meno il divenire ontologicamente inteso, può esistere. Così parla il «sottosuolo» essenziale (cioè filosofico) del nostro tempo. Se una qualsiasi Realtà o una qualsiasi Verità immutabile esistono, è impossibile che esistano quel divenire e quella volontà di far divenire le cose che per l’intera storia dell’Occidente (dunque anche per la tradizione epistemica) sono l’originaria, suprema e innegabile evidenza. È appunto nel «sottosuolo» essenziale del nostro tempo che l’Occidente 101 giunge a scorgere, sul fondamento di tale evidenza, che l’autentica realtà e l’autentica verità immutabile sono il divenire di ogni realtà e di ogni verità immutabile e pertanto sono la volontà sempre più potente di trasformare il mondo. Non rendendosi conto del proprio carattere essenzialmente antinomico, la tradizione epistemico-metafisico-teologico- ontologica dell’Occidente elabora la pur potente struttura concettuale in cui si intende mostrare che gli enti divenienti esistono solo se esiste un Ente immutabile; gli abitatori del «sottosuolo» essenziale del nostro tempo, scorgendo il carattere antinomico della tradizione, si rendono conto che gli enti divenienti possono esistere solo se non esiste alcun Ente immutabile. E questa è conseguenza necessaria della fede che il divenire sia l’evidenza originaria e innegabile. Anche se il «sottosuolo» non ama questa espressione, esso è dunque la forma più coerente dell’ epistéme tes alethéias, perché esso mostra che il contenuto d éìl y epistéme incontrovertibile non è il rapporto tra il divenire e l’Immutabile, ma l’esclusione necessaria di ogni Immutabile. Appunto in forza di questa necessità tale «sottosuolo» non ha nulla a che vedere con le ingenuità del relativismo e dello scetticismo. Dalla potenza concettuale del «sottosuolo» deriva l’impossibilità di ogni «diritto naturale»; il prevalere del «diritto positivo» è inevitabile. Il tramonto della forma tradizionale dell’ epistéme (che si dispiega dai Greci a Hegel) è cioè anche il tramonto della configurazione giuridica di tale forma, ossia è il tramonto del «diritto naturale». Il senso autentico del conflitto tra diritto naturale e diritto positivo può essere quindi compreso solo se lo si vede inscritto nella grandiosa vicenda che conduce al tramonto ormai planetario degli Immutabili. Tuttavia, anche per il positivismo giuridico la giustizia è volontà di ius suum unicuique tribuere: nel senso che ciò che 102 spetta a ciascuno non è quanto viene mostrato dalYepistéme della verità, ma ciò che, all’interno di un certo gruppo sociale e in un determinato periodo storico, per le norme vigenti spetta a ciascuno. Ma poi, sul fondamento della distruzione dell ’epistéme della verità, a ciascuno e a ogni cosa di ogni luogo e di ogni epoca viene riconosciuto il loro essenziale divenire, il loro essenziale esser qualcosa che esce dal proprio nulla e vi ritorna; sì che la giustizia consiste nel salvaguardare e assecondare il divenire delle cose e del mondo umano e il loro diritto di oltrepassare ogni limite assoluto (e di non costituire un limite siffatto). In questa situazione, ogni forza si propone di prevalere sulle altre, ogni individuo sugli altri. Ma le grandi forze che guidano il mondo e gli individui si servono tutte, per prevalere, della tecnica moderna; e poiché la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo di tali forze, essa impedisce che l’anarchia totale prenda piede e, subordinando a sé ogni forza, stabilisce una gerarchia, riconosce a ogni forza e a ogni volontà di potenza ciò che loro spetta alFinterno di tale gerarchia e pertanto realizza la forma suprema di giustizia a cui l’Occidente è destinato a pervenire, la suprema volontà di ius suum unicuique tribuere. 103 4. Realismo e idealismo Quanto alla contrapposizione tra realismo e idealismo (nella quale è coinvolto il rapporto tra fatti e interpretazioni), ho già rilevato che essa si inscrive nella vicenda, qui sopra tratteggiata, del tramonto degli Immutabili. Aggiungo che tale contrapposizione presenta, lungo la storia del pensiero occidentale, una complessità ben più profonda del modo in cui il realismo viene oggi sostenuto in ambito «analitico» e «continentale» e del modo in cui in tali ambiti Fidea-lismo viene conosciuto. Ad esempio si tende a ignorare la «necessità» che conduce dal realismo premoderno alla riflessione cartesiana sull’ impossibilità che - se la «vera» realtà è esterna al pensiero e indipendente da esso (come vogliono il realismo premoderno e lo stesso Cartesio) - la realtà pensata (il cogitatum), in quanto pensata (la realtà che peraltro è il mondo in cui l’uomo vive), sia indipendente dal pensiero. E si tende a ignorare l’ulteriore «necessità» (mostrata dall’ideahsmo) che la cosiddetta realtà esterna e indipendente dal pensiero sia pur sempre un pensato e sia dunque un concetto autocontraddittorio. (Nella tradizione l’«idea» è «ciò attraverso cui è conosciuto l’oggetto reale», essa è id quo objectum cognoscitur; Cartesio mostra la necessità di intendere l’idea come «ciò che è conosciuto, id quod cognoscitur, ma che, ancora, lascia al di là di sé la vera realtà l’«essere formale»: Kant vede l’impossibilità di conoscere la vera realtà, la «cosa in sé»; l’idealismo, rilevando l’autocontraddittorietà di ogni concetto di cosa in sé e di realtà al di là del pensiero, mostra la necessità che Vobjectum del pensiero sia «idea», ma mostra insieme che l’idea è la stessa realtà in sé stessa, la stessa cosa in sé. Lo stesso sviluppo si ripropone nella riflessione sul linguaggio, che conduce alla cosiddetta «svolta linguistica»; lo sviluppo dove, dapprima, nella tradizione, la parola è intesa come id quo objectum 104 dicitur - e Yobjectum sta al di là della parola poi ci rende conto che, in quanto detto, è Yid quod dicitur a dover essere Yobjectum della parola, sì che il linguaggio parla del linguaggio, ma, ancora, lasciando al di fuori di sé la «cosa»; infine si intrawede che anche la «cosa» è in qualche modo detta e pertanto, non la cosa esterna al linguaggio, ma il linguaggio stesso è la «cosa», che peraltro continua a esser concepita come ciò che esce dal nulla e vi ritorna). Ma anche il realismo premoderno è ben più complesso delle sue attuali configurazioni. Per il realismo greco, ad esempio, è propriamente solo quando Yepistéme della verità ha dimostrato l’esistenza della Realtà immutabile, è solo allora che può essere affermata l’indipendenza della realtà dalla conoscenza umana. Ne\YEtica Nicomachea (se ricordo bene, in 1139 b), si dice che «quello che sappiamo epistemicamente non può essere diversamente da com’è; ciò che può essere diversamente da come è, quando esca dall’osservazione [ci] rimane nascosto se esso sia o non sia». La potenza di questa affermazione è tale da prefigurare e contenere l’essenza stessa del pensiero fenomenologico dei nostri tempi. Il testo greco dice: ho epistàmetha, che ho tradotto con «quello che sappiamo epistemicamente», ossia ne\Yepistéme della «verità». Ciò che sappiamo in modo epistemico met’endéchesthai àllos échein, «non può essere diversamente [da come è]». Questo non poter essere diversamente è l’innegabilità, l’incontrovertibilità, la definitività deìYepistéme della verità. È in modo assoluto, non relativamente, che ciò che sappiamo in modo epistemico non possa essere diversamente; esso non può assolutamente essere diverso da ciò che l’epistéme è. Il testo continua riferendosi a tà d’endechòmena àllos, ossia alle «cose che è possibile che stiano diversamente» (e che quindi non sono contenuti àe\Yepistéme), e dice che, «quando escono dall’osservazione» ( hótan éxo tou theoreìn génetai), allora 105 lanthànei, cioè «rimane nascosto», ei estin e mé, «se esse siano o non siano». L’«osservazione», theorein, è la nostra visione delle cose del mondo, è il loro apparire, mostrarsi, il phàinesthai (Cartesio lo chiamerà cogitare). Ho tradotto theorein con «osservazione» perché theorein è costruito su theorós, ossia lo «spettatore», «colui che osserva e vede con i propri occhi». Quando le cose non epistemicamente note escono dall’apparire rimangono, appunto, nascoste, e quindi rimane nascosto se continuino a esistere o no. Ciò che invece continua a esistere anche quando non appare nella conoscenza umana è l’Ente immutabile la cui esistenza è dimostrata, all’interno deWepistéme, sul fondamento del principium firmissimum che nega la contraddittorietà degli enti. D’altra parte, l’apparire degli enti che possono essere diversamente è l’apparire del loro diventar altro; e tale apparire è ciò che innanzitutto il pensiero greco considera come l’evidenza originaria e supremamente innegabile e quindi come appartenente eàYepistéme della verità. Ciò si spiega, perché se quelli divenienti sono gli enti che possono diventar altro, tuttavia che essi possano diventar altro ed essere diversamente da come sono è qualcosa che, appunto perché appare, ossia è originariamente evidente e innegabile, non può diventar altro e non può essere diversamente da come è. Appunto per questo Leibniz potrà considerare come «verità» (ossia come epistéme della verità) non solo le «verità di ragione» (riguardanti ciò che non può essere diversamente perché è contraddittorio che lo sia), ma anche le «verità di fatto» (che appunto riguardano ciò che può essere diversamente perché non è contraddittorio che lo sia). Se la scienza afferma che il mondo esiste prima dell’uomo e continuerà a esistere anche quando l’uomo non ci sarà più, tuttavia la scienza è una fede; certo, oggi, la più potente. Ma la 106 potenza non è la verità. Il mondo che esisterebbe indipendentemente daH’«osservazione» e dallo «sperimentare» non è comunque qualcosa di osservabile e di sperimentabile. Questo anche se all’interno delle regole della fede scientifica si devono trarre (in base a certe altre regole non incontrovertibili) certe conseguenze, che conducono alla tesi dell’indipendenza del mondo dall’osservazione umana. Ma, appunto, si tratta di inferenze compiute all’interno di una fede. 107 5. Uno sguardo al di là della fede delVOccidente Sul fondamento della convinzione che le cose del mondo diventano altro è inevitabile che prevalga la sapienza del «sottosuolo», in cui si mostra l’impossibilità di ogni Immutabile e quindi di ogni verità incontrovertibile che, da un lato, si ponga come Legge assoluta del divenire, e dall’altro differisca dalla verità assoluta che si mostra nel «sottosuolo». Ma il destino della verità (così viene chiamato nei miei scritti) sta al di là della fede nel diventar altro delle cose e degli enti, ossia al di là deWintera storia del mortale e dell’Occidente, dunque al di là dello stesso processo che conduce dall ’epistéme metafisica della verità al sottosuolo essenziale del nostro tempo. Sta pertanto al di là dell’inevitabile prevalere, nella storia dell’Occidente, della negazione di ogni verità immutabile. Il destino sta «al di là», nel senso che contiene, mostrandola, la storia del mortale e dell’Occidente. Il destino è l’apparire del senso autentico della necessità e della necessità che ogni essente sia eterno. E la testimonianza del destino non è né realismo né idealismo, perché sia il realismo sia l’idealismo affermano che alcune dimensioni dell’ente possono esistere anche se altre non esistono ancora o non esistono più; laddove, poiché tutto è eterno, né l’uomo può esistere senza il mondo, né il mondo può esistere senza l’uomo e senza la più «irrilevante»delle sue parti. Poiché si obbietta - come anche in questo nostro incontro è accaduto - che l’affermazione dell’eternità di ogni essente nega ciò che incontrovertibilmente appare, ossia nega il diventar altro delle cose, concludo accennando al motivo di fondo per il quale l’affermazione dell’eternità di ogni essente non è in contrasto con il contenuto che appare incontrovertibilmente, e che, in quanto tale, appartiene alla struttura del destino - il contenuto la cui eco si fa peraltro 108 sentire nei concetti di «esperienza», «osservazione», «dato», «fenomeno» ecc. Quando si crede che gli enti che si manifestano non siano stati (totalmente o in parte) e tornino a non essere (totalmente o in parte), quando cioè si crede che escano dal nulla e vi ritornino, è impossibile (contraddittorio) che si creda che gli enti, quando ancora sono nulla, appaiano e si manifestino già così come appaiono e si manifestano quando incominciano a essere; ed è impossibile che si creda che essi, annientandosi, continuino ad apparire e a manifestarsi così come appaiono e si manifestano prima del loro annientamento. È impossibile, perché altrimenti, nel diventar altro, il «prima» non differirebbe dal «poi» e quindi non ci sarebbe qualcosa come un diventar altro. È quindi necessario che, quando si crede nell’uscire dal nulla e nel ritornarvi, si creda che, quando gli enti non sono, non appaiano nel modo in cui appaiono quando incominciano a essere, pur apparendo ed essendo in qualche altro modo nel loro esser attesi, sperati, temuti, supposti, previsti; ed è necessario che, quando vanno nel nulla, non appaiano più nel modo in cui appaiono quando ancora esistono, pur apparendo ed essendo in qualche altro modo nel ricordo, nel rimpianto, nelle varie forme in cui ci si riferisce al passato. Ciò significa che nella misura in cui si crede nel tempo in cui un ente è nulla (prima o dopo il suo essere), in questa misura si crede che tale ente non appare, ossia non appartiene alla totalità degli enti che appaiono - la quale include anche gli enti che, in quanto attesi e ricordati, non sono un nulla. Ma, allora, Yapparire, la totalità degli enti che appaiono in quanto tale non può nemmeno mostrare alcunché di ciò che non le appartiene ancora (quando esso è ancora nulla) e non le appartiene più (quando esso è ormai nulla); e pertanto l’apparire, in quanto tale, non può nemmeno mostrare che gli 109 enti escono dal nulla e vi ritornano, appunto perché il loro esser nulla non appartiene a ciò che è mostrato (come non gli appartiene nemmeno che gli enti sono già e continuano a essere anche quando non appaiono). Nella misura in cui qualcosa non è (ossia è nulla), in questa misura esso non appare e pertanto l’apparire non può mostrare il suo non essere. (Facendo corrispondere il cielo alla totalità degli enti che appaiono e il sole a uno di questi enti, allora, quando il sole non è ancora sorto e quando è ormai tramontato, non si può chiedere al cielo che ne sia del sole quando non si mostra nel cielo: in questo caso il cielo non può che tacere sulla sorte del sole.) Aristotele - si è rilevato - afferma che, quando un ente che «può essere diversamente» (ossia che diviene) non appare, «rimane nascosto», cioè non appare se esso sia o non sia. Ma anche Aristotele crede, come l’intero Occidente, che certi enti che appaiono possano non essere. Eppure non può essere l’apparire a mostrare il non essere degli enti che, non essendo, non possono nemmeno apparire. Il non essere di ciò che ancora non è e di ciò che non è più è dunque una interpretazione, non una constatazione; una interpretazione che non solo richiede un fondamento, ma che è negata dal destino della verità, che scorge in tale interpretazione il culmine dell’estrema follia in cui l’uomo si trova. (Tale interpretazione non ha un fondamento incontrovertibile - anche se è sollecitata sia dal modo, spesso terribile, in cui ciò che all’uomo sta a cuore esce dall’apparire, sia dalla constatazione che ciò che esce in quel modo dall’apparire «non ritorna più».) Ma qui ci si deve arrestare. Il linguaggio, ora, è di fronte al tema decisivo: l’impossibilità che Tessente in quanto essente non sia. (Sta al centro di tutti i miei scritti.) Il linguaggio è cioè, insieme, di fronte all’essenza dell’uomo, ossia alla dimensione, già da sempre salva, che circonda la follia del 110 mortale e dell’Occidente. Dalla relazione tenuta al convegno «fatti e interpretazioni» rivolto a un pubblico di filosofi del diritto, tenutosi all’università di Padova, il 30 novembre 2012, e presieduto dal magnifico rettore prof. Giuseppe Zaccaria, con la partecipazione dei proff. Maurizio Ferraris e Giulio Giorello, e con interventi, fra gli altri, dei proff. Luca Illetterati, Vincenzo Milanesi, Carlo Scilironi, Ines Testoni. ili V Sull’essenza del nichilismo 1. Alle origini del deicidio Da centinaia e migliaia di anni prima della nascita di Cristo, vi sono dodici giorni, in ogni ciclo delle stagioni, che i popoli arcaici considerano sacri. I giorni dedicati alla rifondazione del mondo. Nelle società cristiane sono quelli che vanno dal Natale all’Epifania. Nel loro mezzo, il Capodanno, festeggiato dovunque. Soprattutto in quei dodici giorni, già quei popoli agiscono per ricostituire l’integrità e la vita del mondo, consumate e perdute durante il tempo che veniva chiamato l’«anno». Ripetono la creazione originaria compiuta dagli Dèi o dal Dio supremo. Oggi i popoli credono sempre meno nel divino; ma la loro cultura dominante ne ripropone, sia pure in modo profondamente diverso, i tratti essenziali. Tale cultura è la tecnica scientificamente orientata e controllata dalla produzione capitalistica della ricchezza. La produzione di beni e di merci richiede «energia». Il consumo di «energia» ne richiede il rinnovo, la reintegrazione. Richiede la ricostituzione del suo «fondo». La «rifondazione» del ciclo energetico ripropone la ripetizione umana della creazione divina. Il Capodanno può essere anche la festa del ciclo energetico. Noi capiamo subito che l’«energia» si consuma e dev’esser rinnovata. Ma perché quegli antichi sentono il bisogno di rifondare periodicamente il mondo? Se non si risponde, anche l’analogia tra tecnica e rifondazione mitica del mondo rimane sospesa nel vuoto. Eppure quel bisogno è molto meno stravagante di quanto possa sembrare. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti incomincia a venire in aiuto il concetto di «volontà» (un 112 aiuto di cui non si approfitta adeguatamente non solo da parte delle scienze dell’uomo). Poi indicherò come le implicazioni di questo concetto siano in grado di spiegare il bisogno di cui stiamo parlando - che non è per noi irrilevante, ma è anche il nostro, e il più importante di tutti: il bisogno di vivere. Volere è voler fare diventar altro il mondo (le cose e sé stessi). Se non si vuole e si resta immobili, si muore. La volontà è la vita. Ma quando la volontà apre gli occhi non ottiene subito ciò che vuole. Si trova di fronte a qualcosa che non si lascia smuovere e trasformare: l’Inflessibile. Per il singolo è l’ambiente familiare e sociale; per i popoli arcaici è ciò che noi chiamiamo «natura», ma che a essi si presenta, appunto, come la Barriera di fronte alla quale l’uomo si sente impotente e muore; e in cui la sua volontà deve tuttavia aprirsi un varco per riuscire a ottenere il voluto e dunque per vivere. Un varco nella Barriera dell’Inflessibile, che si presenta alla volontà come la dimensione della Potenza suprema, demonica, divina. Nell’atto stesso in cui l’Inflessibile acquista per l’uomo il volto del divino, in quello stesso atto l’uomo, per vivere, deve quindi flettere l’Inflessibile, forzarne e penetrarne la Barriera, spezzarlo, squartarlo. Deve ucciderlo. Volendo essere «come Dio» Adamo vuole uccidere Dio. Mangiando il frutto che lo rende «come Dio» Adamo mangia Dio. Accade così che, avvertendo il proprio essere deicida, l’uomo si senta colpevole, in debito. Il bisogno di vivere diventa bisogno di espiazione. Ogni giorno, ogni ora, ogni istante facciamo esperienza di ciò che, per vivere, la volontà richiede. Se il mondo ci stesse davanti come un unico blocco che non si lascia spezzare, ci spegneremmo subito. La volontà, per ottenere, ha bisogno di 113 spezzarlo, di agire sui frammenti, sulle parti del blocco. L’agire richiede l’isolamento delle parti dal blocco e tra di loro. Oggi si crede che anche la conoscenza sia «seria» solo se fa conoscere parti del mondo, non il «Tutto», vanamente inseguito dalla vecchia sapienza filosofica. La scienza chiama «specializzazione» la propria conoscenza delle parti. E la tecnica, da essa guidata, agisce sempre su parti. (Anche l’arte si chiude nel «frammento».) Adamo che vuol uccidere Dio ha già un’anima tecnica. La tecnica ha un’anima teologica. E il senso di colpa affiora anche nell’uomo della civiltà della tecnica, ben al di là della preoccupazione per la propria incapacità di realizzare uno «sviluppo sostenibile». Per quanto ci dicono le scienze storiche si può dire che ogni forma della religiosità arcaica (e monoteistica) abbia al proprio centro il mito in cui lo smembramento del Dio è la condizione dell’esistenza del mondo. Dall’Oceania alla Mesopotamia, dall’India alle popolazioni germaniche e alle società greco-cristiane i miti raccontano la creazione del mondo come effetto del sacrifìcio originario di un Dio, di una Dea, di un Eroe, di uno sposo o di una sposa del Dio: Hainuwele (Nuova Guinea), Tammuz, Dumuzi, Tiamat (Mesopotamia), Ymir (presso i Germani), Purusha e Prajapati (India), Osiride (Egitto), Dioniso (Grecia), Cristo. La creazione del mondo è lo squartamento del Dio, che diventa cibo dell’uomo. L’uomo vive solo in quanto usa, consuma, gode le membra, le parti del Dio. Anche la morte di Cristo sulla croce rende possibile la rifondazione, la rinnovata creazione del mondo che era andato consumandosi e morendo in conseguenza del peccato. E nel Genesi si dice che Dio «si riposò nel settimo giorno da tutto il lavoro che aveva fatto» e da cui era stato dunque consumato e indebolito. Ma il divino rimane pur sempre la fonte della vita. 114 L’esaurirsi della fonte è la morte dell’uomo, così come lo era l’inflessibilità originaria del divino. E la morte è il pericolo estremo da cui ci si deve difendere. Diventa quindi necessario che si restituisca al divino quel che gli si è tolto e che tuttavia è stato consumato e non c’è più. È a questo punto che il genio religioso deve inventare il sacrificio compiuto dall’uomo (che assume anche la forma del sacrificio dell uomo) come ripetizione del sacrificio divino e dunque come rifondazione del mondo. Acquisterà le forme più diverse, nei tempi e nei popoli, ma l’essenza della ripetizione del sacrificio divino e della fondazione divina del mondo è la consapevolezza della necessità che, per continuare a vivere, non venga spenta la fonte della vita. Quando ci si convince che qualsiasi vittima offerta dall’uomo al Dio è radicalmente incapace di assolvere il compito gigantesco che le si assegna, allora diventa necessario credere che sia Dio stesso a farsi uomo e vittima con la quale Dio restituisce a sé stesso quello che la violenza e il peccato dell’uomo gli ha tolto. E quando la filosofia, volendo «dire e fare cose vere», si porterà oltre il mito da cui è preceduta (e da cui sarà seguita), le sue prime parole (quelle di Anassimandro) diranno che il mondo, separandosi dal divino, dovrà necessariamente dissolversi in esso, scontando la pena dell’«ingiustizia» commessa con tale separazione - dove la separazione dal Dio è l’eco dello smembramento- sacrificio mitico del divino, e la pena da scontare è l’eco della ripetizione umana di tale sacrificio. Quando, infine, nel nostro tempo, non si crederà più né negli dèi del mito né in quelli della «verità», e la lotta contro la morte sarà affidata soprattutto alla Potenza suprema della tecnica, allora al consumo di questa Potenza, cioè al suo Sacrificio, dovrà corrispondere una civiltà in cui le saggezze e sapienze del passato, per quanto grandi e nobili, dovranno sacrificare ogni 115 loro aspirazione al dominio del mondo, e cioè non contrastare il potenziamento indefinito della Tecnica. Sin dagli inizi della storia deH’uomo il giorno del Capodanno, rifondando il mondo e aprendo un nuovo ciclo alla vita, si sbarazza dell’anno vecchio, della «vecchia terra», ricolmi delle colpe degli uomini; e li lascia cadere nell’oblio. (Accade anche nel grande Capodanno de\YApocalisse di Giovanni, dove l’«anno» della vecchia terra viene diviso da quello della nuova.) Oggi il Capodanno «rievoca» soltanto le vicissitudini della volontà: non le rivive. Ma a questo punto la questione decisiva rimane ancora tutta da esplorare. Riguarda appunto il senso autentico della volontà - alla quale invece ci si affida come alla cosa più sicura del mondo. Non si scorge che la storia della volontà si svolge interamente al di fuori di quel senso. Ora si aggiunga che quando, all’inizio, si trova di fronte all’inflessibilità della Barriera, la volontà è insieme avvolta da essa. Infatti non può tornare indietro. Tornando indietro, riuscirebbe non solo a far diventare altro il mondo, ma a ottenere immediatamente tutto ciò che essa vuole, giacché tornare indietro è lasciarsi alle spalle la Barriera che le impedisce di trasformare il mondo. Ma la volontà riesce a vivere solo se fa breccia nella Barriera; e il far breccia implica un tempo in cui la volontà è bloccata e muore (è originariamente morta). E non può nemmeno, e per lo stesso motivo, muoversi di lato, a destra o a sinistra, o verso l’alto o il basso. Appunto per questo diciamo che all’inizio la volontà si trova di fronte all’inflessibilità della Barriera, la volontà è insieme avvolta da essa. Le metafore spaziali qui sopra sottolineate aiutano a comprendere perché, essendo di fronte e insieme avvolta dalla Barriera, il far breccia in essa sia insieme un uscire da essa. 116 Appunto per questo, all’inizio del pensiero filosofico, Anassimandro ripropone il rapporto tra la volontà e la Barriera, dicendo che le cose del mondo, «separandosi» dall’«Uno», «divino», ne escono - escono dal luogo da cui proviene la loro «nascita» ( génesis ). Far breccia dall’esterno è lo stesso far breccia dall’interno, uscendo da ciò da cui si è avvolti e commettendo «ingiustizia» (adikia). La volontà può riparare l’ingiustizia (e qui la volontà è il mondo stesso che si è separato dell’«Uno») solo ritornando nel luogo, separandosi dal quale essa ha commesso ingiustizia: solo morendo le cose che hanno voluto separarsi dal divino possono «rendergli giustizia per l’ingiustizia commessa ( didónai dìken tes adikìas). E così si comprende perché le cose debbano tornare là da dove son venute. Dove il sottinteso è che la morte subita dalla volontà fino a che non riesce a far breccia sulla Barriera del «divino» è diversa dalla morte a cui la volontà (ossia la totalità delle cose del mondo) va incontro ritornando nel divino. Tanto diversa da far dire, in seguito, che morire è incominciare a vivere la vera vita. Ma nel pensiero filosofico, e innanzitutto in Anassimandro, è un sottinteso anche la ferita del divino prodotta dalla breccia con cui la volontà riesce a uscire e a staccarsi da esso. L’intenzione esplicita della filosofia, sin dall’inizio, è di affermare, come dice Anassimandro, che il divino è «eterno e non invecchia», è «immortale e incorruttibile»; eppure la Barriera che la volontà umana trova dinanzi e attorno a sé, a sbarrarle la strada, è sentita da essa come la Potenza dominante, sacra e divina come il Tremendum-Fascinans, l’Inflessible che dev’essere flesso, cioè corrotto, reso vecchio, ucciso in quanto Inflessibile, perché la volontà possa vivere. (D’altra parte la Barriera, smembrata, è anche la condizione perché la volontà possa cibarsi delle sue membra - e per questo, oltre che a essere il Tremendum, essa è anche il 117 Fascinans .) E che l’uscire delle cose dall’Uno divino sia inteso da Anassimandro come ingiustizia è il trapelare, nell’esplicito, del sottinteso che il divino è ferito e ucciso dall’avvento della volontà. Il pensiero della tradizione filosofica deve trattenere nell’inespresso il sottinteso, cioè la contraddizione per la quale il divino, in quanto trascendente il mondo, Altro dal mondo, è, insieme l’eterno e il perituro; il mito può permettersi di evitarla sia con la fede nell’unità del divino e del mondano (ripresa peraltro, in campo filosofico, dalle varie forme di immanentismo), sia con la fede nell’esistenza di una molteplicità di dèi (per la quale la morte riguarda uno o alcuni di essi ma non gli altri), sia con la fede che il divino non muore definitivamente, ma muore e risorge. Ma, detto questo, la questione decisiva rimane ancora tutta da esplorare. Riguarda il senso autentico della volontà alla quale invece ci si affida come alla cosa più sicura del mondo. Non si scorge che la storia della volontà si svolge interamente al di fuori di quel senso. 118 2. Essenza del nostro tempo ed essenza del nichilismo Dai Greci a Hegel la tradizione filosofica è la volontà di indicare come si configura il contenuto del sapere che ha il carattere dell’assoluta incontrovertibilità e stabilità: Yepistéme (alla lettera: il «sovra-stare») della verità. Tale epistéme è per Platone tò anamàrteton (Civitas, 477, 35 - una parola che è negazione della negazione di màrtys, «testimone», colui che essendo in presenza delle cose non può errare nei loro confronti). Dai Greci a Hegel, Yepistéme a cui compete il carattere delfincontrovertibilità ha un contenuto che non solo è «ciò che è», l’«ente» (tò ón ), ma è l’ente che assolutamente (pantelós) e primariamente è, l’Ente immutabile ed eterno, il divino che è fondamento (trascendente o immanente) degli enti che sono ma non sono assolutamente, cioè divengono, vanno dal loro non essere al loro essere e viceversa. Per la tradizione filosofica Yepistéme è prevalentemente sapere metafisico. Con alcune rilevanti eccezioni (ad esempio lo scetticismo), la più profonda delle quali è l’antimetafisicismo kantiano. Che però intende mantenere il carattere primario àe\Y epistéme della verità, cioè l’incontrovertibilità, e che come immutabile pone la struttura a priori della soggettività finita (immutabile, quindi, sino a che il soggetto esiste). Si può dire allora che la tradizione filosofica è la storia delfincontrovertibilità dell’epistéme e del modo in cui l’ente diveniente ha il proprio fondamento nell’Ente immutabile - che nell’ epistéme metafisica è Dio. Vessenza della filosofia degli ultimi due secoli è invece la distruzione di questa grandiosa concezione della realtà. Distruzione, dunque, che - nella sua essenza, appunto - è a sua volta grandiosa. Purché la si sappia cogliere. Oggi come ieri, sia l’esistenza sia l’inesistenza di Dio sono 119 per lo più affermate e vissute all’interno di una fede, cioè di una scelta che da ultimo è arbitraria (anche quando si presenta come «ragionevole», rationabile obsequium). Sul piano filosofico, il modo in cui oggi si contrappongono amici e nemici di Dio non è per lo più consapevole della grandezza e profondità della lotta tra il presente e il passato della filosofia. Tanto più grande e profonda, questa lotta, quanto meno entrambi gli avversari si rendono conto che l’abbandono del passato non è una semplice scelta o una semplice constatazione storica, ma è la fondazione incontrovertibile delVimpossibilità del Dio metafisico. Nello stesso mondo filosofico la grandezza di quella lotta rimane cioè sullo sfondo, o addirittura sepolta. Non mancano certo forza e competenza, a quel mondo, che si usa ancora dividere tra «analitici» e «continentali». Ma le due prospettive sono molto meno divise di quanto possa sembrare. Giacché per entrambe la fine deH’affermazione filosofico-metafisica di Dio è per lo più fuori discussione. Tanto che in entrambe è ormai quasi del tutto assente la discussione sull’autentico fondamento filosofico che ha condotto alla negazione di Dio. Una negazione che tende quindi a regredire, e nell’ambito stesso della filosofia, al livello che è proprio della fede. Accade quindi non di rado che oggi sia la filosofia stessa a dichiarare di non voler essere una fondazione dell’impossibilità di Dio, ma, ad esempio, di essere la semplice constatazione che la fede in Dio, almeno in certi luoghi del pianeta, va scomparendo; oppure di essere una scelta, una prassi - dunque una fede, che preferisce un universo in cui Dio non esista. Rinunciando a quella fondazione, e a ogni fondazione assoluta, la filosofia contemporanea si presenta come quel «relativismo» o «nichilismo» concettualmente inconsistente a cui gli epigoni della tradizione filosofica - tra cui la Chiesa 120 cattolica - trovano comodo o tendono a ridurre tutto ciò che la filosofia ha pensato negli ultimi due secoli. Ma in questo modo quegli epigoni non riescono ad avere di fronte il loro autentico avversario, e gli avversari della tradizione filosofica ignorano la forza speculativa della tesi che essi sostengono. Da tempo i miei scritti mostrano la distanza tra Yessenza profonda e tendenzialmente nascosta del pensiero filosofico del nostro tempo e il fenomeno in cui tale essenza si presenta alterata e svigorita, e che è costituito appunto da quel «relativismo» e «nichilismo» di cui ci si può sbarazzare molto facilmente. L’avversario autentico della tradizione filosofico-metafisica è appunto quell’essenza. Tale essenza - si diceva - è la fondazione radicale delfimpossibilità di Dio. «Radicale» significa «che procede dalla radice stessa della storia dell’Occidente», la radice che fa vivere sia gli amici sia i nemici di Dio, sia l’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo sia il fenomeno di tale essenza - non filosofi e filosofi, uomini di azione e di pensiero. Questa radice è la persuasione che le cose del mondo siano un divenire in cui esse escono dal nulla e dopo un provvisorio soggiorno nell’essere ritornano nel nulla. Per la filosofia che è amica di Dio questa oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla non è un assurdo solo se esiste un Dio immutabile ed eterno; per Yessenza della filosofia del nostro tempo tale oscillazione non è un assurdo solo se il Dio immutabile ed eterno non esiste. È appunto sul fondamento della persuasione che le cose del mondo vengono dal nulla e vi ritornino che Yessenza del pensiero filosofico del nostro tempo mostra che Dio è qualcosa di impossibile - e che quindi è illusorio ritenere che il divenire del mondo sarebbe un assurdo se Dio non esistesse. Tale essenza è la fondazione «radicale» delfimpossibilità di Dio perché si fonda sulla radice che essa ha comune con la tradizione 121 filosofica da essa distrutta. In questa radice consiste Yessenza autentica del nichilismo la cui forma più coerente si presenta nell’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Non è questa la sede per approfondire il senso concreto di questi cenni. Qui si può solo indicare il senso generale del discorso, rinviando, per quel suo senso concreto, agli scritti sopra menzionati - che mostrano la Follia estrema dell’essenza autentica del nichilismo e quindi mostrano che la persuasione che le cose oscillino fra l’essere e il nulla è soltanto una fede. Innanzitutto, ciò che è stato chiamato «essenza della filosofia del nostro tempo» ha un contenuto storico determinato: è un nucleo, circondato da un alone che più si distanzia dal nucleo più ne perde di vista la potenza. Per quanto è possibile guardare nel sottosuolo essenziale della filosofia del nostro tempo, il nucleo ha un perimetro breve. È costituito dalla dimensione centrale del pensiero di Nietzsche e daH’attualismo di Giovanni Gentile. E, prima di entrambi - e conosciuta da entrambi -, la filosofia di Giacomo Leopardi. All’alone appartengono invece pensatori che oggi sono ritenuti tra i più decisivi, come Heidegger e Wittgenstein. Non si tratta di mettere in questione la loro importanza, bensì di rendersi conto che, nonostante essa, in modi differenti lasciano aperta la porta a un Dio che ritorni dall’esilio in cui è fuggito. Una porta che invece non è lasciata aperta dai pensatori di quel sottosuolo essenziale (e dunque da Leopardi, la cui potenza filosofica, soprattutto nella filosofia anglosassone, è completamente sconosciuta). L’essenza della filosofia del nostro tempo consiste nel mostrare che se esistesse il Dio immutabile ed eterno della tradizione, esso sarebbe la Legge a cui dovrebbe adeguarsi anche il nulla da cui le cose provengono e il nulla in cui esse ritornano. Pertanto il nulla diverrebbe un ascoltatore e un suddito di tale Legge, cioè non sarebbe più un nulla, ma un ente. Ma la persuasione che gli enti provengono dal nulla e vi ritornano implica necessariamente che l’ente e il nulla differiscano - un’implicazione, questa, che sussiste anche se, nell’ambito dell’essenza della filosofia del nostro tempo, il principio di non contraddizione è visto come negazione del divenire e quindi è rifiutato. All’interno di quella persuasione, la negazione dell’esistenza del Dio immutabile ed eterno della tradizione è incontrovertibile perché tale esistenza implica necessariamente che il nulla sia ente - il nulla senza di cui è impossibile quel divenire degli enti che sta al fondamento non solo del pensiero metafisico (che procedendo dal divenire intende condurre al Dio eterno) e del pensiero che invece distrugge la tradizione metafisica, ma anche delle stesse opere e istituzioni che costituiscono la civiltà dell’Occidente. Se si ignora tutto questo - se si ignora cioè la grandezza della lotta tra tradizione e distruzione radicale di essa - anche il dialogo tra credenti e non credenti rimane alla superficie, ossia è un equivoco dove non si riesce a scorgere il dramma autentico del mondo attuale. L’essenza della filosofia del nostro tempo mostra l’impossibilità di porre limiti assoluti all’agire dell’uomo - e dunque a quella forma suprema dell’agire che è la tecnica guidata dalla scienza moderna e il supremo Limite assoluto è la Legge in cui consiste il Dio immutabile ed eterno. Oggi la tecno-scienza non è ancora in grado di ascoltare la voce dell’essenza della filosofia del nostro tempo. Nessuna meraviglia, visto che nemmeno la filosofia contemporanea e il cosiddetto «laicismo» sono in grado di ascoltarla e si riducono a essere una semplice fede nell’inesistenza di Dio. Ma quella voce e la tecnica esistono, ed è inevitabile che si finisca col comprendere che la loro unione consente la maggiore potenza di cui l’uomo abbia mai 123 potuto disporre. È questa unione l’autentico avversario del Dio della tradizione: non l’incredulità dei popoli europei o il consumismo dell’«Occidente». Ma il passo decisivo verso il dialogo autentico, quello tra le due grandi forze in lotta tra loro - l’essenza del passato e l’essenza del presente della civiltà occidentale, ormai planetaria - è il loro prender coscienza della propria anima comune: io. fede che le cose del mondo escono dal nulla e vi ritornano. Che non ci sia bisogno di un Dio perché ciò accada è la fede vincente rispetto alla fede che invece ritiene che di un Dio ci sia bisogno. Ma se ciò per cui le due fedi si oppongono è certo grandioso, esso è ciononostante qualcosa di subordinato rispetto all’esistenza di quell’anima comune, cioè rispetto alla fede che le cose hanno nel nulla la loro culla e il loro sepolcro. Abbiamo più volte chiamato fede quell’«anima comune» che invece, sia per gli amici sia per i nemici di Dio, è l’evidenza suprema. Infatti a questo punto si tratterebbe di volgersi verso il culmine del pensiero e di lasciarsi alle spalle anche quel passo decisivo, cioè anche il dialogo autentico tra il passato e il presente dell’Occidente. Volgendosi verso quel culmine si vedrebbe che in entrambi - cioè sia nell’affermazione sia nella negazione di Dio - è presente il senso più radicale del nichilismo, ossia la convinzione che le cose (ossia gli essenti, che non sono un nulla) sono nulla: proprio perché, intesi come divenienti, sono originariamente e conclusivamente nulla. E, come sopra si accennava, la convinzione che ha come contenuto l’Errore estremo, l’estrema Follia, non può essere che una fede. L’anima comune degli amici e dei nemici di Dio è l’essenza del nichilismo, cioè dell’eccidio dell’essere. E, insieme, è la forma fondamentale dell’omicidio. La convinzione che 124 l’uomo, di per sé, sia nulla, e come le altre cose sia il prodotto di Dio o del Caso, è infatti il requisito essenziale perché si decida di rendere l’uomo un nulla. (Ma ogni decisione non è forse, ormai, la volontà di far passare le cose dall’essere al nulla e dal nulla all’essere? Non è forse, ogni decisione, un eccidio? Il linguaggio stesso non avvicina forse il de-cidere e l’uc-cidere?) 125 3. Il deserto e il profumo Nonostante il riconoscimento altissimo e crescente della sua grandezza poetica e filosofica, il genio di Leopardi, insieme al genio di Eschilo, è forse quello di cui meno si è visto il carattere decisivo nello sviluppo storico della civiltà - dunque non «soltanto» della cultura - occidentale. L’accostamento dei due nomi non è casuale. Eschilo appartiene al ristretto convegno di sovrani con il quale incomincia la filosofia. Appunto per questo la sua poesia è tragica. La filosofia, infatti, porta alla luce il pericolo estremo: che il divenire delle cose del mondo è il loro venire dal nulla e il loro ritornare nel nulla, da cui non si ritorna più, sì che anche la morte dell’uomo assume il volto e l’anima tragici dell’annientamento. Se non ci si rivolge a questo, che è il passato essenziale dell’Occidente, si perde di vista il senso autentico di ciò che Leopardi ha inteso dire nelle sue «prose» e nelle sue «poesie». Anche quel portare alla luce è qualcosa di assolutamente inaudito. La filosofia è la radice del tragico perché intende lo sta -re nella luce (nella quale essa stessa consiste) come la sta¬ bilità del sapere che non può essere in alcun modo scosso o smentito. La filosofia evoca il senso stesso della sta-bilità assoluta del sapere innegabile. La chiama, appunto, «epi-sté- me» (in cui risuona lo sta -re e che inadeguatamente traduciamo con la parola «scienza»). La stabilità dell ’epistéme è l’essenza della verità. Porta oltre i millenni dell’esistenza guidata dal mito. Ma proprio perché attribuisce questa stabilità al sapere che afferma il divenire dove le cose escono e ritornano nel nulla (proprio perché afferma che Tesser preda del nulla è verità), la filosofia getta l’uomo nelYangoscia più profonda, più profonda di quella di cui il mito è il rimedio e che ancora non si è imbattuta nel nulla. Il mito conferisce al mondo un senso che non si mostra nella luce, ma è voluto, e quindi, da ultimo, è una fede, un arbitrio, anche se chi vive nel mito non se ne avvede e crede che esso mostri la realtà. Tuttavia la filosofia è, insieme, la radice del senso che la tradizione dell’Occidente conferisce alla salvezza, perché fa sorgere nell’uomo anche la ricerca del «saldo rimedio» (secondo l’espressione di Eschilo) contro il dolore e l’angoscia. Sin dall’inizio il pensiero filosofico porta alla luce l’esistenza di un «Principio» {arche) divino, eterno e incorruttibile, sì che la nascita delle cose è dovuta al loro «separarsi» da esso e la loro morte è il loro farvi ritorno, lasciando nel nulla l’«ingiustizia», ossia tutto ciò che nelle cose è l’effetto di quella separazione (Anassimandro). Il Principio custodisce da sempre e per sempre tutto ciò che preme all’uomo. Anche nel mito il rimedio che dà senso al mondo e al dolore è avvolto dal divino, e tuttavia non si mostra nella luce, non è «saldo». Eschilo, per primo in modo esplicito, porta alla luce che Yepistéme della «Verità», come coscienza del proprio contenuto divino, è il fondamento della salvezza e della felicità. Questo pensiero è il fondamento di ogni forma culturale e pratica della tradizione dell’Occidente. Ed è espresso da Eschilo con un linguaggio che non può essere quello comune e che solo impropriamente è riconducibile al «teatro» nel senso corrente della parola. Théatron, per Eschilo, è la ricerca che culmina nella contemplazione della «Verità». Il «dialogo» di Platone, in cui la tragedia (e l’arte in genere) viene radicalmente condannata, non capisce di avere nel «teatro» di Eschilo il proprio più potente predecessore. Leopardi, per primo, rovescia tutto questo; dice «tutto l’opposto». Porta alla luce l’impossibilità e l’illusorietà del quadro grandioso della tradizione occidentale. Un altrettanto 127 grandioso, terribile e inevitabile gesto, quello di Leopardi, la cui potenza è rimasta incompresa anche da quanti (come lo stesso Nietzsche) hanno visto in lui uno dei culmini della cultura europea. Ma come è possibile capire questo gesto - presente in ogni verso, anzi in ogni parola di Leopardi - se non si ha dinanzi che cosa in questo gesto resta distrutto, ossia ciò che qui sopra abbiamo sommariamente tentato di indicare? A proposito di un passo di Diogene Laerzio, in cui si richiama il fondamentale principio di Socrate, Leopardi afferma: «Oggidì possiamo dire tutto l’opposto». «Possiamo»: nel senso che «dobbiamo», che «è necessario», che è tutto l’opposto a dover esser portato alla luce dalla filosofia. Che cosa si dice in quel passo? Che per Socrate «vi è un solo bene [ agathón ], Yepistéme, e vi è un solo male [kakón], il non sapere [ amathìan ]», cioè la privazione di quel «sapere» (màthos ) in cui Yepistéme consiste. Ogni bene, infatti, è tale solo se è vero, se appare non nell’opinione, nella fede, nel mito, ma nella luce della epistéme della verità. Ed esiste un rimedio contro l’angoscia, il dolore, la morte, solo se esso è un vero, saldo rimedio; il Dio salva l’uomo solo se il Dio e la salvezza da lui data sono portati alla luce dall’ epistéme della verità. Quest’ultima è dunque la radice di ogni bene, e, in questo senso, è l’unico bene. Il male è il dolore, la morte e l’angoscia che ne deriva; il bene è la felicità e la salvezza del male, prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto è, da ultimo, l’Ordinamento divino del mondo. Ma, dicevamo, Leopardi mostra che è «tutto l’opposto», cioè che Yepistéme è l’unico male e che il non sapere (amathia ) è l’unico bene. Alla base di quest’ultima, che è una conclusione decisiva, sta la scoperta angosciante che non può esistere alcun 128 Principio eterno, incorruttibile, divino, e che quindi tutte le cose sono nulla, perché sono circondate dal nulla infinito che le precede, le segue e le attraversa. Se esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile custode di tutte le cose che nascono e muoiono - si è qui al cuore deir«ultrafilosofia» di Leopardi -, il loro provvisorio sporgere dal nulla sarebbe una semplice e illusoria apparenza; laddove l’uscire dal nulla e il ritornarvi sta al centro della verità che per l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile. Proprio perché l’esistenza del divenire è innegabile, la verità è che l’Eterno, l’Infinito è impossibile. Questa, la potente anticipazione, da parte di Leopardi, della nietzscheana «morte di Dio». Ma, diversamente da Nietzsche, per Leopardi il nulla è il Principio di tutte le cose. Meglio allora per l’uomo non saperla, la verità, che saperla; meglio Yamanthìa che Yepistéme. (Soprattutto a questo punto vanno tenuti presenti Il nulla e la poesia, cit., e Cosa arcana e stupenda, cit., che ho pubblicato per Rizzoli rispettivamente nel 1990 e nel 1997, e, per quanto riguarda Eschilo, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi 1989). Leopardi può in tal modo portare alla luce il legame profondo che unisce Yamanthìa, l’ignoranza della verità, alla poesia e all’arte in generale. Anche qui, molti decenni prima di Nietzsche, Leopardi mostra che la poesia è illusione, inganno, menzogna, senza di cui la vita sarebbe però impossibile. Non si tratta della poesia ridotta a fenomeno letterario, ma della poesia potente, dove ad esempio il poeta incita l’esercito dalla battaglia o di quella dove il canto fa sopportare il dolore e la morte. Nell’illusione poetica - che peraltro da gran tempo inganna la fantasia, non l’intelletto - l’uomo crede di essere in rapporto all’Infinito e aH’Eterno. 129 In un primo tempo Leopardi crede che, per illudere, la poesia non debba mostrare la verità, cioè la nullità di tutto - e il canto L’Infinito è una delle espressioni più alte di questo primo atteggiamento, dove il naufragio nel «mare» delFInfinito è «dolce». Ma poco dopo egli sviluppa la grande teoria del «genio» che unisce nella propria opera la verità terribile dell’esistenza e la potenza poetica: unione di filosofia e poesia. Qui l’Infinito e l’Eterno non costituiscono più il contenuto del canto, ma, sia pure provvisoriamente, convergono nella potenza del canto, in modo che «l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria». Infinita ed eterna è questa forza: non nel senso che il genio si sostituisca a Dio, ma nel senso che la forza, pur sempre finita e caduca, con cui egli riesce a esprimere la morte, cioè la finitezza e caducità di tutte le cose (e quindi di sé stesso) è l’unica forma di vita della cui infinità e eternità ci si può ancora illudere. E sono la suprema salvezza e «consolazione» concesse a chi non può salvarsi né essere consolato. La «ginestra» è il «fiore del deserto». Il deserto è la morte e nullità di tutte le cose; il «fiore» è il genio. Egli è mortale, nasce per morire, e questa nascita è «natura». Ma «nobile». «Nobil natura». La sua nobiltà è la capacità di tenere uniti il suo «profumo» (la potenza del canto) e Yepistéme della verità che vede il «deserto». «[...] di dolcissimo odor mandi un profumo, / che il deserto consola.» Ora la dolcezza non si addice al naufragio nel mare dell’Infinito illusoriamente cantato come reale: l’Infinito è morto («è distrutto Iddio», scrive Leopardi, anticipando il «Dio è morto» di Nietzsche) e il deserto ne ha preso il posto. Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce 130 gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte. Il pensiero poetante del genio ha l’ardire di guardare con occhi mortali la morte («il comun fato»), non nasconde la verità, non le detrae nulla. Egli non è l’uomo comune, per il quale Yepistéme è l’unico male e Yamanthia l’unico bene, ma è la nobile natura che unisce Yepistéme dXYamanthìa del canto poetico e che intende come «vero amore» il porgere agli uomini questa unione. Come vero amore e come unico rimedio di cui gli uomini, dopo quello di Dio e della Tecnica, potranno, sia pur fugacemente godere, prima che il fuoco del «vulcano ardente» abbia a distruggere la ginestra, il fiore del genio, che cresce vicinissimo al fuoco annientante, perché ne vede il vero senso, e insieme lontanissimo, perché il suo «profumo» «consola» il deserto. Il «genio» che consola il deserto non è la volontà dell’«oltreuomo» che, in Nietzsche, accetta il deserto e ne vuole l’eterno ritorno. Ma se si prescinde da questa tematica di Nietzsche, da questa «vetta della contemplazione», come egli la chiama, che si porta ancora più in alto della vetta raggiunta dal pensiero di Leopardi (un pensiero il cui linguaggio sta tuttavia più in alto del linguaggio di Nietzsche), allora si può dire che sia come filosofia sia come poesia il pensiero di Leopardi è, di diritto, il pensiero che più si addice all’Occidente e, ormai all’intero pianeta. Se ciò che viene portato alla luce dall’ epistéme della verità è il vortice che getta le cose nel nulla dopo averle per un poco sottratte all’abisso del nulla, allora il pensiero di Leopardi indica la conclusione inevitabile della storia dell’Occidente e del mortale. Ma proprio a questo punto si fa innanzi la questione decisiva. Possiamo formularla così: è così indiscutibile che quel vortice - in cui crede sia la tradizione dell’Occidente, sia la distruzione di essa, avviata dal pensiero di Leopardi - 131 appartenga all’evidenza assoluta, cioè all’assolutamente indiscutibile? 132 4. «Morte di Dio» e «anello del ritorno» a) La sequenza essenziale Ogni linguaggio è problematico: non solo quel che esso dice lo dice all’interno di un’interpretazione, che non può mai essere una verità assoluta, ma lo stesso esser linguaggio del linguaggio è il contenuto di una interpretazione. Noi dialoghiamo perché, nonostante la problematicità dell’interpretazione - che non si riferisce soltanto al linguaggio delle parole, ma anche a quello del comportamento, ma poi a tutte le cose dalla terra e del cielo -, abbiamo fede (per lo più inconsapevolmente) che il nostro interlocutore (se esiste) sia a sua volta un interpretare e ponga a fondamento del suo interpretare le stesse regole che noi, e, daccapo, per lo più inconsapevolmente, poniamo a fondamento del nostro. Ma anche «noi» - e anch’«io» - siamo contenuti di una interpretazione. Di solito quelle regole non vengono messe in discussione. Ad esempio che esista un prossimo, una società, che certi eventi sensibili siano linguaggio, che un certo oggetto sia un libro e che sia scritto in una certa lingua. È all’interno di queste regole e del tipo di interpretazione che ne scaturisce in virtù di certe altre regole - analoghe alle «regole di trasformazione» di cui parla la logica - che appare qualcosa come Storia dell’uomo. Storia dell’Occidente, o come Aristotele o Nietzsche (o un certo Nietzsche). Con queste considerazioni non si intende affermare che ogni sapere sia interpretazione. Anzi, solo sul fondamento dell’apparire della verità autentica si può affermare che un certo ambito delle convinzioni umane è interpretazione, ossia non-verità. Nietzsche appartiene all’esito inevitabile della storia del pensiero occidentale - e della stessa civiltà dell’Occidente (cfr. 133 E.S., L’Anello del ritorno, Adelphi 1999). L’attenzione maggiore deve essere dunque rivolta all ’inevitabilità della distruzione del passato, a cui Nietzsche ha potentemente contribuito. Che Dio sia morto non è dovuto alla semplice circostanza che - come lo stesso Nietzsche qualche volta ritiene - la gente non crede più in Dio. La tendenza dei popoli è indubbiamente questa - nonostante il peso che le religioni hanno riacquistato negli ultimi tempi. Ma le tendenze, anche, si possono invertire. Se domani i popoli si rivolgessero di nuovo a Dio dovremmo forse dire che Dio è risorto? L’«obbiezione storica decisiva», che per Nietzsche consisterebbe appunto nell’attuale incredulità della gente, non ha nulla di decisivo. La potenza del pensiero di Nietzsche sta altrove. Non la si trova nemmeno quando si riduce il pensiero di Nietzsche al «prospettivismo» - che sostanzialmente non differisce dallo scetticismo. (Che peraltro può presentarsi in forma non ingenua quando - di fronte ad avversari che si limitano a rilevare la contraddizione della sua tesi che sostiene la verità dell’inesistenza di verità - esso può replicare chiedendo per quale motivo non ci si debba contraddire; e a questa sua domanda ben pochi sono in grado di rispondere in modo adeguato.) Nella sua essenza autentica - tanto più autentica quanto più nascosta e quanto più rara - il pensiero del nostro tempo non è scetticismo. Non lo è, certamente, il pensiero di Leopardi e di Giovanni Gentile. Costoro, insieme a Nietzsche, seminano l’essenza del nostro tempo. L’essenza del nostro tempo conduce alla sua forma più rigorosa l’essenza dell’Occidente, cioè la fede nell’esistenza del divenire, inteso nella configurazione ontologica che i Greci una volta per sempre gli hanno assegnato: la fede nell’evidenza originaria e irrinunciabile di tale configurazione. 134 Appunto sul fondamento della fede nell’evidenza del divenire - inteso secondo tale configurazione - Nietzsche (come Leopardi e Gentile) mostra l’impossibilità di Dio. Si tratta di capire l’incontrovertibilità - Yinevitabilità, appunto - di questa fondazione. Che Dio sia morto - cioè che non sia mai stato vivo se non nella volontà dei popoli - è una necessità. Si tratta di capire il senso di questa necessità. E, insieme, di capire che Nietzsche porta al culmine la storia dell’Occidente anche perché mostra che la forma di potenza che la tecnica è destinata ad assumere per essere la potenza suprema è la potenza della volontà che vuole l’eterno ritorno di tutte le cose. Capire cioè che, proprio perché è necessario che Dio sia un morto, proprio per questo è necessario l’eterno ritorno di tutte le cose ed è necessario che tale ritorno divenga il contenuto essenziale della volontà che costituisce la tecnica. Nel Così parlò Zarathustra di Nietzsche il Dio che non può esistere è chiamato da Zarathustra l’«Uno», il «Pieno», il «Satollo», l’«Immoto», l’«Imperituro». La fede nel divenire, che accomuna tutti i pensieri e tutte le opere dell’Occidente, implica con necessità l’impossibilità dell’esistenza di questo Dio. Zarathustra dice: «Affinché vi apra tutto il mio cuore, amici, se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere Dio! Dunque non vi sono dèi» ( Sulle isole beate). Ma nell’ Anello del ritorno si mostra che la premessa autentica di quel «Dunque» è quanto Zarathustra dice verso la fine del capitolo: «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero?». Ma nemmeno questa è un’affermazione che non abbia bisogno di essere compresa. Nietzsche aveva ragione ad affermare l’indispensabilità di una cattedra universitaria per la comprensione di Così parlo Zarathustra, da lui considerato il più importante dei suoi scritti. 135 Se si vuole richiamare in astratto la sequenza essenziale che costituisce la grandezza del suo pensiero, ci si può esprimere così: la creazione e l’annientamento delle cose sono l’evidenza originaria. Tale evidenza implica con necessità l’impossibilità di ogni Dio. La stessa necessità che implica tale impossibilità comporta l’eterno ritorno di tutte le cose, il ritorno che in quanto voluto dalla volontà di potenza conferisce alla tecnica la potenza estrema (dove l’essenziale è la configurazione concreta di tale «necessità»). Questa è una indicazione astratta. Senza la concretezza corrispondente (a cui L’anello del ritorno si rivolge) si fa poca strada. Ma è l’indicazione della sequenza essenziale. Ciò significa che tale sequenza non esprime le molteplici tematiche che nel discorso di Nietzsche le sono più o meno strettamente connesse. Credo che l’interpretazione della sequenza essenziale presente neWAnello del ritorno esprima qualcosa che appartiene a Nietzsche: l’essenziale, appunto. Se ciò non fosse (ma non mi è nota alcuna alternativa che abbia la capacità di modificare questa mia convinzione), ebbene non avrei troppe difficoltà ad affermare - modestia invita - che quella sequenza non cesserebbe di essere essenziale, per la storia dell’Occidente (non cesserebbe di esserne il culmine), per il fatto di non appartenere a Nietzsche. b) «Affinché vi apra tutto il mio cuore» «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero?» Nulla! Questa è la risposta richiesta dall’interrogativo retorico. Creare e annientare: sono gli aspetti fondamentali del divenire, secondo il senso che i Greci hanno assegnato al divenire: andare dal non essere all’essere e dall’essere al non essere. Creare: condurre nell’essere ciò che non era, che era nulla. Annientare: riportare nel nulla ciò che era riuscito a essere. Negare l’esistenza del creare e dell’annientare è negare 136 1’esistenza del divenire, ossia di ciò che per l’Occidente è l’evidenza suprema. Che cosa mai resterebbe da creare, all’uomo, se gli dèi esistessero? Nulla! L’esistenza degli dèi rende impensabile la potenza creativa e annientante dell’uomo cioè la vita dell’uomo - giacché è questa potenza a formare il centro di ogni divenire, e dunque il centro dell’evidenza originaria. Ma perché l’esistenza degli dèi rende impensabile e impossibile il creare e l’annientare dell’uomo? Incominciamo a rispondere dicendo il motivo per il quale Zarathustra attribuisce al dio i caratteri dell’esser «l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro». È ben più profondo di quanto non sembri a prima vista. Il dio è pieno e sazio. Pieno di tutta la realtà, che sta raccolta nell’immutabile e imperitura unità che lo costituisce e lo sazia. Il dio è questa unità anche se lo si pensa separato dal mondo. Il mondo non aggiunge nulla alla pienezza del dio, che dunque è sazio anche se ha lasciato al di fuori di sé il mondo. Pertanto il dio prescrive sé stesso a tutte le cose. Ne è la Legge. Egli non può non prescrivere sé stesso; non solo a tutto ciò che è già, ma anche a tutto ciò che sarà e a tutto ciò che è già stato. Se qualcosa, al di fuori del dio, avesse una propria legge, un proprio ordine e senso, una propria vita, diversi da quelli in cui il dio consiste, il dio non sarebbe ancora sazio, avrebbe ancora qualcosa di cui potersi saziare. Egli prescrive sé stesso al presente, al passato, al futuro, al tutto, prescrive la propria costituzione, cioè la legislazione in cui egli consiste e che egli proietta intorno a sé, nei secoli dei secoli, catturando e mantenendo tutto dentro di sé, sazio da sempre e per sempre. È già sazio di tutto. All’uomo e al divenire dell’uomo e della terra non resta dunque nulla. Nulla da creare e da annientare. Il divenire sarebbe impossibile, «se 137 vi fossero degli dèi». Se vi fossero, «come potrei sopportare di non essere dio!?», dice Zarathustra. Non si tratta di una esclamazione vana e infine patetica. L’insopportabile non è tale per un individuo dalle molte pretese, ma per il pensiero che intende vedere la verità e che non può sopportare che l’esistenza del dio renda impossibile e impensabile la verità, cioè l’evidenza originaria e irrefutabile del divenire. Il dio è infatti la Legge suprema a cui tutto deve adeguarsi, che non può tollerare che dal nulla emerga una novità da lui non prevista, la quale sconvolga la sua legislazione e mostri che solo apparentemente egli era sazio e immoto. Con la propria pienezza e sazietà egli ha già raggiunto tutto e non può essere raggiunto e sorpreso da alcunché. È «pieno» perché ha riempito tutto di sé. Che cosa resterebbe da creare, che divenire resterebbe, se egli avesse tutto riempito con la Legge; in cui egli consiste e avesse raggiunto e occupato futuro, passato, presente, imponendo al futuro di non essere un futuro, un ancor nulla, ma di esser già una regione totalmente adeguata alla Legge; e, trattenendo a sé il passato, impedendogli di essere un ormai nulla e prescrivendogli quindi di non sottrarsi alla Legge, andandosene in una regione dove si possa essere liberi da essa? Che vita resterebbe all’uomo da vivere se tutto questo dovesse esistere? Nessuna. Eppure è evidente che l’uomo vive. Dunque dio non può esistere. Il divenire implica che esista un non essere da cui gli enti divengono e in cui ritornano. Ma un dio immutabilmente pieno e sazio ha già da sempre riempito tutti gli spazi vuoti del non essere: da essi non può provenire alcunché di cui egli non sia già sazio, e nemmeno nel vuoto in cui le cose si portano possono trovarsi mondi ed eventi di cui egli non si sia ancora impadronito o che si sia lasciato sfuggire di mano. Ciò significa - ecco il tratto decisivo e fondamentale - che 138 1’esistenza del dio, la cui legislazione si estende al tutto e alla totalità del tempo, trasforma il non essere, che è necessariamente richiesto dal divenire, in un ascoltatore e in un suddito dell’essere. Il dio identifica il nulla con l’essere, e quindi cancella il divenire, cioè l’evidenza originaria e suprema del pensiero e delle opere dell’Occidente. Molti a questo punto possono domandarsi se sia così scandaloso per Nietzsche che il nulla sia essere e l’essere sia nulla. Non è forse ben nota la spregiudicatezza di Nietzsche nei confronti dei principi «logici»? Eppure, chi crede nell’esistenza del divenire, quella spregiudicatezza non può averla - o ha un senso del tutto diverso da quello che comunemente le si assegna. Credere nel divenire significa infatti credere nella differenza tra il prima e il poi, tra ciò che ancora non è, ed è un nulla, è ciò che ormai è, tra ciò che è ciò che ormai non è più e daccapo è nulla. Tutte le forme di negazione del principio di non contraddizione proposte dal pensiero del nostro tempo negano tale principio in quanto esso si presenta ai loro occhi come negazione del divenire, ossia come negazione del senso autentico della non contraddittorietà, del senso consistente appunto nella ineliminabile differenza, nella struttura del divenire, tra il prima e il poi, tra l’essere e il nulla. Oggi si crede che i problemi dell’uomo possano essere risolti da un ritorno ai valori, alla tradizione dell’Occidente e soprattutto alla radice di tutti quei valori, che è Dio. Ma è un passato che agli occhi di Nietzsche si presenta come una foglia secca, ancora attaccata al ramo - una grande foresta disseccata che all’uomo della tradizione appare ancora come una vegetazione animata dalle linfe della terra e quindi ancora capace di guidare l’umanità. Ma se Dio è veramente morto 139 come è ancora possibile questa illusione? c) Eterno ritorno e tecnica La seconda parte di quella che sopra abbiamo chiamato la «sequenza essenziale» del pensiero di Nietzsche afferma che la stessa necessità che implica l’inesistenza di Dio implica anche l’eterno ritorno di tutte le cose. Si può esprimere questa tesi anche dicendo che in Così parlò Zarathustra non si deve perdere di vista la concatenazione essenziale di tre capitoli che nel testo compaiono invece separati l’uno dall’altro: Sulle isole beate, Della redenzione. La visione e l’enigma. La visione e l’enigma racconta l’eterno ritorno di tutte le cose. Zarathustra racconta che ci sono due strade, una che procede in avanti, l’altra all’indietro. Da come si presentano, non si dovrebbero mai incontrare; eppure, assicura Zarathustra, si incontreranno e tutte le cose che camminano su di esse si ripresenteranno, e infinite volte, così come una volta si sono presentate - ad esempio questo ragno e questo chiaro di luna e il colloquio tra Zarathustra e il nano. Zarathustra, qui, «racconta». Eppure a Nietzsche è del tutto estranea la volontà di «raccontar miti». La sua è una «gaia scienza». Gaia; ma scienza. Non la scienza come epistéme che afferma resistenza di Dio, ma come conoscenza che tuttavia intende essere incontrovertibile e innanzitutto affermazione incontrovertibile dell’esistenza e dell’evidenza del divenire di tutte le cose e, su questo fondamento, conoscenza incontrovertibile della morte di Dio, ossia di ciò che rende impensabile e impossibile resistenza del divenire. Il pensiero di Nietzsche appartiene al culmine dell’essenza autentica del nichilismo - all’essenza cioè cui si rivolgono i miei scritti mostrando la Follia estrema -; ma, proprio perché è la forma più radicale del nichilismo, esso è anche la forma 140 più radicale di fedeltà alla fede nel divenire. Gli amici di Dio, che pure fondano questa loro amicizia su tale fede, non posseggono tale fedeltà. Appunto per questo sono destinati al tramonto e a essiccare anche se sono attaccati ai rami. Il genio di Nietzsche sta nel rendersi conto che il rapporto fra la creatività dell’uomo e Dio è del tutto analogo al rapporto fra tale creatività e il passato. Come il Dio immoto, imperituro e sazio è immodificabile dalla volontà umana, così il passato si presenta all’uomo come immodificabile dalla sua volontà. Sul passato non si può più intervenire, non lo si può cambiare. «Così fu.» Ma questa - agli occhi della fede nel divenire - è la voce della non-verità; come è la voce della non-verità quella che afferma che Dio è vivo. Il passato possiede la stessa anima, la stessa essenza dell’anima e dell’essenza di Dio. Come l’immutabilità di Dio rende impossibile il divenire, così il divenire è reso impossibile daH’immutabilità del passato. Sebbene Zarathustra non usi queste espressioni, si può dire che anche il passato - quando sia visto da chi riesce a portarsi oltre l’uomo - è «l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro». La sua esistenza è infatti la legislazione che condiziona tutto il futuro. Non in senso deterministico, ma nel senso che anche quando ci si vuole liberare dal passato e dai suoi condizionamenti non si può evitare che esso sia stato così come è stato, sicché la liberazione da ciò che non può essere diverso da come è stato non può renderlo diverso da sé e non può non esserne condizionata. Una liberazione apparente. Ci si potrà proporre di evitarne le conseguenze, ma non si potrà evitare che la totalità del futuro si mantenga in relazione a ciò che non potrà mai diventare diverso da sé e a cui ogni futuro si dovrà quindi adeguare in questo senso più profondo. In nessun luogo del divenire si potrà evitare di rimanere in relazione con ciò che non potrà mai non essere 141 più ciò che è stato. La coscienza umana può «ricercare» il passato - pensa la fede nel divenire -, ma è prigioniera della convinzione di non poter far sì che ciò che è stato non sia stato. La legislazione in cui anche il passato consiste potrà essere dimenticata ma non distrutta, e quindi anch’essa riempie di sé ogni spazio vuoto del nulla in cui il futuro consiste. Anche questo nulla diventa quindi un ascoltatore del passato, un passato esso stesso; così come il nulla implicato dal divenire diventa, con resistenza di Dio, un ascoltatore e un suddito di essa, diventa cioè un essere. Proprio perché non può essere modificato o annientato, il passato è il «macigno» che anticipa il futuro, e quindi lo annienta. Se esistesse un Immutabile, nessun evento, per quanto lontano nel futuro, potrebbe non tenerne conto, ossia potrebbe configurarsi indipendentemente da esso. Inoltre, da un lato il passato è ciò che è diventato nulla; dall’altro lato, tuttavia, ha un contenuto positivo che non rinuncia a sé stesso e al suo imporsi al futuro, così come non vi rinuncia Dio; sì che anche in questo senso il «così fu» è l’identificazione del nulla e dell’essere. Anche il futuro, quindi, sino a che l’uomo crede che il passato sia immodificabile, si presenta come qualcosa che non proviene più dal nulla - secondo quanto è richiesto dall’essenza del divenire -, ma proviene dal «macigno» del passato, da cui dipende come si dipende dal «macigno» di Dio. Come Dio, anche l’immodificabilità del passato implica la negazione del divenire, cioè di quella novità autentica che è la nullità di ciò che è ancora un futuro. Come Dio, anche il passato anticipa tutto, trasformando il nulla, senza di cui non ci può essere divenire, in un essere, in un ascoltatore del passato. Pertanto, come è necessario affermare che Dio è morto, 142 così è necessario affermare che è morto anche il passato, in quanto esso è pensato e vissuto come l’assoluta immodificabilità del «così fu». La creatività della volontà implica cioè necessariamente la sua capacità di trasformare il passato, di volere il passato come si vuole il futuro. Si tratta ora di indicare come ciò sia possibile. d) Volere Veterno ritorno e volere il passato Ancora sulla base di Così parlò Zarathustra - che nonostante i suoi tentativi di sviare il lettore contiene tutti gli elementi che rendono la dottrina dell’eterno ritorno una conseguenza inevitabile della fede nel divenire - richiamiamo dunque il modo in cui Zarathustra mostra come la volontà possa volere il passato (il che essendo già stato fondato da quanto è stato qui sopra rilevato), senza essere una semplice velleità. La volontà è il tratto essenziale del divenire. La sua libertà è innanzitutto il suo liberare da Dio e dal passato, e in generale da ogni forma che gli immutabili possono assumere. Proprio per questo, è libera nel senso che non è sottoposta ad alcun disegno prestabilito. Non solo essa è casuale: è il caso stesso. Se essa si presenta dapprima come volontà che vuole il futuro, ormai Zarathustra ha mostrato l’unilateralità di questo aspetto della volontà, cioè ha mostrato che essa è padrona del passato come del futuro. Essa vuole anche il passato. Ma essa non può volerlo separatamente dal proprio volere il futuro, perché altrimenti il futuro, una volta voluto e ottenuto, diventerebbe un passato su cui la volontà non ha potenza. È cioè necessario che il volere «in avanti» - il volere che vuole il futuro - sia lo stesso volere che vuole «a ritroso», ossia che vuole il passato. Questa identità è possibile solo se volendo «in avanti» si percorre un circolo: un percorso in cui si finisce col ritornare al punto di partenza. Il percorso circolare - 143 l’«anello del ritorno» - rende possibile che, volendo il futuro, si voglia per ciò stesso il passato. Solo se il divenire del mondo è un circolo, e un circolo che ritorna su di sé alfinfinito - «un anello del ritorno» -, la volontà che vuole il futuro vuole per ciò stesso il passato, e lo ottiene come ottiene il futuro. Ogni punto del circolo è un punto di partenza. Altrimenti, se esistesse un punto privilegiato, esso sarebbe il punto immutabile, Yarchè del processo: sarebbe, daccapo, un Dio immutabile che anticiperebbe in sé la totalità del divenire, vanificandola. Il circolo non ha né inizio né fine, nemmeno se inizio e fine sono il nulla (come invece pensa Leopardi con un rigore che è massimo all’interno di una prospettiva in cui, tuttavia, non si vede ancora la necessità dell’eterno ritorno di tutte le cose), perché anche in questo caso il divenire avrebbe una direzione, cioè sarebbe sottoposto a una legge che attribuirebbe al nulla i tratti che sono propri dell’anticipazione divina del tutto. Se il nulla stesso fosse l’origine unica e inamovibile da cui tutto proviene e il termine a cui tutto ritorna (anche la scienza e in particolare la cosmologia si muovono per lo più nei paraggi di questa tesi), il nulla preordinerebbe il futuro e riceverebbe il passato in modo analogo a quello in cui il futuro e il passato sono rispettivamente preordinati e conservati da Dio. Ciò non significa che il futuro non sia un uscire dal nulla e il passato non sia un ritornarvi: significa escludere che i nulla del futuro e del passato si distacchino dai punti del circolo dell’eterno ritorno e si configurino come dimensioni teologiche, immutabili, dominanti ed esterne rispetto alla casualità del divenire. Nemmeno il nulla può essere lo scopo e il riposo eterno dell’uomo. L’esistenza non ha senso. Che il divenire abbia un «senso» è un modo di affermare che il divenire è guidato da un Dio. Appunto perché è 144 impossibile che un qualsiasi immutabile esista, è necessario che il divenire - e cioè il tutto, la totalità di ciò che esiste - sia assolutamente senza senso. Come è impossibile un inizio assoluto, così è impossibile uno scopo assoluto. Il pensiero di Nietzsche mostra dunque non solo che ogni Dio, cioè ogni Immutabile, rende impotente la volontà, ma che la forma più potente della volontà è quella in cui la volontà vuole l’eterno ritorno di tutte le cose. Sino a che la scienza guiderà la tecnica assumendo la potenza come una volontà che vuole soltanto «in avanti» e che non sa di avere potenza anche sul passato, ossia non sa di essere, essa, l’eterno ritorno di tutte le cose, la tecnica non potrà raggiungere la potenza massima cui è destinata. Il destino della tecnica è di ascoltare la voce dell’eterno ritorno di tutte le cose e di realizzare l’epoca della potenza massima raggiungibile dall’esistenza (e a sua volta destinata a declinare, a ridursi, per poi ricomparire infinite volte). La tecnica è destinata a volere l’eterno ritorno di tutte le cose. Questa è la dottrina di Nietzsche che ancora è la più lontana dalla coscienza che scienza e tecnica hanno di sé stesse (anche se la possibilità di un recupero del passato è sempre più presa in considerazione aH’interno del sapere scientifico). Più vicina a quella coscienza è la dottrina che la morte di Dio toglie ogni limite alla volontà di potenza, anche se la morte di Dio non deve essere trattata come un dogma simmetrico a quello degli amici di Dio, ma deve essere vista nella sua necessità. Tutto ciò che qui è stato sommariamente tracciato trova il proprio significato concreto nelYAnello del ritorno. Qui si deve lasciar da parte, di quel mio scritto, la considerazione dell’aspetto speculativamente più rilevante del pensiero di Nietzsche, cioè il senso autentico della tragedia da cui esso è 145 avvolto e che può essere indicato dicendo che se la fede nell’evidenza del divenire implica necessariamente l’eterno ritorno di tutte le cose, tale fede implica necessariamente la negazione di sé stessa. Infatti, se l’eterno ritorno non è la riesumazione di un’antica dottrina metafisica, esso è tuttavia pur sempre un’eternità. Il tragico che il pensiero di Nietzsche non ha mai guardato in faccia (e che quindi non ha nulla a che vedere con le considerazioni di Nietzsche sulla tragedia attica) e che tuttavia grava sulle sue spalle è che la negazione del divenire appartiene necessariamente all’essenza del divenire: che il divenire non è divenire. Il genio di Nietzsche è infinitamente maggiore di quello che egli è disposto ad attribuire a sé stesso. Infinitamente maggiore, perché, senza volerlo - e anzi volendo l’opposto - mostra l’abisso senza fondo su cui si libra la fede che regge l’intera storia del mortale e, al culmine di quest’ultima, la storia dell’Occidente. Non si dovrà dire allora che il librarsi della fede nel divenire sull’abisso senza fondo della negazione di questa fede - il legame indissolubile che lega questa fede alla propria negazione - è il librarsi stesso della Follia - non quella che lacera la mente di un individuo che è stato un grande filosofo, ma quella che sta alla radice del modo in cui l’uomo ha abitato e tuttora abita la terra? 146 5. Divenire, tecnica, «differenza ontologica »- Ricordo che due anni fa - Hans-Georg Gadamer era venuto a Venezia, e stavamo entrando a Ca’ Foscari parlando di Heidegger-, mentre ponevo termine alla nostra conversazione, perché la conferenza del professor Gadamer era imminente, volli avanzare quello che mi sembrava il punto decisivo, e gli dissi che tra Heidegger e l’essenza della tecnica c’era una sostanziale solidarietà. Al che Gadamer rispose con un «no» tanto perentorio quanto gentile. Ma è proprio su questo punto che vorrei un po’ soffermarmi; quindi mi è cara l’occasione per riprendere quel discorso interrompu con Gadamer: l’essenziale solidarietà del pensiero di Heidegger con l’essenza della tecnica, con quell’essenza che secondo Heidegger si colloca agli antipodi della sua posizione. Ieri si è parlato di «differenza ontologica»: vorrei prendere le mosse da questo concetto. «Differenza ontologica» significa che esiste una essenziale accidentalità nel rapporto tra l’essere e l’ente. Significa che l’ente non è essenzialmente legato all’essere e in questo senso è un evento che sopraggiunge improvvisamente e imprevedibilmente. Il concetto che è opposto a quello di «differenza ontologica» è la «non- differenza ontologica». Questa lega l’essere all’ente; questo legame, per Heidegger, o la storia di questo legame, è la storia della metafìsica. Legare l’essere all’ente vuol dire assicurare le cose al loro essere. Assicurandole, le cose diventano stabili e arginano, bloccano, il sopraggiungere delle novità storiche. Allora, parlare della «non-differenza ontologica» è parlare delfimmutabilità, o dell’eternità delle cose. Recentemente, è uscita la traduzione di Was heisst Denken, dove viene sviluppato il concetto che al culmine di questa assicurazione degli enti all’essere, al culmine della «non-differenza ontologica» sta il pensiero di Nietzsche. Heidegger cita il 147 frammento 617 della Volontà di potenza, dove si parla della «vetta della contemplazione»: la vetta della contemplazione è il ritorno di tutte le cose. Questa, per Nietzsche, è l’«estrema approssimazione del mondo del divenire al mondo dell’essere». Heidegger vede in Nietzsche, in quanto teorico dell’eterno ritorno, l’anticipatore della civiltà della tecnica, perché la civiltà della tecnica consiste nella programmazione che esclude la differenza ontologica; la programmazione che, stabilendo la routine, la ripetizione dell’inedito, esclude la possibilità del sopraggiungere del nuovo, del diverso. Heidegger si muove certamente verso l’espressione dell’essenza del pensiero occidentale, in quanto, allontanandosi dalla maggior parte delle forme del pensiero contemporaneo, capisce che l’essenza di tale pensiero va vista in termini ontologici. Ma è appunto in questa raffigurazione heideggeriana dell’aspetto ontologico della civiltà occidentale che si cela quella sostanziale solidarietà fra Heidegger e la tecnica, di cui avevo parlato prima. Perché? Il tema dell’«eterno ritorno» dice dunque che il nuovo è impossibile, ed «eterno ritorno» vuol dire «estrema approssimazione del mondo del divenire al mondo dell’essere». Ecco, penso che tutti colgano il significato della parola «approssimazione», che è «estrema», ma è pur sempre approssimazione. Ciò vuol dire che la distinzione tra il mondo del divenire e il mondo dell’essere rimane; c’è sì l’estremo tentativo di identificarli, ma è tentativo che lascia inevitabilmente un margine dove il divenire non è l’essere. È il massimo che si può compiere per identificare i due mondi; ma il tentativo è uno sforzo, non riesce. Ora, il concetto dell’eterno ritorno finisce col bloccare il divenire, ma il divenire è bloccato solo in quanto se ne riconosce l’esistenza. Se teniamo ferma la vicinanza che 148 Heidegger stabilisce tra tema dell’eterno ritorno e civiltà della tecnica, allora l’immutabile, cioè la non-differenza ontologica in cui consiste quell’immutabile che è l’eterno ritorno, è possibile soltanto sul fondamento del riconoscimento dell’esistenza del divenire. L’immutabile protegge dal pericolo della novità, precattura il nuovo, ma proprio perché è la difesa rispetto alla novità che il divenire porta con sé, appunto per questo l’affermazione dell’immutabile è il riconoscimento del divenire. Ma questo riconoscimento del divenire - che dunque è evidente in Nietzsche: proprio in quanto egli si vuole assolutamente cautelare dal divenire - questo riconoscimento del divenire non è nulla di diverso, nell’essenza, da ciò che Heidegger chiama «differenza ontologica». Perché, se «differenza ontologica» significa accidentalità dell’ente rispetto all’essere, il non essere legato necessariamente all’essere da parte dell’ente, allora «differenza ontologica» vuol dire appunto il movimento di oscillazione delle cose, e la loro eventualità è il loro andare e venire - un processo in cui le cose sono lasciate nel loro andare e venire. Voglio dire che quel divenire, che è necessariamente riconosciuto da Nietzsche quando egli intende rendere radicale (e insieme difendersene) con 1’evocazione dell’eterno ritorno, quel divenire è altrettanto radicalmente riconosciuto da Heidegger quando egli lo esprime in termini puramente ontologici, come, appunto, «differenza ontologica». D’altra parte è chiaro che quando Heidegger parla della programmazione operata dalla civiltà della tecnica, che impedisce la storia, dissente da questo acme che la metafisica occidentale raggiunge nel pensiero di Nietzsche e nella civiltà della tecnica. Voglio dire che quel modo di interpretare Heidegger per il quale egli verrebbe a equivalere simpliciter a Weber, non è quello che intendo sostenere. Dal punto di vista 149 filologico è ovvio che Heidegger intende prendere le distanze dall’epoca in cui domina la civiltà della tecnica. Egli rivendica la possibilità del nuovo in contrapposizione all’eliminazione del nuovo. Allora, una prima domanda: qual è il fondamento dell’esigenza del nuovo? Perché ci deve essere il nuovo? Perché non ci può essere un sistema che predetermini la totalità dell’evento, precatturando appunto ogni novità e rendendo impossibile ogni novità? Che cos’è ciò che fonda questa esigenza del nuovo, che è l’esigenza dell’esistenza della storia? Lo so, è l’esigenza di tutti abitatori dell’Occidente: noi vogliamo che la storia esista. Ma perché deve esistere il non¬ sistema? Ecco, sostengo che Heidegger esprime semplicemente l’esigenza, ma non più che l’esigenza, della esistenza del nuovo: si limita a un’atteggiamento, che è proprio dell’intera cultura contemporanea, che non può escludere il sopraggiungere di un sistema il quale riesca a fare ciò che Hegel non è riuscito a fare. Per escludere il sistema, per riuscire a escludere la negazione della storia e della novità è necessario un approfondimento del senso ontologico del divenire, che rimane invece nel sottosuolo del pensiero di Heidegger (cfr., del mio saggio Gli abitatori del tempo, Armando 1978, il capitolo intitolato Gòtterdàmmerung). Seconda domanda: quando Heidegger polemizza contro la civiltà della tecnica, contro il piano, la programmazione, non si dimentica forse della caratteristica essenziale della scienza moderna, cioè del carattere ipotetico della scienza? L’anticipazione del futuro da parte d elYepistéme tradizionale è indubbiamente una cattura che elimina radicalmente la novità. Se è già aperto il senso del mondo, se il senso del mondo è già aperto all’interno di una epistéme, allora il nuovo è certamente impossibile. Ma la scienza moderna si è costituita proprio attraverso la distruzione d elYepistéme; 150 quindi la programmazione, il piano, in cui consiste la civiltà della tecnica, è una anticipazione ipotetica del futuro: se teniamo presente il concetto di scienza come «metodo sperimentale», allora, all’interno di questa prospettiva, la scienza, come sperimentazione, è una programmazione che però resta aperta alla smentita possibile operata dalla novità sopraggiungente. Vepistéme, sì, elimina la novità; dice alla novità: Io so già che cosa tu sei, io sono la tua regola; ma la scienza non fa questo, cioè la scienza realizza appunto a fondo quell’atteggiamento di apertura verso la novità storica, che Heidegger si limita a invocare. Questo sarebbe un primo senso secondo il quale la civiltà della tecnica è l’autentica erede dell’atteggiamento che Heidegger intende proporre. Ma vi è un senso più sostanziale. Il senso più originario e più nascosto della volontà di potenza è la volontà che la storia (il divenire, la «differenza ontologica») esista. Solo se si stacca l’ente dall’essere e lo si fa oscillare tra l’essere e il niente è possibile il dominio dell’ente. Alla base della volontà di dominio sta la volontà che esista il campo del dominabile. Questa volontà originaria è l’essenza dell’Occidente. E in questa essenza convengono quindi anche la tecnica e il pensiero di Heidegger. Ma il pensiero di Heidegger, a differenza della tecnica, contraddice la propria essenza, perché mentre la tecnica, volendo il dominio dell’ente, porta a compimento l’originaria volontà di potenza (cioè la volontà che il dominabile esista), e cioè resta fedele alla propria essenza, Heidegger contrappone alla volontà di dominio il «lasciar essere» gli enti: quel «lasciar essere» che è stato originariamente violato (anche) dal pensiero di Heidegger, proprio perché la volontà che separa l’ente dall’essere - e che quindi vuole la nientità dell’ente - non lascia essere l’ente nel suo essere presso il suo essere, nel suo essere unito al suo essere. In questo senso, la volontà di 151 potenza, nel pensiero di Heidegger, è incoerente (tradisce la propria essenza), mentre la tecnica si libera da questa incoerenza ed è quindi la coerenza del pensiero di Heidegger (e non solo di esso). In questo senso bisogna dire che il pensiero di Heidegger è unterwegs zur Technik, in cammino verso la tecnica. O anche: il pensiero di Heidegger esce dall’incoerenza solo se si pone come il lasciar essere le forze che si contendono il dominio dell’ente, e quindi come il lasciar essere l’organizzazione tecnologica del mondo, che ormai ha avuto il predominio su ogni altra forza. * Intervento al convegno su «L’eredità di Heidegger», tenutosi all’università di Padova nell’inverno 1978 (con la partecipazione, tra gli altri, di H.G. Gadamer, A. De Waelhens, M. Riedel, G. Vattimo) e poi pubblicato in «Verifiche», anno Vili, IV, 1. 152 VI Stare autenticamente oltre l’essenza del nichilismo: il destino 1. Il destino Le religioni soddisfano i desideri più profondi deiruomo. I miti gli dicono che può accostarsi e unirsi alle potenze supreme: possono salvarlo dal dolore e dalla morte e renderlo felice in un’altra vita. Dando ascolto a queste voci, per millenni e millenni l’uomo riesce ad anticipare qui sulla terra quella felicità, e a sopravvivere. Crede, ha fede in esse, ne è certo. Ma queste voci asseriscono, raccontano: non possono impedire che il dubbio si insinui e si faccia largo nella gran massa delle loro certezze. Il mito soddisfa il desiderio, ma è inaffidabile. La salvezza è il contenuto di un sogno. Nemmeno le religioni più evolute riescono a uscirne. Si fa avanti allora la religione. Intende mostrare come il dubbio possa esser vinto. La storia breve della religione: due millenni e mezzo. In essa, però, i criteri per accorgersi di ciò che è sogno sono andati sempre più perfezionandosi. E tuttavia il contenuto del sogno non è stato sostituito da una veglia altrettanto salvifica e beatificante. L’uomo ha voluto vedere - e, di assolutamente affidabile, ha visto soltanto l’assoluta precarietà della propria condizione. Scienza e tecnica fanno sì prevedere, qui sulla terra, l’avvento del loro paradiso. Ma fanno anche capire che nemmeno questo paradiso può uscire dal sogno. Sanno che, per quanto raffinate, le loro procedure razionali sono ipotetiche, fallibili. La condizione umana è precaria, perché precaria è ogni rassicurazione razionale dalla non precarietà dell’umano. Sia pure in modo diverso, la salvezza dal dolore e dalla morte continuano a essere qualcosa di sognato. 153 In questa situazione, i miei scritti indicano qualcosa che non può non sembrare esorbitante e velleitario. Può essere espresso con l’affermazione di Eraclito: «Sono attesi gli uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né suppongono». Intendo: da cose che sono infinitamente «di più» di ciò che essi desiderano, suppongono, sperando di ottenere; infinitamente di «di più» di ciò verso chi vuole condurre la stessa speranza cristiana, e dunque «di più» di ogni «immortalità» e di ogni «resurrezione della carne» che a speranze di questo genere sono connesse - e infinitamente «di più» di ciò a cui lo stesso Eraclito poteva riferirsi. Siamo destinati a qualcosa che è infinitamente «di più» di tutto quanto il più insaziabile dei desideri può volere. Ma il carattere esorbitante di queste affermazioni è ancora maggiore, perché quel che esse indicano non si presenta, nei miei scritti, come il contenuto di un mito, ma come lo stare, in modo assoluto, al di fuori del sogno in cui rimane ogni mito e ogni forma della stessa ragione. In questo stare al di fuori del sogno non si tratta di «attendere» l’avvento dell’insperato: già ora, da vivi, gli uomini sono avvolti da una «veglia» assoluta che è infinitamente «più» radicale di ogni incontrovertibilità e di ogni procedura critica della ragione - dunque anche di quella delle scienze logico-matematico- naturali. È all’interno di questa «veglia assoluta» che si mostra la destinazione dell’uomo a cose che egli non spera né suppone. L’uomo non è ciò che il mito e la ragione gli fanno credere di essere, ma è lui stesso, nel profondo, a esser questa veglia assoluta. In essa appare l’infinito allargarsi di sé stessa, cioè la sua Gloria; il suo accogliere tratti sempre più ampi del Tutto, ossia della Gioia che l’uomo, da ultimo, è. Nei miei scritti tale «veglia assoluta» è indicata dalla parola «destino», intesa come costruita in modo analogo a termini quali de-amare, de-vincere, dove il de esprime 154 l’intensifìcazione dell’amare e del vincere, sì che il destino è l’intensificazione estrema dello «stare», cioè dell’inamovibilità in cui consiste la «veglia assoluta». Il destino è l’apparire di ciò che è, ossia degli essenti. Nel destino appare che ogni essente è sé stesso e non diventa altro da sé , e dunque è eterno; e appare che il variare del mondo è il sopraggiungere degli eterni nell’apparire, ossia è la Gloria dell’inesauribile sopraggiungere della Gioia; e, insieme, nel destino appare che la negazione del destino è negazione di sé stessa, una freccia che, volendolo colpire, colpisce sé stessa. Il destino è il senso autentico della verità. E, ancora, nel destino appare che l’uscire dal nulla e il ritornarvi non appaiono, ma appare il sopraggiungere di quegli eterni che sono il dolore e il piacere, la nascita, l’agonia. Il cadavere - gli eterni che sono «oltrepassati» quando tramonta l’isolamento della terra dal destino. Nell’isolamento della terra, la fede nel divenir altro porta alla luce la volontà di salvezza e di potenza. Nel suo significato essenziale la morte è il divenir altro (ossia è l’impossibile); e da sempre i mortali hanno tentato di vincere la morte diventando altro da ciò che essi sono: uccidendo il Dio, come Adamo, o diventandone gli alleati, come Gesù. Hanno tentato di vincere la morte con la morte. Certo, tutto questo, detto in questi termini, può sembrare un ennesimo mito che ripropone quanto la tradizione filosofico-metafisica dell’Occidente ha inteso essere: l’unità di quanto interessa l’uomo e di quanto la ragione può dire (l’unità tuttavia che non può essere realizzata né dalla coscienza religiosa né dalla configurazione che la religione è venuta ad assumere nel nostro tempo). Ma, lungo la storia stessa dell’Occidente, quella tradizione è tramontata. Sennonché è proprio nei miei scritti che si mostra 155 l ’inevitabilità di tale tramonto, la quale va rintracciata in quella dimensione più profonda del pensiero filosofico del nostro tempo, che questo stesso pensiero per lo più non riesce a raggiungere. D’altra parte sin dal suo inizio la filosofia porta alla luce non solo l’istanza dell’incontrovertibilità, ma anche un senso radicalmente nuovo della salvezza: si tratta di salvarsi dal nulla da cui le cose del mondo sporgono improvvisamente. Il mito prefilosofico non pensa il nulla e dunque non vede nemmeno che la morte è annientamento. Non vede il pericolo estremo e quindi non salva da esso. Pensando l’eternità del divino, la tradizione filosofica crede che la salvezza dal nulla sia possibile. Ma se si sa scendere nella dimensione profonda della filosofia degli ultimi due secoli si scorge che qualsiasi Essere eterno è impossibile. Impossibile, quindi, anche ogni «verità eterna», incontrovertibile, definitiva. Ciò significa che sia la tradizione filosofica sia la filosofia del nostro tempo, sia l’intero passato sia l’intero presente della civiltà occidentale, e dunque, ormai, planetaria, hanno in comune il grande mito - la grande Follia - in cui il variare del mondo è inteso come l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte degli essenti. (Il mito che dunque accomuna non solo gli amici e i nemici di Dio, ma anche, per quanto riguarda la filosofia del nostro tempo, la cosiddetta «filosofia analitica» e la cosiddetta «filosofia continentale»). La volontà di salvezza - che è la stessa volontà di potenza - è la figlia di questo mito. Ma è inevitabile che si obbietti: «Come può essere sostenibile un discorso che ritiene di essere l’unico a non appartenere al mito e alla follia? Il genio dell’uomo ha sempre fatto perno sul divenir altro delle cose; e proprio quel discorso, che pretende di smentire quel che l’uomo ha sempre pensato, e su cui si fonda tutto ciò che egli ha creato, dovrebbe esser l’unico detentore della verità?». 156 Possiamo richiamare così la risposta a questa obbiezione - che peraltro è sempre stata rivolta ai filosofi e al «campo di lotte senza fine» (dice Kant) a cui essi hanno dato vita. Che esistano altre coscienze, oltre a quella che appare nel destino è, originariamente, un problema, non una verità assoluta. Originariamente, è un problema che l’uomo sia una società di individui umani. Ed è un problema anche ciò che i linguaggi dell’uomo intendono dire. Li si interpreta; ma l’interpretazione non è una verità assoluta. È dunque un’interpretazione anche Yesistenza del dissenso rispetto al linguaggio che indica il destino - del dissenso che si esprime dunque anche nell’obbiezione che stiamo discutendo. È una interpretazione anche l’esistenza della storia, di cui prima si è detto, che conduce dal mito alla ragione. Che il genio degli uomini sia sempre rimasto al di fuori del destino, e abbia sempre agito secondo questa sua alienazione, è interpretazione, cioè qualcosa di problematico. Il linguaggio che indica il destino dovrebbe propriamente dire: se c’è stato qualcosa come «mito», e se c’è stato qualcosa come «ragione», allora l’avvento della ragione esprime l’inaffìdabilità del mito, e la esprime nel modo sopra rilevato. Certo, al destino appartiene anche la necessità del suo essere presente in infiniti altri cerchi dell’apparire - e in questo senso gli appartiene l’affermazione che Tesser uomo è Tessere una molteplicità di modi di esser uomo, ossia è una «società». Ma poiché è sul fondamento del destino che l’esistenza di questa molteplicità può essere affermata incontrovertibilmente, allora, se si scopre che tale molteplicità è tutta o in parte un dissenso rispetto al contenuto del destino, tale dissenso morde la mano che lo sorregge, nega ciò sul cui fondamento è affermata incontrovertibilmente la sua esistenza. Che esista il dissenso che si scandalizza o irride le esorbitanti pretese del linguaggio che indica il destino non è 157 un «fatto»: è anch’esso un mito. Quando il destino mostra di essere presente in un’infinità di «coscienze» e mostra il loro dissentire dal destino, tale dissenso perde ogni verità. Che tale dissenso esista viene affermato infatti proprio in base a ciò da cui si dissente. 158 2. La fantasia e la terra La fantasia è l’insieme delle «immagini originarie», delle «forme di rappresentazione più antiche e più generali dell’umanità»: gli «archetipi» (ad esempio il divino). «Diffusa dappertutto», la fantasia «appartiene ai misteri della storia dello spirito umano». Così scrive Cari Gustav Jung. Platone vede nelle «idee» le immagini originarie di tutte le cose, gli archetipi; così originarie da essere le stesse cose originarie. Ma per lui la conoscenza delle idee non appartiene ai «misteri» dello spirito umano, bensì alla «scienza» ( epistéme ) della «verità» a cui solo il filosofo è capace di sollevarsi e che dunque è l’opposto della «fantasia» intesa come evocazione misteriosa, e quindi da ultimo oscura e arbitraria, di mondi. Eppure è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo a cui l’uomo si sia rivolto lungo la propria storia. Ci si imbatte nella forma originaria della fantasia, di cui tutti quegli archetipi sono derivazioni. Da tempo chiamo «terra» la storia dell’uomo e delle cose che gli si fanno incontro. Infatti si può pensare che la più antica origine di questa parola indichi il venire e l’andare, l’insieme di ciò che va e viene: il seno e la voce materna, la luce e la casa, uomini e dèi, il dolore e il piacere: cose terrestri e celesti, giacché anche il divino raggiunge i mortali a un certo punto della loro vita e poi da molti di essi si allontana. La terra: gli stormi delle cose che vengono e vanno. Da che cosa è accolta la terra? Da che luogo si allontana? I mortali appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma l’uomo non è un mortale. Egli è il luogo eterno in cui appare ciò che da sempre la verità è destinata a essere: il «destino della verità del Tutto»; essenzialmente diversa da ciò che i mortali hanno inteso con le parole «destino» e «verità». Nell’uomo sopraggiunge la terra. Ma insieme a essa 159 sopraggiunge e si fa dominante la convinzione che l’uomo sia un mortale, e con lui tutte le cose; ed egli vive come se in verità lui e le cose lo fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna. Non solo le «anime», come invece pensa Platone, ma anche i «corpi», e tutti gli stati delle une e degli altri. Anche la terra è eterna; e anche quella ingannevole convinzione che separa la terra dal destino della verità. Com’è lontano questo discorso da tutto ciò di cui sono convinti i mortali. Anche e soprattutto in questo caso la sua inevitabilità non può essere, qui, neppure lontanamente indicata. Qui si tratta solo di mostrare, e da lontano, in che senso è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo evocato dai mortali. Tanto indietro da poter scorgere che sia la «verità» dei mortali sia la loro «fantasia» hanno la stessa anima e che quest’anima è la forma originaria della fantasia. In una delle sue accezioni più comuni, la fantasia è la capacità di portare alla luce mondi diversi da quello quotidiano o da quello che è ragionevole ritenere esistente. Ma questi due tipi di mondi, cioè di andirivieni, entrambi evocati dai mortali, appartengono alla terra. Essa è il fondamento non solo della sapienza di questo mondo e della sapienza di Dio, ma anche della fantasia. E la terra si inoltra nel luogo eterno del destino della verità. Ma non basta. La maggior parte di coloro che leggono queste righe sta pensando che esse non abbiano nulla a che fare con la «realtà» e la «serietà della vita». Fantasie, appunto. Ma anch’essi sanno infinitamente di più di quanto credono di sapere. Sono l’apparire del destino. L’autentica fantasia originaria è cioè la convinzione che la «realtà» con cui noi abbiamo sicuramente a che fare sia, appunto, le cose che vengono e vanno, terrestri o celesti, le cose della terra ; e ormai 160 si pensa che tutte le cose vengano dal nulla e vi vadano. Tutto è avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa persuasione i mortali vivono nella terra separata dal destino della verità, nella terra che appare sfigurata, irretita, trascinata in basso. La terra dei morti. La fantasia originaria è la separazione della terra dal proprio destino. Una metafora può forse aiutare a comprendere queste affermazioni - purché non si dimentichi che la filosofia autentica non è metafora, ma il pensiero più radicale, essenzialmente più radicale e inevitabile di ogni altra forma di sapere, scienza compresa. Quando i cacciatori vedono gli stormi di uccelli attraversare il cielo, non è che il cielo non lo vedano più. Non si produce in essi qualcosa come un «oblio» del cielo e del più alto dei cieli - quale invece secondo Platone si spalanca nelle anime che hanno perduto le ali e non riescono più a vedere gli archetipi che appaiono nella «pianura della verità». Quei cacciatori, il cielo, lo vedono ancora, ma son tutti presi dal volo degli uccelli e se qualcuno parlasse loro del cielo direbbero che le sue son fantasie e che sono gli uccelli le cose con cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal volo degli uccelli perché non mirano ad altro che a prenderli, gli uccelli; ed effettivamente li prendono, e gettano loro addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo, li trascinano giù in basso e li uccidono. La fantasia originaria è il volo irretito degli uccelli. L’arte tenta di rievocare il libero volo, ma, per quanto splendente, rimane anch’essa aU’interno della rete, mostrando il volto sfigurato della terra. Giacché ora si può capire che, nella metafora, il volo degli uccelli corrisponde alla pura terra, il cielo al destino della verità. La rete dei cacciatori corrisponde dunque alla volontà di potenza che isola la terra dal destino della verità. Tale isolamento è la forma originaria della fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e 161 miti, filosofia, arte, scienza, tutti i morti pensieri e le opere morte dei mortali. 162 3. Discutere il destino della verità, concretezza delVerrare, isolamento della terra, linguaggio Anche oggi il tema di fondo del pensiero filosofico - nonostante i tentativi di eliminarlo, ma anche in seguito alla loro presenza - riguarda la «verità» di ciò che è conosciuto e voluto dall’uomo. Con diversi gradi di potenza e rigore la filosofia del nostro tempo rifiuta la possibilità di una «verità» assoluta e definitiva, capace di affermare qualcosa di Immutabile. Un rifiuto, questo, che è cosa ben diversa dal considerare superfluo il tema della «verità»; e che là dove è adeguato al proprio compito è un rifiuto inevitabile. Esso è tuttavia la coerenza estrema del nichilismo. Da quando abita la terra l’uomo intende le cose del mondo come un «diventare altro»; da quando la terra è abitata dalla filosofia la filosofia concepisce la «cosa» come «ciò che è» («ente») e definisce il suo diventar altro come «passaggio dal suo non essere al suo essere» e viceversa. La cosa che incomincia a essere è stata nulla nella misura in cui essa non era e incomincia, e la cosa che finisce di essere torna nel nulla nella misura in cui essa finisce e non è più. Procedendo da questo senso dell’esser cosa è inevitabile che la filosofia pervenga al rifiuto di ogni verità assoluta e definitiva e di ogni Ente immutabile e «divino»; e viceversa, tale rifiuto è inevitabile solo se procede da quel senso - che domina progressivamente non solo i pensieri ma anche le opere della civiltà occidentale e, ormai, dell’intero pianeta. (Ciò non significa che questa dominante inevitabilità stia davanti agli occhi di tutti i protagonisti della filosofia contemporanea: all’opposto, va invece rintracciata nel sottosuolo del nostro tempo.) Il senso greco dell’esser cosa domina la terra perché è ritenuto indiscutibile. Ma perché non può essere discusso? In 163 questa domanda traspare la dimensione ignota alla storia della terra. Tanto più ignota quanto più tale dimensione si mostra non come un semplice domandare, ma come negazione di quel senso e quindi come negazione di ciò sulla cui base è inevitabile che si pervenga alla negazione di ogni verità incontrovertibile. Tale dimensione è il destino (inteso secondo il senso richiamato nelle pagine precedenti). Il destino è la manifestazione del differire degli essenti tra loro e del loro non essere. Essi sono le differenze. Proprio per questo il destino è la manifestazione dell’impossibilità che «ciò che è», in quanto tale, non sia: è l’apparire della necessità che Tessente in quanto essente (e pertanto ogni essente) sia «eterno». Le implicazioni di questa affermazione conducono molto lontano. Ma il destino è tale solo in quanto è la dimensione in cui appare incontrovertibilmente il senso dell’incontrovertibile e Tincontrovertibilità di tale dimensione: non è la fede nella propria incontrovertibilità. Con una espressione che, qui, non può che rimanere astratta, formale, si può indicare il senso delTincontrovertibilità e della necessità del destino dicendo che esso è la dimensione la cui negazione nega sé stessa. Il destino è la negazione della fede, cioè dell’errare. L’«uomo» di cui si parla all’interno della terra isolata dal destino è anch’esso il contenuto di una fede. Con ciò si intende qualcosa di essenzialmente più radicale dell’affermazione che l’uomo erra: si intende che la fede nell’esistenza dell’uomo della terra isolata è un errare, un sogno. La terra intera, in quanto appare separata dal destino, è il contenuto del grande sogno in cui consiste la «vita» e che è il grembo di ogni fede. (Ma in quanto è un essente, anche il sogno è un eterno.) La vera essenza dell’uomo è il destino. Essa non «appartiene» ad alcuno degli abitatori, umani o 164 divini, della terra isolata. È all’opposto la terra isolata ad appartenere al contenuto che appare nel destino - giacché solo nel destino può apparire incontrovertibilmente l’esistenza dell’errare, della fede, del sogno, ossia della negazione del destino della verità. Discutere il destino è un modo di negarlo, sì che tale discussione nega sé stessa. Infatti «discutere» significa affermare una differenza: tra ciò che è discusso e ciò che in vari modi gli si oppone. E il destino - si è detto - è innanzitutto l’apparire del senso che compete alla differenza (ossia alla differenza dei differenti). Discutere e opporsi al destino è quindi un differirne. E proprio per questo è condividerne, più o meno inconsapevolmente, il tratto originario: l’affermazione della differenza. In questo differire - condividendo-ciò-da-cui-si-differisce si ripresenta l’indicazione, prima sommariamente richiamata, del senso dell’incontrovertibile, ossia Tesser la dimensione la cui negazione nega sé stessa. Discutere il destino è condividerlo; ma è anche negarlo, e pertanto è negare tale condivisione, sì che discutere il destino è negazione di sé stesso. È necessario affermare l’esistenza delle differenze non perché esse appaiono all’interno della fede e del sogno in cui consiste la terra isolata dal destino - e dunque, da ultimo, non perché si vuole che esse siano. È nel destino che appare la necessità della differenza dei differenti e la necessità della loro eternità e di tutto ciò che essa implica: nel destino - che già da sempre si apre al di là del percorso dove gli abitatori della terra pervengono inevitabilmente, sul fondamento della fede nel diventar altro, alla negazione di ogni verità e di ogni Ente immutabile. Discutere e opporsi al destino, quindi condividendolo, è pertanto solo il tentativo inconsapevole di condividerlo. 165 Giacché altro è la negazione del destino, che gli appartiene essenzialmente in quanto esso è la negazione della propria negazione (e questa negazione del destino non è un semplice tentativo di esser negazione); altro è la negazione che appare nella terra isolata dal destino e che se (a differenza dell’altra negazione) si rende visibile agli abitatori di questa terra, tuttavia, in quanto è una fede, è solo un tentativo di essere negazione del destino. Già il vivere è trovarsi nelle differenze - è, appunto, credere, aver fede di trovarvisi. Forse la differenza più antica è quella che la volontà è convinta di esperire tra i propri desideri e le resistenze da essi incontrate. Oggi la tecnica guidata dalla scienza moderna è il modo più potente con cui la volontà domina le differenze. Ma nemmeno la scienza e la tecnica, nonostante il loro rigore concettuale, riescono a porsi al di là della fede e pertanto della fede nell’esistenza delle differenze. La filosofia, sin dall’inizio, è la volontà di liberarsi dalla fede - quindi dal mito, che è uno dei contenuti più antichi della fede e che a lungo ha raccolto in sé e dominato ogni altra forma di fede (e ancora permane in molte parti del mondo). Eppure la filosofìa conserva il tratto centraledella fede prefilosofica nelle differenze: conserva, appunto, la fede nel loro diventar altro. Il pensiero filosofico conserva in sé la fede che le differenze siano anche un differenziarsi, e nel modo più radicale. I miti raccontano cosmogonie, teogonie, metamorfosi: le grandi forme del diventar altro. La filosofìa, però, intende essere il «vero» racconto. La sua grandezza sta nell’aver evocato una volta per tutte il senso radicale della «verità». La «verità» è il mostrarsi dell’assolutamente incontrovertibile. Si è poi trattato di stabilire il senso dell’«assolutamente incontrovertibile» e il 166 contenuto di cui è necessario affermare tale incontrovertibilità. Ma lungo la storia dell’Occidente la fede è prevalsa sulla stessa filosofia: oltre a essersi sviluppata come fede nel differenziarsi delle differenze, la filosofia si è sempre più consolidata come fede nell’incontrovertibilità della manifestazione («esperibilità», «osservabilità») di tale differenziarsi. «Verità» si dice in molti sensi anche perché molti ambiti della vita si presentano come «verità» - e per questo si parla di «verità» religiosa e morale, di «verità» degli istinti, degli affetti, dell’arte, di «verità» della filosofia e della scienza; e, complessivamente, di «verità» dell’esistenza della vita e della terra (quale appare nel suo essere isolata dal destino). Ma poiché queste «verità» non sono il destino della verità, esse sono tutte «verità» controvertibili - per quanto diversa possa essere la loro «plausibilità» («probabilità», «ragionevolezza», «potenza» e «coerenza» concettuale) e potenza - e raffermarle è sempre una fede, anche quando esse hanno fede nella propria incontrovertibilità. La «più plausibile» è lontana dal destino tanto qua nto la «meno plausibile»: infinitamente. (Questo, anche se è appunto all’interno di questa infinita lontananza che tuttavia si presenta come «inevitabile», nel pensiero del nostro tempo, la distruzione di ogni «verità» assoluta e di ogni Ente immutabile.) Si può chiamare «filosofia futura» il linguaggio che, invece, testimonia il destino della verità. Essa è futura perché se nel presente la sua voce è soverchiata dalle voci della terra isolata dal destino, tuttavia essa è destinata a mostrarsi come il linguaggio dei popoli. D’altra parte, testimoniando il destino, la filosofia futura si rivolge alla dimensione che, eterna, non è inclusa, ma - più antica del più lontano passato - include la totalità del tempo che viene affermato all’interno della terra isolata. 167 Tuttavia, le stesse voci che si levano nella terra isolata, e sono quindi negazioni del destino, vanno rendendo anch’esse «sempre più concreto» il contenuto del destino. Infatti vanno rendendo sempre più concreta quella negazione del destino che essenzialmente gli è unita, e in questo senso gli appartiene, e quindi senza la quale il destino non potrebbe essere. Ciò significa che la discussione del destino non è soltanto l’opporglisi che, si è detto, proprio perché intende differirne condivide (ossia è il tentativo inconsapevole di condividere) l’affermazione della differenza che in esso appare: tale discussione è insieme l’arricchirsi della negazione del destino, quindi è insieme l’arricchirsi, il concretarsi di esso. In questo senso tutto l’infinito contenuto della terra isolata dal destino - il contenuto che è, tutto, negazione del destino - va rendendo sempre più concreta la negazione del destino e quindi il destino stesso, in quanto negazione di tale negazione. D’altra parte, la terra isolata, in quanto fede originaria, è interpretazione, ossia un conferir senso a qualcosa. Ma, proprio in quanto esso è un «conferire», non gli può competere l’incontrovertibile necessità del destino, ed è quindi volontà di dar senso. È per tale conferimento di senso che, nella terra isolata che appare nel destino, certi eventi appaiono come linguaggi e come linguaggi che negano il destino. Tutte le negazioni del destino che appaiono nella terra isolata sono cioè contenuti dell’interpretare (cioè del sogno) che appare alfinterno del destino (e la cui esistenza è pertanto un tratto del destino). Gli eventi della terra isolata sono interpretati come linguaggi che, proprio perché testimoniano altro dal destino, ne sono la negazione. Che dunque esista la discussione del destino offerta dalla terra isolata, è qualcosa di voluto dall’interpretare (che appare nel destino). 168 Né può essere diversamente, perché se nella negazione del destino il destino apparisse, essa apparirebbe come negazione di sé stessa, e l’apparire di tale autonegazione sarebbe l’apparire stesso del destino. Se il destino appare è impossibile «esser convinti» della sua negabilità e controvertibilità. Lo si può discutere e negare, se ne può affermare la controvertibilità e negabilità solo in quanto il discuterlo e negarlo è un linguaggio che nella terra isolata testimonia soltanto essa - cioè un linguaggio che nel destino appare come qualcosa di evocato dall’interpretazione. Sono così evocati anche i linguaggi che, all’interno dell’interpretazione, mostrano di essere affermazione del destino, o di «condividere» il linguaggio che lo testimonia - e questo stesso linguaggio è evocato dall’interpretazione in quanto esso appartiene al passato, mostrandosi con la proprietà dell’«esser mio». Appunto a questo tipo di linguaggio (e non al mostrarsi del destino) si rivolge la discussione del destino nella misura in cui essa riesce a costituirsi - visto che essa riesce a costituirsi solo in quanto non si rivolge al destino, non ne contiene l’apparire, non lo «capisce»: solo in quanto non ha come contenuto il destino, nel quale la negazione-discussione di esso può apparire soltanto come negata. Diciamo dunque: nella misura in cui riesce a costituirsi la discussione del destino si rivolge al linguaggio che lo testimonia, perché non è non è un tratto del destino che tale linguaggio possegga tutte le condizioni richieste per essere «capito» dai linguaggi «altrui». 169 4. Ripresa L’uomo vive soltanto se crede - nel senso più ampio di questa parola, rispetto al quale la fede religiosa è soltanto una specificazione, per quanto eminente. Vivere è innanzitutto credere di esistere e di agire nel mondo. E ogni credere, ogni fede, è volontà. La volontà non vuole soltanto cambiare il mondo e realizzare il futuro, ma innanzitutto vuole che le cose presenti e passate siano ciò che essa crede che siano e siano state. La fede-volontà è interpretazione. Tuttavia credere-volere-interpretare è stare al di fuori della verità non smentibile. Credere è errare. Ma se l’uomo fosse soltanto un vivere, cioè un credere, allora sarebbe soltanto un credere anche l’affermazione che vivere è credere e volere - affermazione condivisa peraltro da gran parte della cultura non solo filosofica del nostro tempo. E invece - ma al di fuori del modo in cui è così condivisa - questa affermazione non è un credere, ma è una verità non smentibile. Ciò significa che l’uomo non è soltanto vita, cioè fede, ma è, originariamente, l’apparire della verità non smentibile. È all’interno della verità che - in modo non smentibile, incontrovertibile - appare la vita, cioè la fede, la volontà. La «verità» a cui si è rivolta l’intera storia dell’Occidente non è riuscita a essere la verità non smentibile - la verità che d’altra parte s’illumina nel fondo più nascosto di ogni uomo (e ovunque qualcosa appaia). A volte il linguaggio la indica; la chiama «destino della verità» - come appunto nei miei scritti viene chiamata. Ma, anche qui, che questo linguaggio sia l’agire di «qualcuno» - che qualcuno ne sia l’«autore», che tale linguaggio abbia il carattere dell’«esser mio» -, questo è daccapo uno dei contenuti in cui la vita può giungere a credere (come crede che l’uomo esista e agisca nel mondo e 170 che sia l’«autore» dei linguaggi che parlano del mondo). Il nichilismo - inteso nel senso indicato nei cosiddetti «miei» scritti - è la forma più potente della vita, cioè della fede, cioè dell’errare. Lascia le sue tracce anche in questi scritti, che sono andati via via liberandosene. D’altra parte sono il contenuto di una fede sia Vesistenza del linguaggio che conduce oltre il nichilismo, sia quella forma di vita che è il voler dire e quindi anche il voler dire in cui consiste quel linguaggio. Ciò che sta oltre il nichilismo è il de-stino della verità. Esso mostra anche in che senso non è contraddittorio che quella duplice forma di fede (cioè di non-verità) possa «condurre» al destino della verità, ossia a ciò che, in quanto tale, non è un «punto di arrivo», ma è il punto di partenza di ogni percorso. In un senso che è fondamentale i miei scritti hanno quasi subito guardato nella stessa direzione. Però il loro è stato un percorso, non un salto oltre il nichilismo. Il percorso è incominciato molto presto (nei primi anni Cinquanta), ma l’oltrepassamento del nichilismo è stato progressivo^ Anche ai miei scritti (sebbene, sembra, in misura consistentemente inferiore rispetto a molte altre scritture filosofiche) si può quindi muovere l’obbiezione, considerata nel paragrafo precedente, di essere uno sviluppo dove il linguaggio giunge a dire qualcosa che in qualche modo esso dapprima negava. E perché, allora, quel che ora esso dice non dovrebbe essere a sua volta negato da un suo ulteriore sviluppo? Tale obbiezione e la relativa risposta hanno in questo caso un peso particolare perché riguardano il rapporto tra il senso radicale della verità e il linguaggio che lo indica. I molti significati della parola «verità», comunque, non tolgono di mezzo la differenza tra la verità, intesa come sapere il cui 171 contenuto è l’assolutamente non smentibile e incontrovertibile - il destino della verità, appunto - e tutti gli altri sensi, nei quali, alla luce della verità così intesa, le diverse forme di «verità» appaiono invece come sapere il cui contenuto non è qualcosa che non possa essere in qualche modo negato. «Saperi», si è detto (si pensi ad esempio alle espressioni «verità morale», «verità dell’arte», «verità della fede», «verità del cuore», ecc.), ma anche intuizioni, emozioni, certezze, fedi, impulsi profondi, desideri, costumi, tradizioni ecc. La gran questione è la determinazione del contenuto dell’«incontrovertibile», ossia del «non poter essere altrimenti» (secondo la definizione aristotelica): il contenuto che lungo la storia dell’Occidente è stato qualificato come «verità» (« epistéme della verità») non è riuscito a essere l’assolutamente incontrovertibile. Rispetto all’incontrovertibile autentico, ogni modo di esperire le cose che differisca da esso è un modo del «controvertibile», cioè tien stretto un mondo che d’altra parte può sottrarsi alla stretta ed essere diversamente da come è - per quanto alto e nobile o per quanto profondo e preteso dalle viscere e dal cuore. L’incontrovertibile autentico è il destino-, e la struttura originaria del destino è il centro da cui si irradia la multiforme pianura infinita del destino. Nella sua essenza autentica l’uomo - ogni uomo - ne è l’eterno apparire (e tale affermazione è una forma a sua volta appartenente a quella multiforme infinità). La risposta all’obbiezione che si sta considerando in questo e nel precedente paragrafo, si fonda sul rapporto tra destino e «terra». Nel destino appare la «terra» - ossia tutto ciò che sopraggiunge nell’eterno apparire del destino ma appare nel suo esser isolata dal destino, appare cioè come il luogo originario del controvertibile - ossia del credere-volere - interpretare. AH’interno della terra isolata si crede inoltre che 172 il linguaggio non parli d’altro che delle cose della terra (lo si crede, senza poter sapere che sono le cose - umane e divine della terra isolata dal destino). E tuttavia nello sguardo del destino appare che nella terra isolata anche il linguaggio che testimonia il destino riesce ad affacciarsi; e appare che non è impossibile che tale linguaggio sia presente anche in linguaggi che sembrano essere - nelle interpretazioni del mondo che crescono e dominano alfinterno dell’isolamento della terra - le negazioni più perentorie dei tratti del destino. Quella forma di testimonianza del destino che sono i «miei scritti» sono eventi della terra isolata, che nello sguardo del destino appaiono alfinterno dell’interpretare, ossia della fede che costituisce l’isolamento della terra - appaiono all’interno dello sconfinato contenuto dell’isolamento. L’obbiezione che si sta prendendo in considerazione è una voce dell’isolamento, cioè del controvertibile. Che la testimonianza del destino sia uno sviluppo dove il linguaggio giunge a dire qualcosa che prima negava è un presupposto controvertibile. Ma nessun controvertibile è qualcosa che - in quanto configurantesi così come attualmente si configura - potrebbe venire a mostrarsi come incontrovertibile: quella configurazione è una negazione dell’incontrovertibile. Tutte le più incrollabili certezze della «vita» (che appaiono tutte nella terra isolata) - tutte le forme del controvertibile - sono alienazioni della verità del destino. La risposta all’obbiezione consiste appunto nel rilevare che tale obbiezione non solo è un presupposto controvertibile, ma si costituisce all’interno di quella forma estrema dell’alienazione della verità che è l’isolamento della terra. In relazione allo sviluppo del mio discorso filosofico - quale appare all’interno della terra isolata - dell’intera storia 173 isolata - sono peraltro complesse le articolazioni che conducono da La struttura originaria (1958) a La morte e la terra (Adelphi 2011), e nelle quali, tuttavia, il centro di quello scritto del 1958 permane lungo tutto il tragitto (e si era fatto innanzi già qualche anno prima). Nel tragitto, la «svolta» (così è stata chiamata) consiste nella sopraggiunta consapevolezza, per un verso, che quel centro richiede la messa in questione dell’intera storia dell’uomo e, per altro verso, che Yalienazione dell’uomo e, per altro verso, che Valienazione (del senso autentico della verità ) che domina tale storia lascia per un certo tempo le sue tracce anche neìYalone che nei miei scritti avvolge quel centro. L’alienazione del senso autentico della verità investe quindi anche il cristianesimo. Ma anche il «cristianesimo», come ogni altro evento «storico», appare all’interno dell’interpretare secondo cui si costituisce la terra isolata dal destino della verità. Che il cristianesimo esista e che degli uomini abbiano una «fede cristiana» è cioè il contenuto di una fede, della fede in cui consiste l’isolamento della terra. Nello sguardo del destino non è invece il contenuto di una fede l’esistenza di quella fede e dell’interpretare che compete all’isolamento della terra. L’esistenza di tutto ciò che chiamiamo «la nostra vita» è contenuto della fede interpretante. (Appare aH’interno di quella fede anche l’intera vicenda che è stata riassunta dal titolo redazionale di un mio libro: Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli 2001. Questo «scontro», che appare all’interno della fede della terra isolata, sussiste, sì, tra la testimonianza del destino della verità e quella grandiosa forma dell’alienazione della verità che è il cristianesimo e la sua configurazione storico-istituzionale, ma tale «scontro» è, innanzitutto e propriamente, la negazione, da parte del destino della verità, della «verità» di ogni contenuto della terra isolata - e quindi anche del 174 cristianesimo, in quanto appartenente a tale contenuto.) 175 5. Il destino e l’errare Il mondo è interpretato. Non nel senso che l’uomo, quando voglia, abbia la facoltà di interpretarlo. Anche gli uomini e i loro rapporti appartengono infatti al contenuto dell’interpretazione. La quale, dunque, pur essendo volontà interpretante, non è a disposizione dell’uomo, ma dispone l’uomo e le cose del mondo secondo gli ordinamenti da essa stabiliti e modificati. È l’interpretazione originaria. Ma l’interpretazione non è verità: è fede, volontà, ossia errare. Il mondo in cui l’uomo crede di vivere è errare. Tuttavia l’interpretazione appare aH’interno della verità. Non delle verità del mondo - che sono a loro volta form e particolari di interpretazione -, ma di ciò che nei miei scritti è chiamato «destino della verità», o semplicemente «destino». L’interpretazione è errare perché separa il mondo dal destino. La «terra isolata» è ciò che appare in questa separazione. Anche le teorie dell’interpretazione, avanzate dalla cultura del nostro tempo, appartengono alla terra isolata. L’interpretazione, che evoca i propri contenuti sul fondamento di regole e di criteri (di cui essa è più o meno consapevole), può adottare (cioè volere) quell’insieme di regole e di criteri in base ai quali essa può affermare che l’uomo esiste come molteplicità di individui umani e che gli uomini interpretano il mondo in modi diversi e con un diverso grado di coerenza rispetto alle regole e ai criteri adottati. Ma anche e innanzitutto il destino della verità vede la differente coerenza delle interpretazioni evocate dall’interpretazione originaria. Che la «storia» dell’«uomo» sia storia del mortale, cioè della fede che, in modi estremamente diversi e complessi, le cose e l’uomo stesso diventano altro da ciò che essi sono e quindi muoiono via via ciò che sono stati, fino alla morte di tutto ciò che essi possono essere, questa è 176 una interpretazione; che però si presenta come la più «coerente», sino ad ora, rispetto a ogni altra interpretazione di quella «storia» (la cui stessa esistenza è un contenuto interpretato). Non è escluso cioè che - ad esempio in seguito a una svolta radicale delle discipline storiche, linguistiche, antropologiche, psicologiche ecc., si imponga una nuova forma di interpretazione, per la quale l’uomo non ha mai creduto che le cose siano un diventar altro. Sino a che quella svolta non si manifesta, l’interpretazione «più coerente» è tuttavia in grado di mostrare quell 'ulteriore coerenza, per la quale i diversi modi di pensare e di vivere il diventar altro delle cose è esso stesso un mostrarsi sempre più coerente a sé stesso, lungo il percorso che conduce dall’esistenza guidata dal mito all’esistenza guidata dalla «verità» e, in seguito, dalla distruzione della «verità» (ossia della «verità» che appartiene alla terra isolata) alla civiltà della tecnica. Il destino della verità mostra che questo è il percorso dove YErrare estremo perviene alla propria estrema coerenza; ma è anche questo stesso percorso, in quanto isolato dal destino e dunque con le proprie forze, a mostrare il proprio diventar sempre più coerente alla fede nel diventar altro, dalla quale tale percorso si sprigiona. Non potendo sapere di essere l’Errare, l’Errare stesso provvede cioè a rendere sempre più coerente (e, dal suo punto di vista, sempre più «vera») la propria fede nel diventar altro, che all’inizio della storia dell’Occidente si presenta in forma ontologica, ossia come convinzione che le cose del mondo, corruttibili, escono dal loro non essere (dal loro esser nulla) e vi ritornano. E poiché questa convinzione - se il linguaggio si libera daH’incantesimo della terra isolata - è convinzione che l’essente in quanto essente sia niente, la storia dell’Occidente è storia del nichilismo - in un senso essenzialmente diverso da 177 quello affermato da Nietzsche e Heidegger. Innanzitutto, l’intera storia della filosofia si costituisce il proprio costituirsi come sistema : non in senso hegeliano, come sistema della «Verità», ma come sistema dell’Errare. Il compito gigantesco da cui è atteso il linguaggio che sul fondamento del destino mostra il nichilismo dell’Occidente è di allargare a tutte le dimensioni attraverso le quali si dispiega l’Occidente l’analisi in cui appare il suo carattere di sistema : allargarla alla dimensione religiosa, artistica, economica, politico-giuridica, a quella della historia rerum gestarum e delle res gestae, oltre che, appunto, a quella delle diverse forme della scienza in quanto sapere della natura e dell’uomo e in quanto sapere logico-matematico. Anche in queste dimensioni è possibile scorgere il percorso che rende sempre più coerente e visibile il nichilismo che in modo specifico le avvolge e sorregge, e la sua tendenza all’autodistruzione. La dimensione filosofica del nichilismo anima tutti gli altri luoghi dell’Occidente e ormai del pianeta - e tanto più quanto più essa è ignorata sì che innanzitutto all’esplorazione analitica del suo articolarsi dev’esser data la precedenza. Per indicare l’Errare è necessario esserne al di fuori: solo in quanto il destino della verità è già da sempre aperto qualcosa può apparire come l’Errare - che d’altra parte non è qualcosa di accidentale rispetto al Non Errare. Lo smascheramento del nichilismo non è una semplice «confutazione» di un errore che, esercitando una maggior attenzione e perspicacia, si sarebbe potuto evitare. La grandezza della verità richiede la grandezza dell’Errare e dell’errore. E la cura per la potenza delle configurazioni storiche del pensiero filosofico, per la loro inevitabilità - cioè per la loro capacità di andar oltre le forme storiche di volta in volta raggiunte, proprio perché sono queste stesse forme a richiedere di essere oltrepassate senza peraltro riuscire a soddisfare questo loro intento più 178 profondo, è un modo di pensare la filosofia che troppo presto è stato messo in disparte col pretesto che Hegel ne aveva abusato. Recuperandone la forma (e non il contenuto, si è già detto), si dovrà comunque distinguere il senso che l’inevitabilità del processo storico presenta in quanto considerato alfinterno della logica dell’Errare e il senso di tale inevitabilità in quanto appare nello sguardo del destino. Al culmine della propria coerenza - e dunque nell’incombere della propria distruzione - il nichilismo si presenta come civiltà della tecnica. Come ho richiamato più volte, l’essenza della tecnica non è infatti il suo carattere scientifico-matematico (che peraltro, oggi, non si scorge come potrebbe venir sostituito da una concettualità più potente - anche se questa insostituibilità è una situazione di fatto, un fatto grandioso che ha alle proprie spalle tutti i successi della scienza). L’essenza della tecnica è la messa in opera del rapporto mezzo-fine: l’organizzazione di mezzi in vista della produzione di scopi, e propriamente di quello scopo che è l’incremento indefinito della capacità di produrre scopi. Se qualcosa riuscisse a servirsi della tecnica - se cioè riuscisse ad assumere la tecnica come mezzo, costituendosi pertanto come il supremo dominio e come la potenza suprema, tale qualcosa sarebbe la tecnica autentica, cioè la tecnica più potente. Infatti già ora la tecnica assume e usa come mezzo non soltanto le forze che si illudono di servirsi di essa come mezzo, ma si serve anche di sé stessa o di una dimensione parziale di sé stessa. Ormai (cioè dopo la fine di quell’illusione), che qualcosa si serva della tecnica significa che la tecnica, ossia ciò che oggi si presenta come la forma più potente del divenire, si serve e usa sé stessa o una sua dimensione parziale. Poiché la volontà di accrescere all’infinito la propria potenza è lo scopo della tecnica, questa volontà è la forma «trascendentale» del divenire, che 179 servendosi di mezzi si serve anche di sé e delle forme particolari, «empiriche» del divenire. Detto in modo sommario: si serve di sé, in quanto potenza massima attualmente realizzata, per produrre sé in quanto potenza ancora maggiore - e servendosi di sé e usando sé stessa si serve e usa anche le forme di volontà di potenza che credono ancora di poter guidare la tecnica (e lo credono nella misura in cui la tecnica non riesce ancora a sentire la voce dell’essenza, peraltro tendenzialmente nascosta, del pensiero filosofico del nostro tempo, che mostra l’impossibilità di ogni limite assoluto alla volontà di accrescere la propria capacità di realizzare scopi). La tecnica - che può essere mezzo solo in quanto si propone innanzitutto come lo scopo supremo del divenire - è ormai la forma fondamentale del divenire, rispetto alla quale il divenire «naturale» si presenta come routine, staticità che tale volontà va sempre più sciogliendo. La civiltà della tecnica è, così, il culmine della coerenza del nichilismo (anche se ancora resta da esplorare, da un lato, il rapporto tra i contrapposti modi in cui Leopardi e Nietzsche intendono la forma trascendentale della volontà che si fa avanti alla fine dell’età della tecnica, e, dall’altro, il rapporto tra questi modi e l’attualismo gentiliano). 180 6. Il destino e la Gloria L’anima dell’Occidente: la persuasione che le cose e gli eventi - gli essenti - escano dal niente e si annientino. Ciò significa che annientati sono niente, e che prima di uscire dal niente sono niente. Ma questa persuasione è la Follia essenziale, la più profonda che possa manifestarsi nel mondo dell’uomo e nel Tutto. È infatti la persuasione che un essente, un no n-niente, divenendo, sia, in quanto essente, niente (come passato e come futuro). In forme diverse, la Follia domina la storia della terra, ma al di fuori della Follia appare eternamente l’eternità di ogni essente: di ogni evento, di ogni stato del mondo, di ogni essente che non sia uno stato del mondo. Il «mantenersi al di fuori della Follia essenziale» non è una semplice fede, un mito, un desiderio vano, un dono divino, una «filosofia», e non è nemmeno un atteggiamento scientifico: non perché non riesca a raggiungere il rigore delle scienze della natura e delle scienze logico-matematiche, ma perché, nel suo significato autentico, il «mantenersi al di fuori della Follia» ha un «rigore», un’«incontrovertibilità», una «stabilità», e dunque una «verità» e «necessità» essenzialmente più radicali di quelli che competono al sapere scientifico, e a ogni altra forma di «sapere» e di «coscienza». La negazione di ogni verità assoluta a cui è pervenuta la coscienza critica del nostro tempo è conseguenza inevitabile della persuasione che le cose e gli eventi siano divenienti, cioè possano uscire dal nulla e annientarsi. Ma in quanto appare, nella Non-Follia, la Follia di tale persuasione, quella conseguenza non è più inevitabile; cioè non si può impedire, al pensiero che si mantiene nella Non-Follia, di essere la verità e necessità essenzialmente più radicale di ogni «verità» e «necessità» della conoscenza scientifica, e di ogni altra forma di conoscenza. «Destino della necessità» si può 181 chiamare questo senso estremo della verità e della necessità, che si mantiene eternamente presso di sé. Il destino della necessità è l’essenza autentica dell’uomo: come apparire eterno degli eterni, l’uomo è infinitamente altro dall’essere un che di effimero, preda del tempo e del nulla, più o meno raggiunto dalla grazia di un Dio o di un Salvatore. Nella sua essenza autentica l’uomo è il luogo eterno che accoglie la terra, ossia tutto ciò che sopraggiunge - e tutto ciò che sopraggiunge è il corteo degli eterni al quale appartengono non solo gli «individui umani», ma la stessa Follia essenziale, cioè la stessa fede che gli essenti possano uscire dal niente e ritornarvi. Stando aH’interno della Follia, gli uomini chiamano «storia del mondo e dell’universo» il sopraggiungere degli eterni, ossia la terra. Al di fuori della Follia, la storia del mondo e dell’universo non è la produzione e la distruzione degli essenti, ma è il comparire e lo scomparire degli essenti, cioè degli eterni. La morte appartiene alla manifestazione degli eterni, è un evento interno al cerchio eterno dell’apparire degli eterni in cui l’uomo consiste. La morte non travolge e non disperde l’uomo, ma è l’uomo a comprenderla in sé stesso come parte della totalità in cui egli consiste. Da sempre e per sempre, quel cerchio è l’apparire della verità del destino. La terra sopraggiunge nel cerchio del destino - che dunque è una dimensione finita. L’uomo è sì l’apparire infinito del destino della verità, ossia l’apparire di tutto ciò che è, nella sua verità assoluta - e dunque è l’apparire in cui non può sopraggiungere alcunché (appunto perché esso è l’eterno apparire di tutto) ma l’infinito rimane l’inconscio del finito: nell’uomo, in quanto luce finita del cerchio del destino, l’eterna luce infinita è destinata a rimanere nascosta, pur affacciandosi, con la terra, 182 in quel cerchio. Come eterno oltrepassamento di tutte le contraddizioni del finito, l’apparire infinito del destino è la Gioia, l’inconscio dell’uomo, in cui egli è destinato a inoltrarsi, all’infinito. Ma che ne sanno, intanto, gli «individui umani» - o i «popoli» - di tutto questo? Nulla. Vedono in eterno la verità, ma i loro linguaggi tacciono di ciò che si mostra nella piena luce e parlano soltanto di ciò che sopraggiunge; e la terra appare come la dimensione in cui la volontà dell’uomo ha la potenza di trasformare e dominare cose ed eventi. «Due anime abitano nel nostro petto»: l’apparire del destino della verità e la separazione della terra da tale apparire. Il mondo in cui crediamo di vivere - il mondo del dolore e della morte - è il volto che la terra viene a mostrare nel suo essere così separata e isolata. Ma intanto, prima del tramonto della Follia l’uomo è rattrappito. Nelle sue certezze, innanzitutto. È infinitamente di più di quel che crede di essere. Rattrappito, perfino quando crede di essere Dio o il figlio di Dio, o che la sua anima sia immortale o che anche il suo corpo possa risorgere. È rattrappito anche nei suoi desideri: non perché debba desiderare di più, ma perché l’uomo desidera quando non è consapevole della propria infinita ricchezza e della necessità che tale ricchezza gli si faccia innanzi lungo un percorso a sua volta infinito al quale, dunque, si addice la parola «Gloria». E, tutto questo, non certo perché sia io o tu o un popolo o un Dio a dirlo, ma perché appare, non smentibile, nel più profondo di ognuno di noi. Già da sempre, eterni, siamo oltre qualsiasi Dio e qualsiasi forma dell’esser uomo. L’isolamento della terra dal destino della verità è il fondamento, la radice più profonda della Follia essenziale. L’isolamento della terra non è una «colpa», una «decisione» 183 dell’individuo, ma è esso stesso destinato all’uomo in quanto cerchio finito del destino. Solo all’interno della terra isolata può apparire qualcosa come «individuo umano», «popolo», «società». Sul fondamento della terra isolata si fa innanzi, nell’apparire, la Follia essenziale e la storia dell’Occidente, che è ormai storia del pianeta, destinata a culminare nella civiltà della tecnica. Quali sentieri la terra è destinata a percorrere nel cerchio finito dell’apparire? Il suo isolamento dalla verità è insuperabile? È destinata ad abbandonare quel cerchio? Quali spettacoli sono dunque destinati a mostrarsi in quel cerchio durante la «vita» e dopo la «morte» - che, comunque, non può essere l’annientamento di ciò che dell’uomo è andato via via apparendo? Nella sua essenza autentica l’uomo non solo è l’eterno apparire degli eterni e degli eterni della terra, ma è la luce che si allarga senza fine sulla distesa degli eterni: nel senso che ogni eterno che sopraggiunge (ossia ogni configurazione della terra) è destinato a essere oltrepassato dal sopraggiungere, nell’apparire, di altri eterni; sì che anche l’isolamento della terra - che tuttora domina i pensieri e le azioni dei mortali - è destinato al tramonto; e la Gioia, pur rimanendo inesauribile, è destinata a mostrarsi libera dal contrasto con la terra isolata. L’essenza autentica dell’uomo, come luce dell’apparire degli eterni, che si allarga senza fine, è la Gloria dell’uomo. L’uomo è destinato a questo rapporto tra la Gioia e la Gloria - che dunque non è un premio concesso a chi abbia usato «bene» la propria «volontà libera» -. È necessità che, dopo il tramonto dell’isolamento della terra - e dunque dopo il tramonto della «vita» e della «morte», della «volontà» e dell’«abulia» - l’uomo sia l’inesauribile apparire della libertà della Gloria dalla terra isolata. 184 Tale libertà non è oblio della terra isolata: tutto ciò che nel cerchio dell’apparire è oltrepassato è insieme totalmente conservato in quel cerchio. Se il dolore, che come ogni essente è anch’esso eterno, non fosse eternamente e totalmente conservato nel cerchio delfapparire, il suo oltrepassamento sarebbe una semplice immagine, un’astratta rappresentazione (cfr. E.S., La Gloria, Adelphi 2001). Poiché la «Gloria» - il dispiegamento infinito degli eterni nel cerchio finito delfapparire - è la Gloria dell’uomo, per un verso essa si dispiega nel cerchio in cui appare questa «mia» fede di essere una forza, «individuo» capace di trasformare consapevolmente le cose; per altro verso la Gloria è il dispiegarsi, in quel cerchio, e in ogni altro cerchio, degli infiniti altri cerchi finiti. In ogni uomo è destinata cioè a sopraggiungere, in carne e ossa, la totalità infinita dell’umano e dunque la totalità infinita dei modi in cui la terra è stata e sarà isolata. Questo è il «venerdì» santo che precede la «pasqua» della terra libera dall’isolamento. Si dice, di Cristo: Nonne oportuit haec pati Christum et ita intrare in gloriam suam? (Le., 24, 26-27). Ma volendo trasformare la terra per prendere su di sé il dolore del mondo, egli «vuole» qualcosa che invece è necessità che accada in ogni cerchio delfapparire, e il cui accadimento è richiesto con necessità dalla destinazione di ogni cerchio alla Gloria, oportet haec pati in Gloria - e nella Gioia. * Cfr. su questo punto, per restare agli studi più recenti, i saggi di Leonardo Messinese L’apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino , Mimesis 2008; Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino , ETS 2010; Né laico, né cattolico, Dedalo 2013; e i saggi di Nicoletta Cusano, Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana 2011; Capire Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla, Mimesis 2011. A Messinese interessa valorizzare soprattutto il mio scritto del 1958 La struttura originaria (La Scuola) - e in generale la prima fase del mio discorso filosofico - e gli interessa valorizzarla anche perché, a suo avviso, essa sarebbe compatibile con la fede cristiana; alla Cusano interessa invece sottolineare quanto del nichilismo permanga in quella prima fase di oltrepassamento del nichilismo, e, questo, per valorizzare il modo in cui gli scritti successivi si liberano da quella permanenza: ma le interessa 185 anche sottolineare la differenza essenziale tra il modo in cui il nichilismo permane in quella prima fase e tutte le forme di nichilismo che invece non compiono il primo passo, compiuto appunto in tale fase, che è quello decisivo, perché spinge inevitabilmente verso tutti gli altri. 186 Sezione seconda Storia dell’Occidente e filosofia 187 I Alle origini dell’Occidente. Due colloqui 1. Eschilo- Eschilo (E): Conosco quel che tu scrivi di me... che oltre a essere uno dei più grandi poeti sono anche uno dei più grandi filosofi che i mortali abbiano mai avuto... e che proprio perché la filosofia è in me così grande può esser divenuta in me così grande la poesia... Ma... c’è anche dell’altro... Interlocutore (I): Se tutto questo - ed è molto! - non ti può bastare... e non certo perché tu sia insaziabile... E. Certo! Tu mi metti in testa al grande Corteo della tradizione dell’Occidente. Ma poi, questo Corteo lo vede fermarsi (o muoversi per inerzia)... e credi che sia sorpassato da un più potente Corteo : quello della civiltà del vostro tempo: la civiltà della «morte di Dio», come Nietzsche si esprime, la civiltà della tecnica... Non è così?... I. In qualche modo sì... ma, tu sai bene, ciò che più conta non è quel che si dice, ma la verità di quel che si dice... e la più gran questione, a partire dai Greci, è il senso della «verità»... Quanto al semplice dire, anche i bambini sono capaci oggi di dire che Dio è morto... E. ... e tu credi invece che si possa sapere il vero perché di questa morte! I. Ma se ti fermi qui non ci facciamo capire... E. Lo so... Perché poi, a tuo avviso, tutti e due quei Cortei di cui ho parlato, e che pure sono in lotta tra loro, sono uniti da una stessa cadenza... o, se preferite, dalla stessa Anima... Come se la loro marcia fosse scandita dallo stesso Canto... (che però richiede orecchie fini, tu dici, per essere udito)... e per te quest’Anima e questo Canto li accomuna più di quanto 188 la loro inimicizia li divida...: come se celebrassero un rito comune... che però è inviso al Cielo... (chiamiamolo così). I. Sì... purché ci si intenda sulla parola «Cielo»... Non la uso mai... ma forse, in questo nostro veloce colloquio potrebbe servirci... E. ... Ma vedi allora che non mi può bastare il riconoscimento che tu dai della mia grandezza poetica e filosofica! Ti sembra che mi ci trovi bene alla testa di un Corteo che, per quanto potente, non solo è superato da un altro ancora più potente, ma che insieme a quest’altro non ottiene il favore del Cielo? L Dipende da questo «Cielo» che le cose vadano così. Cioè né da me né da te... Ma, intanto, su questo possiamo esser d’accordo: che il Cielo di cui stiamo parlando non può essere il cielo di Dio (non si dice che Dio sta «nell’alto dei cieli»?)... ma nemmeno essere quello degli atei, che riabbassano il Cielo al soffitto delle loro case... Non credo che avremo tempo di parlare del significato del «Cielo» inaudito al quale ci si deve riferire. Ma ora lasciamo dire questo... E. Certo! E ... che se non ottenere il favore del «Cielo» significa essere nell’Errore, l’Errore è però prezioso come la verità... Soprattutto quando è grande come quello dei due Cortei di cui si parlava... Lo dico, un po’ nel senso in cui quell’altro grande che è Emanuele Kant osservava che senza la resistenza dell’aria le colombe non potrebbero volare... E. ... Intanto siamo al mio «Cielo»: il «Cielo» di Dio... che d’altronde non è nemmeno il cielo di Cristo... e non solo perché, quando io scrivevo, Cristo non era ancora nato... L Sì, tu ti rivolgi a Dio - ecco le tue parole - «con un sapere che sta e non si lascia smentire»; e questo sapere non può 189 essere la fede cristiana né alcun’altra fede. Avvolto nello splendore della tua poesia, è tuttavia il «Dio dei filosofi» e tu sei stato uno dei primi re del pensiero ad affermarlo. La grandezza di ciò che tu hai visto non poteva essere espressa che da un linguaggio potentemente nuovo, che ha attratto gli amanti della poesia ma ha fatto perdere di vista che lì stava nascendo la filosofìa, la più grande delle avventure del mortale... E. Di solito, quando si dice «Dio dei filosofi» si pronuncia questa espressione con un accento di più o meno larvato rimprovero, mentre il volto e la voce si rischiarano, quando a codesto Dio si contrappone il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» e, soprattutto, il Dio di Gesù... I. Ma il rischiararsi di quei volti e di quelle voci è poca cosa rispetto al chiarore di cui parli tu quando ti riferisci al «sapere che sta e non si lascia smentire»! E. È il chiarore della filosofia. Quando pronuncio l’espressione phrenòn tò pàn intendo parlare del «culmine della sapienza»... (come tu traduci) ossia di ciò che noi Greci eravamo in procinto di chiamare «filosofia». E il «culmine della sapienza» è il «sapere che non si lascia smentire»... Stando su quel culmine e in quel sapere, si abita en phàei, «nella luce», nel vero chiarore... I. Sì, nella tua lingua «luce» si dice phàos e la parola «filosofia» contiene le parola sophia... che è costruita sulla parola phàos, e dunque suona come se dicesse: grande luce... E. ... Certo: quel «so» di so-phia è un prefisso che rafforza, intensifica e, appunto rende grande il significato della parola da cui è seguito, cioè, in questo caso, il significato della parola phàos. I. ... e quindi si deve dire che philo-sophia significa «aver cura per ciò che sta nella grande luce, al culmine della luce»... 190 La cura per qualcosa che è essenzialmente più radicale del rigore del sapere scientifico e della dedizione di ogni fede. E. ... e che per questo, ma solo per questo, può essere detto «sapienza»... Forse ora si potrebbe incominciare a capire ciò che tu affermi del modo in cui io intendo la «sapienza»: quel che sta al culmine della luce è «il sapere che sta e non si lascia smentire»... L Ho dovuto usare quest’ultima lunga espressione per tradurre quel che tu esprimi rapidamente quando affermi di rivolgerti a Dio... E. Sì, io dico: rivolgersi a Dio pant’epistathmómenos ... che tradotto alla lettera nella vostra lingua significa «ponderando bene tutte le cose»... Ma tradotto così alla lettera dice ben poco... Se si è capaci di scendere nel senso profondo di queste mie parole greche, bisogna intenderle nella direzione in cui tu ti sei messo... In esse risuona una grande parola: la parola epistéme che alla lettera vien tradotta con la parola «scienza», ma che nel suo significato originario significa «lo stare» (- stéme), dove lo stante non si lascia scuotere dalle forze che vorrebbero scuoterlo, abbatterlo e smentirlo. I. Ti ringrazio per quanto hai detto di me... A questo punto sarebbe forse il caso che tu richiamassi e facessi sentire quel tuo «Inno a Zeus» - l’«Inno a Dio» - che, parlando del culmine della sapienza, sta esso al culmine della sapienza che guida la tradizione dell’Occidente... QuellTnno è il contesto in cui compare la rapida e potente espressione che ho tradotto con «il sapere che sta e non si lascia smentire»... E. Ne ricorderò solo una parte... e non nella mia lingua, ma nella traduzione che tu nei hai dato, e con qualche ritocco... «Se il dolore, che getta nella follia, dev’essere cacciato 191 dall’animo con verità, allora, soppesando tutte le cose con un sapere che sta e non si lascia smentire, non posso pensare che a Zeus [...] che ha vinto tre volte». Chi ha la mente protesa verso Zeus e annuncia la sua vittoria perviene al culmine della sapienza. Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito che il sapere acquisti potenza sul dolore. Quando, invece del sonno, goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda il dolore, allora, anche senza che lo vogliano, sopraggiunge nei mortali un sapere che salva. Questo è un dono dei dèmoni che siedono potenti sul sacro seggio di Zeus. I. Quanto tempo occorrerebbe per portare alla luce la grandezza di queste parole!... Bisognerebbe mostrare, innanzitutto, che Zeus è per te ciò che la filosofia, nascendo, chiama «Dio»... e che tu sei tra i pochi che la fanno nascere... E. Zeus «ha vinto tre volte»: ha vinto per sempre la propria mente... quindi è il «totalmente essente», come tu hai tradotto l’espressione pantelés, che compare nella mia tragedia Le supplici ... I. ... e, ancora, bisognerebbe mostrare che tu incominci a intendere la morte come l’andare nel nulla e dunque a pensare quel significato radicale del nulla che prima di Parmenide, di te e di pochi altri era rimasto nell’ombra... e portandolo alla luce avete fatto sì che gli uomini incominciassero a nascere e a morire in modo diverso da prima: nel modo estremo e più terribile... E. Morire sapendo di andare nel nulla dal quale «non c’è ritorno» è infatti qualcosa di essenzialmente diverso dalla morte di chi, la morte, non la può vedere legata al nulla perché ancora non sa nulla del nulla... I. All’estremo opposto di Zeus che «ha vinto per sempre» la propria morte e per questo è «totalmente essente», c’è il 192 panóles, la parola con la quale tu indichi Tesser totalmente distrutto» di chi è spinto nel nulla dalla morte... E. Eppure... eppure nel mio «Inno a Zeus» dico che «il dolore che getta nella follia deve essere cacciato dalVanimo con verità»...! e il dolore getta nella follia quando lo si patisce come messaggero della morte!... Nel mio Inno io indico anche il «Rimedio»!... il Rimedio contro la follia in cui getta l’angoscia della morte!... il «Sommo Rimedio»! I. Sì, tu hai indicato il «Rimedio»... Di più: alTinterno della storia dell’ epistéme tu sei stato il primo a indicarlo a chiare lettere... Di più ancora! Il tuo «Rimedio» è il Riparo sotto il quale si sono rifugiati quasi due millenni e mezzo di storia dell’Occidente... e si semplificano troppo le cose dicendo che il tuo Rimedio è Dio!... E. Certo, si semplificano troppo, perché anche nel mio Inno dico che... «con verità» è necessario cacciare la follia del dolore... «con verità»!... cioè con un «sapere che sta e non si lascia smentire»... e questo sapere non può essere nessuna sapienza che il mito ha prodotto, e nessuna fede, nemmeno quella che per chi è venuto dopo di me è stata la fede cristiana o la fede nella tecnica del vostro tempo! Inchiodato dalle arti, cioè dalla tecnica del falso Zeus del mito e della fede, non è forse il mio Prometeo, a urlare: «La tecnica è troppo più debole della Necessità»? Sono io a pronunciarle, queste parole, perché la Necessità è proprio ciò che si manifesta alTinterno del «sapere che sta e non si lascia smentire», e che nel mio Inno chiamo sophronéin, cioè «sapere che salva», come tu hai tradotto... L Siamo al centro del tuo pensiero e del pensiero della tradizione occidentale: la verità salva - voi dite. Nel tuo Inno lo metti in piena luce. E. «Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito che il 193 sapere acquisti potenza sul dolore» e questo è il sapere che sta e non si lascia smentire. I. Ha in mente te e gli altri grandi filosofi greci, Gesù, quando dice: «La verità vi farà liberi»! Liberi da che cosa se non dalla incapacità di sopportare il dolore e la morte...? E. ... solo che in lui la verità è ormai diventata la verità della fede, la volontà che un sapere sia verità perché è lui a rivelarlo... I. ... mentre la filosofia ha cura per il sapere che mostri da sé stesso di non poter essere smentito... E. Su questo pensiero la filosofia si è curvata per millenni... L ... si tratta di aver cura per la luce che non inganni e della potenza che può essere suprema, divina, supremamente liberatrice solo in quanto essa appaia in questa luce... E. «Saldi rimedi»; saldi, cioè veri, invocano le Erinni alla fine della mia Orestea... Su questo pensiero la filosofia si è curvata per millenni... L ... e si è spezzata... e questo è insieme lo spezzarsi dell’intera civiltà occidentale, e ormai è la spezzatura del mondo... E. Tu vuoi dire che si è spezzata nei due Cortei di cui parlavamo all’inizio?... il Corteo della tradizione, della verità liberatrice, del divino... L Sì, e il Corteo del tempo presente, dove invece si scorge l’inesistenza di ogni «Rimedio», di ogni «Riparo» dalla nullità dell’uomo. E. Sì, il mio Corteo ha pensato (e per primo) che le cose e i mortali sporgono provvisoriamente dal nulla, ma ha anche pensato che dall’angoscia in cui spinge il pensiero della nostra nullità, ci si può liberare solo con la verità che sta, non smentibile, e mostra il divino che ha vinto per sempre la 194 morte e in cui in qualche modo restano salvate dal nulla tutte le cose mortali... I. ... ma una volta che il tuo Corteo ha evocato il canto terribile della nullità delle cose era inevitabile che il controcanto del Rimedio e della Salvezza dal dolore e dal nulla si rivelasse senza forza e si spegnesse, e si facesse innanzi l’altro Corteo, che in mille modi e anche contrastanti canta lo stesso Inno, diverso al tuo, ma figlio legittimo del tuo: l’Inno del nulla, della incapacità dell’uomo di salvarsi dal nulla... è inevitabile che il tuo Corteo sia seguito da quest’altro... E. ... ma tu dici anche questa inevitabilità non è a portata di mano e che molti cantori del mio Corteo credono che il mondo debba essere guidato da loro... I. Sì, lo «credono»... si illudono... perché sotto la cenere di Dio c’è il fuoco del nulla. Leopardi canta così: ... a noi presso la culla immoto siede, e su la tomba, il nulla e questo canto finisci col sentirlo anche al di sotto delle voci delle «magnifiche sorti e progressive» della tecnica... E. ... che tenta di allontanare il più possibile il dolore e la morte. L La tua sentenza che «la tecnica è troppo più debole della Necessità» deve essere rovesciata: oggi appare che la Necessità è troppo più debole della tecnica : considera allora quanto essa (cioè il canto del tuo Corteo) sia debole, se la tecnica stessa che è molto più forte è poi del tutto impotente rispetto al nulla che attende ogni cosa! E. Ma, poi, tu sostieni che l’anima più profonda di quei due Cortei è la stessa (l’abbiamo accennato all’inizio!). Mi sembra che tu voglia dire che essi intonano entrambi l’Inno del nulla, e che il mio Corteo si illuda, dopo averlo cantato di poter 195 cantare anche quello a Zeus... I. Sì, ma ora è tempo che il nostro colloquio si concluda... E. ... e sostieni anche che tutti e due i Cortei e tutti e due gli Inni non riescano a ottenere il favore di quel Cielo di cui parli tu e che sarebbe abissalmente diverso sia da quello degli amici sia da quello dei nemici di Dio... L ... sì, ma ora dobbiamo salutarci... E. ... e in quel Cielo appare la Necessità autentica, non quella che si fa vincere dalla tecnica, ma la Necessità che tutto sia eterno - tutto: ogni gesto, ogni stato, ogni cosa, ogni vicenda, anche i due Cortei, e anche i due Inni... I. ... questo Cielo non è una dottrina che passi dalla testa di uno a quella degli altri. E. ... risplende in ognuno di noi anche quando non ce ne accorgiamo... I. Ti ringrazio di aver accennato a queste cose.. E. ... arrivederci, allora! I. Arrivederci! 196 2. Parmenide 1 Interlocutore (I): Anche tu, gli uomini, li chiami «mortali». Della loro mente dici che è plaktón. Dovrebbero riflettere a lungo su questa parola. Di solito la si traduce con «errante». Non è sbagliato - purché si sappia che cosa spinge la loro mente a errare. Parmenide (P): Infatti. Sono spinti a errare perché credono che 1’esistenza della nascita e della morte, cioè l’uscire dal nulla e il ritornarvi, sia verità. Lo dico continuamente nel mio Poema. Ad esempio nei versi 39-40 di quello che voi chiamate «frammento 8». I. Ma quando dici che la mente dei mortali è plaktón rendi ancora più profondo il senso dell’errare che viene espresso da questa parola. Infatti plaktón, che tu riferisci alla mente dei mortali (fr. 6), prima ancora che «errante», significa «colpita». E chi è colpito patisce. Il colpo fa soffrire. Spinge nel dolore e nell’impotenza. Si è impotenti quando non si riesce a ottenere ciò che si vuole. Quando ciò accade si è preda del dolore, e allora si vacilla, si va di qua e di là, si va errando, appunto. La mente dei mortali è «errante» perché è «colpita». È colpita dalla convinzione non vera che nascita e morte esistano. E, preda di questa convinzione, patisce. P. Sì, con la parola amechame ho indicato appunto questa impotenza, angustia, mancanza, questo essere avvolti dal dolore quando non si segue - così lo chiamo - il «sentiero della Verità». Amechame indica l’assenza di mechané , ossia della «macchina» (nel senso originario di questa parola), ossia del «mezzo» che consente di liberarsi dall’impotenza angosciata. La frase completa dove parlo della mente errante dei mortali dice infatti: «Nei loro petti un’impotenza angosciata governa la mente colpita ed errante». I. Dunque tu dici che credendo nell’esistenza della nascita e 197 della morte, nell’essere e non essere di ciò che è, la mente dei mortali è colpita e va errando nell’oscurità dell’angoscia... ! P. ... e che da questa «Notte» si esce andando «verso la luce» della Verità. I. Nietzsche ha scritto che tutto il pensiero filosofico, prima di lui, è stato al tuo seguito. Non sono d’accordo, anche se tu stai indubbiamente al centro della storia dell’Occidente. Un celebre filosofo della scienza ha sostenuto non molto tempo fa che tu sei il padre di quella roccaforte della scienza moderna che è la fisica e che tutti i grandi fisici del nostro tempo sono stati parmenidei. Di nessun altro Platone ha detto quel che ha detto di te: «Venerando e terribile», l’espressione che Omero riferiva agli dèi. Sono d’accordo con Platone. Ma tu sei un grande dio bifronte... ne parleremo più avanti, se lo vorrai... P. Sentirò che cosa intendi dire. I. Ritorniamo, se ti va bene, a quanto stavamo dicendo prima della mia digressione. Quando parli dei mortali dalla mente errante, mostri le configurazioni della loro angosciata e dolorosa impotenza ( amechame ): essi, tu dici, sono «ottusi», «accecati», «storditi». E sostieni che è necessario cacciare via dalla mente, con verità, tale impotenza, che li rende folli. P. Anch’io ho compiuto il gran viaggio verso la Verità, accompagnato dalle «Figlie del Sole», e mi sono lasciato alle spalle le «case della Notte», le case di quell’impotenza. I. Non è un caso che Eschilo dica lo stesso. Nell’Inno a Zeus, dell’ Agamennone, il coro canta: «È necessario cacciar via dalla mente, con verità, il dolore che rende folli». P. Sì, son proprio le sue parole... I. ... e anche le tue; anche se tu, la mente, la chiami nóos e lui phrontìs; e il dolore che rende folli tu lo chiami amechame, mentre lui lo chiama àchthos. Ma quell’affermazione di Eschilo, e la tua, indicano la nascita stessa della filosofia - 198 anzi, sono questa nascita. P. Sì, la filosofia è il «sentiero della Verità». Se lo si percorre si è capaci di cacciar via dalla mente l’angosciata e dolorosa impotenza che la rende folle. I. Anche prima della filosofia ciò che i mortali vogliono sopra ogni altra cosa è riuscire a vincere il dolore e la morte. Ed è, quello, il tempo del mito, cioè il tempo in cui essi credono nell’esistenza delle potenze demoniche e divine della terra e del cielo; e credono di salvarsi facendosele alleate. Ma, appunto, credono, hanno opinioni, si illudono e nutrono «cieche speranze» (anche queste sono parole di Eschilo), la loro è una salvezza sognata. P. Sì, per uscire dalla salvezza sognata è necessaria la vera salvezza, è necessario che la Verità venga incontro e si mostri all’uomo, e mostri in che consista la vera Potenza. Ma l’uomo può scorgerla solo se riesce a capire in che consista la Verità. Questo è il culmine della sapienza. I. Non deviamo dal nostro discorso se a questo punto ricordiamo che per Aristotele la filosofia nasce dalla «meraviglia». Con questa parola si traduce solitamente il termine greco thàuma. Ma è una traduzione che porta fuori strada. Basta tener presente, per giustificare questa mia affermazione, che per Aristotele anche l’uomo del mito (l’«amante del mito», philómythos) «è in certo qual modo filosofo», perché anch’egli è preso dalle reti di thàuma. Ora, è ingenuo pensare che, nell’esistenza dominata dal mito, sia l’esangue sentimento della «meraviglia» a esser capace di far rivolgere l’uomo e di farlo alleare, per salvarsi, alle potenze che egli crede supreme. L’uomo del mito è il primo a lottare contro l’immane sorpresa del dolore e della morte. Thàuma è l’angosciato stupore, l’angosciata e dolorosa impotenza. P. Sì, thàuma è Yamechame. Infatti Aristotele afferma che 199 la filosofia conduce «nello stato contrario» a quello da cui essa procede. Il viaggio che descrivo all’inizio del mio Poema conduce anch’esso allo stato contrario: dalla «Notte» delYamechame al «Giorno» della Verità, «dove il mio animo vuol pervenire» (fr. 1, v. 19). Lo stato contrario a thàuma, a cui la filosofia conduce, è per Aristotele la felicità, per quel tanto che essa è concessa agli uomini, è la loro salvezza. I. Ma, come tu avevi incominciato a dire, il pensiero che stabilisce il senso di ogni sapienza e di ogni agire - e dunque della salvezza e della felicità - è il senso della Verità. Che importa una salvezza se non è vera? E una virtù, una sapienza, una potenza che non siano vere? È un amore per il divino se l’amore e il divino non hanno verità? A te e a coloro che per primi con te filosofarono spetta questa gloria ineguagliabile: aver capito che l’avventura più alta dell’uomo consiste nel portare alla luce il senso della Verità. P. I più pensano ad altro. Lo dice anche Eraclito: «I molti vivono come avendo una loro propria saggezza» (fr. 2), che è del tutto estranea alla Verità di tutte le cose. I. «Tutte le cose»! Il Tutto! Tu e quel coro di dèi che voi siete - voi, i primi pensatori greci per la prima volta sulla terra avete incominciato a parlare del Tutto. È un evento infinitamente più decisivo di quello in cui, come si racconta, l’uomo si è rizzato sulle gambe e ha incominciato a guardare il cielo e le sue luci. Infinitamente più ampio e profondo è il Tutto rispetto al cielo stellato. P. Sì; e lo sguardo verso il Tutto è necessariamente richiesto dal senso della Verità. Infatti il «cuore» della Verità «non trema» (è atremés). Trema il cuore delYamechame; trema il cuore di tutto ciò che può essere negato da uomini o da dèi. Il cuore non tremante della Verità non può esser negato né da uomini né da dèi. 200 I. Proprio per questo la Verità non può essere la verità di una parte del Tutto: se lo fosse, rimarrebbe esposta al pericolo che dalle altre parti si faccia innanzi qualcosa capace di smentire la «verità» di quella parte - la verità, cioè di dimensione particolare dell’essere -, e il cuore della verità non cesserebbe mai di tremare. P. Questo è uno dei motivi per i quali affermo che il Tutto non è «divisibile», ossia non ha parti. I. Certo, ma su questa tua tesi, vorrei, ritornare tra poco. Ora vorrei aggiungere che la Verità non può essere negata né da uomini né da dèi, non perché per ora essi non siano capaci di negarla, ma domani o in un futuro più o meno lontano potrebbero diventarne capaci... P. ... ma perché è impossibile che lo diventino. I. Solo che è questo «impossibile» a dover render conto, ora, del proprio significato. Da questa «impossibilità» dipende infatti 1’esistenza di un cuore non tremante della Verità. P. Infatti, il Tutto è «ciò che è», «l’essente» (tò eón). E al centro del mio Poema sta questa affermazione: «È impossibile dire o pensare che Tessente non sia». L’impossibile è appunto questo: che Tessente (ciò che è) non sia. I. E qui tu ti sollevi sopra tutti gli altri. D’altra parte, mi sembra che tu voglia anche affermare che l’«impossibile» non ha un significato per proprio conto, indipendentemente dal significato dell’espressione «Tessente non è»; ma che «impossibile» significa proprio questo: «il non essere dell’essente». O almeno mi sembra che nel tuo Poema le cose vadano così. La tua voce si leva su tutte le altre per quel suo dire che è impossibile che Tessente (il Tutto) non sia. Tu hai l’audacia di affermare che ciò che è, è «ingenerato», «imperituro», eterno dunque. E non è un’audacia avventata, ma dà da pensare ai millenni e a tutte le sapienze che son 201 venute dopo di te - a tutte, dico, anche quando esse non se ne sono rese conto e ancora per molto continueranno a non rendersene conto. P. Ma non ci sono quelle due affermazioni che tu hai lasciato in sospeso e che ora dovresti chiarire? La prima, che io sarei un grande dio bifronte; e, la seconda, la tua riserva - almeno così mi è sembrata - a proposito della mia tesi che il Tutto - Tessente - non è «divisibile», cioè non ha parti. I. Andando avanti per questa strada - tu lo sai bene - ci avviamo verso una regione impervia e insieme grandiosa, che in questo nostro dialogo dovremo accontentarci di guardare da lontano. Si tratta, ancora una volta, di capire che cosa significa «essente». P. Sì. Platone, nel Sofista, mostra con potenza mirabile perché io escluda che Tessente abbia parti. E affermo questa sua potenza pur sapendo che egli ha inteso compiere un «parricidio», come lui dice, nei confronti del mio pensiero, cioè ha mostrato che Tessente è necessariamente molteplice, ossia ha parti. I. Diciamolo, intanto, che cosa significa che Tessente non ha parti. P. Significa che il mondo, in apparenza ricchissimo di parti nello spazio, nel tempo, nelle nostre anime e nei nostri affetti, non può essere Verità. Nel mondo, «Tocchio non vede», «l’orecchio è stordito», «la lingua straparla». Le cose del mondo sono soltanto «opinioni dei mortali, a cui non compete alcuna vera convinzione». Sono illusioni. Sono soltanto «nomi». Dicevo all’inizio che i mortali sono spinti a errare anche perché credono che nascita e morte siano verità. Ma come è illusione la falsa ricchezza delle molte cose, così è illusione la nascita e la morte. I. E Platone mostra perché tu neghi che Tessente abbia parti 202 (terra, cielo, piante, animali): perché, se le avesse, ognuna dovrebbe differire dall’essente. Infatti «cielo» (o «casa» o altro) non significa «essente», cioè non è essente, e il non essente non può essere. Quindi le molte cose del mondo non sono, e l’opinione che esse siano è illusoria. Se le cose del mondo fossero, il nulla sarebbe; ma, tu dici, come è necessario che Tessente sia, così è necessario che il nulla non sia. P. «Questo non potrà mai venir imposto, che le cose che non sono siano.» So che, secondo alcuni, io non avrei negato la molteplicità delle cose. Ma se fosse così dovremmo dire che pensatori come Platone, Aristotele, Hegel non abbiano letteralmente capito quello che ho detto. I. Sono d’accordo con te. Io sostengo da tempo che non è stata capita la potenza del tuo pensiero. Ma altro è affermare che tale potenza non è stata capita, altro è affermare che non si è capito quel che il tuo Poema ha esplicitamente affermato. P. Tu hai scritto anche più volte che il mio pensiero può sembrare il punto in cui l’astro dell’Occidente viene a trovarsi più vicino all’astro dell’Oriente. Come l’induismo e il buddhismo, dico anch’io che il mondo è illusione - maya, dice l’Oriente. Ma quale differenza! I. Infatti: sono simili le tesi. L’Oriente possiede tesi analoghe a quelle che si leggono nel tuo Poema, ma, separate dalla cura per la Verità, separate dal perché le si afferma, esse non sono filosofia, ma miti. P. Prima di noi l’Oriente è philómythos, non philosóphos. Poi rileggerà i propri pensieri - il cui splendore è indiscutibile - alla luce dei nostri. I. D’altra parte, proprio perché il tuo discorso sulTimpossibilità che Tessente abbia parti è ben comprensibile, non può evitare di confrontarsi con Platone, che mostra, all’opposto, la necessità che Tessente sia 203 molteplice; e lo mostra portando alla luce un principio che resterà alla base dell’intero sviluppo dell’Occidente - dell’Occidente, dico, non della sola cultura occidentale. P. Lo so: Platone mostra che l’affermazione che Tessente è una molteplicità di essenti... I. ... l’affermazione che il mondo esiste... P. ... non implica, come invece io sostengo, che le cose che non sono siano... I. ... cioè non implica che il nulla sia. P. Di questo gran passo di Platone parleremo un’altra volta... I. D’accordo, qui vorrei allora restare alTinterno del tuo discorso, ed esprimerti quella che tu prima hai chiamato la mia «riserva», invitandomi a non dimenticarla. I mortali, tu dici, vivono nell’«opinione» ( dóxa ), che è illusoria: credono che esista la molteplicità delle cose e la loro generazione e corruzione. P. Nascita, dolore e morte, infatti, non possono esistere se non esistono le molte cose del mondo. Questa illusione, che li fa errare lontani dalla Verità, li «colpisce» e li fa sprofondare nell’ amechanie. I. Ma tutto questo significa che, per te, l’opinione illusoria e Vamechanie e, infine, i mortali stessi sono , esistono, non sono un nulla. E allora, non è soltanto Tessente a essere, ma anche il mondo illusorio dei mortali - giacché, ripeto, quando dici che questo mondo non ha verità, nemmeno tu intendi dire che, dunque, è nulla... P. ... e allora tu mi stai obbiettando che dunque, ciò che è, Tessente, è costituito da almeno due parti: lui, Tessente, (che vorrebbe esser solo lui a essere) e il mondo dell’illusione, che poi è a sua volta costituito dalle molte cose illusorie che sono 204 soltanto «nomi» - e, anche qui, tu diresti che per me i molti nomi non sono un nulla, ma a loro volta sono. Cosicché io stesso verrei ad affermare quella molteplicità delle cose che invece dichiaro impossibile. E potresti aggiungere che, oltre ai «nomi» che per i mortali sono cose, ci sono le parole che nel mio Poema indicano la Verità e si distinguono le une dalle altre e che io non sarei certo disposto a considerare inesistenti per il fatto che sono molte... ... Ma a questo punto puoi andare avanti e dirmi perché, prima, mi hai chiamato un grande dio bifronte - e, mi pare di aver capito, bifronte in un senso diverso da quello per cui sarei bifronte già per il fatto di affermare implicitamente quella molteplicità delle cose che invece esplicitamente nego. I. Ma innanzitutto un dio. In questo nostro dialogo non abbiamo il tempo per mostrarlo. Ciò che più conta dovremo quindi lasciarlo da parte - e ciò che più conta non è soltanto il senso del tuo essere un dio. Ebbene, ti dico bifronte rispetto all’essenza autentica del nichilismo, ossia dell’anima e del fondamento dell’intera storia dell’Occidente e, ormai, dell’intero pianeta. P. Se questo è il tema, allora so quel che sostieni. Tu dici che io sono colui che indica il «Sentiero del Giorno» e, contemporaneamente, spinge verso il «Sentiero della Notte»: colui che indica che cosa sia veramente il nichilismo e quale sia il senso autentico della sua negazione, ma che, insieme, apre la strada che conduce nel baratro del nichilismo. I. L’essenza del nichilismo è infatti affermare che ciò che è non sia. Non si pensa mai che ogni annientamento degli uomini e ogni devastazione della terra sono possibili perché, innanzitutto, si crede che ciò che è possa non essere. L’errore estremo è insieme l’estremo orrore. Ma poi anche tu - anche tu! -, anche la tua mente è colpita come quella dei mortali 205 «dalla doppia testa», dikranoi, come tu dici: anche tu affermi che ciò che è non è, ossia che le molte cose del mondo sono nulla - esse che invece non sono un nulla nemmeno per te, nella misura in cui sono il contenuto dell’opinione illusoria. P. E questo lo dici perché Platone ha mostrato che se una qualsiasi cosa del mondo, ad esempio «la luna», non ha lo stesso significato di «ciò che è», o di «essente» - se dunque la luna non è Tessente -, d’altra parte «la luna» non ha nemmeno lo stesso significato di «nulla», «luna» non significa «nulla», e pertanto non è un nulla... I. ... con la conseguenza che, affermando che la luna è, non si è costretti ad affermare; come invece tu sostieni, «che le cose che non sono siano», ossia che il nulla è; ed è dunque necessario affermare che le molte cose sono. P. Ma so anche che, per te, Platone, salvando il mondo da me, si porta dietro, credendo di avermi ucciso, il veleno col quale io uccido (o almeno penso di uccidere) il mondo. Tu dici appunto che, col parricidio compiuto nei miei riguardi, Platone è il salvatore apparente del mondo, perché in realtà ne è il cattivo pastore, e che è alTinterno di questa cattiva cura del gregge che poi si farà innanzi, lungo la storia dell’Occidente, ogni «buon pastore». I. Ma quando parlo del nichilismo che anima quella storia, non intendo dire che gli uomini avrebbero potuto pensare meglio di come hanno pensato - e qui mi riferisco innanzitutto a te: gli uomini hanno pensato e agito come era necessità che pensassero e agissero; e anche il cielo e la terra procedono nel modo in cui è necessario che procedano. In proposito non dico altro. Vorrei invece ritornare un momento su quel discorso che facevo a proposito della luna, cioè del suo non esser né Tessente né un nulla. Questo non significa che tra ciò che è e il nulla vi sia qualcosa di 206 intermedio (la molteplicità delle cose, appunto). Significa invece che quel «ciò che è», separato dalla molteplicità delle cose che sono, è esso un nulla. Certo, «luna» non significa «essente», «ciò che è»; ma Tessente non è il non composto, il «semplice», ma è ciò che ognuna delle molte cose è, ossia è ciò che è presente in ogni cosa. P. Vedo dove il tuo discorso sta andando. Tu dici che, essente, è ogni cosa. Quindi Tessente è, propriamente, gli essenti. Ma, insieme, tieni fermo che è impossibile che Tessente non sia - e appunto per l’accecante splendore di questo pensiero mi chiami un dio; ma, tu aggiungi, Tessente è ogni cosa e quindi di ogni cosa è necessario affermare che è impossibile che non sia, è cioè necessario affermare che è eterna. I. Hai detto bene anche questo: che quello splendore è accecante. Ha accecato tutti, tutte le menti più alte dell’umanità. Era necessario che ciò avvenisse. Se Terrore non si dispiegasse totalmente e in tutta la sua forza e in tutte le sue luci, la Verità non potrebbe esistere; così come il Giorno non potrebbe esistere senza la Notte. Occorre quindi che il linguaggio parli e del Giorno e della Notte, ma che dica «sì» al Giorno, non alla Notte. P. Della Notte parlano i mortali, la cui mente, colpita dal dolore e dalla morte, è avvolta àd\Yamechame. Parlano della Notte credendo che sia il Giorno. I. Eppure, ai mortali dalla doppia testa, per i quali «Tessente non è ed è necessario che non sia» (fr. 2), il linguaggio della Notte gliel’hai messo in bocca proprio tu! P. Cioè? I. Voglio dire che, per quanto ne sappiamo, quei mortali sei stato tu a evocarli per la prima volta. P. Perché? 207 I. Perché, per quanto ne sappiamo, tu sei stato il primo a pensare e a parlare dell’essente come di ciò che è assolutamente opposto al nulla. L’Oriente ignora la radicalità di questa opposizione. E se così stanno le cose, prima di te non potevano esserci quei supermortali per i quali Tessente non è ed è necessario che non sia. Esistevano i comuni mortali del mito, che ancora non potevano sapere che la morte è annientamento e la nascita è uscire dal niente. P. E quindi tu affermi che io non solo ho evocato per primo la Verità dell’essente, ma per primo ho anche evocato i suoi nemici, quelli che tu hai chiamato i supermortali. I. Che sono per davvero tali, perché, a partire dall’atmosfera aperta dalle tue parole, essi hanno incominciato a credere di morire dinanzi al nulla che li attende, sì che la loro morte ha incominciato a essere infinitamente più angosciante di quella del mito. Proprio per questo tu hai guardato alla Verità come sommo rimedio contro l’angoscia estrema. P. ... Abbiamo parlato di cose grandi, anche se abbiamo dovuto soltanto sfiorarle. Di molte altre, e grandi, che a gran voce chiedevano di essere dette, abbiamo dovuto tacere. Ora dobbiamo salutarci. A presto! * - Dal testo richiestomi da Giorgio Pressburger per le «Interviste impossibili», tenutesi nel 2007 al Teatro Stabile di Trieste. * - Dialogo richiestomi dal «Corriere della Sera», pubblicato nel novembre 2010. 208 II Relativismo, evoluzionismo, realismo e altre discussioni sulla storia filosofica dell’Occidente e sul senso dell’eternità 1. Ancora sul senso del discutere Di tutti i miei possibili critici, (dunque, oltre che di quelli passati e presenti anche, di quelli futuri) va detto che tutti, con maggiore o minore potenza sviluppano il Contenuto a cui si rivolgono i miei scritti. Questa affermazione non suona paradossale se si tiene presente quanto si è detto nel capitolo 6, della sezione prima. Non suona paradossale nemmeno se si aggiunge, e lo si deve, che tutte le possibili critiche al Contenuto dei miei scritti sono, tutte, sviluppi, più o meno rilevanti, di quel Contenuto (una parola, questa, che va con la maiuscola, «miei scritti» andando invece con le minuscole). Quel Contenuto è infatti la verità, il destino della verità. Immodesto non sono «io»: immodesta è la verità che ne ha il diritto perché non è cosa modesta e attira a sé il linguaggio imponendogli di testimoniarla. Ritorniamo brevemente su questi temi. La verità è sola in quanto nega l’errore. Senza errore non c’è verità. L’errore con-ferma, la verità la rende ferma, nel senso che essa ha il «cuore che non trema» - per usare un’espressione di Parmenide - solo in quanto mostra che essa è e significa «errore» e la necessità di negarlo. Essa vive, eterna (e l’uomo ne è l’eterno apparire), solo in quanto l’errore vive; ed è tanto più concreta quanto più l’errore è concreto e fiorisce ed è robusto, coerente, razionale, suggestivo, cioè quanto più sviluppa la ricchezza che gli compete. La verità ha cioè bisogno degli scavatori che portino alla luce questa ricchezza con la convinzione di portare alla luce la 209 verità (una convinzione che è presente anche quando scrivono libri e libri per mostrare che la verità non esiste). È, il loro, un lavoro che invece chi scava per portare alla luce la verità non riesce a fare così bene, o non gli dedica il tempo e la convinzione dovuti. In questo senso va detto che tutti i critici e tutte le possibili critiche al Contenuto a cui si rivolgono i miei scritti, sono, di questi scritti, sviluppi, e spesso originali. Anche tutte le critiche che possono essere mosse a proposito del discorso che qui si è appena fatto intorno al rapporto tra verità e errore, agli scavatori dell’errore e della verità, e alla loro indispensabilità. La magnificenza dell’Occidente, che ormai conquista la terra, è il tempo dell’errore, della sua fioritura e del suo trionfo. Ma la verità non abbandona a sé stesso l’errore: esso cresce secondo le leggi della verità. L’errore cresce secondo le leggi della verità anche perché ogni obbiezione che si possa fare a quel Contenuto (e l’ignorarlo è la forma preminente della negazione di esso) è convinta di affermare qualcosa che differisce da tale Contenuto. Non solo, ma crede anche che il fatto di differire non sia cosa di poco conto. E infatti è di tantissimo conto. Il Contenuto di cui si sta parlando è infatti la manifestazione del senso autentico e della necessità del differire dei differenti. È il punto infinitamente più stabile di quello che ad Archimede sarebbe bastato per sollevare la terra. Ben vengano dunque, daccapo, le obbiezioni, purché intendano essere per davvero obbiezioni; ossia intendano differire da ciò contro cui obbiettano e tengano quindi in gran conto la differenza dei differenti e l’impossibilità di negarla. E, una volta che avranno fatto tutto questo, capiranno di tenere in gran conto proprio quel Contenuto contro il quale esse vorrebbero andare. Gli scavatori dell’errore sono gli erranti - e come individui tutti sono erranti, anche quelli che scavano la verità. Nel 210 tempo dell’errore - un tempo che coincide con il tempo deH’«uomo», cioè con l’uomo quale è inteso all’interno della terra isolata dal destino della verità -, l’errore crede di conoscere ciò che ai propri occhi appare come errore; e si crede capace di distinguere questo, che gli appare come l’errore, dall’errante. Ma là dove domina l’errore che è tale agli occhi della verità, ed esso dice di voler combattere e distruggere ciò che ai suoi occhi è errore, ma non l’errante, là è inevitabile che ci si convinca che il fiorire degli erranti finisce con l’essere il fiorire dell’errore ai danni di ciò che è ritenuto verità, e si finisca col condannare, e punire e distruggere anche gli erranti. Questa confusione tra l’errore e l’errante attraversa tutta la storia del mortale. Eppure anch’essa contribuisce alla costituzione della concretezza dell’errore. Tutta la storia della sofferenza umana è richiesta da tale concretezza. Il destino della verità è destinato a oltrepassarla (cfr. E.S., La Gloria, 2001, cit., Oltrepassare, Adelphi 2007, La morte e la terra, 2011, cit.). 211 2. Verità e relativismo Il relativismo, si dice, nega che l’uomo riesca a conoscere una verità assoluta e irrefutabile. Se ci si ferma a questa definizione, tutta la cultura del nostro tempo, innanzitutto quella filosofica, è relativista. Ma allora va anche detto che quella negazione della verità era già sostenuta 2500 anni fa, e in grande stile, dalla sofistica. Dopo tutto questo tempo saremmo ritornati al punto di partenza per quanto grande fosse il suo stile? No; perché a quella definizione non ci si può fermare. Anche perché già il pensiero greco sapeva che chi afferma che non esiste alcuna verità assoluta afferma egli stesso che nemmeno questa sua affermazione è una verità assoluta. (Le cose non sono però così pacifiche, perché un negatore della verità potrebbe replicare che egli intende proprio negare e insieme affermare la verità, perché no?, visto che se gli si obbiettasse che in questo modo egli nega il «principio di non contraddizione» egli potrebbe daccapo rispondere che quel principio, così semplicemente affermato, è un dogma; e bisognerebbe allora darsi da fare per mostrargli che non lo è). Il relativismo degli ultimi due secoli è tutt’altra cosa. Nega tutto l’antirelativismo che c’è stato nel frattempo. Qualcuno crede che il relativismo possa appoggiarsi anche a Pascal, per il quale la verità assoluta non potrà mai esser trovata perché «tutto muta col tempo». Ma Pascal non giunge a dire che, proprio perché tutto muta col tempo, non può esistere nemmeno un Dio eterno e assoluto. Lo dirà Nietzsche (per il quale Pascal era un genio rovinato dal cristianesimo). Pascal non giunge a tanto, perché per lui quel «tutto che muta» è, propriamente, il mondo. Nietzsche arriva a tanto perché, fondandosi sulla persuasione che nel mondo tutto muta, mostra Vimpossibilità dell’esistenza di un qualsiasi Essere 212 eterno e assoluto, al di là (o all’interno) del mondo. Ma tale persuasione non è solo di Pascal e di Nietzsche: è di tutta la cultura e la civiltà dell’Occidente - e, ormai, del pianeta. Sin dall’inizio l’avanguardia dell’Occidente - la filosofia greca - è persuasa che il mutamento del mondo sia una verità incontrovertibile (e che il mutamento sia un passare delle cose dal non essere all’essere e viceversa, cioè abbia un carattere essenzialmente più radicale del modo in cui esso era stato precedentemente inteso dall’uomo). O gli odierni relativisti ritengono forse, contro i Pascal sui quali essi si appoggiano, che il mutamento del mondo sia il contenuto di una «conoscenza fallibile, congetturale» (per usare una nota espressione di Popper)? E la «ricerca della verità», che i relativisti preferiscono al suo «possesso», tale ricerca, dico, non è forse una forma rilevante di mutamento del mondo? E l’esistenza di tale ricerca è forse, per i relativisti, il contenuto di una conoscenza fallibile e congetturale? No di certo. (O vedano loro che cosa intendono sostenere.) Solo che è Nietzsche, insieme a pochi altri, a saper mostrare perché, dal fatto che nel mondo tutto muta, è necessario concludere che non esiste alcuna verità assoluta e irrefutabile oltre a quella che consiste nell’affermazione di quel fatto, e che non esiste alcun Essere eterno e assoluto oltre agli esseri che mutano nel tempo (cfr. sezione prima, cap. V). Nietzsche e pochi altri - abitando quello che chiamo il sottosuolo essenziale del pensiero del nostro tempo - sanno fare cioè quel che i relativisti d’oggigiorno non sanno fare; e non lo sanno anche perché, per lo più e più o meno consapevolmente, evitano di riconoscere che anche per loro è una verità irrefutabile e assoluta che nel mondo tutte le cose mutano col tempo. Antirelativisti sono invece coloro che lungo la tradizione 213 dell’Occidente condividono sì la persuasione che il mutamento delle cose del mondo è una verità irrefutabile; ma, a differenza dei relativisti, ritengono che verità irrefutabile sia anche l’esistenza di un Essere eterno e assoluto al di là o aH’interno del mondo. Sono gli amici della «metafisica». Nel sottosuolo essenziale del nostro tempo appare appunto l’impossibilità della metafisica. D’altra parte, ai relativisti che stanno fuori del sottosuolo, alla superficie, gli antirelativisti e i metafisici obbiettano quel che già abbiamo sentito, cioè che se tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale, allora lo è anche Taffermazione che tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale. Ed è quindi inevitabile che i relativisti di superficie non abbiano argomenti incontrovertibili contro la metafisica e la verità assoluta e incontrovertibile. Per trarsi d’impaccio, i relativisti più spregiudicati di superficie hanno finito col riconoscere che anche il loro relativismo è fallibile e congetturale. (Sembrerebbe il culmine dell’atteggiamento critico - ma allora non si vede perché si dovrebbe dar loro ascolto.) Il filosofo liberale americano Richard Rorty lo ha riconosciuto. In Italia lo aveva riconosciuto, e anche molto meglio, il filosofo Ugo Spirito, che però aveva il difetto di non essere americano e di essere fascista, come il suo maestro Giovanni Gentile - che invece, insieme a Nietzsche, è uno dei pochi abitatori di quel sottosuolo e ha quindi molto da insegnare a tutti i Popper. Comunque, se il relativista riconosce che tutto quel ch’egli sostiene è esso stesso una conoscenza fallibile e congetturale, pronta ad «abbandonare i propri valori» teorici e morali «se altri si rivelano più credibili», lo ascolto con interesse (condividendo anche i suoi buoni sentimenti). Ma aggiungo che anche questa autocritica del relativista è apparente. Domando: chi si dichiara pronto ad abbandonare i propri valori se altri si rivelano più credibili è uno che dubita 214 di esser così pronto? È uno che dice: «Forse son pronto ad abbandonarli se ne vedo di più credibili?». È uno che dice: «Forse son pronto, perché non escludo che anche se ne vedessi di più credibili non abbandonerei mai i miei?». Se si son capite le domande, la risposta non può che essere negativa. Anche questo relativista, cioè, non mette in dubbio, è sicuro del fatto suo: più o meno consapevolmente, considera come irrefutabile, indiscutibile e dunque assolutamente vero il proprio trovarsi nello stato in cui egli è disposto ad abbandonare le proprie convinzioni se ne vede di migliori. Infatti l’uomo non apre bocca se dubita di quel che dice. E se dice: «Dubito di quel che dico», egli non dubita di dubitare. (Che è cosa del tutto diversa dal cogito cartesiano, perché se l’uomo apre bocca solo se non dubita, la maggior parte delle volte che l’apre dice però cose false; mentre le considerazioni di Cartesio sul cogito intendono pervenire alla suprema verità incontrovertibile.) A Popper che afferma il carattere fallibile e congetturale di tutta la nostra conoscenza va dunque replicato che, d’altra parte, l’uomo - dunque anche Popper e tutti i relativisti di questo mondo - è sempre convinto, più o meno consapevolmente, di conoscere verità assolute e incontrovertibili (anche se sbaglia quasi sempre). Come ne sono convinti anche quei logici che secondo certi relativisti avrebbero mostrato (e anzi dimostrato !) «che non ci è possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna teoria». Come ne sono convinti anche i relativisti alla Popper e alla Hans Kelsen, che sostengono un’implicazione necessaria, cioè assolutamente vera, tra relativismo, libertà, democrazia. E allora? Allora, nella folla sterminata di coloro che - senza saperlo e anzi spesso negandolo - sono convinti di conoscere verità assolute, si trovano anche gli uomini dell’Occidente, per i 215 quali la verità assoluta e incontrovertibile dominante è che le cose del mondo mutano col tempo; e son giunti a mostrare (nel sottosuolo del nostro tempo) la necessità che tutte le cose mutino, nascano e muoiano, quindi a mostrare che non esiste alcuna verità immutabile se non quella che afferma il divenire e il travolgimento di ogni cosa e di ogni verità. Restano travolte anche la politica e la morale che, lungo la tradizione antirelativistica dell’Occidente, consistevano nell’adeguare la vita dello Stato e dei singoli individui alla verità immutabile ed eterna. Quelle erano la politica e la morale convinte di parlare «con verità». Se oggi qualcuno auspica una politica capace di parlare «con verità», deve tener presente che quella della verità è, si è intravisto, una faccenda parecchio complessa. Per questo in un mio articolo sul «Corriere» avevo domandato a Ernesto Galli della Loggia, che cosa intendesse con la parola «verità», avendo egli appunto auspicato una politica capace di parlare «con verità». Glielo avevo chiesto anche perché, quando oggi i cattolici e la Chiesa ad esempio usano questa espressione, intendono un politica e una morale che, contro il relativismo, siano legate alla verità incontrovertibile e assoluta della metafisica tradizionale (aperta alla rivelazione di Gesù). E dunque intendono una democrazia che non sia, come invece lo è la democrazia procedurale, una «libertà senza verità». La risposta di Galli della Loggia è stata fuori luogo, perché mi ha detto - c’era ancora il governo di centrodestra - che una politica che parla con verità è quella che non nasconde ma dice in che stato miserando si trova il nostro Paese. Un problema che certo ci tocca da vicino, ma che (a parte il fatto che non riguarda la verità, ma la «sincerità», giacché se non c’è verità senza sincerità, si possono invece dire con sincerità cose false) è pur sempre subordinato alla gran questione del rapporto tra relativismo e antirelativismo - visto che l’accentuata 216 corruzione della politica e della morale è una conseguenza dello stato di transizione in cui il mondo si trova: tra la tradizione, dove anche i corrotti si riconoscevano pur sempre sottoposti al giudizio della verità, e il tempo futuro: il tempo in cui - con l’inevitabile tramonto di ogni verità metafisica e di ogni eterno Signore del mondo - quella forma suprema dell’agire umano che è la tecnica viene autorizzata, a prendere in mano, essa, le sorti del mondo. La tecnica che sa ascoltare il sottosuolo, dico, non la «vera» «buona» politica. (Un processo, questo, in cui consiste il senso autentico dell’«antipohtica».) 217 3. Equivoci Con la lettera del pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra «credenti» e «non credenti» è giunto a una svolta di grande importanza e interesse. Che va accuratamente tutelata. Anche da parte di chi è soltanto uno spettatore - che però, come me, sia interessato al problema. Il pontefice ha un modo ammirevole di mettersi in relazione al prossimo. Ammirevole, anche, il desiderio dei due interlocutori, di confrontarsi con ciò in cui non credono. Proprio per fimportanza di questa inedita forma di dialogo è però altrettanto importante che non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi. Il pontefice scrive a Scalfari: «Mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato». Il pontefice risponde: «Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo». Ma aggiunge: «Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro». Si riferisce anche alla verità della fede. Ora, Scalfari aveva sì parlato di «verità assoluta», ma intendendo non «ciò che è slegato, ciò che è privo di relazioni», ma proprio la verità che non è «variabile e soggettiva». E il papa gli risponde che no, non è variabile e soggettiva: «tutt’altro». In questo modo, la domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della Chiesa (Cfr. la recente enciclica Lumen fidei, Editrica La Scuola 2013). A sua volta Scalfari, nella recente intervista a Otto e mezzo , ha lodato l’innovazione di papa Francesco rispetto alla costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa addirittura passare per relativista papa Francesco (appunto 218 per il suo rifiuto del concetto di verità «assoluta»). Ma lo loda per qualcosa che papa Francesco si è ben guardato dal sostenere. Chiedeva Scalfari: la verità è variabile e soggettiva? No, risponde il pontefice: «Tutf altro»! Una seconda possibilità di equivoco, tra i due interlocutori, vorrei segnalare, e ben più importante. Dopo aver scritto che la specificità di Gesù «è per la comunicazione, non per l’esclusione», il pontefice aggiunge che «da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente». Non mi consta che finora Scalfari abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi permetto di dirgli che invece, proprio lui, dovrebbe chiederli. In questo caso sarebbe il silenzio a favorire l’equivoco. Da quasi cinquantanni (che rispetto alla storia dell’Occidente sono certamente nulla) vado mostrando che quel detto evangelico, lungi dal sancire la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica», nega tale distinzione. Non ho mai ricevuto una risposta adeguata - e mi sembra grave mi sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che forse è stato il nostro unico dibattito pubblico, a Roma. Ne ho parlato anche sulle colonne del “Corriere della Sera”. Se qui debbo pur giustificare in qualche modo la mia tesi, che indubbiamente suona troppo perentoria, come d’altra parte non vergognarmi di doverlo fare ancora una volta? Domandiamo a Gesù se a Cesare - cioè allo Stato - si possa dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di noi Assolutamente no! Ciò significa che le leggi dello Stato non potranno essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria. 219 Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini sia di agire contro Dio, sia di non essergli contrari. Ancora una volta Gesù risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si lascerebbe ai cittadini la libertà di vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato sarebbe costretto a essere uno Stato cristiano (anzi cattolico); con la seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di essere contro Dio. Quindi per Gesù le leggi dello Stato debbono essere cristiane (e cattoliche). Ma esistono leggi dello Stato la violazione delle quali non implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no. Quindi - come spesso si dice, ma senza accorgersi della connessione tra questo dire e il detto di Gesù - è necessario che il peccato (l’agire contro Dio) sia anche delitto (l’agire contro lo Stato), una colpa che è punita in terra prima che nell’al di là. Ma in questo modo la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica», che, anche secondo questo pontefice, dovrebbe essere conseguenza di quel detto, è invece radicalmente negata da questo detto. Certo, Yintenzione di Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il contenuto oggettivo di quello che egli afferma è inevitabilmente la riduzione della sfera politica a quella religiosa. O anche: Gesù vuole conciliare l’inconciliabile, vuol conciliare la distinzione tra politica e religione con la loro reciproca opposizione (giacché anche la politica che non crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel che è contro Cesare). Con quanto ho osservato non ho affatto inteso sostenere che, quindi, abbia senz’altro ragione il pensiero laico, che vuol tener separate quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il comando di Gesù non conduce là dove comunemente si 220 crede. Nel dialogo tra Scalfari e il pontefice i problemi che ho indicato non sono gli unici, i più importanti stanno più in fondo. Qui si voleva dare soltanto un contributo alla tutela della chiarezza del dialogo. 221 4. L’origine Davanti alla filosofia molti scienziati alzano le spalle. Dato il modo in cui essa, per lo più, è loro presente, hanno ragione. Soprattutto se non sa essere altro che una riflessione sui risultati della scienza, o ha la pretesa di insegnarle che cosa debba fare. Ma i concetti fondamentali della scienza sono inevitabilmente filosofici: in un senso ben più radicale di quello a cui si allude quando ad esempio, per la profondità delle categorie filosofiche coinvolte, si paragona il dibattito tra Einstein e Niels Bohr a quello tra Leibniz e Newton (M. Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics, Wiley 1974). E se il fisico Léonard Susskind, nel suo libro La guerra dei buchi neri (2008, Adelphi 2009), scrive di non essere «molto interessato a quel che dicono i filosofi su come funziona la scienza», tuttavia la sua «guerra», combattuta contro il collega Stephen Hawking, riguarda il tema a cui la filosofìa si è rivolta sin dagli inizi e che sta al fondamento di tutti gli altri. Per Hawking i «buchi neri» presenti nell’universo sono voragini in cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi precipitano. Susskind vede in questa tesi la violazione del primo principio della termodinamica, per il quale la quantità totale di energia dell’universo rimane costante nella trasformazione delle sue forme. Ora la «costanza» dell’energia è il suo continuare a «essere»; e l’«incostanza» delle sue forme è il loro venire a «essere» e il loro ridiventare «non essere», «nulla». Certo, il fisico si disinteressa del senso dell’«essere» e del «nulla», ma il primo principio della termodinamica non può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato, ed è aH’interno di quest’anima che cresce la scienza anche quando i suoi cultori alzano le spalle davanti alla filosofia, che a quest’anima si rivolge sin dall’inizio. Si ritiene tuttora che la teoria generale della relatività di 222 Einstein e la fisica quantistica di Heisenberg siano incompatibili. Ma Einstein e Heisenberg si contrappongono mantenendosi entrambi all’interno del senso greco¬ occidentale dell’«essere» e del «nulla»: per il «determinismo» di Einstein le forme di energia escono dal proprio esser nulla e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile («determinato») e quindi prevedibile; per Heisenberg tale percorso non è né inevitabile né prevedibile; ma anche per lui le forme di energia escono e rientrano nel proprio nulla. Non è un caso che egli abbia ricondotto il concetto di «onde di probabilità» al concetto aristotelico di dynamis, «potenza», cioè alla possibilità reale (non alla necessità) che uno stato del mondo sia seguito da un cert’altro stato). Freud ebbe a scrivere, di Einstein, col quale ebbe peraltro rapporti cordiali: «Capisce di psicologia quanto io capisco di fisica». Eppure si capiscono benissimo sul fondamento ultimo, cioè sulla caducità delle cose del mondo, che oggi è data comunque per scontata. La filosofìa sostiene spesso la tesi del carattere controvertibile della scienza. La discussione è tuttora aperta. Anche al tema deH’incontrovertibihtà la filosofia si rivolge da sempre. Per il grande matematico David Hilbert «il rigore nelle dimostrazioni, condizione oggigiorno d’una importanza proverbiale in matematica, corrisponde a un bisogno filosofico generale della nostra ragione». E II più grande spettacolo della terra di Richard Dawkins (Mondadori 2010), eminente biologo evolutivo inglese, incomincia così: «Le prove a favore dell’evoluzione aumentano di giorno in giorno e non sono mai state più solide». Esse «dimostrano come la “teoria” dell’evoluzione sia un fatto scientifico e in quanto tale incontrovertibile». Ma quel che rimane oscillante e alla fine oscuro in queste pagine è proprio il concetto di «prova», di «fatto scientifico», di «incontrovertibilità», cioè la loro 223 filosofia. Sono un buon paradigma di quanto tende ad accadere in molti scritti scientifici del nostro tempo. D’altra parte, l’evoluzione è un processo in cui le specie escono dal proprio non essere e vi ritornano così come accade per le forme incostanti della costante quantità totale dell’energia. «L’evoluzione è un fatto», «oltre ogni ragionevole dubbio», «è la pura verità» «confermata da una valanga di prove», con la «certezza assoluta che non ci sarà smentita». Come la certezza, intende Dawkins, che il sole è molto più grande della terra e che l’antica Roma è esistita; come la teoria eliocentrica e quella della deriva dei continenti. Si può certo convenire. Ma il punto sul quale va richiamata l’attenzione è il senso dell’«inoppugnabilità» e «incontrovertibilità» di tutte le teorie di questo tipo. Che in loro favore esista una valanga di prove nessuno lo nega. La questione è se tali prove e la loro abbondanza consentano di dire che le teorie così provate godano della «certezza assoluta» che di esse «non ci sarà smentita». A meno che Dawkins - e allora il discorso potrebbe finire qui - non si proponga altro che allineare la teoria dell’evoluzione alle altre teorie dello stesso tipo, e per dare risalto al suo discorso si serva di un linguaggio enfatico e improprio, che però, tirate le somme, risulta inoffensivo. (D’altra parte egli sottoscrive il vecchio principio che «a rigor di logica solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa». Parole che però debbono fare i conti con quest’altra sua dichiarazione: «Nel resto del libro dimostrerò che l’evoluzione è un fatto inconfutabile». Infatti se «solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa», allora il suo libro non matematico non dimostra «davvero» che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile. Capisco che queste possano sembrare all’illustre collega considerazioni da «pedanti» e da «sofisti», però è diffìcile sostenere che non siano «a rigor di logica».) 224 Ma che cosa intende Dawkins affermando che il suo libro «dimostra» che l’evoluzione darwiniana è un fatto? Egli sa bene che essa, come la deriva dei continenti, non può essere oggetto di osservazione diretta, la quale, come egli sottolinea, è inaffidabile. La sua «dimostrazione» vuol essere quindi un’«inferenza» che dalle «tracce» lasciate dal processo evolutivo risale all’esistenza di tale processo, al suo essere, appunto, un «fatto». Egli sa bene che anche «l’inferenza si deve basare, in ultima analisi, sull’osservazione». Sostiene però che l’osservazione diretta di un evento come un omicidio è meno affidabile dell’osservazione indiretta delle «conseguenze» di esso: «È più facile che incorra in un errore di identificazione un testimone oculare piuttosto che un sistema di inferenza indiretta come il test del Dna» . Sì, posto che sia «più facile», non è però impossibile che in certi casi l’osservazione diretta sia più affidabile. Anche per Dawkins. Esser «più facile» non significa essere incontrovertibile, ossia è un’ipotesi (plausibile, se si vuole). Sennonché da questa ipotesi dipende, nel suo libro, la validità dell’«inferenza» con cui egli intende dimostrare che l’evoluzione è un «fatto» incontrovertibile. Ciò significa che anche questa «inferenza», e pertanto l’esistenza dell’evoluzione, sono soltanto «ipotesi». (Egli rileva inoltre che i cambiamenti evolutivi sono «troppo lenti» per poter essere osservati da un individuo nell’arco della sua vita. Ma chi si propone di dimostrare che l’evoluzione è un fatto non può presupporre l’esistenza di tale fatto e delle sue caratteristiche. E invece Dawkins fa proprio questo: invece di dimostrare che l’evoluzione è un processo lentissimo, afferma arbitrariamente che essa non può essere direttamente osservabile perché è un processo lentissimo.) Deludente anche il modo in cui egli si sbarazza di una nota ipotesi di Bertrand Russell, la quale, sino a quando non si mostri che nemmeno come ipotesi è accettabile, lascia aperta 225 la possibilità che l’evoluzione, almeno come viene intesa dai biologi, sia qualcosa di inesistente. Dice dunque Russell: «Può anche darsi che abbiamo cominciato tutti a esistere cinque minuti fa, completi di ricordi preconfezionati, calzini bucati e capelli incolti». A parte lo stile di molti filosofi anglosassoni, che preferiscono parlare di calzini bucati piuttosto che della Passione secondo san Matteo di Bach, e, questo, per far sapere che l’esistenza non è da prendere troppo sul serio - a parte cioè il senso che all’esistenza viene conferito dall’intero pensiero occidentale, che la ritiene caduca, effimera, storica, temporale, provvisoria abitatrice dell’essere e preda del nulla (dunque degna di esser cominciata cinque minuti fa) anche quando e appunto perché la si pensa nelle mani di Dio o della poesia o di altra nobile e austera dimensione - a parte tutto questo, come risponde Dawkins a Russell? Risponde scrivendo che sì, «è possibile, a voler esser pedanti, che gli strumenti di misurazione e gli organi di senso che li interpretano siano rimasti vittime di un colossale inganno», cosicché, «se l’evoluzione non fosse un fatto, sarebbe un colossale inganno del creatore, ipotesi a cui pochissimi teisti sarebbero disposti a dare credito». Risposta deludente. Innanzitutto perché la verità incontrovertibile dell’evoluzione sussisterebbe solo se non si fosse pedanti, ma nemmeno per Dawkins la pedanteria è qualcosa di scientificamente inaccettabile. In secondo luogo perché dal fatto che i teisti non darebbero alcun credito al «colossale inganno» non segue che tale inganno non possa esser perpetrato e che quindi l’ipotesi di Russell sia da respingere. Queste osservazioni non hanno il benché minimo intento di affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione «abbiano ragione». Entrambi gli avversari si muovono nel campo delle ipotesi. Oggi, ciò che decide dove stia la «verità» non è il costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro 226 incontrovertibilità, ma la loro maggiore o minore capacità di trasformare il mondo conformemente ai progetti che l’apparato scientifico-tecnologico planetario si propone. Una scienza che si affanni a dimostrare la «verità incontrovertibile» dei propri contenuti combatte una battaglia di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche per quelle logico-matematiche. L’esistenza delle geometrie non euclidee, ad esempio, implica che nel migliore dei casi la geometria euclidea sia una verità incontrovertibile solo in relazione ai postulati e agli assiomi su cui essa si fonda, e dunque non sia assolutamente ma relativamente incontrovertibile. Da quando nasce la filosofia pensa la verità come in-contro-vertibilità, ossia come ciò contro cui non ci si può rivoltare (vertere), ma che non intende essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la verità e l’inviolabile «principio di non contraddizione» attraversa tutta la storia della cultura. Per Hilbert la questione «più importante» è dimostrare che basandosi sugli assiomi della matematica «non si potrà mai arrivare a dei risultati contraddittori». Ma Kurt Godei dimostrerà che questa dimostrazione è impossibile. Cioè la matematica si sviluppa ammettendo la possibilità di essere un sistema concettuale contraddittorio e quindi controvertibile. Se lo dimentica Dawkins quando afferma che «solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa». Infatti, «dimostrare davvero», cioè incontrovertibilmente, significa essere in grado di escludere quella possibilità. Il primo grande libro di Darwin è intitolato L’origine della specie (The Origin of Species). Già dal punto di vista linguistico «origine», che rinvia al latino orior («provengo da...», «sorgo») corrisponde all’antico greco arché, la parola con cui, all’inizio della filosofia, Anassimandro indica il «principio» da cui tutte le cose provengono e in cui tutte 227 ritornano. La filosofia ha voluto giungere in modo incontrovertibile all’affermazione dell’esistenza del «principio», ma insieme ha reso estrema la fede che è radicata nell’uomo più antico: la fede che le cose, per stare dinanzi a lui - e quindi l’uomo stesso -, abbiano bisogno di qualcosa d 'Altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda disponibili. Qualcosa d ’Altro che è il mondo degli antenati e dei fondatori della stirpe, il demonico, il divino, e poi, quando la filosofia appare, Yarché, appunto. L’immenso e tremendo sottinteso di questa fede è la convinzione (a cui prima si è accennato) che le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra - e poi, quando la filosofia incomincia a parlare, sono di per sé incapaci di «essere», e sono preda del «nulla». Cose morte. La morte e il nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar loro un’origine. Anche la scienza si muove all’interno della fede nell’origine (ormai divenuta fede filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni mondane che di quell’origine conservano l’essenziale. Così accade per Yarché e l’«origine della specie», per il big bang come origine dell’universo, per l’inconscio freudiano come origine della coscienza. E ancora: per il lavoro, la società, la storia, il linguaggio, il cervello, il corpo, la materia come origini della mente e della cultura. In generale, per le «cause» prossime e remote degli eventi. E perfino il nulla è un succedaneo dei vecchi e nuovi dèi - il nulla da cui i più oggi pensano, più, o meno inconsapevolmente, che l’esistenza abbia l’origine ultima. Sì, in queste forme dell’origine è presente l’intera sapienza dell’uomo. Ma proprio perché la fede nell’origine porta sulle spalle un fardello così gravoso, si è proprio sicuri che non le si debba chiedere se sia in grado di reggerlo? 228 5. «La fine del tempo» In Italia alcuni fisici e qualche filosofo hanno notato l’affinità tra la «tesi» centrale del mio discorso filosofico - l’eternità di ogni ente e pertanto di ogni stato del mondo - e la «tesi» di Einstein che «per noi fisici, la distinzione tra passato, presente e futuro non è che una testarda illusione». Ho messo tra virgolette la parola «tesi», per sottolineare che quando le «logiche» che conducono «alla stessa» tesi son diverse, son diverse anche le tesi che suonano apparentemente identiche. E la logica della fìsica einsteniana è essenzialmente diversa da quella secondo cui si manifesta la necessità dell’eternità di ogni essente a cui si rivolgono i miei scritti. Ciò non vuol dire che ci si debba disinteressare del rapporto tra le due «tesi», soprattutto ora che molti fisici mettono in questione il concetto di «tempo», che sta in piedi solo se il presente differisce dal passato, ossia dall’«ormai nulla», e dal futuro, ossia dall’«ancor nulla». L’esempio più recente e tra i più rilevanti di questa crisi del tempo nel mondo della fisica è il libro del fisico Julian Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura (Einaudi 2003). Che la filosofia abbia da imparare dalla fisica è un luogo comune. E sacrosanto. Perché se la filosofia intende comprendere il senso della scienza e della tecnica, scienza e tecnica deve in qualche modo conoscerle. Ma è vero anche l’inverso. In una fase in cui, ad esempio, un fisico come Steven Hawking prevede (1979) che la fìsica debba lasciare il posto a una «Teoria del Tutto», si toccherebbe il fondo della povertà di pensiero se non ci si rivolgesse alla filosofia che, da sempre, è stata la «Teoria del Tutto». Ma poi la filosofia giunge a indicare in concreto - nei miei scritti il linguaggio 229 mira appunto a questa indicazione - in che senso essa non è un sapere ipotetico, esigenziale, metaforico, falsificabile ecc., ma è il sapere assolutamente incontrovertibile - in un senso essenzialmente diverso da quello che la tradizione filosofica attribuisce all’incontrovertibile e di cui la filosofia del nostro tempo ha mostrato l’impossibilità. Barbour scrive: «Da una quindicina d’anni un numero esiguo ma crescente di fisici, me compreso, comincia a considerare l’idea che il tempo non esista veramente. E lo stesso vale per il movimento». Posso invitarlo a tener presente che la riflessione sull’eternità di ogni essente e di ogni evento è presente nei miei scritti sin dalla metà degli anni Cinquanta e che a metà degli anni Sessanta la discussione su questo tema è stato un non trascurabile evento della filosofia italiana, che continua tuttora a essere vivo? Egli non è uno di quegli sprovveduti che non vedono relazioni tra fisica e filosofia: nella prima pagina del suo libro (di grande interesse e avvincente) scrive che «ben pochi pensatori, nelle epoche successive, hanno preso sul serio le idee di Parmenide; io invece sosterrò che l’eterno fluire eracliteo... non è che una radicata illusione». Dirò allora al professor Barbour che qui in Italia, da mezzo secolo, quelle idee sono state prese molto sul serio non solo da me, ma anche da chi ha creduto di dover dissentire. E son certo che al professore non interessa favorire quella sorta di incompetenza che c’è all’estero intorno alla filosofìa italiana. 230 6. Erba e lastre, scienza e teatro Letteratura, scienza e religione, confrontandosi con la filosofia, si danno spesso la mano. La Bellezza regna su queste pagine di Roberto Calasso, tra le sue più importanti e ricche della loro disincantata sobrietà: La letteratura e gli dei (Adelphi 2001). Indicano la Bellezza che presenta sé stessa nella sua assoluta autonomia dalla Verità e dalla Bontà. E indicano insieme gli dèi pagani, soprattutto quelli greci, che si eclissano in oscurità variamente profonde, ma per ritornare in Europa, secondo diverse forme di «evidenza». Ad esempio nella pittura fra il Quattrocento e il Settecento. Soprattutto tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento: «l’età eroica della letteratura assoluta» che incomincia con la comparsa della rivista «Athenaeum» (Schlegel, Novalis...) e si chiude con la morte di Mallarmé. Letteratura «assoluta» perché indipendente da ogni legislazione esterna, soprattutto quella della «comunità» è «alla ricerca di un assoluto» e perciò non può che «coinvolgere» «il tutto». Un anello - Calasso ne intende decifrare la lega - unisce letteratura, linguaggio, mitologia, poesia, arte e gli dèi che appaiono in queste grandi luci. Il sottinteso è che il cristianesimo non appartiene alla «letteratura assoluta». Ma non è proprio all’assoluto e al tutto che la filosofia si è sempre rivolta con l’intento di preservare il proprio sguardo da ogni dipendenza da altro, innanzitutto dalla «comunità» e dal «sociale»? E, se è così, la discordia tra «letteratura assoluta» e «filosofìa» non è la discordia tra due forme della filosofia, sia pure lontane tra loro? Per indicare questa lontananza Calasso scrive ad esempio: «La letteratura cresce come l’erba tra grigie, possenti lastre del pensiero». Ma è un «accertamento poliziesco di identità» (come dice Calasso dei 231 tentativi concettuali di irretire la letteratura) chiedere se quelle parole di Calasso sono erba o lastra? Certo, l’esperienza degli dèi, in cui consiste la «letteratura assoluta», «intender non la può chi non la pruova». Ma o quest’ultima espressione non ha assolutamente senso, o, se lo ha, ed è innegabile tale senso, è la mano che incorona la testa di quell’esperienza, e pertanto la sovrasta. Calasso intende sfuggire a questo nodo che stringe il collo della proclamazione romantica della superiorità assoluta dell’arte. Ma se non è una possente lastra del pensiero a conferire assolutezza alla «letteratura assoluta», allora, a conferirla, è erba che appassisce, semplice aspirazione all’assoluto. Oltre l’«età eroica della letteratura assoluta», ma nel suo clima, si ricorda nel libro, Gottfried Benn scrive che al di sopra del linguaggio che «raffigura» vi è «il linguaggio», cioè Nietzsche: «E allora viene Nietzsche e incomincia il linguaggio, che non vuole (e non può) altro che fosforeggiare, luciferare, rapire, stordire». Calasso commenta: «Nietzsche era stato il primo tentativo di evadere dalla gabbia delle categorie di origine platonica e aristotelica. Che cosa si estenda al di fuori di quella gabbia non è stato ancora accertato». Nemmeno da Nietzsche, dunque. Da parte mia, chiedo a Calasso se non gli sembra che su questo punto il suo discorso possa procedere soltanto perché ha messo tra parentesi il mio. E ancora: quel linguaggio, che come dice Benn, non vuole altro che...» non è forse un «volere»? E non si dovrà allora tentare di comprendere, innanzitutto, che cosa il significhi, appunto, «volere»? (E, certo, l’affermazione che al di sopra del linguaggio che «raffigura», vi è il linguaggio che stordisce vuole raffigurare o stordire?) Il rapporto teatro-scienza, e in generale arte-scienza è stato teorizzato da Brecht in Scritti teatrali (Einaudi 1962). Una prospettiva, questa, che per un verso, è decisamente 232 antiplatonica - il che non meraviglia in un marxista come l’autore delle tre versioni di Vita di Galileo -, per altro verso va incontro a una delle esigenze più profonde espresse da Platone: quella di parlare di cose di cui si è competenti. Platone, infatti, invita a diffidare dei poeti tragici e dell’arte in genere proprio perché l’artista può avere soltanto opinioni e non scienza intorno ai grandi temi della vita e della morte, dello Stato, della pace, della guerra, dell’amore e dell’odio, ai quali costantemente si riferisce in modo più o meno esplicito. Certo, Brecht riconosce che «il piano della scienza e quello dell’arte sono diversissimi». Tuttavia non solo si rifiuta di considerare semplici «hobby» gli interessi scientifici di Goe¬ the e di Schiller, ma, con gli stessi esempi offerti da Platone nel libro X della Repubblica («grandi passioni», «storia dei popoli», «impulso del potere»), sostiene che anche nell’arte «i grandi e complicati avvenimenti non possono essere sufficientemente riconosciuti in un mondo di uomini che non si provvedano di tutti gli strumenti utili ad intenderli». Un dramma sulla vita di Galileo può essere quindi scritto solo da chi conosce da vicino la nascita della scienza moderna. E Brecht, che per la Vita di Galileo ebbe a ricorrere anche all’aiuto di alcuni assistenti di Niels Bohr, non esita a riconoscere che «una quantità di letteratura è a uno stadio fortemente primitivo». Platone respinge l’arte perché non ha competenza di ciò a cui essa si rivolge; Brecht si fa banditore di un’arte che invece questa competenza ce l’abbia, lasciando al suo destino la sterminata quantità di «letteratura» che invece si trova, per la sua incompetenza, «a uno stadio fortemente primitivo». Rimane il problema di come «il contenuto scientifico che può essere racchiuso in un’opera poetica» debba essere «completamente risolto in poesia». 233 Rimane anche ovviamente incolmabile l’opposizione tra Platone, che vede l’anima dell’uomo destinata a una vita immortale, e un Brecht, che in sintonia con il pensiero filosofico del nostro tempo, scrive: Lo confesso: io non ho nessuna speranza. I ciechi parlano di una via d’uscita. Io ci vedo. Quando gli errori sono esauriti siede come ultimo compagno di fronte a noi il nulla ( Poesie , Einaudi 1962). Non è allora del senso del nulla che (anche) l’artista deve avere la massima competenza? 234 7. «Istoria e filosofia dell’umanità» Oggi si tende a considerare la scienza moderna come la forma più alta di sapere. Ma la scienza stessa riconosce ormai il proprio carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo riconoscono. Anzi, a questa consapevolezza sono giunte prima delle scienze della natura e logico-matematiche. In modo indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha aperto la strada in questa direzione. «Ci è mancata sinora» scrive «una scienza la quale fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanità.» Passa la vita a tracciare la configurazione di questa nuova scienza. Al di fuori di essa, esiste una «istoria» senza filosofia, cioè, per lui, senza «verità»: una conoscenza storica che mostra sì un immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna Legge immutabile, «eterna» che dia loro un senso unitario, e quindi lasciandole allo stato di ipotesi. La «Scienza nuova» deve procedere pertanto «senza veruna ipotesi»: senza le «incertezze» e «dubbiezze» che competono alle scienze storiche sino a che rimangono separate dalla filosofia. Ma il nostro tempo - e innanzitutto l’essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo - esclude l’esistenza di una qualsiasi Legge immutabile ed eterna, sì che le scienze storiche si trovano oggi a conservare proprio quel carattere di «incertezza», «dubbiezza», ipoteticità che Vico aveva consapevolmente colto in esse in quanto separate dalla filosofìa. La Scienza Nuova è stata ripubblicata da Bompiani nelle tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di Manuele Sanna e Vincenzo Vitiello, con un importante saggio introduttivo di quest’ultimo. Il testo è riproposto secondo l’edizione fattane dallo stesso Sanna, da Fulvio Tessitore e Fausto Nicolini, con alcuni restauri per le edizioni del 1730 e del 1744. Un’imponente operazione culturale. 235 Molto opportunamente, Vitiello mette in luce il carattere problematico della conoscenza storica e in generale della nostra memoria. Vico e tutte le successive riflessioni sulla conoscenza storica non mettono però in questione Yesistenza della storia. E nemmeno le scienze naturali mettono in questione Yesistenza della natura. Storia e natura sono cioè trattate come indubitabilmente esistenti: la loro esistenza è considerata una verità incontrovertibile. Ma a chi va affidato il compito di mostrare la verità non ipotetica dell’esistenza del mondo? Che esista il mondo è una conoscenza scientifica - quindi problematica -, oppure è una conoscenza innegabilmente vera, e quindi non scientifica? Né il senso comune può farsi avanti con la pretesa di saper lui rispondere, infatti non può avere la pretesa di possedere una conoscenza superiore a quella della scienza. Affermare che l’esistenza del mondo è una verità innegabile significa affidare alla filosofìa il compito di mostrarlo. È sempre stato il suo compito metter tutto in questione e spingersi in vari modi fino al luogo che «non può» esser messo in questione. Da questo punto di vista, non mettendo in questione l’esistenza della storia, lasciandola cioè implicitamente valere come verità innegabile, Vico rimane indietro rispetto al compito essenziale della filosofia. Ma per altro verso egli coglie nel segno intuendo che la filosofia non può, a sua volta, chiudere gli occhi di fronte alla storia, alla natura, al mondo. Proviamo a chiarire quest’ultima affermazione. Il «senso comune», in cui si trova ognuno di noi da quando nasce, non ha dubbi sull’esistenza del mondo e della ricchezza dei suoi contenuti: vi crede con tutte le sue forze. (Vi crede anche la scienza, anche quando essa si discosta dal senso 236 comune.) Ma, appunto, lo crede, ha fede nella sua esistenza, e non può fare a meno di crederlo - così come non può fare a meno di credere che il sole si muova da oriente a occidente anche se la scienza gli dice che è la terra a muoversi attorno al sole, che sta fermo rispetto a essa. Ma la fede non è la verità innegabile. La fede mette in manicomio o distrugge chi mostra di dissentire da essa; sebbene faccia questo quando il dissenziente ha meno forza del credente. Sennonché la verità non è una forza o violenza vincente. Quando la filosofia del nostro tempo lo sostiene, lo può sostenere sul fondamento di ciò che per essa è la verità innegabile: 1’esistenza del divenire del mondo, cioè del divenire le cui forze sono capaci di travolgere e vincere ogni «verità» che pretenda imporsi su di esse e regolarle. Affermando che la verità innegabile è il divenire del mondo (implicante l’inesistenza di ogni eterno e di ogni immutabile al di sopra di sé), nemmeno la filosofia del nostro tempo lo afferma perché è riuscita a mettere in manicomio o a distruggere chi la pensa diversamente da essa. In verità, il mondo non è il mondo (storia, natura, lo stesso altro dal mondo) quale appare all’interno della fede nella sua esistenza e nei suoi molteplici contenuti - ossia all’interno della non-verità. Tuttavia è necessario che nella verità appaia la non-verità: innanzitutto perché la verità è negazione della non-verità e per esserne la negazione è necessario che la veda. È necessario cioè che nella verità appaia la fede nel mondo, al cui interno si costituisce ogni altra fede (ad esempio la fede nella storia e nella natura, la fede religiosa), ossia ogni altra non-verità, ogni altro errare. Ciò significa che, in verità, il mondo è la fede nel mondo e che la non-verità della fede nel mondo appartiene necessariamente, come negata, al contenuto della verità. 237 Quando Vico pensa una «scienza la quale sia insieme istoria e filosofìa dell’umanità», non scorge che l’esistenza della storia (e del mondo) è il contenuto di una fede, ma crede che nell’unione di storia e filosofia la storia sia illuminata dalla verità della filosofia e divenga essa stessa verità; e tuttavia egli intuisce che la verità è inseparabile dal proprio opposto, cioè dalla fede, dall’errore. Quale volto deve avere la verità che si mette autenticamente in rapporto col proprio opposto? Nel capitolo conclusivo della sua introduzione, intitolato «Prospezioni vichiane » Vincenzo Vitiello scrive: «Al presente spetta la cura della “possibilità” del futuro, che non solo, in quanto futuro, non è, ma neppure è necessario che sia». Sono d’accordo che questa sia una «prospezione vichiana», un proseguire cioè lungo il sentiero percorso da Vico. Ma aggiungo che questo sentiero è solo un tratto del grande Sentiero aperto dalla filosofia greca e in cui consiste la storia dell’Occidente: il Sentiero per il quale il divenire delle cose (di cui sopra si parlava) è il loro uscire dal nulla del futuro e ritornare nel nulla del passato. E Vitiello sa bene che, servendomi di un’espressione dell’antico Parmenide, lo chiamo «Sentiero della Notte» - dove la «Notte» è l’errare estremo. Quella «prospezione vichiana» raggiunge il proprio culmine e la propria estrema coerenza in ciò che prima ho chiamato essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofìa del nostro tempo, ossia nella distruzione di ogni Legge e di ogni Essere immutabile ed eterno. Da gran tempo vado mostrando la malattia mortale - l’essenziale non-verità del mondo - che sta al fondamento di quel Sentiero e che impedisce alla verità di essere l’autentica negazione dell’errore, cioè della malattia mortale che, appunto, fa dire a tutti gli abitatori del pianeta che il futuro e il passato non sono e non è necessario che siano. 238 Ho detto che tutto questo vado mostrandolo «da gran tempo»? Mi son lasciato andare. Rispetto alla grandezza della posta in gioco quel tempo è minimo. 239 8. «Suicidio dell’Europa» «Lasciar da parte la brocca riempita di vino e porre al suo posto una cavità dove si trova del liquido.» È quel che fa la scienza, secondo Heidegger, rendendo «un che di nullo» la brocca e tutte le cose. Ma già per Goethe la scienza lascia da parte gli aspetti più concreti e intimi delle cose; e questa astrazione è chiamata da Hegel «intelletto». Non è nemmeno un discorso perentorio, perché si potrebbe replicare che anche la poesia «annulla» tutto ciò a cui invece si rivolge la scienza. E quella cosa che è l’«Europa»? Pietro Barcellona non si confronta con il passo di Heidegger, ma anche nel suo ultimo libro l’Europa è proprio come la brocca piena di vino che è stata annientata dalla scienza e dalla tecnica moderne: è stata sostituita con una cavità in cui si trova del liquido. E poiché la scienza è un fenomeno europeo l’annientamento dell’Europa è un autoannientamento. Il libro di Barcellona è infatti intitolato II suicidio dell’Europa (Edizioni Dedalo 2005). Da molto tempo Barcellona si dichiara d’accordo con vari aspetti del mio discorso filosofico. A modo suo, con sensibilità e acutezza. Del mio pensiero dice: «Bisogna fare a pugni oppure aprire le braccia». Non mi sembra che le apra alla mia tesi che la dominazione della tecnica e della scienza è inevitabile (per un certo tratto - dunque finito - della storia dell’Occidente. Però lo invito a mostrare dove non lo soddisfano le pagine che ho scritto a proposito di tale inevitabilità. In esse si mostra che, lasciando il dominio alla tecnica, l’Europa non si suicida ma è un albero dove i rami più alti (tecnica e essenza profonda della filosofìa del nostro tempo), per respirare e vivere, fanno appassire quelli più bassi (tradizione teologico- metafisica-religiosa dell’Occidente), sebbene, come 240 quest’ultimi, traggano la loro linfa dalle stesse radici e dallo stesso tronco. Certo, scienza e tecnica non hanno l’ultima parola. E quello dell’Europa è l’albero della Follia. Anche Lucifero è folle, ma è il signore del mondo. Barcellona mi concede che gli eventi del mondo siano l’apparire e lo scomparire degli Eterni, i quali sono pace, guerra, amore, odio, albero, brocca, nubi e anche tutto ciò che non si lascia vedere e che culmina nella gioia e nella gloria a cui l’uomo è destinato. Ma Barcellona parla anche degli «intervalli in cui l’Eterno della gioia, l’Eterno della gloria non si è ancora presentato. Nel bel mezzo di uno di questi intervalli, mi ci ritrovo io - scrive - che, non avendo (ancora) visto la gioia o la gloria, ma avendo visto la tecnica, sto male». Dice infatti che la tecnica distrugge «avvenire», «speranza», «promessa», «profezia», rende tutto presente, calcolabile, manipolabile. Riprende la tesi di Heidegger e Bloch. Che vale però per il pensiero filosofico tradizionale (i rami bassi dell’albero di cui sopra parlavo). Volendo essere tale pensiero incontrovertibile, ha infatti la pretesa di dire già tutto sull’essenza del futuro, ossia di ciò che ancora, per l’intero Occidente, è un nulla. Scienza e tecnica (i rami alti) sono invece un sapere ipotetico, che non adatta a sé l’esperienza, ma le si adatta, lasciandola vivere e aprendosi all’«awenire». Inoltre la filosofìa del nostro tempo mostra l’impossibilità di ogni Eterno che stia al di sopra delle cose create e annientate, ma che non ha nulla a che vedere con gli Eterni, di cui parlano i miei scritti, che non sono i padroni che dominano e regolano quella creazione e annientano, ma sono le cose stesse. Questa sintesi di tecnica e filosofia del nostro tempo, alla quale ben pochi guardano, è animata da quella volontà di «avvenire», la cui mancanza fa star male Barcellona e anche 241 altri. Mi sembra che egli oscilli tra l’inconsapevole adesione allo spirito del nostro tempo - che, proprio in quanto tecnologico, e contro quel che di solito si pensa, intensamente vuole e promuove l’«awenire» - e l’adesione al mio discorso filosofico, dove anche la totalità del futuro è già, eterna, e attende di venire alla luce, oltrepassando quell’Eterno che è la Follia da cui è dominata la terra. A volte Barcellona mi dice che la sua è una fede. Troppo modesto. Alla base del suo discorso c’è invece una filosofia per la quale la verità non può essere che «visione». È il principio della fenomenologia. «Ma si può dare davvero un rapporto necessario con la verità» scrive «che non sia la visione?» Rispondo: sì, perché la semplice visione non potrà mai essere «necessità». Limitarsi, in un paradiso, a «vedere» Dio, significa esporsi al dubbio di essere vittime di una illusione. La semplice «visione» non mostra la necessità di quel che si vede. Nemmeno chi toccava Gesù toccava la «necessità» che egli fosse il Figlio di Dio. Tempo fa, in un editoriale di «Liberal» (n. 19, 1998) il direttore Ferdinando Adornato richiamava il problema delle nuove «regole di un equilibrio mondiale» e affermava la necessità che l’Europa abbia «una propria autonomia politica di difesa e di sicurezza. Aggiungeva di non trovare «saggio» «pensare che tale autonomia debba servire a riproporre un ordine mondiale basato su un “bipolarismo antagonista” nei confronti degli Usa». Poiché in un mio articolo pubblicato su quello stesso numero sostenevo una tesi che a prima vista sarebbe potuta sembrare affine a quella che l’editoriale non considerava «saggia», nel numero successivo aggiunsi, in risposta, quanto segue. Siamo d’accordo che l’Europa si trova all’interno di un processo storico che la vede e continuerà a vederla alleata 242 degli Usa. D’accordo, anche, che un alleato non è un suddito. Lo diventa se non ha potenza - se non ha l’«autonomia» di cui Lei parla. A meno che l’alleato debole abbia grande autorità su quello forte. Ma non è il caso dell’Europa rispetto agli Usa (che hanno tirato diritto anche di fronte alle esortazioni del Papa). Nel mio articolo rilevavo che il processo storico in cui si trova l’Europa la vede anche avvicinarsi alla Russia, nel senso che si profila la tendenza verso la collaborazione tra la potenza economica europea e la potenza nucleare russa. L’unione di questi due fattori fa nascere appunto quell’alleato degli Usa, che è tale solo se non è un suddito. Non si profila dunque un semplice «antagonismo» rispetto agli Usa. Perfino il bipolarismo Usa-Urss era chiamato dal sottoscritto, sin dagli anni Settanta, «Duumvirato» (l’espressione era piaciuta anche a Giulio Andreotti). Rispetto alla concordia discors del Duumvirato di allora, il Duumvirato che si sta profilando (e che il mio discorso si limita a constatare) vede considerevolmente ridotta la discordia. D’altra parte gli alleati sono veri, solo se ognuno dei due ha la forza di resistere alle possibili prevaricazioni dell’altro. Solo questa forma di alleanza tra Europa-Russia e Stati Uniti può consentire all ’Occidente di tutelare affìcacemente i propri valori rispetto al resto del mondo. Lei rileva invece che la logica della deterrenza nucleare è obsoleta. Il terrorismo è evanescente e asimmetrico. (D’accordo). Per Lei, mi sembra, sarebbe obsoleto anche un ombrello nucleare russo che sostituisse quello che gli Usa hanno tenuto e tengono aperto sull’Europa. Ora, contrapporre al terrorismo l’armamento nucleare è ovviamente insufficiente. Oggi esistono le armi chimiche e le cosiddette «nano-tecnologie» di basso costo e di altissimo potenziale distruttivo dalle quali è estremamente difficile 243 difendersi. Ma perché i terroristi non le hanno usate, per esempio per difendere l’Afghanistan e l’Iraq? Se l’armamento nucleare è insufficiente, è però anche necessario. Alla fine, sono soprattutto degli Stati ad alimentare il terrorismo. Gli Usa non parlano forse di «Stati canaglia»? Rispetto a quest’ultimi la minaccia atomica (esplicitamente richiamata dagli Usa prima dell’attacco all’Iraq) non è obsoleta. E allora non si dovrà dire che il terrorismo si astiene dall’uso delle armi chimico-batteriologiche proprio perché certi Stati temono la ritorsione atomica su di essi da parte degli Usa (e della Russia)? Ma poi, la concreta risposta americana al terrorismo dell’11 settembre non è stata forse l’attacco a due Stati? E un articolo di questo numero di «Liberal», scritto da un americano, non è forse significativamente intitolato E adesso l’Iran^ È proprio così obsoleto il possesso di un arsenale invincibile (e invincibile lo è tuttora e nonostante tutto anche quello russo), in un mondo dove la rincorsa all’armamento nucleare sta diventando sempre più pressante - come proprio in queste settimane stiamo constatando? A parte il riferimento alla «potenza economica europea», che come già si è accennato nelle pagine precedenti si è nel frattempo notevolmente ridotto, le considerazioni presenti in quella mia risposta vanno tuttora tenute ferme. 244 9. «Non credo alla sopravvivenza» Molte le pagine di Maurizio Ferraris da cui la comprensibilità del discorso di Jacques Derrida ha tratto, un notevole, giovamento. Anche quelle pubblicate da Bollati Boringhieri e affettuosamente intitolate Jackie Derrida. Ritratto a memoria (2006), dove egli scrive che per Derrida, «cercare di far sì che non tutto scompaia è stato al centro delle sue preoccupazioni senza trasfomarsi in una meditatio mortis narcisistica» (p. 20). A dar ragione a Ferraris, è lo stesso Derrida che dichiara: «Non penso che alla morte, ci penso sempre, non passano dieci secondi senza che la sua imminenza mi sia presente. Analizzo continuamente il fenomeno della sopravvivenza, è veramente la sola cosa che mi interessi, ma proprio nella misura in cui non credo alla sopravvivenza post mortem. In fondo, è questo che comanda tutto, tutto ciò che faccio, sono, scrivo, dico» (J. Derrida e M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza 1997). «Nella cenere tutto viene annientato» dice da qualche parte. Ma di quel continuo analizzare «il fenomeno della sopravvivenza» non trovo traccia nelle pagine di Ferraris. E lo si spiega; perché per quanto ne sappia, non la trovo nemmeno nelle pagine di Derrida. Egli dice, sì, che continua a pensarci, ma è difficile venire a sapere che cosa egli abbia pensato in proposito; o si viene a sapere ben poco più del fatto che egli «non crede alla sopravvivenza post mortem». In questo senso, non solo Ferraris ha ragione a sostenere che in Derrida non c’è «una meditatio mortis narcisistica», ma verrebbe da dire che non c’è affatto una meditatio mortis. Certo, a dirlo così nudo e crudo si sbaglierebbe, perché Derrida conosceva bene la meditazione di Heidegger sulla morte. E tuttavia doveva anche saper bene che è una 245 meditazione «fenomenologica», che cioè non si pronuncia sui problemi «metafisici» come 1’esistenza di Dio, la sopravvivenza dopo la morte ecc. Rimane dunque l’impressione che Derrida abbia distolto lo sguardo da ciò che maggiormente lo assillava. Che è certamente quel che più conta. Sono d’accordo. Ma sono d’accordo perché al tema della «cenere» in cui «tutto viene annientato» ho invece dedicato tutto quello che ho scritto. Tutto quel che ho scritto si riferisce alla necessità che ogni cosa (evento, stato ecc.) sia, eterna, cioè che nessuna cosa si annienti nel cosidetto suo diventar cenere. Vi si riferisce argomentandola e mostrando il senso della «necessità» e dell’«argomentare». Peccato che in proposito Derrida non abbia voluto prendere posizione. Ma limitarsi a dichiarare la propria incredulità intorno a qualcosa non è il momento più alto della filosofìa. All’amico Ferraris vorrei pertanto proporre di non seguire, in questo, Derrida. Che, per quanto ne sappia, non si è mai interessato di Leopardi. Ma la meditatio mortis di Leopardi è grandiosa, straordinariamente potente, unica. E non è soltanto «fenomenologia». Leopardi crede di poter mostrare che nessuna cosa è eterna. Ma come è alto e ricco, e argomentante il suo errare! Con questa meditazione devono fare i conti i credenti. Derrida li disturba ben poco. Se non si guarda da vicino il senso del pericolo, cioè dell’annientamento e dello scomparire, che stanno alla radice dell’angoscia, quale consistenza può avere la ricerca di un rimedio contro la morte ossia di quel «far sì che nontutto scompaia»? Per Derrida il rimedio era la «scrittura», che trattiene ancora per un po’ le cose nell’esistenza. Proust questa tesi l’aveva già analizzata a fondo. Ma, anche qui, com’era ben più radicale Leopardi, che pensava alla scrittura 246 nel senso più ampio, cioè, come «opera» del «genio», ossia di chi sa dire con potenza la nullità di tutte le cose. 247 10. Follia giudiziosa Per le scienze del linguaggio il «sacro» è il «separato»: tiene lontano l’uomo; anche se insieme lo attira. Freud ha visto neH’inconscio la follia da cui la coscienza dell’uomo si è distaccata. All’inizio del suo bel libro Orme del sacro Umberto Galimberti scrive tuttavia che «a conoscere questa follia non sono la psicologia, la psichiatria o la psicoanalisi, ma la religione». Ma la religione - osservo - è solo un «credere»; e se un sapere riuscisse a mostrare che l’occhio della religione vede più lontano degli altri e riesce a scorgere la profonda verità della follia del sacro, non sarebbe allora questo sapere (lo si è chiamato «filosofia») ad avere l’occhio più acuto? Più in alto di una testa incoronata sta la mano che la incorona. Per Nietzsche al di là della ragione c’è il «caos». Per Dostoewskij c’è Cristo. Per Freud l’inconscio è il luogo in cui non vige più il principio di identità e di non contraddizione. La contraddizione è il caos, è Cristo, la follia. La follia è la verità ultima dell’esistenza. In ognuno di questi casi, si apre alle spalle della ragione il mondo dell’«indifferenziato», dove, scrive Galimberti, una cosa è «questo e anche altro». La ragione, tuttavia, non trova scandaloso pensare che un vino possa essere forte e anche nero. I problemi incominciano quando si pensa che lo stesso vino sia forte e non forte, nero e non nero: «indifferenziato», appunto. Platone e soprattutto Aristotele sostengono che il contenuto di questo pensiero non può esistere: cioè che il mondo della follia non può esistere. Qui mi limito a riproporre una domanda che può sembrare oziosa. Quella follia che, separata, sta al di là della ragione, è forse non separata? Se ne stata forse al di là, ma anche al di qua, dentro la ragione? No! - risponderanno gli amici della follia, 248 del caos, dell’inconscio, di Cristo, dell’indifferenziato. Ma la follia non, è forse, anche, non follia? A questo punto quegli amici perderanno la pazienza e diranno di aver già detto che la follia è follia - punto e basta. Ma, allora, non è forse molto, ma molto giudiziosa questa follia che se ne sta ben attaccata a sé stessa (e dunque al principio di non contraddizione), e non vuol essere «anche altro», cioè non vuol essere ragione - e, dunque, tirate le somme, non si permette di essere folle? 249 IL Paradosso e monocromia «Secondo un principio consolidato della metafisica classica, il divenire richiede una condizione che lo trascende» scrive Biagio de Giovanni nel suo studio, importante e suggestivo, dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno (Guida 2011, p. 121) - e tale principio regola anche il pensiero di questi due grandi protagonisti del «moderno». La complessità del saggio di de Giovanni, implicante notevoli conseguenze sul piano politico, richiede che qui si accenni solo ad alcuni punti. Quel principio della metafisica classica domina effettivamente sia l’«antico», sia il «moderno»; non però il pensiero del nostro tempo, per il quale il divenire non richiede altro che sé stesso. Il mondo non ha bisogno di Dio. Che il divenire richieda una condizione trascendente, indiveniente, infinita, significa che essa salva il finito - il divenire (nascita e morte) essendo appunto il regno della finitezza. La tesi di de Giovanni, che l’intento di fondo di Spinoza e di Hegel è di salvare il finito, è quindi del tutto consequenziale. Ed egli, questo intento, lo fa proprio, ma dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo avviso, rende esplicito quanto nei due pensatori rimane invece velato. Semplificando molto il suo discorso, si può dire che il mondo è salvato solo da Dio, ma che il rapporto tra Dio e Mondo produce inevitabilmente un radicale spaesamento del pensiero, che non riesce e non può riuscire a sciogliere i problemi prodotti dalla coabitazione di quei due termini. Ciò significa che le difficoltà e le contraddizioni a cui va incontro il rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza non sono imputabili alla limitatezza del loro pensiero, ma sono strutturali. In una delle pagine decisive del suo libro de Giovanni scrive: «I grandi testi della filosofia non sono grandi 250 precisamente perché gravidi di altissimi contrasti, che sono il vero sale del pensiero?», e questo sale non è forse «la profonda istituzione di una dualità che non aspetta vera conciliazione e che però ambisce a vincere la scissione senza poterla abolire?», sì che «proprio questo paradosso è la stessa vita umana»? Ritengo che i punti interrogativi non siano retorici. De Giovanni non presuppone arbitrariamente 1’esistenza delfinfinito, non ne progetta nemmeno la fondazione, né la richiede a Spinoza e a Hegel, dove, a suo avviso, Dio, cioè l’infinito e indiveniente Invisibile, è, non meno e anzi ancor più del finito, il luogo dove i problemi e le contraddizioni maggiormente si addensano. L’infinito-invisibile è infatti per lui il contenuto di una «fede». Ma questa fede, mi sembra, appartiene a suo avviso all’essenza dell’uomo, ossia a quel «paradosso» che avvolge non questo o quel gruppo umano; non questa o quell’epoca, ma «la stessa vita umana» in quanto tale. E qui il paradosso indicato da de Giovanni è scavalcato, nel senso che diventa ancora più complesso, la fede nell’invisibile essendo appunto ciò che, come richiamavo all’inizio, è spinto al tramonto dell’essenza o «sottosuolo della filosofia del nostro tempo», dove il Tutto resta identificato alla totalità del visibile-finito - diveniente. Egli vede sì l’unita sottostante all’«antico» e al «moderno» (e si tratta di millenni), ma non intende allargarla, e anzi prende le distanze dalla fede, indicata nei miei scritti, che unisce l’intera storia dell’uomo e che quindi sostiene sia la fede nell’Invisibile sia la fede dei nemici dell’Invisibile, amici della Terra. De Giovanni contrappone cioè il suo modo di considerare la «storia dell’Occidente» a quello dei miei scritti, che «considera il pensiero dell’Occidente come preso in un unico solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo, certo, geniale) invito a escludere il significato delle 251 differenze», ossia di ciò a cui non si può rinunciare (p. 117). Credo che qui de Giovanni si riferisca alle differenze intese come differenti modi di errare , non come differenze tout court - giacché l’affermazione dell’esistenza e anzi dell’eternità delle differenze (ossia delle molte cose e dei molti aspetti del mondo, innanzitutto) è una tesi costante del mio discorso filosofico. Ma è una sua tesi costante anche l’affermazione dell’esistenza di differenti, infiniti modi di errare; che però hanno questo di identico, di essere errori, cioè negazioni della verità. E l’avere in comune il loro esser errori non cancella i differenti modi dell’errare - così come, per i colori, l’avere in comune Tesser colori non è una monocromia, ossia non cancella il loro differire l’uno dall’altro. Nei miei scritti si mostra che la vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che vi è di identico in ogni errore, ossia il suo essersi separato dalla verità. De Giovanni mi gratifica di un riconoscimento che mi piacerebbe meritare («Sono convinto che la profondità speculativa di Severino sia assai alta e pressoché unica oggi in Europa»), ma aggiunge che «la pedagogia che nasce da questa profondità è muta, perché riduce la dialettica interna alla storia della metafìsica [...] alla monocroma ripetizione dell’errore». Nei miei scritti si mostra che l’Errore è la fede nella trasformazione delle cose, il loro diventar altro da sé. Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta monocromia, un solo punto, nella storia dell’uomo, dove non si creda nell’esistenza della trasformazione delle cose, ma si creda in una forma di errore diversa da questa fede. Poi, se vorrà, potremo discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i quali affermo che questa fede, nonostante la sua apparente plausibilità ed evidenza, è l’Errore più profondo a cui l’uomo è stato destinato - ma dal quale l’Inconscio autentico 252 dell’uomo è già da sempre libero. 253 12. Il realismo e il mito del realismo Cresce il rifiuto dell’affermazione di Nietzsche (peraltro in genere male intesa) che «non esistono fatti ma solo interpretazioni». Nietzsche non è un «realista». Ma implicitamente il bersaglio in Italia si allarga a Heidegger e a Gadamer, e anche a chi, come Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, ha lavorato sulla scia di questi pensatori, a partire appunto da Nietzsche. È ora - sostiene Maurizio Ferraris - di far rivivere su scala mondiale i «fatti», la «verità», il «realismo». Se è lecito annotarlo, c’è anche chi, da più di mezzo secolo va dicendo che il senso autentico della verità non è investito dalla crisi inevitabile a cui è andata incontro la «verità» quale è intesa lungo la storia dell’Occidente, e quindi anche dal «realismo». Ma Ferraris vuol far rivivere «fatti», «verità» e «realismo» dando come cosa per sé evidente (almeno così sembra) che la realtà esista indipendentemente dalla coscienza umana, la quale sarebbe però capace di conoscerla con verità, scorgendo appunto i «fatti», ed essendo quindi una certezza che ha come contenuto la verità. Con fatica, si potrebbe far rientrare questo modo di pensare in ciò che Hegel chiamava appunto «identità di certezza e verità». Non dubito che Ferraris (e Eco) l’abbiano presente. Con fatica, dico, tuttavia, perché il senso comune non è la conferma filosofica del senso comune. Anche per le scienze della natura la realtà esiste indipendentemente dall’uomo. Da qualche millennio questo è anche il comune modo di pensare dei popoli, il loro «senso comune». Ma ben prima della scienza è la filosofia, sin dai suoi inizi, a riflettere sul rapporto tra l’essere umano e la realtà - e sul significato di queste due dimensioni. Prevale, con la grande filosofia classica (Platone, Aristotele), la 254 conferma del senso comune. E più tardi tale conferma sarà chiamata «realismo». La prospettiva espressa dal principio di Protagora che «l’uomo è la misura di tutte le cose» (e che quindi la realtà dipende dal modo in cui l’individuo pensa e vuole) resta a lungo emarginata. Ma, proprio perché conforma il senso comune, il «realismo» filosofico non è il senso comune. La filosofia, infatti, viene alla luce evocando un senso prima sconosciuto della parola «verità» - il senso che domina l’intera tradizione dell’Occidente dai Greci a Hegel, a Einstein; cioè la verità come «scienza» (epistéme) incontrovertibile, fondata su principi primi innegabili e per sé evidenti e il realismo filosofico ritiene che il senso comune abbia verità. Ma è la filosofia a conoscere la verità del senso comune, non il senso comune. Per avere un esempio della potenza e complessità concettuale del realismo filosofico si tenga ancora sott’occhio (cfr. sezione prima, cap. Ili) questo passo deW Etica Nicomachea di Aristotele: «Ciò di cui abbiamo scienza non può essere diversamente da come; delle cose che possono essere diversamente, invece, quando siano fuori dalla nostra osservazione, rimane nascosto se esistano o no». (La parola «osservazione» traduce la parola theoréin : l’osservazione appunto, la manifestazione del mondo, che accade con l’esistenza dell’uomo.) Si può dire che in questo passo sia addirittura anticipato quell’importante atteggiamento del pensiero contemporaneo che è la «fenomenologia» fondata da Edmund Husserl, per la quale è verità tutto ma anche solo ciò che è osservabile (manifesto, immediatamente presente, sperimentabile); e quindi non è possibile che, con verità, venga affermato qualcosa intorno a ciò che non è osservato. Proprio per questo la fenomenologia non è una conferma 255 del nostro senso comune. Aristotele non riconoscerebbe ciò che pure si è sviluppato dal proprio seme; eppure la sua è una critica radicale del senso comune in quanto sussistente al di fuori della conferma che Yepistéme gli dà: tutto ciò che esso dice non è «scienza» (epistéme). Inoltre, per Aristotele, la realtà di cui c’è scienza e che quindi esiste indipendentemente dall’uomo è più ampia della realtà di cui, secondo la «fenomenologia» c’è scienza (e anche Husserl intende la filosofia come «scienza rigorosa»). La scienza è infatti, per Aristotele (come per l’intera tradizione occidentale) anche scienza di Dio, «metafìsica». Il «realismo» filosofico greco si è sviluppato nella filosofia patristica e scolastica (Agostino, Tommaso tee.) e quindi nella dottrina della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane, e poi nel Rinascimento e nella stessa filosofia moderna prekantiana, che però procede a una forma più elaborata di conferma del senso comune. E il realismo è stato messo in questione da Kant e daH’idealismo, per poi riaffacciarsi in varie correnti della filosofia degli ultimi due secoli, Marx e marxismo compresi. Si continua a dire che ci si è liberati della cultura idealistica. Ma quanti conoscono l’idealismo da cui ci si deve liberare? Per l’idealismo (e il neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il realismo) che la natura esiste indipendentemente dalle singole coscienze degli individui umani. È dalla coscienza «trascendentale» (liquidata con troppa disinvoltura) che la natura non è indipendente. La scienza, si diceva sopra, è realista. E la «filosofia analitica» sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il mondo bisogna rivolgersi alla scienza moderna (che non è più epistéme). Sennonché, se il «realismo» della scienza moderna non vuol essere semplice, ingenuo «senso comune», allora è una tesi filosofica è cioè quel realismo filosofico la cui potenza 256 e complessità concettuale e i cui rapporti con le concezioni non realistiche sfuggono completamente al moderno sapere scientifico - e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al «nuovo realismo», stando al modo in cui esso è stato presentato. Si aggiunga che la scienza intende fondarsi suh’«osservazione». Ma la gran questione è che la realtà - che per la scienza esisterebbe egualmente anche se l’uomo non esistesse (l’uomo è dice la scienza, compare soltanto a un certo punto dello sviluppo dell’universo) -, in quanto esistente senza l’uomo è per definizione ciò che non è osservato dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa esperienza: non può esserci esperienza umana di ciò che esiste quando l’umano non esiste. Quindi l’affermazione che la realtà è indipendente dall’uomo finisce anch’essa con l’essere una semplice fede, o quella forma di fede che è considerata come «altamente probabile». Comune al «nuovo realismo» e al «pensiero debole» di Vattimo e Rovatti è comunque l’istanza politico-morale, messa in primo piano. Si accusano reciprocamente di favorire il totalitarismo. Ora, la filosofia - come il mito e poi la scienza moderna - è nata, sì, per difendere l’uomo dal dolore e dalla morte dovuti alla natura e alla lotta tra gli uomini. In questo senso la filosofìa (come il mito e la scienza), nascendo dalla paura, è mossa da un’istanza politico-morale. Ma la filosofia si accorge che il rimedio non può essere quello inaffidabile del mito, ma deve avere «verità», e la «verità» non può fondarsi sulla dimensione politico-morale. Per la sua assoluta spregiudicatezza la «verità» deve chiedersi perché la violenza dei più forti debba essere bandita. E deve saper rispondere. Altrimenti essa è semplice edificazione. Un’ultima osservazione a proposito di Nietzsche. La sua 257 tesi che non esistono fatti ma solo interpretazioni non va intesa in senso assoluto: riguarda solo un certo insieme di eventi. Infatti, che il divenire del mondo esista non è per Nietzsche un’interpretazione affidata da ultimo alle decisioni storiche e quindi cangianti deU’uomo: che il divenire (la storia il tempo) esistano è per Nietzsche - anche per Nietzsche - l’incontrovertibile verità fondamentale in base a cui è necessario negare ogni realtà eterna immutabile, «divina» che sovrasti il divenire e lo domini e guidi. Questa «verità» è la Grande Fede al cui interno cresce l’intera storia dell’Occidente e, ormai, del pianeta. La fede che da tempo i miei scritti invitano a dar conto del suo incontrastato potere. 258 13. Intorno a Nietzsche, Gentile, Heidegger Persiste il silenzio su uno dei tratti più importanti della cultura contemporanea. Da parte mia continuo a richiamare quanto sia decisivo il nucleo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo. Sebbene possa sembrare inverosimile, tale nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del mondo da parte della tecnica - destinata a questo dominio nonostante altre candidature, ad esempio quella capitalistica, politica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo essa) non è ancora in grado di prestare autenticamente ascolto alla filosofia. Quel nucleo mette in luce che ogni Limite assoluto all’agire delfuomo, ci oè ogni Essere e ogni Verità immutabile della tradizione metafisica, è impossibile; e dicendo questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare ogni Limite, ma con tale autorizzazione le conferisce la reale capacità di superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla tecnica che essa ne è capace. Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale c’è sicuramente il pensiero di Nietzsche. Ma anche quello di Giovanni Gentile, la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti figure filosofiche, di cui tuttavia continuamente si parla. Invece su Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante (sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi). All’estero, poi, sia nella filosofia di lingua inglese, sia in quella «continentale», di Gentile, direi, non si conosce neppure il nome. La cosa è interessante, soprattutto in relazione al tema filosofia-tecnica a cui accennavo. Infatti, nonostante i luoghi comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante, «reazionario», rispetto alla progressiva emancipazione planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria 259 importanza sarebbe quindi la chiarificazione dei motivi che producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi - come ho incominciato a dire - al tema, molto più modesto, riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune implicazioni. Per Gianni Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica (Heidegger, Gadamer ecc.), l’«antirealista», cioè la critica alla «concezione metafisica della verità» sarebbe una «scoperta» di Heidegger (Della realtà, Garzanti 2012; p. 100). Si tratta della critica alla definizione di «verità» come «corrispondenza» tra intellectus e res, tra «l’intelletto» e «la cosa». In tutto il libro Gentile non è mai citato. Ma ben prima di Heidegger, e con maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo radicale l’idealismo hegeliano) l’insostenibilità di quella definizione. In sostanza egli argomentava - per sapere se l’intelletto corrisponda alla cosa, intesa come «esterna» alla rappresentazione che l’intelletto ne ha, è necessario che il pensiero confronti la rappresentazione dell’intelletto con la cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene a essere conosciuta, non è «esterna» al pensiero, ma gli è «interna». Ciò significa che il pensiero, per essere vero, non ha bisogno e non deve «corrispondere» ad alcuna cosa «esterna». Solo che Vattimo si fa guidare, prendendolo alla lettera, da quell’appunto di Nietzsche in cui si annota - probabilmente per studiarne il senso - che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni» e che «anche questa è un’interpretazione», ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo intende tener ferma questa «sentenza» di Nietzsche dovrà dire allora che anche la critica alla concezione metafisica della verità è un’interpretazione, ossia qualcosa di revocabile. Capisco quindi che egli consideri anche la propria filosofìa soltanto come un’«interpretazione rischiosa», una «scelta», una 260 «volontà» le cui motivazioni sono soltanto decisioni etico- politiche (p. 53): «Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla metafisica oggettivistica perché la sentiamo come una minaccia alla libertà e alla progettualità costitutiva dell’esistenza» (p. 122, corsivo mio). In sostanza, come tanti altri, esclude ogni verità incontrovertibile perché altrimenti libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma in questo modo mostra di considerare come verità incontrovertibile la difesa della libertà e della democrazia (la qual cosa è soltanto una bandiera politica o teologica). Oppure - chiedo a lui e a tanti altri - anche l’affermazione che la libertà è «costitutiva» dell’esistenza è solo un’interpretazione revocabile? En passant, egli è stranamente fuori strada quando mi attribuisce l’intento di oltrepassare la metafisica «attraverso la restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo» (pp. 164- 165) e rifacendomi a Heidegger. Il quale però sostiene che l’Essere è «evento» (contingenza e storicità assoluta, assoluto divenire) e che anche le cose sono avvolte da questo carattere; mentre i miei scritti sostengono che ogni cosa è un essere eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente lontano anche dalla filosofia gentiliana, che afferma la totale storicità del contenuto del pensiero (sebbene Gentile differisca da Heidegger perché, platonicamente, intende il Pensiero come indiveniente). Comunque, già l’idealismo classico tedesco, soprattutto quello hegeliano, è ben consapevole dell’impossibilità che la verità sia corrispondenza o adeguazione dell’intelletto a una realtà esterna, e tuttavia l’idealismo è una grande metafisica; sì che la critica a tale corrispondenza toghe di mezzo solo un certo tipo di metafisica. Per mostrare l’impossibilità di ogni Limite assoluto, metafisico, all’agire dell’uomo, e in generale al divenire delle cose, occorre altro, che, ripeto, è sì presente in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri, come Leopardi), ma 261 non in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre e che sopra chiamavo il «nucleo essenziale» della filosofia del nostro tempo. Se Vattimo, che condivide la critica heideggeriana alla verità come corrispondenza, su questo punto è inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo tedesco, Markus Gabriel,sostiene ora un «nuovo realismo» (che peraltro condivide con molti altri) al quale forse rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è d’accordo con Maurizio Ferraris (non più allievo di Vattimo), che presenta in Italia il libro di Gabriel II senso dell’esistenza (Carocci editore 2012). Vi si sostiene subito un «argomento» che conduce alla tesi seguente: «C’è qualcosa che noi non abbiamo prodotto, e proprio questo esprime anche il concetto di verità» (p. 21). L’«argomento» è che, una volta ammesso che «noi» produciamo qualcosa, noi però non produciamo il «fatto» consistente nell’esser produttori di qualcosa - il «fatto» che dunque è indipendente da «noi». Gabriel lascia indeterminato il significato di quel «noi» (sebbene egli interpreti in modo a volte condivisibile l’idealismo tedesco). Ma l’idealista e quell’idealista rigoroso che è Gentile risponderebbero che, certo, questo o quell’individuo non producono il «fatto» consistente nella produzione umana di qualcosa, e tuttavia questo «fatto» è pensato (anche da Gabriel, sembra) e, in quanto pensato, non può essere, come invece questo libro sostiene, una «realtà indipendente» dal pensiero, ossia da «noi» in quanto pensiero. «Io propongo di definire l’esistenza come l’apparizione-in- un-mondo», scrive Gabriel (p. 46). Intendo: l’apparizione di qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho trovato alcun chiarimento sul significato del termine chiave «apparizione». Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l’importanza. 262 L’apparizione non è il qualcosa (o «ente») che appare (anche se essa stessa è un ente). Se Gabriel intende che c’è apparizione di un mondo anche senza che appaia questo o queU’individuo empirico, allora, su questo punto, sono d’accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà dire che ciò che esiste è ciò che appare (e un caso di esistenza è l’apparire in cui tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto, come «tutto ciò che non appare»). Ma Gabriel intende così l’«apparizione»? Per lui ciò che esiste esiste necessariamente «all’interno di un campo di senso», cioè all’interno di un contesto. Se il motivo è (come mi sembra di capire) che qualcosa esiste solo in quanto differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo «altro» è il contesto del qualcosa, sono d’accordo (ma esortando Gabriel a rendersi conto che egli, contrariamente ai suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione - ossia il differire dal proprio «altro» - al rango di assoluto principio incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente abbia un contesto egli crede di dover concludere che qualcosa come «il Tutto», la «totalità degli enti», non può esistere perché il Tutto non può avere un contesto, e non può nemmeno contenere sé stesso, giacché è necessario che il Tutto, in quanto contenente differisca dal Tutto in quanto contenuto (pp. 52 ss.). Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto è l’«apparizione» del Tutto (anche per Gabriel dovrebbe esserlo), allora questa apparizione contiene sé stessa proprio perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il contenente. Da gran tempo i miei scritti si sono soffermati su questo tema come su quello del significato che compete all’affermazione che il «nulla» è il contesto del Tutto. (A proposito del tema del «nulla» è curioso che Vattimo, per il quale - come per Gabriel e l’intera cultura del nostro tempo - 263 tutto è contingente, neghi a un certo punto - p. 60 - l’annullamento delle cose. Curioso, dico, perché senza il loro annullamento e nullità iniziale non si vede in che possa consistere la loro contingenza e storicità.) L’idealismo assoluto di Gentile è poi un a ssoluto realismo, perché il contenuto del pensiero non è una rappresentazione fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in sé stessa. Un rilievo, questo, che potrebbe invogliare Gabriel e i vari neorealisti a studiare Gentile. Certo, la difficoltà maggiore è capire il carattere «trascendentale» del pensiero, che si è presentato in modo sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco e al neohegelismo di Gentile. L’«al di là» di ogni pensiero, l’«assolutamente Altro», l’«Ignoto», gli infiniti tempi in cui l’uomo non c’era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo possiamo parlare solo in quanto tutto questo è pensato. Per questo Gentile afferma che il pensiero non può essere trasceso e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di là di esso e come indipendente da esso. Questo trascendimento è la verità. L’idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita oggi dal consenso, cioè dall’accordo sociale su un insieme di convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il fondamento della verità. È vero ciò su cui la comunità più ampia possibile è d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si presenta, è il linguaggio della «comunità», giacché «siamo esseri storici e la massima evidenza disponibile qui e ora si costruisce solo con un accordo, che può essere messo in questione e rinegoziato» (p. 109). Ma, daccapo, questa sua affermazione è una verità incontrovertibile? Oppure che gli uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o 264 discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile? Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d’accordo nel far rivivere la metafisica e altre cose non desiderate dalla filosofia ermeneutica? Ma soprattutto a Heidegger (non solo a lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo intento è di prendere le distanze da ogni evidenza oggettiva, la configurazione dello sviluppo storico (la sequela delle «epoche» dell’Essere) finisca col valere, nel suo discorso, come un’evidenza oggettiva e indiscutibile. 265 14. Realismo e idealismo in relazione all’ostacolo La tecnica può riuscire a porsi alla guida del mondo solo se si è in grado dimostrare che ormai questo compito non può più essere assolto dalle grandi forze della tradizione (quali il capitalismo, le religioni, la politica e la concezione del mondo che sta al loro fondamento). Ma chi può mostrarlo? Non certo la tecnica e la scienza. È invece l’essenza tendenzialmente nascosta della filosofia del nostro tempo a mostrarlo (purché si sappia guardare). Mostra che non possono esistere quei Limiti assoluti, indicati dalle forze delle tradizione, di fronte ai quali la tecnica debba arrestarsi. Anche (ma non solo) per questo la filosofia ha un carattere decisivo. Di qui l’importanza di saper cogliere ciò che chiamo «essenza della filosofia del nostro tempo» - alla quale appartengono pensatori come Nietzsche e Gentile. Appunto a questo contesto si riferiva anche il mio articolo («Corriere della Sera», la Lettura, 16 settembre 2011), intorno al quale sono intervenuti vari interlocutori. D’altra parte, continuo a ripetere, quell ’essenza è la forma più coerente della Follia estrema da cui è avvolta l’esistenza dell’uomo - la Follia del nichilismo). Ben presto l’uomo si accorge degli ostacoli che limitano la sua volontà. E si convince che il mondo esista indipendentemente dalla coscienza che egli ne ha. Questa, la base di ogni forma di «realismo». Se l’«uomo» è il singolo individuo umano, anche l’«idealismo» è una forma di realismo. D’altra parte, il mito, e il pensiero filosofico della tradizione (sia pure in modo profondamente diverso) vedono in quegli ostacoli una forma superiore, più potente, «divina», di Volontà, capace di dominare la materia di cui le cose son fatte o addirittura capace di produrre ogni aspetto del mondo, come pensa anche l’idealismo classico, culminante in Hegel, 266 che però indica i motivi per i quali quella Volontà divina e cosciente non sta al di là dell’uomo, ma gli è unita. Come Cristo, l’uomo autentico è Uomo-Dio. Il mondo è prodotto non dall’uomo singolo, ma dall’Uomo-Dio. Nel pensiero del neohegeliano Giovanni Gentile questa tematica è fondata nel modo più rigoroso. Giacomo Marramao («Il Secolo d’Italia» 18 settembre 2011) è limpidamente d’accordo con me circa questo rigore - osservando giustamente, tra l’altro, che uno dei motivi del disinteresse per Gentile sta nel suo stile «pesante» e «ottocentesco». Che però, aggiungo, vanta un nitore concettuale estremamente superiore a quello del neohegeliani del mondo anglosassone del XIX-XX secolo. Contrariamente alle loro intenzioni (e nonostante i loro indubbi meriti), essi hanno offuscato e complicato la potenza speculativa di Hegel, determinando una reazione «realistica» non immune da consistenti ingenuità, che sarebbe stata di più alto livello se nel mondo anglosassone la presenza di quella forma di neohegelismo non avesse impedito la presenza di Gentile. Ma soprattutto - per quanto riguarda il predominio del realismo rispetto aH’idealismo - la tecno-scienza si presenta quasi sempre come «realismo» (assunto come ipotesi di lavoro o come tesi filosofica acriticamente accettata). Da parte sua il «realismo» filosofico dà spesso per scontato che la filosofia non possa procedere indipendentemente dalla scienza. In questo modo accade che la centralità della scienza nel mondo contemporaneo determini il predominio del realismo rispetto a ogni altra forma filosofica. Nell’intervento di Maurizio Ferraris («la Repubblica» 18 settembre 2011) si afferma che nella prospettiva che va da Kant a Gentile, «noi non abbiamo mai a che fare con cose in sé, ma sempre e soltanto con fenomeni, con cose che 267 appaiono a noi». No: questo lo si può dire di Kant (e propriamente del Kant della Critica della ragion pura), non di Hegel o di Gentile. Per Hegel, come per Aristotele, il contenuto della ragione sono proprio le cose in sé. E a sua volta Gentile ribadisce che solo se si presuppone (arbitrariamente) che esistano cose in sé al di là del pensiero, si può affermare che i contenuti del pensiero siano soltanto fenomeni. Per confutare l’idealismo Ferraris richiama l’esistenza delle infinite cose che esistevano prima dell’uomo, gli ostacoli incontrati dall’uomo, l’imprevedibilità degli eventi. L’idealista risponde, a ragione, che di tutte queste situazioni non si potrebbe parlare se non fossero pensate e che quindi esse non stanno al di là del pensiero, indipendenti da esso, che invece include nel proprio contenuto gli stessi individui umani che nascono, subiscono quelle avversità e muoiono. I miei scritti stanno tuttavia al di là dell’opposizione realismo-idealismo - e Luca Taddio ha richiamato opportunamente («Corriere» 27 settembre 2011) i loro temi centrali, che nel mio articolo avevo messo tra parentesi per non complicare troppo il discorso. Invece Gianni Vattimo («Corriere» 21 settembre 2011) mi trova troppo affezionato «al vecchio argomento antiscettico» (se uno dice che non c’è verità sostiene peraltro che quel che lui dice è vero); argomento che poi non sarebbe altro, a suo avviso, che un «giochetto logico-metafisico». Un giochetto che però (per richiamare solo due tra molti) Platone ( Teeteto, 171 a) e Aristotele ( Metafisica, IV, Vili) prendono molto sul serio. Platone scrive addirittura che quell’argomento è «raffinatissimo» (kompsótaton). Ma poi Vattimo dimentica che quel che qui egli chiama «giochetto», nel suo libro (Della realtà, cit., p. 25) lo chiama invece «giusta accusa di autocontraddizione». (Comunque nel mio articolo prendevo atto delle sue frequenti dichiarazioni di non voler dire cose 268 vere, ma di voler soltanto esprimere desideri. E son d’accordo. Ma poi, non è proprio per non esser vinto dall’argomento contro lo scettico che Vattimo, per sostenere la propria negazione della verità, dichiara di non voler dire una cosa vera, ma di esprimere soltanto i suoi desideri - sì che quell’argomento ha un’importanza decisiva nel suo discorso?) Da parte mia ho scritto invece più volte che quell’argomento non è sufficiente contro lo scettico non ingenuo, giacché a chi gli obbietta che si contraddice egli può ancora replicare chiedendo perché mai non ci si debba contraddire - e qui il discorso prosegue in un territorio che Vattimo non sospetta neppure. (Sostiene anche che dialogare con qualcuno significa andare «a braccetto» con lui. Ora, vado sì dialogando con Gentile, con l’«essenza del pensiero del nostro tempo», con la storia del nichilismo, con i realisti, ma non vado «a braccetto» con loro. Dialogo anche con Vattimo...) Per Markus Gabriel («Corriere» 29 ottobre 2011) il contenuto dei miei scritti è «realismo» e quindi, da realista, scrive che «apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite fu Parmenide in persona». Infatti, a suo avviso, Parmenide afferma «un essere indipendente dall’ambiente umano». Sennonché da più di mezzo secolo i miei scritti vanno mostrando che ciò che Parmenide dice dell’«essere» va detto invece degli enti : di ogni ente va detto cioè che è eterno (ossia è impossibile - è contraddittorio - che non sia), e quindi è eterno anche ogni «ambiente» e pertanto anche Cambiente umano». Negarlo è, appunto, la Follia estrema del nichilismo, che identifica l’ente e il niente. Nessun ente può essere stato o può diventare un niente. Se «realismo» significa che certi enti potrebbero esistere anche se non esistesse l’uomo, il realismo è allora una forma di nichilismo (cioè una tesi autocontraddittoria) - come l’idealismo. (Né l’uomo potrebbe esistere se non esistesse un qualsiasi altro ente.) 269 Gabriel aggiunge che «la realtà è parzialmente contraddittoria» (e cioè che il principio di non contraddizione non regola tutta la realtà) perché gli uomini continuano a contraddirsi. Ma, anche qui, è più di mezzo secolo che vado distinguendo il contraddirsi, che invece è l’impossibile, il necessariamente inesistente (Cfr. sezione terza). Con una metafora: i pazzi esistono - e sono pazzi e non sani, cioè sono enti in contraddittorio -, ma (secondo coloro che si ritengono sani di mente) ciò di cui i pazzi son convinti non esiste. L’esistenza del contraddirsi non rende dunque parziale il dominio del principio di non contraddizione - che peraltro, in relazione al modo in cui è stato storicamente inteso, è ben lontano dal presentarsi come un sapere assolutamente intoccabile, ma è anzi una delle espressioni più decisive del nichilismo. 270 15. Stelle e formiche Qualche chiarimento a proposito delle considerazioni («Giornale di Brescia» 4 settembre 2012) che Massimo Borghesi ha dedicato al mio libretto-intervista Educare al pensiero, gentilmente propostomi da La Scuola editrice. Provo a indicare, con un po’ di esagerazione, il senso complessivo di quanto intendo dire. Supponiamo che si voglia dare un’idea della Divina Commedia affermando che essa è una illustrazione dell’Inferno (punto), e quindi, se non proprio evitando di citare l’ultimo verso della Cantica - E quindi uscimmo a riveder le stelle -, mormorandolo appena. (Per me la vita sarebbe cioè infeliceì ) Chiedo scusa per il paragone inverecondo, ma vorrei sfatare l’impressione complessiva che si può avere leggendo l’articolo di Borghesi. Sembra cioè, dal tasto su cui egli batte soprattutto, che il mio discorso consista nel sostenere che noi tutti siamo eternamente dannati e con noi tutte le nostre convinzioni (punto). E invece, se mi è concesso sfruttare la metafora dantesca, nei miei scritti si mostra che ognuno di noi è infinitamente di più di quel che crede solitamente di essere: è lo sguardo eterno in cui eternamente appare lo splendore delle «stelle», l’eterno apparire del firmamento. Sennonché (lo mostro nei miei scritti), nella luce del firmamento che noi siamo si fa innanzi questa nostra terra, la quale, sì, corrisponde aH’Inferno del poeta. Infatti, abitandola, noi ci chiudiamo in quel che per lo più crediamo di essere e non vediamo il firmamento che noi siamo (al di sopra del quale sta un Firmamento ancora più infinito). Per quanto riguarda la parte dei miei temi considerata dal Borghesi troverei invece molto più adatte queste parole di Angelus Silesius: «Uomo, smetti di esser uomo se vuoi raggiungere il Paradiso: Dio riceve solo altri dèi». Oppure, 271 «Uomo, se non hai dentro di te il Paradiso, non vi entrerai mai». Certo anche queste sono metafore: ogni loro parola indica e nasconde. Ad esempio è sommamente occultante Yimperativo («smetti di esser uomo»), perché ogni uomo ha già smesso da sempre di essere quell’uomo che per lo più crediamo di essere, e già da sempre, necessariamente, ha dentro di sé il «Paradiso» che peraltro è destinato a raggiungere. Ma poi sono le parole «uomo» «Dio», «dèi», «Paradiso» a dover deporre il loro timbro mitico-metaforico - anche perché sapere che cosa significhi «uomo» non è per nulla più facile che sapere che cosa significhi «Dio». Ancora un chiarimento. Borghesi scrive che il mio è «un sistema di pensiero che rifiuta l’idea che l’uomo possa cambiare». Detta così, questa sua affermazione altera il senso del mio discorso, e, anche qui, perché ne mostra soltanto un lato. Proprio nella prima risposta dell’intervista dico: «Invece gli eterni che costituiscono gli essenti [quindi anche gli uomini] hanno una essenziale mobilità; tanto che ho scritto da qualche parte che “solo l’eterno può divenire”. Nel senso che lo spettacolo che sta davanti, costituito dall’apparire degli eterni, è continuamente variante», «è il variare che dapprima si mantiene all’interno di ciò che chiamo “terra isolata dal destino” [cioè l’Inferno di cui parlavo] e poi continua al di là della terra isolata dal destino della verità [dove il “destino” è l’apparire, che noi siamo, dello splendore delle “stelle”]. Questo proseguire della variazione degli spettacoli eterni è un proseguire aU’infinito in un percorso che chiamo “Gloria”. La Gloria è l’infinita adeguazione del finito all’infinito» (p. 18). Ogni uomo è destinato a compiere questo percorso. Nel suo secondo intervento ( Ibid ., 16 maggio 2012). Massimo Borghesi dà, dei miei scritti, un’immagine certamente più adeguata di quella da lui proposta in prima battuta. In risposta avevo aggiunto qualche osservazione. Ma 272 qualche altra è forse opportuno che ne aggiunga a proposito di questo suo nuovo articolo. Mi sembra che egli non condivida la tesi che Inesistenza» dell’uomo sia tenebra, sogno, non-verità, errore. Però a lui, che è cattolico, posso ricordare che all’inizio del Vangelo di Giovanni si legge: «E la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno accolta». La «luce» è innanzitutto la verità; le «tenebre» sono l’esistenza dell’uomo nel «mondo», e sono «tenebre» perché sono sogno, non-verità; errore, negazione della verità. Dicendo questo, «delegittimiamo» forse le tenebre, come Borghesi in sostanza sostiene, criticandomi? Si delegittima ferrare dicendo che è errare (con tutto ciò che ferrare implica)? Certo, il pensiero filosofico non può accontentarsi del senso che le religioni danno alla verità e alla non-verità; ma è anche chiaro che il cristianesimo non intende render luce le tenebre, ma condurre l’uomo fuori di esse. Si tratta allora di capire perché, nei miei scritti, si afferma che ogni uomo è già da sempre nella luce, al di fuori delle tenebre, e che ognuno lo è nel modo che gli è proprio e che lo distingue da ogni altro uomo. Ogni uomo è già da sempre Oltreuomo - anche se questo suo esserlo è contrastato dalla convinzione ottenebrante in cui tutti ci troviamo per lo più a vivere. E, ancora, si tratta di capire perché in quegli scritti si afferma che le tenebre sono essenzialmente più profonde ed estese di quelle a cui si riferisce Giovanni, e perché da quel contrasto siamo tuttavia destinati a uscire, e perché la luce lasci sotto di sé le tenebre. Borghesi dice che il mio discorso è un «dualismo». E allora? Questo suo dire è solo una descrizione, non una confutazione. Ma la sua descrizione è ancora alterante - cioè mi fa dire cose che non ho mai detto -, soprattutto quando afferma che 273 per me la vita dell’uomo nelle tenebre è l’«inutile affaccendarsi» di un «formicaio». Ancora una volta, vorrei chiedere a Borghesi: ma la vita degli uomini che pensano soltanto al «mondo» (alle «tenebre» di Giovanni), e non a Dio, non è appunto, secondo il cristianesimo, l’inutile affaccendarsi di un formicaio? Tuttavia preferisco ricordare che il sogno nel quale consistono le tenebre di cui parlano i miei scritti non è quel vagare delle formiche che per chi non sa che cosa sia un formicaio è senza senso, un «inutile affaccendarsi». Il grande sogno si svolge anch’esso secondo la necessità del destino (come peraltro lo stesso mio critico riconosce); e con un ritmo e secondo una struttura che in molti ma molti miei libri sono andato indicando, chiamandola «storia del mortale» (ossia dell’abitatore del sogno). La follia che produce il grande sogno è la persuasione che le cose si strappino da sé e divengano altro, invadendolo, dividendolo, spezzandolo. Quindi la follia sta al fondamento di ogni volontà di far diventar altro le cose. E anche qui si tratta di capire perché è necessario che la follia si presenti dapprima nei miti, poi nella storia della razionalità teorico-pratica dell’Occidente, e infine nella distruzione di questa razionalità e nella progressiva dominazione planetaria della tecnica. È necessità che nelle tenebre si proceda illuminati dalla luce di Lucifero. L’autentica «educazione» è il linguaggio che mostra tutto questo, e non invita a incrociare le braccia (anche il rinunciare a volere, sappiamo, è un volere), ma mostra che cosa, in quanto abitatori delle tenebre, i popoli sono destinati a volere. Altre volte Borghesi si è occupato dei miei scritti. Anni fa, su «30 Giorni», ebbe a scrivere che «Severino su un punto ha ragione: la tecnica è l’orizzonte assoluto del nostro tempo». 274 Ringraziandolo, con molto ritardo, per aver salvato uno dei miei punti, osservo che non per caso la tecnica è l’orizzonte assoluto del nostro tempo, ma lo è per la necessità che regola lo sviluppo delle tenebre, ossia lo sviluppo della struttura qui sopra indicata. Se la si studia, si può constatare che, nelFInferno dantesco, non aveva torto il Diavolo a dire al suo interlocutore: «Tu non pensavi ch’io loico fossi». 275 16. Esser sé La vita dell’uomo incomincia con un Rifiuto. La vita cosciente, dico, cioè quella in cui il mondo si manifesta. Tale Rifiuto nega che il giorno sia notte, l’acqua aria, gli alberi stelle, il freddo caldo, la vita morte: nega che qualcosa sia altro da ciò che esso è. Già Platone avverte che questa negazione è presente anche nel sogno e perfino nella pazzia. Nei primi decenni del Novecento il sociologo-etnologo Lévy-Bruhl tende invece a sostenere la tesi che nella «mentalità primitiva» quel Rifiuto è assente o quasi. Bergson, Durkheim, Mauss mostrano in molti modi l’insostenibilità di questa tesi. E infatti come sarebbe possibile, per l’uomo, compiere il gesto più semplice, ad esempio bere dell’acqua, se la «mentalità primitiva» credesse che l’acqua sia pietra (o fuoco, aria)? Anche il primitivo può vivere perché si rifiuta di crederlo. Tale Rifiuto sta all’«origine» e alle «fondamenta» della vita umana, la «domina» e la «comanda»: tutte parole, queste, che corrispondono all’antica parola greca arché, che viene tradotta anche con «principio». Già per la filosofia greca il Rifiuto che qualcosa sia altro da sé è Yarché di tutta la conoscenza. Ma la filosofìa intende il Rifiuto originario in un modo radicalmente nuovo. Prima di essa il Rifiuto è un voler negare che il giorno sia notte, l’acqua pietra, e così via. La filosofia sostiene che questa negazioni non sono semplicemente un «volere», ma un sapere assolutamente non smentibile: il sapere che sta al fondamento di ogni altro sapere e di ogni agire e che quindi è la verità originaria. Aristotele dice appunto che tutte queste negazioni sono espresse da un’unica arché, che è «la più salda» di tutte le conoscenze. Più tardi questa arché sarà chiamata «principio di non contraddizione». Più tardi ancora, tuttavia, varie forme del pensiero 276 filosofico riterranno che il tentativo di separare questo principio dalla volontà, facendone la suprema «verità» incontrovertibile, è destinato a fallire. Ad esempio lo ritengono Nietzsche e Dostoevskij, e prima di loro Leopardi e (secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte della filosofia contemporanea; e qualcosa di simile accade (sia pure con vistose eccezioni) nelle scienze, nell’arte, nella coscienza religiosa. Popper rileva sì che senza il principio di non contraddizione crollerebbe l’intero edificio della scienza: tale principio è il fondamento dell’atteggiamento «razionale»; sennonché, per lui, ciò che fa scegliere tale atteggiamento è una «fede irrazionale», e quindi è innanzitutto il principio di non contraddizione a esser dominato e guidato da una volontà («fede») senza verità. 1 Al di sotto della propria maschera tale principio è in effetti, nelle sue diverse configurazioni e formulazioni storiche, un grande dogma, è appunto la volontà che le cose stiano nel modo da esso prescritto. (Anche la filosofia ha sostanzialmente trascurato l’unico grande tentativo, compiuto da Aristotele di sottrarre quel principio all’arbitrio della volontà.) Tale principio serve certamente a vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e sia utile non significa che essa sia vera. Ma tutta la vicenda che abbiamo sin qui sommariamente richiamata - la storia cioè del Rifiuto originario - copre e nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo e decisivo. Da un lato copre e nasconde il Rifiuto autentico, ossia l’autentica negazione che le cose siano altro da ciò che esse sono: il Rifiuto che dunque non è né volontà, né il fallito tentativo filosofico di liberare il Rifiuto dalla volontà. Dall’altro lato quella vicenda copre e nasconde il sapere più alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa può essere altro da ciò che essa è (proprio perché ogni cosa è sé stessa), 277 proprio per questo ogni cosa è eterna. Ogni cosa - dunque ogni stato di cose, ogni stato del mondo e dell’anima, ogni situazione ed evento, e il contenuto di ogni istante del tempo. La teoria della relatività afferma sì che ogni stato del mondo (ossia del cronotopo quadridimensionale) è eterno, ma non lo afferma perché ogni cosa non può essere altro da sé: lo afferma invece sulla base della logica scientifica, che è ipotetica, e quindi controvertibile, falsificabile. Anche la teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e nasconde sia il Rifiuto autentico, sia YEternità (anch’essa da intendere autenticamente, cioè in senso essenzialmente diverso da quello che le compete lungo tale vicenda). Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da prospettive diverse, ai miei scritti, che indicano il senso autentico del Rifiuto e delfEternità come un dito indica la luna. Restando in debito, verso molti miei critici, di una risposta adeguata alle loro osservazioni, mi limito qui a richiamare alcuni degli interventi più recenti. Suggestive e ricchissime le indagini contenute nel sesto tomo di Filosofia e idealismo di Gennaro Sasso (Bibliopola 2012). Che termina il suo libro con uno struggente «Congedo» dai suoi lettori. Vorrei invitare Sasso a rimuoverlo, quel congedo, a non restargli fedele, innanzitutto perché egli ha ancora molto da dire, e poi anche perché possa continuare il nostro colloquio - che generosamente, anche in queste sue pagine, considera importante per lo sviluppo delle sue ricerche. Egli sa bene che cosa intendo quando parlo del senso autentico del Rifiuto e delfEternità. Lo sa bene, e sostanzialmente lo condivide, anche Leo¬ nardo Messinese, che dopo altri due libri recentemente dedicati ai miei scritti, pubblica ora Stanze della metafisica. Heidegger, Lowith, Carlini, Bontadini, Severino (Morcelliana 2013) e Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia 278 (Dedalo 2013). Messinese è un pensatore, e sacerdote, che tenta acutamente e coraggiosamente di porre la luna, indicata dal mio dito, alla base di ogni sapienza. Un tentativo compiuto anche da Francesco Totaro nel suo importante volume Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi (Vita e Pensiero 2013). Molto interessante e ricco di spunti anche il modo in cui Nello Barile, nel suo Iperparmenide. Scienza, cultura e comunicazione. Oltre il postmoderno (Mimesis 2012) si rivolge alla luna e al mio dito. Carlo Sini scrive invece che, sì, io lo costringo ad «arrendersi» (perché lo colgo in contraddizione), ma che egli può replicare dicendo: «Sì, mi contraddico, e allora?!» (La verità è un’avventura, GruppoAbele 2013). Allora, rispondo, se non gli importa contraddirsi non gli importa che la verità non sia un’avventura e nemmeno che ogni affermazione contenuta in questo e negli altri suoi libri sia la negazione di ciò che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive che noi «siamo quel che abbiamo e che per il fatto stesso di averlo siamo destinati a perderlo», egli è disposto a contraddirsi e a riconoscere che noi non siamo quel che abbiamo e non siamo destinati a perderlo. Certo, se si ha presente (come mi sembra che accada a Sini e a tanti altri) quella forma dogmatica dove il «principio di non contraddizione» è la semplice volontà che il mondo non sia contraddittorio, allora - se la cosa serve, se è vantaggiosa, se rende vincenti - ci si può certo disinteressare del proprio contraddirsi. A uno che gli aveva fatto notare che stava contraddicendosi, Stalin rispose appunto: «Sì, compagno, mi contraddico, e allora?!». Raffinato e penetrante come gli altri scritti di Alessandro Carrera, anche La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a Calvino (Feltrinelli 2010). Scrive Carrera che questo suo saggio fa parte di un trilogia incominciata con La consistenza del passato: Heidegger, Nietzsche, Severino 279 (Medusa 2007), dove si esamina, dopo Heidegger e Nietzsche, «la radicale confutazione, da parte di Severino, di ogni ipotesi heideggeriana, nietzscheana o altrui, in base alla quale il passato sparirebbe nel non essere o non potrebbe sopravvivere se non manipolato dal presente e per i fini del presente» (p. 181). Sì, la consistenza del passato è implicata dall’Eternità di ogni cosa. Non nel senso che questa luce che viene dalla finestra debba esistere in ogni tempo, ma nel senso che il fluire del tempo non porta via con sé, nel nulla, questa luce, che invece è, eterna - e che, sì, ora è già scomparsa, ed è un passato, ma come ogni altra cosa è destinata a ritornare. 280 17. Continuando un dialogo su tecnica e diritto «Perché - mi domando, e domando a Severino - la tecnica come capacità indefinita di realizzare scopi (capacità velata di astratto e generico) sarebbe destinata a soverchiare la tecnica della forza, che è immanente al diritto e che accompagna ogni norma con la protezione di atti coercitivi? Perché quella volontà di potenza è più potente di questa?» È la domanda che Natalino Irti mi rivolge anche nel suo libro più recente L’uso giuridico della natura (Laterza 2013) che, egli ricorda, prolunga la pluridecennale discussione tra noi due sul tema della tecnica. E la prolunga in modo quanto mai felice, innanzitutto per l’importanza di queste pagine. Dedicate a me «nella concordia discors del pensiero». Lo ringrazio di cuore. Con altrettanta generosità l’eminente giurista rileva di quanto si sia ridotto il suo sentirsi «discorde». Rimane però quella domanda. Da lui rivoltami altre volte e a cui altre volte ho risposto. Dev’esserci quindi qualcosa che inceppa l’intesa, e che provo a snidare. Accennerò poi alla direzione delle motivazioni che costituiscono l’organismo della risposta (attendendo che Irti le consideri). Il mio discorso sulla tecnica non indica uno stato di cose già in atto, ma una tendenza (non priva di resistenze): all’interno delle diverse forme di tecnica è oggi in via di formazione il progetto che ha lo scopo di aumentare senza limiti la capacità umana di realizzare scopi, di dominare il mondo. Anche ma non solo per questo vado scrivendo che la tecnica, in quanto è tale progetto, è «destinata» a prevalere sulle forme di tecnica che a esso si oppongono. (La «destinazione» si riferisce al futuro.) Questa capacità è «velata di astratto e di generico» (come scrive Irti), ma solo nel senso che oggi l’uomo non può conoscere concretamente e specificamente le proprie capacità future. La sua volontà vuol 281 diventare «sempre più» potente. Soprattutto oggi, nel tempo in cui i Limiti filosofico-religiosi posti dalla Tradizione all’agire umano vanno mostrando, soprattutto all’interno del pensiero filosofico, la loro impotenza pratica e concettuale. «Volontà di potenza» e «tecnica» sono sinonimi; ma la Tecnica che progetta Fincremento senza Limiti inviolabili della propria potenza differisce essenzialmente da tutte le forme di tecnica in quanto sottoposte a quei Limiti e che pertanto le si oppongono. Differisce da esse, spingendole altrove, ma agendo al loro interno. Si chiamano economia, politica, morale, diritto, arte, le stesse discipline scientifiche (fisica, biologia, astronomia ecc.) e le «tecniche» da esse guidate (apparati industriali, militari, burocratici, sanitari, scolastici ecc.). Anche il capitalismo è ancora, prevalentemente, una forma della Tradizione: pone come Limiti inviolabili (e pertanto come «verità» indiscutibili e «naturali») l’uomo in quanto individuo isolato e libero, la proprietà privata di beni e mezzi di produzione, il mercato come dimensione che rende possibile il profitto e la sua crescita, la concorrenza e, anche, il sistema di leggi che garantiscono la perpetuazione di questi Limiti, il sistema cioè che nelle società capitalistiche viene chiamato «diritto» tout court. Invece, Irti è ancora convinto che, nel mio discorso, quella tra la Tecnica e le altre forme di volontà di potenza sia la contrapposizione tra una certa particolare forma di tecnica, quella fisico-matematico-biologica, e le altre forme, tra cui il diritto (la volontà capace di regolare altre volontà). E, appunto, si domanda perché debba prevalere Luna piuttosto che l’altra. Sennonché, dico destinata a prevalere non quella forma particolare (sebbene oggi emergente), ma la Tecnica in quanto progetto di incrementare all’infinito la potenza presente nelle tecniche esistenti e che mira a porre tale 282 incremento come la norma suprema - la norma che è il più radicale superamento delle Norme e Limiti imposti dalla Tradizione. Un progetto dunque che non sta sopra la testa di quelle forme («astratto e generico»), e non è nemmeno la loro semplice somma, ma tende a esser sempre più presente e dominante in ognuna (e, certo, in modo più avanzato, nella forma fisico-matematico-biologica) e a distoglierle dalla loro soggezione ai Limiti inviolabili che via via sono stati loro imposti. Nel diritto quei Limiti si incarnano nel cosiddetto «diritto naturale». Che però tende a essere sempre più emarginato dalla convinzione che il diritto sia «positivo», posto storicamente dalle volontà vincenti; non, quindi, espressione di una volontà che rispecchia una immodificabile «Legge Naturale». Nel mondo occidentale (ma ormai sull’intero Pianeta, sia pure in modi molto differenziati e spuri) vincente è ancora, e nonostante le sue crisi, la volontà capitalistica, ed essa si impone come «la Legge», lasciando sullo sfondo, quasi dimenticato, quel carattere «positivo» della legge che sta soppiantando la pretesa del diritto capitalistico, di essere «naturale». La «forza» e la capacità «coercitiva» sottolineate da Irti non competono cioè a una pura volontà giuridica separata dalla volontà vincente, ma alla capacità di quest’ultima di rendere operante la forza e il carattere coercitivo della volontà giuridica. (La contrapposizione tra potere politico e potere giudiziario - o quella dove un gruppo economico è sottoposto al giudizio della magistratura - si svolge completamente all’interno dell’orizzonte giuridico che tutela i valori dell’economia di mercato). La volontà che progetta l’incremento indefinito della potenza non è quindi, come invece Irti mi obbietta, «astratta disponibilità, generica forza di raggiungere risultati», «indistinta e indefinita varietà degli scopi», «nome con 283 funzione riassuntiva» - mentre il diritto avrebbe il vantaggio di essere «decisione» che impone certi scopi escludendone altri (pp. 53-54). Le cose non stanno così. Le decisioni del diritto sono le decisioni del capitale, o dell’economia pianificata, cioè delle forme di volontà di volta in volta vincenti. Le volontà di potenza che hanno come scopo la potenza di certuni e non di altri, di certe concezioni del mondo e non di altre, di certe forme di ricerca e non di altre, non possono avere come scopo la crescita senza limiti ed esclusioni della potenza, ma la ostacolano. (Il socialismo reale ha ostacolato lo sviluppo tecnologico dell’Urss; il capitalismo evita la produzione dei beni che, pur vantaggiosi per l’uomo o l’ambiente, non avrebbero mercato, e alimenta forse quella relativa scarsità delle merci senza la quale, cioè con la loro abbondanza e la caduta della domanda, non avrebbe nulla da vendere. E in ognuno di questi casi vengono ostacolate forme di potenza, quali, appunto, la tecno-scienza, il benessere dell’uomo e dell’ambiente, il superamento della scarsità.) Perché, dunque - riformulo così la domanda di Irti - la Tecnica è destinata a prevalere sulle forme particolari di essa nella misura in cui la ostacolano e che le si oppongono sia per il loro chiudersi nella loro particolarità, sia per Tesser ancora soggette ai Limiti della Tradizione? E quindi: perché la Tecnica è destinata a prevalere anche sul diritto in quanto le si oppone nel senso ora indicato (visto che, nella misura in cui sono invece il terreno in cui prende piede la Tecnica in quanto progetto di potenziare alTinfinito potenza, la Tecnica non prevale su di esse, emarginandole, ma se ne serve - o prevale nel senso che quel progetto è lo scopo che regola i loro scopi particolari)? Rispondo così. 1) Oggi la tecnica (tecno-scienza e apparati) 284 si presenta ancora come un mezzo, anzi come il mezzo più potente di cui si servono le volontà di potenza dominanti e tra di loro in conflitto: stati, concezioni politiche e religiose e, soprattutto la volontà oggi più potente, il capitalismo. 2) Ma nella tecnica si sta facendo largo, ravvivandola, la Tecnica in quanto progetto di incrementare ah’infinito la potenza, oltre ogni Limite «assoluto». 3) Il fondamento di questa negazione è l’essenza - il «sottosuolo» essenziale - del pensiero filosofico del nostro tempo. 4) Nel conflitto, ogni volontà può prevalere sulle altre solo se rafforza sempre di più il mezzo tecnico di cui dispone. 5) Tale rafforzamento è ulteriormente rafforzato dal progressivo prender piede, nella tecnica, del progetto della Tecnica di aumentare all’infinito la potenza - e tale progetto è a sua volta rafforzato dalla volontà, quella capitalistica in testa, di potenziare il mezzo di cui essa dispone. 6) Pertanto lo scopo delle volontà dominanti si trasforma. Infatti, riferendoci ora al capitalismo, esso - e quindi il diritto che lo esprime e sancisce - tende a non aver più come scopo primario l’incremento del profitto, ma la sintesi tra tale incremento e il rafforzamento del mezzo: il rafforzamento che nella sintesi tende a occupare sempre più spazio rispetto a queU’incremento. 7) In tal modo la tecnica, da mezzo, tende a diventare lo scopo di quelle volontà - che quindi si trasformano e la cui configurazione originaria tramonta. La tecnica tende dunque a diventare lo scopo del capitalismo e del diritto capitalistico. E in questa tendenza consiste la destinazione della tecnica al suo prevalere su di essi e al dominio del mondo. 8) A questo punto si tratterebbe di richiamare il senso autentico di tale «destinazione» (cfr. ad es. E.S., La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi 1988, o Capitalismo senza futuro, Rizzoli 2012). Ma, dicevo all’inizio, questo è solo un cenno alla direzione della risposta. 285 18. Discutendo con amici 1 Pieno di debiti nei Loro confronti, non mi è concesso nemmeno di esordire in modo originale. Perché anch’io, come tutti coloro che mi hanno preceduto, debbo incominciare con i ringraziamenti. Soprattutto io devo farlo - e, certo, mi è caro farlo. Mi rivolgo innanzitutto al dipartimento di Filosofia, all’università di Venezia e a chi ha preso questa iniziativa: i professori Mario Ruggenini e Davide Spanio; e poi c’è l’appoggio finanziario dato a questa iniziativa dal professor Luigi Ruggiu in qualità di presidente del progetto Prin. Mi ha fatto piacere anche quella sorta di preconvegno, organizzato dal professor Luigi Tarca, costituito da una serie di seminari dedicati ai miei scritti. Il professor Ruggiu ha anche opportunamente sottolinea-to il senso centrale di quanto è venuto fuori questa mattina, e cioè l’implicazione tra quello che a qualcuno del pubblico può essere sembrato un discorso.... «algebrico», «astratto», «filosofico» (nel senso del formalismo filosofico), e le implicazioni che invece tale discorso ha con la dimensione politica. Qui davanti ho appunto l’amico professor Pietro Barcellona e l’amico Natalino Irti, nei cui interventi questa dimensione è emersa in modo più visibile. Mi è capitato altre volte di essere oggetto di incontri come questo, e mi sono sempre sentito inferiore a coloro che li organizzavano e vi partecipavano. Vivo la qualità etica di chi festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i festeggianti. D’altra parte considero questo nostro incontro come manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio discorso filosofico, emerge soprattutto l’interesse profondo 286 per la filosofia da parte di coloro che di questa università costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama culturale italiano, dato che (mi pare di aver dichiarato da qualche parte) anche per merito del dipartimento di filosofia di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia straniera. L’Italia ha oggi pensatori di altissimo livello. Anche per questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è data dalla presenza di pensatori che, venendo da altre università, contribuiscono ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo però un abbraccio al professor Spanio, in particolare, per l’amicizia con la quale si è impegnato per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso splendido: abbiamo sentito voci quanto mai rilevanti e variegate. Come quelle ben note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e di tutti quelli che hanno parlato. Scusino se non li nomino tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo convegno, e allora andava via tutto lo spazio per l’intervista, oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che è stato ricordato dal professor Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è direttore del dipartimento di filosofia. Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che mi sono stati suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei rivolgermi soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può avere avuto l’impressione - avevo incominciato a dire - di una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico- 287 politici. Come eliminare questa impressione? Tento di rispondere. Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così come crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con una struttura sociale nella quale esistono forze politiche, economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia, America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande fede alla quale nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo parlando di filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia, alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede (come ogni fede) è un attribuire un valore di verità (usiamo così «alla buona» la parola verità) a ciò che in quanto contenuto di fede non ha verità. E a cui, però, noi non sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al di fuori della nostra fede. Allora, una parte degli interventi - che qui ho sentito con estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che terrò presenti anche nel loro aspetto critico - si riferisce al contenuto di questa fede, al centro del quale sta la nostra civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno sviluppo e un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che vedono la storia del mondo come un susseguirsi di frammenti caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo. Allora, una prima parte degli interventi è consistita (penso soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a quello di Goggi) nel mettere in luce il calcolo, presente nei miei scritti, della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui è di stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma iniziale della civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è 288 quella della civiltà della tecnica. Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori non si fosse raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e, dall’altro lato (anche ieri il professor Spanio accennava a questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia per le forme più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente. Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il permesso di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in un clima in cui la mia modestia è stata messa duramente alla prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto. Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del sottoscritto (ma è anche questa una fede: che io abbia scritto dei libri fa parte di quella fede nel mondo di cui parlavamo prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato coerentizzazione della storia dell’Occidente. Che, come è venuto in chiaro da parte degli amici che hanno parlato, è la coerentizzazione della Follia estrema. Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le capacità distruttive di un virus ne favoriscono lo sviluppo massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità. Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro prima richiamava i miei scritti su Eschilo, su Leopardi, su Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità. Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande indipendentemente dalla grandezza della negazione della verità. La verità non è qualcosa di grande indipendentemente dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è tale (è un po’ il tema di cui parlava l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare 289 forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze (consistenti nella dominazione definitivamente vittoriosa della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione, allora la stessa energia negativa della verità risulta astratta. Da questo punto di vista potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello, Visentin (chiedo scusa se in questo momento non mi ricordo altri nomi, ma ci sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la negazione dell’errore esige la concretezza dell’errore. Un primo lato di quanto abbiamo sentito in queste due giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi l’immodestia - credo di aver dato una mano. Qualche amico mi dice: guarda che il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che quel cosiddetto «mio Nietzsche» sia in grado di eliminare la forza teoretica della grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col Nietzsche quale appare nei miei scritti, allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia interpretazione, oltre che di Nietzsche, di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti rispetto al passato dell’Occidente, ma sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero qualcosa di diverso (ma non lo credo) peggio per loro: il loro discorso non riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a mostrare l’impossibilità degli eterni e dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre 290 questa capacità l’hanno il Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che finora non mi sembra che debba cedere il passo a un’altra). E qui siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati del mio discorso filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È probabile che una parte di Loro dirà: questo è il mondo, quello in cui crediamo noi è il mondo vero; e quelle che sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la fede, in quanto tale, non giustifica l’affermazione dell’esistenza del proprio contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a coincidere con lo scetticismo ingenuo. Egli pensa: non c’è altro che questo mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione. E invece il mondo della fede è circondato dalla non-fede, cioè dalla verità. E solo per questo può esser qualificato (con verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile, appare l’esistenza della fede, ossia del mondo isolato dalla verità. Discuto questo tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del professor Messinese, di valorizzare la prima fase, la chiamava così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia pure altissima), ma è innanzitutto ben di più, ossia è la manifestazione della verità. Ci stiamo movendo lungo il secondo lato del mio discorso filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano appunto questo secondo lato. Con un’altra metafora geometrica, i due lati corrispondono a due 291 cerchi concentrici. Il cerchio inscritto è la nostra fede nel mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a quell’essere nella verità a cui accennavo prima, è stata dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con quest’altra parte, con la relazione del professor Visentin. Mi rendo conto che rispetto alle accurate articolazioni concettuali che abbiamo sentito, queste mie considerazioni sono molto generiche. Qualche osservazione, quindi, va fatta a proposito delle obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come quelle, mi sembra, del professor Vitiello: mostrano delle difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere, esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di impostare l’obbiezione a ciò che chiamo «struttura originaria del destino della verità», direi che rispetto a questa struttura la situazione è diversa da quella che in campo scientifico si produce quando si vuole assiomatizzare un certo tipo di discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta «aritmetizzazione» della matematica, l’intera complessità del sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa straordinaria di Godei, dove si mostra che partendo da un certo gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono assunti senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento incontrovertibile, come appunto accade per i postulati dell’aritmetica -, non si può escludere che lo sviluppo di tali postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può escludere che la matematica, approfondendo il contenuto semantico dei propri postulati, venga ad accorgersi della contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno alle obbiezioni alla «struttura originaria del destino», allora ci si muove impropriamente, 292 perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si rivolge appunto a quella «struttura») intende appunto escludere una situazione concettuale in cui si parta da postulati, che sono ipotetici, probabili, problematici ecc... È chiaro che partendo da postulati assunti semplicemente in base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come immediatamente tra loro contraddittori, è possibile che si deducano conclusioni o teoremi in sé stessi contraddittori. Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere, cioè del destino della verità, è impossibile che si pervenga a mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto diversa da quella «gòdeliana», perché il fondamento è l’ incontrovertibile e partendo dall’incontrovertibile è impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa base in modo da sviluppare conseguenze che ne siano la negazione. E allora l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più tratti di tale struttura, cioè dal chiedersi perché una certa dimensione concettuale ha l’ardire di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti partire da mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono da questa base è un mostrare solo ipoteticamente (mi pare che con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di questa base. Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria della verità (mi rivolgo dunque non solo a Vitiello, ma anche a prospettive come quelle di Tarca sulla «differenza») intende dire la stessa cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso che tutti noi si risponda di no: altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione («ob» vuol dire «contro»). Anche quando si proclama assolutamente problematica e ipotetica, l’obbiezione assume come indiscutibile - incontrovertibile! - la differenza tra 293 quello che essa dice e ciò contro cui essa dice. Alla base di ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il riconoscimento che i differenti sono differenti - quella differenza che è appunto il contenuto primario della struttura originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è un incominciare a essere d’accordo con la struttura originaria (e pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse proseguire, si dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi auguro che prosegua - chiarendo questo punto. Ma ora è tempo che io ringrazi nuovamente tutti Loro, con ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con invidia per la generosità che Loro hanno avuto nei miei riguardi. Grazie! Debbo tener presente, oltre alle considerazioni estremamente interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e del professor Pagani ieri (ottima la sua relazione), che hanno parlato dopo il mio primo intervento. Era solo per ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo insieme, con Berti, e parlavamo della sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale evoluzione», rispetto all’affermazione di Aristotele, che il semantema (il significato) «essere» non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è nemmeno un significato equivoco. L’osservazione che facevo all’amico Berti era questa: il tuo avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore sottolineatura delle differenze di significato della parola «essere». Anche se l’obiezione può sembrare formale (mi pare che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione formale), però non 294 possiamo prendere sottogamba la circostanza che le differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di identico Tesser differenze. (Tra parentesi: perché le obbiezioni formali devono essere respinte?) È questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando dell’on hei on di Aristotele: che ci sia qualche cosa di identico nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle). L’analogia dei molti sensi dell’essere, non è il risultato di una argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia distinzione tra essere e apparire. «Apparire» è appunto la parola italiana con la quale traduciamo phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge, perché altrimenti (negando cioè l’identità dell’esser differenze delle differenze) il senso dell’«essere» diventa equivoco: non si sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e, se c’è, in Dio. Qualcosa di identico. Invitavo a tener presente l’inizio del libro IV della Metafisica, dove quando Aristotele parla dell’essente in quanto essente (on hei on) dice che essente in quanto essente è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia accidente, e poi arriva persino a dire che anche il non-essere è un essente. Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro - continuare a discutere, penso che il rischio che corri tu, Berti, è quello di arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di differenze del significato essere, che vorrebbero ma non riescono a essere pure differenze, nient’altro che differenze, appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze. Poi mi ha molto interessato quello che ha detto il caro Giorgio Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso di Spinoza e 295 quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il concetto di causa (ben presente in Spinoza)? Adottando il concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce pressappoco con questa espressione «causa sui» - egli mostra di intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno bisogno di causa. Quando ci si chiede la causa delle cose, è perché le si considera appunto come enti che possono esser nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche qui: le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle o vada a riveder le stelle, però la semplice tesi filosofica non è la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime pagine di Borges sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed è la fondazione a dare significato alla tesi. Si tratterebbe dunque di vedere se in Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A proposito del mio più volte citato Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola «neoparmenidismo» - mai. Mai; anzi, è scritto sin da Ritornare a Parmenide che Parmenide è il primo nichilista (immenso anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e profondo, in questo suo intendere l’essere monachos, che anche se oggi, come ha ricordato il professor Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe inventarlo quel Parmenide tradizionale che la storiografia contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli 296 prende positivamente in considerazione la dóxa, che non si limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc. Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide che oggi viene emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori - grandi pensatori (chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica. Mi fermo qui. * Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla discussione, l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è «incoerente» la pretesa di fondare l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il rilevamento di questa «incoerenza» è a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper, anche questa argomentazione, che conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una «fede irrazionale», è a sua volta fondata su una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile. * - Due interventi alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi «Il destino dell’essere. Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino» tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di Venezia. 297 Sezione terza Postille alla sezione prima 298 Al capitolo I 1. La bellezza e il male Gli uomini chiamano «male» tutto ciò che essi non vogliono - innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita. L’immagine si libra al di sopra del dolore. In qualche modo se ne libera, rendendolo sopportabile. La più antica delle immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è chiamata theorìa, che significa «contemplazione», «immagine», appunto. Nella festa sono fuse insieme le forze che poi, separandosi, si chiameranno «mito», «arte», ekklesìa, «tecnica», «sapienza». In ognuna di queste forze separate si prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche nelle arti figurative, dunque. Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra altro che lo splendore delle forme della scultura greca, delle «Madonne col Bambino» di Raffaello, dell’«Amor sacro e profano» di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne vedremmo la potenza, la capacità di tener lontano da sé il male, il brutto, il dolore. Dove la bella forma sembra dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica, c’è sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto intensamente visibile proprio per la sua assenza. Non «vedere» questo Assente è non vedere la bellezza del bene. Una mostra della rappresentazione visiva del male dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una mostra a Torino ha operato - né poteva, dunque, fare diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il 299 male si rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro la scena, che provoca un’angoscia ancora più inquietante perché è lasciato dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo riferirmi all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella suscitata dalla parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado errato. Credo che in quella mostra non fosse presente alcuna «Madonna col bambino» di Raffaello. Ma in queste figure - avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria assenza del sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò che per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a coloro a cui il dipinto si rivolgeva. La mostra di Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la selezione di cui dicevo. Lasciando da parte la questione di come è possibile, oggi, parlare di «valore artistico», è possibile indicare il senso autentico dello sviluppo storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto temporale era dal Beato Angelico ai grandi pittori del Novecento: dal tempo in cui il cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del cristianesimo. La pittura lo rispecchia. Come ogni altra opera dell’uomo occidentale. Dapprima la rappresentazione mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La serietà delle Madonne e le Deposizioni nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e della Gloria. Il tratto salvifico 300 dell’immagine è il Racconto cristiano. Colori, figure, prospettive hanno come scopo la celebrazione della salvezza cristiana dal male. Ma un poco alla volta si fa innanzi un atteggiamento nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni, anche l’artista figurativo, come il poeta, non dipinge più per celebrare Cristo, ma celebra Cristo per dipingere, per celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento dove il mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la celebrazione della salvezza cristiana, diventa mezzo, pretesto. In questo processo, rimane pur sempre incombente il male - di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio ma tale contenuto non essendo più lo scopo dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto, va perdendo la propria potenza ed efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre più dalla potenza della forma pittorica e sempre meno dal contenuto cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra - o della forma sul difforme - a impersonare il dominio del bene sul male. Questo processo giunge al culmine quando anche la pittura del nostro tempo eredita il distacco dal divino - prodotto soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e non può assumere il Racconto cristiano nemmeno come mezzo e pretesto per 1’evocazione della forma artistica. La quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle spalle di quel Racconto. Il dipinto, ormai, mostra il difforme, il male, il dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla potenza con cui il male è mostrato 301 dall’immagine. La forma è tolta via dal contenuto dell’opera d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la potenza dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la dissoluzione della forma, il difforme, giacché la forma che prima apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano figurativo quell’ordinamento immutabile del mondo, evocato dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Ma la salvezza dal male, separata dal divino, non può più avere la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco, sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni «valore artistico» - altre forme della rappresentazione visiva, come la fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso l’immagine, a un male che si presenta in carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi da esso. 302 2. Arte e tecnica Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica - e nel Medioevo le stesse arti figurative non venivano considerate arti vere e proprie («arti liberali») ma «arti meccaniche». Anche la semplice voce e la semplice scrittura della poesia richiedono mnemotecniche, tecniche della dizione, tecniche per la produzione del materiale richiesto dalla scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche modo la musica) richiedono tecniche guidate dalla matematica, dalla geometria e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno innanzi quando il rovesciamento di mezzo e fine ha già preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede sempre più decisamente verso la produzione di una realtà nuova. Con la tecnica del nostro tempo l’immagine festiva si solleva al di sopra del proprio carattere di imma organizzavano e vi partecipavano. Vivo la qualità etica di chi festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i festeggianti. D’altra parte considero questo nostro incontro come manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio discorso filosofico, emerge soprattutto l’interesse profondo 286 per la filosofia da parte di coloro che di questa università costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama culturale italiano, dato che (mi pare di aver dichiarato da qualche parte) anche per merito del dipartimento di filosofia di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia straniera. L’Italia ha oggi pensatori di altissimo livello. Anche per questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è data dalla presenza di pensatori che, venendo da altre università, contribuiscono ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo però un abbraccio al professor Spanio, in particolare, per l’amicizia con la quale si è impegnato per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso splendido: abbiamo sentito voci quanto mai rilevanti e variegate. Come quelle ben note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e di tutti quelli che hanno parlato. Scusino se non li nomino tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo convegno, e allora andava via tutto lo spazio per l’intervista, oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che è stato ricordato dal professor Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è direttore del dipartimento di filosofia. Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che mi sono stati suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei rivolgermi soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può avere avuto l’impressione - avevo incominciato a dire - di una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico- 287 politici. Come eliminare questa impressione? Tento di rispondere. Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così come crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con una struttura sociale nella quale esistono forze politiche, economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia, America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande fede alla quale nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo parlando di filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia, alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede (come ogni fede) è un attribuire un valore di verità (usiamo così «alla buona» la parola verità) a ciò che in quanto contenuto di fede non ha verità. E a cui, però, noi non sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al di fuori della nostra fede. Allora, una parte degli interventi - che qui ho sentito con estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che terrò presenti anche nel loro aspetto critico - si riferisce al contenuto di questa fede, al centro del quale sta la nostra civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno sviluppo e un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che vedono la storia del mondo come un susseguirsi di frammenti caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo. Allora, una prima parte degli interventi è consistita (penso soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a quello di Goggi) nel mettere in luce il calcolo, presente nei miei scritti, della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui è di stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma iniziale della civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è 288 quella della civiltà della tecnica. Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori non si fosse raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e, dall’altro lato (anche ieri il professor Spanio accennava a questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia per le forme più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente. Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il permesso di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in un clima in cui la mia modestia è stata messa duramente alla prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto. Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del sottoscritto (ma è anche questa una fede: che io abbia scritto dei libri fa parte di quella fede nel mondo di cui parlavamo prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato coerentizzazione della storia dell’Occidente. Che, come è venuto in chiaro da parte degli amici che hanno parlato, è la coerentizzazione della Follia estrema. Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le capacità distruttive di un virus ne favoriscono lo sviluppo massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità. Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro prima richiamava i miei scritti su Eschilo, su Leopardi, su Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità. Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande indipendentemente dalla grandezza della negazione della verità. La verità non è qualcosa di grande indipendentemente dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è tale (è un po’ il tema di cui parlava l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare 289 forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze (consistenti nella dominazione definitivamente vittoriosa della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione, allora la stessa energia negativa della verità risulta astratta. Da questo punto di vista potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello, Visentin (chiedo scusa se in questo momento non mi ricordo altri nomi, ma ci sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la negazione dell’errore esige la concretezza dell’errore. Un primo lato di quanto abbiamo sentito in queste due giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi l’immodestia - credo di aver dato una mano. Qualche amico mi dice: guarda che il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che quel cosiddetto «mio Nietzsche» sia in grado di eliminare la forza teoretica della grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col Nietzsche quale appare nei miei scritti, allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia interpretazione, oltre che di Nietzsche, di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti rispetto al passato dell’Occidente, ma sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero qualcosa di diverso (ma non lo credo) peggio per loro: il loro discorso non riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a mostrare l’impossibilità degli eterni e dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre 290 questa capacità l’hanno il Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che finora non mi sembra che debba cedere il passo a un’altra). E qui siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati del mio discorso filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È probabile che una parte di Loro dirà: questo è il mondo, quello in cui crediamo noi è il mondo vero; e quelle che sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la fede, in quanto tale, non giustifica l’affermazione dell’esistenza del proprio contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a coincidere con lo scetticismo ingenuo. Egli pensa: non c’è altro che questo mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione. E invece il mondo della fede è circondato dalla non-fede, cioè dalla verità. E solo per questo può esser qualificato (con verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile, appare l’esistenza della fede, ossia del mondo isolato dalla verità. Discuto questo tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del professor Messinese, di valorizzare la prima fase, la chiamava così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia pure altissima), ma è innanzitutto ben di più, ossia è la manifestazione della verità. Ci stiamo movendo lungo il secondo lato del mio discorso filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano appunto questo secondo lato. Con un’altra metafora geometrica, i due lati corrispondono a due 291 cerchi concentrici. Il cerchio inscritto è la nostra fede nel mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a quell’essere nella verità a cui accennavo prima, è stata dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con quest’altra parte, con la relazione del professor Visentin. Mi rendo conto che rispetto alle accurate articolazioni concettuali che abbiamo sentito, queste mie considerazioni sono molto generiche. Qualche osservazione, quindi, va fatta a proposito delle obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come quelle, mi sembra, del professor Vitiello: mostrano delle difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere, esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di impostare l’obbiezione a ciò che chiamo «struttura originaria del destino della verità», direi che rispetto a questa struttura la situazione è diversa da quella che in campo scientifico si produce quando si vuole assiomatizzare un certo tipo di discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta «aritmetizzazione» della matematica, l’intera complessità del sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa straordinaria di Godei, dove si mostra che partendo da un certo gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono assunti senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento incontrovertibile, come appunto accade per i postulati dell’aritmetica -, non si può escludere che lo sviluppo di tali postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può escludere che la matematica, approfondendo il contenuto semantico dei propri postulati, venga ad accorgersi della contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno alle obbiezioni alla «struttura originaria del destino», allora ci si muove impropriamente, 292 perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si rivolge appunto a quella «struttura») intende appunto escludere una situazione concettuale in cui si parta da postulati, che sono ipotetici, probabili, problematici ecc... È chiaro che partendo da postulati assunti semplicemente in base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come immediatamente tra loro contraddittori, è possibile che si deducano conclusioni o teoremi in sé stessi contraddittori. Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere, cioè del destino della verità, è impossibile che si pervenga a mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto diversa da quella «gòdeliana», perché il fondamento è l’ incontrovertibile e partendo dall’incontrovertibile è impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa base in modo da sviluppare conseguenze che ne siano la negazione. E allora l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più tratti di tale struttura, cioè dal chiedersi perché una certa dimensione concettuale ha l’ardire di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti partire da mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono da questa base è un mostrare solo ipoteticamente (mi pare che con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di questa base. Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria della verità (mi rivolgo dunque non solo a Vitiello, ma anche a prospettive come quelle di Tarca sulla «differenza») intende dire la stessa cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso che tutti noi si risponda di no: altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione («ob» vuol dire «contro»). Anche quando si proclama assolutamente problematica e ipotetica, l’obbiezione assume come indiscutibile - incontrovertibile! - la differenza tra 293 quello che essa dice e ciò contro cui essa dice. Alla base di ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il riconoscimento che i differenti sono differenti - quella differenza che è appunto il contenuto primario della struttura originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è un incominciare a essere d’accordo con la struttura originaria (e pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse proseguire, si dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi auguro che prosegua - chiarendo questo punto. Ma ora è tempo che io ringrazi nuovamente tutti Loro, con ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con invidia per la generosità che Loro hanno avuto nei miei riguardi. Grazie! Debbo tener presente, oltre alle considerazioni estremamente interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e del professor Pagani ieri (ottima la sua relazione), che hanno parlato dopo il mio primo intervento. Era solo per ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo insieme, con Berti, e parlavamo della sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale evoluzione», rispetto all’affermazione di Aristotele, che il semantema (il significato) «essere» non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è nemmeno un significato equivoco. L’osservazione che facevo all’amico Berti era questa: il tuo avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore sottolineatura delle differenze di significato della parola «essere». Anche se l’obiezione può sembrare formale (mi pare che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione formale), però non 294 possiamo prendere sottogamba la circostanza che le differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di identico Tesser differenze. (Tra parentesi: perché le obbiezioni formali devono essere respinte?) È questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando dell’on hei on di Aristotele: che ci sia qualche cosa di identico nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle). L’analogia dei molti sensi dell’essere, non è il risultato di una argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia distinzione tra essere e apparire. «Apparire» è appunto la parola italiana con la quale traduciamo phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge, perché altrimenti (negando cioè l’identità dell’esser differenze delle differenze) il senso dell’«essere» diventa equivoco: non si sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e, se c’è, in Dio. Qualcosa di identico. Invitavo a tener presente l’inizio del libro IV della Metafisica, dove quando Aristotele parla dell’essente in quanto essente (on hei on) dice che essente in quanto essente è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia accidente, e poi arriva persino a dire che anche il non-essere è un essente. Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro - continuare a discutere, penso che il rischio che corri tu, Berti, è quello di arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di differenze del significato essere, che vorrebbero ma non riescono a essere pure differenze, nient’altro che differenze, appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze. Poi mi ha molto interessato quello che ha detto il caro Giorgio Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso di Spinoza e 295 quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il concetto di causa (ben presente in Spinoza)? Adottando il concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce pressappoco con questa espressione «causa sui» - egli mostra di intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno bisogno di causa. Quando ci si chiede la causa delle cose, è perché le si considera appunto come enti che possono esser nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche qui: le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle o vada a riveder le stelle, però la semplice tesi filosofica non è la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime pagine di Borges sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed è la fondazione a dare significato alla tesi. Si tratterebbe dunque di vedere se in Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A proposito del mio più volte citato Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola «neoparmenidismo» - mai. Mai; anzi, è scritto sin da Ritornare a Parmenide che Parmenide è il primo nichilista (immenso anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e profondo, in questo suo intendere l’essere monachos, che anche se oggi, come ha ricordato il professor Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe inventarlo quel Parmenide tradizionale che la storiografia contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli 296 prende positivamente in considerazione la dóxa, che non si limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc. Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide che oggi viene emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori - grandi pensatori (chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica. Mi fermo qui. * Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla discussione, l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è «incoerente» la pretesa di fondare l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il rilevamento di questa «incoerenza» è a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper, anche questa argomentazione, che conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una «fede irrazionale», è a sua volta fondata su una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile. * - Due interventi alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi «Il destino dell’essere. Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino» tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di Venezia. 297 Sezione terza Postille alla sezione prima 298 Al capitolo I 1. La bellezza e il male Gli uomini chiamano «male» tutto ciò che essi non vogliono - innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita. L’immagine si libra al di sopra del dolore. In qualche modo se ne libera, rendendolo sopportabile. La più antica delle immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è chiamata theorìa, che significa «contemplazione», «immagine», appunto. Nella festa sono fuse insieme le forze che poi, separandosi, si chiameranno «mito», «arte», ekklesìa, «tecnica», «sapienza». In ognuna di queste forze separate si prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche nelle arti figurative, dunque. Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra altro che lo splendore delle forme della scultura greca, delle «Madonne col Bambino» di Raffaello, dell’«Amor sacro e profano» di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne vedremmo la potenza, la capacità di tener lontano da sé il male, il brutto, il dolore. Dove la bella forma sembra dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica, c’è sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto intensamente visibile proprio per la sua assenza. Non «vedere» questo Assente è non vedere la bellezza del bene. Una mostra della rappresentazione visiva del male dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una mostra a Torino ha operato - né poteva, dunque, fare diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il 299 male si rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro la scena, che provoca un’angoscia ancora più inquietante perché è lasciato dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo riferirmi all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella suscitata dalla parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado errato. Credo che in quella mostra non fosse presente alcuna «Madonna col bambino» di Raffaello. Ma in queste figure - avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria assenza del sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò che per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a coloro a cui il dipinto si rivolgeva. La mostra di Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la selezione di cui dicevo. Lasciando da parte la questione di come è possibile, oggi, parlare di «valore artistico», è possibile indicare il senso autentico dello sviluppo storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto temporale era dal Beato Angelico ai grandi pittori del Novecento: dal tempo in cui il cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del cristianesimo. La pittura lo rispecchia. Come ogni altra opera dell’uomo occidentale. Dapprima la rappresentazione mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La serietà delle Madonne e le Deposizioni nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e della Gloria. Il tratto salvifico 300 dell’immagine è il Racconto cristiano. Colori, figure, prospettive hanno come scopo la celebrazione della salvezza cristiana dal male. Ma un poco alla volta si fa innanzi un atteggiamento nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni, anche l’artista figurativo, come il poeta, non dipinge più per celebrare Cristo, ma celebra Cristo per dipingere, per celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento dove il mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la celebrazione della salvezza cristiana, diventa mezzo, pretesto. In questo processo, rimane pur sempre incombente il male - di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio ma tale contenuto non essendo più lo scopo dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto, va perdendo la propria potenza ed efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre più dalla potenza della forma pittorica e sempre meno dal contenuto cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra - o della forma sul difforme - a impersonare il dominio del bene sul male. Questo processo giunge al culmine quando anche la pittura del nostro tempo eredita il distacco dal divino - prodotto soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e non può assumere il Racconto cristiano nemmeno come mezzo e pretesto per 1’evocazione della forma artistica. La quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle spalle di quel Racconto. Il dipinto, ormai, mostra il difforme, il male, il dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla potenza con cui il male è mostrato 301 dall’immagine. La forma è tolta via dal contenuto dell’opera d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la potenza dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la dissoluzione della forma, il difforme, giacché la forma che prima apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano figurativo quell’ordinamento immutabile del mondo, evocato dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Ma la salvezza dal male, separata dal divino, non può più avere la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco, sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni «valore artistico» - altre forme della rappresentazione visiva, come la fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso l’immagine, a un male che si presenta in carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi da esso. 302 2. Arte e tecnica Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica - e nel Medioevo le stesse arti figurative non venivano considerate arti vere e proprie («arti liberali») ma «arti meccaniche». Anche la semplice voce e la semplice scrittura della poesia richiedono mnemotecniche, tecniche della dizione, tecniche per la produzione del materiale richiesto dalla scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche modo la musica) richiedono tecniche guidate dalla matematica, dalla geometria e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno innanzi quando il rovesciamento di mezzo e fine ha già preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede sempre più decisamente verso la produzione di una realtà nuova. Con la tecnica del nostro tempo l’immagine festiva si solleva al di sopra del proprio carattere di imma e e tende a diventare la realtà nuova che sostituisce la realtà angosciante originaria, al di sopra della quale già si era sollevata l’immagine festiva. Ad esempio - ma l’esempio è tra i più significativi - la tecnica guidata dalla scienza moderna pensa già alla costruzione di una vita umana in cui la sofferenza e la morte siano allontanate il più possibile. La tecnica stabilisce la nuova aura festiva, più potente di ogni immagine festiva perché la festa, ora, è la produzione di una realtà nuova - la produzione che anticipa l’Apocalisse cristiana, dove la terra nuova e il nuovo cielo sostituiscono la vecchia terra e il vecchio cielo. Ma la logica della scienza, che sta al fondamento della tecnica, non è una logica della verità assoluta e incontrovertibile. È una logica ipotetica. La scienza stessa è un sapere ipotetico-deduttivo. La liberazione tecnologica dalla 303 sofferenza e dalla morte, per quanto stupefacenti possano essere i suoi progressi, rimane pur sempre una liberazione ipotetica, esposta cioè in ogni momento alla possibilità che l’intera legislazione scientifica si mostri incapace di dominare le cose e che l’uomo ripiombi nell’antica indigenza di una vita semianimale o addirittura nella propria completa estinzione. La tecnica non salva l’uomo dal nulla. Ogni salvezza è ipotetica. Il pensiero filosofico del nostro tempo è destinato a farsi udire dalla tecnica, a farle sentire che nessuna potenza può salvare necessariamente, incontrovertibilmente dal nulla, e che dunque la minaccia del nulla rimane sospesa su ogni avanzamento tecnologico della liberazione dell’uomo dal dolore e dalla morte. La nuova realtà e la nuova vita, che la tecnica produce sostituendo l’antica immagine festiva della realtà e della vita, si presenta così a sua volta esposta al dolore e alla morte, tanto più insopportabili quanto maggiore è la felicità dell’aura festiva che la tecnica sia riuscita a produrre. È a questo punto che l’arte può riproporsi come l’ultimo barlume dell’immagine festiva, che per la seconda volta si solleva al di sopra della realtà - al di sopra cioè di quella nuova realtà che con la tecnica sta oggi sostituendo l’antica immagine festiva e salvifica della realtà originaria. È, questo, il pensiero di Leopardi: quando - dopo il tramonto della verità definitiva e assoluta della tradizione occidentale (cioè dopo il tramonto a cui appartiene quel che Nietzsche chiama «morte di Dio») - appare che nemmeno la tecnica ha la potenza di salvare con necessità (ossia non ipoteticamente) l’uomo dal nulla, allora la potenza dell’immagine poetica che canta l’impossibilità di ogni salvezza non ipotetica dal nulla rimane l’ultimo barlume di quella forma di festa in cui la poesia e l’arte consistono - quella forma di festa dove è la potenza del canto, e non il suo contenuto, a salvare ancora per un poco dal nulla (cfr. E.S., Il 304 nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, cit.). 305 3. Arte e tendenza fondamentale del nostro tempo A volte, certi essenti che chiamiamo «opere d’arte» stanno in una relazione specifica con l’«infìnito». Se non nel senso che essi «rappresentano senz’altro l’«infinito», nel senso che qualcuno crede che lo rappresentino. Ma, anche qui, ciò che la tradizione filosofica intende per «infinito» non può essere sempre presente, nel suo autentico e concreto significato, a chi crede in quel modo, ossia a chi ha quella fede. D’altra parte, anche se in tale fede l’«infinito» può apparire in modo indeterminato, ambiguo, inadeguato, a volte essa è tuttavia la fede di stare dinanzi a qualcosa di ultimo, non oltrepassabile, intoccabile. Sono i casi in cui anche l’uomo comune è disposto a parlare della «bellezza» di ciò che gli sta dinanzi; e sono i casi in cui l’uomo comune nomina come può l’«infinito». Beati gli umili (gli uomini comuni), perché di costoro è il regno dei cieli - dove, in questo caso, il Regno dei Cieli è il regno della bellezza che appare aH’interno della fede (ingenua, umile) che qualcosa sia il senso ultimo delle cose, inoltrepassabile, intoccabile. Schelling, come Hegel, non parla di «fede», ma di una «rappresentazione» che, sia pure «per riflesso», è verità che essa abbia come contenuto l’«infinito», cioè Dio. Si tratta della «verità» dell’intera tradizione filosofica, che giunge al suo culmine ma anche al suo compimento. Si può parlare di «arte contemporanea» prescindendo dalla tendenza fondamentale del nostro tempo? Si può parlare di un uccello migratore - sapere che natura abbia, da dove venga e dove vada - prescindendo dallo stormo che sta migrando? Oggi il grande stormo del nostro tempo sta migrando verso l’estrema lontananza da Dio. Il grande uccello dell’arte non può che andare nella stesa direzione. Schelling è ancora un grande amico di Dio, ossia dell’«archetipo» per eccellenza. 306 L’arte contemporanea sta invece vivendo anch’essa ciò che Nietzsche chiama «morte di Dio». Ci si accorge che la «materia» è senza «luce», il «reale» senza «ideale». Il contenuto della «bellezza» si trasforma radicalmente. La bellezza, ora, è innanzitutto, ma non unicamente, la capacità, da parte dell’«opera d’arte», di suscitare in qualcuno la convinzione che in essa sia presente quel senso ultimo del mondo che è il trovarsi privi di Dio e la disperazione che ne consegue. Anche qui, ci si può rivolgere a questa terribile bellezza da uomini «umili», «poveri di spirito», che però questa volta non possono essere «beati» (o la cui beatitudine può consistere, come dice Leopardi, solo nella forza con cui vedono la propria infelicità, debolezza, nullità). Il «tragico», la «frantumazione» dell’«ordine» e del «sacro», il «frammento» sono aspetti della «morte di Dio». Questa è la «vertigine del moderno». Ma pensatori come Benjamin e molti altri del tempo presente hanno molto da imparare da Nietzsche - e innanzitutto da Leopardi non hanno qualcosa di essenziale da insegnargli o un’obiezione decisiva da muovergli. Proprio per questo il nostro tempo è «tragico». Se la negazione nietzschiana di Dio fosse oscillante, la speranza nei vecchi valori non sarebbe spenta - mentre in verità è spenta, anche se molti sono ancora quelli che sperano. In quanto tendenza fondamentale del nostro tempo, lo stormo di uccelli di cui qui si è detto è l’ultimo degli stormi di cui prima si è parlato - o il penultimo, se si tiene presente che anche la civiltà della tecnica è destinata al tramonto (cfr. E.S., Oltrepassare, cit., cap. X). Del tragico le élites si sono accorte da tempo; le masse stanno accorgendosene. Infatti, come oltre ai modi adeguati di rivolgersi a Dio ci sono quelli inedeguati, così c’è adeguatezza e inadeguatezza nel rivolgersi al cadavere di Dio, 307 cioè nel pensare che Dio è morto. Nel tempo della morte di Dio, la «bellezza» è la fede di qualcuno - ma è una fede in espansione - per il quale il «tragico» è, appunto, il senso ultimo del mondo e che crede che in certi essenti, detti «opere d’arte», questo senso si manifesti. Si parlava prima dello stormo di uccelli che migrano. Migrano verso un tempo dove la Tecnica sostituisce Dio. I due si assomigliano molto più di quanto di solito si creda. Ma la questione decisiva è che cosa sia l’Aria in cui lo stormo si muove. Lo stormo non può saperlo. Vola verso la morte di Dio - come lo stormo della tradizione volava verso la vita di Dio. Sono accomunati (amici e nemici di Dio) dalla volontà di dominare gli spazi. Ma poi resta la questione di ciò che qui ci limitiamo a chiamare «Aria» - che è libera da ogni volo e sta al di sopra della vita e della morte di Dio. Qui, di essa, si può dire che non ha nulla a che vedere con i modi in cui, all’interno dei voli, si è voluto andare oltre Dio e gli dèi e si è pensato alla creazione come suicidio di Dio e alla terra come al suo cadavere. È tecnica il Dio demiurgo, ma è tecnica anche il Dio suicida. Li accomuna la volontà di manomettere l’essere. Nella nostra cultura, chi si vuole portare al di sopra dell’azione e della dimensione demiurgica crede pur sempre nella loro esistenza. L’arte lo ha sempre creduto. Oggi lo crede ancora di più. Svela la propria anima tecnico-demiurgica. L’Aria, di cui parlavo, è invece l’apparire dell’eternità di ogni essere. Appare allora, in questo apparire, che l’azione - anche l’opera d’arte, dunque - è soltanto un contenuto della fede. Cioè non soltanto la «bellezza», ma anche Inesistenza» dell’opera d’arte - ossia dell’opera che «fa essere le cose che non sono» (J.J. Bodmer) - è il contenuto di una fede. 308 4. Immagini festive Dice Leopardi che, nelle «opere di genio», «l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua della cose e sua propria» ( Zibaldone , 261). Una vita illusoria, ma che, sia pure per poco, rende possibile la sopravvivenza dell’uomo. Un tema centrale, questo, del pensatore-poeta che ha aperto la strada all’intera cultura del nostro tempo. La prima «opera di genio» è quella dei popoli più antichi: la festa, che è l’immagine della vita e dunque della morte. L’immagine si libra al di sopra del mondo: gli uomini festivi si identificano in essa e si sentono quindi salvi dalla morte. Più tardi la festa arcaica si dissolve e le sue membra diventano religione, tecnica profana, arte. Oggi la festa si celebra soprattutto in quelle sue deformanti e impallidite derivazioni che sono le folle delle partite sportive, della musica rock, delle visite dei pontefici romani e, in minor misura, del cinema. Si dice che nei precedenti film di Terrence Malick emerga l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane: al loro orrore come ai pochi momenti di felicità. Ancora più crudele la natura, nei film di questo regista, quando il massacro è circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all’alba e al tramonto, di fiumi, di mari. Se si uccidono dinanzi a una natura che mostra a sua volta il proprio volto terribile, gli uomini possono sentire che in qualche modo essa partecipa ai loro tormenti. In ogni caso, non li rende sopportabili. Ma questa interpretazione va nella direzione sbagliata. Per lo meno è unilaterale. Certo, il timore è l’inseparabile compagno dell’uomo. Il dolore e la morte ne sono la radice. Ma, per quanto vissuta nei suoi derivati, la festa non ha cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che nei film di Malick la bellezza della natura non è l’indifferenza, 309 incapace di rendere sopportabile il dolore, ma è la forza con cui l’immagine festiva, facendo sentire la morte, dà vita air«anima». Se non si guarda in questa seconda direzione, l’ultimo film di Malick, L’albero della vita, delude. Sembra battere, sorprendentemente, una strada del tutto diversa da quelli precedenti. La strada biblica (nominata quasi all’inizio del film). Per la quale chi segue la «via della Grazia» non avrà timore. Che poi è la strada di tutte le religioni. Infatti il timore è vinto, cioè reso sopportabile, solo quando ci si convince di riuscire a stabilire un’alleanza con quella che si ritiene la Potenza suprema - e il «Divino» è appunto questa Potenza. Perché ciò accada è necessario che essa accolga il desiderio dell’uomo; e poiché nulla può costringerla 1’accoglierlo è una Grazia, un dono. Si può dire che Inalbero della vita» sia questa alleanza. L’«anima» riceverebbe vita da questa alleanza. L’intera tradizione dell’Occidente lo pensa. Se l’«uomo» è l’essere che crediamo di conoscere, la fede nella possibilità di questa alleanza è inestirpabile. Per questo la religione si riaffaccia continuamente nella coscienza umana. La cultura europea ha messo in discussione Dio, ma non il bisogno di allearsi con la potenza che si ritiene suprema. Oggi, nonostante tutto, si tende a ritrovarla nella tecnica guidata dalla scienza moderna. In Europa le masse avvertono più che altrove il disagio di un’esistenza che va sempre più allontanandosi da Dio e che d’altra parte non si vede ancora sufficientemente garantita da una tecnica ancora troppo confusa con la gestione capitalistica della tecnica. Continuando a seguire questa linea interpretativa, che conduce il film di Malick nella direzione sbagliata, esso può allora risultare sorprendente perché, prendendo le distanze dai contenuti dalla cultura europea del nostro tempo, dà voce, 310 sia pure con un linguaggio elitario e con uno scarto che viene indicato qui avanti, ai contenuti tradizionali della religiosità americana. Non si tratta forse di un regista provvisto di una rispettabile preparazione filosofica? Tale cioè da averlo messo in grado di pubblicare la traduzione di una difficile opera di Martin Heidegger? Il che - si potrebbe osservare tra parentesi - metterebbe in luce qualcosa di più importante, cioè la porta che Heidegger ha lasciato aperta al divino; e che in qualche modo ha tentato di tener aperta anche per Nietzsche, che invece si rifiuta di venir sospinto lungo questa strada. Heidegger guarda infatti al passato della cultura europea come a qualcosa da cui non si può prendere un definitivo congedo. «Solo un Dio ci può salvare», egli scrive - a differenza di pensatori radicali come Nietzsche, appunto, o Giovanni Gentile, o, innanzitutto, proprio Giacomo Leopardi, al quale Malick, si verrebbe a trovare vicino se lo sfondo del suo quadro poetico fosse l’indifferenza della natura per il dolore e la felicità dell’uomo. Il protagonista del film è un ragazzo che ama, anche morbosamente, la madre, dolcissima, e patisce l’esteriorità della fede religiosa e il carattere soffocante e a volte brutale del padre, e perde il fratello e non vede la ragione di esser buono quando Dio è cattivo; ma infine, fattosi adulto, varca la porta del dubbio e tra sogno e veglia si riconcilia con un mondo dove la madre offre a Dio il proprio figlio, i morti risorgono e tutti si amano. Ma allora - vien fatto di dire - che la fede sia una lotta continua col dubbio, la disperazione, il cedimento al peccato, il cristianesimo lo sa da duemila anni. La tradizione religiosa americana preferisce chiudere presto i conti con il dramma della fede: predilige la compostezza, dove però, il dramma, più che risolto è tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo 311 scarto del film di Malick rispetto a quella tradizione si ridurrebbe a ben poco, cioè alla coscienza che quel dramma esiste. Sarebbe dunque un film edificante. Che però parlerebbe un linguaggio che per un verso è d’avanguardia ed enigmatico, per l’altro lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi ai tratti più toccanti dell’amore e a una natura splendida e sovrana. La forma lussureggiante e innovativa dell’immagine non farebbe allora che mascherare il contenuto edificante, cioè l’aspetto scontato del film. Però l’interpretazione che abbiamo sin qui prospettato non rende giustizia a quell’immagine. La quale non esprime l’indifferenza della natura per l’uomo, ma ha il carattere festivo di cui si parlava all’inizio. Che il contenuto «americano» del film di Malick sia edificante e scontato non ha più importanza del fatto che i contenuti dell’antica tragedia greca sono una serie di miti che tutti gli spettatori conoscevano dall’infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove se li vedevano riproposti. Sono i miti che parlano della vita, dunque della morte. Prometeo, Edipo, la guerra di Troia. Ma come li riproponeva il teatro greco? Riproducendo l’immagine festiva che solleva gli spettatori sopra la morte: l’immagine che è sentita più reale e più rassicurante dello stesso carattere salvifico del mito che in essa viene riproposto. E come il mito greco continua a salvare l’uomo evoluto della polis solamente quando esso si trasfigura nell’immagine festiva del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il credente dell’Europa moderna soltanto quando anch’esso si esprime nell’immagine festiva della Divina Commedia, nella Cappella Sistina, nella Passione secondo san Matteo : soltanto nella fusione di rito e arte. Nella minore dimensione del cinema avviene qualcosa di analogo. In questo diverso senso, L’albero della vita è davvero un’opera «edificante» ( aedes facere ): «costruisce la casa» dell’immagine festiva e salvifica. 312 Al capitolo II 5. L’imperatore Giuliano e Hegel L’imperatore Giuliano, «l’apostata», si adopera perché tra il popolo vengano diffusi e difesi i miti e i riti pagani. E tuttavia non è altrettanto noto che, ai suoi occhi, essi appaiono non meno assurdi delle «finzioni mostruose» del cristianesimo. Che senso ha, allora, questa sua difesa del paganesimo? Scritto nel 1964, uno dei saggi che compongono II silenzio della tirannide di Alexandre Kojève (Adelphi 2004) aiuta a rispondere. Giuliano è filosofo autentico e grande imperatore. Spesso danneggiato dagli estimatori. Vince nelle Gallie e in Persia. Muore a trentadue anni in battaglia. Se è vero che il cristianesimo è uno dei maggiori fattori della crisi dell’impero romano, la volontà di Giuliano di riportare al paganesimo i popoli dell’impero è lungimirante. Ed è una volontà politica; non l’espressione di una fede religiosa. Per lui, sia il cristianesimo sia il paganesimo sono «miti», cioè «storie false in forma credibile». Però il mito pagano può ancora salvare l’impero. In ogni mito - egli scrive - il «senso» è «contraddittorio» (falso, «indegno»), mentre l’«espressione» o è capace di mascherare la contraddizione del senso - e in questo caso il mito ha come contenuto il divino, oppure, come nella «poesia», l’espressione non si preoccupa di nascondere l’assurdo, ma si rivolge a chi, ancora «bambino» nel fisico o nella mente, può credere in esso. In entrambi i casi, la contraddizione è mobilitata per conseguire «un fine utile» o per «divertire» (Pascal parlerà di divertissement), per allontanare cioè lo spettro della morte. Affinché l’impero viva, al popolo bisogna nascondere la «verità»: che con la morte è tutto finito. Kojève qualifica giustamente come «straordinario» questo passo di Giuliano. 313 Kojève: uno dei maggiori interpreti di Hegel. Anzi, per lui Hegel è «il» Filosofo oltre il quale non si può andare. E di Giuliano egli mostra più volte perché lo si debba considerare un «“hegeliano” ante litteram». Proprio così. (Per esempio legge in Giuliano l’anticipazione del celebre tema hegeliano del riconoscimento del signore da parte del servo.) Ora, è notevole che lo «straordinario» discorso di Giuliano, intorno alla contraddittorietà del contenuto del mito, per Kojève non faccia una piega. Giuliano dice che, proprio perché il contenuto (il «senso») del mito, cristiano o pagano che sia, è contraddittorio, proprio per questo esso è inesistente. Un discorso aristotelico. Ma è anche noto che il problema fondamentale dell’interpretazione di Hegel è stato ed è tuttora il rapporto tra questo pensatore e il «principio di non contraddizione». Sono molti a ritenere incautamente (Popper in prima fila) che Hegel sia pervenuto alla negazione di questo principio, e cioè che per lui la realtà sia, alla lettera, contraddittoria. Quale occasione migliore dello «straordinario» discorso di Giuliano avrebbe avuto allora Kojève per allinearsi a quei cattivi interpreti, e dire con forza (lui, che invece vede nel pensiero di Hegel la Verità) che il discorso di Giuliano non sta in piedi, appunto perché identifica Yirrealtà con la contraddittorietà? E invece niente. Anche per questo silenzio Kojève è un grande interprete di Hegel. 314 6. Impero romano e «Germania totalitaria» «I Romani hanno conquistato il mondo con la serietà, la disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee e del metodo; con la convinzione di essere una razza superiore e nata per comandare; con l’impiego meditato, calcolato della più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda più ipocrita, messe in atto simultaneamente o di volta in volta; con una risolutezza incrollabile nel sacrificare sempre tutto al prestigio, senza essere mai sensibili né al pericolo, né alla pietà, né ad alcun rispetto umano; con l’arte di alterare nel terrore l’anima stessa dei loro avversari, o di addormentarli con la speranza, prima di asservirli con le armi; infine con una manipolazione così abile della menzogna più grossolana da ingannare persino la posterità e da continuare a ingannarci. Chi non riconoscerebbe questi tratti?» Una pagina vigorosa di Germania totalitaria (Adelphi 1990) che Simone Weil ha pubblicato nel 1940. Alla domanda finale la Weil risponde che in quei tratti tutti possono riconoscere la Germania di Hitler: il nazionalsocialismo non è una creazione specifica del popolo tedesco - come la propaganda nazionalsocialista sosteneva -, ma qualcosa di più profondo, cioè l’imitazione di un modello che va rintracciato molto più indietro nella storia europea, nell’Impero romano, appunto. In Simone Weil questo giudizio sull’antica Roma - che si estende al rapporto tra Hitler e il regime interno dell’Impero romano - è anche più pesante di quanto non appaia dal passo riportato, ma non è arbitrario (si pensi ad esempio alla condanna dei metodi di conquista romani da parte di uno storico come Jéròme Carcopino), o è arbitrario nella misura in cui non spinge sino in fondo il proprio significato. Ma 315 intanto va completato l’intreccio proposto dalla Weil: rendendo esplicita una conseguenza - forse non adeguatamente sottolineata dalfautrice - che discende, da un lato, dal suo giudizio su Roma e, dall’altro, dalla sua tesi sullo stato attuale del capitalismo. Con molte ragioni, la Weil vede già presente, in Marx, la tesi che i lavoratori sono oggi sfruttati non tanto dal capitale privato, ma dal capitalismo di Stato, divenuto ormai, secondo l’espressione di Marx, una «macchina burocratica e militare», che è presente sia nello Stato nazionalsocialista, sia nello Stato sovietico, sia nella democrazia americana di un Roosevelt influenzato dai nuovi tecnocrati. Il comun denominatore di queste tre forze è infatti la tecnica - la disumanità della tecnica che riduce a «funzione» della macchina statale l’individuo umano. La conseguenza è che l’impero romano è il modello non solo per la Germania di Hitler, ma per l’intera direzione fondamentale della storia. Non solo della storia contemporanea, ma di tutta la storia dell’Occidente. Il Sacro Romano Impero, gli Stati nazionali moderni, Richelieu, Luigi XIV, Napoleone, procedono sulla stessa strada. «Per ulteriore disgrazia», scrive la Weil, a Roma si afferma il cristianesimo, che eredita il Vecchio Testamento, dove la disumanità verso i nemici vinti e il culto della forza «si accordano straordinariamente bene con lo spirito di Roma» soffocando ^ispirazione divina del cristianesimo». Il giudizio su Roma di Simone Weil, dicevamo, non rende esplicito il proprio significato più profondo. Ma avrebbe potuto trovare in Hegel un aspetto più profondo. Hegel non mette tra parentesi la «virtù romana», ma mostra perché si trovi unita, come egli dice, alla «durezza» e all’«atteggiamento compostamente risoluto» dello spirito romano. Si tratta dello spirito che assume lo Stato come scopo supremo e ultimo. 316 Tutto il resto è subordinato, a incominciare dalla stessa vita familiare e dai sentimenti dell’uomo romano. Se si pensa per davvero questa affermazione, si comprende l’inevitabilità di tutti gli aspetti negativi, denunciati da Simone Weil, attraverso i quali i Romani sono diventati i padroni del mondo. La Weil, più debolmente, scrive che i Romani sacrificano con «risolutezza» tutto al «prestigio». Ma se si va più a fondo, il «prestigio» è l’aspetto assunto dallo Stato presso le genti quando vale come scopo ultimo dell’esistenza. Ciò non significa che questo spirito - la volontà di porre lo Stato al di sopra di tutto - non sia stato attraversato da forze opposte e potenti: significa che, nonostante le traversie a cui Roma è andata incontro, quello spirito è rimasto sullo sfondo anche quando sembrava svanito, e ha avuto la forza di imporsi perfino su quei barbari che stavano prevalendo ma che a lungo, nella maggior parte dei casi, non hanno pensato di distruggere l’Impero - che anche ai loro occhi era il vero Imperituro, l’orizzonte ultimo accessibile ai mortali -, ma hanno inteso diventarne essi la forza portante, e i loro capi hanno inteso porsi alla guida dei processi che continuavano ad assumerel’Impero come scopo ultimo dell’esistenza. Come si spiegherebbero altrimenti i dodici secoli di vita di Roma (giungendo a Giustiniano), se lo spirito romano non avesse esercitato un’attrazione così potente? Appunto alla volontà di potenza, da ultimo, ci si deve dunque rivolgere per comprendere perché quello spirito abbia avuto una tale forza di attrazione - pur non essendo certamente stato la prima forma di volontà di potenza nella storia dell’uomo. L’uomo sperimenta sin dall’inizio la potenza sprigionata dall’aggregazione dei singoli e che appare subito superiore alla somma delle loro forze. Lo Stato (l’aggregazione), deve apparire quindi qualcosa di «divino». Inevitabile dunque che sin dall’inizio l’uomo assuma questa 317 potenza come lo scopo ultimo a cui tutto debba essere subordinato. Sin dall’inizio la dimensione religiosa e quella politica si fondono, sia pure con intensità diversa e con diversa coerenza rispetto alla potenza che si vuole ottenere. Se lo Stato si mostra ben presto come lo strumento più efficace per avere potenza, tuttavia, proprio perché la potenza sia grande e crescente, lo Stato non può rimanere soltanto uno strumento nelle mani dei singoli e pertanto qualcosa che non può non risentire negativamente della loro impotenza. È cioè inevitabile che lo Stato divenga il loro scopo supremo, a cui qualsiasi interesse e scopo particolare deve essere sacrificato. Lo spirito delle monarchie assolute dell’Oriente riesce a sopportare a lungo la contraddizione per la quale il monarca è un individuo e, insieme, è lo Stato, ossia qualcosa di non individuale. Poi la contraddizione esplode, e la democrazia greca tenta di superarla. Senza riuscirvi, perché in Grecia la democrazia non può non sentire la voce della filosofia, cioè della coscienza che non solo non può identificare l’individuo a ciò che non è individuale, ma che, anche a proposito del non individuale in cui consiste lo Stato, denuncia l’impossibilità che uno scopo finito, quale è lo Stato, possa essere assunto come lo scopo supremo, e in questo senso infinito. La sapienza (il cui aumento, dice la Bibbia, aumenta il dolore) indebolisce lo Stato. La potenza di esso è maggiore quando cresce lontana dalla radicalità della sapienza filosofica. Proprio per la sua intenzione di dare la felicità, la filosofia indebolisce la fede dell’uomo negli strumenti di cui egli si serve per sopportare il dolore. È la filosofìa a voler porsi come scopo ultimo. (Poi sarà la fede cristiana.) «I Romani» dice Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia «sono solidamente orientati all’attività pratica», «ma 318 non riflettono teoricamente» su questo loro orientamento. Hegel non dice che appunto questa riflessione indebolisce il proprio oggetto, cioè Inattività pratica», come appunto accade alla polis greca. E non la sapienza radicale della filosofia, ma la sapienza del «diritto» rafforza la fede nello Stato, appunto perché a Roma il diritto si sviluppa esplicitamente, a differenza della filosofia, all’interno della convinzione che lo Stato sia lo scopo ultimo dell’esistenza, e contribuisce alla realizzazione di tale scopo. Per i Greci la tragedia è uno dei punti più alti della loro grandezza. Per i Romani l’anfiteatro è uno dei più bassi. In entrambi i casi si tratta però di porsi in rapporto al dolore e alla morte, per sollevarsi al di sopra di essi. E lo Stato appare ai Romani come la salvezza. Ma nella tragedia, che è grande filosofia, i Greci rappresentano il dolore mostrandone il senso e indicando il senso che il rimedio può avere. L’anfiteatro romano, invece, si limita a produrre realmente il dolore, e la riflessione tende a coincidere con quella povertà dello spirito che è il godimento suscitato dalla sofferenza altrui. Qui, la «risolutezza» romana raggiunge, insieme, il proprio apice imprevisto (muore ne ll’anfiteatro chi è stato vinto da Roma) e, insieme, la propria distruzione, che l’originaria e sobria lontananza romana dalla radicalità della sapienza filosofica aveva saputo evitare. 319 7. Mein Kampf Gli Ebrei hanno qualità positive di coesione e di solidarietà che mancano ai Tedeschi. Affetti da «eccessivo individualismo», i Tedeschi sono Ariani degenerati. Si trovano in uno stato di debolezza, di divisione, di estremo pericolo. Giudizi, questi, insieme a molti altri affini, che non sono espressi da un severo critico della Germania del XX secolo, ma da Hitler in persona, nel suo scritto Mein Kampf. Funestamente celebre; scritto tra il 1924 e il ’25; il libro più diffuso in Germania sino alla fine della seconda guerra mondiale. Per Hitler i Tedeschi di quel tempo erano un «armento». Che non solo si era allontanato dalla creatività, volontà di dominio e genialità del vero Ariano (un giudizio, questo, ripetuto da Hitler poco prima di uccidersi), ma che aveva anche il torto di essere «oggettivo», insensibile alla prospettiva nazionalistica (che appunto si pone al di sopra dell’«oggettività»), e dunque inferiore allo spirito «dialettico» degli Ebrei. Aveva anche il torto, Sarmento», di sottovalutare gli Inglesi e soprattutto di tollerare gli Ebrei. Chi ha letto Mein Kampf («La mia battaglia») non sta sentendo nulla di nuovo, ma è nuovo e interessante il modo in cui il libro di Hitler viene interpretato da Dora Capozza e da Chiara Volpato (cfr. Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del Mein Kampf, (Patron 2004). All’enorme quantità di ricerche che da ogni punto di vista e con risultati di grande rilievo sono state condotte sul nazismo questo saggio aggiunge una dissezione del linguaggio di Mein Kampf operata con i metodi più recenti della psicologia sociale. In primo piano, l’analisi delle «corrispondenze» tra le espressioni più ricorrenti e significative usate da Hitler. I cui giudizi riportati all’inizio non risultano irresponsabili, ma 320 appartengono a un piano ben preciso, che giustifica il successo di un uomo come Hitler in uno dei Paesi più civili del mondo. Stando ai risultati di questo saggio di Capozza e Volpato è già notevole che al centro delle pagine di Hitler non stia «come ci si potrebbe attendere, la razza Ariana, ma quella Ebraica», considerata come il prototipo della razza «aliena» che ha di mira, alleandosi con i «bolscevichi», la distruzione della civiltà ariana. Tutti gli insulti più odiosi e minacciosi sono usati da Hitler contro gli Ebrei, che tuttavia hanno ai suoi occhi alcune qualità positive che costituiscono per i Tedeschi il pericolo maggiore. Egli addita cioè ai Tedeschi il pericolo mortale in cui son venuti a trovarsi per colpa degli Ebrei; ma non li deprime, perché presenta loro quel Partito nazionalsocialista che sarebbe l’unica forza capace di salvar-li e farli diventare quel che essi sono nella loro essenza ariana. Il suo partito è unito, ha fede e pur lottando contro il marxismo capisce i problemi della classe operaia. Cioè «Hitler» scrivono le autrici «suscitava antisemitismo non solo tramite la spiegazione dei fallimenti» dei Tedeschi, «ma anche presentando gli Ebrei superiori ai Tedeschi in una importante dimensione di confronto: coesione, solidarietà, omogeneità»: «una dimensione in cui non si vuole essere inferiori». Tanto che le autrici possono concludere che Hitler, «capace di raffinate intuizioni sull’uomo sociale, per diffondere il suo programma ha operato sulle motivazioni e i processi previsti dalle teorie psicosociali». A loro avviso il testo «è basato su tre idee»: «darwinismo sociale» («lotta eterna tra forti e deboli», «selezione naturale», «spazio vitale» ecc.), «principio etnocentrico» (al centro dell’esistenza c’è una certa razza, un certo popolo) e principio «della personalità» (l’individuo superiore guida «la massa 321 stupida e incapace»). Qui vorrei rilevare che quei tre principi appartengono (in modo filosoficamente ingenuo) a una grande dimensione comune, che più o meno corrisponde ai due ultimi secoli della storia dell’Occidente. Quelli della «morte di Dio». Tutto a posto, allora, ritornando a Dio? No; la «morte di Dio» è la figlia legittima, inevitabile, della «vita di Dio». E invincibile sino a che non ci si sappia rivolgere al senso essenziale e non si sappia mettere in questione la «creatività» e la «volontà di potenza» dell’uomo ariano e non ariano che sia. 322 Al capitolo III 8. Piazza della Loggia Trentanni fa c’era molta incomprensione per quanto stava accadendo in Italia con gli attentati terroristici. Pochi giorni dopo la strage di Piazza della Loggia osservavo quanto fossero inadeguate le interpretazioni fornite delle massime autorità della politica e della cultura. Il presidente della repubblica Giovanni Leone dichiarò che il fascismo, ritenuto responsabile dell’eccidio, era «morto per sempre il 25 aprile 1945» e che di esso non sopravvivevano che «squallide minoranze». Per eliminare le quali, aggiungevano altri, si trattava soltanto di rendere più efficienti polizia e magistratura. C’era anche, però, chi sosteneva la necessità di adeguare la legislazione al dilagare del terrorismo - il cui senso veniva peraltro lasciato nel buio -, ripristinando magari la pena di morte. Il giorno dopo la strage di Piazza della Loggia Alberto Moravia scriveva sul «Corriere della Sera» che gli esponenti del fascismo erano soltanto dei «razionalizzatori per lo più inconsci e quasi sempre imbecilli delle proprie private tare». Nel suo insieme, questo modo di prendere posizione rispetto al terrorismo sottovalutava il fenomeno. C’era ben altro dietro le «squallide minoranze» o gli «imbecilli» che razionalizzavano «le proprie tare private». C’era il problema dell’avanzata del Partito comunista italiano, che con i consensi elettorali ottenuti stava andando verso la conquista democratica del governo - e, questo, all’interno di una situazione internazionale dove la sfera di influenza degli Stati Uniti, alla quale l’Italia apparteneva, non avrebbe mai consentito che al governo, in Italia, ci andassero i comunisti. Nel 1974, al tempo del viaggio di Leone in America, Kissinger non solo minacciò il ritiro delle truppe americane 323 dal nostro continente qualora gli alleati europei non si fossero allineati agli Stati Uniti nei confronti dei Paesi produttori di petrolio; ma a chi gli parlava di una troppo pesante ingerenza degli Usa nella nostra penisola Kissinger (è importante ricordarlo oggi) rispose che se l’Italia fosse passata sotto la sfera di influenza dell’Urss, il mondo democratico avrebbe poi rimproverato gli Stati Uniti di non aver «salvato» l’Itaha dal comuniSmo - dal che si capisce quanto fosse un bluff la minaccia di ritirare le truppe americane dall’Europa, che a sua volta, e a maggior ragione, doveva essere «salvata» dal comuniSmo. Negli anni Settanta ho dedicato una considerevole attenzione alle connessioni tra terrorismo e situazione politica internazionale. Il mio libro Téchne (Rusconi 1979, Rizzoli 2002) ne è la testimonianza. Ma solo un poco alla volta è maturata in Italia la consapevolezza che i fatti storici esecrandi, che a prima vista sembravano solo esplosioni di una ottusa brutalità, erano invece espressioni di quella dura vicenda in cui popoli si scontrano per assicurarsi la sopravvivenza e i privilegi in un mondo sempre più pericoloso. Il terrorismo che ha portato a episodi come quello di Piazza della Loggia non appartiene alla banalità o alla semplice dimensione defl’immoralità, per uscire dalla quale basta qualche pia intenzione delle anime belle. Un discorso analogo vale anche oggi. Rispetto al Partito comunista italiano il fascismo italiano degli anni Settanta è un nano. Che però ha alle spalle una forza enormemente più gigantesca di quella del Pei: il sistema democratico-capitalistico, con gli Usa al proprio centro. Di fronte alla possibilità di una conquista democratica del potere da parte del comuniSmo, tale forza agisce in modo che il Pei risponda agli attentati terroristici con azioni illegali, che avrebbero consentito il ripristino autoritario della legalità e, 324 con la messa al bando del Pei, l’eliminazione del pericolo comunista. Di qui il rifiuto violento del Pei alla proposta di reintrodurre la pena capitale. Se il Pei non ha reagito illegalmente alla «provocazione fascista» non è stato per amore della legalità e della democrazia, ma perché, da un lato, ha capito che alla legalità e al carattere democratico del proprio operato era legata la propria sopravvivenza; e dall’altro perché il Pei era consapevole di non potere e dunque di non dovere prendere il potere in Italia. A quel tempo, scrivevo che al governo il Pei sarebbe andato quando non fosse più stato un partito comunista. 325 9. Tasse e amnistia L’aumento della criminalità in Italia è, come si suol dire, un «fatto». Dunque non solo in città come Brescia - dove il tasso di immigrazione, superiore alla media nazionale, è uno dei fattori di tale aumento. Non l’unico. Come l’atteggiamento caritativo della Chiesa nei confronti degli immigrati non è l’unico dei fattori da tener presenti nella discussione di questo problema. Non l’unico; e tuttavia molto importante. Dico questo, per l’analogia, apparentemente paradossale, che sussiste tra il problema delle tasse degli Italiani e il problema dell’amnistia nei confronti di migliaia di detenuti delle nostre carceri - un’amnistia voluta dal centro-sinistra del secondo governo Prodi e, direi, soprattutto e fortemente dalle forze cattoliche. Le quali hanno agito, guidate dalle decise sollecitazioni della Chiesa cattolica in quella direzione. Ed ecco quanto intendo rilevare. È molto probabile che, come a suo tempo aveva rilevato l’onorevole Visco, il clima determinato dal precedente governo di centro-destra in tema di tassazione avesse favorito e incrementato la propensione degli Italiani all’evasione fiscale. Quando l’«autorità» sembra andare incontro alle nostre inclinazioni individuali, quest’ultime tendono infatti a rafforzarsi e a espandersi. La televisione è ormai considerata un’«autorità», e accade appunto che comportamenti televisivamente tollerati, o lasciati scorrere con indulgenza sul piccolo schermo, aumentino la propensione della gente a imitarli. Ma è anche difficile, a questo punto, evitare l’analogia tra il problema fiscale e l’amnistia carceraria che ha rimesso in strada anche persone il cui primo pensiero è stato di riprendere l’attività interrotta dalla reclusione. L’amnistia non aveva riguardato soltanto Italiani, ma anche immigrati 326 extracomunitari. Difficile, allora, evitare il seguente ragionamento. Come è molto probabile che il clima prodotto dalla politica fiscale dei governi di centro-destra abbia favorito l’incremento dell’evasione fiscale, così è molto probabile che il clima determinato dall’amnistia carceraria abbia prodotto un clima che ha portato la gente a credere che l’«autorità» guardasse con una certa indulgenza l’evasione dal diritto civile e penale, un clima che quindi ha in qualche modo favorito ed esteso la propensione per quella diversa forma di delinquenza che consiste negli omicidi e nelle rapine. Inevitabile che chi ha subito questa forma di suggestione, determinata dall’amnistia, siano stati soprattutto gli immigrati e in particolare gli extracomunitari che, proprio perché tali, entrano nel Paese da cui sono accolti senza avvertire - come invece possono farlo coloro che in quel Paese son nati - la presenza e il carattere bene o male vincolante delle leggi in esso in vigore. Nel caso dell’amnistia la suggestione è stata ancora maggiore, perché il provvedimento era stato proposto non solo dalle forze politiche al governo, ma anche da quell’«autorità» della Chiesa, che nel mondo può certo vantare un’autorità maggiore delle forze politiche italiane. L’amnistia ha creato un’immagine pubblica del legame tra legalità e carità, che ha allentato il timore di trasgredire la legge. Pensando a questo e ad altri ordini di problemi avevo detto alla svelta, in un’intervista rilasciata al «Corriere», che mi risultavano «incomprensibili» certi atteggiamenti caritativi della Chiesa bresciana. Si parlava dei delitti commessi a Brescia. Ma il mio discorso era rivolto primariamente alla Chiesa in generale, che tenta di seguire come può l’invito, 327 rivolto da Gesù al giovane ricco, di dare ai poveri tutte le proprie ricchezze. Per seguire Gesù la Chiesa dovrebbe dire ai popoli ricchi di dare tutte le loro ricchezze a quelli poveri. La Chiesa non può seguire la sublime follia di Gesù. Non può permettersi di sembrare sublimemente folle. Tenta come può di seguire Gesù: con le forme tradizionali della carità. Le quali, per un verso, lasciano che i ricchi rimangano ricchi, e per l’altro si riversano, quando possono, alfinterno dei rapporti civili presenti nei singoli Stati e diventano opere assistenziali di vario tipo, su su fino a opere di grande portata come lo è stata appunto l’amnistia in Italia. Che certamente non è l’unica responsabile dell’aumento della criminalità nel nostro Paese, ma che, altrettanto certamente, responsabile è. 328 10. Visibilità Lo sport è importante. Perché - forse soprattutto - non è innocente. Tanto più importante quanto più simula le forme della lotta e del combattimento. La gente trova in esso quello sfogo delle proprie frustrazioni, che altrimenti indirizzato le procurerebbe gravi sanzioni civili e penali. Ma bisogna che la squadra in cui ci si identifica vinca e che la vittoria non sia ostacolata. Altrimenti lo sfogo straripa, diventa incontrollabile. Nelle società povere Finsoddifazione finisce col trasformarsi in massacro. Ma oggi anche quelle ricche hanno motivi per essere insoddisfatte. Si percepisce che il mondo dei valori tradizionali va franando. È la notizia che fa da sfondo a ogni altra. Ed è ormai un luogo comune rilevare che i mass media, diffondendola e moltiplicandola, la trasformano nel modello da imitare. Poiché la frana della tradizione è violenza, che acquista mille volti, l’imitazione del modello violento diventa a sua volta notizia, a sua volta diffusa e moltiplicata. I violenti si sentono pertanto ripagati di molte delle loro frustrazioni. Non è poi così banale l’affermazione che si esiste solo se si è in televisione. C’è sempre stato qualcosa di analogo. La violenza è una forma di potenza (o addirittura coincide con essa); e la potenza esiste solo se è pubblicamente riconosciuta. Non esiste un sovrano o un dio la cui potenza non sia stata o non sia pubblicamente riconosciuta. Non ci si sfoga delle proprie frustrazioni se non ci si sente in qualche modo potenti o violenti e se quindi non ci si rende il più possibile visibili. I mezzi di comunicazione di massa del nostro tempo sono la forma più potente di riconoscimento pubblico e quindi di produzione della potenza e della violenza. Alla messa in scena del progressivo disfacimento dei valori morali, civili, religiosi, estetici delle 329 società avanzate si unisce la messa in scena del disfacimento di ogni regola di convivenza tra gli Stati. Hobbes rilevava che 10 Stato nasce per uscire dal belluino stato di natura (homo homini lupus), ma gli Stati hanno continuato a essere lupi gli uni per gli altri. Questo è l’esempio che gli Stati danno agli individui! Gli Stati, che pure dovrebbero rappresentare la ragione e la civiltà contro l’istinto e l’egoismo individuale! E anche di questa belluinità degli Stati i mezzi di comunicazione di massa danno continua notizia alla gente, dando la maggiore visibilità e quindi il maggior respiro alla violenza. In Italia è tempo di pensare alla riforma del diritto. Ripeto che come la politica finanziaria della destra incrementa l’evasione fiscale, così gli indulti e le amnistie della sinistra incrementano la violenza del crimine. Ma la gran ventura, che riguarda l’intero pianeta, e che (all’interno del dispiegarsi della civiltà dell’Occidente) non è necessariamente negativa, è 11 guado che dai valori del passato conduce al futuro. 330 11. Tecnica e «grande politica» 1 Ravaioli (R.) La crescita produttiva continua a essere l’obbiettivo più tenacemente auspicato e perseguito da economisti, imprenditori, governi, politici di ogni colore, e di conseguenza da tutti invocato anche nel discorrere più feriale, che so, al bar, in treno, al mercato; dato come una indiscutibile ovvietà, o addirittura come una verità di fede... A lei certo la cosa non è sfuggita, e vorrei chiederle che ne pensa: è d’altronde un avvio perfettamente calzante col discorso che ci proponiamo... Severino (S.) Questo continuo parlare della crescita come di cosa ovvia è in buona parte dovuto all’ignoranza. Sono decenni che si va intravedendo l’equazione tra crescita economica e distruzione della terra. Comunque, è tutt’altro checondivisibile l’auspicio di una crescita indefinita. R. Professore, sta dicendo che l’economia è una scienza consapevole delle conseguenze negative della crescita? S. Ha incominciato a diventarne consapevole: l’auspicio di una crescita indefinita va ridimensionandosi. Anche nel mondo dell’intrapresa capitalistica - la forma ormai pressocché planetaria di produzione della ricchezza - ci si va rendendo conto del pericolo di una crescita illimitata (anche se poi si fa ben poco per controllarla). R. Non si direbbe proprio... S. Sì invece. Vent’anni fa, quando Lei scrisse quel suo bel libro che interpellava numerosi economisti a proposito del problema dell’ambiente, la maggior parte degli intervistati affermava che quello del rapporto tra produzione economica ed ecologia era un falso problema. Oggi non pochi economisti sono molto più cauti... e anche le dichiarazioni dei politici sono diverse da venti o trent’anni. 331 R. In pratica però non fanno che invocare crescita, senza nemmeno nominarne i rischi... S. Be’, in periodo di crisi economica, di fronte al pericolo immediato di una recessione, è naturale che si insista sulla necessità della crescita... Purtroppo però lo si fa riducendo il problema alle sue dimensioni tattiche, ignorandone la dimensione strategica ... R. E intanto si verificano sempre più tremendi disastri, che inconfondibilmente denunciano la pericolosità della crescita... Dal Golfo del Messico a Fukushima... per citarne solo un paio dei più gravi e che hanno avuto massima risonanza... S. Certo. Ma, facendo un passo avanti, vorrei precisare che prendere atto della gravità di fenomeni come questi significa capire che essi non sono dovuti alla tecnica in quanto tale, ma alla gestione economico-politica della tecnica... Non sono disfatte della tecno-scienza, ma dell’organizzazione ideologica della scienza e della tecnica... Sono disfatte, cioè, del capitalismo (fermo restando che l’economia pianificata di tipo sovietico era ancora più dannosa per l’ambiente). R. La mia impressione però è che quanti insistono a invocare crescita continuino a ignorare che tutto quanto vediamo, tocchiamo, usiamo, è «fatto» di natura; e che dunque disponiamo di materia prima in quantità date, e non dilatabili a richiesta. Questa realtà in sostanza viene «rimossa». I grandi industriali che si confrontano a Davos, Cernobbio ecc., spesso neanche citano il problema... Automobili, barche, indumenti, mobili, computer... tutto quanto esce dalle loro fabbriche... di che cosa credono che siano «fatti»? S. Ma è un atteggiamento normale dell’uomo quello di preoccuparsi soprattutto dei problemi immediati, lasciando 332 sullo sfondo quelli che non sembrano urgenti, ma che spesso sono quelli decisivi. Quando la barca fa acqua la prima preoccupazione è tappare la falla... Poi si pensa al luogo dove approdare. Certo, ci sono quelli che stando nella barca non pensano mai a trovare il porto, e quindi, nel complesso diventa inutile tappare le falle... Si verificano allora tutti i comportamenti che lei giustamente rileva. R. Scusi, non vorrei aver capito male... La sua è una giustificazione di questi comportamenti da parte di chi, poco o tanto, è responsabile dell’economia mondiale? S. No. Dicevo che è, purtroppo, costume umano non aver occhi che per i problemi immediati, ignorando quelli fondamentali - che magari gli stanno sotto il naso... È però una mancanza di consapevolezza che ha incominciato a incrinarsi anche prima di cataclismi come Fukushima. Sebbene ancora non se ne vedano conseguenze nelle scelte politiche... R. Ma il problema esiste da decenni... Il deperimento dell’equilibrio ecologico è stato clamorosamente denunciato dagli anni Cinquanta, ma nelle scelte politiche è stato completamente ignorato. S. Ecco, forse su quel «completamente» si può non essere d’accordo... Penso ad esempio a Clinton, consigliato da Al Gore: nel suo primo discorso da presidente ha parlato agli Americani della necessità e convenienza di una crescita economica sostenibile... Una dichiarazione di intenti che in qualche modo anche Obama ha fatto propria... R. Però nessuno di quelli «che contano» sembra rendersi conto che la crescita produttiva attualmente perseguita - che è continua aggressione agli equilibri ecologici - si identifica di fatto col sistema capitalistico. Anche celebri economisti (vedi Stiglitz, Krugman, Fitoussi... per citarne qualcuno) 333 riconoscono la gravità della situazione ambientale, ma non accennano nemmeno a soluzioni che mettano in discussione il capitalismo. S. Sono pienamente d’accordo con lei: è proprio questa la situazione... Ma occorre anche dire che oggi, in un mondo conflittuale, dove nessuno intende rinunciare al potere, una politica economica meno «produttivistica» significherebbe mettersi dalla parte dei perdenti, indebolirsi anche sul piano militare, essere condizionati da Paesi come l’Iran o la Cina... Nella situazione attuale, rinunciare alla crescita, cioè alla potenza economica, significa essere sopraffatti... E sembra difficile anche rinunciare alla base economica richiesta dall’armamento nucleare. Oggi infatti, a differenza di quanto spesso si continua a credere, la potenza nucleare appare decisiva anche nella lotta contro il terrorismo... È un problema enorme, che si tende a non affrontare nemmeno là dove si è consapevoli che la crescita incontrollata... distrugge la terra. Per arrivare a un impegno adeguato per la soluzione di tale problema dovranno accadere disastri giganteschi... con qualche milione di morti... Ma prima si tirerà la corda finché sarà possibile. R. Certo. Tutto questo che lei dice corrisponde a una lettura intelligente e del tutto esatta della realtà. Mi domando però fino a quando questa realtà potrà reggere, di fronte a una natura devastata - in misura già oggi forse irrecuperabile - da un agire economico fondato su una crescita produttiva che non prevede limiti. S. È da guardare con diffidenza - ma non voglio sembrare cinico - l’intellettuale che dice alle grandi potenze mondiali: «Dovreste mettervi in discussione». Le grandi potenze non cambiano le loro scelte perché gli intellettuali dicono qualcosa che va contro i loro interessi... Ce la vede lei una Cina che 334 rinuncia a una politica economica vincente, e al proprio tète- à-tète attuale con Stati Uniti, Russia, Europa, per rispetto dell’ambiente? Le pare verosimile? E ormai anche in Europa la vita va avanti alimentata dalle centrali nucleari. E continueranno ad andare avanti così, inevitabilmente... Non basta quello che sta succedendo: solo un disastro di proporzioni senza precedenti, dicevo, potrebbe convincere l’ordinamento capitalistico a cambiar strada in modo radicale... R. Inevitabilmente... In base alla natura umana? Alla storia? S. In base alla priorità che per lo più vien data ai problemi immediati. Ma c’è un’altra inevitabilità, ancora più perentoria: quella del tramonto del capitalismo. Diciamolo in quattro parole. Un’azione è definita dal proprio scopo. Anche l’agire capitalistico è quindi definito dal suo scopo, cioè dall’incremento indefinito del profitto privato. Quando il capitalismo, di fronte a grandi disastri planetari dovuti al suo agire, assumerà come scopo non più l’incremento del profitto ma la salvaguardia della terra, allora non sarà più capitalismo... Inevitabilmente: o il capitalistimo, andando avanti così, cioè volendo avere come scopo il profitto, distrugge la terra, la propria «base naturale», e quindi sé stesso, oppure assume come scopo la salvaguardia della terra, e allora anche in questo caso distrugge egualmente sé stesso. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo. R. Lei è uno dei pochissimi che fanno previsioni del genere. Le stesse sinistre - quel poco che ne rimane - sembrano aver definitivamente rinunciato all’idea di superare il capitalismo. Che è l’idea per cui sono nate... Oggi in fatto di ambiente non hanno alcuna politica propria, anche se gli spetterebbe, 335 perché in fondo a pagare le conseguenze dello sconquasso ecologico sono soprattutto le classi più povere... Ma no, anche le sinistre sono allineate sull’invocazione della crescita, di fatto preoccupate esclusivamente di occupazione e salari: ciò che certo è comprensibile, anzi necessario, ma che forse potrebbe non limitarsi (come per lo più sostanzialmente accade) a occuparsi di singole situazioni di crisi e magari tentare di spingere lo sguardo un po’ più lontano: dopotutto la globalizzazione è un fatto, che riguarda tutti e - anche se non ce ne accorgiamo - tutti per mille modi ci determina... S. Quando parlo di declino del capitalismo, parlo infatti di qualcosa che presuppone anche il declino del marxismo, delfumanesimo marxista, dell’umanesimo di sinistra. Non è che la sinistra sia in una posizione avvantaggiata rispetto al capitalismo... Ma il discorso va completato. Sia il capitalismo sia il marxismo e le sinistre mondiali - ma anche i totalitarismi e le teocrazie, e la democrazia, e anche le religioni e ogni «visione del mondo» e «ideologia»... - si sono illusi e si illudono tutt’ora di servirsi della tecnica. Ma che cosa vuol dire questo? Che la tecnica è il mezzo con cui tutte quelle forze intendono realizzare i propri scopi (per esempio la società giusta, senza classi, oppure l’incremento del profitto privato, oppure l’eguaglianza democratica ecc.)... Anche la sinistra è cioè sullo stesso piano del capitalismo per quanto riguarda il rapporto con la forza emergente della modernità, cioè la tecno-scienza. Simone Weil diceva che il socialismo è quel reggimento politico in cui gli individui sono in grado di controllare la macchina tecnologico-statale-militare- burocratico-finanziaria ecc.. L’«individuo» - come il «capitalista» - si illude di poter controllare l’apparato tecnologico. Si tratta di capire perché è un’illusione... R. Una prospettiva che dovrebbe poter contenere tutti i possibili... 336 S. Invece andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico, essendo diventato la condizione della sopravvivenza dell’uomo - ed essendo la condizione perché la terra possa esser salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica della produzione - è destinato a diventare la dimensione che va sommamente e primariamente tutelata; e tutelata nei confronti di tutte le forze che vogliono servirsene. Sommamente tutelata, non usata per realizzare i diversi scopi «ideologici», per quanto grandi e importanti siano per chi li persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo. Quando questo avviene, capitalismo, sinistra mondiale, democrazia, religione, e ogni «ideologia» e «visione del mondo», ogni movimento e processo sociale diventano qualcosa di subordinato, diventano essi un mezzo per realizzare quella somma tutela della potenza tecnica, che è insieme l’incremento indefinito di tale potenza... Perciò spesso dico che la politica vincente, la «grande politica», sarà delle forze che capiranno che non ci si può più servire della tecnica... La grande politica è la crisi della politica che vuole servirsi della tecnica. Andiamo in una direzione dove, dunque, anche le sinistre - e il capitalismo, e tutte quelle forze in campo che ho menzionato - saranno costrette a rinunciare ai propri scopi e diventeranno esse i mezzi di cui la tecnica si serve. Non si tratta di un processo di «deumanizzazione», o «alienazione», come invece spesso si ripete, dove l’uomo diventerebbe uno «schiavo» della tecnica; perché in tutta la cultura - anche in quella che alimenta ogni più convinto umanesimo - l’uomo è sempre stato inteso come essere tecnico. Le sto descrivendo il futuro: non prossimo, ma neanche remoto. Certo, un futuro in cui anche la tecnica sarà destinata a rendere conto della sua primazia, ma non dovrà renderlo alle forze che ancora si servono di essa ma che sono forme deboli di tecnica. In questo senso appunto parlo da 337 decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo. R. Professore, mi permetta un’obbiezione. Già oggi la tecnica, da mezzo, sempre più sembra imporsi come scopo... E - ne abbiamo parlato poco fa - mi pare che in questa funzione stia dando prove quanto meno discutibili... S. No, perché come dicevo prima, ciò che dà cattiva prova di sé è la gestione ideologica della tecnica - è il modo, ad esempio, in cui in Giappone sono state organizzate le centrali nucleari: e lì non c’entra la tecno-scienza, ma la gestione capitalistica di essa, che per il profitto ha sottovalutato la pericolosità di quel tipo di centrali. (Debbo però aggiungere - ma anche qui chiudiamo subito il discorso - che la tecnica destinata al dominio non è la tecnica tecnicisticamente o scientisticamente intesa, ma quella che riesce a sentire la forza della voce essenziale della filosofia del nostro tempo, la quale dice che non possono esistere limiti assoluti all’agire dell’uomo.) R. Rimane il fatto che le tecniche, anche le più avanzate e intelligenti, le più utili persino, finiscono per essere nei confronti dell’equilibrio ecologico «naturale» delle continue aggressioni, o quanto meno delle minacce... S. Di nuovo rispondo di no, e che è la volontà di profitto a rischiare oltre il livello di rischio denunciato nelle previsioni tecno-scientifiche. R. Ma non è la volontà di profitto a generare, o almeno a favorire, la creazione di tecniche? S. Sì, le ha favorite (e in qualche caso generate), ma allo scopo di favorire sé stessa. Ora sto dicendo che questo scopo è destinato al tramonto. R. Resta però il fatto che molti istituti scientifici, anche di largo prestigio, vivono in quanto finanziati da grandi potentati economici... E questo in qualche misura significa 338 condizionarli... S. Certo, questa è la situazione attuale. Ma la tendenza globale è un’altra. Condizionarli significa indebolirli. È quindi inevitabile che, a un certo momento, chi condiziona si renda conto di non poter più continuare a farlo, perché, alla fine, condizionare (e quindi subordinare e pertanto indebolire) la tecnica per promuovere sé stessi è indebolire sé stessi... R. Si diceva che le sinistre - a parte l’impegno per la difesa del lavoro - non dicono, né propongono cose gran che diverse dalla destra. Il marxismo un tempo aveva uno sguardo ben più ampio di quello che hanno le sinistre oggi... Dopotutto non a caso l’inno dei lavoratori era l’ Internazionale... Tentare di guardare un po’ più lontano... Cercare di allargare lo stesso discorso sul lavoro, non potrebbe portare a una proposta alternativa? S. Questo allargamento va imponendosi da solo. Infatti non si può separare il lavoro dalla tecnica (ma dal capitalismo sì, come dal marxismo). Un po’ da tutte le parti politiche oggi si sente dire a proposito dei problemi più importanti: «Non è questione né di destra né di sinistra, è una questione tecnica». È un piccolo indizio del processo dove le soluzioni tecniche prevalgono su quelle politiche e «ideologiche». R. Mi riesce difficile seguirla... la tecnica viene solitamente vista come uno strumento usato dal capitalismo... S. Questo è lo stato attuale che il mondo capitalistico vorrebbe perpetuare. Ma la tecnica non è il capitalismo. Il servo non è il padrone. Ed è già accaduto che i servi si liberassero dei padroni. La liberazione decisiva, rispetto alla quale si è ancora ciechi, è la liberazione della tecnica dal capitale. R. In definitiva Lei vede il capitalismo sopraffatto dalla tecnica... 339 S. Sì. O meglio: è la logica del discorso a vederla. R. Una tecnica che - insisto - porta alla devastazione della terra... S. Se la tecnica continua a essere gestita dal capitalismo, sì. Ma - insisto anch’io - sarà il capitalismo stesso ad accorgersi che devastando la terra devasta sé stesso (e cambiando rotta, cioè scopo, si distruggerà egualmente). R. È insomma l’intero sistema produttivo che di fatto agisce contro la salvezza dell’umanità... Non crede che in tutto ciò esista qualche responsabilità anche da parte delle sinistre? Dopotutto erano nate per combattere il capitale, no? S. Ma il discorso che vado facendo da molto tempo indica qualcosa che sta al di sopra delle esortazioni, delle mobilitazioni, dei progetti, della volontà politica. Riguarda un movimento che procede per conto proprio, guidando e animando la volontà così come, si sa, la struttura del capitale domina e anima la volontà dei singoli capitalisti. Marx diceva appunto che i singoli capitalisti sono le prime vittime del capitale. Ecco, si tratta di capire il modo in cui la tecnica prende il posto del capitale. R. Lei si riferisce a un movimento, o una tendenza, in qualche modo, come dire... operante e avvertibile? Oppure si tratta per ora soltanto di un’ipotesi filosofica? S. È una tendenza che è operante e avvertibile proprio nel modo adeguato (e dunque non «soltanto» ipotetico) di fare filosofia. Per essenza la filosofìa si riferisce all’autenticamente operante e avvertibile. R. Cambiando discorso. Lei ha dedicato un suo recente articolo, apparso sul «Corriere della Sera», al modo in cui il Nordafrica va cambiando. Non crede che forse proprio dal Sud del mondo, non ancora interamente assimilato alle logiche e ai «valori» del capitalismo, possa muovere una 340 critica, e magari una messa in crisi della cultura dominante? È qualcosa su cui più volte m’è capitato di riflettere. Ad esempio quando un anno fa, in Bolivia, durante il Social Forum di Cochabamba, un gruppo di «campesinos» lanciò uno slogan che diceva: «Non si tratta di cambiare il clima, bisogna cambiare il sistema»; aprendo un orizzonte enormemente più ampio di tutte le altre «parole d’ordine» correnti, che insistevano soprattutto sui mutamenti climatici, e di fatto denunciando un rapporto Nord-Sud che per mille aspetti ampiamente si attiene alle logiche del capitalismo, e le impone. È solo un episodio, ma non crede che proprio da questi mondi potrebbero partire spinte decisive alla messa in crisi delle logiche politiche dominanti? S. Be’, il fatto che questi popoli vadano riproducendo il modello occidentale dimostra che l’Occidente ha raggiunto la prospettiva più radicale: la destinazione della tecnica al dominio. Questi popoli stanno ripercorrendo l’itinerario compiuto dall’Occidente... L’autentico «cambiamento di sistema» è quella destinazione. R. Professore, certo è incapacità mia di seguirla fino in fondo... Ma più volte m’è capitato di riflettere, e anche di scrivere, in libri dedicati appunto alle questioni ambientali, su questo crescente prevalere della tecnica sui modi e i ritmi della natura... Spesso citando quello straordinario libro, firmato dal grande biologo americano Stephen J. Gould, che si intitola Gli alberi non crescono fino al cielo : una critica dell’intera vicenda umana, tutta centrata su una impossibile sfida alla natura. Nella quale peraltro sempre è evidente il senso di colpa... E infatti Icaro, Prometeo, i Giganti, Ulisse... tutti sempre vengono puniti... La tecnica, nella mitologia, è colpa... E lo è la scienza in assoluto, si direbbe, se si pensa ad Adamo ed Èva, cacciati dal paradiso terrestre per aver gustato il frutto dell’albero del sapere... 341 S. Onorevole, non solo Lei segue benissimo, ma continua a proporre spunti estremamente interessanti. Quando parlo in termini «positivi» della tecnica, ne parlo nel senso che essa va ritenuta la forma più rigorosa della più radicale follia in cui l’uomo è caduto. Non intendo affatto fare l’apologià della tecnica ma intendo dire che l’errore, la follia, vanno progressivamente facendosi più rigorosi e coerenti... Pensi al discorso di Freud, che la religione è quella follia - grande, rigorosa follia - che assorbe e rende coerenti tutte le forme di follia dell’individuo... Nella tecnica l’errore è destinato a diventare massimamente rigoroso. L’errore nasce con l’uomo, è la volontà di potenza. Ma bisogna saper dire perché lo sia... Non lo sanno dire né i miti né le altre forme della sapienza umana. È vano combattere e incolpare Prometeo, «che ha dato tutte le tecniche ai mortali», con strumenti che sono forme deboli di tecnica. Anche il capitalismo, il marxismo, il cristianesimo, l’islam, il totalitarismo, la democrazia ecc. sono forme deboli di tecnica. Ma con ciò non intendo dire che la tecnica sia la verità. No. È la forma più radicale dell’errore. Che però sembra la forza più potente... R. Una volta ancora non posso non apprezzare il suo pensiero... Non riesco però a non domandarmi se non ci sia nulla da fare, o per accelerare questo processo portandolo a una soluzione, o in qualche misura per mitigarne la distruttività. Sono tante ormai le persone che si preoccupano per il futuro di un mondo per mille versi sempre più problematico e rischioso... Per lo più si tratta di giovani, consapevoli e impegnati... A tutti costoro che cosa si sentirebbe di consigliare? S. La ringrazio. Per ora siamo gettati nell’errore; ma proprio per questo c’è molto da fare. C’è da favorire il 342 processo che porta l’errore a maturazione. Ecco perché parlavo prima della «grande politica». Per praticarla è necessario incominciare a guardare in faccia il senso essenziale della storia dell’Occidente, il senso cioè della volontà di potenza: il senso del fare. * - Intervista fattami da Carla Ravaioli e pubblicata sul «manifesto» nel luglio 2011. 343 Al capitolo V 12. Non veritas, sed auctoritas facit legem- Per considerare il rapporto tra «processo» e «tecnica» si può certo rimanere alFinterno della specializzazione giuridica. Ma - chiediamoci - è ancora specializzazione Patteggiamento che non riflette sul senso della specializzazione? Si vive in una nave - la si vive come nave - quando non si sa che cosa sia una nave? Certamente no. E d’altra parte, riflettendo sul senso della specializzazione si è ancora alFinterno di essa? (Si profila così un’antinomia, che può essere il sintomo del carattere contraddittorio della specializzazione.) Ma, qui, non svilupperemo questo aspetto, peraltro fondamentale, del discorso. La tecnica riguarda il «processo» in relazione, innanzitutto, ai limiti entro i quali le competenze tecnico-scientifiche devono mantenersi nel determinare l’evoluzione e il compimento delle procedure giudiziarie. In questo caso, le competenze tecniche (mediche, psicologico-psichiatriche, chimico-fisiche, urbanistiche ecc.) servono da strumento - da mezzo - per quello scopo che è la conduzione e il compimento del «processo». A sua volta, il «processo» stesso, come fatto giuridico, è scomponibile in un momento tecnico-strumentale e in un momento che è lo scopo di tale strumentazione. Momento tecnico-strumentale è, ad esempio, la formazione dei magistrati, e in genere, dell’organico, e il modo in cui sono formalizzate le regole in base a cui il processo si svolge; lo scopo è la verifica dell’applicazione della legge in rapporto ai casi intorno a cui verte il processo. Ma, daccapo, lo scopo di una società non è quello di verificare se la legge sia applicata: lo scopo è che la legge «viga». Affinché viga è necessario verificare se ciò avvenga. E 344 questo significa che la verifica giuridica si dispone a sua volta come strumento, come mezzo per la realizzazione di quello scopo che è il «regno della legge» nella società. Questo rinvio, il triplice rinvio qui sopra sommariamente indicato, dove lo scopo si dispone come strumento di uno scopo superiore, ha un prolungamento decisivo, che riguarda il concetto stesso di «legge», sottoposto a una profonda trasformazione, dove l’atteggiamento giusnaturalistico, proprio della tradizione occidentale, viene spinto al tramonto dall’atteggiamento giuridico che è proprio del diritto positivo. E, anche qui, si tratterà di comprendere l’ultima sezione di questo capitolo che in tale tramonto il regno del diritto è a sua volta destinato a diventare, da scopo della verifica giudiziaria, mezzo, cioè strumento di uno scopo - la tecnica - verso il cui dominio il pianeta sta procedendo. A partire dal pensiero greco, e lungo la tradizione occidentale, in cui il giusnaturalismo si inscrive, non auctoritas, sed veritasfacit legem. La «verità» è il fondamento, il principio ispiratore della legge. Lo ius è dato dalla natura delle cose; e la verità è il luogo in cui tale natura mostra il proprio volto autentico. Il popolo greco porta alla luce, dopo i millenni del mito, un senso inaudito della Verità: la Verità come sapere incontrovertibile che mostra, manifesta (e pertanto è alétheia) un contenuto che non si lascia smuovere, un contenuto che sta e appunto per questo è chiamato epistéme ( epi-stéme ). La Verità mostra l’ordine immutabile al quale lo Stato (e il singolo) deve adeguarsi. Lo Stato si adegua alle leggi che si fondano sulla Verità che il sapere filosofico ha portato alla luce e alla quale si commisura la stessa rivelazione cristiana. Anche nell’Europa medioevale e moderna lo Stato (e l’individuo) è misurato dalla sua adeguazione alla verità, in quanto principio ispiratore della legge. Il valore della legge non è dato dalla pura forza, ossia da un auctoritas che sia pura 345 forza, ma dalla sua dipendenza dalla verità. Ma dopo questa grande epoca della civiltà occidentale, dove verità e legge formano una unità indissolubile, si fa innanzi con sempre maggior forza il principio opposto, per la prima volta enunciato da Hobbes: non veritas, sed auctoritas facit legem. È il principio del diritto positivo, che acquista il proprio compiuto significato quando prenderà le distanze dal contesto in cui viene formulato nella filosofìa di Hobbes - in una filosofia cioè dove, nonostante tutto, resta ancora fermo il senso di fondo che il pensiero greco ha conferito alla «verità». La transizione dal giusnaturalismo al prevalere del diritto positivo, ossia al positivismo giuridico, è un episodio emergente del grandioso processo storico-critico, in cui la tradizione dell’Occidente viene abbandonata dal pensiero, e pertanto dall’agire umano, e soprattutto e fondamentalmente dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli. Poiché il diritto positivo non si fonda su alcuna «Verità» assoluta, ed è positivo perché «pone» ciò che la volontà sociale dominante (del sovrano, dell’eletto rato, di una oligarchia economico- politica) vuole di volta in volta come legge, il processo giudiziario che si sviluppa alfinterno di questa forma di legge è compatibile con qualsiasi tipo di contenuto giuridico, di natura democratica o no. D’altra parte, la transizione al positivismo giuridico è analoga a quella che conduce dalle varie forme di totalitarismo alla democrazia del nostro tempo, che definisce sé stessa come semplice «procedura», che di per sé non propone o impone alcuna «Verità» assoluta ai cittadini ed è pertanto compatibile con qualsiasi contenuto sollevato al rango di legge dalla maggioranza dell’elettorato. Ora diventa radicalmente fondata - e inevitabile, all’interno della storia dell’Occidente - l’affermazione che non veritas, sed auctoritas 346 facit legem. Il fenomeno, grandioso, di cui la transizione al positivismo giuridico e alla democrazia sono aspetti particolari - e molti altri potrebbero essere menzionati - conduce al di là delle forme essenziali della tradizione occidentale. È il fenomeno che Nietzsche ha chiamato «morte di Dio» - sì che il passaggio dal giusnaturalismo al positivismo giuridico è la morte di Dio in ambito giuridico -, è la morte della forma assunta da Dio nella dimensione del diritto. Diciamo che quel fenomeno è grandioso, non solo per le sue proporzioni, cioè per il suo aver investito ogni aspetto del pensiero e dell’agire tradizionali, ma anche perché si presenta secondo una inevitabilità (cfr. sezione prima, cap. V), per la quale tale fenomeno non è semplicemente un cambiamento di opinioni da parte della società e dei suoi membri. Solo cogliendo il senso di questa inevitabilità si può comprendere che oggi l’uomo non può più cercare la propria salvezza volgendosi verso la grande tradizione dell’Occidente - e dunque verso il modo in cui all’interno di essa viene realizzato e praticato il diritto. Certo, l’inevitabilità di cui stiamo parlando è l’inevitabilità del tragico; ma non le si possono voltare le spalle per il semplice fatto che non va incontro a certe nostre aspirazioni. 347 13. Guerra fredda e corruzione L’espressione «dietrologia» è screditata. Ma può essere un sinonimo del concetto scientifico di «ipotesi»: l’«ipo-tesi» esplora ciò che «sta al di sotto» di quanto si manifesta comunemente o immediatamente. Al di là del senso screditato della dietrologia, l’ipotesi scientifica ha cioè un carattere essenzialmente «dietrologico». Nemmeno quel tipo di disciplina scientifica che è il diritto può evitare di formulare ipotesi, ossia di andare al di là di ciò che comunemente appare e che viene chiamato «il fatto». Gli estimatori del «fatto» - anche tra i non giuristi - collocano spesso l’attività giuridica in un ambito improprio; cioè la considerano come la dimensione all’interno della quale «il fatto» riceverebbe uno dei più validi e autentici riconoscimenti della sua importanza e del suo carattere decisivo. Tuttavia è nota la tesi di Karl Popper, per la quale la struttura del processo giudiziario è il modello dell’attività scientifica. Certo, egli non fa che trarre un corollario dalla tesi di Nietzsche, che non esistono «fatti», ma solo «interpretazioni». Ma tale corollario significa che alla base della scienza non esistono fatti, ma interpretazioni, e che tale circostanza rispecchia la struttura del processo giudiziario, sì che quest’ultimo - lungi dal presentarsi come il luogo in cui i «fatti» sono posti al di sopra di tutto, come fondamenti indiscutibili - è inteso invece come il luogo che si fonda su «interpretazioni» rivedibili e falsificabili. Gli estimatori dei «fatti», che vedono nell’attività giuridica la più autentica valorizzazione dell ’infallibilità dei «fatti», non si rendono conto che la scienza riconosce ormai senza complessi la propria fallibilità e che quando intende chiarirne il senso si riferisce proprio e precisamente all’analogia che sussiste tra procedura scientifica e procedura giudiziaria. 348 L’analogia può essere così espressa: il sistema delle leggi scientifiche viene commisurato a un insieme di elementi che non sono «fatti», ma «interpretazioni» di fatti; cioè risultati di decisioni che un gruppo qualificato di individui stabilisce di assumere come base (o come fatti) del sapere scientifico, in modo analogo alla commisurazione per la quale nel processo giuridico il sistema delle leggi viene applicato non a «fatti» incontrovertibilmente accertati veri, ma alla decisione di un gruppo qualificato di assumere un insieme di eventi come qualcosa di effettivamente accaduto. Il «veramente» accaduto è inesistente. Esiste veramente la decisione di assumere qualcosa come il veramente accaduto. Anche per questo motivo la storia di un popolo non può essere ricostruita in sede giudiziaria, appurando i «fatti». Comunque, anche questa crisi della verità del «fatto» appartiene al processo, a cui prima ci si è rivolti, che conduce al tramonto inevitabile della tradizione e della tradizione giuridico-politica dell’Occidente, la tradizione dove il «giudice» è colui che «mostra con autorità» la Verità - «giudice» essendo parola composta da ius e dalla forma congetturale dix, riconducibile alla radice indoeuropea deic, che indica appunto il «mostrare»; sì che l’autorità del giudice gli deriva dal suo rapporto con la verità. È aH’interno della transizione inevitabile di cui stiamo parlando - cioè dalla vita alla morte della Verità e di Dio - che assume un significato particolarmente rilevante anche il tema della «corruzione» della società italiana e del conseguente conflitto tra magistratura e potere politico. In base a una logica diversa da quella che intende «appurare i fatti», cioè in base alla logica dell’interpretazione, è possibile affermare che nella seconda metà del xx secolo è stata combattuta una lotta mortale tra capitalismo e socialismo reale, una lotta senza esclusione di colpi. Una situazione, 349 questa, che, ovviamente, ha costretto ognuno dei due antagonisti a tenere nascosto all’altro l’organizzazione delle proprie forme di offesa e di difesa. Anche le società democratiche, dunque, sono state costrette, per evitare il suicidio, ad adottare questa strategia. Le democrazie parlamentari sono state cioè costrette ad agire in modo non democratico, giacché «democrazia» e «trasparenza» (e dunque quella trasparenza che avrebbe messo la democrazia nelle mani dell’avversario) sono inseparabili. La trasparenza democratica è il carattere pubblico delle decisioni essenziali di una società; e la democrazia, per sopravvivere, non poteva rendere trasparenti i propri piani di difesa e di offesa contro il socialismo reale. Ma questo clima di non trasparenza, di occultamento e di privatizzazione delle decisioni essenziali delle società democratiche era il terreno in cui non poteva non attecchire la corruzione. L’illegalità di alto profilo politico, cioè la necessità che per sopravvivere la democrazia agisse in modo non democratico, ha prodotto l’illegalità di basso profilo, cioè la corruzione per ottenere vantaggi privati, che ha accompagnato gli anni della guerra fredda (che si è prolungata sino ai nostri giorni e anche in futuro alimenterà il conflitto tra politica e magistratura) soprattutto in Paesi come l’Italia, più esposti al pericolo comunista sia per la loro posizione geografica sia per la consistenza dei movimenti politici che in tali Paesi erano guidati dall’Unione Sovietica. La fine di quel gigantesco fenomeno che è stato il socialismo reale - una fine che a sua volta appartiene al tramonto della tradizione occidentale - non ha lasciato il vuoto: sul terreno ha lasciato un gigantesco cadavere, con il quale ancora a lungo si dovranno fare i conti. Lo dicevo già, più di una quindicina d’anni fa, ben prima cioè che esplodessero i disordini nelle ex repubbliche dell’Urss. 350 (Infinitamente più complessi di quelli, pur consistenti, che si devono fare quando un capofamiglia autoritario se ne va all’altro mondo.) Durante e dopo la «guerra fredda» c’è stato qualcuno che, pur di combattere il comuniSmo, ha agito illegalmente; e qualcuno che invece, pur di trarre vantaggio personale da azioni illegali, ha combattuto il comuniSmo. È stata cioè di alto profilo politico l’illegalità che la democrazia è stata costretta a praticare per combattere il comuniSmo e per la quale la democrazia si è avvantaggiata, ad esempio, dell’aiuto di forze illegali ma sicuramente anticomuniste. (Molto più sicuro, dal punto di vista anticomunista, il sistema mafioso che non i partiti della sinistra italiana.) Anche la «corruzione» italiana (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi dell’Occidente democratico) è dunque una conseguenza della morte inevitabile della verità, del diritto naturale, di Dio. Da un lato il sistema democratico, per sopravvivere, si è posto consapevolmente in contraddizione con sé stesso; dall’altro lato, ha sopportato l’immoralità privata come tributo da pagare alla sicurezza dello Stato democratico. Ed entrambi questi due lati si costituiscono perché, a differenza degli Stati totalitari, o «etici», del fascismo, del nazionalsocialismo, del socialismo reale (che sono una versione secolarizzata e distorta del divino), la democrazia non crede più nell’esistenza di una «Verità» che regoli la vita sociale e individuale e che non possa essere in alcun modo violata. Come il giusnaturalismo sta al positivismo giuridico, così lo Stato totalitario, persuaso di possedere la Verità e di dover adeguare a essa la società, sta alla democrazia che si lascia la Verità alle spalle e si propone come procedura di per sé indifferente alla verità o falsità dei contenuti. Lo stato di cose che ho or ora indicato - e che a sua volta si presenta con i tratti dell’inevitabilità - dà luogo a un 351 dilemma. Da un lato il sistema vincente è stato la democrazia, o, meglio, il capitalismo, in quanto unito alla democrazia parlamentare. Esso ha vinto il nemico mortale. È una forza che non può quindi rassegnarsi a essere sottoposta al controllo giuridico dei suoi atti - cioè a un controllo che non può tener conto, in quanto giuridico, della situazione storica eccezionale in cui il capitalismo democratico è venuto a trovarsi. È presumibile che, se questo controllo fosse condotto fino in fondo, il capitalismo italiano (e non solo) vedrebbe minacciata la propria sopravvivenza. Quando, dopo la seconda guerra mondiale, il fascismo è caduto, Togliatti ha evitato che la burocrazia fascista - che in quanto funzionale allo Stato fascista aveva agito in condizioni di illegalità - fosse incriminata e giuridicamente perseguita. E si trattava di incriminare chi aveva perso; non, come invece è il caso della democrazia capitalistica, chi ha vinto lo scontro mortale e ritiene un’ingiustizia essere punito per un’illegalità funzionale alla vittoria. Come incriminare certi nodi cruciali dell’assetto capitalistico vincente, operando con criteri giuridici che si fondano sul principio fiat iustitia et pereat mundusì Ma, dall’altro lato, non può essere dimenticata la situazione drammatica del giudice consapevole della propria funzione, perché a sua volta egli è e si sente obbligato a procedere contro tutto ciò che gli appare come illegale. Sembra che sino a che in Italia non si farà luce su questo dilemma e non si prenderanno le decisioni richieste per operare una chiara distinzione tra illegalità di alto profilo politico e illegalità di basso profilo, si perderà anche di vista che lo scontro attuale tra politica e magistratura è l’epifenomeno di una frattura ben più profonda - che tuttavia non è qualcosa di statico, ma è in evoluzione, come ora proverò a precisare, ossia si trova anch’esso su un piano inclinato che porta al tramonto tutto 352 quanto si muove lungo di esso. 353 14. Conflitti di retroguardia Ho iniziato queste riflessioni mostrando una sequenza dove ciò che dapprima si pone come scopo, diventa in seguito mezzo e strumento. Si era detto che nella tradizione occidentale (ma ormai ogni altra sapienza appartiene alla preistoria dell’Occidente) il regno della legge, fondato sulla Verità, è lo scopo della vita sociale e individuale. Ma la Verità tramonta. Restano, tra l’altro, una politica e un diritto che sono entrambi «positivi». Ogni sapere e ogni azione ormai sono «positivi» - o è in quanto «positivi» che essi guidano la storia del mondo che gli epigoni del sapere e dell’agire tradizionale tentano ancora di adeguare alla verità. Ogni grande forza oggi ancora in vita (sia essa una forza della tradizione o una forza che alla tradizione ha ormai detto addio) ha questo tratto comune: di servirsi della tecnica. Ognuna intende servirsi della tecnica, che è lo strumento più potente oggi esistente. Anche la dimensione politica e la dimensione giuridica intendono servirsi della tecnica. Ma la tecnica guidata dalla scienza moderna è destinata a diventare, essa, lo scopo di tutte queste forze. Ciò significa che tende a diventare obsoleta anche la conflittualità che contrappone le une alle altre: dopo il socialismo reale, il capitalismo, la democrazia, il cristianesimo, l’islam, il nazionalismo, le diverse forme di umanesimo laico, e la stessa ideologia scientistico-tecnicistica (che non è più capace delle altre forze di cogliere l’essenza autentica della tecnica). Ma intanto va richiamato un principio di cui spesso ci si dimentica, e cioè che lo scopo di un’azione determina e stabilisce il senso e la configurazione di essa; sì che essa diventa qualcosa di diverso da ciò che essa era, se viene ad assumere uno scopo diverso da quello che inizialmente la definiva e stabiliva. Un diritto, o una 354 democrazia, che si pongono come scopo della tecnica sono qualcosa di essenzialmente diverso da un diritto, o da una democrazia, che hanno come scopo la tecnica e che si costituiscono come mezzi per la realizzazione di tale scopo. Una situazione conflittuale, come quella che sussiste tra le forze di cui stiamo parlando, richiede che ognuna di esse miri non solo al potenziamento crescente dello strumento - la tecnica - di cui si serve per imporre i propri scopi su quelli antagonisti, ma anche a non intralciare il funzionamento ottimale di tale strumento. Altrimenti soccombe. Ma quando ha di mira i due tratti che abbiamo indicato, essa è già sulla strada in cui, invece di assumere come scopo i propri valori, ha assunto come scopo la potenza dello strumento che dovrebbe realizzarli. Anche senza avvedersene, tende a uno scopo diverso. Anche senza avvedersene, sta diventando qualcosa di diverso da ciò che essa crede di essere. Andiamo verso un tempo in cui non saranno più la democrazia e il diritto a servirsi della tecnica, ma sarà la tecnica, nella sua configurazione autentica, a servirsi, se ciò varrà ad accrescere la sua potenza, della democrazia e del dir itto. I due avversari che oggi si combattono - dimensione politica e dimensione giuridica -, e la cui lotta dà luogo al dilemma che sopra abbiamo considerato, sono pertanto destinati a riconfigurare il loro conflitto in relazione alla circostanza che tale conflitto tende a essere di retroguardia, cioè a non essere più una lotta tra scopi, ma tra mezzi che hanno lo stesso scopo: il potenziamento crescente della tecnica - di una tecnica che non è la tecnica che intesa in senso tecnicistico, scientistico, riduttivistico, merita di essere soltanto un mezzo, ma la tecnica riduttivistica che tende a dare sempre più ascolto alla voce essenziale del pensiero che porta al tramonto la tradizione dell’Occidente. Mostrando la morte di Dio e della «verità» tale pensiero mostra l’assenza di 355 ogni limite all’agire dell’uomo e soprattutto a quella forma suprema dell’agire in cui consiste l’apparato scientifico- tecnologico: la forma di volontà di potenza a cui va già sottomettendosi ogni altra forma di volontà di potenza apparsa lungo la storia della terra. (Dopo di che sarà la volontà di potenza a dover dar conto di sé - giacché le considerazioni che ho sviluppato non intendono certo sostenere che la tecnica abbia l’ultima parola.) 356 15. Tecnica e pluralità delle tecniche 1 La gente si accorge che le leggi difendono spesso gli interessi dei più forti. Leggi cattive, dunque - anche se vogliono sembrare «giuste». Però la gente crede ancora che ne sono fatte e se ne potrebbero fare di buone. Nelle scienze giuridiche tradizionali, «buone» e «giuste» sono innanzitutto quelle che rispecchiano la «natura» dell’uomo: leggi, appunto, del «diritto naturale», per il quale la «natura» dell’uomo rispecchia a sua volta l’Ordinamento vero e divino del mondo, immutabile e inviolabile, portato alla luce dal pensiero filosofico sin dall’inizio della nostra civiltà e poi interpretato dal cristianesimo. Da uno-due secoli questa concezione giuridica è profondamente in crisi (sebbene non sia ancora morta). Si pensa cioè che non esista alcun diritto «naturale» e che ogni legge esprima un «diritto positivo», «posto», «imposto» dalla libera volontà dell’uomo. Anche alla radice di questa crisi si trova la filosofia, quella che mostra l’inevitabilità della «morte di Dio» e la conseguente morte di ogni «natura» che, in qualsiasi campo, intenda rispecchiare l’Ordinamento vero e divino della realtà. Anche il diritto (come la democrazia) diventa pertanto semplice «procedura» in cui può essere immesso qualsiasi contenuto - quello delle democrazie parlamentari, del capitalismo, del nazionalsocialismo, del socialismo reale, del cristianesimo, della grande e piccola criminalità. (La procedura correttamente praticata può anche sopprimere sé stessa.) Che una forza si imponga sulle altre non dipende dalla sua «verità», ma, appunto, dalla sua forza. Con Natalino Irti, eminente giurista di grande e rara apertura filosofica, discuto da tempo questi problemi. Un nostro Dialogo su diritto e tecnica è stato ad esempio pubblicato nel 2001 da Laterza. Irti ha pubblicato in seguito il 357 volume Nichilismo giuridico (Laterza 2004), sul quale tra i temi centrali figura una consistente ripresa della discussione avviatasi tra noi due. Gli sono grato della grande attenzione e stima che anche in queste pagine mostra nei miei riguardi - anche se mi sembrava di aver già risposto a quanto egli mi obbietta. D’accordo con me, sostiene che il diritto, ridotto a procedura, è una tecnica. Tuttavia sembra che per lui «l’essenza tecnica del diritto» abbia già, di fatto, del tutto eliminato ogni «diritto naturale» e ogni Ordinamento vero e divino. E invece la situazione è diversa: di fatto, il passato sopravvive. Anche se è una foglia secca attaccata al ramo il punto è che può persino credere di stare alla guida del mondo - si pensi alle foghe secche che hanno determinato la vittoria di Bush alle elezioni americane del 2004. Per questo, da parte mia, si parla di una «tendenza» che, certo inevitabilmente, conduce dalla tradizione alla sua distruzione - e pertanto conduce alla civiltà della tecnica -, ma che ancora deve fare i conti con la sopravvivenza di fatto del passato. Per Irti, invece, il diritto è già tecnica e sono già tecnica «almeno» il capitalismo e le «discipline fisiche e naturali». Non allunga l’elenco perché, credo, vede che, ad esempio, delle religioni, di certe forme dell’arte e della cultura, del comuniSmo, del nazionalismo, di larghi strati del comportamento umano non si può ancora dire che siano già tecnica. Nemmeno del capitalismo lo si può dire, che, proprio perché intende servirsi anch’esso, in quanto si serve, della tecnica, ne differisce. Non sono già tecnica: stanno diventandolo. Le forze del passato, che intendono servirsi della tecnica come mezzo, sono infatti sempre più costrette ad assumere come scopo non più i valori che esse perseguono, ma l’efficacia del mezzo di cui si servono per realizzarli, la quale è pertanto destinata a diventare il loro scopo. 358 Ma Irti, ritenendo che tutto sia ormai tecnica, mi dice che «la tecnica si scompone nella pluralità delle tecniche», in modo che la tecnica a cui io penserei si svuoterebbe di ogni contenuto. Egli non tiene ancora presente che quando dico che la tecnica non mira «a uno scopo specifico e escludente», ma all’incremento indefinito della potenza, intendo che la tecnica (a differenza delle forze che mirano a servirsi di essa) tende a far sì che gli scopi da essa realizzati non impediscano la realizzazione di altri scopi che aumentano la potenza disponibile. Ad esempio tende a far sì che la produzione di farmaci che arricchiscono certe industrie non impedisca la produzione di farmaci non remunerativi ma indispensabili alla sopravvivenza di intere popolazioni; o che le istanze ecologiche siano soddisfatte evitando la catastrofe economica; o che le condizioni della libertà e quelle dell’eguaglianza non si limitino a vicenda. Irti vede solo lo scontro (il cui esito sarebbe imprevedibile) tra le forze che ormai sono già tecniche e mi obbietta che la tecnica non se ne sta al di fuori e di contro alle tecniche specifiche, come «astratta» capacità di produzione. Io gli rispondo che non ho mai pensato a una tecnica siffatta e che lo scontro fondamentale è tra le forme meno potenti della tecnica e la tecnica moderna, cioè tra le forze del passato - fra cui il «diritto naturale» - che ancora tentano di trattenere i loro apparati tecnici al rango di mezzi (illudendosi di dominarli), e l’inarrestabile tendenza di questi apparati a farsi strada e a diventare essi gli scopi di quelle forze detronizzandole. La tecnica moderna è il nostro destino perché è la forza oggi più potente, ed è la più potente perché avverte sempre più la voce della filosofia. Tale voce dice che davanti alla tecnica non esiste più alcun limite, alcuna «natura» da rispettare. Con ciò non si intende negare la presenza di qualsiasi forma di limite. Infatti, la tecnica si dà limiti che, pur non 359 essendo espressione del diritto naturale, sono espressione del diritto positivo. E se in un primo tempo anche il diritto positivo può illudersi di assumere come mezzo la tecnica, nell’età della dominazione del senso autentico della tecnica nemmeno il diritto positivo può essere lo scopo che si serve della tecnica come mezzo, limitandone pertanto la potenza. Anche il diritto positivo è cioè destinato a diventare un mezzo che rende possibile il maggior incremento possibile della potenza tecnica. Il diritto positivo, peraltro, sa di non essere una «verità» necessaria, incontrovertibile; e quindi ancor meno della «Verità» della tradizione può avere la pretesa di porsi come scopo del potenziamento dell’apparato scientifico- tecnologico. 360 16. Mactare In latino «uccidere» si dice anche mactare. Noi diciamo «mattanza». In spagnolo «uccidere» si dice appunto matar. Ma la parola latina mactus significa «ingrandito», «rafforzato», «innalzato», «glorificato». Ha la stessa radice di magnus («grande»): la radice indoeuropea magh, che è presente anche nel greco mechané («strumento»). Una sorta di etimologia popolare latina sente in mactus qualcosa come magis auctus, cioè «reso ancora più grande e più ricco». Su mactus si forma il verbo mactare, che significa appunto «ingrandire», «aumentare», «glorificare», «innalzare», e anche «onorare», «placare»; ed è parola specifica del linguaggio dei riti, soprattutto di quello del sacrificio. Mactare sposta allora la propria mira dal dio, a cui si sacrifica ( mactare deus extis, «rafforzare» il dio con le viscere delle vittime del sacrifìcio), allo strumento del sacrificio, cioè alla vittima, e significa allora anche «uccidere», «ammazzare»: accanto a mactare deum, compare mactare victimam. In qualche modo il linguaggio nasconde la violenza di cui parla; tenta di rovesciarla nel proprio opposto. Ma dai recessi dove il linguaggio costruisce le apparenze da cui sono guidati i mortali si deve risalire ben più indietro. Le trasformazioni del mondo gettano nel terrore i mortali. Essi sono appunto coloro che «vedono» le trasformazioni, cioè la morte delle forme. Fame e sazietà, freddo e caldo, dolore e piacere, tenebra e luce, comparire e svanire nelle costellazioni celesti, allegria e angoscia, vita e morte; e le metamorfosi dell’uomo in animale, insetto, pianta, roccia. Non appena il mortale si afferra a qualcosa, fuori o dentro di sé, le cose gli diventano altro da quello che sono. L’altro in cui si trasformano è l’imprevisto, dunque l’angosciante. Ci si difende dall’angoscia evocando come rimedio la forza più potente e rendendosela amica: la forza del dio. Agli occhi del popolo greco questo processo 361 incomincia a mostrarsi nella sua intensità estrema: cose, eventi, stati incominciano a trasformarsi in quell’assolutamente altro che è il nulla. Al culmine della storia dell’Occidente, con la morte del vecchio Dio, si crede che la tecnica sia la forza più potente, cioè il dio, il rimedio efficace contro l’angoscia del divenir altro. La storia della fede nel divenir altro è la storia della Follia più profonda. Quella in cui si ha fede che una cosa sia il proprio altro, ossia ciò che essa non è, e infine si ha fede che le cose - gli essenti le cose che non sono un nulla - siano nulla. Affinché Dio ci salvi, bisogna che abbia forza. Bisogna che l’uomo la custodisca e l’accresca. All’inizio del rafforzamento umano del Dio domina il sacrificio: l’uomo offre al Dio sé stesso e quanto possiede. Poi il Dio è rafforzato vedendo in lui, con la filosofia, la forza che non si lascia strappare da sé, ed è quindi immutabile, eterna, e custode di tutte le cose che nella vicenda terrena son divenute cose morte. Anche in questo secondo caso - e proprio con l’intento di salvarsi dall’angoscia del divenir altro - l’uomo cede al Dio la propria eternità e immutabilità, il proprio essere.Un Dio che uccide, dunque - sia come Dio religioso sia come quel Dio tecnologico - che permane al di sopra del tempo degli individui, ma rifiutando l’eternità dal vecchio Dio. Per sopravvivere, l’uomo si fa divorare da lui. Da quando Feuerbach mette in tensione la sentenza di Moleschott: der Mensch ist, was er isst («l’uomo è ciò che egli mangia») con Laffermazione che Gott ist was er isst (cioè che anche «Dio è ciò che egli mangia») il nesso tra ontologia e nutrimento - e tra nutrimento, sacrificio e annientamento - non ha più nulla di implicito. (Cfr. in proposito il saggio di Ines Testoni II Dio cannibale, Utet 2001, uno dei contributi più importanti in questa direzione e che insieme si porta al di là dell’ontologia da cui è dominata la storia dell’Occidente.) Il «diventare Dio» 362 esprime in forma positiva il diventare nulla dell’uomo. Tale divenire è infatti un «sacrificarsi» al Dio. Hegel pensa che nella religione lo «Spirito assoluto» veda sé come Altro, ceda sé stesso all’Altro - al Dio, appunto. Feuerbach traduce questa tesi hegeliana pensando che è l’«Uomo» a cedere sé stesso al Dio. In entrambi i casi il Dio consuma l’essere dello «Spirito assoluto» e dell’«Uomo». E anche Hegel e Feuerbach fondano l’alienazione dello «Spirito» e dell’«Uomo» sulla fede nel divenir altro. Tuttavia, in gran parte delle immagini del divino lo svuotamento dell’uomo che si aliena in Dio rispecchia lo svuotamento del Dio che crea e salva l’uomo e il mondo. Nonostante ogni intenzione contraria anche il Dio è un divenir altro. Lo svuotamento del Dio per la salvezza dell’uomo, che sta al centro del messaggio cristiano, sta al centro dei miti precristiani: la morte del Dio è creatrice del mondo. Il sacrificio del mactare victimam è preceduto dal sacrificio dove la vittima è il Dio (Prajapati, Dioniso, Cristo) che deve morire per creare o salvare il mondo. E ancor prima, all’inizio del tempo umano, c’è la lotta tra il Dio e l’uomo, dove il Dio è il Tremendum la cui inflessibilità non lascia vivere l’uomo, cioè lo uccide e dove l’uomo, per vivere, deve farsi largo e abbattere la divina barriera inflessibile, ossia deve uccidere il Dio - giacché abbattendo la barriera e facendo sempre più arretrare il confine dell’imbattibile (e collocando Dio nell’«al di là» e infine negandone l’esistenza) l’uomo uccide il Dio originariamente omicida (Cfr., ad esempio, E.S., L’intima mano, Adelphi 2010, IV, 1-2). 363 17. Ancora su «L’anello del ritorno» Particolarmente interessanti i rilievi critici rivolti a L’anello del ritorno da Vincenzo Vitiello e Francesco Totaro. Qui rispondo brevemente solo ad alcune delle obbiezioni sollevate (Cfr. gli atti del convegno su Nietzsche tenutosi nel 2004 all’università di Macerata). Riprendendo un problema già sollevato in quel libro, Vitiello osserva (pp. 131-132) che la volontà, che nella dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale rivuole il già voluto, «non vuole al modo del precedente volere», e quindi ciò che ritorna non è l’uguale, ma un che di diverso. L’interpretazione dell’eterno ritorno data in quel libro non riuscirebbe quindi a mostrare l’inevitabilità di tale dottrina. Ne L’anello del ritorno si rispondeva anticipatamente a questa obbiezione (p. 258) dicendo che il ritorno dell’uguale non può essere il ritorno dell’assolutamente identico, appunto perché un qualcosa differisce dal ritorno di tale qualcosa. D’altra parte, Nietzsche fonda la necessità che tutto ritorni; e Vitiello non prende posizione rispetto a questa fondazione, ma si limita a indicare l’assurdo che scaturirebbe qualora la si accettasse. Tuttavia, per Nietzsche tale necessità sussiste nel senso che è necessario che ciò che nell’eterno ritorno ritorna assolutamente identico sia la totalità del contenuto voluto (la totalità che dunque è «finita»), ma non la forma del contenuto, cioè il ritornare di esso, il suo ripetersi. (Pertanto è necessario che tale forma, ossia Inattività» del volere cresca all’infinito. E poiché nemmeno ogni nuova ripetizione può costituirsi come un «così fu», cioè come un passato immutabile e indipendente dalla volontà, è necessario che ogni nuova ripetizione sia essa stessa eternamente ritornante e ripetuta, eternamente rivoluta: «l’attività è eterna», scrive Nietzsche. Il contenuto ritorna eternamente, assolutamente identico; la forma cresce 364 all’infinito e ogni sua nuova configurazione incomincia a ritornare, aH’infinito, e in questo senso «eternamente» essa stessa.) La critica di fondo sviluppata da Totaro nel suo confronto con L’anello del ritorno riguarda la tesi, fondamentale anche in questo libro, che anche per Nietzsche l’esistenza del divenire - inteso come venire dal non essere e ritornarvi, da parte degli enti - è l’evidenza suprema, la suprema verità. Nella sua forma più generale questa tesi dice che, nel proprio sottosuolo essenziale, il pensiero filosofico degli ultimi due secoli (e Nietzsche è tra i pochi abitatori di tale sottosuolo) non intende essere un semplice scetticismo, relativismo, prospettivismo, ma intende essere anch’esso verità assolutamente incontrovertibile, ossia intende anch’esso come verità assolutamente incontrovertibile ciò che per l’intera cultura e anzi per l’intera civiltà dell’Occidente è la verità assolutamente e originariamente incontrovertibile: l’esistenza, appunto, del divenire, inteso nel modo indicato (e una qualsiasi forma di sapere che non intenda essere una verità assolutamente incontrovertibile è una forma di scetticismo). Anche per Nietzsche la «rappresentazione» del divenire è indubitabile. Totaro invece lo nega, sostenendo che anche per Nietzsche ogni rappresentazione, quindi anche la rappresentazione del divenire, è «la posizione di un permanente» cioè «una inevitabile fissazione del divenire», una negazione di esso, «un andare controcorrente rispetto al flusso del divenire». Sennonché - rispondo -, se per Nietzsche tutte le rappresentazioni metafisico-teologico- morali hanno questo carattere, non tutte le rappresentazioni lo hanno: per lo meno non l’ha quella rappresentazione che è la teoria delle rappresentazioni di quel primo tipo, giacché se qualsiasi conoscere avesse quel carattere, questa teoria non potrebbe nemmeno rappresentarsi il divenire come tale, cioè 365 come quel «flusso» che viene «fissato», negato da quel primo tipo di rappresentazioni «controcorrente». È indubbio che in quella teoria il divenire è e appare come divenire, ossia è identico a sé e quindi permanente; ma se questa identità e permanenza non ci fossero, non ci sarebbe nemmeno divenire e, questa volta sì, il divenire sarebbe negato e fissato nel suo non esser divenire. Come ho già detto altre volte, a partire da L’anello del ritorno, il Nietzsche che si mostra nella interpretazione offerta da questo libro ha la straordinaria potenza (insieme a pochi altri abitatori del sottosuolo essenziale del pensiero filosofico degli ultimi due secoli) di mostrare fimpossibilità del Senso dell’essere che guida la tradizione metafisico-morale dell’Occidente. Ammesso e non concesso che questa interpretazione di Nietzsche sia insostenibile perché violerebbe le proprie regole, bisognerebbe dire che allora (modestia invita, ma inevitabilmente, quella straordinaria potenza compete al Nietzsche arbitrario che appare ne L’anello del ritorno. Ho detto anche altre volte che il «mio» discorso filosofico dà anche una o due mani affinché il pensiero del nostro tempo mostri tutta la potenza che gli compete - lasciandolo poi al suo destino, che è quello di essere la forma più coerente della follia estrema del divenir altro. Le altre interpretazioni di Nietzsche (e dei pochi che stanno al suo passo) non mostrano questa coerenza e potenza. Restando ad esempio nell’ambito del convegno a cui ci stiamo riferendo, un altro mio critico, Umberto Regina, scrive che per Nietzsche «Dio è impensabile perché non consente all’uomo di poter “sperare” di far suo tutto il mondo». Ma - osservo - questo discorso non intimorisce Dio, che, rimanendo al suo posto, può rispondere invitando l’uomo a fare a meno di queste sue speranze, come appunto incomincia ad accadere col Dio veterotestamentario, che a W’erimus sicut 366 dii - in cui si esprime la «speranza» del primo uomo di far tutto suo il mondo -, risponde deludendolo, cioè cacciandolo dal paradiso terrestre. Un Nietzsche che si fonda su tale speranza - o sulle varie forme di «prospettivismo» - per far morire Dio è ben debole. Il Nietzsche de L’anello del ritorno ha invece la potenza di farlo morire per davvero. (Per mostrare, poi, che la filosofìa di Nietzsche non ha nulla a che vedere con le critiche ingenue che vengono rivolte al principio di non contraddizione, ma, come in Hegel, è una critica del modo inadeguato di intendere tale principio, è sufficiente pensare l’espressione «l’eterno ritorno dell’uguale» - die ewige Wiederkunft des Gleichen. Come prima si è richiamato, ritorna eternamente l’ identico contenuto - ritorna «ogni cosa... e tutte nella stessa sequenza e successione», scrive Nietzsche nella Gaia scienza - e una cosa può essere identica, la stessa, solo in quanto non è le altre cose, ossia non è contraddittoria: ritorna eternamente l’incontraddittorietà di tutte le cose.) 367 18. La tecnica e il sottosuolo 1 Si parla di «governi tecnici» e di «tecnocrazia». Ma il senso conferito oggi a questi termini è essenzialmente diverso dalla più profonda dimensione tecnica sulla quale (ancora una volta) inviterei a riflettere. I «governi tecnici» - ad esempio quello sperimentato in Italia oppure, a livello europeo, il governo costituitosi con l’asse Sarkozy-Merkel - sono soltanto epifenomeni di quella dimensione: così come l’immoralità e l’indifferenza religiosa delle masse sono soltanto un epifenomeno della «morte di Dio» a cui si rivolge il pensiero filosofico del nostro tempo. Dal punto di vista etimologico, «tecnocrazia» significa, certamente, «il kratos (il potere) alla tecnica». Ma per lo più questo termine ha il senso di un ottativo, di un’aspirazione o di una deprecazione: di un esortare verso la realizzazione o di rifiutare o far rifiutare qualcosa che si ritiene più o meno realizzabile, più o meno incombente. Si può andare più indietro di Veblen o Spengler: si può arrivare agli inizi dell’Ottocento, a Saint-Simon, il quale comincia a parlare di necessità, di doverosità, di opportunità di dare il potere alla tecnica. Invece quella più profonda dimensione tecnica a cui mi riferisco non è in alcun modo qualcosa a cui si invita, un progetto, una ricetta, un’esortazione o un rifiuto, ma ha il carattere di una descrizione, di una constatazione - che peraltro si trova su di un piano ulteriore, e se si vuole «astratto» rispetto a quello su cui di solito la riflessione «fenomenologica» si mantiene (un’affermazione, questa, che sottintende quell’elogio dell’«astratto» che Hegel invita a condividere). Nonostante abbia l’apparenza di un tema specialistico, il discorso sulla «tecnocrazia negli anni Trenta» coinvolge 368 qualcosa di profondamente essenziale, che travalica i confini geografico-temporali indicati da quel discorso, fino a presentare, addirittura, un carattere planetario e a costituire una svolta in cui ne va delfintera tradizione dell’Occidente e dei suoi valori. Quel discorso coinvolge la «dimensione tecnica», di cui abbiamo incominciato a parlare: in essa la tecnica appare come destinata al dominio del pianeta. La descrizione e constatazione di cui prima si è detto è descrizione di una destinazione, cioè di una necessità. Si tratta di capire in che senso queste affermazioni non siano un’esagerazione arbitraria e incomprensibile, e in che senso la tecnocrazia negli anni Trenta possa coinvolgere una destinazione di questa portata. Natalino Irti ha parlato dell’importanza di Ugo Spirito in relazione alla situazione italiana di quel tempo. Ma prima e alle spalle di Ugo Spirito c’è la figura decisiva di Giovanni Gentile. Questo apprezzamento può stupire, perché (a parte le riserve che si possono avanzare sul piano politico) non solo si riferisce a una forma culturale che spesso vien guardata con sospetto - cioè la filosofia -, ma anche perché si può dire che la filosofia contemporanea ignori quasi completamente il pensiero di Gentile (e in generale la filosofia italiana). Ignora, però, ciò che essa ha di più decisivo ed essenziale. Non solo: può sembrare anche molto strano che, a proposito di tecnica e tecnocrazia, si parli di Giovanni Gentile, visto che in Italia il pensiero di Gentile (ma anche quello di Croce) è stato considerato radicalmente avverso alla scienza e alla tecnica e quindi estraneo al nuovo clima culturale postbellico. Si tratta di capire perché questa prospettiva è completamente fuori strada. Si incominci a rilevare che, sebbene ignorato, il pensiero di Gentile afferma ciò che nel nostro tempo è affermato, si può 369 dire, ovunque (sia pure con tonalità e reazioni diverse): che non esiste alcuna realtà immutabile e alcuna verità definitiva al di là del mondo umano. Solo che, quasi sempre, questa affermazione non è altro che un dogma, un presupposto che vien dato per scontato, un’intuizione, un impulso, una fede, qualcosa che sta diventando senso comune; laddove il pensiero gentiliano (insieme a pochissime altre posizioni filosofiche) è la fondazione rigorosa di tale affermazione. «Rigorosa», nel senso che è la più coerente al fondamento che è comune all 'intero pensiero dell’Occidente (quindi non solo alle prospettive della tradizione filosofica, artistica, religiosa che invece affermano l’esistenza di una Realtà immutabile e «divina», ma anche alla prospettiva tecnico-scientifica). Tale fondamento è la convinzione che il divenire del mondo, il trascorrere delle cose dal non essere all’essere e daccapo al non essere, sia l’evidenza più indiscutibile e originaria. Gentile mostra che tale evidenza implica il divenire del Tutto. A questo punto, ciò che passa inosservato - per chi non sa scendere nel sottosuolo abitato dal pensiero di Gentile - è che la negazione fondata di ogni Immutabile è la negazione di ogni Limite assoluto e inviolabile che si innalzi di fronte all’azione dell’uomo e quindi a quella forma dell’agire umano, che oggi è la più potente, nella quale consiste l’agire della tecnica. Ciò significa che, di per sé, la tecnica non può sviluppare tutta la potenza di cui è capace, ma può svilupparla solo alla condizione che sappia ascoltare e capire la potenza concettuale di quel sottosuolo. È questo sottosuolo filosofico a dare potenza reale alla volontà di potenza della scienza e della tecnica. Appunto per questo vado ripetendo che solo apparentemente Gentile è stato fascista e che se c’è una forma di filosofia radicalmente opposta al fascismo essa è proprio la filosofia di Gentile. Il fascismo infatti, come ogni regime 370 politico totalitario è uno degli Immutabili di cui il pensiero gentiliano ha mostrato l’essenziale impossibilità. L’impossibile è un sogno che per qualche tempo riesce a prevalere sulla veglia, ma dal quale è inevitabile che prima o poi ci si risvegli. Della fondazione gentiliana di questa impossibilità si può dare qui solo qualche cenno, formulandola in modo che possa venire alla luce la configurazione che è comune a tale fondazione e a quella operata dai pochi altri abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo (quali Nietzsche e Leopardi). Gentile mostra che se esistesse una realtà immutabile - che quindi sarebbe una realtà esistente in sé stessa, al di fuori e al di là della nostra esperienza, cioè del nostro pensiero, indipendente da essa (e questo è il volto che il divino ha mostrato lungo la storia dell’uomo) -, il divenire delle cose, il loro uscire dal nulla e ritornarvi, non avrebbe quella «serietà» che invece gli compete per il suo essere l’evidenza originaria e suprema. Innanzitutto, se esistesse un Dio in cui ogni cosa è già contenuta prima ancora di essere prodotta o creata, allora l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo, sarebbe una semplice apparenza, non avrebbe «serietà». Ma l’uscire dal nulla e il ritornarvi è l’evidenza e verità fondamentale (è, questa, la suprema certezza dell’Occidente, quindi anche di Gentile). Dunque non può esistere alcuna realtà e quindi alcuna verità immutabile e divina, esistente al di là dell’esperienza umana. Si può riproporre così questo tratto decisivo della coscienza contemporanea: sulla base della convinzione originaria che, evocata dal pensiero filosofico, sta al fondamento non solo delle forme religiose, della scienza moderna e di tutta la cultura occidentale, ma anche delle stesse opere e istituzioni 371 dell’Occidente, sulla base dunque della convinzione che le cose del mondo umano oscillano tra l’essere e il nulla, è impossibile che esista qualcosa di assoluto, immutabile, divino, perché esso, precontenendo tutte le cose, avrebbe già riempito tutti gli «spazi vuoti» che sono richiesti dal divenire, ossia avrebbe già riempito quel non essere che (come gli antichi atomisti avevano compreso) è necessario che competa alle cose quando ancora non sono e quando non sono più. Un Dio immutabile («pieno», «satollo», dice Nietzsche) e quindi una verità assoluta in cui questo Dio sia eretto sono la Legge alla quale sia il futuro sia il passato più lontani devono adeguarsi, sì che l’ormai nulla e l’ancor nulla non possono più rimanere un nulla ma diventano degli ascoltatori della Legge, cioè diventano qualche cosa di positivo, un essere. Questo, sommariamente richiamato, il tratto decisivo della coscienza moderna. Come già si è detto, esso è anche la distruzione di ogni Limite (Legge) all’agire dell’uomo e quindi all’agire della tecnica. La legittima a oltrepassare ogni limite. La legittima quindi - essendo essa l’agire che di fatto è il più potente nel mondo contemporaneo - a subordinare al proprio scopo gli scopi di tutte le forze (politiche, religiose, economiche, giuridiche ecc.) che invece intendono servirsi della tecnica per realizzarli. Col compiersi di tale subordinazione quelle forze cambiano volto, tramontano. Richiamiamo ora, anche qui, e sommariamente, la giustificazione di queste affermazioni (rinviando ai miei scritti per il suo senso concreto). Ci si rivolga innanzitutto a un concetto che pur essendo ampiamente presente anche nelle discipline scientifiche va però esplorato al di là delle prestazioni da esso offerte in quei campi. Mi riferisco al concetto di mezzo e di scopo. Lo scopo di un’azione determina il modo in cui essa si 372 costituisce: ne determina il senso e l’essenza. Se si decide di uscire di casa (o di fondare un impero), il contenuto di questa decisione fa sì che si compiano certe azioni e non altre, diverse cioè da quelle che si compirebbero se si decidesse di rimanere in casa. Lo scopo determina la struttura dell’azione. Pertanto, se lo scopo di un’azione cambia, l’azione cambia, è un’altra azione anche se in certi casi si può credere che sia rimasta la stessa. La tecnica guidata dalla scienza moderna è il mezzo di cui si servono o si sono servite tutte le forze dominanti (capitalismo, democrazia, cristianesimo, islam, comuniSmo e altri regimi totalitari ecc.). Intendono servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi, cioè per realizzare, ognuna prevalendo sugli scopi delle altre, un mondo capitalistico, democratico, comunista, islamico, cristiano ecc. E la tecnica è il loro mezzo: non esiste oggi uno strumento più potente della tecnica. Il teorema sul quale va richiamata l’attenzione è che le forme di azione che perseguono gli scopi rispetto ai quali la tecnica moderna è il mezzo insostituibile, sono costrette ad assumere come scopo lo scopo che è proprio della tecnica, mentre i loro scopi iniziali sono costretti a diventare mezzi del loro nuovo scopo. Le forze che si servono della tecnica sono infatti tra loro conflittuali. Il capitalismo è in conflitto con la democrazia (sia di tipo classico sia procedurale), la democrazia procedurale con il cristianesimo, il cristianesimo col capitalismo e col comuniSmo ecc. La democrazia intende porre dei limiti alla volontà di profitto privato; questa volontà non vuol farsi limitare dal principio democratico e innanzitutto cristiano del «bene comune»; il cristianesimo e la Chiesa cattolica in particolare riconoscono al capitalismo il suo essere un mezzo di produzione della ricchezza più efficace dell’economia 373 pianificata, e tuttavia gli ingiunge di assumere come scopo ultimo non il profitto privato, ma, appunto, il «bene comune». In tale conflitto ogni forza mira quindi a che le forze antagoniste assumano come scopo uno scopo diverso da quello che le definisce e per il quale esse sono ciò che sono, e cioè mira a distruggerle. Quando la Chiesa dice al capitalismo di non assumere come scopo ultimo l’incremento indefinito del profitto privato, che invece deve essere soltanto un mezzo per realizzare il «bene comune», essa sollecita il capitalismo a non esser più capitalismo. (E questo va detto anche riconoscendo che la Chiesa, spingendo oggettivamente il capitalismo al tramonto, non ha l’intenzione di distruggerlo e intende differenziare il proprio all’agire marxista-comunista, senza peraltro riuscirvi.) Nella conflittualità tra le forze dominanti, il mezzo di cui tutte si servono per prevalere sulle altre è oggi la tecnica: la tecnica, intesa in senso, per così dire, «trascendentale», cioè come sistema dei sottosistemi (giuridico, sanitario, militare, burocratico, economico, scolastico ecc.) che coordinano razionalmente mezzi in vista della produzione di scopi tra loro non conflittuali. Ma, dato il rapporto conflittuale tra le forze dominanti, ognuna di esse, per prevalere sulle altre e non soccombere, è costretta a rafforzare sempre di più il mezzo di cui essa si serve, ossia la frazione dell’apparato scientifico-tecnologico da essa gestito. Questa volontà di rafforzamento del mezzo è crescente perché è continuamente alimentata dalla situazione conflittuale. Questa crescita toglie spazio, dunque, allo scopo iniziale di ognuna di tali forze; lo scopo di ognuna di esse viene cioè sempre più occupato dal potenziamento del mezzo. Fino a 374 essere completamente occupato, in modo che lo scopo iniziale resta subordinato al nuovo e diventa un mezzo per la realizzazione del nuovo scopo. Ad esempio, se lo scopo è un mondo capitalista, allora, per realizzarlo vincendo le resistenze opposte dalle altre forze, è necessario che il capitalismo potenzi le possibilità tecnologiche di cui esso dispone; ma incrementando questo potenziamento è necessario che il capitalismo assuma come scopo non più soltanto l’incremento del profitto, ma l’incremento del potenziamento del mezzo tecno-scientifico. E come prima si diceva che quando la Chiesa esorta il capitalismo ad assumere come scopo il «bene comune» essa distrugge il capitalismo, così ora va detto che, quando l’area dello scopo del capitalismo a un certo punto viene completamente invasa dal potenziamento (promosso dal capitalismo stesso) dell’apparato della tecnica, la tecnica distrugge il capitalismo - appunto perché, assumendo uno scopo diverso da quello da cui è definito, il capitalismo non è più capitalismo (anche se si continua a chiamare con questo nome ciò in cui esso si è trasformato). E non più capitalismo anche quando l’area dello scopo capitalistico è anche solo parzialmente invasa. Quanto si è detto del rapporto tra capitalismo e tecnica va ripetuto anche in relazione a ogni altra forza oggi dominante. Le forze che non potenziano il proprio mezzo tecno- scientifico soccombono; ma soccombono anche le forze che prevalgono perché tale potenziamento l’hanno operato. Tuttavia il rovesciamento del rapporto tra tecnica e forze che se ne servono per realizzare i loro scopi dipende da una condizione decisiva. Sino a che gli scopi di queste forze sono da esse vissuti come imposti da una «Verità» immutabile e assoluta, esse eviteranno di alterarli e si opporranno al loro spodestamento 375 da parte della tecnica. Ognuna di esse si farà spezzare piuttosto che piegarsi e la forza vincente della tecnica sarà giudicata illegittima, ingiusta, malvagia, prevaricante, tirannica, disumana, dissennata - priva di verità, appunto. E comunque, anche se non giungeranno a farsi spezzare, quelle forze renderanno il più possibile difficile il prevalere della tecnica e le imporranno, come Limiti che essa non deve oltrepassare, i valori della «Verità» in cui esse credono. (Limiti che non sono soltanto etico-religiosi, ma anche di carattere diverso, come quello economico. Ad esempio il capitalismo, oltre a porre come «Verità» assoluta e come Limiti inviolabili la proprietà privata e la libertà di intrapresa, proibisce alla tecnica di produrre beni che non possono essere venduti, o la cui vendita non produce un profitto ritenuto conveniente, anche se sono indispensabili alla sopravvivenza degli insolventi - e tale proibizione è inevitabile se il capitalismo vuol sopravvivere.) Ma oggi la fiducia nell’esistenza della «Verità» va tramontando. Questo è il clima che, procedendo dall’Occidente, sta diventando planetario - destinato com’è a travolgere fenomeni di crescente presenza del cristianesimo nei continenti extraeuropei. (Nell’Unione Sovietica i sacrifici richiesti ai cittadini potevano essere sopportati quando era più diffusa la convinzione che il marxismo fosse una «Verità» assoluta e che quindi la produzione tecnico-economica della ricchezza dovesse innanzitutto servire alla promozione e difesa di tale «Verità» e non alla riduzione di quei sacrifici. Ma, quando questa convinzione è venuta meno, è venuta meno, oltre alla disponibilità dei cittadini al sacrificio richiesto per realizzare la «società giusta» e senza classi, anche la disponibilità dell’apparato tecno-scientifico a essere il mezzo per tale realizzazione.) Ora, il fuoco sotto la cenere del progressivo 376 allontanamento delle masse dalla «Verità», divina o terrena, è il sottosuolo filosofico del nostro tempo (il sottosuolo abitato da pensieri decisivi come quelli di Gentile o di Nietzsche), dove - si è richiamato - si mostra Yimpossibilità di ogni Immutabile, quindi di ogni «Verità» immutabile, di ogni inviolabile Limite all’agire delfuomo e pertanto all’agire tecnico. E tale impossibilità è l’impossibilità che gli scopi delle forze ancora convinte di potersi servire della tecnica siano l’adeguazione dell’agire alla «Verità» immutabile, che ora (ma ancora, per lo più, sotto la cenere) si palesa come un sogno. La coscienza che l’Apparato scientifico-tecnologico ha ancora di sé stesso è ancora cenere, la cenere che copre il fuoco del sottosuolo, e quindi tende a essere ancora una fede nell ’inesistenza degli Immutabili e nella «morte di Dio»; ma, nella misura in cui quel fuoco si libera dalla cenere di tale fede, in questa misura la subordinazione della tradizione dell’Occidente (e del pianeta) alla tecnica è inevitabile. Si può richiamare un ulteriore aspetto del rovesciamento per il quale il potenziamento della tecnica diventa lo scopo delle forze che intendono servirsi di essa. Riguarda il rapporto tra capitalismo e tecnica - il capitalismo essendo ancora, nonostante la sua crisi profonda, la più potente delle forze che dominano il mondo, visto che è da essa che viene organizzata la produzione dei beni di consumo e della ricchezza. A un aspetto soltanto di tale rapporto qui si farà cenno. Non può esistere capitalismo senza perpetuazione della scarsità delle merci prodotte. Un bene di consumo totalmente disponibile non è merce, non è vendibile, nessuno è interessato a produrlo o ad acquistarlo. E il capitalismo, essenzialmente legato alla perpetuazione della scarsità, si serve della tecnica per produrre merce. D’altra parte la tecnica, proprio in quanto mezzo, ha un 377 proprio scopo fondamentale e supremo: l’aumento indefinito della capacità di realizzare scopi. Questo scopo non è escludente - a differenza degli scopi delle forze che si servono della tecnica. Non è escludente anche perché esso è un mezzo capace di realizzare gli scopi tra loro conflittuali perseguiti da tali forze. (Lo scopo del capitalismo è invece un mondo capitalistico e non comunista, e viceversa; lo scopo del cristianesimo è un mondo cristiano e non ateo ecc.) Ora, se per sopravvivere il capitalismo deve perpetuare la scarsità delle merci e si serve della tecnica - la quale ha peraltro come scopo fondamentale l’incremento indefinito della potenza, ossia della capacità di realizzare scopi -, va ora rilevato che l’incremento indefinito della potenza implica Veliminazione progressiva della scarsità. La situazione è cioè quella di un padrone che si serve di un servo il cui scopo è l’ehminazione del padrone. Il capitalismo si serve di un servo (la tecnica) che lavora per lo spodestamento del padrone. Nella dialettica di servo e padrone, Hegel mostra appunto che la storia è fatta dai servi: per servire il padrone essi devono acquistare competenze, sollevandosi quindi al di sopra di quelle del padrone; elaborano tecniche e conoscenze scientifiche, gestiscono e quindi si impadroniscono di quella potenza scientifico-tecnologica che finisce per rovesciare, il rapporto feudale servo-padrone. Ma, anche qui, il servo può rovesciare il padrone solo se non crede più che egli sia il portatore della «Verità» - solo se la tecnica non crede più che il capitalismo, quindi la perpetuazione della scarsità delle merci, sia la «vera» e insuperabile condizione umana. La contraddizione in cui consiste il rapporto fra forze che si servono della tecnica e tecnica si acuisce e diventa estrema quando cioè viene in luce che gli scopi delle forze che si servono della tecnica non hanno una «Verità» assoluta. E a portare alla luce la morte 378 della «Verità» e di Dio non può essere la scienza o la tecnica (che quando tentano di farlo sono soltanto cattiva filosofia) ma, si è visto, è il sottosuolo filosofico del nostro tempo. (Così come, d’altra parte, non può essere una fede a rifiutare quella morte e il principio che tutto ciò che si può fare sia lecito farlo.) Non ci si può dunque limitare alfawertimento che la tecnica non ha limiti. Il sapere che dà questo avvertimento è innegabile - è il sottosuolo di cui stiamo parlando -, solo in quanto mostra che è sul fondamento di ciò in cui da ultimo credono sia gli stessi difensori dei Limiti sia la tecnica stessa, è su tale fondamento che viene affermata l’assenza di Limiti. Da ultimo sia la tecnica sia i difensori dei Limiti all’agire dell’uomo credono, appunto, nell’esistenza dell’agire. Lo si crede lungo l’intera storia dell’uomo. Si crede che le cose possono essere smosse, controllate, prodotte, create e distrutte. Per la prima volta il pensiero greco intende la creazione (produzione) come l’uscire dal non essere e la distruzione come annientamento. Pensando per la prima volta l’«essere» e il «niente» conferisce un senso «ontologico» al creare e al distruggere. In modo sempre più diffuso lungo la storia dell’Occidente si crede che l’agire sia creare e distruggere in senso ontologico. Se non credesse in questo senso della creabilità e annientabilità delle cose, l’Occidente non esisterebbe: non esisterebbe, in esso, azione (umana o divina o della natura), quindi non esisterebbe nemmeno azione tecnico-scientifica. La scienza e la tecnica credono nel senso ontologico dell’agire anche quando sono convinte di non aver nulla a che vedere con l’«essere» e il «niente». Nel suo senso più alto e autentico, la tecnocrazia è l’ascolto, da parte della tecnica, della voce del sottosuolo filosofico del nostro tempo - della voce che, sul fondamento della 379 convinzione che l’agire esiste secondo il senso ontologico evocato dall’Occidente, fa sentire l’impossibilità dell’esistenza di un Limite assoluto all’agire così inteso, che peraltro è la forma radicale dell’agire. Nella misura in cui la tecnica dà ascolto a quella voce (e tale ascolto è un processo in corso, che ancora fatica ad affermarsi), lo scopo della tecnica, ossia l’incremento indefinito della potenza, è destinato al dominio del mondo, cioè a presentarsi come lo scopo delle forze che ancora vogliono servirsi della tecnica, trattenendola al ruolo di semplice mezzo. Poiché Gentile è uno dei pochi abitatori di quel sottosuolo il tema della tecnocrazia negli anni Trenta non solo non ha carattere specialistico, ma coinvolge, come si è già rilevato, il problema centrale del nostro tempo: dove sta andando il mondo? Ma, ora, si aggiungeranno soltanto alcune sottolineature e alcune precisazioni - rinviando al modo in cui nei miei scritti si configura l’affermazione che il mondo sta andando verso la dominazione della tecnica. (E comunque, si ripeta, non si tratta di consigliare al mondo dove debba andare, ma di osservare dove è destinato ad andare. È patetico voler dire ai popoli quello che devono fare: si tratta invece di capire che cosa sono destinati a valere e a fare.) Nel suo significato più profondo la tecnica non ha nulla a che vedere con la concezione scientifico-tecnicistica della tecnica (e tanto meno con i «governi tecnici di cui oggi si parla). Mostrando l’inesistenza di ogni Limite inviolabile, il sottosuolo filosofico del nostro tempo non solo legittima la volontà di potenza della tecnica e il suo oltrepassamento di ogni limite, ma li rende possibili. Se non si sa di avere in mano una spada invincibile non ce se ne serve e non si vince. Di qui (anche di qui) il carattere radicalmente «pratico» del pensiero filosofico, ossia di ciò che è il più «astratto». L’ascolto della voce del sottosuolo, da parte della tecnica, è un 380 processo in atto che ancora è ostacolato dalle voci della superficie. La voce autentica dice che il vero tramonto degli Immutabili è dovuto alla necessità che la loro esistenza renda impossibile quel nulla del futuro e del passato, quel senso ontologico del divenire che ormai ovunque è considerato come l’evidenza suprema. La potenza della tecnica è dovuta al carattere «pratico» del sottosuolo filosofico, non alla «praticità» del sapere matematico (o fisico-matematico) che sta al cuore della tecnica. Il che va detto anche se oggi questo secondo carattere è il fattore per il quale la tecnica ha più potenza di altre forze. Tale maggior potenza è però una situazione storica contingente, perché se accadesse nuovamente che pregando si muovano le montagne e le si muovano più di quanto la tecno-scienza riesca a muoverle, allora la tecnica non sarebbe più quella fisico-matematica ma quella pregante, destinata dunque essa al dominio del mondo (e, certamente, diversa da quella che si rivolge alfimmutabile «Verità» di un Dio). Se la dimensione economica - la più potente delle forze che si servono della tecno-scienza - domina ormai la politica e le strutture statuali (si pensi al peso che grava su di esse in forza della globalizzazione capitalistica), ora è la stessa economia che sta per essere oltrepassata dalla tecnica. Non nel senso che non esisterà più economia, ma nel senso che, mentre per il capitalismo la tecnica serve per incrementare il capitale, si sta andando verso un tempo in cui il capitale servirà per incrementare la potenza tecnica. E l’uomo? Molte, le voci che accusano la tecnica di essere disumanizzante. Ma che cos’è l’«uomo» nella cultura occidentale, ormai planetaria? Al di sotto delle molteplici definizioni dell’esser uomo agisce un tratto a esse comune - e decisivo -, per il quale l’uomo è un centro di forze cosciente, capace di organizzare mezzi, in vista della produzione di 381 scopi. (Anche l’uomo mistico è e intende essere questo centro. Il mistico è infatti il supertecnico: apre le braccia alla suprema e infinita potenza di Dio e crede, lasciandosi invadere da essa, di poter essere estremamente più potente deWhomofaber spesso dimentico di Dio.) Ma la definizione dell’uomo come centro cosciente di forze, capace di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, è la definizione stessa della tecnica. E allora non si dovrà forse dire che la tecnica è Yinveramento massimo dell’uomo, ossia che l’uomo trova nella tecnica la propria essenza più profonda, così come, nel tempo che precede la morte di Dio, è nella potenza, ossia nella tecnica divina che l’uomo trova e vive il più profondo esser sé stesso? Anche Dio è stato l’inveramento massimo dell’uomo, perché l’uomo, che da principio chiede a Dio di salvarlo, poi si rende conto che per essere salvo deve essere innanzitutto salvaguardata la potenza del Salvatore, perché se Dio diventa un mezzo nelle deboli mani dell’uomo, bisognoso di salvezza, allora anche Dio in quelle mani diventa un debole strumento di salvezza. Nello stesso modo, quando l’uomo si rivolge alla tecnica per essere salvato, e dopo averla assunta come mezzo nelle proprie mani si rende conto di poter esser da essa salvato solo se egli non assume come scopo la propria salvezza ma il potenziamento dello strumento salvifico, allora egli trova e vive nella Tecnica il più profondo esser sé stesso. E lo trova e lo vive solo se la tecnica si è posta in ascolto del sottosuolo essenziale del nostro tempo. La discrasia tra tecnica e uomo - la disumanizzazione dell’esistenza da parte della tecnica - riguarda quindi le diverse concezioni «ideologiche» dell’esser uomo, cioè l’uomo cristiano, l’uomo capitalista, comunista ecc.; non riguarda il tratto essenziale che è a esse sotteso. Tale tratto dice che 382 l’uomo è azione, prassi, volontà cosciente e convinta di avere la capacità di trasformare le cose fino a farle diventare, da nulla, essenti e, da essenti, nulla. L’uomo «ideologico» viene certamente «messo da parte» dalla tecnica autentica, che ascolta il sottosuolo. La tecnica non ha come scopo il benessere o la felicità dell’uomo, ma quel potenziamento indefinito di sé stessa che peraltro dà all’uomo più benessere e felicità di quelli che egli otterrebbe se essi fossero lo scopo del suo agire. Sì che egli è «messo da parte» non come tratto comune ai diversi modi «ideologici» di intendere l’uomo, ma, appunto, come uomo «ideologico» che, da scopo, diventa mezzo per l’aumento indefinito della potenza tecnica. Anche la scienza e la tecnica sono «ideologie», cioè non sono verità incontrovertibili, ma sono le ideologie più potenti - sebbene il sottosuolo filosofico che conferisce loro l’effettiva potenza sia, ormai per l’intero pianeta, e più o meno esplicitamente, la suprema e unica verità incontrovertibile. A questo punto è possibile intrawedere Yinizio del sentiero che conduce a un Sottosuolo essenzialmente più profondo di quello di cui si è parlato sin qui. Si può esprimere così tale inizio. In quanto unita al sottosuolo filosofico del nostro tempo, la tecno-scienza non è scetticismo ingenuo, appunto perché in questa unione si nega l’esistenza non di ogni verità, ma di ogni «Verità» immutabile che stia al di là di ciò che nel sottosuolo appare come l’unica verità incontrovertibile: l’agire del divino, dell’uomo, della natura, cioè l’oscillazione delle cose tra il loro non essere e il loro essere, per la prima volta evocata dal pensiero filosofico greco. Del carattere «pratico» della filosofia che abita il sottosuolo del nostro tempo, si è già detto. Ma quella evocazione ha un carattere «pratico» ancora più decisivo, perché solo se si crede 383 nella disponibilità delle cose al loro oscillare tra il non essere e l’essere è possibile l’agire e quella forma estrema dell’agire che è l’agire in senso «ontologico». L’evocazione greca di tale senso è il luogo nel quale soltanto è potuta e potrà crescere l’intera storia dell’Occidente. Tuttavia, se ovunque si è convinti della verità incontrovertibile di quel luogo, perché tale convinzione è verità incontrovertibile? Questa domanda suona assolutamente strana. Non è forse ovvio, e sin dagli inizi dell’uomo, che l’agire esiste e che le cose vanno dal non essere all’essere e viceversa? Non si perde tempo a prenderla in considerazione? È inevitabile che sembri strana. La si ascolta infatti stando all’interno del luogo che da tale domanda è messo in discussione. Ma perché è necessario rimanere all’interno di quel luogo? 384 19. Innocenza del divenire e valore dell’uguaglianza Se spesso gli storici del pensiero filosofico vedono gli alberi - come si suol dire - ma non la foresta, non è certo questa una critica che si possa muovere all’imponente e poderosa ricerca di Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico (Bollati Boringhieri 2002). Egli mostra come il pensiero di Nietzsche sia potentemente unitario e come in esso le variazioni non siano casuali. Anche per Leopardi si è dovuto attendere molto tempo prima che lo si capisse - e non è che oggi tutti l’abbiano capito. Sono d’accordo con Losurdo anche nell’individuazione del tratto o «elemento» che determina il carattere unitario del pensiero di Nietzsche. Egli considera Nietzsche «filosofo totus politicus», ma questa espressione non riduce il suo pensiero alla dimensione specialistica della «politica»: all’opposto, intende «“salvare” il filosofo nella sua interezza», cioè nella sua volontà di «abbracciare e comprendere la realtà nella sua totalità» e nel suo «assillo di intervenire attivamente su di essa» (p. 900). «Solo non rimuovendo l’elemento che l’attraversa in profondità, solo tenendo ben presenti la critica e la denuncia militante della rivoluzione e della modernità, è possibile cogliere l’unità del pensiero di Nietzsche e la sua interna coerenza» ( Ibid .). Losurdo scorge che per Nietzsche la «modernità» e la «rivoluzione» hanno un inizio lontanissimo nella storia dell’Occidente: incominciano con Socrate; e, da ultimo, il loro avversario autentico, al di sotto delle sue molteplici forme, è l’«innocenza del divenire» - quella in cui forse vive il più antico uomo greco, l’uomo dionisiaco, e nella quale intende consapevolmente abitare il superuomo annunciato da Nietzsche. Il divenire è innocente quando, liberato da ogni Verità assoluta e da ogni Dio immutabile che 385 intendono assoggettarlo, è liberato anche da ogni «colpa» che gli deriverebbe dal suo non adeguarsi alle Leggi vere e divine. Il quadro presentato da Losurdo è tra i più fedeli e pregevoli. Ma quando si mostra il corpo di un lottatore, la rappresentazione è concreta - ossia non è un semplice dipinto -, quando riesce a mostrare la forza del lottatore, cioè la sua effettiva capacità di vincere gli avversari. Nietzsche appartiene al ristretto gruppo dei grandi lottatori che riescono a distruggere i nemici del divenire, i nemici che formano l’intera tradizione dell’Occidente. La ricerca di Losurdo è quanto mai pregevole, ma ancora non dà a Nietzsche quel che è di Nietzsche, cioè la sua straordinaria potenza speculativa, che esige di essere riconosciuta anche aH’interno della riflessione storica. Per cogliere tale potenza bisogna fare i conti con coloro che a essa si sono esplicitamente rivolti. Per esempio Heidegger. Ma qui sarebbe modestia fuori luogo se non mi riferissi anche a L’anello del ritorno. Sul quale inviterei Losurdo a riflettere - anche perché la scansione meno convincente del suo libro è proprio data dal modo in cui egli fa rientrare il tema deH’eterno ritorno nel «Nietzsche totus politicus» che lotta per la salvaguardia dell’innocenza del divenire. Losurdo, giustamente, dà valore al modo in cui Nietzsche intende sé stesso. Ma a un certo momento Nietzsche stesso ha posto al di sopra di tutte le proprie dottrine quella dell’eterno ritorno. Sembra che a questo fatto Losurdo non dia il peso dovuto e che, anche lui, si ritragga dal problema. Che certo, è gigantesco: il divenire, cioè la negazione deH’eterno, è un ritorno eterno! Ancora non si comprende che tale dottrina non è una stranezza, ma, come Nietzsche stesso asserisce, è quella «nuova conoscenza» che è «necessità» suprema, innegabile e incontrovertibile. Ma, daccapo, non basta 386 asserirlo: bisogna mostrarlo in concreto. Nietzsche l’ha potentemente mostrato, mostrando l’implicazione «necessaria» tra divenire e eterno ritorno. Anche lo storico ha il compito di non nascondere tale potenza. Soprattutto la filosofia è equivocabile. Rivolge lo sguardo verso temi che tutti credono di conoscere. Grandi filosofi sono anche straordinari scrittori e, tra chi li legge, si crede che accostandosi al linguaggio letterario si abbia in mano il suo senso filosofico. Quasi sempre i mass media comunicano «tesi», dominati dalla convinzione che ogni tentativo di discuterle le sbiadisca, le tolga di scena, le indebolisca. E invece c’è filosofia solo quando le «tesi» sono radicalmente discusse, fondate, argomentate. Si potrebbe continuare a lungo. Bene ha fatto dunque Luciano Canfora a riconsiderare («Corsera», 11/1) gli equivoci che possono nascere intorno alla filosofia di Nietzsche. Sostiene che i grandi pensieri «hanno a che fare» con le loro «conseguenze»; ad esempio il Vangelo con la storia della Chiesa; Marx con l’Unione Sovietica, Nietzsche con il nazionalsocialismo e il razzismo. Ma quasi a parare l’obbiezione che la luce del sole ha a che fare sia con l’azzurro del cielo sia con la putrefazione dei cadaveri, Canfora richiama il «fatto» che in Nietzsche i valori dell’uguaglianza (morale del dovere, democrazia, socialismo) sono rifiutati. E il «fatto» c’è indubbiamente. Tuttavia questi valori - che in parte sono anche cristiani - hanno a loro volta a che fare con le loro conseguenze, tra le quali le crociate, il periodo del «terrore» durante la rivoluzione francese, la stessa rivoluzione sovietica e il comuniSmo, la soppressione fisica di chi, di volta in volta, è stato ritenuto immorale. Nessuno è innocente, nemmeno i nemici del «superuomo» di Nietzsche. 387 È però necessario che si capisca perché Nietzsche abbia questi nemici. Non si può affermare che egli è un «ribelle aristocratico» (Canfora riprende l’espressione dal libro di Domenico Losurdo) nello stesso modo in cui si dice che il nostro calzolaio vota per questo o quell’uomo politico (con tutto il rispetto per i calzolai). Si deve invece capire quale fondamento filosofico abbia condotto Nietzsche a quell’atteggiamento. Egli si ribella all’intera tradizione occidentale, perché ne mostra l’insostenibilità. Non vedo, ripeto da tempo, che si facciano o si siano fatti sforzi consistenti in tale direzione. Heidegger ha sostenuto che Nietzsche è rigoroso come Aristotele. Sono d’accordo. Ma si tratta di capire perché lo sia. In Nietzsche, si crede, «c’è tutto e il suo contrario». Un eminente illogico. (Anche Leopardi è stato trattato come un dilettante che andava compitando la filosofìa. Il «fatto» è che quelli che lo leggevano, non capivano.) Se il nostro calzolaio si contraddicesse come spesso si crede che Nietzsche si sia contraddetto, non gli faremmo più aggiustare le scarpe. Nel suo Saggio sullo Hegel, Croce, (che giustamente è assunto da Canfora come affidabile punto di riferimento nel problema- Nietzsche) scrive, della Nascita della tragedia di Nietzsche: «Per quel che concerne la logica, quale migliore propedeutica si potrebbe consigliare di questo immaginario antihegeliano per intendere la soluzione che lo Hegel propose del problema degli opposti?». La nietzschiana «morte di Dio» che sta alla base del «superuomo» appartiene al significato essenziale dello stesso pensiero crociano, anzi di tutta la filosofia (e quindi la cultura) contemporanea. (A tale significato appartiene anche quel Gramsci che incautamente «sardonico» riconduceva il «superuomo» di Nietzsche al conte di Montecristo e ai «romanzi di appendice».) Nietzsche rifiuta i valori 388 dell’uguaglianza perché essi sono legati al Dio che muore. Ma, soprattutto qui, si tratta di capire perché egli annuncia la «morte di Dio». 389 20. Rawls, Hegel, Kant John Rawls è molto conosciuto in Italia per iniziativa meritoria di alcuni studiosi come Salvatore Veca, Sebastiano Maffettone e altri. Nel 1982 Feltrinelli aveva pubblicato Una teoria della giustizia, l’opera maggiore di Rawls, e nel 2004 le sue Lezioni di storia della filosofia morale, apparse negli Stati Uniti nel 2000. Sono una gradita sorpresa soprattutto per l’ampia e approfondita attenzione che dedicano a grandi figure della filosofia moderna come Leibniz, Hume, Hegel e soprattutto Kant. Un riconoscimento dell’importanza della filosofia, osserva giustamente Veca nella «Nota all’edizione italiana», «non abituale nella tradizione che per mera convenzione possiamo chiamare analitica, entro cui la ricerca e l’insegnamento di Rawls si situano». Lo stesso Rawls riconosce «le radici kantiane di Una teoria della giustizia», ma queste Lezioni si spingono sino ad affermare che lo stesso Hegel è «un liberale riformista moderatamente progressista», che si muove lungo quella linea del «liberalismo della libertà» che da Kant (senza escludere J.S. Mill) giunge a Una teoria della giustizia. Rawls può sostenerlo, perché è convinto che «buona parte della filosofìa morale e politica di Hegel possa reggersi da sola», cioè indipendentemente dal suo fondamento metafisico-speculativo. E, certo, qui c’è molto da discutere, anche perché è poi lo stesso Rawls a coinvolgere quel fondamento in momenti cruciali della sua interpretazione di Hegel. È chiaro che le cose vanno invece del tutto lisce nella parte più ampia e centrale di queste Lezioni, dedicata a Kant. Il gesto essenziale di Kant consiste infatti nel porre la filosofia morale e politica come, appunto, una dimensione 390 indipendente dalla metafisica. Primato della ragion pratica. Non a caso, un saggio di Rawls tradotto recentemente in italiano da Edizioni di Comunità è intitolato Vindipendenza della teoria morale. Non sembra tuttavia che Rawls risolva il problema relativo alla genesi del teorema del primato della ragion pratica. In Kant questo teorema presuppone la critica del sapere metafisico. Se questa critica cade, cade anche quel teorema. Ad esempio non si potrà più dire che 1’esistenza di Dio, f immortalità delfanima, la libertà sono «postulati della ragion pratica» e non verità metafìsiche. Ma Fidealismo classico - Schelling, e Hegel in particolare - ritiene di aver messo in luce i presupposti arbitrari e da ultimo contraddittori che stanno alla base del rifiuto kantiano del pensiero metafìsico. Questa convinzione delfidealismo non è cosa da poco - e soprattutto non può esser messa da parte perché sembra trovarsi in contrasto col sapere scientifico. Purtroppo Rawls non entra in questo tipo di problemi. E questo può essere il limite (del tutto comprensibile) di questo suo magistrale interesse - per molti imprevedibile - per le grandi forme del pensiero filosofico. 391 21. Bergson e la realtà del tempo «Possiamo riassumere la filosofìa di Bergson in una singola idea: il tempo è reale.» Lo afferma Leszek Kolakowski alfinizio del suo studio del 1985: Bergson (Palomar dialoghi 2005, che ricostruisce il pensiero di Kolakowski, dedicato soprattutto alla storia critica del cristianesimo e del marxismo). Kolakowski aggiunge subito che se l’affermazione «il tempo è reale» «non suona particolarmente illuminante, originale o stimolante», essa è invece il «nucleo» di «una visione del mondo del tutto nuova», perché «dire che il tempo è reale equivale a dire che il futuro assolutamente non esiste» - e questa tesi è invece stata in vari modi negata nelle forme di pensiero che credono in una qualche forma di anticipazione del futuro. In questa pagina Kolakowski si riferisce al determinismo e alla fisica, ma sa bene che per Bergson anche la concezione tradizionale del Dio onnisciente e immutabile è un modo di affermare l’anticipabilità del futuro. L’implicazione tra realtà del tempo e assoluta inesistenza del futuro è indubbiamente decisiva, come appunto ritiene Kolakowski, e conduce al rifiuto più radicale della tradizione dell’Occidente. Ma questo rifiuto che si basa sull’esigenza di prendere sul serio il senso del tempo, non è solo di Bergson, bensì è il tratto fondamentale del pensiero del nostro tempo. Non a caso Gentile parla di «serietà della storia»: la storia è «seria», e va presa sul serio, precisamente nel senso che essa non può esistere insieme ad alcunché che (come il Dio della tradizione) la anticipi. Si vuole andare alla radice di questa volontà di «serietà»? Si incontra Nietzsche, e, ancor prima, la straordinaria critica che Leopardi rivolge alla concezione platonica dell’«idea», la quale è il prototipo di ogni volontà di anticipare il futuro, negando la «serietà» del divenire e del 392 tempo. Nel suo testamento (1937) Bergson, ebreo, scrive che si sarebbe convertito al cattolicesimo se non avesse visto «l’ondata formidabile di antisemitismo che sta irrompendo sul mondo». Un gesto di grande nobiltà. Ma nel 1914 il Sant’Uffizio aveva messo le opere di Bergson all’indice dei libri proibiti e Kolakowski ricorda che «tutti i principali filosofi tomisti francesi», con Maritain in testa, «pensavano fosse Loro dovere combattere la dottrina bergsoniana». E Sant’Uffizio e filosofi tomisti coglievano nel segno per quanto riguarda il rapporto tra filosofia di Bergson e dottrina ufficiale della Chiesa. Alla fine della sua vita Bergson si è sentito cattolico. Ma non ha rinunciato alla propria filosofia, che in sostanza identifica Dio al tempo, ossia alla libera creatività di un agire, soprattutto per il quale il futuro è del tutto inanticipabile. Un agire senza scopo (come pensa Nietzsche), che solo dopo aver agito può scoprire dove è arrivato e che cosa ha prodotto: una negazione radicale, questa, del Dio della tradizione cristiana. Tuttavia, anche se ancora si stenta a capirlo, il cristianesimo del futuro dovrà dare sempre più ascolto al pensiero che tien ferma la «serietà» del tempo. In questo processo (dove tramonta la forma tradizionale del cristianesimo), dopo la consonanza tra il movimento cattolico del «modernismo» e la filosofia di Bergson, quest’ultima, insieme alla maggior parte della filosofia del nostro tempo, sembra destinata - ma non certo nel futuro prossimo - ad attrarre nuovamente su di sé l’attenzione della cultura cristiana. 393 22. Heidegger. La domanda e la risposta «Non vi sono tesi somme», ossia «principi», «verità eterne» che sovrastino la storia, il tempo, il divenire. A esprimere questo rifiuto, ormai, non sono soltanto le forme filosofiche del nostro tempo, ma anche la scienza: non soltanto la filosofia - che riferisce tale rifiuto a ogni pensiero e azione dell’uomo, dunque anche a sé stessa -, ma anche, e da tempo, la scienza, nella misura in cui essa si libera dalla illusione di essere, oltre che potente, assolutamente vera. La frase riportata all’inizio è contenuta nei Contributi alla filosofia (Beitrdge zur Philosophie), composti da Heidegger tra il 1936 e il 1938, pubblicata postuma nel 1989 (Adelphi). Nonostante le profonde e suggestive innovazioni rispetto a Essere e tempo, anche nei Contributi la struttura di fondo del pensiero di Heidegger rimane immutata. A cominciare, appunto, da quel rifiuto di ogni «tesi somma » e di ogni verità eterna e soprastorica. In Essere e tempo si dice: «Che ci siano delle “verità eterne” potrà essere concesso come dimostrato solo se sarà stata fornita la prova che l’Esserci era, è e sarà per tutta l’eternità. Finché questa prova non sarà stata fornita, continueremo a muoverci nel campo delle fantasticherie». Heidegger sta dicendo che, fino a quando non si proverà che l’uomo (l’«Esserci») è eterno - eterno non semplicemente immortale -, sarà solo una fantasticheria parlare di «verità eterne». Ma per Heidegger è del tutto ovvio che l’uomo (come ogni cosa del mondo) non è eterno e che quindi quella prova non potrà mai esser data - per Heidegger, dico, come per tutti coloro che in qualsiasi campo hanno pensato e agito da quando, all’inizio della storia dell’Occidente, è apparso il senso del tempo e dell’eterno. Che nessuna cosa con cui l’uomo abbia a che fare sia eterna è diventata ormai la 394 convinzione più profonda e scontata anche presso la gente comune, tanto che starvi a riflettere sembra una pura perdita di tempo. Il tempo perduto - che fortunatamente ha forme diverse - i miei scritti l’hanno aumentato di molto, mostrando invece che lo splendore delle cose (anche di quelle terribili) è infinitamente più luminoso di quanto si sia disposti ad ammettere. Hanno cioè indicato, quegli scritti, la necessità che non solo l’uomo, ma tutte le cose siano eterne. Tutte le cose: situazioni, configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi, ombre, universi, pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la storia, è il comparire e lo scomparire degli eterni. E la «necessità» che ogni cosa sia eterna è qualcosa di essenzialmente più radicale di quella «prova» dell’eternità dell’uomo che per Heidegger non potrà mai esser data. Dall’inizio alla fine il tema di questo pensatore è stato «la domanda dell’Essere» ( Seinsfrage ). La domanda - che continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa mostra, per Heidegger, tutta la propria grandezza. L’«Essere» non è l’«ente», non è alcuno degli «enti» (case, fiumi, stelle, pensieri, azioni, uomini, dèi), di ognuno dei quali si dice tuttavia che «è» e che «è» questo e quest’altro. Qual è il senso di questo «è» - ecco la «domanda dell’Essere» -, da cui tutto in qualche modo dipende? Dai Greci a Nietzsche la filosofìa è stata, per Heidegger, riflessione sul senso dell’«ente», ossia è stata «pensiero metafisico», e ha quindi velato la «domanda dell’Essere», pur dando vita alla storia dell’Occidente. Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni asserire. Si trova alla sommità del pensare, ma non per questo è una «tesi somma», una «verità assoluta». Essa è «storica». Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già lui il 395 «superuomo», ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei Contributi, non attribuisce al proprio discorso nemmeno la capacità di costituirsi come l’autentica «domanda dell’Essere», ma solo il carattere di «pensiero transitorio», che «ai fini della comunicazione deve spesso procedere ancora lungo il tracciato del pensiero metafìsico», e i cui «sforzi» «saranno un giorno superflui e ricadranno nell’accidentale» (p. 419). In una conferenza pubblicata nel 1964, e intitolata La fine della filosofia e il compito del pensiero, Heidegger aggiungerà che al proprio pensiero «non può esser riconosciuta alcuna azione immediata o mediata sulla dimensione pubblica dell’epoca industriale, improntata dalla scienza-tecnica», e che «il suo compito ha solo un carattere preparatorio e nient’affatto fondante», giacché «gli basta risvegliare una disponibilità dell’uomo per una possibilità, i cui tratti restano oscuri e il cui avvenire incerto». Va tuttavia anche detto che queste affermazioni non sono affatto, come Heidegger esplicitamente dichiara, espressione di una «falsa modestia», giacché quell’oscurità e incertezza, quella incapacità di influire sul mondo della tecnica, quel carattere preparatorio e non fondante non sono per lui semplici caratteri della scrittura dell’individuo Heidegger, ma sono insieme, e addirittura, il modo in cui l’«Essere» stesso si vela e si ritrae dall’epoca presente. E lo stesso si può dire di quella «superfluità» e «accidentalità» che nei Contributi Heidegger attribuisce al proprio pensiero. I Contributi sono pertanto grandi prove di una filosofìa che vorrebbe allontanarsi dalla tradizione metafisica, pur riconoscendo tutte le difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma insieme essendo convinta che tali difficoltà non sono dovute alle carenze di un certo individuo, ma sono le difficoltà in cui le cose stesse si trovano. Ma queste non sono «tesi somme»? 396 Destano sorpresa anche molte delle tesi, peraltro suggestive, che si incontrano nei Contributi. Sembrano andare troppo più in là di quanto secondo lo stesso Heidegger sia lecito. Ad esempio le tesi dei «venturi», dell’«ultimo Dio» («Quello del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al Dio cristiano»), del modo in cui l’«Essere» - «vibrando», «oscillando» - si appropria del mondo. Heidegger intende «rovesciare» la metafisica senza abolirla (e il timbro della sua filosofia è fortemente neoplatonico), senza cioè abolire la fede di cui parlavo e che guida l’Occidente e ormai il pianeta: la fede che l’uomo e le cose non sono eterni. Tra i temi più in vista e operanti, nei Contributi, quello del «creare», è essenzialmente «metafìsico». («Quanto è lontano da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e crea-tori, perché di costoro ha bisogno la sua essenza?») Ma - dico - nessuna cosa creata è eterna. È creata proprio perché non è eterna. Nessun creatore crea l’eterno. E dell’«Essere stesso» Heidegger esclude che sia eterno. L’«Essere» stesso è «storico». Ma questa fede nella non eternità di ciò che è non esprime forse la follia estrema? Non pensa forse che ciò che è, non è (appunto perché non è eterno)? Che il non niente è niente? Che gli esseri sono nulla? Certo, questa non è come la domanda di Heidegger. Qui la Risposta - positiva - è già da sempre data e non da uno di noi, ma dalla Necessità, e rende possibile ogni domanda. 397 23. Fenomenologia e libertà La «distruzione» della tradizione filosofica occidentale, compiuta da Heidegger, non ha un significato semplicemente negativo. Soprattutto quando egli si rivolge a Platone e ad Aristotele. Piuttosto egli intende portare alla luce la dimensione implicita che rende possibile il loro esplicito dire. In questa direzione interpretativa si muoveva il mio libro, ahimè così antico da essere stato la mia tesi di laurea, composta negli ultimi anni Quaranta, discussa nel 1950 e in quell’anno pubblicata (e ripubblicata poi da Adelphi nel 1994, insieme ad altri miei scritti di quel tempo, col titolo Heidegger e la metafisica). Ricordo queste cose per un certo e spero scusabile compiacimento da me provato leggendo l’imponente lavoro del filosofo tedesco Gunter Figai, ( Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, il melangolo 2007), che si muove sostanzialmente nella direzione di quel mio libro, vecchio, ma che ritengo tuttora valido nelle sue linee essenziali. Non intendo ovviamente confrontare l’esperienza filosofica di un ragazzo con il lavoro maturo di uno studioso di grande serietà (e tanto meno vantare priorità). Ma in filosofia hanno la preminenza i concetti, in nome dei quali vorrei dire a Figai, tra l’altro, che il suo modo di intendere la «distruzione» dell’ontologia tradizionale da parte di Heidegger si sarebbe ulteriormente rafforzata se anch’egli avesse richiamato quegli avvertimenti quanto mai sintomatici e abbastanza frequenti di Heidegger, nei quali, già a partire da Essere e tempo, egli dichiara che la propria indagine «fenomenologica» non pregiudica in alcun modo la soluzione dei grandi problemi della metaphysica specialis; quali l’esistenza o meno di una vita dell’uomo dopo la morte o l’esistenza o meno di Dio - i problemi, appunto, che ricevono le prime grandi risposte 398 positive dalla metafisica di Platone e di Aristotele. E in effetti un’indagine che si propone come «fenomenologia» non può dir nulla intorno a questioni che per definizione stanno oltre la dimensione fenomenologica, ossia alla dimensione che, con qualche approssimazione, si può identificare nell’«esperienza». È invece più difficile convincersi della tesi che Figai intende rendere più visibile e che è indicata dal sottotitolo del suo libro: «Fenomenologia della libertà». Sono d’accordo sull’implicazione tra riflessione sul senso dell’«essere» («ontologia») e sul senso della «libertà» in Heidegger. Ma Figai si dice convinto che «la filosofia di Heidegger dia modo di ripensare l’idea della libertà in modo radicalmente nuovo». Cosa che a me non sembra, perché se il senso ontologico della libertà significa da ultimo la finitezza e contingenza delle cose e quindi delle decisioni (cioè il loro essere qualcosa che sarebbe potuto non essere), allora tale contingenza dei contenuti mondani è pienamente affermata già da Platone e Aristotele. Anche per Figai la libertà si riferisce, nel discorso di Heidegger, a qualcosa che, come dice Figai, «la si sarebbe potuta compiere in modo diverso» (p. 411). Ma allora, come Kant sapeva (ma Figai, mi sembra, non tiene presente), l’idea trascendentale della libertà - dice Kant - «non contiene nulla di derivato dall’esperienza» ossia non è un contenuto «fenomenologico»), e pertanto rimane aperto il problema, che né Heidegger né il suo interprete hanno affrontato: quello di mostrare quale sia il fondamento deU’affermazione che è il contenuto di tale idea è anche qualcosa di «realmente» esistente. 399 24. La «mente» come parte Nella «biolinguistica» di Noam Chomsky il linguaggio è considerato come un aspetto particolarmente significativo della mente e dunque del rapporto mente/cervello. Pertanto «si inquadra ragionevolmente nella psicologia e, più in generale, nella biologia umana». Esplorazioni in questo campo, da lui peraltro già da tempo dissodato, sono Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente (il Saggiatore 2005). Anche qui Chomsky dichiara di voler usare le parole «mente» e «linguaggio» «senza una valenza metafisica». Così attento al significato delle parole, egli non dice nulla sul significato della parola «metafisica»; ma è chiaro che il suo intento è di considerare la «mente» e il «linguaggio» «come oggetti naturali» - senza però addossarsi l’onere di escludere ricerche filosofico-metafìsiche sulla mente, il corpo, il linguaggio. E, a prima vista, il proposito sembra del tutto legittimo. Analogamente, come può essere illegittimo l’intento di considerare la nona sinfonia di Beethoven semplicemente dal punto di vista delle scienze fisiche, quando la ricerca non intenda escludere la comprensione estetico-musicologica e nemmeno quella filosofico-metafisica di quest’opera? È lo stesso Chomsky a riconoscere che l’arte può ammaestrarci, intorno alla mente, molto di più di tutte le informazioni che intorno a essa possono esserci fornite dalla biolinguistica. Eppure, come era prevedibile, anche in questo caso la filosofia e la metafisica si insinuano nella dimensione scientifica che vorrebbe tenerle fuori dalla porta. Come il corpo, anche la mente e il linguaggio sono, per Chomsky, «uno dei domini empirici» analizzati dalla scienza. Anche la mente è una parte della totalità dei «domini empirici», ossia 400 della totalità dell’esperienza. Ma, come la parola «metafisica», così l’espressione «totalità dell’esperienza» - o dei «domini empirici» - non riceve alcun chiarimento esplicito da parte di Chomsky. O, meglio, riceve un chiarimento implicito che rende esplicita la presenza di quella metafisica da cui egli vorrebbe tenersi lontano. Intendo dire che una certa metafisica (ben lontana dal mostrarsi come inoppugnabile) è presente proprio nel concepire la mente e il linguaggio come parti dell’esperienza. Infatti, anche per Chomsky la scienza non ha «basi assolutamente certe» (pur essendo affidabile e applicabile alla «realtà»), perché «i segreti della natura, delle cose-in-sé, ci saranno per sempre celati». Il che significa che l’indagine scientifica si chiude prudentemente in sé - lasciando fuori di sé la metafisica - perché essa non accetta imprudentemente la metafisica della cosa in sé: quella «cosa in sé» kantiana, rispetto alla quale non solo la dimensione della mente non può essere altro che una parte, ma la stessa totalità dell’esperienza (che potrebbe essere la definizione più ampia del «mentale» in campo scientifico) si riduce a essere una parte della totalità degli enti. Chomsky si dichiara, per altri motivi, cartesiano, ma questo indicato, dove la res cogitans ha altro al di fuori di sé, è il motivo più profondo. Come tanti altri che ignorano l’insegnamento idealistico, non vede il carattere profondamente metafisico dell’affermazione dell’esistenza della «cosa in sé». 401 25. V«anima» come totalità e come parte di ciò che appare «L’anima è in certo modo gli enti»: He psyché ta ónta pós estin. Questo, afferma Aristotele nel De anima, Vili, 231 b, 21. «Gli enti» (ta ónta ) non significa «una certa parte degli enti, ma non le altre parti». Significa: «tutti gli enti»: pànta ta ónta. L’anima è «in certo modo» (pós) la totalità degli enti. «In certo modo» dalla tradizione aristotelico-scolastica a Brentano e alla fenomenologia questa espressione è intesa come già Aristotele sostanzialmente la intende: l’anima «è» gli enti, ma non nel senso che essa sia simpliciter («fisicamente» dicono gli scolastici) gli animali, le piante, le case, la terra, il cielo e la totalità degli enti, bensì nel senso che essa è la loro rappresentazione, ossia il loro presentarsi, manifestarsi, apparire. Si interpreta: l’anima è «intenzionalmente» tutti gli enti; è il riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono innanzitutto l’apparire, il manifestarsi degli enti. E il pensiero greco chiama phàinesthai tale apparire. D’altra parte, la totalità degli enti non appare tutta insieme, compitamente, e quindi Aristotele non intende affermare che l’anima sia onnisciente, ma che essa è tutti gli enti che vanno via via manifestandosi, cioè di cui essa è la manifestazione; e insieme: che essa è sì la manifestazione della totalità degli enti, ma la totalità si manifesta come processo, sviluppo, «generazione» degli enti del mondo. E tuttavia, in quanto apparire della totalità degli enti (via via manifestantisi) l’anima non è un ente particolare appartenente a tale totalità. Ciò non significa che l’anima non possa apparire. In Aristotele questo aspetto del discorso sull’anima rimane implicito; ma la stessa affermazione che l’anima è in certo modo gli enti è proprio l’apparire di questa forma di identità dell’anima e della totalità degli enti, sì che tale affermazione è insieme l’apparire in cui l’anima ha come 402 contenuto sé stessa. Ma, si sta dicendo, ha come contenuto sé stessa non come uno tra gli enti particolari che appaiono, ma come l’apparire della loro totalità. L’apparire degli enti è il fondamento di ogni ricerca, problema, conoscenza, scienza, opinione, fede, e di ogni progetto, deliberazione, decisione, azione: è il fondamento di ogni aspetto della vita dell’uomo: anche di quelle convinzioni e indagini che si rivolgono aU’«anima» («coscienza», «mente», «spirito»), intesa questa volta come parte della totalità degli enti. Filosofia (e lo stesso pensiero aristotelico), religione, scienza, arte hanno imboccato questa strada, dove l’anima è uno degli enti particolari che appaiono. Per esempio, per millenni - e, dopo la parentesi idealistica, tuttora - quelle forme culturali (guidate da un sapere filosofico, che a sua volta si fa guidare dal senso comune) credono che, al di là del loro apparire, gli enti esistano in sé stessi, cioè indipendentemente dal loro apparire e dunque dall’anima in quanto sia intesa come il loro apparire. Solo sul fondamento di questa credenza possono farsi innanzi teorie come quella evoluzionistica, che concepisce i fatti mentali come risultato di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quella in cui consiste la «psichiatria», dove la psiche, intesa come oggetto di una iatréia, è circondata dalla «cura» come ogni altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua volta inscritta in un contesto sociale rinviante al mondo intero. In questo modo, si perde però di vista che queste e ogni altra teoria che considerano l’anima come parte - e innanzitutto quella credenza nell’indipendenza degli enti dal loro apparire, sulla quale esse si fondano - debbono peraltro da ultimo fondare ogni loro pretesa di verità proprio sull’apparire degli enti, cioè su quell’«anima» che lungo la storia del pensiero occidentale è sopravvissuta ed è stata pensata come phàinestai, cogito, «Io penso», «Spirito come 403 atto puro», «esperienza» (in quanto esperienza della totalità degli enti che vanno via via mostrandosi). Per quanto riguarda il concetto di esperienza, si osservi che il «metodo sperimentale» è, per la scienza stessa, l’indagine che pone a proprio fondamento l’esperienza; sennonché dell’esperienza in quanto tale la scienza non si interessa: volta le spalle al senso fondamentale dell’«anima» per dedicare ogni sua attenzione all’«anima» come ente particolare. E se oggi si rivendica il carattere linguistico dell’esperienza, va detto che anche con questo carattere l’esperienza è il fondamento di ogni attività teorica e pratica dell’uomo. Ma anche Aristotele, oltre a intendere l’anima come apparire della totalità degli enti, la intende come parte della totalità. Tale apparire è infatti per Aristotele l’identità del conoscente in atto e del conosciuto in atto, ma questa identità è un risultato. Il cominciamento del processo che conduce a questo risultato è, da un lato, la «capacità» dell’anima di conoscere (ossia il suo esser conoscente «in potenza»), dall’altro lato è la «capacità» degli enti di essere conosciuti (ossia il loro esser conosciuti «in potenza»). Queste due capacità non sono lo stesso, non sono identiche. L’identità di conoscente e conosciuto si produce quando i due sono in atto ed essa è appunto il risultato del processo che conduce dalla potenza all’atto. Ma quando l’anima è conoscente in potenza (Aristotele parla in proposito di «intelletto passivo») e differisce dal conosciuto in potenza - ossia dagli enti che hanno la capacità di apparire -, l’anima è una parte della totalità degli enti. L’anima diventa parte anche quando l’apparire della totalità degli enti è inteso come atto di un «io» («persona», «soggetto»), e si afferma, appunto, che «io penso» - dove il «pensare» è innanzitutto quell’apparire. Anche qui, e 404 nonostante tutti i dubbi che si nutrono in proposito, è la filosofia greca, e dunque lo stesso Aristotele, ad aprire questa prospettiva. Si ritiene che esista un produttore del pensare e che tale produttore sia un «io», una «persona», un «soggetto». (Variante di questa convinzione è la tesi, oggi centrale soprattutto in campo biologico, che a pensare sia il corpo, il cervello, la materia.) «È manifesto che è quest’uomo singolo a pensare» - manifestum est quod hic homo singularis intelligit, si afferma nel De unitate intellectus contro averroistas di san Tommaso. Quest’uomo singolo è l’io. Che quest’uomo singolo sia il pensante (Tommaso) e che il cogitare sia il cogitare di un ego (Cartesio) appartengono alla stessa prospettiva. Alla quale appartiene gran parte della cultura non solo filosofica - peraltro con notevoli eccezioni (ad esempio Nietzsche, Lichtenberg, Russell, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale prospettiva, l’io, la persona, il soggetto (ma anche il corpo, la materia, il cervello) sono parti della totalità che appare. Vintelligere di «quest’uomo singolo» è il campo di ciò che è manifestum e «quest’uomo singolo» è una parte di questo campo - ossia dell’apparire della totalità degli enti. A questo punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di questa prospettiva. Ci si limiterà qui a un’indicazione sommaria. Se in quella prospettiva «io penso» significa «io sono produttore del pensiero», il pensiero non è d’altra parte inteso come qualcosa che sia ignoto all’io. L’io ha notizia del pensiero da lui prodotto. Ma l’aver notizia è l’apparire. E a sua volta il «pensiero» è innanzitutto l’apparire degli enti. L’«io penso» viene infatti quasi sempre unito (in modo più o meno esplicito) a «gli enti appaiono a me»: io, che penso, sono appunto l’io a cui appaiono gli enti. L’«a cui» è la notizia che l’io ha di essi. 405 Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che l’apparire degli enti appare a me - appunto perché «a me» non può non significare, in questa prospettiva, «apparire a me»; sì che dire che l’apparire degli enti appare a me significa dire che l’apparire degli enti appare all’apparire a me... et sic in indefinitum. In altri termini, che gli enti appaiano «a me» non significa, in quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè a un apparire; e se si intende tener fermo che l’apparire è sempre un apparire «a un io», «a una coscienza», allora l’apparire «a me» è l’apparire all’apparire a me, dove l’«a me» determina un progressus in indefinitum. Con la conseguenza che, se ciò a cui appaiono gli enti viene indefinitamente spostato e allontanato, gli enti non appaiono più a qualcuno, e chi crede che l’apparire possa essere solo un apparire a qualcuno è costretto a concludere che non appare alcun ente. E questa è la contraddizione della prospettiva per la quale «io penso» e «gli enti appaiono a me». Nella variante riduzionistica di tale prospettiva, «il cervello pensa» (o «il corpo pensa»). Ma in questa variante non si intende sostenere che il pensiero - cioè gli enti che appaiono - è il loro apparire «al cervello», e quindi in tale variante non è presente la contraddizione che invece compete alla prospettiva di cui il riduzionismo è, appunto, una variante. Al riduzionismo compete un’altra contraddizione, che ho considerato in altre occasioni e che è cioè Yanàlogon del riduzionismo teologico. La riduzione della mente al cervello è cioè Yanàlogon mondano della riduzione teologica del mondo a Dio. Infatti, se il mondo è totalmente riducibile a Dio, non c’è mondo; e se la mente è totalmente riducibile al cervello, non c’è mente. In entrambi i casi, se la riduzione non è totale 406 c’è un residuo irriducibile. Ma se la riduzione è totale, essa nega ciò che essa stessa afferma: nega quella mente e quel mondo che essa riconosce esistenti proprio per la sua volontà di ridurli, rispettivamente, al cervello e a Dio. * Testo, con alcune modifiche, dell’intervento alla tavola rotonda sul tema «Tecnica e processo»; tenutosi a Venezia il 27 febbraio 2004, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2004. * ” Articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» il 27 gennaio 2005. L’ultimo capoverso è aggiunto. * - Rielaborazione dell’intervento alla tavola rotonda «La tecnocrazia negli anni Trenta» con Giuseppe Morbidelli, Natalino Irti, Guido Rossi. Firenze, Palazzo Strozzi, 21 gennaio 2013. 407 Al capitolo VI 26. Essere e nulla Già nel capitolo IV de La struttura originaria - dunque più di cinquantanni fa - avevo indicato quanto occorre per rispondere alle obbiezioni che in seguito mi sarebbero state rivolte intorno al modo in cui, in quel capitolo, viene risolta «l’aporetica del nulla». Questa aporetica, sin da Platone, consiste nel rilevare che il nulla è pensato, e che quindi è qualcosa che appare e di cui il linguaggio parla continuamente, sì che il nulla non è il nulla. La radice di quelle obbiezioni è il pensiero che, sin dall’inizio della storia dell’Occidente, isola la terra dal destino e su questa base isola le cose della terra (le molteplici determinazioni del mondo) dal loro essere, ossia isola (in ciò che è, cioè nell’ essente) il ciò che dal suo è. Tale atteggiamento isolante si riflette, appunto, nel modo in cui l’Occidente pensa il nulla. L’isolamento delle cose dal loro essere incomincia con Parmenide - col Parmenide quale è interpretato nella tradizione platonico-aristotelico-hegeliana. E alcuni miei critici - Gennaro Sasso innanzitutto, e Mauro Visentin - sono giunti, attraverso l’esperienza del mio discorso filosofico, a riproporre in Italia la prospettiva originaria di Parmenide - del Parmenide, appunto, che è presente in quella tradizione e per il quale, al di fuori della «verità dell’essere» che oppone l’essere al nulla, il mondo intero e l’intera storia dell’uomo sono soltanto dóxa, opinione, illusione, «nomi», cioè sono, in quanto tali, non¬ essere, nulla. Per quei miei critici, e innanzitutto per Sasso, «essere» significa, come per Parmenide, soltanto «essere», senza alcuna proprietà oltre a quella di non essere il nulla. In questa prospettiva, la totalità delle determinazioni, ossia delle differenze che costituiscono il mondo naturale e umano, sono 408 appunto il contenuto dell’opinione. Ne viene, allora, che anche tutte le considerazioni sviluppate da questi miei critici per sostenere le loro tesi e per criticare il contenuto dei miei scritti - considerazioni che formano a loro volta un sottoinsieme della totalità delle differenze del mondo - sono opinioni, non sono verità (assolute e incontrovertibili). E vedo che essi stessi, sia pure in modi diversi, riconoscono il carattere opinabile (Visentin) o addirittura contraddittorio (Sasso) delle loro proprie e pur interessanti e articolate riflessioni (cfr. G. Sasso, Il logo, la morte, Bibliopola 2010, pp. 202, 224-226; M. Visentin, Il neoparmenidismo italiano, Bibliopolis 2011, p. 402, nota). La struttura originaria della verità è l’apparire dell’impossibilità che ciò che è non sia ciò che esso è. L’isolamento delle differenze del mondo dal loro essere implica infatti che qualcosa non sia ciò che esso è: implica (con Parmenide) che le differenze siano esplicitamente poste come nulla; e implica (con Platone e poi con l’intera storia dell’Occidente) che, essendo intese come ciò che esce dal nulla e vi ritorna, siano implicitamente poste - esse, che non sono un nulla - come nulla. Questa implicitezza custodisce il segreto dell’Occidente, cioè l’essenza del nichilismo. Tale essenza non può riuscire a scorgere che le differenze si distinguono sì dal proprio essere, ma non per questo sono nulla. La distinzione, infatti, non è separazione, isolamento. Anche quando intende essere la negazione più radicale della separazione - per esempio e soprattutto con Hegel -, l’essenza del nichilismo rimane prigioniera di ciò che essa nega, perché intende unire ciò che peraltro essa intende come originariamente separato; sì che ogni volontà di sintesi è destinata al fallimento. Ogni differenza del mondo - cioè ogni essente, o significato - è cioè destinata a esser pensata e vissuta 409 come un nulla - anche quando si ritiene che un Dio eterno possa salvare il mondo dal nulla. Il modo in cui il nichilismo pensa e vive la nientità degli essenti determina il modo in cui esso pensa e vive la presenza del nulla. Nella Struttura originaria si mostra che il nulla è un significato contraddicentesi. Data la distinzione, indicata in quelle pagine, tra il «contraddittorio», o r«autocontraddittorio» - ossia l’impossibile, il nullo - e la «contraddizione», che invece non è un nulla, in queste pagine si precisa - IV, 6 - che «il significato “nulla” è un significato autocontraddittorio, ossia è una contraddizione» - un «significato contraddicentesi», appunto. Affermando l’esistenza di quel «significato autocontraddittorio» (cioè contraddicentesi), in tale scritto non si dice quindi che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, sia, ma che la contraddizione è (e che la contraddizione sia non è impossibile - fermo restando che questo suo essere ha un «fondamento», cfr. ad esempio Fondamento della contraddizione, Adelphi 2005, sul quale nei miei scritti si è sempre richiamata l’attenzione). I due momenti contraddicentisi del significato nulla sono, da un lato, il «positivo significare» del nulla, ossia il suo essere nulla e l’ apparire di questo essere, e, dall’altro, l’assoluta nientità e assenza di significato del nulla che è positivamente significante. Da un lato, il positivo significare di ciò che, dall’altro lato, è l’assoluta negazione di ogni positività e significato. (Recentemente ho ripreso e approfondito queste tematiche nello scritto Intorno al senso del nulla, Adelphi 2013). Questi due lati o momenti sono originariamente e necessariamente uniti perché la loro separazione, cioè Yisolamento dell’uno rispetto all’altro, implica l’essere dell’impossibile, ossia che il nulla sia un essente. Infatti, se i 410 due momenti sono (più o meno esplicitamente) intesi come separati, l’assoluta nientità del nulla appare, e appare come significante, ossia è: il nulla appare inevitabilmente come un essente. Se i due momenti vengono separati, è inevitabile che il positivo significare del nulla (il primo momento) si ripresenti nel nulla - ossia nel secondo momento, cioè nel significato che è il contenuto di quel positivo significare -, sì che Y esito inevitabile di quella separazione è la constatazione che il nulla è un essente. Questo esito differisce essenzialmente dal significato autentico del nulla, ossia dal nulla come significato contraddicentesi. Infatti questo contraddirsi sussiste perché, in esso, nulla (il significato nulla) non significa essente, ossia non è un essente (e appunto per questo il significato nulla contraddice quell’essente che è la positività del proprio significare). Nell’esito della separazione dei due momenti del significato contraddicentesi, si è costretti invece ad affermare che il nulla, essendo significante, è, è un essente, sì che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla e di essere, è. In seguito alla separazione, l’aporia del nulla si presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è definitivamente legato all’assurdo. L’isolamento-separazione conduce all’essenza del nichilismo, costringendola ad affermare che gli essenti sono nulla (in quanto escono e ritornano nel nulla); ed è ancora l’atteggiamento isolante a costringere l’essenza del nichilismo ad affermare, in relazione al nulla, che il nulla è un essente. Con la differenza (rilevata da Nicoletta Cusano in Capire Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla, cit.) che nel primo caso il nichilismo non può vedere il proprio essere identificazione dell’essente e del niente, mentre nel secondo caso - in relazione cioè al modo in cui il senso del nulla si inscrive nella struttura originaria della verità (alla quale si 411 rivolge il mio discorso filosofico) - il nichilismo, e propriamente quella sua forma che si è posta in relazione a quel mio discorso (la forma presente ad esempio negli scritti di Sasso, Visentin, Massimo Donà), porta esplicitamente alla luce il proprio identificare il nulla a un essente e intende questa identificazione come inevitabile (ossia come inevitabilità della negazione della struttura originaria della verità). D’altra parte il nichilismo può affermare l’inevitabilità di tale identificazione - ossia dell’assurdo e dell’impossibile, in cui appunto consiste Tessere del nulla - solo in quanto, dlYinterno stesso del nichilismo, appare che nulla non significa essere (essente). Se questo assoluto differire non apparisse non si potrebbe nemmeno affermare che l’identificazione di nulla e di essere è una contraddizione che secondo alcuni miei critici inficerebbe la struttura originaria del destino. Il nichilismo non si avvede che l’aporetica del nulla sorge non perché il nulla sia inevitabilmente un essente, ma per la logica isolante messa in atto dal nichilismo stesso, ossia perché quella inevitabilità è, ancora una volta, la conseguenza della separazione che, in questo caso, crede di poter prescindere dalla sintesi originaria del significato nulla e del suo positivo significare - sì che, presentandosi isolato, tale significato, proprio perché si presenta, non può che apparire come Tesser un essente da parte del nulla. Pertanto, che il nulla sia «significante» non significa che il nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto sarebbe il significare. Il significare del nulla non appartiene al nulla, perché il nulla non è un essente a cui questo significare o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere. In quanto il significare è positività (e anzi è la positività stessa, lo stesso esser essente), il significare del nulla appartiene cioè 412 all’essente, e propriamente alla totalità dell’essente in quanto essa appare nella struttura originaria della verità. E che il nulla sia un «significato» non significa che il nulla sia qualcosa di «passivo» rispetto all’attività significante dell’essere, giacché anche questo essere un che di «significato» appartiene a quella totalità. Si aggiunga la seguente annotazione in rapporto al modo in cui Heidegger intende il problema del «Niente» (soprattutto in alcune pagine de II nichilismo europeo, 1940, intitolate Nichilismo, nihil e Niente). L’intento di Heidegger è di mostrare che il Niente non è un ente, ma non è «nemmeno mai ciò che è soltanto nullo»: il «soltanto nullo» relativamente al quale il pensiero metafisico dà per scontati sia il suo esser contrapposto all’ente sia l’assenza di ogni altra forma di contrapposizione alla totalità dell’ente. In apparenza Heidegger vuol portarsi in una dimensione più profonda di quella in cui si dà per scontata la contrapposizione tra «ciò che è soltanto nullo» - il nihil -, e l’ente; ma dicendo che il «Niente» (che poi è per lui l’«Essere» stesso) non è «nemmeno mai ciò che è soltanto nullo» attribuisce una funzione decisiva al «soltanto nullo»: la funzione di determinare la dimensione che include sia l’ente, sia il «Niente» (l’«Essere»). In tal modo, tutte le connotazioni del «soltanto nullo» da cui Heidegger in quelle pagine intende prendere le distanze, e tutte le aporie che il «soltanto nullo» solleva, ma che Heidegger qualifica come conseguenze dell’incapacità di sollevarsi al senso autentico del «Niente», ritornano in circolazione, e vi ritornano nel loro non esser state chiarite e risolte - innanzitutto l’aporia, già pensata da Platone (ma Heidegger non lo rileva), per la quale ogni considerazione intorno al nulla fa del nulla un «qualcosa», ossia un ente; l’aporia che tuttavia Heidegger include tra le riflessioni «apparentemente acute». 413 È probabile, stando all’andamento del testo, che per Heidegger sia solo «apparentemente acuta» anche l’osservazione, da lui richiamata che «se il Niente è niente [e qui il Niente è il «soltanto nullo»], se il Niente non c’è, allora non può nemmeno darsi che l’ente sprofondi mai nel Niente e che tutto si dissolva nel Niente, allora non ci può essere nemmeno il processo del diventare-niente». Ma anche questa osservazione, che Heidegger sembra trattare con sufficienza e lasciare infine da parte, ritorna in circolazione nello stesso discorso di Heidegger, quando egli, come si è rilevato, di fatto assume il Niente, inteso come il «soltanto nullo», come essenziale per poter affermare che il Niente, autenticamente inteso (ossia il Niente che è l’«Essere» stesso) non è il nihil «soltanto nullo», come d’altronde Heidegger ha sempre affermato nei suoi scritti. 414 27. Un libro Nella «successione» dei miei scritti, Destino della Necessità (cit.) sta al centro. Rende radicale il tema di fondo che si era presentato un quarto di secolo prima; apre i problemi che il filone primario degli scritti successivi intende risolvere. Il tema di fondo è, appunto, la Necessità : di ogni cosa, di ogni aspetto o stato del Tutto. Ma di «necessità» gli uomini parlano da millenni. Al di là di ciò che ne dicono, in Destino della Necessità «si fa innanzi» il senso innegabile della Necessità. Esso sta : nessuna forza può scuoterlo. La parola «de-stino» indica questo stare. Appunto per questo è nel linguaggio che quel senso «si fa innanzi», venendo a mostrarsi nel destino, cioè in sé stesso in quanto luogo che accoglie anche il linguaggio: nella già da sempre manifesta innegabilità dell’esser sé di ogni essente. L’esser sé: il non esser altro e tanto meno quelfaltro che è il nulla: l’impossibilità dell’essente di essere stato e di tornare a esser altro e quell’assolutamente altro che è il nulla: la necessità-eternità dell’essente in quanto essente. Tempo, storia, divenire del mondo umano e della natura non sono il venire dal nulla e il ritornarvi, ma l’incominciare ad apparire e il non apparir più, all’interno del cerchio eterno del destino, da parte degli eterni (quindi anche di quell’eterno che è il linguaggio - e anche il linguaggio che testimonia il destino). Da sempre e per sempre il destino è l’essenza dell’uomo. Ma non testimoniando il destino l’intera storia dell’uomo è alienazione della verità. Nel suo stato attuale, ossia nella forma finita del destino, l’uomo è pertanto il contrasto tra il destino e tale alienazione - la quale, nella sua configurazione più ampia, è l’isolamento della terra dal destino. Destino della Necessità rende radicale tutto questo, perché Essenza del nichilismo (1971, 2 a ed., Adelphi 1981) lascia 415 ancora aperto il problema relativo alla Necessità o non- Necessità del sopraggiungere e del modo in cui sopraggiungono gli eterni nel cerchio eterno, in cui il destino consiste, nelVapparire degli essenti: ogni essente è eterno; ma gli eterni sarebbero potuti non sopraggiungere in quel cerchio, o sopraggiungervi in modo diverso da quello che appare? Destino della Necessità mostra che la Necessità autentica implica anche la Necessità del sopraggiungere e del modo in cui gli eterni sopraggiungono nelVapparire del destino. La contingenza degli eventi e la libertà della volontà appartengono cioè all’essenza del nichilismo ossia alla persuasione che Tessente in quanto essente sia un esser stato e un tornare a esser nulla. La volontà ha quindi un significato essenzialmente diverso da quello che le è stato via via assegnato. Non è una potenza che determini liberamente l’oscillazione degli essenti tra il loro essere e il nulla, ma è la fede di avere tale potenza, la fede che quindi vuole l’impossibile, non sapendolo, ma essendo anche fede di ottenere, a volte, e a volte di non ottenere ciò che essa vuole. La volontà di potenza, che culmina nella tecnica moderna, si manifesta anche nel modo in cui le lingue indoeuropee, cioè il terreno in cui cresce il linguaggio del nichilismo, parlano del mondo) ( Destino della Necessità, capp. Vili, IX, X). Al di fuori dell’alienazione della terra isolata, la «volontà» autentica e il destino, in quanto apparire della Necessità e libertà dall’errore (Verrare essendo peraltro anch’esso un eterno). Nella sua forma infinita il destino è l’eterno oltrepassamento di ogni contraddizione, ossia è la gioia. Nel suo «inconscio» più profondo, l’uomo è la Gioia - il finito è l’infinito. Ma Destino della Necessità apre, insieme, i problemi fondamentali degli scritti successivi Nell’ultimo capoverso del libro ci si chiede innanzitutto: «Ma quale sentiero la terra, 416 inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla solitudine [all’isolamento dal destino] o all’oltrepassamento della solitudine?». Gli scritti successivi (soprattutto La Gloria, Oltrepassare, La morte e la terra, citt.) mostrano la destinazione della terra a questo oltrepassamento e le sue decisive implicazioni. 417 28. La mano dell’Occidente Nietzsche e Freud insegnano a Hemingway quanto siano terribili gli impulsi più profondi dell’uomo. Ma già Sofocle, millenni prima, dice che l’uomo è deinótaton, cioè «il più temibile» degli esseri. E si può ancora retrocedere. Hemingway concepiva la sincerità come il supremo comandamento morale. Anche e innanzitutto nella scrittura, che non deve nascondere quello che l’uomo prova veramente. Quindi il suo non era soltanto cinismo, esibizione della propria malvagità. Spesso si confonde la bontà con la conformità degli istinti alle consuetudini sociali. Li si nasconde perché è difficile che siano confessabili. La bontà non è la cosiddetta «innocenza» dei bambini o la mansuetudine delle pecore - anche della quale si può peraltro dubitare come si dubita di quell’innocenza. Hemingway aveva imparato che il piacere della vita è inseparabile dal dolore: la vita è lotta - è «guerra», diceva l’antichissimo Eraclito. Ora, intendo dire che non c’è bontà che non sia lotta contro il male esistente fuori e dentro di noi. E da ultimo il male è il dolore, l’angoscia, la morte che l’impulso distruttivo dell’uomo produce negli altri e in lui stesso. L’uomo buono - soprattutto il santo - non è chi sia privo di inconfessabili impulsi, ma chi ne abbonda. Se ne fosse privo, sarebbe appunto l’innocente o il mansueto quadrupede. Forse per questo i veramente buoni e i santi sono spesso insopportabili. La loro indole è terribile. Sono buoni e santi perché, lottando contro di essa, la vincono. Tanto più buoni e santi quanto più la malvagità invade la loro natura. Se i cristiani sono convinti che Gesù sia il più santo, devono credere che natura, indole, impulsi siano in lui i più 418 malvagi e che egli sia il più santo proprio perché, solo lui, riesce a vincerli. La crudezza di certe espressioni di Gesù può essere un sintomo. Il primo passo per vincere quanto di «terribile-temibile» è presente in ognuno di noi è guardarlo in faccia. Con sincerità. Hemingway la possedeva. Poiché credeva che i «valori supremi» della tradizione occidentale siano morti - e che uccidere gli uomini non violi dunque alcuna legge inviolabile -, gli restava come unico valore l’aspirazione alla sincerità, il desiderio di dire la verità (forse esagerando) intorno a quanto di malvagio c’era anche in lui e di cui egli godeva. Ci si può spiegare come alla fine non sia più riuscito a sopportare la vista di sé stesso e, forse per questo, si sia ucciso. Nietzsche scrive: «Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Che i valori si svalutino significa che essi restano distrutti, annientati. Lo stesso Nietzsche alimenta la convinzione che il vero senso del nichilismo sia la volontà di annientare - e gli uomini pensano che l’annientamento più nefando sia quello di cui son vittime essi stessi. Eppure, per quanto potente sia la riflessione di Nietzsche - e poi di Heidegger - sul nichilismo, essa non ne raggiunge il fondo. Le «guerre di annientamento» del XX secolo sono la conseguenza più vistosa di una persuasione che risale alle origini della nostra civiltà, cioè al pensiero filosofico dei Greci. Si tratta della persuasione che gli esseri possano esser stati e possano ridiventare niente; ossia che gli esseri possano esser non essere, cioè nulla. Il culmine dell’errore, qui, si unisce al culmine dell’orrore - anche se questa persuasione domina ormai l’intero pianeta. Se qualcuno dicesse che c’era un tempo in cui il cerchio era quadrato e ci sarà un tempo in cui il cerchio tornerà a essere 419 un quadrato, tutti, o i più, protesterebbero e direbbero che un tempo siffatto non può esistere; ma nessuno protesta di fronte al pensiero che c’è un tempo in cui l’essere (che ora è) era ancora nulla e un tempo in cui tornerà a esserlo. Qui la sordità è totale. Troppo profonda perché sia imputabile alla semplice debolezza della mente umana. Ma intanto, come potrebbero, un uomo o un Dio, proporsi di annientare un qualsiasi essere, se non fossero convinti che l’essere da annientare possa diventare nulla e, una volta diventatolo, sia vero affermare che tale essere è il nulla? Il culmine della follia non è forse pensare che l’essere è il nulla? E «nichilismo» non è forse, innanzitutto, pensare che l’essere è nulla? E non è forse per questo antico pensiero che possono esser maturate tutte le radicali distruzioni che scandiscono la storia dell’Occidente? Nietzsche afferma che «Fannichilimento mediante la mano asseconda Fannichilimento mediante il pensiero». E invece è Fannichilimento dell’essere mediante il pensiero dei Greci che non solo asseconda ma è il fondamento essenziale di tutte le distruzioni estreme compiute dalla mano dell’Occidente - la più civile delle civiltà -, che ormai è la mano del pianeta. 420 Indice Per richiamare e introdurre Sezione prima Scambio delle parti e alienazione della verità L II «fiore»: cristianesimo , arte , tecnica 1. Poesia e festa 2. Gli «odori» 3. Volontà di sapienza 4. Potenza della «bella menzogna» 5. Poesia e sapienza filosofico-cristiana 6. «L’anima riceve vita» 7. Il «profumo» e il «deserto» 8. Poesia, tecnica e meccanismo dello scambio delle parti II. Preghiera e «macchina» politico-economica 1. Credere e pregare 2. Nota su cristianesimo, islam, modernità 3. La Barriera e Prometeo 4. Macchine razionali e grande politica 5. Efficienza e solidarietà 6. Governi tecnici III. Democrazia e tecnica 1. Europa e America 2. Europa, Russia, America 3. Le democrazie e la tecnica 4. Sulla coerenza della follia estrema 5. Suirinevitabilità dello scambio delle parti 6. Note su identità dell’Europa, frammento, potenza IV. Diritto, filosofia, tecnica 421 1. La filosofìa 2. La giustizia 3. Il sottosuolo filosofico del nostro tempo e il positivismo giuridico 4. Realismo e idealismo 5. Uno sguardo al di là della fede deirOccidente V. Sull'essenza del nichilismo 1. Alle origini del deicidio 2. Essenza del nostro tempo ed essenza del nichilismo 3. Il deserto e il profumo 4. «Morte di dio» e «anello del ritorno» a) La sequenza essenziale b) «Affinché vi apra tutto il mio cuore» c) Eterno ritorno e tecnica d) Volere Teterno ritorno e volere il passato 5. Divenire, tecnica, «differenza ontologica» VI. Stare autenticamente oltre l’essenza del nichilismo: il destino 1. Il destino 2. La fantasia e la terra 3. Discutere il. destino della verità, concretezza dell’errare, isolamento della terra, linguaggio 4. Ripresa 5. Il destino e Ferrare 6. Il destino e la Gloria Sezione seconda Storia delVOccidente e filosofia I. Alle origini dellPeci dente. Due colloqui 1. Eschilo 422 2. Parmenide II. Relativismo, evoluzionismo, realismo e altre discussioni sulla storia filosofica dell’Occidente e sul senso dell’eternità 1. Ancora sul senso del discutere 2. Verità e relativismo 3. Equivoci 4. L’origine 5. «La fine del tempo» 6. Erba e lastre, scienza e teatro 7. «Istoria e filosofia delFumanità» 8. «Suicidio dell’Europa» 9. «Non credo alla sopravvivenza» 10. Follia giudiziosa 11. Paradosso e monocromia 12. Il realismo e il mito del realismo 13. Intorno a Nietzsche, Gentile, Heidegger 14. Realismo e idealismo in relazione all'ostacolo 15. Stelle e formiche 16. Esser sé 17. Continuando un dialogo su tecnica e diritto 18. Discutendo con amici SfZTONF. TF.R7.A Postille alla sezione prima Al capitolo I 1. La bellezza e il male 2. Arte e tecnica 3. Arte e tendenza fondamentale del nostro tempo 4. Immagini festive 423 Al capitolo II 5. L’imperatore Giuliano e Hegel 6. Impero romano e «Germania totalitaria» 7. Mein Kampf Al capitolo III 8. Piazza della Loggia 9. Tasse e amnistia 10. Visibilità 11. Tecnica e «grande politica» Al capitolo V 12. Non veritas, sed auctoritas facit legem 13. Guerra fredda e corruzione 14. Conflitti di retroguardia 15. Tecnica e pluralità delle tecniche 16. Mactare 17. Ancora su «L’anello del ritorno» 18. La tecnica e il sottosuolo 19. Innocenza del divenire e valore dell’uguaglianza 20. Rawls, Hegel Kant 21. Bergson e la realtà del tempo 22. Heidegger. La domanda e la risposta 23. Fenomenologia e libertà 24. La «mente» come parte 25. L’«anima» come totalità e come parte di ciò che appare Al capitolo VI 26. Essere e nulla 27. Un libro 28. La mano deirOccidente 424 Indice Per richiamare e introdurre 7 S EZIONE PRIMA 12 Scambio delle parti e alienazione della verità 12 I. Il «fiore»: cristianesimo, arte, tecnica 13 1. Poesia e festa 13 2. Gli «odori» 15 3. Volontà di sapienza 18 4. Potenza della «bella menzogna» 20 5. Poesia e sapienza filosofico-cristiana 24 6. «L’anima riceve vita» 28 7. Il «profumo» e il «deserto» 32 8. Poesia, tecnica e meccanismo dello scambio delle parti IL Preghiera e «macchina» politico- ^ economica 1. Credere e pregare 38 2. Nota su cristianesimo, islam, modernità 46 3. La Barriera e Prometeo 48 4. Macchine razionali e grande politica 52 5. Efficienza e solidarietà 55 6. Governi tecnici 60 III. Democrazia e tecnica 65 1. Europa e America 65 2. Europa, Russia, America 69 425 3. Le democrazie e la tecnica 74 4. Sulla coerenza della follia estrema 79 5. Sull’inevitabilità dello scambio delle parti 81 6. Note su identità dell’Europa, frammento, potenza 86 IV. Diritto, filosofia, tecnica 90 1. La filosofìa 90 2. La giustizia 95 3. Il sottosuolo filosofico del nostro tempo e il ^ positivismo giuridico 4. Realismo e idealismo 104 5. Uno sguardo al di là della fede dell’Occidente 108 V. Sulfessenza del nichilismo 112 1. Alle origini del deicidio 112 2. Essenza del nostro tempo ed essenza del nichilismo 119 3. Il deserto e il profumo 126 4. «Morte di dio» e «anello del ritorno» 133 a) La sequenza essenziale 133 b) «Affinché vi apra tutto il mio cuore» 136 c) Eterno ritorno e tecnica 140 d) Volere l’eterno ritorno e volere il passato 143 5. Divenire, tecnica, «differenza ontologica» 147 VI. Stare autenticamente oltre l’essenza del 153 nichilismo: il destino 1. Il destino 153 2. La fantasia e la terra 159 3. Discutere il destino della verità, concretezza dell’errare, isolamento della terra, linguaggio 4. Ripresa 170 426 5. Il destino e Ferrare 176 6. Il destino e la Gloria 181 S EZIONE SECONDA 187 Storia deirOccidente e filosofia 187 I. Alle origini dell’Occidente. Due colloqui 188 1. Eschilo 188 2. Parmenide 197 IL Relativismo, evoluzionismo, realismo e altre discussioni sulla storia filosofica 209 dell’Occidente e sul senso dell’eternità 1. Ancora sul senso del discutere 209 2. Verità e relativismo 212 3. Equivoci 218 4. L’origine 222 5. «La fine del tempo» 229 6. Erba e lastre, scienza e teatro 231 7. «Istoria e filosofìa dell’umanità» 235 8. «Suicidio dell’Europa» 240 9. «Non credo alla sopravvivenza» 245 10. Follia giudiziosa 248 11. Paradosso e monocromia 250 12. Il realismo e il mito del realismo 254 13. Intorno a Nietzsche, Gentile, Heidegger 259 14. Realismo e idealismo in relazione all’ostacolo 266 15. Stelle e formiche 271 16. Esser sé 276 17. Continuando un dialogo su tecnica e diritto 281 427 18. Discutendo con amici 286 S EZIONE TERZA 298 Postille alla sezione prima 298 Al capitolo I 299 1. La bellezza e il male 299 2. Arte e tecnica 303 3. Arte e tendenza fondamentale del nostro tempo 306 4. Immagini festive 309 Al capitolo II 313 5. L’imperatore Giuliano e Hegel 313 6. Impero romano e «Germania totalitaria» 315 7. Mein Kampf 320 Al capitolo III 323 8. Piazza della Loggia 323 9. Tasse e amnistia 326 10. Visibilità 329 11. Tecnica e «grande politica» 331 Al capitolo V 344 12. Non veritas, sed auctoritas facit legem 344 13. Guerra fredda e corruzione 348 14. Conflitti di retroguardia 354 15. Tecnica e pluralità delle tecniche 357 16. Mactare 361 17. Ancora su «L’anello del ritorno» 364 18. La tecnica e il sottosuolo 368 19. Innocenza del divenire e valore dell’uguaglianza 385 20. Rawls, Hegel, Kant 390 428 21. Bergson e la realtà del tempo 392 22. Heidegger. La domanda e la risposta 394 23. Fenomenologia e libertà 398 24. La «mente» come parte 400 25. L’«anima» come totalità e come parte di ciò che F 402 appare Al capitolo VI 408 26. Essere e nulla 408 27. Un libro 415 28. La mano dell’Occidente 418 429
Monday, December 16, 2024
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